Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA GIUSTIZIA

SESTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE
 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli incapaci.

Parliamo di Bibbiano.

Scomparsi.

Nelle more del divorzio.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.

Giustizia ingiusta.

L’Istituto dell’Insabbiamento.

L’UPP: l’Ufficio per il Processo.

Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.

Le indagini investigative difensive.

I Criminologi.

I Verbali riassuntivi.

Le False Confessioni estorte.

Il Patteggiamento.

La Prescrizione.

I Passacarte.

Figli di “Trojan”.

Le Mie Prigioni.

Il 41 bis.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione.

Riservatezza e fughe di notizie.

Il tribunale dei media.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.

Piccoli casi d’Ingiustizia.

Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.

Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.

Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.

Casi d’ingiustizia: Paola Navone.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro.

Toghe Politiche.

Magistratopoli.

Palamaragate.

Gli Impuniti.


 

INDICE SESTA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Marta Russo.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.

Il caso di Gianfranco Stevanin. 

Il caso di Annamaria Franzoni 

Il caso Bebawi. 

Il delitto di Garlasco

Il Caso di Pietro Maso.

Il mistero di Melania Rea.

Il mistero Caprotti.

Il caso della strage di Novi Ligure.

Il caso di Donato «Denis» Bergamini.

Il caso Serena Mollicone.

Il Caso Unabomber.

Il caso Pantani.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Simonetta Cesaroni.

Il caso della strage di Erba.

Il caso di Laura Ziliani.

Il caso Benno Neumair.

Il Caso di Denise Pipitone.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il caso della saponificatrice di Correggio.

Il caso di Augusto De Megni.

Il mistero di Isabella Noventa.

Il caso di Pier Paolo Minguzzi.

Il Caso di Daniel Radosavljevic.

Il mistero di Maria Cristina Janssen.

Il Caso di Sana Cheema.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il caso di Antonella Falcidia.

Il caso di Alessandra Matteuzzi.

Il caso di Andrea Mirabile.

Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.

Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Giulio Giaccio.

Il mistero di Maria Basso.

Il mistero di Polina Kochelenko.

Il mistero di Alice Neri.

Il mistero di Augusta e Carmela.

Il mistero di Elena e Luana.

Il mistero di Yana Malayko.

Il caso di Luigia Borrelli.

Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.

Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il mistero di Davide Piampiano.

Il mistero di Volpe 132.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Teodosio Losito.

Il mistero di Michelle Baldassarre.

Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.

Il Caso Gucci.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il caso di Elena Ceste.

Il caso di Libero De Rienzo.

La storia di Livio Giordano.

Il Caso di Alice Schembri.

Il caso di Rosa Alfieri.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Luca Delfino.

Il caso di Donato Bilancia.

Il caso di Michele Profeta.

Il caso di Roberto Succo.

Il caso di Pamela Mastropietro.

Il caso di Luca Attanasio.

Il giallo di Ciccio e Tore.

Il giallo di Natale Naser Bathijari.

Il giallo di Francesco Vitale.

Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.

Il caso di Luca Varani.

Il caso Panzeri.

Il mistero di Stefano Gonella.

Il caso di Tiziana Cantone.

Il mistero di Gilda Ammendola.

Il caso di Enrico Zenatti.

Il mistero di Simona Pozzi.

Il caso di Paolo Calissano.

Il caso di Michele Coscia.

Il caso di Ponticelli.

Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.

Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.

Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.

Il mistero di Marcello Vinci.

Il mistero di Ivan Ciullo.

Il mistero di Francesco D'Alessio.

Il caso di Davide Cesare «Dax».

Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.

Il caso Shalabayeva.

Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.

Il Caso di Massimo Bochicchio.

Il giallo di Grazia Prisco.

Il caso di Diletta Miatello.

Il Caso Percoco.

Il Caso di Ferdinando Carretta.

Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.

Il Milena Quaglini.

Il giallo di Lorenzo Pucillo.

Il Giallo di Vincenzo Scupola.

Il caso di Vincenzo Mosa.

Il Caso di Alessandro Leon Asoli.

Il caso di Santa Scorese.

Il mistero di Greta Spreafico.

Il Caso di Stefano Dal Corso.

Il mistero di Rkia Hannaoui.

Il mistero di Stefania Rota.

Il Mistero di Andrea La Rosa.

Il Caso Valentina Tarallo.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

Il caso di Terry Broome.

Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.

Il Mistero di Giada Calanchini.

Il Caso di Cinzia Santulli.

Il Mistero di Marzia Capezzuti.

Il Mistero di Davide Calvia.

Il caso di Manuel De Palo.

Il caso di Michele Bonetto.  

Il mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero del Cinema Eros.

Il mistero di Sissy Trovato Mazza.

I delitti di Alleghe.

Il massacro del Circeo.

Il mistero del mostro di Bargagli.

Il mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso di Alberica Filo della Torre.

Il mistero di Marco Sconforti.

Il mistero di Giulia Tramontano.

Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.

Il mistero di Maria Donata e Antonio. 

Il caso di Sibora Gagani.

Il mistero di Franca Demichela.

Il mistero di Stefano Masala.

Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.

Il caso di Emanuele Scieri.

Il caso di Carol Maltesi.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero di Pierina Paganelli.

L’omicidio Donegani.

Il mistero di Mario Bozzoli.

Il mistero di Fabio Friggi.

Il giallo della morte di Patrizia Nettis.

La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.

La vicenda di Elisa Claps.

Il mistero delle Stragi.

Il Mistero di Ustica.

Il caso di Piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il mistero Mattei.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I nomi dimenticati.


 

LA GIUSTIZIA

SESTA PARTE



 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

MARTA RUSSO: L’OMICIDIO DELLA SAPIENZA

Gaia Vetrano l'11 Febbraio 2023 su nxwss.com

Immaginate di stare girando per “La Sapienza”. L’università statale romana vede ogni anno, dal 1303, migliaia di studenti per i suoi corridoi. Fu per volere di Bonifacio VIII che prese vita questa splendida struttura, con il desiderio di poter infondere alle generazioni più giovani e volenterose la conoscenza delle più alte discipline, così da poter mettere alla prova il proprio intelletto.

Immaginate sia maggio. Frequentate il corso di giurisprudenza e già iniziate a respirare l’aria della famigerata sessione estiva. Tuttora, in qualche aula, qualcuno sta dando esami. Chi mette piede dentro “La Sapienza” sa che sta incominciando a tessere il suo illustre futuro. 

Molti membri della classe dirigente italiana hanno frequentato la vostra stessa facoltà e, nonostante gli anni Novanta siano stati segnati da eventi sconvolgenti, quali Tangentopoli, il 1997 porta aria di novità.

Immaginate di star camminando con una vostra amica e collega tra le pareti in marmo bianco, i grandi viali colonnati e l’enorme fontana con la statua di Minerva, simbolo dell’ateneo. Assieme parlate di uscite, di ex, di pettegolezzi e di ragazzi. Ma anche dei nuovi argomenti delle materie che state studiando. Dei fondamenti del diritto che sostengono il paese democratico in cui vivete. Di come alternate, pur sempre con difficoltà, la vita universitaria e quella sociale, destreggiandovi tra impegni sportivi e scadenze istituzionali.

Questa potrebbe sembrare la banale routine di un qualsiasi ventenne che decide di proseguire i suoi studi. D’altro canto, le nostre vite sono tutte scandite dagli stessi rimi: sveglia, lezione, pranzo e poi il pomeriggio dedicato allo studio e allo sport.

Quel giorno è un venerdì: si respira già l’aria del sabato. In gruppo si prova a capire cosa fare per passare la serata del giorno dopo. In quale locale di Trastevere andare o se si preferisce una pizza a casa di qualche amico. Qualcuno propone di recuperare l’ultimo film uscito a gennaio di Lynch.

Nel frattempo, gli alberi di fronte il vostro ateneo stanno ritornando verdi, come segno dell’arrivo della bella stagione. Quanto può essere veloce il tempo che passa: due giorni fa le foglie cadevano grigie dagli alberi. Adesso gli uccellini cinguettano di nuovo e, le aule della “Sapienza”, sono nuovamente illuminate dal sole di metà mattinata.

Quanto può essere sottile il confine tra un secondo e l’altro? Quello tra una stagione e l’altra? Quanto quello tra la vita e la morte?

Immaginate di star girando per i corridoi del polo di Lettere e Filosofia alla ricerca di qualche aula studio. Quanto può essere sottile il confine tra i minuti che passano tra loro. Che separano la tranquillità dal terrore, dalle grida e dalla paura?

Immaginate di star scendendo le scale e di scontrarvi proprio con un vostro collega fuori corso. Uno di quelli socievoli che conosce tutti. È concitato, respira affannosamente. Ha le lacrime agli occhi. Tra le tante parole confuse mormora di proiettili, di un cecchino e di fascisti. Davanti a sé, qualche minuto fa, ha visto la morte.

Dall’altra parte delle mura, in un vialetto che collega le facoltà di Scienze Statistiche e Scienze Politiche al polo di Giurisprudenza, altre due studentesse stanno girando e chiacchierando: sono Marta Russo e Iolanda Ricci. 

Allo scoccare delle 11.42, la prima delle due cade a terra. La sua amica, la Ricci, si china su di lei per capire cosa abbia. Poi, qualcosa di caldo le sporca la mano e i vestiti: sangue. Un bossolo ha impattato contro il cranio di Marta. Un proiettile vagante per l’università.

Un solo grido sovrasta le sirene della polizia e dell’ambulanza, quello di Iolanda, che continua a chiedere aiuto. Piange e si dispera, mentre si chiede chi possa aver sparato a Marta.

La sua amica verrà portata in ospedale, dove la TAC conferma la presenza di un proiettile proprio sopra l’orecchio. La giovane entra in coma profondo, dalla quale non si sveglierà mai.

A partire dal giorno successivo, saranno anche i giornali a chiedersi chi abbia ucciso la giovane Marta Russo.

Quanto può essere sottile il confine tra la vita e la morte? Forse, 1,1 millimetro. Quanto un proiettile.

Un delitto senza movente

La morte di Marta Russo genera sin da subito molteplici interrogativi. I media ne parlano come il delitto della Sapienza.

Chi può mai volere la morte di una studentessa ventiduenne ex campionessa di scherma? Marta ha il viso dolce, gli occhi da cerbiatta marroni come l’ebano, i capelli biondi come il grano e lo sguardo di chi ha tanti obiettivi da raggiungere. Di chi è sempre disposto ad aiutare gli altri. Già a 15 anni sapeva che, in punto di morte, avrebbe donato gli organi. 

Immediatamente arrivati sulla scena del crimine, per terra si cercano il bossolo o le tracce del killer. Gli investigatori transennano il luogo e bloccano il passaggio agli studenti spaventati. “Andate via, non c’è nulla da vedere!” intimano ai ragazzi che, incuriositi, camminano a testa bassa, sperando di trovare qualcosa. Non sanno che, per rivelare qualche indizio, bisogna guardare in alto.

Viene da subito ipotizzata la traccia politica. 

La data di questo omicidio si collega inquietantemente con altri tre casi di cronaca nera avvenuti negli anni precedenti: il ritrovamento del corpo di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse e di Peppino Impastato, assassinato dalla mafia. Ma anche l’anniversario della morte di Giorgiana Masi, studentessa uccisa il 12 maggio 1977 durante una manifestazione del Partito Radicale. Anche lei per colpa di un proiettile vagante.

Eppure, nessuna delle due colleghe appartiene a movimenti politici studenteschi. Ciò esclude in parte l’ipotesi di terrorismo politico, a meno che non si tratti di uno scambio di persona.

Marta, quel giorno, gira infatti con Iolanda Ricci, che non è un’adolescente come le altre. Lei, in un’Italia dove il terrorismo rosso è padrone, è la figlia di Renato Ricci, direttore del Carcere di Rebibbia. Un uomo di destra, appartenente ad “Alleanza Nazionale”. Lei non è una studentessa come le altre. Con le amiche non parla solo di ragazzi, ma delle minacce di morte telefoniche che ogni giorno la terrorizzano. Forse una vendetta trasversale? O qualcosa di analogo.

Lo scambio di persona potrebbe eventualmente riguardare la figlia di un testimone sotto protezione messinese, frequentante sotto falso nome il corso di filosofia del diritto. Questa giovane ha infatti i capelli biondi e il fisico simile a quello di Marta. Da qui, i sicari mafiosi avrebbero confuso le due. 

Attorno al fatto di cronaca in sé, vi è la condanna da parte dei giornali verso l’università e la Procura, che è intimata a risolvere il caso. Per Nicolò D’Angelo, il dirigente della squadra mobile, la giustizia avrebbe vinto, anche a costo di smantellare l’ateneo mattone per mattone.

Davanti all’omicidio di una ventenne, che non è il furto di una caramella in un supermercato, la Sapienza non è più il tempio del Diritto. Ma l’ennesima sterile scena del delitto.

Nel frattempo, il 15 maggio, durante la partita della Lazio, viene affisso uno striscione che riporta: “Marta, vinci”. Eppure la battaglia, stando alle indagini, è contro degli ignoti. Nulla porterebbe al motivo per cui la Russo sarebbe stata uccisa. Un delitto senza movente.

In alto gli occhi, verso le finestre

Sul luogo del delitto, insistono tre fabbricati: uno a destra, uno a sinistra e quello immediatamente frontale. Uno dei primi luoghi perquisiti sono i bagni della Sapienza: questi hanno dei finestroni perfetti, che si affacciano sul vialetto. Indubbiamente una posizione interessante.

Dopo averli smontati, ci si accorge che si tratta di un clamoroso buco nell’acqua. 

Nel frattempo arriva l’autopsia del corpo di Marta: la giovane viene colpita da un bossolo di un calibro 22. La sua particolarità? Si frantuma. Ciò vuol dire che è un proiettile da tiro, usato per gli addestramenti, o da chi pratica sport che implicano l’uso di armi da fuoco. Chi poteva essere detentore di armi tra i dipendenti della Sapienza?

A seguire viene perlustrato il ripostiglio sotterraneo della ditta di pulizie Pul.Tra, che porta a un indizio chiave: viene ritrovato un tubo metallico compatibile alla costruzione di un silenziatore.

Questa diventa oggetto di indagini. Alcuni dei dipendenti sono infatti in possesso di fucili, carabine ad aria compressa, pistole giocattolo, confezioni di cartucce con cui si divertivano a sparare dentro l’università. Delle armi, purtroppo, non compatibili per calibro e potenza a quella che uccise Marta.

Ovviamente, l’idea che dentro un’università come la Sapienza ci fosse un movimento tale di persone con armi che si diverte a giocare al Far West con obiettivi fantasma non rassicurò l’opinione pubblica. Bisogna trovare una nuova pista per distrarre i giornali.

Ascoltando le conversazioni telefoniche dei dipendenti della Pul.Tra, si mise a fuoco la presenza di un altro individuo collezionista di armi: si tratta del bibliotecario della facoltà di Lettere della Sapienza, ossia Salvatore Carmelo “Rino” Zingale. Addirittura a quest’ultimo venivano commissionati bossoli artigianali e silenziatori. Tra le armi in suo possesso anche una calibro 22. Anche questo è pero’ estraneo alla vicenda perché in possesso di un alibi. 

Per i primi quindici giorni, le indagini rantolano nel buio. Poi, gli investigatori si tolgono gli occhiali da sole e iniziano a guardare verso il cielo. Tutto porta a una necessaria analisi balistica della traiettoria dello sparo, per poter così risalire al luogo dove deve essere partito il colpo.

La priorità è quella di suddividere gli edifici, escludendo gli infissi chiusi o bloccati da armadi o librerie. Vengono richieste anche delle analisi della scientifica, così da poter rilevare eventuali tracce di polvere da sparo. Su 53 analisi effettuate, risultano positive quelle della finestra uno, tre, quattro, sei, sette e otto dell’istituto di Filosofia del diritto.

In alto a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino alle finestre del dipartimento di Filosofia del Diritto.

I misteri degli assistenti di Filosofia del Diritto della Sapienza

Quattro assistenti entrano in un’aula del dipartimento di Filosofia del Diritto. Poi lo scoppio di una pistola.

Le indagini ritrovano particelle di bario e antimonio, metalli pesanti e di ferro. Queste sono compatibili allo scoppio di un’arma da fuoco e, data la preponderanza di quest’ultimo elemento chimico, la pistola potrebbe essere arrugginita. 

Si tratta della prima chiusura di un cerchio, da cui nasce un nuovo interrogativo: da chi è frequentata quest’aula? Dalla perlustrazione dell’ambiente appare la risposta. Si tratta di un telefono, pronto a cantare la verità, fino a quel momento tenuta nascosta.

Dai tabulati della Telecom si scopre che qualcuno, alle 11.44 ha effettuato una telefonata, seguita da un’altra alle 11.48. Esattamente due minuti dopo la morte di Marta, Maria Chiara Lipari, dottoranda, si trova dentro la sala degli assistenti.

Secondo la testimonianza della Lipari, questa avrebbe chiamato il padre, Nicolò Lipari, professore ed ex parlamentare democristiano, per avvertirlo su dove fosse. Questa, messa sotto interrogatorio, svuota il sacco. Dentro l’aula con lei c’erano anche altre quattro persone: Francesco Liparota, 35 anni, usciere della facoltà, Salvatore Ferraro, 30 anni, dottore in Giurisprudenza e assistente del professor Gaetano Carcaterra e Giovanni Scattone, 29 anni, dottorando e assistente non retribuito del professor Bruno Romano presso la facoltà di Lettere e Filosofia. Infine la segretaria Gabriella Alletto, 45 anni, segretaria amministrativa.

Quest’ultima verrà interrogata tredici volte durante le indagini, diventando protagonista di un’inchiesta ministeriale per abuso d’ufficio e violenza privata a causa delle pressioni psicologiche a cui venne sottoposta. Secondo le sue prime dichiarazioni, non era presente al momento dello sparo nell’aula, perché impegnata a risolvere un guasto di un fax di un’aula circostante.

O la Lipari ricorda male o la Alletto mente. Gli investigatori si convincono che delle due la seconda ipotesi sia quella veritiera. Quando la interroga il procuratore Italo Ormanni, intima Gabriella di parlare.

Nei nastri resi pubblicati l’11 giugno, recuperati dai cronisti di Radio Radicale, la Alletto ripete, per quasi quattro ore:

Non sono mai entrata in quell’aula […] Io nun ce stavo là dentro, te lo giuro sulla testa dei miei figli… Non ci sono proprio entrata, ma come te lo devo dì? Fino allo sfinimento…

Eppure, due settimane dopo, la Alletto si presenta spontaneamente dalla polizia e ammette di trovarsi dentro l’aula 6.

Non solo, c’era qualcuno con lei. Il 9 maggio Salvatore Ferraro e Giovanni Scattone entrano nella sala degli assistenti di Filosofia del diritto. Poi lo sparo di una pistola.

Ferraro e Scattone: sono loro i colpevoli del delitto della Sapienza? 

Alla Digos la Alletto racconta che, entrata nell’aula sei, c’erano Ferraro e Scattone. Secondo la sua testimonianza, è Scattone ad aver fatto partire il colpo, provocando il panico di Ferraro che, alla vista del corpo di Marta, avrebbe imprecato con le mani tra i capelli.

I due, che tenevano anche seminari alla Sapienza, erano stati sentiti parlare di “delitto perfetto” da alcuni studenti, ma entrambi negheranno tutto ciò. Per gli investigatori, la morte di Marta sarebbe quindi frutto del tentativo di mettere in scena un omicidio di cui gli inquirenti non avrebbero trovato i colpevoli.

Per gli inquirenti le accuse della Alletto combaciano perfettamente con le loro teorie. Secondo le analisi balistiche, il killer è destrorso, così come Scattone. Ferraro è mancino, non può aver sparato.

I due vengono così arrestati, nonostante si professino innocenti. Ciò che di loro colpisce è la tranquillità e freddezza che trasmettono, come se si aspettassero questo epilogo. Né Ferraro né Scattone mostrano un briciolo di empatia o compassione verso la vittima o la sua famiglia.

L’ultimo dei due in particolare modificherà molte volte la sua versione dei fatti.

Come racconterà, Scattone quella mattina avrebbe incontrato il professor Lecaldano a Villa Mirafiori. A questo gli investigatori chiesero l’orario: tra le 11:00 e le 12:30. Secondo il proseguimento della sua versione dei fatti, alle 11:30 l’assistente sarebbe andato poi a Storia per prenotare un esame, dove un particolare attirò la sua attenzione: un foglio strappato affisso davanti alla porta. Agli inquirenti il professor Guy confermerà quanto detto.

Dopodiché Scattone andò a ritirare il certificato di convalida degli esami del corso di Lettere a cui era iscritto alle ore 11:50, cioè circa 8 minuti dopo lo sparo. Incontrato l’assistente Fiorini, solo dopo l’arrivo dell’ambulanza sarebbe andato verso l’aula 6, versione avvalorata da La Porta, uno studente lì di passaggio. Dell’accaduto ne verrà conoscenza solo quando ne vide parlare in televisione durante il pranzo.

Per quanto riguarda Ferraro, questo disse di essere stato come tutti i giorni a casa a studiare con la sorella Teresa. Lì alle 11:45 sarebbe venuta Marianna Marcucci, che confermò la visita. Quest’ultima rimase lì fino alle 12.30 e, quando andò via, telefonò Alessandra Vozzo, conversazione risultante dai tabulati. Quest’ultima confermò di avere chiamato più volte casa Ferraro e di aver parlato sia con Salvatore che con Teresa, commentando con i due la morte di Marta.

Rimangono però delle testimonianze contrastanti, persino sul loro abbigliamento: Ferraro per Giuliana Olzai – studentessa fuoricorso – era vestito di grigio-celeste mentre, per l’Alletto, con una giacca blu. Inoltre, sempre secondo quanto raccontato dalla studentessa, i due assistenti dopo lo sparo sarebbero usciti dall’università presi dal panico.

Per i giornalisti le parole della Olzai sono di fondamentale importanza perché le uniche che vanno contro gli alibi dati da La Porta e Marcucci.

Tra tutte le accuse, vi è un solo filo conduttore: la violenza psicologica al quale vengono sottoposti, tra tutti, anche Ferraro e Scattone. Rimangono per sempre impresse le seguenti parole della Alletto:

Non li vidi sparare, non c’ero… Mi stanno convincendo che hanno sparato da lì, mi stanno convincendo che ero lì dentro

Gabriella Alletto, secondo la testimonianza di Laura Cappelli e intercettazione ambientale

La chiusura del delitto della Sapienza e le altre incongruenze

Al processo viene presentata la ricostruzione dei fatti, grazie alle parole di Gabriella.

Allo scoppio del proiettile, provocato da Scattone, seguì un “tonfo“. Ferraro, incredulo, si mise le mani nei capelli, mentre l’altro con la mano sinistra spostava le doghe della tenda per ritrarre la pistola. L’arma venne nascosta dentro la borsa di Lipari. Poi uscirono dalla sala, bisbigliando qualcosa, forse un saluto, alla Lipari che era appena entrata. Ferraro ha preso la borsa e l’ha portata via.

Secondo le analisi nanotecnologiche effettuate, la ventiquattro ore presenta delle tracce, seppur minime, che possono risultare compatibili alla polvere da sparo.

Eppure, rimangono dei punti interrogativi che non posso essere ignorati nel nostro racconto. A causa di ciò, infatti, la difesa, costituita dagli avvocati per Scattone Francesco Petrelli, Manfredo Rossi, Andrea Falcetta e Alessandro Vannucci mentre per Ferraro Vincenzo Siniscalchi, Delfino Siracusano, Fabio Lattanzi e Domenico Cartolano, ipotizzano che i resoconti siano frutto di ricostruzione e della suggestione psicologica a cui venne sottoposta la Alletto.

I colleghi della donna riferiscono addirittura che gli inquirenti la minacciarono di toglierle la patria potestà dei figli, oltre che a ventiquattro anni di prigione.

Mi hanno messa in mezzo… io in quella stanza non c’ero, però non mi conviene dire che non c’ero […] loro si immaginavano la scena, ma avevano bisogno di un testimone attendibile, di una persona affidabile

Il primo problema riguarda l’arma: questa dovrebbe essere una pistola a canna lunga con un silenziatore di almeno 10 cm, ma Gabriella omette nella sua versione quest’ultimo dettaglio. Addirittura, quando le chiesero di disegnarla, ne raffigurò una a canna corta.

Come avrebbe potuto Scattone sparare da quella finestra senza sporgersi né tantomeno far uscire fuori il braccio, come secondo le ricostruzioni? L’infisso era infatti ostacolato da dei condizionatori. Il colpo, effettuato “per caso”, non poteva andare a segno, a meno che il killer non si fosse proteso verso fuori.

Addirittura per un cecchino, nelle condizioni descritte dalla Alletto, le possibilità di colpire un bersaglio in movimento sarebbero state pari al 30%. Inoltre, nessuno ritrovò mai il bossolo.

Come mai Gabriella racconta di non aver sentito urla dopo lo sparo se, a detta di molti testimoni, fu Iolanda Ricci la prima a gridare in cerca di aiuto?

Le stesse tracce sulla borsa di Ferraro lasciano dei dubbi. Se la pistola avesse effettivamente appena sparato un colpo, questa dovrebbe essere piena di polvere da sparo. Invece, vi sono solo pochi segni.

Secondo il neurofisiologo Piergiorgio Strata, le affermazioni della Alletto sono frutto di “una saga di ricordi emersi lentamente e con fatica dal nulla, sono stati ottenuti con enorme sforzo ricostruttivo, con notevoli condizionamenti esterni e spesso sotto forma di lampi improvvisi. Pertanto, essi vanno considerati altamente inaffidabili”.

Così, come in un film, la segretaria amministrativa Gabriella Alletto si convince di essere testimone di qualcosa che, probabilmente, non ha mai visto. La corte condanna Giovanni Scattone a 7 anni di reclusione per omicidio colposo, con l’aggravante della colpa cosciente e per possesso illegale di arma da fuoco, mentre Salvatore Ferraro a 4 anni per favoreggiamento personale. Sono entrambi colpevoli della morte di Marta.

Il caso del delitto della Sapienza viene chiuso, forse.

Tra le tante, l’ipotesi terroristica rimase comunque valida, anche dopo anni. Infatti, quel 9 maggio è presente alla Sapienza anche Paolo Broccatelli, dipendente della ditta di pulizie Team Service prima e la Smeraldo poi, nonché membro delle Nuove Brigate Rosse. Si pensa che a qualcuno sia partito un colpo accidentale mentre provava la mira, e per questo non avrebbero rivendicato il colpo.

Qualcuno suppose che, ad aver ucciso Marta, sia stato un cecchino sociopatico. Una personalità disturbata che voleva uccidere qualcuno con semplice scopo dimostrativo.

Rimane un ultimo grande dubbio: l’inclinazione del capo di Marta. Infatti, l’ipotesi che lo sparo sia partito dall’aula 6 della Sapienza è valida solamente se la Russo si trovava in quel momento con la testa inclinata e voltata verso destra. Ma se questo fosse stato perfettamente eretto? Allora il colpo sarebbe scoppiato dal bagno dei disabili, dalla sala di statistica, in fase di ristrutturazione o dalla sala computer.

Il proiettile aveva inoltre delle tracce di fibre di vetro, compatibili con il controsoffitto del bagno dei disabili, dove vengono ritrovate particelle di polvere da sparo.

Vi lasciamo quindi con una domanda.

Chi si trovava, il 9 maggio 1997, nel bagno dei disabili della Sapienza di Roma?

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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LUIGI TENCO: SUICIDIO O OMICIDIO?

Morte a Sanremo: quell'addio ancora sospetto di Luigi Tenco. Paolo Lazzari il 9 Luglio 2023 su Il Giornale.

La scomparsa del cantautore al termine della prima serata del Festival, nel gennaio 1967, suscita ancora oggi incredulità

Era arrivato a Sanremo convinto che quel pezzo avrebbe raccolto i consensi del pubblico e flirtato col mucchio della critica. La canzone si chiamava "Ciao amore ciao" e Luigi Tenco doveva eseguirla insieme alla diva francese Dalida. Era giovane, Luigi. Ventotto anni soltanto. Eppure, se si guardava alle spalle, aveva già prodotto una quantità di testi che sarebbero rimasti incisi per sempre nell'orizzonte musicale italiano. Lo sapeva, di essere un sofisticato talento. Di avere qualcosa da dire, e che quel qualcosa doveva essere davvero di più e più alto rispetto ai brani con cui si dimenavano i colleghi.

Ma non tutti la pensavano così. Il 26 gennaio del 1967, durante la prima serata del Festival condotto da Mike Bongiorno, Tenco salì sul palco convinto dal suo racconto interiore, ma la giuria lo sbattè brutalmente fuori. Solo 38 voti a favore su 900, una sentenza difficile da deglutire. Anche il ripescaggio fallisce: la giuria presieduta dal giornalista Ugo Zatterin gli preferisce "La rivoluzione", di Gianni Pettenati. Uno schiaffo solenne alla sua idea di musica, alla performance, al duetto con la magnetica collega. Tenco sfilava via dal Salone delle feste del Casinò di Sanremo atteritto, stranito, svuotato come sa essere soltanto chi ha smarrito qualcosa in cui credeva troppo. Luigi accompagnava Dalida ad un ristorante, ma non si fermava. Se ne tornava dritto in camera, all'Hotel Savoy.

La stanza era la 219. Tenco entrava e per prima cosa si attaccava alla cornetta. La prima telefonata l'aveva riservata a Ennio Melis, capo della RCA, ma quello non aveva risposto. La seconda l'aveva fatta alla sua fidanzata, a notte inoltrata. Un'ora dopo, alle 2.10 del mattino, il suo corpo senza vita veniva ritrovato da Dalida, sconcertata dalla morte irruenta e violenta che arriva senza il minimo preavviso. Un colpo di pistola alla tempia e un biglietto scritto di suo pugno, come appureranno le successive perizie.

“Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda ‘Io tu e le rose’ in finale e ad una commissione che seleziona ‘La rivoluzione’. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi”.

Si apre qui il circo delle ipotesi. Il cadavere del cantautore viene ritrovato con le gambe riposte sotto al cassettone della camera d'albergo, posizione del resto innaturale per un suicida. Si apprende, dalle successive inchieste condotte da giornalisti e procuratori, che la polizia non aveva fatto gli scatti di rito alla salma e che il commissario, accortosi dell'indicibile errore, aveva ordinato di riportarla al Savoy riposizionandola nell'esatta posizione in cui era stata trovata.

Negli anni Novanta una meticolosa inchiesta portata avanti dai giornalisti Marco Buttazzi e Andrea Pomati cerca di porre un fascio di luce su una vicenda surreale. Nonostante la riapertura del fascicolo sulla morte di Tenco, tuttavia, continua a reggere nel tempo il primo scenario, quello del suicidio. A distanza di cinquantasei anni resta però ancora una patina di perplessità. Com'è stato possibile che un cantautore di quel calibro, nel periodo più rigoglioso della sua esistenza come uomo e artista, abbia virato per un gesto così estremo? Quel che continua a destare dubbi, del resto, è la sproporzione tra la causa e l'effetto. Si fatica a credere che un'eliminazione, pur dolorosa, possa aver fatto detonare una protesta autodistruttiva.

Dubbi che nemmeno il tempo è riuscito finora a dissipare. Il caso Tenco è destinato a rimanere un pezzo oscuro della storia italiana. Le canzoni restano, ma il pensiero di quanto ancora avrebbe potuto dare questo artista geniale, che nella sua lettera d'addio si professava tutt'altro che stanco della vita, è come un altro colpo di pistola.

Gaia Vetrano il 4 Febbraio 2023 su nxwss.com

Qual è la ricetta perfetta per un giallo indimenticabile? Innanzitutto il protagonista deve essere qualcuno di famoso. Un poeta, per esempio Luigi Tenco. Poi ci vuole una degna arma del delitto, una pistola, e magari una lettera di addio abbandonata sul pavimento di una camera d’albergo di super lusso. Delle indagini un po’ fallaci. Una probabile relazione segreta con una superstar straniera e un palco che possa amplificare il tutto.

Sanremo, 1967. Mike Bongiorno, conduttore di quest’anno, è davvero soddisfatto del suo cast stellare. Se è stato chiamato per presentare per la quinta volta il Festival vuol dire che qualcosa di buono lo ha realmente combinato. Non è roba da tutti. Sul suo palco si esibiranno artisti esordienti pieni di talento, come Cher, ma anche nomi di spessore come Lucio Dalla, Giorgio Gaber, Sergio Endrigo, Orietta Berti e Iva Zanicchi.

Ogni tanto, mentre questi prendono posto sotto l’occhio di bue e lui si trova nel dietro le quinte, riceve qualche pacca sulla spalla da parte di scenografi e macchinisti. La prima serata è sempre importante, da questa si può un po’ prevedere il successo dell’intera edizione, e per ora tutto va a gonfie vele.

Arrivati al termine della messa in onda, Mike tira un respiro di sollievo: sarà un’edizione da ricordare.

Tra i tanti artisti saliti sul palco c’è anche Luigi Tenco. Secondo le regole di quest’anno, che prevedono che i cantanti gareggino in coppia, insieme a lui c’è Dalida, italiana naturalizzata francese. La chimica tra i due è palpabile. Insieme cantano “Ciao amore, ciao”, i cui versi hanno poco a che vedere con la tradizione sanremese. Entrambi si esibiranno una volta a testa durante la trasmissione, come previsto dal regolamento.

Quando sale sul palco Tenco, è un cavaliere dall’aria cupa e tenebrosa in giacca e cravatta. Luigi è romantico, un po’ il sogno adolescenziale del pubblico italiano. Come non innamorarsi dell’autore di un brano come: “Mi sono innamorato di te/ Perché non avevo niente da fare”?

Nonostante abbia accettato a partecipare al Festival, Tenco quando si esibisce è svogliato, come racconterà il suo grande amico Fabrizio De André. Il suo obiettivo è quello di portare la sua musica al grande pubblico, così da fare in modo che la gente capisse chi fosse tramite essa.

Tenco ci crede tantissimo in “Ciao, amore ciao”, nonostante sappia che il suo è un brano d’impatto. A quelli che gli chiedono di parlarne, dice che lui e Dalida hanno le carte in tavola per vincere per il Festival. Belli, giovani e affascinanti: sono celebrati dai tabloid come la coppia delle stelle. 

Le radici del suo pezzo affondano nei drammi sociali, della povertà e dell’immigrazione. Il titolo iniziale era “Li vidi tornare”, brano antimilitarista che Tenco trasformò, per evitare la censura, in una canzone d’amore ambientata negli anni delle grandi migrazioni dal nostro paese verso le Americhe. Luigi sfrutta i suoni folkloristici italiani, così da toccare le corde del pubblico da casa, nella speranza di vincere.

Il 26 gennaio 1967, Luigi Tenco canta:

Si vive o si muore

E un bel giorno dire basta e andare via

Ciao amore

Ciao amore, ciao amore ciao

Eppure, sarà proprio a lui che dovremmo dire “ciao” per sempre.

Perché l’edizione di Sanremo del 67’ non verrà ricordata per le canzoni certamente di spessore, o per le esibizioni straordinarie. E neanche per la conduzione impeccabile di Mike Buongiorno. Bensì per un evento che squarcerà l’opinione pubblica e che si verificherà lontano dal palco. Dietro le telecamere, dove nessuno può guardare e le luci non possono arrivare. Dove la musica dell’orchestra e la voce angelica di Dalida non si possono sentire.

 Quando quella sera si spengono i riflettori, un’ombra oscura, carica di rabbia, di rimpianto e di amarezza, aleggia sopra l’Hotel Savoy. Le risate e il rumore dei calici che brindano non sono sufficienti per sovrastare il caos dei pensieri del poeta Luigi Tenco che, rientrato in camera, non vede più altre strade percorribili.

Le urla di gioia degli altri concorrenti non saranno mai tanto forti da coprire le grida disperate di Dalida quando questa entra nella camera 219 della dependance dell’albergo. Per terra, sul pavimento, c’è un corpo con un proiettile conficcato nella tempia destra. Il completo è ormai macchiato di rosso.

Quella sera sull’hotel Savoy aleggia l’ombra della morte.

Questo non è il racconto di chi vinse la diciassettesima edizione del festival di Sanremo, ma piuttosto di chi perse non solo la competizione, ma anche la vita. Questa è la storia del suicidio – o forse omicidio – di Luigi Tenco.

Chi è Luigi Tenco?

Negli anni del boom economico, la personalità poliedrica di Luigi Tenco stravolge il pubblico italiano, in un periodo in cui le etichette discografiche sfornano canzonette da ascoltare come sottofondo mentre si pulisce il pavimento di casa o si stendono i panni. 

Luigi nasce da una notte di travolgente passione, la stessa che trasmette per la sua musica. Da un amore però senza futuro, che lo costringe a presentarsi al mondo con un cognome non suo e alle spalle un padre che non conoscerà mai. Il bambino è infatti frutto di una relazione extraconiugale della madre, Teresa Zoccola, cameriera presso una famiglia torinese.

Io sono uno che sorride di rado, questo è vero, ma in giro ce ne sono già tanti che ridono e sorridono sempre, però poi non ti dicono mai cosa pensano

La sua prima casa è Genova dove si trasferisce con la madre e il fratello. Teresa si mette in proprio e apre un piccolo negozio di vini per permettere ai figli di terminare gli studi. Ma a Luigi non importa. Nonostante abbia una memoria d’acciaio e in seconda media sappia già risolvere equazioni differenziali, a lui non interessano le formule matematiche, i composti chimici o i moti dei corpi. Né tantomeno gli importa del denaro. Il piccolo poeta già sogna di scrivere e comporre. Ma soprattutto di passare le ore davanti al pianoforte.

Le ambizioni di Teresa hanno però la meglio, così Tenco si iscrive prima a Ingegneria elettronica, poi a Scienze politiche. Degli esperimenti che non lo renderanno mai felice. Ogni angolo di Genova, quella città che lo aveva adottato ormai anni fa, è ricco di stimoli.

Ogni mattone, ogni panchina, ogni incrocio, ogni passante al semaforo trasuda autenticità.  

Il poeta si aggira per le sue strade strette e colorate e non riesce a non vedere tutto ciò che lo circonda come pieno di vita. L’ispirazione è così tanta da spingerlo a sperimentare con gli strumenti: chitarra, clarinetto, sax. Crescendo diventa un polistrumentista sempre più capace, mentre continua a vagare per Genova, che ogni giorno sente sempre più sua.

Il capoluogo ligure in quegli anni è una vera e propria fucina di artisti. Insieme a Tenco ci sono anche Gino Paoli e Fabrizio De André. Sono loro a spingerlo e ad accompagnarlo, mano nella mano, verso il palcoscenico. Da autore, grazie ai suoi due mentori, Tenco diventa cantante e interprete dei suoi stessi brani, che sembrano più delle poesie lette su musica.

Quei testi venivano fuori dalla sua penna con la stessa spontaneità con cui un germoglio si trasforma in un fiore. La scrittura per Tenco diventa un bisogno al quale lui stesso non riesce più a sottrarsi. Quando sente la necessità di sfogare la sua malinconia, dovuta alle sue origini e al fatto che, ovunque va, si senta fuori posto, il poeta si rifugia nel suo mondo fatto di inchiostro.

A chi gli chiede per quale motivo scriva solo canzoni tristi, lui risponde che quando è felice, esce. 

Ricomincia così il suo giro per le strade genovesi, che lo invocano come se fosse la prima volta. Tenco si lascia cullare dalle sonorità straniere: dai brani dei Beatles, i cui testi apprezza particolarmente. Si rende così conto che il problema della musica italiana è che si ispira troppo a quella degli altri paesi, non attingendo invece al folklore.

Tenco condanna questa tendenza al provincialismo, che livella e cancella la storia della nostra terra per importare qualcosa che non è nostro e non fa parte del nostro DNA. L’inchiostro guida così la sua mano, le dita e il polso, rendendolo l’artista che oggi conosciamo.

La svolta arriva quando riesce a entrare in contatto con l’etichetta discografica Dischi Ricordi, per cui inizia a produrre musica con dei nomi falsi come “Gigi Mai“, “Dick Ventuno” e “Gordon Cliff“. Questo per paura che non possa vendere se si venisse a sapere che è iscritto al Partito Socialista Italiano.

Ai suoi testi, spesso rivoluzionari e antimilitaristi non rinuncia, e nel 62’ rilascia il suo primo 33 giri. Al suo interno anche “Mi sono innamorato di te” e “Angela”. Nei successivi due anni cambia etichetta discografica, passando alla Jolly, e chiude l’amicizia con Gino Paoli.

Poi la lettera che lo costringerà, per un anno, ad arruolarsi. Lui, profondo antimilitarista, costretto a un anno di regole e di routine asfissianti che lo allontanano dalla sua compagna più fedele: la penna. Non appena ne ha la possibilità ritorna a scrivere, dando il via agli anni più intensi della sua produzione. Una stagione breve ma molto feconda. 

L’ambiente musicale non gli va a genio, ma il desiderio di Luigi è uno solo: quello di dare tutto sé stesso tramite la musica. Tornato a Roma, decide di dare il suo vero nome per i suoi testi alla sua nuova etichetta: la RCA Records, divisione della Sony Music Entertainment.

Nella Capitale incontra la sua metà, Iolanda, dal nome d’arte abbastanza bizzarro: Dalida. Quando i due entrano in sala di registrazione, avvolti dal caldo e confortevole abbraccio che è la musica, Tenco dimentica il terribile anno nell’esercito. L’animo del poeta si distende e la voce angelica della sua compagna diventa un balsamo che cura le sue cicatrici.

Nel 67’ i suoi brani girano per le radio e i suoi dischi vengono veduti nei negozi. Gli viene chiesto di partecipare al Festival e lui accetta anche se controvoglia. Al suo fianco c’è Dalida e, nonostante i dubbi iniziali, Luigi è fiducioso. È arrivato il momento di far capire al paese di cosa la musica abbia bisogno: di qualcuno che apra la sua anima mosso dall’amore.

E se non dovesse piacere al pubblico non importa, i due avrebbero continuato a scrivere fino a quando avessero avuto qualcosa da raccontare. Infondo, non per forza l’arte può essere apprezzata da tutti, nel momento in cui viene data in pasto a una gara. Ma se anche dovesse esserci qualcuno in grado di comprenderla, allora l’obiettivo di Tenco sarà andato a buon fine.

Luigi può finalmente dare tutto di sé al pubblico italiano. Ogni piccolo frammento della sua anima turbolenta che, talvolta, è capace di essere felice. Peccato però, che quella sera, dia anche la sua vita.

Quella tragica ultima notte di Luigi Tenco

Ogni qualvolta arriva il momento di esibirsi, l’ansia è tanta. Luigi è uno degli ultimi a farlo. È molto tardi e il cantante ha paura che il pubblico si sia già addormentato.

Il poeta freme dalla voglia di cantare. Nel dietro le quinte è irrequieto, ansioso e per niente tranquillo. Ormai è in gioco, non può più tirarsi indietro. Forse non sa come fare; forse un po’, in fondo, ci tiene. Non è la paura della sconfitta a tormentarlo, bensì il timore che non sia capace di comunicare al pubblico i suoi disagi. Per lui la musica ha una nobilità intrinseca pari a quella dei libri o delle poesie, è il suo modo di comunicare al mondo da introverso cronico. Prima di salire sul palco, mormora a Mike Bongiorno:

Mike io non ne ho più voglia, questo non fa per me. Vado, canto, e poi ho chiuso con la musica leggera

Quando si esibisce, Tenco entra nel suo mondo. Le luci lo abbagliano e fa fatica a raggiungere il microfono. Qualcuno lo avrà anche presentato, ma Luigi ha la mente troppo annebbiata per rendersene conto.

Quella sera risente l’effetto dello shot di grappa alle pere che ha preso prima di salire sul palco. La sua esibizione è troppo lenta e persino l’orchestra non è capace di stare al suo passo. Ma a Tenco la sua esecuzione piace perchè “Ciao, amore ciao” narra una storia sofferta. Deve entrare come una lama nel cuore della platea. Il pubblico gli è indifferente: nessun applauso o standing ovation. Un gelido silenzio che Luigi interpreta come un plateale rifiuto da parte degli spettatori di comprendere la sua arte. 

Dopo Tenco è il momento di Dalida, che agli spettatori sfoggia un sorriso lucente. Mentre Luigi la ascolta non è soddisfatto dell’esibizione, che ha trasformato il suo brano in un’irritante canzonetta più simile a una “marcetta”. Nonostante questo, l’unica cosa che il pubblico non può fare a meno che notare è l’abito della cantante: bianco e nero. In tinta con il suo compagno.

La sua voce e la sua interpretazione sono comunque accolte positivamente dalla platea, che applaude fragorosamente ed esulta.

Tenco si rifugia in camerino, nella speranza che possa comunque passare alla finale grazie all’esibizione di Dalida. Lasciato solo inizia ad assumere farmaci e a bere, fino a quando non si addormenta sul tavolo.

Il suo desiderio era quello di farsi conoscere tramite la sua musica, ma alla fine riesce solo a colpire a sangue il desiderio dell’italiano medio di passare una serata ad scoltare brani piacevoli. Poco più tardi viene svegliato da qualche assistente, con la stessa crudeltà con la quale un ragazzo viene preso dalla sua famiglia per arruolarsi, strappandolo dalla sua tranquillità. A Tenco viene comunicata la terribile notizia.

“Ciao, amore ciao” viene eliminata. La canzone si posiziona quattordicesima su sedici brani e non riesce a rientrare in gara neanche grazie ai ripescaggi, dove viene battuta da “La rivoluzione” di Gianni Pettinato e Gene Pitney. 

Tenco si fa prendere da una furia silenziosa. Non si aspettava mica che tutto il pubblico potesse comprendere la sua musica, ma che almeno potesse arrivare a qualcuno sì. Forse, è solamente lui il problema. In fondo l’esibizione di Dalida è piaciuta. Non è “Ciao, amore ciao” a non piacere, ma Luigi Tenco.

Quel cantante cupo, tormentato, raramente felice, che metteva tutta la sua anima sul palco, non era riuscito a raggiungere i cuori delle persone. Lui, che di passione ne ha da vendere e vive di questa, è forse destinato a stare solamente nel dietro le quinte? A rifugiarsi al di là del palcoscenico e a godere della luce riflessa su qualcun’altro. La luce dei riflettori, della ribalta, della gloria e, forse, anche della felicità stessa. Come una larva, o un parassita.

Condannato a non essere mai del tutto appagato da ciò che fa.

Per Luigi questo è un compromesso che non può accettare. Dalida prova a calmarlo, nonostante gli addossi tutta la colpa, ma lui non ne vuole sentire più niente. Non solo aveva preso parte a una gara di cui poco gliene importava, adesso deve anche sopportare il presentatore che lo “sbeffeggia” per la sua eliminazione? Prende la sua compagna per mano ed esce dal Casinò, dritto verso la sua Alfa GT Sport 1600 e preme l’acceleratore.

Per la prima volta la voce angelica di Dalida non risulta come una cura. Tenco ha trovato la risposta che cercava, per un pubblico che non capisce che cosa cambia tra una poesia e uno che canta di voler volare nel blu, dipinto di blu, lui non vuole più esprimersi.

Cos’ha lei che lui non ha? Forse l’indifferenza verso quel pubblico che non lo aveva capito? Forse a lei non importa niente di tutto ciò. Ma a Tenco no. Dalida glielo ripete, perché dannarsi tanto per un branco di probabili buzzurri che preferiscono delle canzonette alla vera poesia? Luigi vorrebbe rispondergli che quelle persone, che l’altra descrive come dei villani, fanno parte della sua gente. La stessa che lo riempiva d’ispirazione quando, sognante, vagava per Genova. E se lui non è in grado di parlare ai loro cuori, allora a cosa serve la sua musica?

Nonostante l’insistenza di Dalida, Tenco decide di non seguirla alla cena con la RCA al ristorante “Nostromo”. Da quel luogo se ne va da solo, scusandosi, dicendo di preferire un po’ di tranquillità dopo quel verdetto per lui ingiusto. Dopodiché prende la macchina e percorre al ritroso la strada verso il Casinò, superandolo. Alla sua sinistra i bar e i locali notturni, dall’altra parte il mare. Dritto di fronte a lui l’Hotel Savoy. 

Comporre lo rende felice, ma se la sua musica non è compresa da nessuno, lascerà mai il segno? Potrà mai rendere gioiosi gli altri con essa? Potrà mai lui esserlo? Luigi viene inghiottito dalla paura che l’ombra del silenzio possa cadere su di lui.

Entra in camera e chiude la porta. Il tempo passa, scandito dalle lancette dell’orologio e dallo sparo della sua pistola.

Quando Dalida mette piede nella sua stanza, per terra c’è l’ultimo testo scritto da Tenco. Una condanna, nonché l’ultimo saluto firmato con le lacrime e il sangue.

Io ho voluto bene al pubblico italiano e gli ho dedicato inutilmente cinque anni della mia vita. Faccio questo non perché sono stanco della vita (tutt’altro) ma come atto di protesta contro un pubblico che manda “Io tu e le rose” in finale e ad una commissione che seleziona “La rivoluzione”. Spero che serva a chiarire le idee a qualcuno. Ciao. Luigi.

L’urlo della cantante squarcia il silenzio, ma Tenco non può sentirlo. Non sentirà mai più la lieve e soave voce di Dalida.

Il Festival con gli scheletri nell’armadio

Dal momento in cui Luigi mette piede nella sua camera le informazioni si frammentano.

Al suo interno la prima cosa che fa è afferrare il telefono. Prima chiama Ennio Melis, il capo della RCA, ma non ottenne risposta. Poi Valeria – nome probabilmente di fantasia –, la sua fidanzata, ed ebbe buon esito. La possibile relazione con Dalida non era mai stata confermata da parte dei due, a causa proprio della presenza di un’altra donna nella vita di Tenco.

I due parlano di progetti futuri. Luigi al telefono biascica, a causa della grappa alle pere e delle pasticche di Pronox, e farnetica frasi sconnesse tra loro. Tra le varie cose, afferma di essere in possesso di una lista di persone da denunciare per “fatti che vanno ben al di là della manifestazione”.

La conversazione viene terminata circa all’1 di notte.

Nel frattempo, al Nostromo, Dalida si gode la serata. A farle dimenticare la sconfitta ci pensano le flûtes di champagne. A un certo punto arriva per lei una telefonata proprio da parte dell’Hotel Savoy. “Tenco sta male” le dicono dall’altra parte della cornetta. La cantante sbianca: non è la prima volta. Così in meno di venti secondi chiude la conversazione. Recupera la sua pelliccia e la borsa e, insieme a uno dei produttori, si dirige verso l’albergo.

Nel frattempo arriva anche il giornalista Sergio Mordugno al Savoy, consapevole del malore di Tenco, e informa al riguardo anche Lucio Dalla, seduto su un divano della hall.

Ufficialmente, il cadavere venne ritrovato alle 2:10 da Dalida. Quando questa arriva davanti alla camera, la porta è accostata e la chiave si trova nella toppa esterna della serratura. Per essere questa stata avvertita prima, ciò vuol dire che già qualcun altro aveva rinvenuto il corpo. Insieme alla cantante, entrano anche Modugno, Dalla e gli altri membri della RCA, cioè Cesare Gigli, Paolo Dossena, Patriarca e Simone.

Soltanto trentacinque minuti dopo arriverà la polizia insieme al medico Federico Borreli, che presume che la morte sia avvenuta circa quindici-venti minuti prima. Ancor prima di cominciare indagini, il commissario Arrigo Molinari – su di questo si scoprirà anni più avanti facesse parte della P2, una loggia massonica – comunicò all’ANSA che Luigi Tenco si era suicidato, sparandosi alla tempia con la sua Walther Ppk 7.65.

Non furono eseguite né autopsie né analisi al bossolo. Non ci si preoccupa neanche di svolgere una perizia calligrafica del biglietto di addio.

Stando a quanto racconterà successivamente il necroforo Giuseppe Bergadano, intorno alle 4 il cadavere viene portato all’obitorio, ma un’ora dopo lo riportano indietro perché la scientifica si era persino dimenticata di scattare le fotografie alla scena del crimine. Così provano a rimettere il cadavere di Tenco dov’era prima, finendo però assurdamente con i piedi sotto il comò, e buttano la pistola più o meno a caso, all’incirca sotto i glutei del poeta. Le foto scattate sono solamente sei.

La vicenda cade nel silenzio e il caso viene archiviato come suicidio. Il Festival di Sanremo va avanti come se niente fosse. Una tragica pantomima, dove ognuno cerca di evitare di parlare e tiene gli occhi chiusi davanti al cadavere nascosto nell’armadio.

L’inchiesta degli anni Novanta: Tenco è stato ucciso?

Chi ha trovato per primo il corpo? Perché Tenco aveva con sé una pistola?

Negli anni Novanta i giornalisti Marco Buttazzi e Andrea Pomati trovano dei dettagli inediti sul caso Tenco. Riescono infatti a reperire il fascicolo che la polizia nel ’67 aveva redatto sul caso, prima di archiviarlo. Guardando le foto, ci si rende conto di come sia molto difficile, per uno che si spara alla testa alzato, finire con i piedi sotto il trumò.

Nel 94’ i due giornalisti pubblicano su Oggi un’inchiesta sul caso insieme alle foto del cadavere, che destano stupore. Ai due si unisce anche Aldo Fegatelli Colonna con cui iniziano a raccogliere altri dettagli sul caso, che sembrano opporsi alla finora sicura ipotesi di suicidio. Quest’ultimo aveva infatti dei contatti con la fantomatica Valeria, a cui questa aveva raccontato che Tenco le aveva dato appuntamento il giorno dopo la sua morte per andare a denunciare alla Procura la sua eliminazione.

Nel 2002 si avvalsero delle ricostruzioni del criminologo Francesco Bruno che fornì una relazione tecnica elencando tutti i dubbi sulle indagini compiute nel 67′. Negli anni Sessanta, infatti, la scientifica sta ancora muovendo i primi passi. Ma è innegabile che la squdra comandata Molinari abbia le sue colpe. Che abbia fatto poco oppure operò “troppo”?

Ciò convinse il procuratore di Sanremo Mariano Gagliano a riaprire il caso, in seguito a una denuncia per omicidio a carico di ignoti presentata da Marco Buttazzi, Aldo Fegatelli Colonna e Andrea Pomati il 27 dicembre 2002. Tre anni più tardi venne disposta la riesumazione del corpo di Luigi Tenco e Gagliano ordinò delle perizie e dei controlli del bossolo al gruppo E.R.T, ossia gli Esperti nella Ricerca delle Tracce sulla scena del crimine, organo della Polizia di Stato.

Le indagini partirono proprio dalla posizione del corpo. Per quanto, infatti, gli scatti dimostrino il contrario, ci sono ben sette descrizioni diverse riguardo l’effettiva posizione del cadavere. In tre videro il corpo del cantautore “perfettamente parallelo al letto, tra questo e il cassettone, con la testa rivolta verso il fondo”. Per un quarto testimone era “nella stessa posizione ma con il braccio piegato sotto la schiena”. Secondo il quinto era “in posizione supina ai piedi del letto e a questo perpendicolare”.

E infine, stando a Molinari “il corpo è in posizione genericamente supina trasversale rispetto all’angolo sinistro inferiore del letto con i piedi rivolti verso la porta”.

Il secondo dubbio riguarda la pistola. Tenco in quei giorni girava con la sua Walther conservata in macchina perché, come riferì a Dossena, era più volte stato minacciato di morte. Le analisi fatte successivamente al bossolo riportarono che questo provenisse da una Beretta calibro 22, che non è l’arma posseduta da Luigi.

Inoltre, secondo gli esami balistici, il proiettile ha seguito un moto dal basso verso l’alto ed è esploso a 7 – 10 cm dalla tempia. Infine, secondo l’autopsia postuma, non ci sono escoriazioni o bruciature accanto al foro d’entrata del proiettile.

Riguardo a ciò sarà fondamentale lo studio balistico compiuto nel 2014 dal giornalista forense Pasquale Ragone insieme nuovamente al criminologo Francesco Bruno e al dottor Farneti.

Si è infatti arrivati all’evidenza che il bossolo ritrovato sulla scena del crimine riporti inciso un triangolo. Questo sarebbe il segno che il repulsore di una Beretta modello 70 lascia su il proiettile quando questo viene sparato. Fosse stato di una Walther il simbolo sarebbe stato un semicerchio.

Anche in questo caso le testimonianze non coincidono su dove si trovasse l’arma. Per il commissario Tenco ce l’aveva in “mano”, non si sa se in quella destra o sinistra. Stando ad altri era “lontana dal corpo, addirittura nel fondo della stanza”. Secondo un terzo era tra le gambe. Altri ancora dicono di non averla neppure vista, come la stessa Dalida.

Confusionaria sarebbe anche la presunta ora della morte.

Per il medico legale si sarebbe verificata all’1.30, per Dalida alle 2.10 e per il commissario alle 2.30.

Infine viene svolta la perizia calligrafica al biglietto: questo è autentico di Tenco, nonostante presenti diversi errori di calligrafia, che stonano se si tiene in considerazione il talento di questo per la scrittura. Secondo l’esperto di grafologia Vincenzo Tarantino, i tratti lasciano intendere un periodo di profondo stress per il poeta: forse il Festival, o le minacce di morte, o il difficile rapporto con Valeria.

Nonostante questo, nel giugno del 2006, l’ERT deposita le conclusioni degli accertamenti in procura. Alla luce del fatto che la lettera è autentica, che sulla mano del cantautore c’è una particella di antimonio secondo la prova del “guanto di paraffina” e che sul cranio di Tenco è presente anche il foro d’uscita del proiettile, si tratta di suicidio.

Non possiamo però ignorare le parole dello stesso Ariggo Molinari che, nel 2004, intervistato da Bonolis durante una puntata di Domenica In, affermerà che indubbiamente non si tratti di suicidio, e che la colpevolezza del caso è collettiva, riferendosi anche a tutti coloro che non gli avevano permesso di condurre le indagini.

Le svolte del 2014

Come abbiamo già anticipato, nel 2014 venne chiesto di riaprire l’inchiesta da parte di Pasquale Ragone. Questo sostiene, innanzitutto, che l’arma usata sia una Beretta modello 70 mai ritrovata sulla scena del crimine.

Inoltre contesta prima di tutto il fatto che nessuno abbia sentito lo sparo, e che una traccia di antimonio non sia sufficiente affinché il test abbia validità. Ci si chiede in aggiunta come si posse ignorare la frattura alla mastoide destra che indica come il cantante sia stato tramortito prima di morire. Tra i tanti punti criticati, anche i segni sul bossolo e al foro d’entrata tipici di uno sparo con l’uso di un silenziatore. 

D’altro canto, per la Polizia di quegli anni ammettere che Tenco sia stato ucciso avrebbe comportato dover giustificare per quale motivo le indagini siano state condotte così male e perchè queste ebbero meno importanza del Festival di Sanremo.

Tenco, secondo la nuova ricostruzione dei fatti, non avrebbe mai premuto il grilletto. E ciò lo evidenzia anche il fatto che, nel verbale della polizia delle 3 del mattino, la pistola non è tra gli oggetti presenti, così come il biglietto.

Coinciderebbe con questa versione anche la testimonianza di Mino Durand, giornalista del Corriere della Sera ed esperto di armi che, quella sera, aveva visto nella mano di Tenco proprio una Beretta.

Riguardo proprio il biglietto di Tenco, secondo Sergio Modugno, tra le 2.30 e le 2.40 lo aveva in mano Dalida. Saranno poi loro due a consegnarlo alla polizia. Inoltre sembrerebbe che questo facesse parte di un’altra serie di fogli e appunti, considerati i calchi presenti. Molto probabilmente si tratta della lista di nomi che Luigi aveva raccontato a Valeria di voler denunciare, mai trovata in camera.

Osservando quel biglietto si ha infatti la sensazione che sia stato scritto in due momenti diversi. La prima parte è chiaramente più distesa e rilassata e lo si capisce dal fatto che le parole sono chiaramente più distinguibili. Secondo questa logica da “Io ho voluto bene…” a “vita” si tratterebbe verosimilmente di un periodo estrapolato da una serie di altri pensieri scritti. Tenco quella sera ha quindi due biglietti per le mani: il primo è un j’accuse, l’altro è una lettera d’addio al mondo dello spettacolo.

D’altro canto, non esiste alcuna prova effettiva del fatto che Tenco sia tornato dal Nostromo in hotel. La sua camera fa infatti parte della dependance, lontana a tutti gli effetti dalla hall. L’unico indizio sarebbe la testimonianza del portiere, che avrebbe affermato che il poeta sarebbe rientrato in camera visto che le chiavi mancavano già da inizio serata. Inoltre, come affermato dall’ex maître dell’hotel Edgardo Boveri, nel registro chiamate dell’hotel risultano assenti quelle effettuate da Tenco.

Che le abbia fatte fuori dal Savoy? Non lo sapremo mai. Il caso, dopo il 2015, verrà archiviato per l’ultima volta.

Nel 2021 il musicista Lino Patruno, 85 anni, in un’intervista al settimanale Oggi, affermerà che secondo lui Tenco sia stato ucciso. 

“Lui lo conoscevo benissimo”, sottolinea Patruno. “Era un giovane allegro e solare; quell’immagine da depresso cronico gli è stata cucita addosso dopo, per giustificare la tesi del suicidio”. “Secondo me Tenco si era ficcato in un brutto giro“, aggiunge ancora. “Per motivi di marketing lo avevano ‘fidanzato’ con Dalida, un brutto e ambiguo personaggio che andava in giro con un tale ancora più brutto e ambiguo di lei, Lucien Morisse. Di quest’ultimo si diceva addirittura fosse legato al Clan dei marsigliesi…”.

L’immagine del corpo di Luigi perseguiterà Dalida per gli anni successivi e il 3 maggio 1987 porrà fine alla sua vita in seguito a un’overdose di barbiturici. La famiglia di Tenco, dopo il 2006, ha affermato tramite la nipote Patrizia Tenco di credere la tesi di suicidio veritiera.

All’alba di una nuova edizione del Festival di Sanremo, la morte del cantautore rimane ancora avvolta nel mistero. Luigi, per molti, rimarrà una persona troppo intelligente e colta per compiere un simile gesto.

Ovunque Tenco sia, oggi possiamo dire che si è anche solo in parte compresa la natura della sua anima, pure dalla sua amata Genova. Nella speranza che abbia trovato il suo posto e che sia, almeno un po’, felice. Ciao, Luigi.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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MARCO BERGAMO: IL MOSTRO DI BOLZANO

Gaia Vetrano il 21 Gennaio 2023 su nxwss.com

Chi vive a Bolzano sa di essere al sicuro.

Circondata dalle montagne, è stata più volte eletta come la città con la qualità di vita più alta in Italia. È un luogo tranquillo e, tra gli anni 80’ e 90’, non passa sicuramente alla cronaca.

Il vento freddo soffia sopra la placida e soporifera cittadina, dove tutti i giorni gli abitanti si svegliano e svolgono indisturbati le loro routine. Si alzano, fanno colazione, vanno al lavoro, tornano a casa e si addormentano. Le strade sono tranquille. Pochissimo traffico, raramente si formano le code. Le persone tra loro sono diffidenti, non ci si saluta negli angoli delle vie. Operosa ed efficiente.

Tutto scorre. Le stagioni si alternano. La torrida estate lascia il posto all’autunno, che magicamente si tramuta, sotto gli occhi di tutti, nel gelido e nevoso inverno.

Il 3 gennaio è un giorno come tutti gli altri. L’euforia del nuovo anno è ormai terminata: il 1985 è ufficialmente iniziato.

La monotonia sta stretta a Marco Bergamo. È un animale imprigionato. Anche quando sta all’aria aperta, tra le colline e i boschi, si sente comunque in trappola. Seduto nel suo appartamento della periferia non può far a meno che pensare a quanto la sua vita sia noiosa. Bloccato a casa della mamma casalinga, in una città che non è adatta a giovani come lui. Per di più, i suoi coetanei lo evitano e le ragazze lo snobbano.

È proprio così che deve trascorrere la sua esistenza? Con la mamma sempre presente, il padre indifferente e alla ricerca di qualcuno che possa capirlo? Infondo, è una persona estremamente ordinaria, o almeno così crede.

Il 3 gennaio è una giornata come le altre. Maurizia Mazzotta sta rientrando nella sua casa di Via della Visitazione. Anche lei vive a Bolzano, ma quel che fa non è di nostro interesse. Non è lei la protagonista della nostra storia. Aperta la porta della sua abitazione, lo scenario che le si presenta è raccapricciante.

Per la prima volta i peli sulla schiena degli abitanti della città trentina si rizzano. Ma non per il freddo, ma per la paura.

Il corpo di Marcella Casagrande, 15 anni, figlia di Maurizia, giace a terra senza vita. Colpita da una serie di coltellate e uccisa tramite scannamento.

Nel 1985, la città di Bolzano non è più una città sicura. C’è un omicida che si aggira per le strade. Per molti sarà conosciuto come il killer di prostitute. Ma per voi lettori, stiamo parlando del mostro di Bolzano. 

Chi è Marco Bergamo? 

Quando Marco Bergamo si guarda allo specchio, si chiede per quale motivo quando passa per le strade della città tutti si voltino a guardarlo.

Sarà forse colpa del baffo? Questo è spiovente, perfettamente curato. No, non può esserlo decisamente.

In realtà, Marco pensa di essere un tipo molto affascinante. È interessato di fotografia, silenzioso abbastanza da risultare misterioso e apprezza le lunghe passeggiate. Poi, la grande cultura in fatto di anatomia umana. E infine, la collezione di coltelli, nota solo al padre operaio di nome Renato, che la ignora. Non sa che suo figlio se ne porta sempre uno dietro, per “proteggersi”.

Le donne. Sono loro i soggetti fin troppo superficiali da non comprenderlo. In diciannove anni solo una fidanzata, che per di più lo ha anche lasciato.

Marco non sa che in realtà le voci girano. Per le strade di Bolzano, l’eco rimbomba molto velocemente, specialmente i pettegolezzi. Così, tutti sanno che era stato visto svolgere atti peccaminosi sul balcone con cui sfoga la sua libido repressa.

Ma non è solo di questo che si parla. Marco ha alle spalle un’infanzia difficile. Prima un ritardo del linguaggio da bambino, in seguito i problemi di obesità e la psoriasi, malattia infiammatoria cronica della pelle di origine autoimmune.

All’uscita del portone di casa, non passa inosservato. Alle sue spalle gli danno del maniaco. Qualcuno si nasconde al suo passaggio. Per questo i genitori lo rinchiudono in casa, per proteggerlo.

Ma quando Marco esce il giorno dell’omicidio della sua vicina di casa, nessuno lo nota.

La morte di Marcella: 

Marcella Casagrande è una timida adolescente.

Frequenta l’Istituto magistrale e, come ogni quindicenne, ha tanti sogni nel cassetto, che vengono però spezzati nel 1985.

Nel momento in cui il suo corpo viene ritrovato, la sua vita viene passata al setaccio.

Lei è la classica ragazza di buona famiglia. Quella che definiremmo della porta accanto. Quel giorno stava tornando da scuola. Rientrata a casa le aspettavano un sacco di compiti. Così scarica svogliatamente la sua cartella piena di libri, quaderni e desideri sul tavolo.

Solitamente in pochi bussano alla porta del suo appartamento del sesto piano. Per questo, quando suonano il campanello Marcella ne approfitta per sgranchirsi le gambe. Sull’uscio si presenta un soggetto a lei familiare. Non si fida del tutto di lui, ma questo la intima di farlo entrare.

Marcella non sa che nella tasca interna dei pantaloni porta con sé un coltello. E non sa neanche quali siano le sue reali intenzioni. Quando però vede l’ombra oscura nei suoi occhi, capisce che è arrivata la sua ora. Alcune coltellate le trafiggono la colonna vertebrale. Poi il malintenzionato le squarcia la gola, lasciandola in una pozza di sangue.

Quando la mamma la ritrova distesa per terra urla di dolore. Sul tavolo ancora aperto il quaderno.

Chissà se, in punto di morte, Marcella si sia pentita di aver fatto entrare il diciannovenne un po’ timido, annoiato e per niente ordinario Marco Bergamo.

Il killer di prostitute:

Le indagini dei carabinieri per la morte di Marcella non videro mai, nei mesi successivi, il nome di Marco tra gli indagati. Forse perché nessuno si poteva aspettare che l’adolescente escluso con problemi di obesità e psoriasi potesse realmente compiere un simile delitto. 

Finalmente aveva trovato qualcosa che riuscisse a farlo svagare. Lui qui aveva il controllo. Nessuna lo meritava realmente, e Marco ne aveva ormai abbastanza della superficialità di quelle oche da giardino delle sue compaesane. Finalmente avrebbero pagato per la sofferenza che gli avevano provocato. A ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria. L’ago della bilancia doveva puntare verso la giustizia, che adesso aveva un nuovo soldato dalla sua parte.

Nei successivi sei mesi Marco sovrasta Annamaria Cipolletti, quarantunenne che lo aveva affascinato grazie alla sua doppia vita. Forse anche lei cercava di evadere dalla noia di Bolzano. Forse anche lei aveva trovato la sua valvola di sfogo.

Di giorno professoressa di inglese della scuola media “Ugo Foscolo”. La notte diventa “Mirella”, escort di lusso in un locale in via Brennero. Marco non la conosce, ma è attratto dal suo essere minuta, indifesa. Eppure Annamaria, in quanto donna, rimane una minaccia. È pur sempre in grado di ferirlo.

Così Bergamo si reca nell’appartamento della donna come suo cliente. Eppure, non è lì per approfittare dei servizi offerti da Mirella. Nella sua tasca ha il suo amato coltello a serramanico, con una lama gelida da sette centimetri e larga un centimetro e mezzo. Bastano dodici coltellate per far prevalere il suo desiderio indomabile di giustizia. Nuovamente sa di avere il controllo. Sa che nessuna donna può fargli di nuovo del male. Annamaria prova a difendersi ma viene colpita anche lei prima alla schiena, poi al petto e infine dritta al cuore.

Nella sicura Bolzano è la seconda donna a perire per mano di Bergamo. Ma non sarà l’ultima.

I sette anni dopo: l’incubo del mostro di Bolzano

Per i successivi sette anni Marco smette di uccidere. Ormai sa di essere in grado di difendersi, ma non ne ha avuto bisogno. Forse perché troppo sotto il torchio dei suoi genitori. Nonostante questo, la coppia sa che il loro figlio è diventato adulto. Non lo possono ostacolare per sempre. Tanto, a detta sua, gli basta solo un auto, per poter girare per la città. 

La sua Ibiza è vecchia, odora di stantio. Ma è rossa. E il rosso si sa, è il colore dell’Eros, della tentazione. Ma anche del sangue.

Dall’altra parte, Bergamo aveva ormai iniziato a lavorare come carpentiere. Adesso è un uomo a modo. Di giorno gira in giacca e cravatta dentro la sua Ibiza rossa e guai a chi osa denigrarlo. La sera però si trasforma. Marco comincia a vedersi assiduamente con prostitute ed escort. Nessuna di loro sospetta che possa essere lui ad aver ucciso così brutalmente quelle due giovani donne negli scorsi anni.

Effettivamente le indagini non avevano portato a nulla e il desiderio viscerale di rivalsa di Bergamo si era momentaneamente placato.

Basta poco per minare il suo ego già fragile, che questa volta si frantuma. Perché lui, tra tutti. Perché proprio lui dopo la psoriasi e l’obesità, deve anche sopportare l’asportazione di un testicolo? Non solo non rispecchia i canoni di bellezza moderni. Ma adesso impotente. Per l’ormai venticinquenne è troppo da sopportare.

All’alba del suo ventiseiesimo compleanno è sul punto di esplodere. La madre lo tratta come se fosse un bambolotto con cui giocare. Il padre lo scruta con pietà, come se fosse un cane bastonato. Dentro al suo appartamento del suo civico 72, Marco si sente nuovamente in gabbia, nonostante la ricorrenza tanto speciale. Ma quel mercoledì sera merita di essere festeggiato. In un attimo si alza, ignorando le lamentele della madre ed esce.

Il tragitto è sempre quello. A bordo della sua automobile si sente al sicuro, nonostante questa non la isoli dalle vecchie megere che lo denigrano per la sua ennesima sventura. L’età non importa: sono le donne il problema. Che ti usano come una sigaretta e poi ti gettano via, calpestandoti.

Bergamo va dritto verso il Colle dei Signori. Con la solita indifferenza di tutti i giorni inizia a scrutare le prostitute sul ciglio della strada, mentre giudica e impreca contro il sesso femminile, che non fa altro che respingerlo.

Per le ragazze che lavorano sul Colle dei Signori, il caldo di agosto è troppo intenso. L’unico desiderio è quello che l’estate termini in fretta. Tra queste c’è Marika Zorzi, di Laives, una forestiera. Si potrebbe dire in cerca di fortuna. In realtà guarda ormai il mondo con svogliatezza, maledicendo sé stessa e quelle sostanze di cui è dipendente e che le fanno dimenticare di avere il controllo del suo corpo. 

Bolzano, troppo gelida nelle emozioni, non va bene a Marika, che si trova lì solo per necessità. Lei vispa, diffidente. Gli avventori di quelle zone li guarda con riserbo, soprattutto in quegli ultimi mesi, in cui non si faceva altro che parlare del famoso killer di prostitute.

Quella sera la donna è sola. Le sue “colleghe” non ci sono, ma lei non ha comunque paura. Spera che il famoso “mostro” non si aggiri quella notte.

Marco, appena la vede, si rende subito conto che è lei quella giusta. È piccola, minuta. Eppure lo fissa sfacciatamente, come se lo stesso giudicando. Bergamo accosta la macchina e la fa salire a bordo, con la speranza che non sia come le altre. Che lei sia diversa. Si augura che non le importi solo del suo corpo, ma che abbia il desiderio di conoscerlo.

Marika e Marco si incontrano, ma i due sono in cerca di qualcosa di diverso. Marika non ricerca la poesia, il tempo non le basta e non glielo consente. Non è interessata a trovare l’amore nelle pendici del colle di Bolzano, tantomeno se con il bizzarro Bergamo, che si rende conto della freddezza della donna. Questa tronca i discorsi, preoccupata dallo squallore del contesto, poco rassicurante.

Nonostante la luce fioca dell’illuminazione stradale, Marika scruta gli interni dell’auto. Si rende conto della puzza di stantio e delle muffe. C’è del marcio in Bergamo, ma ormai è troppo tardi.

La ragazza ora vuole solo scendere dalla vettura: capisce di essere in trappola. Ma per sua sfortuna sceglie la tecnica peggiore. Ricorre alla parola, imprecando contro l’uomo. Per Bergamo, Marika si rivela come tutte le altre, che giudica. Che lo addita come il maniaco. Come il guardone. Che gli dà dell’impotente.

Quello che doveva essere il regalo perfetto per la notte del suo compleanno si rivela nell’ennesime due di picche. Un nuovo fallimento in ambito amoroso in grado di riaprire una ferita nell’ego dell’uomo che non si è ancora cicatrizzata. La sua serata è rovinata. Umiliato poco prima del suo compleanno. Maltrattato nuovamente da una donna che, insensibile e malvagia, pensa solo al suo tornaconto e mai alle sensibilità altrui. 

La mano di Marco affonda nella tasca dei pantaloni e si ricongiunge dal confortevole manico del suo coltello, che sembra quasi essere stato fatto apposta per il suo palmo. Marika è voltata: sta provando a forzare la sicura dello sportello e non si rende conto che sta per essere colpita a morte. La prima coltellata viene inflitta nella schiena.

L’urlo della donna squarcia il silenzio del colle e rimbomba incontrastato nella valle. Nessuno è però in grado di comprendere la richiesta d’aiuto e il grido si confonde al verso delle cornacchie.

La donna si aggrappa fino alla fine alla vita: usa calci e pugni, necessari soltanto a scardinare pezzi della carrozzeria dell’auto, mentre il suo sangue sgorga e impregna i sedili e i tappetini.

L’Ibiza è rossa come il sangue. Quello di Marika.

L’arresto del mostro di Bolzano:

Il corpo di Marika, dopo la notte del 6 agosto 1992, viene ritrovato seminudo nel colle.

Lacerato da ventisei fendenti. Insieme ad alcuni pezzi dell’auto, tra cui un deflettore antiturbolenze, che consentono alle forze dell’Ordine di risalire alla marca. Inizia la caccia all’uomo.

Il sangue della lucciola ha imbevuto ogni angolo della macchina. Bergamo è nel panico, così decide di intagliare il sedile del passeggero e strappare via l’imbottitura. Rimane così, sudato e sporco, dopo essersi separato di ciò che rimaneva di Marika come spazzatura.

Alle sei del mattino Marco si trova nella frontiera di Bolzano quando viene fermato dalla Polizia, che ritrova nell’auto il portafogli della prostituta e i suoi vestiti. Quando l’uomo scende dalla macchina porta un paio di calzoncini corti e trema leggermente.

Marco Bergamo è arrivato al capolinea.

Messo alle strette è costretto a confessare. A casa sua ritrovano non solo riviste porno, ma anche la mappa che segna la distanza tra la casa del serial killer e l’Istituto magistrale che frequentava Marcella Casagrande.

La polizia riesce finalmente a collegare tra loro i vari casi. Bergamo viene accusato di aver commesso anche gli omicidi di due prostitute: Renate Troger, 18enne tossicodipendente adescata mentre chiedeva l’autostop e prima di lei Renate Rauch, ventiquattrenne, il cui corpo era stato ritrovato insieme a un messaggio:

“Mi spiace, ma quello che ho fatto, doveva essere fatto e tu lo sapevi: ciao Renate. Firmato M.M.” 

E’ proprio questo biglietto, ritrovato sulla bara di Renate nel cimitero di Bolzano, a consentire ai procuratori di affibbiare l’omicidio a Bergamo, che aveva avuto bisogno di firmare il suo stesso delitto. Come un’opera d’arte.

Adesso tocca un’ultima grande sfida: Marco era o meno capace di intendere e volere? La risposta è sì. Per decidere, il giudice Rispoli aspetta la risposta dei tre professori a tre professori, Ponti, Fornari e Bruno, i quali giunsero alla conclusione che:

“Bergamo è giunto alla perversione estrema: l’omicidio per godimento. Dopo il primo assassinio ha scoperto che uccidendo appagava il suo piacere, e nello stesso tempo distruggeva l’oggetto temuto e odiato: la donna. […] Per Bergamo, uccidere rappresentava ormai l’estrema perversione sadica, la modalità più forte per possedere la donna”.

Dei cinque omicidi, Bergamo ammise di averne commessi solo tre, negando quelli di Renate Troger e Annamaria Cipolletti.  

Il chiuso, quasi mai felice, a volte scontroso e irritabile, poco o affatto portato per le amicizie Marco Bergamo viene condannato a quattro ergastoli e trent’anni di reclusione. Morirà nel carcere di Bollate, Milano, per un’infezione polmonare il 17 ottobre 2017 a cinquantun anni.

Il padre di Marco, per la vergogna, si suiciderà nella soffitta di casa.

Una famiglia che di ordinario aveva decisamente ben poco rimane per sempre la famiglia del mostro.

Nella placida Bolzano può finalmente ritornare la pace.

Scritto da Gaia Vetrano

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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STEVANIN: IL MOSTRO DI TERRAZZO. Il tuo amichevole killer di quartiere.

Gaia Vetrano 13 Maggio 2023 su nxwss.com 

Delle tante storie che vi abbiamo raccontato, quella di Gianfranco Stevanin è forse la meno conosciuta.

Dai colli vicentini si alza forte come un grido il racconto straziante delle vittime.

Terrazzo, nelle pianure venete, è quel tipico comune italiano dove ci si sveglia una mattina con la nebbia e la successiva pure. Dove persone si coagulano nell’unico bar o, in alternativa, in parrocchia. Eppure, vi è un incredibile linea di sangue che macchia le strade di questa cittadina. Che imbratta le pareti degli edifici e i margini dei marciapiedi. E noi stiamo per raccontarvela.

Vi parliamo di un uomo molto desiderato, venuto al mondo negli anni 60’. Da qualcuno riconosciuto un po’ strambo, a causa del modo buffo con cui si acconcia i capelli, alla Elvis Presley. La tipica persona di cui diresti che non farebbe del male a una mosca.

Un ragazzo tanto appassionato di moto cross, come di donne. 

Un giovane che si perde nelle strade della perdizione e della lussuria, cullato da Eros.

Nell’Italia degli anni 90’ è un camaleonte sociale, un insospettabile che si inserisce perfettamente nel tessuto sociale nel quale cresce, mostrandosi a tutti gentile e disponibile. Non un soggetto qualunque, ma seriale. Ossessionato dalle proprie vittime così come lo era dalle donne.

Perché se vi sono due forze che regolano il vivere e l’equilibrio terrestre, queste sono governate dai due amanti per eccellenza, Eros e Thanatos. Un tango sul filo del rasoio che controlla il creato. Pulsione di vita contro pulsione di morte.

D’altro canto, per Freud, accanto alla sessualità, vi sarebbe anche una ricerca indissolubilmente intrecciata della distruzione. Un intreccio particolarmente ridente che porterebbe a una situazione di stallo nel quale non si riesce a progredire.

La psiche, sempre per Freud, avrebbe lo scopo di arginare l’aggressività per fare in modo che questa non si scarichi contro il prossimo. In un certo senso funziona come una barriera: crea dei meccanismi contenitivi si evita che il soggetto si sfoghi contro gli altri.

Ebbene, se siamo qui a parlarvi, sicuramente deve esservi qualcosa che non è andato. Magari, per colpa di un trauma, quell’equilibrio di cui parlavamo prima, può essere messo a repentaglio. Così Freud interpretava le tragedie della storia, noi ci proveremo con questa drammatica vicenda.

Una storia di sesso e sangue. L’incipit perfetto di un racconto che segnerà questo paese.

Gianfranco Stevanin è il classico giovane di paese tranquillo e gentile. Sembrerebbe essere insospettabile, ma nel suo passato vi sono alcune rapine con un’arma giocattolo. Un omicidio colposo: per errore travolge e uccide un uomo in bici. Poi un giorno, mentre era a bordo della sua auto, viene fermato dalla polizia, che al suo interno trova una targa, un coltello a serramanico, forbici, una macchina fotografica. Eppure, per tutti sono delle sciocchezze.

Così, gira imperturbabile al bordo della sua vettura, dove porta con sé le sue amanti. Donne, principalmente prostitute o tossiche dipendenti. Figure che il Veneto degli anni 90 riconosce come scomode.

Le porta a casa e poi si improvvisa fotografo.

Gabrielle era una delle tante. 

La sera del 16 novembre 1994 si trova a bordo della sua Volvo 480. Lei è una prostituta di 28 anni austriaca, il cui vero nome è Sigrid. Ha i capelli biondi e sogna il grande schermo. Proprio per questo sceglie di farsi chiamare Gabriele, le ricorda maggiormente le dive del cinema.

Gianfranco guida accanto a lei. Si erano incontrati due giorni prima. Lui le aveva detto di essere un fotografo di professione e le aveva offerto una grande somma di denaro per convincerla a scattare. Aveva da subito messo le mani in avanti: si trattavano di scatti osé. “Ma infondo, sei abituata a fare peggio”, si era detta Gabriele. Per la cifra che offriva sarebbe stata una sciocca a rifiutare l’invito di un sedicente trentenne.

Cinquecento mila lire per scattare da nuda, addirittura non era necessario che si vedesse il suo volto. 

Gabriele si era sentita a suo agio in auto con lui, mentre la portava nel suo cascinale in via Brazzetto, poco fuori Terrazzo. Eppure, quella era in poco tempo diventata la notte più lunga della sua vita.

Gianfranco cercava una donna che accettasse cinquecento mila lire per scattare con indosso manette, o legata al muro. Nella sua casa tiene fruste e catene, nulla che riuscisse a mettere a suo agio Gabriele, che cambia idea sulla proposta. 

Stevanin non prende bene l’improvviso rifiuto della donna, e la minaccia prima con un coltello e poi con una pistola. La obbliga a indossare una tuta azzurra e una collana di finti turchesi e la costringe e a sedersi sulle sue gambe. Poi le impone di farsi scattare delle foto mentre praticano dapprima sesso orale, poi mentre la violenta.

Da quella casa non può uscire, perché le minacce di Gianfranco si fanno sempre più spaventose. Si lascia legare al tavolo, bendata, con la sola mano destra libera. All’apice della disperazione, convince Stevanin di avere in casa venticinque milioni di lire e che è disposta a dargliela se la riaccompagna a Vicenza. Un inganno al quale spera che Gianfranco abbocchi.

Effettivamente, il fotografo si lascia convincere e così sale nuovamente a bordo della sua auto. Nella strada per Vicenza porta la pistola con sé, perché potrebbe fare brutti scherzi. Effettivamente aveva ragione, perché appena arrivati al casello, la donna sguscia fuori dall’auto e comincia a correre.

Si dirige da una volante della polizia parcheggiata lì di fronte.

Stevanin, seduto sulla propria auto, è calmo. Tranquillo, con la pistola appoggiata sul sedile adiacente.

Se Gabrielle corre incontro alla libertà, Gianfranco sa che la sua sta per finire. Ai due uomini in borghese si mostra comunque gentile. Affabile, come sempre. 

Stevanin e i suoi divertimenti proibiti

La famiglia Stefanin possiede due case: la prima, di cui vi abbiamo già parlato, e una in via Torrano, ugualmente isolata. Gli inquirenti perquisiscono entrambe, soprattutto la cameretta blindata di Gianfranco. Vi abbiamo detto bene, blindata, perché il ragazzo era solito rivestire con il nastro isolante la serratura della porta per non fare entrare nessuno. Si vede che ci tiene alla privacy. 

Il cascinale nasconde tre stanze segrete a cui solo il proprietario aveva accesso. Vengono fuori falli, manette, completini intimi, una collezione di mutande e videocassette porno. Ma soprattutto circa 7000 fotografie di Stevanin con varie donne, di cui appuntava le prestazioni sessuali. Poi, un sacchetto contenente peli pubici.

Nel corso della perquisizione vengono anche ritrovate le borse contenenti i documenti di due donne: Claudia Pulejo e Biljana Pavlovic, già note alle forze dell’ordine perché scomparse poco tempo prima. 

La prima, detta Chicca, era una ventinovenne con problemi di tossico dipendenza proveniente da Legnano. La seconda è una cameriera e madre serba di ventisette anni. L’uomo si giustificò dicendo di aver avuto con loro delle normali brevi relazioni e che le loro borse erano solo un pegno d’amore che le ragazze gli avevano lasciato. Di cosa fosse successo a entrambe lui non ne sapeva niente.

Viene condannato a tre anni e quattro mesi di carcere per violenza sessuale e tentata estorsione. Dopo otto mesi, grazie alla condotta esemplare, vengono richiesti i domiciliari. Ma un anno dopo, nel 1995, le cose andranno a peggiorare.

Un cadavere in giardino

Fa caldo, molto caldo per essere il primo lunedì di luglio in Veneto. Antonio Ambroso, un contadino di cinquant’anni, il 3 luglio 1995 sta pulendo il fossato all’interno della proprietà di Stevanin. Tutto procede liscio fino a quando la sua falce non si impiglia contro qualcosa di strano un sacco di iuta che a sua volta ne contiene un altro. Dentro quello che rimane di un corpo.

Sul rapporto della polizia si legge una gabbia toracica, un’estesa macchia di sangue, ileo, ischio e pube: il corpo di una donna. Niente braccia, niente gambe e niente testa. 

Le proprietà di Stevanin vengono messe sotto sequestro e ripartono le indagini su di lui. Per un assassino seriale conservare mausolei delle vittime è una pratica comune, così come il rapporto che questo ha con la religione, quasi morboso. È utile per mantenere il controllo sulle persone, di cui si può conservare per sempre una parte. Agli inquirenti vengono subito in mente le foto che Stevanin conservava a casa sua.

È Maria Grazia Omboni il Pubblico Ministero del caso, direttamente da Padova. Lavora in collaborazione con i Carabinieri per compiere le indagini riguardo il caso Stevanin, accusato di omicidio volontario e occultamento di cadavere.

Difatti viene aperto un fascicolo contro ignoti ma tutti sospettano di lui. Dal carcere Stevanin sbandiera una perizia medica che lo etichetta come non violento, mentre il parroco sostiene che gli abitanti del posto non sono degli assassini.

Eppure, il giardino della proprietà di Stevanin è pieno dei medesimi sacchi di iuta sotterrati, pieni di ossa umane. Tre indizi fanno una prova, così riprendono le indagini su Gianfranco, che nel frattempo viene trasferito nel carcere di massima sicurezza di Verona Montorio.

Quel che si sa è che quel tronco ritrovato appartiene a un’asiatica, forse adolescente, di cui non si sa nulla. Neanche se abbia mai conosciuto Stevanin.

Che fine hanno fatto Biljana e Claudia?

Il 12 novembre il cugino di Stevanin realizza una scoperta clamorosa. Ritrova un cadavere piegato e sepolto tra la concimaia e il pagliaio. La testa è infilata in un sacchetto di plastica con un legaccio, mentre gambe sono legate tra loro. Agli occhi del medico legale appare necessaria un’autopsia, che identifica uno strano foro nell’osso iliaco e la totale assenza dell’utero.

Il cadavere è quello di Biljana Pavlovic.

Gli interrogatori cominciano a susseguirsi senza sosta, mentre si teme che il numero di cadaveri possa aumentare. Gianfranco prova a negare, quando gli è possibile. 

Per provare la sua innocenza fornisce una mappa del podere e traccia un rettangolo dove al suo interno rappresenta un punto dove la soia non era cresciuta a dovere, al contrario della restante parte di terreno.

Il giorno seguente le forze dell’ordine si presentano sul luogo. Viene ritrovato un terzo corpo, stavolta mummificato, tra strati di pellicola e di giornale. È quello di Claudia Pulejo.

A questo punto, messo alle strette, ammette di aver incontrato Claudia, a cui aveva fornito della droga in cambio di un set fotografico, ma giura di non sapere nulla riguardo la sua morte.

Ma chi è realmente Gianfranco Stevanin?

Un mostro o uno psicopatico?

Del volto di Gianfranco non si possono non notare due dettagli: una profonda cicatrice e uno sguardo gelido.

Nei suoi occhi si nota il vuoto.

Il giovane nasce negli anni 60’ da una famiglia di agricoltori. Fino ai quattro anni è un bambino felice ma, per complicazioni al parto, la madre Noemi ha continui problemi di salute che non le consentono di badare a pieno al figlio, che viene quindi iscritto a un collegio di salesiani.

Gianfranco stesso racconterà quegli anni come bui perché abbandonato dalla sua stessa madre. Racconta di aver scoperto il sesso a tredici anni, con una donna sposata. Frequenta l’ITIS di Legnano e nel 76’ subisce un incidente a bordo di un 125. Vola a terra senza il casco e finisce in coma, dove viene operato tre volte di urgenza per via di un grave trauma cranico e fratture alle orbite. Sopravvive, ma è costretto a convivere con una grossa cicatrice, forti emicranie e improvvise crisi epilettiche. 

È costretto a lasciare la scuola e si fa prendere dalla solitudine. Tra l’87’ e l’89’ compie una serie di reati e conosce una donna, Maria Amelia, con cui intreccia una relazione di cinque anni. È la madre che però lo costringe a lasciarla. Da quel momento incomincia ad avere rapporti occasionali con prostitute.

Sul grave incidente in moto e sul rapporto con la madre pressante verterà l’intera difesa di Stevanin.

L’ossessione per il sesso di Gianfranco è documentata da foto, riviste, oggetti che utilizza che controllare le sue vittime. Ama scattare fotografie alle donne che incontra, quasi per costituire con loro un legame. Le foto servono infatti agli inquirenti per comprendere il possibile movente degli omicidi: a Stevanin piace dominare.

Quando la sessualità frenata rende oggetto il proprio partner scaturisce l’aggressività. Il desiderio di Stevanin è di possedere interminabilmente la creatura che ama e di tenerla con sé anche quando sarà arrivato il tempo dell’assenza.

Così, con Biljana Pavlovic, si incontra per fare sesso sfrenato. La tensione sessuale è alta quanto il rischio: Eros e Thanatos. Improvvisamente, durante l’atto, Stevanin soffoca la donna con un sacchetto di plastica. Gianfranco non si rende conto di ciò che fa, per lui fa parte del gioco.

Le confessioni

Dopo un lungo braccio di ferro, Stevanin decide di ricostruire le vicende. Il suo obiettivo è dimostrarsi innocente ed estraneo ai decessi, aggiungendo particolari che potessero scagionarlo. Parla di ricordi che affiorano alla sua mente come vittima di amnesie.

Ricorda di aver praticato sesso estremo con queste donne, che durante l’atto sono venute a mancare. Degli incidenti. Poi si diverte a vivisezionarne i corpi, a tagliarne le gambe, le braccia e la testa.

Stando ai suoi racconti, Claudia Pulejo sarebbe morta di overdose al suo fianco, mentre lui dormiva. Una volta sveglio non poteva fare altro che disfarsi del cadavere, non prima averle tagliato i capelli. Li voleva conservare, gli piacevano tanto.

Incidenti, a suo dire. Nei mesi successivi gli verranno additati altri tre delitti: il primo è quello di Roswitha Adlassnig, presente nelle foto di Stevanin e nel suo schedario, di cui non si avevano notizie da mesi, quello di Blazenca Smolijo, una prostituta di origine croata e di un’altra donna mai identificata, fotografata durante un atto sessuale mentre era apparentemente priva di vita.

Durante gli interrogatori, Stevanin non lascia intendere nient’altro di quanto già si sappia. Dove ci sono dei sospetti parla di amnesie, incidenti, e di non sapere nulla riguardo queste donne. Quando invece vi sono delle prove, dichiara di non sapere nient’altro.

Dal punto di vista legale e giudiziario la battaglia sta nel stabilire se Stevanin ha agito intenzionalmente o meno. si tratta di uno scontro tra periti. Per i legali della difesa, Cesare Dal Maso, Daniele Ceppi e Lino Roetta, Gianfranco ha perso a capacità di intendere e di volere a sedici anni, in seguito al tragico incidente in moto.

Alla fine del processo prevarrà l’ipotesi dell’accusa: il killer sapeva benissimo come stava agendo.

 Il 6 ottobre 1997 comincia il processo presso la Corte d’Assise di Verona. A gennaio del 98’ viene pronunciata la condanna in primo grado: ergastolo e isolamento diurno per i primi tre anni oltre al pagamento delle pene processuali di mantenimento in carcere durante la custodia cautelare.

Il processo di secondo grado da parte della Corte d’Assise d’Appello di Venezia ribalta la sentenza e identifica Stevanin come incapace di intendere e di volere.

Viene assolto per gli omicidi e lo condanna per occultamento di cadavere e deprezzamento dei corpi: dieci anni e sette mesi e immediato ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario per minimo dieci anni.

Il 14 luglio 1999 viene trasferito quindi nell’ospedale psichiatrico giudiziario di Montelupo Fiorentino dopo essere stato detenuto nel carcere di Verona Montorio dal 13 novembre 1995 al 7 luglio 1999. Nel 2000 il procuratore generale di Venesia impugna la sentenza per approccio metodologico errato. Il 23 marzo del 2001 viene condannato nuovamente all’ergastolo con isolamento diurno.

Viene quindi nuovamente trasferito nel carcere di Sulmona, in Abruzzo, dove ha salvato la vita del suo compagno di cella che ha tentato il suicidio due volte. Poi ad Opera e infine a quello di Bollate, dove sta scontando la pena.

Nell’ottobre 2020 il legale di Stevanin ha annunciato che presenterà istanze per una nuova perizia psichiatrica e la concessione di misure alternative alla detenzione in carcere.

Per noi, come per gli abitanti di Terrazzo, Gianfranco Stevanin rimane semplicemente il nostro affabile killer di quartiere.

Scritto da Gaia Vetrano 

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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DELITTO DI COGNE. Più di un semplice infanticidio

Gaia Vetrano il 6 Maggio 2023 su nxwss.com 

Al concetto di infanticidio non siamo molto abituati. Sarà forse per questo che il delitto di Cogne fece molto rumore.

L’Italia è quella dell’inizio del terzo millennio.

La storia che racconteremo oggi è una di quelle a cui si fatica a credere. Ci si affanna a provare a comprendere le motivazioni dietro tali gesta. A trovare una sola spiegazione. Ma difficilmente si può trovare un po’ di razionalità dietro il brutale omicidio di un bambino.

Più di un semplice caso di cronaca nera. Tale da spaccare in due una comunità, tra chi è cinico e chi si rifiuta di accettare la realtà.

Tutto ha inizio un freddo lunedì del gennaio del 2002 in uno chalet di montagna. No, non è l’incipit di un film giallo. La storia che vi stiamo per raccontare è stata capace di lasciare un segno molto più profondo al luogo dove si è verificato: Cogne. 

Più precisamente una piccola frazione, quella di Montroz. Nel cuore della Valle d’Aosta, tra le cime e gli alberi innevati, le casette in legna e le superfici dei laghi ghiacciati.

 Al governo c’è Silvio Berlusconi e in Italia si è detto addio alla lira. il nuovo millennio non sembra voler portare pace: l’anno prima il disastro del G8 e l’attentato alle Torri Gemelle. Osama Bin Laden sembra essere il nemico numero 1 e in televisione non si parla d’altro. Quando però non va in onda il telegiornale, la novità principale sembra essere il Grande Fratello.

I reality show sono, infatti, appena arrivati in Italia, mentre in radio passa Elisa con “Luce”.

Il 30 gennaio del 2002 a Cogne fa, ovviamente, freddo. È ancora presto: la luce è soffusa e si fa fatica a immaginare un po’ di tepore al di fuori delle mura di casa. Il crepuscolo precede l’avvento vero e proprio del Sole. È quel momento di passaggio in cui ancora c’è la Luna ma si iniziano a irradiare per l’atmosfera i primi raggi solari.

Eppure il buio è ancora presente, e non sembra andarsene via con la mattinata. E no, non ci riferiamo al buio di una stanza, o a delle insegne spente. Neanche al buio della piazza principale del paese le prime ore del mattino.  

Parliamo dell’oscurità nella quale sprofonderà Cogne quel 30 gennaio 2002 e da quale farà fatica a uscire.

Montroz è un paese piccolo. Se qualcuno accende una luce da dentro una stanza, da fuori sei in grado di vederla e di chiederti cosa stia succedendo al suo interno. C’è una chiesa, un alimentare. Qualche passante ogni tanto. Tutti tra loro si conoscono.

Della Valle d’Aosta si parla poco, e sempre bene. È la piccola regione d’Italia con una sola provincia, Aosta, che qualche coppia sceglie comunque di eleggere come nido d’amore.

Tra questi Annamaria Franzoni e Stefano Lorenzi, che si conoscono per caso quando ancora lei era impiegata al B&B di alcuni amici, lui in vacanza. Entrambi sono emiliani, ma a Cogne si integrano subito.

Quello di Cogne è uno scenario idilliaco fatto di vallate, aria pulita, mucche al pascolo e verde a perdita d’occhio. Qualcuno dice che sia la meta migliore per ritrovare sé stessi. La quiete è tale che perdersi la porta di casa aperta non è un problema. È di coloro che si ha in casa di cui bisogna avere paura.

Il 30 gennaio 2002 nella casa di Stefano e Annamaria succede qualcosa che riempie facilmente gli spazi mediatici. Lei è ormai una casalinga, dedita al focolare e alla cura dei piccoli. Ciò che della donna colpisce è la sua bellezza. I suoi due bambini, Samuele e Davide, sono il suo unico pensiero.

Dagli altri abitanti del paese è conosciuta proprio per questo. Tutti adorano questa splendida coppia.

Quel lunedì di gennaio, Annamaria torna a casa dopo aver accompagnato Davide alla fermata dell’autobus. Il bambino si era lamentato parecchio, non aveva tanta voglia di andare a scuola. Ma la mamma, da brava educatrice, aveva insistito affinché non facesse un’assenza inutile. Tornata a casa, le spettavano le solite faccende domestiche.

Il piccolo Samuele 

Ciò che invece ritrova è l’orrore. Samuele, il suo secondo figlio, era ancora sul lettone dei suoi genitori, dove Annamaria lo aveva lasciato prima di raggiungere Davide alla fermata, a cui il bambino era arrivato in bicicletta.

Quando vede il figlio, chiama il centralino del 118. Annamaria è disperata, per gli operatori è difficile capire cosa stia accadendo.

«Vomita sangue! Gli sta scoppiando la testa!»

Sono le 8:28 quando Annamaria chiama una sua amica, nonché medico di famiglia. Samuele sta perdendo sangue dalla bocca, non sa cosa fare per aiutarlo.

Quando i soccorsi arrivano a casa dei Lorenzi, non vi è una sola lampada accesa, ma i riflettori di una nazione intera.

Più di una coppia felice

Ciò che Annamaria continua a ripetere, è che a Samuele è scoppiato il cervello.

Alle 8:29 fa l’ultima chiamata della giornata. Vuole parlare con suo marito, Stefano, ma al posto suo risponde la sua segretaria. A questa, intima di comunicare al marito che deve tornare a casa perché il figlio è morto.

Annamaria Franzoni e Stefano Lorenzi vivono a Cogne dal 1993. Lei è di Montacuto Vallese, un paesino in provincia di Bologna. Nella sua famiglia è l’ultima di undici figli e, dopo la fine del liceo, comincia subito a lavorare in un hotel in Valle D’Aosta.

Durante la festa organizzata per Ferragosto incontra Stefano, bolognese. Quando la ragazza si siede in disparte, il giovane perito elettrotecnico si avvicina, e i due cominciano a parlare.

Il ragazzo ha un sogno, ossia quello di andare a vivere proprio a Cogne. Quando si trasferisce e, con l’aiuto del parroco riesce a trovare lavoro, gli manca solo una cosa: una donna con cui passare i restanti anni della sua vita. Questa è proprio Annamaria.

Pochi mesi dopo si sposano a Cogne, paese nel quale si integrano a tal punto che Stefano viene eletto consigliere comunale. Insieme costruiscono la loro casa, con un giardino e il tetto spiovente, come le dimore di montagna. 

La loro abitazione è leggermente isolata dal centro del paese. Così, quando le pale dell’elicottero, la mattina del 30 gennaio 2002, si avvicinano alla casa di Annamaria e Stefano, destano un po’ di preoccupazione negli abitanti. Quando vi sono delle emergenze in luoghi così isolati, i mezzi aerei sono infatti i più sicuri per mandare i soccorsi.

Sul posto ci sono già Stefano, la dottoressa e amica di Annamaria e una vicina. Il corpo di Samuele viene portato fuori, avvolto in una coperta. Il medico dell’elisoccorso proverà a rianimare il bambino, ma nulla da fare. Samuele è morto, non può essere salvato. Alle 9:45 viene dichiarato morto.

I due genitori stanno vivendo un incubo che sembra appena essere cominciato.

Più di una semplice emorragia

L’autopsia stabilisce che il piccolo Lorenzi non è morto per colpa di un’emorragia, ma a causa di innumerevoli colpi alla testa. L’arma del delitto potrebbe essere un mestolo in rame, un manganello, un bastone, oppure un qualsiasi oggetto di uso ornamentale.

La morte di Samuele diventa un caso nazionale: un bambino così piccolo ha perso la vita nell’unico posto nel quale non si poteva immaginare potesse accadere.

In casa dei Lorenzi arrivano subito dei membri del RIS di Parma, per analizzare eventuali tracce e cercare l’arma del delitto. I cronisti assediano Cogne e i suoi abitanti in cerca di qualcuno che possa spendere qualche parola in merito alla teoria più stravagante riguardo il colpevole dell’omicidio.

Qualcuno parla di setta satanica, altri di pedofili.

I fotografi inondano persino la chiesa il giorno dei funerali, 9 febbraio. Per garantire un attimo di respiro ai due genitori, il parroco è costretto a cacciarli via prima di cominciare la liturgia. Qualcuno insiste a mandare in diretta la messa.

I cronisti cominciano a parlare della morte di Samuele come momento culminante di una lite familiare, ma le indagini aspettano le eventuali conferme del RIS di Parma.

Attorno alla mamma di Samuele si crea un occhio di bue. Come se tutti aspettassero delle dichiarazioni da parte sua, che si rifiuta di parlare con i giornalisti e si mostra solo al fianco di suo marito, Stefano, spesso e volentieri con gli occhi rossi dal pianto.

La verità è molto più complessa di come sembra.

Ma quando arrivano le risposte da parte del RIS, l’opinione pubblica sa già chi additare come assassino. Infatti, il killer quella mattina aveva indosso il pigiama e gli zoccoli di Annamaria. Per molti, è lei l’assassina. 

Più di una casalinga, forse un’assassina

Annamaria ha paura di essere arrestata, così decide di confidarsi ai giornalisti. È la mattina del 10 marzo quando si reca a Studio Aperto. In diretta si mostra disperata a causa della perdita subita. Racconta di passare ore seduta alla finestra a pensare ai momenti felici con i suoi due figli.

Davanti alle telecamere piange, supplicando gli inquirenti di trovare l’assassino. Ripete che lei e Stefano hanno dei sospetti su chi potrebbe essere.

Durante il fuori onda, però, chiede al giornalista se pensa che abbia pianto troppo. In un momento come questo, mette a repentaglio la sua sincerità. Che stia recitando una messa in scena?

Quattro giorni dopo, il giudice per le indagini preliminari di Aosta ordina l’arresto di Annamaria. Secondo il GIP, il primo quadro frutto delle analisi del RIS è troppo grave per essere ignorato. 

Quello dell’arresto della Franzoni è la notizia del giorno. Due settimane dopo verrà scarcerata, per assenza di prove.

In tanti continuano a chiedersi dove sia l’arma del delitto, quale sia il movente e se davvero Annamaria sarebbe stata capace di uccidere suo figlio. D’altro canto, molti la accusano di stare mettendo in piedi un teatrino pur di sembrare innocente.

Qualcuno ritiene addirittura sia una squilibrata, a tal punto da togliere la vita di Samuele e dimenticarsi di averlo fatto.

L’avvocato Carlo Federico Grosso invita i due coniugi a mantenere un profilo basso davanti la stampa, ma il consiglio non viene ascoltato. Così si rivolgono a Carlo Taormina, che il padre di Annamaria vede in diretta su Porta a Porta.

Il 16 luglio, la Franzoni, seduta al Maurizio Costanzo Show, si rivolge all’assassino di Samuele e lo intima di parlare. Quando gli chiedono se è nuovamente incinta, la donna risponde che a domande così private non può fornire una risposta adeguata. Ma appena il conduttore le fa gli auguri per la nuova gravidanza, lei ringrazia.

Forse, Annamaria è molto più di una semplice casalinga. Forse è un’assassina, ma certamente è un personaggio pubblico.

La donna viene sottoposta a cinque sedute psichiatriche. Il professore Francesco Barale, ordinario di Pavia, con Francesco De Fazio, ordinario di Medicina Legale di Modena, e Alessandra Luzzago, ordinaria di Psicopatia forense a Pavia.

Con tutti e tre si mostra collaborativa e prova a ricordarsi ogni particolare della mattinata, dimostrando ai periti di essere in grado di intendere e di volere. La donna soffre di disturbi di ansia, nulla di più.

La donna, inoltre, racconta agli psichiatri di un malore che aveva avuto la sera prima della morte di Samuele. Il 29 gennaio del 2002 lamentava infatti di pressione bassa, debolezza e mal di testa.

Addirittura racconta di aver sentito dei formicolii alle braccia e di essere quasi svenuta. A quel punto Stefano aveva chiamato il 118. Arrivata la dottoressa della Guardia Medica, Annamaria si era mostrata sorridente e tranquilla.

Agli inquirenti la dottoressa dirà che la Franzoni aveva addirittura affermato che quella visita fosse una perdita di tempo, nonostante fosse stata lei qualche ora prima a supplicare Stefano di chiedere aiuto.

Per i dottori, Annamaria non ha nessun disturbo. Nel frattempo viene al mondo il suo terzo figlio.

Il 3 luglio 2003 viene richiesto il rinvio al giudizio, il processo sul delitto di Cogne inizia a settembre con un’udienza preliminare.

L’accusa sostiene che Annamaria sarebbe sprovvista di alibi. La donna non potrebbe dimostrare di essersi allontanata da casa, ma avrebbe al contrario avuto il tempo necessario per uccidere il bambino, lavarsi e uscire di casa.

Inoltre, all’interno dell’abitazione mancano tracce ematiche di soggetti terzi e non ci sono segni di effrazione. Persino la borsa che Annamaria aveva lasciato in camera per accompagnare Davide a scuola era rimasta esattamente dov’era. Nulla che lasci pensare che uno sconosciuto si fosse introdotto in casa per compiere un furto o addirittura violentare la donna.

L’elemento chiave è l’analisi delle tracce di sangue sul pigiama. La certezza è che l’assassino indossava gli indumenti e le ciabatte della Franzoni. Nessun estraneo avrebbe avuto il tempo, all’incirca otto minuti, per entrare in casa, vestirsi, compiere il delitto e uscire senza lasciare alcuna traccia.

Ad avvalorare ciò vi sono le dichiarazioni contrastanti della donna. Questa avrebbe prima dichiarato di aver lasciato la porta chiusa a chiave e di esserne del tutto certa. Quando però Stefano le fa notare che questa affermazione non deponeva a suo favore avrebbe ritrattato, cambiando la sua versione. Sostiene quindi di averla lasciata aperta, per non preoccupare Samuele. Chiunque sarebbe quindi potuto entrare.

Bugie che secondo gli inquirenti rendono poco credibile il racconto di Annamaria.

L’accusa sfrutta anche intercettazioni telefoniche. Giorni dopo il delitto la Franzoni avrebbe affermato al telefono con un’amica: «Non so cosa mi è succ…», subito corretta in «Non so cosa gli è successo».

Altre poterono rilevare conversazioni tra la moglie, il marito e i parenti nella quale si domandavano come provocare i vicini per spingerli a confessare la verità sul delitto di Cogne. Addirittura arrivando ad architettare svariati piani che riguardavano il ritrovamento della possibile arma del delitto nei giardini delle case vicine.

Il 19 luglio del 2004 arriva la sentenza. Annamaria e Stefano sono tornati a Bologna, per la precisione nella loro nuova casa a Ripoli. Quando la donna viene condannata a trent’anni di reclusione, la donna si aspettava un altro verdetto.

A novembre 2004 Annamaria si trova a Porta a Porta. Bruno Vespa le chiede se è possibile che lei abbia rimosso di aver ucciso Samuele. Quando le viene posta la domanda, la donna risponde di aver ricostruito pezzo per pezzo la mattinata e di essere sicura di non aver compiuto quel gesto, non avendone un motivo.

Nel frattempo l’avvocato Taormina presenta la richiesta di rinvio al giudizio, dando il via al secondo appello. Il presidente della Corte d’Assise d’Appello di Torino chiede una nuova perizia alla quale Annamaria non collabora.

I medici analizzano quindi le interviste e propongono un nuovo ritratto della donna, nel quale viene descritta come immatura, priva di autonomia e di empatia, con tendenza alla rimozione. Personalità con tratti isterici. Quando la donna, infatti, descrive lo scenario nel quale aveva ritrovato Samuele, non parla mai di dolore. Non si chiede nemmeno se il bambino abbia sofferto.

I periti giungono quindi a una conclusione: suppongono che Annamaria abbia agito in quello che si chiama stato crepuscolare. Chi lo manifesta può compiere attività complesse, come anche mangiare, senza però rendersi conto di quello che gli accade intorno. Per poi dimenticarsi tutto.

Il malessere sofferto la notte prima dell’omicidio sarebbe stato una crisi d’ansia all’interno della quale si sarebbe inserito lo stato crepuscolare.

Intanto il processo continua. Annamaria si dichiara insoddisfatta dal sistema di giustizia italiano, che la addita come unica colpevole del delitto di Cogne. Poi abbandona l’aula, provocando così tanto scalpore da costringere Taormina ad abbandonare la difesa. Paola Savio diventa così il nuovo legale, questa volta d’ufficio.

Il 27 aprile arriva la nuova sentenza: alla donna non viene riconosciuta alcuna infermità mentale. Il suo comportamento dopo il delitto non è compatibile allo stato crepuscolare. La mattina del 30 gennaio 2002 ha quindi agito con raziocinio.

Annamaria Franzoni viene condannata a sedici anni di carcere per l’omicidio di Samuele Lorenzi. Pena più mite perché le vengono riconosciute alcune attenuanti. Nel 2008 la Corte di Cassazione conferma la condanna.

 Attualmente è agli arresti domiciliari e continua a proclamarsi innocente. Verrà mai fuori la verità?

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Lo stesso principio, si presume, valga per l'autore del contenuto.

CASO BEBAWI: L’OMICIDIO DELLA DOLCE VITA. Cronache di vita e di morte del giovane più appetibile di Roma

Gaia Vetrano il 29 Aprile 2023 su nxwss.com 

Tutte le strade portano a Roma, comprese quelle del crime italiano. Alla Capitale degli anni 60’, con uno dei casi più misteriosi e interessanti del secolo scorso. Parliamo della storia dei Bebawi. Ma per farlo, facciamo un passo indietro.

“La Dolce Vita” è un film degli anni 60’ diretto da Federico Fellini. Una pellicola che ha cambiato per sempre la storia e l’industria italiana, riuscito a diventare protagonista del tessuto sociale e culturale italiano, e non solo.

Quante volte ne avete sentito parlare? Eppure, al centro delle discussioni non vi è mai la realizzazione della pellicola, la Fontana di Trevi, o gli aneddoti riguardanti Marcello Mastroianni e la tuta da sub che indossava sotto lo smoking. Ma del cambiamento epocale che è riuscito a generare. Nel caso in cui vogliate prima saperne di più sulla trama e sul perchè dovreste vederlo, ecco qui il link.

Se per la Milano bene è immorale, troppo lungo e “romanesco”, per i cittadini della Capitale tutt’altro. Fellini tratteggia un ritratto di vita romana, frivola e – apparentemente – priva di senso. Eppure, dietro alla patina sfavillante della bella vita romana, la cosiddetta Hollywood sul Tevere, si celano delle metafore potentissime.

Si parla soprattutto della spasmodica ricerca, da parte del protagonista, dell’innocenza. I membri dei ranghi più alti della società, ottemperati dal lusso e dallo sfarzo, perdono il contatto con la natura. Un mondo tanto perfetto, visto da fuori, ma malato. Una realtà desolante che loro stessi hanno contribuito a creare.

Roma splendente e struggente, festaiola e divina. Una città che dona amori, tradimenti, lavoro e perdizione. Chiunque viene inghiottito da un vortice di bellezza e di bramosia, di danze e di cultura, di apparizioni e mondi onirici. Dove donne e uomini si incontrano, parlano, si divertono, si amano.

Gli incontri, le amicizie, i rapporti più o meno passeggeri servono a dare il senso a questa vita che aspira ad essere dolce e circolare. Un’esistenza fatta di incontri che non portano mai un reale impegno. Solo a qualche ora di passione destinata a terminare.

Di festa in festa, di donna in donna, Marcello continuerà a essere insoddisfatto del suo presente, inebetito da tutto il bello che gli sta intorno, non riuscendo a capire quale strada realmente prendere per il suo futuro. Bloccato in un crocevia di eventi, mollemente adagiato e senza aspirazioni. 

La Roma dei primi anni Sessanta è perfettamente raffigurata da questa pellicola.

Consideriamo ora il nostro Marcello. Ogni sua azione è dominata dalla volontà. Una volontà talvolta cieca e irrazionale, che porta all’inganno. Tramite questa ci concediamo all’errore e ai vizi. Mossi in questo turbine di cecità nei confronti della ragione, erriamo senza una meta, evitando la verità.

Questa irrazionalità domina la storia che vi stiamo per raccontare. Il racconto passionale di una donna sposata ma che desidera carnalmente un altro uomo, non riuscendo però a non amare suo marito. Cercando inoltre di preservare la sua posizione di rilievo sociale.

La vicenda di un marito che vuole proteggere la sua donna dai pregiudizi della società, ma anche il suo onore.

E infine la parabola di un giovane playboy, che consuma la sua esistenza con molte donne, ma che finirà per spegnersi. Una fiamma che brucia fino a estinguersi.

La storia di come siano tutti diventati vittime di una pulsione irrazionale. Mossi sotto la supervisione di un’unica Entità: la Morte.

Adesso mettetevi comodi, perché questo non è un film, ma il nostro racconto del caso Bebawi. 

Tutto comincia da Via Veneto. Nella Roma di Fellini, delle star, degli artisti, della poesia e del canto. È un lunedì mattina illuminato da un sole che si affaccia incerto sulle luminarie dei locali alla moda appena chiusi. L’atmosfera notturna di ebrezza sembra essere un lontano ricordo.

Lungo le strade camminano di giorno impiegati e cassiere, tassisti e netturbini. Le semplici comparse hanno ripreso possesso delle vie urbane. È lunedì 18 gennaio 1964 quando una donna sulla quarantina, dall’incarnato scuro e i tratti nordafricani affretta il passo. Sta svoltando di fretta, mentre i tacchi ticchettano per la strada, su Via Lazio.

Di fretta passa davanti a una Mercedes nera, il cui muso sporge sul marciapiede. E’ quella del suo capo, che da due giorni è sparito senza dare notizie. La donna si chiama Karin Arbib e lavora come segretaria. E’ una persona rigida e inflessibile, e dalla vita lussuriosa del suo titolare è sempre interdetta.

Poco le importa se questo figlio di papà si diverte a delapidare il suo patrimonio. Ciò che la indispettisce maggiormente è il poco rispetto che questo prova nei suoi confronti. D’altra parte, lei si impegna particolarmente alla Tricotex, azienda che si occupa di Import ed Export Tessile.

Dopo aver salutato il portiere, Karin arriva al suo ufficio, che si trova nel terso piano del numero civico 9 di Via Lazio. Con passo nervoso, dopo aver posato il suo cappotto, comincia a dare un’occhiata in giro.

Poi fa qualche passo, percorre un corridoio, gira l’angolo, attraversa una stanza, fino a quella del principale. Sulla sua scrivania un soprabito scuro. Poi vede gli occhiali da vista poggiati sul tavolo, ma dell’uomo non vi è traccia.

La Arbib è così infastidita da non rendersi immediatamente conto di cosa si trovi a terra, poco distante da lei. Poco sotto la finestra c’è qualcosa da far raggelare il sangue nelle vene. È il corpo di un uomo, rannicchiato al suolo.

La figura getta un grido immenso: in quell’ombra, confusa col pavimento, c’è quello che un tempo era stato il suo principale. Il signor Farouk Chourbagi. Corre via.

Il giallo di Via Lazio 9 è appena cominciato.

Farouk Chourbagi, cronache di vita e di morte dello scapolo più appetibile di Roma

Per le strade di Roma le voci corrono in fretta. Appena le volanti della Polizia arrivano sul luogo, tutti cominciano a chiedersi cosa sia successo. Qualche strillone comincia già a far pubblicità all’edizione del quotidiano locale del giorno, che in prima pagina riporta: 

“Egiziano ucciso in via Veneto!”

Quando il medico legale rivolta su sé stesso il corpo cominciano ad affievolire alcuni dettagli.

L’uomo è stato ucciso da quattro pallottole. La prima alla schiena. Caduto al suolo, l’assassino lo ha terminato con tre colpi, tutti alla testa. La pistola è certamente di piccolo calibro, una 7.65.

Inoltre, dalle continue osservazioni al quale il corpo è sottoposto, non sfuggono alcuni dettagli. Il volto, ormai irriconoscibile, non può essere stato deturpato solo dalle pallottole. Qualcuno lo ha voluto sfigurare.

Quelle sono delle ustioni, sulla parte sinistra del volto.

Il capo della Mobile, Nicola Scirè, rimane colpito da questo dettaglio.

«Sì e guardi queste scolature, le vede? Queste, che arrivano fino al collo. Direi che è vetriolo».

Ma chi è che oltre che uccidere un uomo vorrebbe anche sfigurarlo da vivo? Cosa avrebbe fatto Farouk Chourbagi per meritarsi questa fine?

Il giovane, miliardario di origini egiziane e passaporto libanese, aveva solo ventisette anni e alle spalle, oltre al denaro, una lunga lista di frequentazioni andate a finire – qualcuna bene qualcuna un po’ meno – con donne della Roma Bene. Parliamo di aspiranti attrici, eleganti subrette, e nobildonne. 

Tra quegli ambienti Farouk era molto conosciuto. Non solo per la sua consistenza del suo portafogli, o perché fosse nipote di un ex ministro del Tesoro egiziano. Tanto ricco da permettersi di poter studiare a Oxford e conservare più di una Mercedes nel garage.

Con un curriculum del genere era salito in cima alla lista degli scapoli più appetibili di Roma.

Nella Capitale se la passava bene: locali notturni, molte amicizie e feste. Un ragazzo molto educato, un perfetto partito, in grado di trasmettere sicurezza e una solida posizione. Oltre alla bellezza che lo contraddistingueva.

E se in vita il suo nome stava sulle bocche di tutte le donne della Roma Bene, anche in seguito al suo decesso non si smise mica di parlarne.

Galeotta fu la porta

Le prime indagini chiariscono le tempistiche del delitto. Alle 17.20 un vicino di casa aveva visto Farouk lasciare il suo appartamento in Via Savastano 7.

Era uscito di fretta, senza indossare il completo che la cameriera gli aveva lasciato sul letto, e che avrebbe dovuto indossare quella sera per una festa all’ambasciata.

Alle 17.30 Ercole Cesarini, gestore di una bomba di benzina, aveva visto la Mercedes di Farouk fermarsi malamente davanti alla Tricotex, così come Karin l’aveva lasciata. Poco dopo l’avrebbe visto Aldo Simoni, il portiere dell’edificio.

I tabulati telefonici riportano poi una chiamata alle 17.40 di Elisabetta Tizei, vecchia fidanzata di Farouk. Questa avrebbe trovato il telefono occupato.

Arriviamo alle 18.15, orario al quale, secondo i racconti di Isabella Luparelli, inquilina dell’appartamento sottostante gli uffici della Tricotex, si sarebbero sentite delle grida provenienti dal piano di sopra e poi un tonfo.

Un quarto d’ora dopo viene riportata una seconda telefonata, sempre da parte di Elisabetta. Il telefono suona a vuoto: nessuno risponde.

Per gli inquirenti questi eventi sono sufficienti a indicare l’orario del delitto: qualcuno tra le 18:00 e le 18:30 è entrato negli uffici della Tricotex uccidendo Farouk.

Definito l’orario del delitto, la squadra Mobile si pone un quesito. Da dove è uscito il killer? La risposta è molto più semplice di quanto sembri: dalla porta d’ingresso degli uffici dell’azienda. Lo fece semplicemente tirandosi dietro il chiavistello.

In sintesi, l’assassino non era in possesso delle chiavi.

Ciò che però non tutti sono a conoscenza è un particolare meccanismo della porta. Una cordicella collega, infatti, il chiavistello principale al pianerottolo. Scendendo al piano di sotto basta tirare la fune per chiudere gli uffici, senza usare le chiavi.

Quando la Polizia andò a controllare, notò che la corda era stata tirata. Quindi, il killer, pur non essendo in possesso delle chiavi, conosceva questo particolare trucco. Doveva essere qualcuno che Farouk conosceva e di cui si fidava particolarmente. Al punto di svelargli un modo alternativo per aprire la porta della sua azienda.

Chi potrebbe essere l’assassino? Cosa ci avrebbe guadagnato dalla morte di Chourbagi?

La vendetta di Claire Bebawi

Gli inquirenti cominciarono interrogando i parenti della vittima.

Vi erano molte domande delle quali cercavano una risposta. Prima di tutto le dinamiche dell’omicidio erano confusionarie.

Un primo dettaglio interessante riguarda l’autopsia. Il medico legale al termine di questa riesce a individuare ben cinque fori nel corpo della vittima. Due di questi sulla schiena. Ciò vuol dire che, dei quattro bossoli rinvenuti sulla scena del crimine, ne manca uno, attribuibile al quinto colpo esploso dalla pistola.

Tra queste, una riguarda il vetriolo. Quando questo venne usato per sfigurare il volto di Farouk, l’uomo era già morto. Essendo questa un’arma femminile, portò gli inquirenti a chiedersi se vi fossero delle donne che potessero guadagnarci dalla morte di Farouk.

Poteva trattarsi di una vendetta da parte di un’amante delusa?

Stando alle voci, però, Chourbagi aveva dozzine di amanti. Eppure, bastò chiedere allo zio per avere un nome: Claire Bebawi. 

Una donna sposata, anch’essa di origine egiziana, con interessi nel settore tessile. Lei e suo marito Joseph, cittadini di Losanna, si trovavano a Roma il giorno dell’omicidio, poi erano immediatamente partiti verso Napoli. Da lì a Brindisi e poi ad Atene.

Ma su questo Mounir Chourbagi non ha dubbi: Claire è la colpevole. Con Farouk ha avuto una relazione tempestosa e irrazionale. La donna viene descritta come una piovra, perché si era avvinghiata all’uomo perché ossessionata da lui e dal tipo di vita che le aveva fatto condurre.

L’ultima volta che Karin aveva visto Farouk a lavoro, aveva raccontato la segretaria, i due avevano litigato al telefono. Una discussione furiosa. La donna non aveva chiaro cosa si fossero detti, ma terminata la conversazione, Chourbagi era venuto da lei e le aveva detto di non passargli più telefonate da parte di Claire.

Poco prima di chiudere, Farouk: «Io non posso sposarti, non posso! Dimmi tu cosa devo fare!»

Così, la sera del 21 gennaio 1964, gli uomini della Interpol irrompono nella camera d’albergo 819 dell’hotel Esperia di Atene, per interrogare i coniugi Bebawi.

Nessuno avrebbe mai immaginato gli intrecci dietro tale storia.

Lei è la nuova Circe. Lui un Otello mediorientale.

Storia di un amore tutt’altro che banale

Il Cairo, terminati gli anni 30, si sta affacciando da un passato poco facile all’Occidente.

Sulle sue strade circolano da poco le carrozze, simili a quelle francesi e inglesi, dei più ricchi. Aprono sempre nuovi negosi e attiività. La città si appresta a diventare una metropoli.

Il 30 giugno 1928 nasce Gabrielle, detta Claire, da una madre olandese e di origini polacche e un padre egiziano. La bimba vive un’infanzia serena. La mamma si occupa della sua educazione, raccontandole gli usi e i costumi europei più comuni, mentre il padre si occupa del progetto più ambizioso degli ultimi anni: il canale di Suez.

L’ambiente raffinato e benestante della nascente borghesia la allontanava dai suoi coetanei, così Claire viene vista come una privilegiata. Eppure, il suo ruolo sociale non le consente di avere accesso alla corte. Ma sognare non è proibito a nessuno.

Così, nel 1947, si sposa con un promettente imprenditore dell’industria tessile. Questo è Joussef Bebawi, ha ventidue anni ed è nato in una cittadina del sud. Quell’uomo è la porta d’accesso a una vita di agi e lussi. I due si conoscono a pena, ma Claire spera sia il primo capitolo di una fiaba.

I primi anni sono positivi. Alla fine della guerra l’Europa, in fase di ripresa, aumenta i propri contatti con l’Oriente, fornendo all’Egitto l’opportunità di fare affari. Tra questi anche la famiglia di Joussef, che non si tira indietro davanti alla possibilità di aumentare il proprio patrimonio. Anche se questo richiede essere disposti a spostarsi continuamente.

Come Luna di Miele i due neosposi vanno in Libano, poi in Europa. Quando Claire rimane incinta nel ’49 si stabiliscono a Losanna. Gli anni passano e, prima nel ’51 e poi nel ’53 avranno altri due figli. Ma tutto questo è destinato a finire.

Nel 1960, Claire è una donna che ne ha abbastanza di essere solo una madre.

Joussef è consapevole di trascurare la moglie, per cui prova un amore che tende quasi all’adorazione. Quando i due si guardano, lui prova un tale desiderio. Il signor Bebawi ben sa che la sua compagna è nel pieno della sua giovinezza e che, quando scruta gli altri uomini, sono anche loro bramosi di averla.

Più lei sfugge, più Jousef si domanda come abbia fatto a meritarsi una donna così attraente, più Claire continua a rimpiangere il giorno in cui ha accettato di sposare un uomo che nient’altro riesce a fare se non fissarla.

Nella primavera del 1960 succede qualcosa in grado di distruggere la gabbia nella quale la signora Bebawi si sente in trappola.

Joussef ha infatti un incontro di lavoro con un certo Mounir Chourbagi. I due si incontrano in un caffè al centro di Ginevra. Ai tavoli è seduta metà dell’aristocrazia svizzera. Ai coniugi Bebawi, durante quell’incantevole pomeriggio, viene proprio presentato Farouk.

Il giovane fa ovviamente una bella impressione. Ha un fascino europeo, che traspare dalla scelta del bel completo, ma tratti mediorientali.

Il giovane Chourbagi e la bella Claire si sorridono. È già colpo di fulmine: nessuno dei due riesce a distogliere lo sguardo dall’altro.

Alla fine dell’incontro, Mounir e Joussef si danno appuntamento per il giorno dopo, ma Claire non è d’accordo. I due coniugi Bebawi avevano infatti in programma una vacanza a Parigi, e il volo era proprio il giorno dopo. Farouk non si tira indietro: anche lui il giorno dopo deve partire verso la capitale francese.

Per Joussef è un piano perfetto. Il nipote di Mounir si occuperà di sua moglie in quei giorni di distanza, in modo da dedicarsi tutto il tempo agli affari.

Dodici ore dopo, Farouk e Claire hanno concluso la loro prima notte di passione assieme. Il giovane Chourbagi, il giorno dopo il loro primo incontro, le giura amore eterno. La bellezza di quella donna le aveva rapito il cuore. Promette che mai la lascerà o tradirà.

Quella permanenza a Parigi fa capire a Claire come, nonostante gli undici anni di scarto tra i due, la sua vita sia ancora degna di essere vissuta. Farouk è però ignaro della grande differenza di età: la donna fa infatti finta di avere ventotto anni.

Di Farouk vi abbiamo già parlato. Era un ottimo partito. Un economista ricco e affabile, con poca voglia di mettersi in gioco.

L’amore che prova per Claire diventa il suo pensiero principale. I due danno il via a una relazione travolgente e, ogni qual volta gli è consentito, riescono sempre a incontrarsi. Quando lei chiama, lui risponde. Quando lei è a Roma, lui la segue. La donna lo ama, ma sa che tra loro due è solo un gioco.

Lo desidera ma al tempo stesso lo respinge. Si diverte con lui, e con il suo denaro, e poi lo allontana. È un giocattolo tra le sue mani.

Quando Farouk le chiede di sposarlo, lei si rifiuta. Sa già che Joussef lo avrebbe voluto morto. D’altro canto, questo già sospetta che Claire si sia allontanata per un motivo.

A confermare i suoi sospetti è un suo amico, che gli confessa di aver visto la donna e Farouk assieme. Rientrato a casa, scoperto il tradimento, il signor Bebawi scaraventa la moglie a terra. Le dà della svergognata e della donna senza pudore. Claire gli dà della nullità e lo schiaffeggia.

Tra i coniugi cala il gelo. Continuano a vivere sotto lo stesso tetto e a fingere di sopportarsi, essendo il divorzio un’opzione non praticabile. Finché non trova la soluzione: il 20 febbraio 1963 Joussef comunica a Claire la sua intenzione di cacciarla di casa. Inoltre, scrive a Farouk quanto sia disgustosa relazione tra una donna sposata e un giovane undici anni più piccolo.

A marzo, Joussef Bebawi ripudia ufficialmente Claire. La donna è spacciata. Ora è lei che deve esortare Farouk, che le aveva giurato amore eterno e le aveva chiesto la mano. L’uomo, trasferitosi a Roma, era entrato nei circoli che contano. Conquista finalmente il titolo di playboy con cui lo abbiamo conosciuto.

La donna è sempre più gelosa, sempre più ossessiva. Lo accusa di avergli rovinato la vita. Dopo una serie di missive, i due smettono di vedersi fino a ottobre. Claire viene infatti invitata a Roma da Farouk, ma i due litigano, finendo per separarsi nonostante siano entrambi nella stessa città.

Ciò che Claire gli ripete è che non ha il coraggio di sposarla. Farouk non crede di poter mantenere la promessa: sente di star legando sempre di più con un’altra donna, Patrizia De Blanck, mecenate della Roma bene e figlia di un ambasciatore.

Alla fine del 1963, i coniugi Bebawi sono nuovamente assieme. Farouk continua a respingerla, perché troppo innamorato di Patrizia. Claire non ha molte alternative, se non tornare con Joseph, che le giura di essere disposto a tutto pur di stare con lei.

Due uomini che non riescono ad allontanarsi dalla stessa donna. Entrambi disposti a tutti per lei. Persino a compiere i gesti più irrazionali.

Il 17 gennaio 1964 Claire telefona a Farouk e chiaro e tondo gli chiede se vuole ancora sposarla. Lui le risponde in maniera secca che non può più mantenere la parola data. Ventiquattro ore dopo i coniugi Bebawi atterrano a Roma armati di pistola. 

Con sé hanno anche un flacone di acido solforico, acquistato dalla drogheria sotto casa, da Georgette, in Avenue Rumine 3. A confermare ciò vi è anche il commesso Daniel Viret, un ragazzo dal sorriso contagioso, pulito, con il ciuffo sulla fronte.

A Roma i Bebawi alloggiano nell’hotel Residenza, dove rimarranno per poco. Claire chiama nuovamente Farouk, ma stavolta a casa.

Alla stessa ora i cui Chourbagi abbandona la sua abitazione per recarsi alla Tricotex, anche i due escono. Ciò che avvenne dopo divenne materia di sei diversi processi.

Probabilmente Claire e Joussef avranno raggiunto Farouk nel suo ufficio. Questo è sollevato di vederli assieme, nonostante lo insultino pesantemente. I tre cominciano a litigare, finché non viene tirata fuori la pistola. Un corpo alla schiena, tre alla testa. Poi, l’acido rovesciato sul volto, che finisce anche sulle mani e sul volto della donna.

I due, fuggiti a Roma, arrivano ad Atene. Qui comprano un unguento per le scottature, che però non useranno. L’inviato della Polizia italiana noterà subito le escoriazioni sulle mani di Claire.

Il processo

Il processo è seguito da tutto il paese.

Joussef è difeso da Giuliano Vassalli, futuro Ministro di Grazia e Giustizia. Claire da Giovanni Leone, prossimo Presidente della Repubblica.

I due coniugi si accusano a vicenda del diritto, costituendo un tale groviglio di dichiarazioni contrastanti da non permettere alla corte di stabilire la verità dei fatti. 

I giudici sapevano per certo che uno dei due, o forse entrambi, erano gli assassini, ma furono costretti a emettere una sentenza, quella di primo grado, che è tutt’oggi esempio di imparzialità giuridica e morale.

Davanti all’impossibilità di stabilire con certezza chi fosse l’assassino vengono liberati entrambi gli imputati.

Così si conclude la prima udienza, quella del 1966. Ci sono voluti poi dieci anni per avere un verdetto definitivo.

Nel 1974 la Cassazione conferma la sentenza di appello che nel 1968 condannava entrambi a ventidue anni di carcere per omicidio volontario. Eppure, gli anni di prigione non li sconteranno mai. Entrambi lasceranno il paese andando in Egitto lei, in Svizzera lui. Nazioni dove non esisteva l’estradizione.

Con un ennesimo colpo di scena, Giovanni Leone lascia delle dichiarazioni qualche mese dopo riguardo il caso. Stando alle sue parole, una sua alunna era riuscita a parlare con il precedente avvocato della Bebawi, che lavorava ad Atene. Questo le aveva raccontato che Claire si era rivolta a lui per il processo in quanto colpevole dell’omicidio di Farouk.

Il professore Leone, venuto a sapere dalla sua alunna quanto questa avesse appreso dal caso Bebawi, dichiarò fosse necessaria una nuova sentenza.

In seguito alla fine delle indagini, Patrizia De Blanck si sposerà con Giuseppe Drommi, primo marito di anna Falarino, vittima del delitto Casati Stampa. Youssef troverà l’amore con la sua donna di servizio Henke.

Di Claire Bebawi si sono perse le tracce. Una Circe che non verrà mai punita.

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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LA TRAGICA STORIA DI CHIARA POGGI. Il delitto di Garlasco

Gaia Vetrano l'8 Aprile 2023 su nxwss.com

In amore vince chi fugge. Chiara Poggi sarebbe dovuta scappare molto prima.

Per molte persone basta poco per essere felici. O raggiungere quel sentimento di spensieratezza che ognuno agogna. La sensazione di essere libero da ogni responsabilità o impegno. Di avere il tempo di uscire all’aria aperta e poter prendere anche una sola boccata d’aria. Di godersi il sole bagnare la propria pelle. Il vento frusciare.

O anche la possibilità di sognare di partire. Andare via dal proprio paesino d’origine, per quanto pieno di opportunità, dove però il ruolo che ti è stato affibbiato ti sta stretto. Per Chiara Poggi, Garlasco era questo. Un punto di partenza da cui immaginare una vita nuova altrove. Eppure, non riuscirà mai ad andarsene.

Molti definiranno Garlasco come la “Las Vegas della Lomellina”. Fino al 2007, infatti, era conosciuta come una banale cittadina del profondo nord, composta da villette perlopiù unifamiliari. Un posto tranquillo, non particolarmente caratterizzato, un posto umido d’inverno e ancor più nelle altre stagioni. Dove d’estate si combatte contro le zanzare killer. Durante le belle stagioni, raramente si gode di un bel sole, e quando ci sono delle belle giornate, non coperte dalla nebbia, è un evento più che apprezzato.

Qui il riso e l’allevamento sono i principali interessi economici, essendo epicentro di zone umide e languide, adatte alla fioritura del settore primario.

Nonostante le innumerevoli attività ricreative messe a disposizione dei propri cittadini, qui le giornate scorrono lentamente. Come il miele, viscose. Eppure, le puoi perfettamente distinguere tra di loro. Come una fetta di pane dall’altra.

Giornate passate tra i bar del luogo, a bere caffè con gli amici, e ad ammirare i turisti in pellegrinaggio al Santuario della Madonna della Bozzola, attrattiva principale della città. Ore davanti a una tazza di tè a parlare dei pettegolezzi sulla vicina di casa e sulle corna che aveva messo al marito. Fino al 2007, molti ignoravano l’esistenza di Garlasco.

È un paese di cittadini, non di anime. Ciò che non cambia mai è il desiderio di protagonismo delle persone. Anche solo per una giornata, insieme alla voglia di slegarsi dagli stereotipi comunicativi del posto. Per poi tornare a parlare dell’amico finito per puro caso in diretta su Canale Cinque perché un “raccomandato” oppure a lamentarsi della giunta comunale che non fa nulla per fermare lo spaccio di eroina.

I punti di riferimento sono per tutti l’osteria dell’”Avanti!”, la cooperativa Stella Rossa, due cinema, la corsa dei ciclisti in primavera, la parata dei bersaglieri a giugno, la Fgci e l’oratorio.

Ma ci sono eventi particolari che saldano il tempo al luogo in cui si sono verificati: la saponificatrice di Correggio, la strage del Circeo, il mostro di Firenze e il giallo di Garlasco. 

Se Garlasco per molti è una cittadina protetta dalle silenziose pianure lombarde, per Chiara Poggi in una notte può trasformarsi in un girone dell’Inferno dal quale cadere sempre più in basso, sempre più nel buio e nell’umiliazione.

La storia che vi raccontiamo oggi è quella di un delitto senza apparente movente. Fatta di immensi errori giudiziari. Una storia d’amore – se si può definire come tale – interrotta a metà. Uno di quei racconti mandato in onda una sera qualsiasi di maggio dalle Iene.

La storia di un uomo arrogante, dagli occhi di ghiaccio, antipatico a un’intera nazione, che non può però fare a meno che stare ad ascoltare le sue parole. È il 24 maggio del 2022, e in diretta da Bollate, parla Alberto Stasi. Ma per sapere che cosa ha da dire, dobbiamo forse tornare indietro al 2007.

Dopo il 13 agosto 2007 a Garlasco non ci sono più né santuari né discoteche, ma solo il sorriso di Chiara Poggi.

La maggior parte degli abitanti in quel periodo è in vacanza. Ovunque, pur di scappare dalle zanzare. Chi in spiaggia in Liguria, chi in montagna. Il civico 8 di via Pascoli è vuoto, così come tutte le altre case della strada. Lì alloggiano i coniugi Poggi, adesso fuori città. Così, la giovane Chiara, ha una settimana libera da trascorrere con il suo fidanzato, Alberto. 

Quasi una luna di miele. Mentre i due stanno assieme, lei è serena. Cerca di non disturbare il povero Stasi mentre scrive la tesi, e nel frattempo pensa a ordinare la cena dalla solita pizzeria di paese. Quando la mamma la chiama al cellulare per chiederle come va, Chiara risponde che è tutto ok.

Per le 22 di quella sera, Alberto torna a casa dei suoi dopo aver cenato dalla sua fidanzata per accudire il cane. Tra casa sua ci sono 20 minuti di camminata a piedi, 3 in macchina, 6 in bicicletta. Passato il tempo necessario dal suo animale ritorna a casa di lei, per restarci fino all’1.

Vi starete chiedendo per quale motivo vi stia fornendo questi dettagli specifici, ma ci torneremo più in là. Vi basti sapere che Alberto Stasi all’1 ritorna a casa sua in via Carducci 29 per dormire.

Così Chiara resta a dormire da sola. All’1:52 inserisce l’antifurto. Non sa che sarà la sua ultima notte.

Il lunedì 13 agosto, la Poggi fa colazione davanti al televisore con latte e biscotti. La casa è disordinata, il letto è sfatto. Sicuramente non è nelle condizioni migliori per l’arrivo di una visita inaspettata. Qualcuno alle 9 del mattino suona al citofono. Sembrerebbe essere una sua conoscenza, quindi toglie l’antifurto senza fare problemi.

Di quella persona lei si fida a tal punto da non cambiarsi, restando in camicia da notte, e la fa entrare ancor prima di aprire le finestre, che rimangono chiuse come se fosse ancora buio.

Il visitatore arriva alla porta, aspetta che Chiara si giri e la colpisce. Un colpo alla testa e uno sul volto con un martello. Gli schizzi di sangue arrivano fino alla scala.

All’ennesima mazzata che le viene sferzata contro il viso, Chiara cade a terra. L’aggressore la prende per i piedi e la trascina in corridoio. Sul pavimento lascia tracce di sangue fino alla scala. La Poggi cerca di resistere: si aggrappa al muro, ma per questo le viene data un’altra martellata. Macchia le pareti, il telefono, lo stipite.

La giovane viene trascinata fino alla scala che conduce alla cantina, dove l’aggressore la spinge giù.

Prima di andare via, l’assassino si sposta in bagno, incurante delle impronte di sangue che sta lasciando. Rimane fermo ad ammirare il suo riflesso allo specchio. Si lava le mani, rimane un po’ a guardare la tv e poi esce di casa.

Chiara è a terra, il pigiama è drammaticamente sporco di sangue. Lentamente si espande sui gradini, le impiastra i capelli, il volto. Mentre scivola per le scale, sente la vita che le sfugge tra le dita. L’immagine del suo corpo riverso sui gradini rimarrà impresso nelle menti degli italiani.

È il 13 agosto 2007. Da oggi, la Las Vegas di Lomellina ha anche un delitto in perfetto stile CSI da risolvere. 

L’apparenza inganna

Garlasco non è diversa dai tanti comuni della Lombardia. Chiara Poggi vive lì con i suoi genitori. Su di lei ripongono molte aspettative. È l’orgoglio della famiglia. Prima figlia femmina a laurearsi con 110 e lode in Economia Aziendale.

Chi la guarda non può che restare incantato dai suoi grandi occhi azzurri. Raramente sorride, ma quando lo fa, quei denti piccoli e bianchi illuminano il suo volto. Molto riservata, coltiva poche amicizie e non esce molto spesso dalla villetta di via Pascoli acquistata con tanti sacrifici dai suoi genitori.

Ha 26 anni e lavora come stagista in un’azienda milanese di informatica. Svolge bene il suo incarico e impara in fretta, probabilmente la assumeranno. Eppure, la velocità con cui questi eventi si susseguono l’uno dopo l’altro la spaventa.

È una giovane inquieta, per quanto cerchi di non darlo a vedere. In quella dinamica di eventi, che la avvicinano sempre più a un futuro lontano da casa, non vive serena. Forse, preferirebbe un anno di pausa, lontano da tutto. O anche solo una mattinata passata all’aria aperta.

La vita a casa dei suoi è proprio per questo sempre più difficile. Ogni momento di convivialità è pieno di silenzi intrisi di risentimento. Sente il peso delle aspettative che su lei ripongono, nonostante ami mamma Rita e papà Giuseppe. Questi vorrebbero che lei restasse a Garlasco. Ma Chiara è ambiziosa, e le sue mire vanno ben oltre il lavoro di segretaria del comune, a differenza della mamma, dipendente a Groppello Cairoli. Si vede manager.

Menomale che c’è Alberto, il suo fidanzato da tre anni. Il giovane è più piccolo di lei di due, e infatti frequenta ancora l’università. Sta per laurearsi alla Bocconi. 

Insieme sono la coppia perfetta. Lui l’aveva introdotta nel suo gruppo di amici, con cui passava ogni sabato sera. Abituati a passare tempo assieme, molti dicono di loro che siano pronti a sposarsi. Nonostante questo, Alberto non ha mai incontrato i genitori di lei. Certo, a Garlasco si conoscono tutti. I Poggi sanno chi sono gli Stasi, e viceversa.

Ma non c’era mai stata l’occasione per un incontro formale. In ogni caso non c’è fretta. Eppure, l’apparenza inganna. Con lui, la Poggi programma un futuro. una famiglia, dei figli, una casa a Milano. Un sogno di cui Alberto non era a conoscenza, un sogno rimasto tale.

A luglio del 2007, Alberto è in vacanza a Londra. Chiara non vuole comportarsi da fidanzata ossessiva, ma è difficile restare tranquilla quando l’altro parte per molto tempo. Così lo riempie ogni giorno di raccomandazioni su quanto la capitale inglese sia pericolosa, e gli chiede di stare attento.

Chiara lo conosce Alberto: è un bravo ragazzo, ma se trascinato dalle persone giuste è un adolescente come gli altri, capace di agire con incoscienza. Da Garlasco continua a consigliargli locali dove andare e i ristoranti migliori. Finché un finesettimana riesce anche a raggiungerlo.

Per un weekend si fa accompagnare dai genitori Stasi a Malpensa con un valigione enorme. Per lei rivedere Alberto è un’emozione grandissima. Ha già preparato l’itinerario del loro finesettimana inglese. Il 20 luglio 2007 parte, per poi tornare il 22.

Adesso dovrà solo aspettare che i genitori di entrambi partano in vacanza, così da recuperare il tempo assieme.

 Chiara è felice ed innamorata. Ma tutto questo sta per finire.

Stasi, l’unico nella lista

È Alberto Stasi a trovare il corpo di Chiara quella mattina.

Aveva provato a chiamarla più volte: alle 9:44, poi alle 10:47, 11:37, 12:46, 13:26. Mai una volta che gli avesse risposto. Squilli e telefonate rimangono senza risposte e ciò preoccupa Alberto, che si precipita in auto a casa della giovane. Scavalca il cancello e trova la porta aperta. Poi le tracce di sangue, infine il suo corpo sulle scale della cantina. 

Stasi perlustra tutta la casa, poi esce fuori e chiama la centrale della Polizia, che arriva sul luogo. Ma troppe cose non tornano. Alberto è freddo, distaccato. Non sembra stupito dall’accaduto, neanche scosso. E ai piedi indossa un paio di scarpe da ginnastica estremamente pulite, come se fossero appena uscite da negozio.

Questo insospettisce gli inquirenti. Per aver camminato dentro la villa, sopra le innumerevoli scie di sangue, è strano che non abbiano nemmeno una macchia. Come se le avesse pulite dopo essere uscito.

A partire dalle sue scarpe fino alle circostanze con cui si verifica l’omicidio, qualcosa non torna. Manca l’arma del delitto, che si suppone soltanto essere un martello. Manca l’orario certo di morte della Poggi. Mancano le altre piste. Manca il movente. 

Gli ufficiali si concentrano così su Alberto, e lo interrogano. Gli chiedono come sia possibile che le sue scarpe siano così pulite, così come i vestiti. Stasi non riesce a difendersi, così diventa l’indiziato numero uno. L’unico nella lista.

Viene arrestato il 24 settembre 2007 ma scarcerato quattro giorni dopo dal giudice per le indagini preliminari Giulia Pravon per insufficienza di prove.

Le indagini contro Stasi non furono così semplici. A sostegno della sua colpevolezza pochi indizi.

Cominciamo dall’alibi che lui stesso riporta. Il computer con cui, a detta sua, quella mattina stava lavorando alla tesi viene consegnato alle Forze dell’Ordine durante le indagini. Eppure, come la difesa sottolineerà durante i processi, questo verrà usato dagli inquirenti, che ne altereranno i file contenuti all’interno, compromettendo eventuali prove.

Difatti, l’unico elemento a sostegno – o eventualmente utile per la smentita dell’alibi – di Stasi venne compromesso. Eppure, grazie ad una perizia informatica molto più profonda sul computer, si accertò che venne usato dalle 9:35 alle 12:20.

Nonostante ciò, vi sono ancora dei dubbi. Ciò che si sa con sicurezza è che alle 9:12 Chiara Poggi disattivò l’antifurto della villetta.

Cosa successe durante i successivi 23 minuti, prima che Alberto cominciò a usare il suo computer? In conclusione, non si può determinare cosa fece in quella finestra temporale.

Un altro dubbio per gli inquirenti sono le scarpe di Stasi. Queste, come vi abbiamo già detto, erano perfettamente pulite. La scientifica le analizzò nel 2007 e non risultarono contenere alcuna traccia di sangue anche minima.

Come risultò anche nel 2014, se Alberto fosse effettivamente entrato nella casa, avrebbero dovuto “captare particelle ematiche“. Risulta ovvio immaginare che non potevano essere completamente pulite.

Così, secondo l’accusa, Stasi non avrebbe mai messo piede nella villetta per scoprire il delitto, avendolo commesso lui stesso.

Per la difesa Alberto avrebbe camminato evitando le pozze di sangue. Inoltre, a causa del caldo, le scie di cui era cosparso tutto il pavimento erano ormai già secche. Quindi queste non avrebbero comunque potuto lasciare eventuali segni sulle suole di Stasi.

D’altro canto, sui tappetini dell’auto con cui Stasi era arrivato la mattina del 13 luglio a casa della Poggi, la scientifica ritrovò delle tracce ematiche di Chiara. Come potevano queste esserci finite, se non tramite trasferimento dalle scarpe?

Questo non basta a inchiodare Alberto: vi sono anche delle tracce di residui organici che contenevano marcatori maschili compatibili trovate sotto le unghie della Poggi e il capello castano chiaro, che risulterà privo di bulbo e quindi di DNA, rinvenuto sulla scena dell crimine.

Chiudiamo infine con la disputa legata alla bicicletta. Due testimoni raccontarono agli inquirenti di aver notato quella mattina, verso le 9:30, una bici nera da donna dotata di portapacchi davanti l’ingresso della villa. Questa si suppose di proprietà dell’assassino. Ma Stasi non possedeva un mezzo che corrispondesse a questa descrizione, essendo la sua una “Umberto Dei” da uomo e di colore bordeaux. 

A casa di Alberto gli inquirenti trovarono un’altra bicicletta, una “Luxury” da donna. Di questa lui non fece mai parola durante gli interrogatori. Entrambe vennero sottoposte a delle perizie, e da ciò risultarono tracce in copiosa quantità del DNA della Poggi sui pedali della prima, che però non era conforme alla descrizione delle testimoni.

Alla fine, nel 2014, venne posta una nuova ipotesi. Come evidenzia la parte civile, entrambe le bici avrebbero montati di serie dei pedali di marca “Union”.  Eppure, la “Umberto Dei” ne aveva, quando vennero effettuate le perizie, della “Wellgo“.

Si suppose pertanto che Stasi avesse cambiato i pedali delle due bici. In particolare, avrebbe smontato quelli contenenti il DNA di Chiara dalla “Luxury”, fedele alla descrizione delle testimoni, e li avrebbe montati alla seconda. In sintesi, si sarebbe recato a casa della Poggi con la prima bicicletta e, tornato a casa, avrebbe smontato i pedali e li avrebbe montati all’altra bici.

Questa ipotesi venne però scartata.

In ogni caso, Alberto Stasi venne comunque condannato, facendo affidamento sulle circostanze con cui avvenne l’omicidio.

Infatti, per aver Chiara aperto al suo assassino, doveva essere una persona che conosceva, e di cui si fidava. Questo soggetto doveva anche conoscere bene la casa. 

Stasi non riuscì mai a fornire un alibi che riuscisse a provare defintivamente la sua innocenza. Quella finestra di 23 minuti rimane infatti un punto interrogativo. In quel lasso temporale avrebbe benissimo potuto recarsi a casa della Poggi e commettere l’omicidio.

Molti ritengono inoltre che Stasi volesse nascondere agli inquirenti di essere in possesso della “Luxury” perchè consapevole che potesse essere collegata al caso, e per questo non ne parlò mai durante gli interrogatori.

Infine, gli inquirenti trovarono tracce dell’anulare destro di Alberto sul portasapone del bagno, presumibilmente utilizzato dall’aggressore per lavarsi le mani dopo il delitto. Mentre le impronte trovate ne corridoio coincidono con un 42, taglia del piede dell’uomo.

Oltre ogni ragionevole dubbio, Alberto Stasi è ritenuto colpevole dell’omicidio di Chiara Poggi.

La condanna arrivò anni dopo l’omicidio. Difatti, a causa della insufficienza delle prove, la questione arrivò addirittura di fronte la Cassazione, che riguardo al caso ribadì come fosse complesso «pervenire a un risultato, di assoluzione o di condanna, contrassegnato da coerenza, credibilità e ragionevolezza» e quindi «impossibile condannare o assolvere Alberto Stasi».

Per lo stesso motivo, la Corte d’Assise d’appello nel 2011 lo assolse. 

Alla fine, in seguito alle nuove perizie, che provarono le incongruenze riguardo la versione della difesa sul problema delle scarpe, Stasi venne condannato a ventiquattro anni di reclusione (pena poi ridotta a 16 anni grazie al rito abbreviato) per omicidio volontario.

Rimane un mistero il movente: Alberto venne accusato di essere in possesso di materiale pedopornografico. Secondo l’accusa Chiara lo avrebbe scoperto e per questo lui l’avrebbe uccisa. La Cassazione smentì però tale ipotesi, visto che tali file erano solo “tracce“, mai scaricate, recuperate parzialmente dalla polizia scientifica ma che non furono mai visibili all’imputato.

Nel 2022, il programma “Le Iene” manda in onda uno speciale sul caso Poggi in cui Alberto risponde, intervistato da Bollate, alle domande che gli vengono poste riguardo l’omicidio. Oggi lavora come centranilista mentre sconta la sua pena, continuando a sostenersi innocente.

Alberto Stati ha veramente ucciso Chiara Poggi?

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

L'autore del contenuto scrive: Le foto presenti in questo articolo provengono da internet e si ritengono di libero utilizzo. Se un’immagine pubblicata risulta essere protetta da copyright, il legittimo proprietario può contattare lo staff scrivendo all’indirizzo email riportato nella sezione “Contatti” del sito: l’immagine sarà rimossa o accompagnata dalla firma dell’autore.

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PIETRO MASO: IL CASO CHE SCONVOLSE L’ITALIA. Delitto di Montecchia di Crosara

Gaia Vetrano l'1 Aprile 2023 su nxwss.com

Tra tutti i racconti che vi abbiamo narrato, questo può forse lasciare più facilmente il segno. Se la ricetta per un delitto indimenticabile vede come protagonista una figura di spicco, oggi vi raccontiamo di persone comuni. Eppure, Pietro Maso risulta essere straordinariamente fuori dal comune.

Quando parliamo di psicologia, questo è un tema che suscita sempre grande interesse. Di disturbo narcisistico, per esempio, si parla tanto, forse anche a sproposito. Gli individui che ne mostrano i tratti hanno spesso idee di grandiosità, mancanza di empatia e bisogno di ammirazione.

Il più delle volte tendono a difendersi mostrando superiorità e arroganza davanti a ciò che ritengono potrebbe mettere a rischio il proprio onore. Sono molto spesso assorbiti dal loro stesso ego, e talvolta farneticano riguardo un futuro di gloria e fama, dove loro ne sono i protagonisti assoluti.

Il narcisista dimostra di pensare di essere estremamente brillante o attraente, e sostiene quanto gli altri siano onorati di avere la compagnia di una persona del suo calibro. Si vanta di successo, potere o bellezza illimitata.

D’altro canto, già dal nome Narciso torniamo indietro all’epoca classica e al mito, nel quale un giovane tanto bello quanto insensibile viene punito dagli dèi perché talmente pieno di sé da respingere le attenzioni dello stesso Eros. Solo Aminia sembrò non arrendersi, ma ad esso Narciso regalò addirittura una spada, con cui lo esortò a suicidarsi.

Il suo corteggiatore ascoltò l’invito, trafiggendosi l’addome mentre supplicava gli dèi di essere vendicato. Narciso, ammirando così il suo volto sulla superficie di un lago, si innamorò di sé stesso. In un attimo venne sopraffatto dal pentimento e dai sensi di colpa. Non sapendo come liberarsi da questa sofferenza, prese la lama regalata ad Aminia e si uccise.

Il suo sangue uscì a fiotti dalla ferita e si tramutò in fiori.

Il volare troppo in alto implica il “credere” troppo nelle proprie ali e il non rispettare il limite; il volare troppo in basso vuol dire rinunciare e non alzarsi mai da terra.

Per Heinz Kohut il narcisismo è la coesione tra grandiosità e idealizzazione. Ma soprattutto, i disturbi che caratterizzano il narcisismo, presi singolarmente, non per forza comportano la diagnosi di questo. Insomma, una buona autostima non sempre ne è indice.

Per Kohut nasce quando vi è un blocco nello sviluppo sano del proprio Sé, e spesso questo si verifica a causa di una serie di fallimenti ambientali. Al soggetto vengono quindi negati quei bisogni che gli avrebbero permesso di crescere con un Sé equilibrato.

Infatti, ogni bambino durante la fase di crescita, tende a salvaguardarsi sviluppando un “Sé grandioso-esibizionista” e la “imago parentale idealizzata”. In questo modo il suo obiettivo è quello che tutte le attenzioni rimangano incentrate su di lui, questo tramite il ruolo chiave dei genitori.

In particolare, l’assenza da parte delle figure genitoriali determina un mancato sviluppo del Sé grandioso, che non si integra per formarne uno più maturo. Addirittura, il bambino arriverà a identificarsi in ciò che immaginava fosse il ruolo della madre o del padre, cioè quello di una figura di potere e bontà.

L’ambivalenza è quindi chiave del disturbo narcisistico, e lo rende a tutti gli effetti un fenomeno particolarmente complesso.

A volte, da piccoli ci divertiamo a giocare e a interpretare ruoli che non ci appartengono. Mettiamo in scena vite che non sono le nostre e, ogni tanto, speriamo sia ancora possibile prendere parte a recite, così da estraniarci dalle nostre esistenze.

Ebbene, per il Narciso, la propria vita è al centro di tutto. Ma a volte si rimane per così tanto tempo bloccati all’interno del proprio costume, da restare intrappolati. La cerniera del proprio abito non si alza, ma si blocca.

Per chi commette un delitto, le promesse che fino a qualche istante prima aveva giurato di mantenere, vanno all’infamia. Le persone che fino a quel momento avevano fatto parte della tua vita svaniscono nel nulla. E, per chi uccide preso da turbinii incontrollati, è questione di istanti prima di rendersi conto di cosa si è compiuto.

Uccidere è volgare. Brutale. Il delitto è un’esclusiva delle classi inferiori, un metodo che viene usato per raggiungere straordinarie sensazioni. O almeno, così diceva Oscar Wilde. Ma non sempre la fantasia stenta a rispecchiare la realtà. Al contrario, a volte è una il riflesso dell’altra, come la pozza d’acqua nel quale si specchiava Narciso.

Non serve una notte buia e tempestosa per dare inizio alla nostra storia, perché questa è già cominciata. E ha anche un nome, quello di Pietro Maso.

Per ogni società, epoca e luogo, soprattutto quelli che ritengono essere felici, è complesso rendersi conto degli angoli bui. Guardando da lontano un immenso mosaico, è difficile notare quella tessera mancante. Anche l’Italia è tra questi, soprattutto quando si parla di salute mentale.

Sono gli anni Novanta, forse fa ancora troppo strano parlarne. Al governo, per la sua ultima volta, c’è Andreotti. Il Partito Comunista si è sciolto e gli Anni di Piombo sono terminati. Anche il muro di Berlino è caduto: finalmente si comincia a respirare una nuova era. Dentro ogni casa c’è almeno un televisore acceso su “Non è la Rai” mentre alla radio vanno Lucio Dalla o Michael Jackson.

Anche i paesini di poche anime sono ora al centro dei notiziari, ma in molti continuano a cercare la fortuna all’estero. Questo nonostante il fatto che il Nord – Est del paese abbia appena conosciuto una notevole ricrescita economica. Il settore agricolo va bene, e ciò incoraggia.

Montecchia di Crosara, in provincia di Verona, è uno di quei paesini che vive di colture. È un angolo incastonato nel Veneto. Ogni volta che piove i cittadini si preoccupano particolarmente. Eppure, molti degli abitanti si sono arricchiti tanto che un po’ di acqua non è un grande dramma.

Guadagnare cifre immense di denaro è un’impresa ardua, ma diventa meno complicata se si ha l’occhio per gli affari. O un po’ di fortuna. Ebbene, Antonio Maso e Mariarosa Tessari sono proprietari di una grande eredità, di cui sono fieri. Eppure, gestirli non è tanto facile. Sono una coppia di imprenditori agricoli che nella vita ce l’ha fatta e a cui molti guarda con invidia.

Ma Montecchia è una cittadina come le altre, fatta da qualche bar, la piazza principale, le passeggiate al tramonto. Stralci di vita quotidiana, dove è raro trovare una nota dissonante. Fuori dal coro. Parliamo di un esemplare di spicco del disturbo narcisistico. Proprio Pietro Maso.

Per queste strade ci cresce, assistito dallo sguardo vigile di San Pietro, di Antonio e Mariarosa. È il terzo figlio, prima di lui le sorelle Laura e Nadia. Una famiglia come le altre che anzi, sembrerebbe addirittura quella dei film. Un tenero quadretto dove la mamma cucina tutti i giorni ottime pietanze da servire per i propri commensali, che vengono consumate non prima di aver recitato la solita preghiera.

Perché la famiglia Maso ci tiene tanto alla religione. Quando si può si va sempre a messa, tutti insieme. Non solo la domenica, se possibile. In fondo, è proprio Dio che ha spronato Antonio a lavorare, e gli ha permesso di ottenere il proprio denaro tramite immensi sacrifici, e di mettere su la semplice villetta nel quale vive. Nulla di troppo eccessivo.

Ma dell’infanzia di Pietro vi parleremo dopo. Come vi abbiamo detto, basta poco per spaventare la comunità di Montecchia, come un temporale il 17 aprile. O un omicidio.

Immaginate di trovarvi nella vostra casa e di vedere il figlio del vicino di casa accorrere verso la vostra porta e suonare con insistenza al campanello. Appena vi apre lo vedete fradicio e tremante. Gli offrite una coperta, un ombrello, magari una tisana calda, ma lui rifiuta, perché ha fretta e bisogno di aiuto.

Quando gli chiedete quale sia il problema, lui indica spaventato casa sua, e vi ripete di aver visto nel pianerottolo delle scale un corpo, ma ha paura di capire chi sia.

Così decidete di mettervi il cappotto e seguire il giovane di cui tanto vi fidate, avendolo visto in fasce. La scena nell’androne della casa accanto è raccapricciante. Il signore Antonio Maso e sua moglie Mariarosa Tessari giacciono a terra. Il loro sangue ha macchiato il pavimento e i tappeti, ma è sparso un po’ ovunque. Segno di una mattanza orribile.

Immediatamente correte a casa per chiamare la Polizia. L’immagine del sangue sparso sugli elementi d’arredo vi rimane impressa in mente. Nel frattempo, il piccolo, che non è altro che Pietro Maso, è così spaventato da avere bisogno dell’aiuto dei paramedici per calmarsi.

Eppure, non tutto di questa storia è come sembra. D’altro canto, “innocenza” fa proprio rima con “violenza”. La stessa di cui il puro Narciso si macchia. La stessa di cui anche Pietro Maso è colpevole.

Il 17 aprile 1991, le colline di Montecchia di Crosara si riempiono di narcisi.

Nessuno sarebbe disposto a uccidere i propri genitori

Pietro Maso è un giovane dal bell’aspetto, ma dall’anima deturpata. Un fiore appassito.

È il 17 luglio 1971 quando Mariarosa Tessari dà alla luce Pietro, il suo terzo figlio. Ad accoglierlo ci sono Antonio e le due sorelle. Ma anche ore di malattia. Si ammala di meningite e addirittura i medici temono non riuscirà a superare la notte. 

I genitori di questo sono preoccupati, ma Pietro sopravvive. Ha un sistema immunitario però molto fragile, e per questo motivo durante i primi anni di vita si ammala spesso, faticando a passare il tempo con i propri coetanei. Per tutto questo tempo non viene abbandonato dalla famiglia.

La mamma è dedita alla casa, il padre lavora a testa alta. La terra ripaga bene i loro sacrifici, che si trasformano in soldi da investire per il futuro dei propri figli. Ma questo non basta per Pietro.

E’ un adolescente come gli altri, con desideri e ambizioni che non si rispecchiano con quelle dei suoi concittadini, che vogliono solo a lavorare la terra. Lui pensa in grande. Vuole una quotidianità diversa. I suoi genitori la pensano così, e mai si concedono a momenti di unione familiare.

Talmente concentrati a non far mancare nulla alla propria prole, dal denaro necessario alla propria istruzione fino a quello necessario a vacanze e svago, da perdere di vista la cosa più importante: l’affetto.

Antonio e Mariarosa non sono crudeli, ma indaffarati. Non si concentrano su cosa stia succedendo nella vita dei suoi figli. Così, Pietro a diciannove anni vive per emergere dalla folla. Per ottenere le attenzioni delle belle donne, che può conquistare facendole girare sulle sue macchine lussuose e portandole a cena in poti eleganti.

Sogna una vita mondana, lontana dal Veneto. Sceglie per sé abiti lussuosi, che ogni era indossa per recarsi al pub del paese, il Don John. Lì gioca a biliardo con gli amici, si concede un attimo di svago. Non si fa problemi né a scommettere, né a bere. Ma lui non si accontenta di ciò che la notte gli può offrire.

Vuole diventare un punto di riferimento per altre persone. Un guru, simbolo di opulenza e fascino. Bello e spigliato. Irraggiungibile.

Così, cerca sempre di stupire chi lo frequenta, comportandosi in maniera disinibita ed eccentrica. Diventa un’ossessione per lui il volere stare sempre sulla bocca di tutti. Talmente preso dal far parlare di sé da neanche godere del momento stesso. Ciò che ha non gli basta mai. Le donne crollano ai suoi piedi, mentre gli altri uomini della città sognano di essere come lui.

Tra questi anche Giorgio Carbognin, un diciottenne che in Maso vede un modello da seguire. Gli chiede di insegnargli a diventare come lui. Pietro gli fornisce lezioni sul suo stile di vita, lo accompagna dal sarto. Lo trasforma nella sua esatta copia. Fa lo stesso con Paolo Cavazza e Damiano Burato.

Di sé stesso parlerà sempre non in modo unico, ma scindendo la sua personalità in due. Ai giudici, psicologi e giornalisti, Pietro racconta di aver sentito dentro di sé una presenza che cercava di uscire fuori. Quando ne parla la chiama Maso, e la descrive come egoista e malvagia. Quest’ultimo ripudia Pietro, ritenendolo debole.

Maso è l’antagonista amante del lusso e del denaro che vuole emergere. Soffoca Pietro e lo prevarica, rendendo il giovane un mostro narcisista e crudele. Ricordiamo infatti non si tratti di una personalità multipla, ma un lato di sé nascosto.

Quando a diciannove anni ha bisogno di soldi per continuare a mantenere il suo stile di vita, quelli che la sua famiglia gli fornisce non bastano. Nonostante sia al verde, lavorare da commesso non fa per lui. Non sopporta dover passare giornate intere dietro la cassa, a meno che ciò non gli dia la possibilità di rubare da lì i contanti.

Facendolo, riesce a sottrarre duecento cinquanta mila lire, che usa per fare shopping sfrenato. Ma migliaia di vestiti non gli bastano mai. Nel frattempo litiga con i suoi genitori, che gli chiedono per quale motivo non continui a lavorare.

Maso inghiotte Pietro, mentre ricerca il gesto plateale necessario per distinguerlo definitivamente dagli altri.

Serve qualcosa che mai nessuno sarebbe disposto a compiere. Perché nessuno è come Maso. Nessuno sarebbe disposto a uccidere i propri genitori.

La terza è sempre la volta buona

Premeditare un omicidio non è facile. 

Maso una volta ci aveva già provato a sterminare la sua famiglia: voleva far saltare in aria casa sua sfruttando una fuga di gas nel seminterrato. Nella cantina, infatti, Pietro nasconde alcune bombole e una centralina di luci psichedeliche che si accendevano nel captare un forte suono, come quello di una sveglia. Secondo il suo piano, le scintille provocate dall’accensione delle lampadine avrebbero innescato una deflagrazione.

Ciò non accadde perché, nonostante le luci si fossero accese, Pietro si era dimenticato di aprire le manopole. L’idea era perfetta: un bel fuoco d’artificio che avrebbe illuminato la notte. Un fatale incidente.

Ai suoi genitori, però, non sfugge la presenza delle bombole, delle luci, e addirittura del cuscino che Maso aveva infilato nella cappa del camino per evitare che il gas uscisse. Così gli chiedono spiegazioni, ma lui è bravo a mentire.

Gli racconta che fosse l’occorrente per una festa e che dal focolare entrasse troppo freddo, così aveva provato a chiuderlo. È scocciato, gli dà fastidio quando gli vengono poste troppe domande.

Da solo sa di non potercela fare. Al Bar John può trovare il supporto necessario. Soprattutto quello di Giorgio, a cui chiede l’aiuto.

«Giorgio, per la nostra vita servono soldi. Quelli che abbiamo non bastano», si lamenta Maso. Poi, sorride beffardamente, mentre l’altro comincia a stilare una serie di posti dove una rapina potrebbe risultare fruttuosa. «No, uccidiamo i miei genitori e ci teniamo l’eredità». 

A sentire le parole, Carbognin tentenna, ma accetta. Non si pone alcun problema, succube del carisma di Pietro. Insieme ne parlano, ma hanno bisogno di un terzo, così coinvolgono Paolo Cavazza. Questo è però riluttante, ma i due non accettano il no.

Per Pietro, per convincerlo, è sufficiente escluderlo dai loro giri. Non lo aspettano più  al Bar John per giocare, e non gli riservano il posto al tavolo. Alla fine, Cavazza crolla.

L’ultimo nella squadra è Damiano Burato, suo compagno fidato. I tre pendono tutti dalle labbra di Maso, che ormai ha perso l’ultimo briciolo di umanità che gli era rimasto. Guidato dalla follia, acquisisce dalla sua decisione una determinazione che mai aveva provato in vita sua. Sente di avere tra le mani il potere più alto di tutti, quello di decidere chi vive e chi muore.

Nella sua testa il piano è cristallino. Spera di riuscire a ottenere una cifra pari quasi a un milione di euro, che gli può servire per almeno un anno e mezzo. Ai suoi complici avrebbe dato il 20%, tranne a Damiano, a cui avrebbe regalato un amplificatore di sua proprietà.

Nel giro di un anno programmava di uccidere anche le sorelle Nadia e Laura, così da ottenere la restante parte dell’eredità. Poi, Damiano e Paolo. Solo Giorgio sarebbe rimasto, con cui programmava di dividere la cifra finale.

Con Carbognin pensa al come. Considerano subito l’avvelenamento, e comprano anche il veleno per topi necessario. Era sufficiente versarne un po’ nei bicchieri durante una delle cene di famiglia, e il gioco era fatto. Eppure, era improbabile che nessuno dei commensali avvertisse l’odore forte e pungente che emanava. In particolare Mariarosa, che ha un olfatto spiccato.

I mesi passano, ma non riescono a trovare un piano convincente. Giorgio e Maso ci riprovano un’altra volta. 

Pietro deve accompagnare sua mamma all’auto salone dove lavorava. Mariarosa ha infatti trovato dei soldi nei vestiti del figlio, e non capisce dove li abbia presi visto che era disoccupato da almeno un anno. Maso, così, dovendo dimostrare che non fosse coinvolto in alcuna rapina, come invece la mamma sospettava, le propone di andare a domandare lei stessa al suo vecchio datore di lavoro.

Alla madre e al figlio si unisce Carbognin, armato di uno schiaccia-bistecca. Secondo il piano, lontani da casa, Giorgio avrebbe colpito in testa Mariarosa, mentre l’altro guidava. Poi l’avrebbero buttata in un fosso. Durante la tratta in macchina Giorgio è nervoso, tremante. Il cuore gli batte a mille e continua a scambiarsi sguardi con Maso tramite lo specchietto.

Quest’ultimo guida per dieci chilometri tra le campagne, mentre aspetta il momento decisivo. Eppure, al giovane Carbognin durante il tragitto manca il coraggio. La donna gli sorride, lo conosce bene. Si fida di loro, anche del figlio, per cui nutre un profondo amore.

Pietro si accorge che c’è qualcosa che non va, così finge di bucare una ruota. Accosta e con una scusa esce a dare un’occhiata, chiedendo a Giorgio una mano. Fuori dall’auto si confronta e Carbognin confessa i suoi timori: è un piano troppo difficile, non se la sente.

Alla fine i tre torneranno a casa, non prima aver raccontato qualche altra balla sulla provenienza di quel denaro alla madre.

I due sono ancora troppo inesperti. Ma, d’altro canto, la terza è sempre la volta buona.

Pietro non esiste più, è stato inghiottito da Maso

Improvvisamente, dopo un anno di piani andati a vuoto, arriva un evento decisivo. La miccia necessaria.

Giorgio si fa prestare dal suo datore di lavoro 25milioni lire per comprarsi un’auto, e lo comunica contento a Maso. Quest’ultimo guarda il malloppo e gli propone di usarli per comprare da bere. In cambio, il giorno dopo sarebbero andati in banca e gli avrebbe fatto un assegno.

Tornato a casa quella notte, copia su un’agenda la firma della madre. Pagine e pagine in cui imita la sua calligrafia. Il giorno dopo si presenta in banca con un assegno falsificato di 25 milioni di lire, che gira al Carbognin. 

Nel giro di un paio di giorni la mamma si rende conto della grossa somma di denaro persa. È arrivato il momento di ucciderla. Il calendario segna il 17 aprile 1991. I quattro si danno appuntamento al Bar John. Poi Giorgio e Paolo vanno a casa di Pietro, mentre Maso si reca a casa di Damiano per recuperare delle tute da metalmeccanico, delle spranghe, delle maschere da diavolo e dei sacchi di nylon.

Mentre recuperano le armi, comincia a piovere. I quattro si ritrovano nel salotto di Maso e aspettano che la Antonio e Mariarosa ritornino a casa: come ogni mercoledì sono a un seminario, dove insieme ad altri fedeli studiano l’Antico Testamento. Quella sera il Signore volge il loro sguardo altrove.

56 anni Antonio, 48 Mariarosa. Prima di tornare a casa, passano addirittura davanti il Bar John, dove pensano si trovi Pietro, che avrà forse bisogno di un passaggio a casa. Quest’ultimo è invece seduto nel suo divano, stoico, mentre aspetta che ritornino a casa.

Damiano, Paolo e Giorgio simulano un blackout. Poi indossano le maschere, tranne Pietro. Lui la indossa già.

Appena la coppia apre la porta, la tensione è così alta da sovrastare il rumore della pioggia. Come un fulmine che squarcia il cielo, i quattro si accaniscono prima sul padre, e lo riempiono di sprangate. A ruota segue Mariarosa, che viene colpita da una padella. 

I genitori si aggrappano alla vita, ma sono stremati. Giorgio finisce Antonio a pistoni, schiacciandogli il collo con lo stivale.

A infierire il colpo decisivo sulla madre sarà Pietro. Questo la guarda per l’ultima volta, illuminato dai bagliori dei fulmini. Per lui quella donna è un peso ingombrante. Così le riempie la bocca di cotone, poi si fa passare un sacco di nylon e la soffoca.

Sono passati esattamente 53 minuti. Un’ora di sofferenza prima che la mattanza finisca.

Maso nel suo riflesso non vede nulla. Non è come Narciso, che si innamora di sé stesso. Vede solo un pozzo di oscurità. Non sente trionfo né gloria. Un enorme buco nero che ha assorbito la sua luce.

Pietro non esiste più, è stato inghiottito da Maso.

Bisogna costruire un alibi e spostare i corpi. Questi non possono essere buttati nella immondizia, perché nessuno ha il coraggio di spostarli dal pavimento. Così guidano verso la discoteca, perché devono farsi vedere.

Ma Pietro non vuole andare a ballare, non sente nulla. Alle 2 se ne va, accompagna i complici alle loro abitazioni e poi torna a casa.

Dopodiché, corre verso casa del vicino, piangendo. Fradicio, chiama aiuto, disperato.

Mette su lo stesso teatrino da cui il nostro racconto è incominciato. Poi, va a casa delle sorelle, dove viene accudito. Al momento di andare a dormire, Maso lascia i suoi indumenti su una sedia. Non si accorge della macchia di sangue che ha sui pantaloni.

La fine dei giochi

Il giorno dopo, le autorità compiono i primi rilievi.

Il signor Antonio è sdraiato su un fianco, Mariarosa è supina. Attorno a loro c’è una discreta confusione. Nulla che lasci pensare a una rapina. Un ladro arraffa ciò che trova in bella vista, non crea il caos. Non ha il tempo per fare macello, buttare a terra vestiti e rompere i mobili.

Inoltre, da casa non manca nulla. Le lampadine svitate fanno intendere che il killer avesse avuto il tempo sufficiente per preoccuparsi anche dell’illuminazione giusta. E poi non ci sono segni di infrazione.

Attorno la casa si raduna tutto il paese, ma non si rende conto che il presunto assassino è proprio lì davanti, che recita la sua versione della storia con distacco. Tra le tante cose che dice, racconta di aver visto le gambe della madre mentre saliva le scale che portavano dal garage al soggiorno, ma secondo quanto riportato dagli inquirenti, ciò è impossibile.

Laura il giorno dopo lo chiama e gli dice che devono andare in banca. Lì gli mostrano l’assegno falsificato. Maso confessa di averli presi lui, ma non si capisce perché sia intestato allora a Carbognin. Inoltre, gli inquirenti avevano da poco trovato l’agenda dove Pietro si era allenato a falsificare la firma della mamma.

In meno di 48 ore dal delitto Maso viene portato in caserma, insieme ai suoi tre amici. A uno a uno vengono interrogati. Quando Paolo torna dall’interrogatorio a Pietro gli sussurra: «Assassino».

I tre confessano. Maso, davanti gli inquirenti non vuole parlare. Come sempre scocciato, gli dice che ciò che gli altri hanno detto va bene. Pietro è arrivato al capolinea. È la fine dei giochi. 

Il processo è il suo gran finale. In tribunale si presenta con uno dei suoi completi eleganti e un foulard a pois. I capelli pettinati all’indietro e un sorriso beffardo. Non mostra pentimento, ma solo egocentrismo. Maso ride a chi urla si meriti l’ergastolo. Spera soltanto che questa scocciatura abbia fine perché ha sempre odiato chi gli pone troppe domande.

Sulla base dei suoi atteggiamenti richiederanno una perizia psichiatrica, che gli diagnosticherà un disturbo narcisistico, che però non ha un’influenza tanto forte da non privarlo della capacità di intendere e di volere. Il giudice gli riconosce trent’anni di reclusione.

Le sorelle chiudono l’eredità e i contatti con lui. In un’intervista a la Repubblica del 5 febbraio 2007 Maso dichiarò che molti ragazzi gli scrivessero per chiedergli consigli, trovandosi nella sua situazione. Dopo tre anni di carcere arriva il pentimento e, sotto la guida di Don Guido Todeschini, direttore di Telepace, chiede il perdono delle sorelle.

Dal 2015 è un uomo libero. Pietro cadrà vittima della cocaina. I soldi non gli bastano: un giorno confesserà di voler uccidere le sorelle per trovare il denaro. Per questo motivo perderà nuovamente i contatti con Nadia e Laura, oggi sotto scorta.

Oggi Pietro Maso abita nel veronese. Si trova a Settimo di Pescantina, dove lavora come giardiniere per la parrocchia. Per il momento, questo è tutto ciò che gli resta.

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passione e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Lo stesso principio, si presume, valga per l'autore del contenuto.

Delitto Melania Rea, il fratello: "Parolisi? Non sappiamo più nulla". La bambina ha cambiato cognome: "È bravissima a scuola e ci dà tante soddisfazioni", racconta Michele. Federico Garau il 20 Aprile 2023 su Il Giornale.

Sono trascorsi oramai 12 anni dalla data in cui il corpo senza vita di Melania Rea fu rinvenuto nel Bosco delle Casermette di Ripe di Civitella (Teramo), ma quell'efferato delitto non si è mai sbiadito nei ricordi della gente e men che meno in quelli dei familiari della donna, in primis del fratello Michele.

Pochi giorni prima, il 18 aprile del 2011, era stato il marito Salvatore Parolisi, ex caporale maggiore dell'esercito, a denunciarne la scomparsa alle autorità. La giovane madre di Somma Vesuviana (Napoli), che aveva allora 29 anni, si trovava in compagnia dell'uomo e della loro figlia di appena 18 mesi per una gita fuori porta. Parolisi aveva raccontato che lei si era allontanata momentaneamente per andare alla toilette, senza tuttavia fare più ritorno. La salma della 29enne fu ritrovata due giorni dopo solo grazie a una misteriosa telefonata anonima: un corpo letteralmente martoriato da un omicida spinto da una furia incontrollabile.

Per quell'orribile omicidio, dopo ben quattro processi, fu condannato a 20 anni di reclusione proprio il marito della vittima: per i giudici Salvatore Parolisi uccise la donna con 35 coltellate "in un dolo d'impeto", lasciandola peraltro a terra agonizzante. Ad oggi restano ancora dei punti oscuri sulla vicenda, dato che non è mai stata rinvenuta l'arma utilizzata nel delitto dall'ex caporale maggiore, né si è mai compreso a chi appartenesse la voce dell'uomo che consentì con una telefonata anonima al 113 di rinvenire il corpo senza vita della povera Melania.

Le parole di Michele

Di Salvatore Parolisi si sono quasi perse le tracce, anche se negli ultimi anni sono circolate sempre più spesso voci che parlavano di uscite dal carcere per permessi premio connessi alla sua impeccabile condotta tenuta dietro le sbarre. Permessi in effetti previsti dalla legge, ma di cui non si ha certezza, come spiega il fratello di Melania.

"Purtroppo quella stessa legge che prevede tanti diritti, a noi non consente di sapere nulla su di lui", spiega con amarezza a Il Messaggero Michele Rea, che ha accolto la figlia della sorella nella sua famiglia. "Non credo che quando uscirà dal carcere verrà a cercare sua figlia", dice ancora l'uomo riferendosi proprio all'ex caporale maggiore, "perché se ci avesse tenuto a lei, noi adesso non staremmo neanche parlando e Melania sarebbe ancora viva".

Ormai la bambina, che ha cambiato cognome, vive da anni con lo zio, il quale di recente ha avuto un figlio. "Mia nipote gli fa da sorella maggiore", racconta Michele, "posso davvero dire che con lei stiamo tutti facendo un buon lavoro. È bravissima a scuola e ci dà tante soddisfazioni". Ripensare all'efferato omicidio di Melania spinge l'uomo a effettuare un'amara riflessione sulle ancora troppo numerose vittime di femminicidio. "Non è possibile che dopo questi fatti siano le vittime e le loro famiglie a doversi sempre difendere dagli assassini", considera l'uomo.

Una figura importante per la famiglia Rea, sia dal punto di vista professionale che oramai da tempo affettivo, è quella dell'avvocato Mauro Gionni. "Ci siamo risentiti telefonicamente proprio in questi giorni perché gli ho voluto manifestare la mia vicinanza", rivela il legale riferendosi a Michele. "Ci siamo ripromessi di rivederci come facevamo prima del periodo di Covid". "La decisione di far cambiare il cognome alla bambina, che poi non è più una bambina, la reputo giusta", aggiunge. "D'altronde, hanno ottenuto l’autorizzazione ed è tutto legale".

Le parole dell'ex militare. Perché sono stati revocati i permessi a Salvatore Parolisi, condannato per l’omicidio di Melania Rea. Per godere dei benefici di legge il condannato non deve più dimostrare di non essere pericoloso ma deve accettare la sentenza dei giudici. Iuri Maria Prado su L'Unità il 15 Luglio 2023

Sarebbe stato meglio se avessero revocato i permessi a Salvatore Parolisi, condannato a vent’anni di reclusione per l’assassinio della moglie, con motivazioni tipo queste: “Perché sì”, “Perché ci girà così”, “Perché il giudice fa quel cavolo che gli pare”. E invece a quel condannato, che ha scontato i primi otto anni di carcere professando la propria innocenza ma mantenendo il comportamento presumibilmente ineccepibile che gli ha consentito di fruire delle prime licenze, si rimprovera (ascoltate bene) di considerare ingiusta la condanna a suo carico. Un’intervista rilasciata dal detenuto, infatti, testimonierebbe, secondo la magistratura che gli revoca i permessi, “il vissuto di chi ritiene di essere stato ingiustamente condannato”. Scandalo.

Tradotto, significa che il detenuto non merita di essere mandato ai servizi di volontariato, fruendo appunto e a tal fine dei permessi necessari, se non si inchina alla sentenza che lo ha condannato e se dunque non confessa di aver fatto ciò che la giustizia gli imputa. Per godere dei benefici di legge, insomma, il destinatario di una condanna non deve dimostrare di non essere più pericoloso, di poter svolgere per il bene comune attività fuori dal carcere, di poter essere reinserito in società senza nocumento per gli altri: no, deve dare prova di aver “compreso il significato e la valenza” della condanna e dei permessi premio. Tipo l’eretico sottoposto a inquisizione: deve comprendere il significato della corda e della mordacchia, e capire il valore del provvedimento che lo libera da quei vincoli, cioè l’equanimità dell’aguzzino che premia la soggezione del condannato alla sacralità della giustizia.

È inutile precisare che la responsabilità di questo Parolisi per l’assassinio della moglie non viene in nessun conto nella discussione di questo sviluppo della vicenda giudiziaria, che è chiusa appunto con la sentenza che ha accertato la commissione del delitto e il nome di chi l’ha commesso. La discussione è su un altro fronte: su quello del diritto di fruire dei permessi stabiliti dalla legge a prescindere (si spera) da ciò che il detenuto pensa della sentenza. A prescindere (si spera ancora) dagli psicologismi giudiziari sul dovere intimo del detenuto di dare ragione alla giustizia che lo ha condannato. A prescindere, infine, dal “lavoro introspettivo” cui il detenuto, secondo questa giurisprudenza strabiliante, sarebbe tenuto per poter ambire a fare volontariato in una parrocchia.

Salvo credere che il condannato, per ottenere il permesso di svolgere attività fuori dalla prigione, non debba semplicemente comportarsi bene e dare segno di non essere pericoloso: ma adorare la giustizia che lo ha condannato e rinunciare al diritto di professarsi innocente. Per tornare in società, dunque, non quando la sua situazione dimostra che non può più far male e anzi potrebbe essere in qualche modo utile alla società: ma solo quando piega la schiena per baciare la pantofola del magistrato che ha scritto la sua condanna. È una giustizia da brividi quella fondata sulla confessione e sulle implorazioni del condannato.

Iuri Maria Prado 15 Luglio 2023

Estratto da open.online il 14 luglio 2023.

La libertà di Salvatore Parolisi è durata pochissimo. All’uomo condannato per l’omicidio della moglie Melania Rea sono stati revocati tutti i permessi. Parolisi aveva infatti rilasciato un’intervista al programma di Raitre “Chi l’ha visto?”. 

Nella quale aveva detto che a lui «non hanno mai provato» l’omicidio della moglie. Quelle parole hanno provocato la giustificata reazione del fratello della moglie Michele. Ma soprattutto, fa sapere oggi il Corriere della Sera, il tribunale di sorveglianza gli ha revocato tutti e 15 i permessi che gli erano stati concessi fino a ottobre. Perché ha dimostrato di non aver «compreso il significato» della condanna. Svalutando così il processo, il percorso di reinserimento e anche «la figura della donna». 

[…]

La decisione della magistrata di sorveglianza Rosanna Calzolari è arrivata proprio in conseguenza dell’intervista. Il tribunale presieduto da Giovanna Di Rosa dice che le frasi di Parolisi dimostrano che si ritiene «ingiustamente condannato». E quindi non ha compreso la valenza dei permessi-premio. Che hanno una funzione pedagogico-propulsiva. […] «la gravità delle affermazioni e l’assenza di consapevolezza» da parte di Parolisi determinano la marcia indietro. Che […] dovrebbe servire a Parolisi per «stimolare un’approfondita riflessione» e consentire «una sua ulteriore osservazione».

 Parolisi e la “condanna ingiusta”: revocati i permessi premio. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 14 Luglio 2023.

Sono stati revocati tutti i permessi per Salvatore Parolisi, condannato a 20 anni di carcere per l’omicidio della moglie Melania Rea. Una decisione presa dal tribunale del Riesame di Milano a seguito delle polemiche montate a seguito delle dichiarazioni dello stesso Parolisi, all’uscita dal carcere di Bollate per un permesso premio.

Revocati i permessi premio per Parolisi: “Mancanza di consapevolezza”

Per l’ex militare i permessi premio, quindi la possibilità di uscire dal carcere una volta a settimana fino a ottobre (per un totale di 15 permessi) è arrivata dopo aver scontato 12 anni di carcere, sui 20 della condanna. Una concessione che ora è stata rivista a causa della “gravità delle esternazioni e l’assenza di consapevolezza” del detenuto, che ha dimostrato di non aver “compreso il significato” della condanna svalutando il processo, il percorso di reinserimento e la “figura della donna”.

Parolisi e le frasi incriminate fuori dal carcere

Prolisi, fuori dal carcere milanese si era sfogato ed era stato ripreso dalle telecamere della trasmissione Chi l’ha visto.  L’ex militate ha scaricato su Melania la responsabilità delle sue “scappatelle” con amanti compresa l’ultima, quella con Ludovica, la soldatessa della caserma Clementi di Ascoli dove lui lavorava come istruttore. “Non avrei mai lasciato Melania per Ludovica, anche se a mia moglie rimprovero di avermi lasciato solo troppo spesso, andando dalla madre in Campania o facendo venire su lei e noi non potevamo avere più rapporti” ha detto Parolisi. E ancora: “Le davo ogni mese 500 euro sui 1.300 che guadagnavo: se non è amore questo…”. Tutte dichiarazioni che hanno fatto cambiare idea ai giudici sul percorso di “di reinserimento e riabilitazione sociale graduale e concreto” del detenuto.

La coppia viveva a Folignano, in provincia di Ascoli, insieme alla loro figlioletta Vittoria (affidata ai nonni materni che vivono in Campania): l’omicidio della donna risale al 18 aprile 2011: Melania fu trovata morta a Ripe di Civitella, nel Teramano.

Chiedo solo di rivedere mia figlia Salvatore Parolisi nel 2011. Panorama il 06 Luglio 2023

Come Eravamo. Da Panorama del 26 ottobre 2011. Il caporal maggiore accusato dell’omicidio della moglie invia una lettera dal carcere tramite i suoi avvocati Nicodemo Gentile e Chiedo solo di rivedere mia figlia

In cella, confessa il militare, il pensiero va sempre alla sua bambina di 2 anni. Nel carcere le giornate si somigliano tutte, hanno tutte lo stesso colore quando c’è pioggia. Sono grigie, quando c’è sole sono ancora più grigie. Il tempo non finisce mai, le ore sono più lunghe delle giornate, i minuti sembrano ore, pesanti come pietre. In carcere si pensa tanto, tantissimo. Penso a mia figlia, solo Dio sa come sto soffrendo ora. Anche prima di entrare in carcere soffrivo quando me ne privavo per rincuorare la famiglia Rea e ora sono proprio loro che impediscono a me di vederla senza alcun valido motivo. Tutto ciò è profondamente ingiusto, sto sopportando, non so fino a quando, solo perché pensando a mia moglie so quanto dispiacere le avrei dato se avessi privato i suoi familiari della gioia di vedere mia figlia e perché non voglio assolutamente che lei sia al centro di assurde contese che le farebbero solo male. Pertanto, aspetto, augurandomi che il buon senso almeno con riguardo alla bambina prevalga. Penso alla mia posizione e sento rabbia. Non capisco perché continuano a far passare un’immagine di me che non mi appartiene. Vigliaccamente proiettano atti e video che servono soltanto a infangare la mia persona, utilizzando comparse pronte a parlare in ogni momento e a qualsiasi ora pur di apparire. Penso invece che non parlino mai di un’indagine che, oltre a scoprire un tradimento, per il quale pubblicamente ho chiesto scusa a Dio, al mondo e soprattutto intimamente, ogni giorno, a mia moglie, altro non dice, anche perché sono 6 mesi che sentono sempre le stesse persone che dicono sempre le stesse inutili cose. Continuerò a difendere la mia assoluta innocenza. Sono convinto che prima o poi i giudici mi ascolteranno e riconosceranno le mie ragioni. Salvatore Parolisi

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I legali contro la procura: «Inchiesta avvitata su se stessa» Il 25 gennaio sarà un giorno importante per l’inchiesta sull’omicidio di Melania Rea, che vede come unico indagato il caporal maggiore dell’Esercito Salvatore Parolisi, marito di Melania. Quel giorno, in Cassazione, si discuterà il ricorso dei difensori del militare, gli avvocati Walter Biscotti e Nicodemo Gentile, presentato contro il provvedimento del Tribunale del riesame dell’Aquila che ha confermato la custodia in carcere per il militare. I legali insisteranno su alcuni punti fondamentali che fino a oggi hanno caratterizzato la difesa. A cominciare dall’ora della morte di Melania, lo scorso 18 aprile, fissata dalla procura tra le 14.30 e le 15.10, in base a relazioni tecniche che i consulenti della difesa considerano troppo discordanti. Un altro argomento centrale dello scontro processuale è il dna: non si sa ancora a chi appartenga quello femminile trovato sotto un’unghia di Melania, né quello maschile sul corpo. Inoltre, vennero recuperati cinque capelli che non appartengono a Melania o a Salvatore; e sono ancora avvolte nel mistero pure la misteriosa impronta di scarpa trovata accanto al cadavere e le tracce di pneumatici sul luogo del delitto. In sostanza, Biscotti e Gentile puntano il dito contro la procura: trascurando elementi importanti, si starebbe avvitando dietro l’ascolto degli stessi testimoni, e dietro un movente ritenuto debole, quello del tradimento. «Parolisi» dicono «non era tra due fuochi, non vedeva l’amante (l’allieva Ludovica Perrone, ndr) da mesi, pochi giorni prima avrebbe avuto contatti intimi con Melania». Anche sul presunto vilipendio del cadavere, vista la totale assenza di indizi che dimostrino un ritorno di Parolisi sul luogo del delitto (il bosco di Ripe di Civitella, nel Teramano), i legali promettono battaglia. Tutti i movimenti del caporal maggiore dal 18 al 20 aprile, spiegheranno in Cassazione, sono stati passati al setaccio. Conclusione della difesa: Parolisi non può avere mentito. Da sinistra, Walter Biscotti e Nicodemo Gentile.

Parolisi a ‘Chi l’ha visto?’: “Potevo uscire da 4 anni. Melania era bellissima”. By adnkronos su L'Identità il 5 Luglio 2023

(Adnkronos) – “Potevo uscire 4 anni fa. Mi hanno dato dodici ore di permesso dopo dodici anni…”. Parla per la prima volta con 'Chi l'ha visto?' Salvatore Parolisi, condannato per l'omicidio della moglie Melania Rea. E ammette di averla tradita più volte. "Con Ludovica era una solo una scappatella, Melania era bellissima", ha detto ancora. Sulla possibilità di uscire dal carcere: "Mi mancano 4 anni l'anno prossimo, se trovassi un lavoro potrei uscire. Ma chi me lo dà? Quando sentono il mio nome e cognome scappano". Parolisi, in permesso premio, ha parlato per la prima volta dopo la condanna in via definitiva per l’omicidio della moglie. Parolisi, che ha scontato 12 dei 20 anni di carcere previsti dalla sentenza di condanna, può ora usufruire dei permessi giornalieri e lasciare la struttura carceraria dove è recluso. 

“Potevo uscire 4 anni fa. Mi hanno dato dodici ore di permesso dopo dodici anni…”, parla per la prima volta Salvatore Parolisi, condannato per l'omicidio della moglie Melania Rea.

Parolisi torna libero e continua a mentire: “Ho tradito Melania ma non l’ho uccisa”. Rita Cavallaro su L'Identità il 6 Luglio 2023 

“Ho tradito Melania ma non l’ho uccisa, con Ludovica era solo una scappatella”. Salvatore Parolisi continua a mentire, a negare ogni responsabilità nell’uccisione di sua moglie Melania Rea, ammazzata il 18 aprile 2011 a Colle San Marco, in provincia di Ascoli Piceno. Camicia bianca, tracolla in spalla e quella solita maschera da bravo ragazzo, come quando andava a piangere in tv perché qualcuno aveva ucciso la sua Melania. Nonostante sia ritenuto un detenuto modello nel carcere di Bollate, dove il caporal maggiore dell’Esercito sta scontando la sua condanna a vent’anni per l’assassino della consorte, il suo percorso riabilitativo sembra lontano dall’essere portato a compimento. Perché tra gli obiettivi della rieducazione dovrebbe esserci quello dell’accettazione della condanna che presuppone, di conseguenza, l’ammissione delle proprie responsabilità. E dopo dodici anni di reclusione l’atteggiamento di Parolisi, che da carnefice ha recitato sempre la parte della vittima, non appare molto cambiato, davanti alle telecamere di “Chi l’ha visto?”, il programma di RaiTre condotto da Federica Sciarelli. La troupe ha intercettato Parolisi fuori dal penitenziario, mentre camminava come un uomo libero qualunque. Ha infatti cominciato a usufruire dei permessi premio previsti dalla legge, in virtù del fatto che il militare è considerato un detenuto modello, che lavora come centralista e durante il suo percorso non ha mai mostrato comportamenti inappropriati, anzi ha intrapreso un corso di laurea in Giurisprudenza, con il desiderio di diventare avvocato.

E davanti alla telecamere ha sfoggiato le sue doti affabulatorie da avvocato provetto, mettendo in scena una difesa che contrasta con le tre sentenze di condanna quale assassino di Melania e con il fine rieducativo della detenzione. “Ho tradito Melania, l’ho tradita più volte, ma non l’ho uccisa”, sono state le sue prime parole dopo dodici anni di silenzi, aggiungendo che con l’amante Ludovica, la soldatessa con cui aveva una relazione extraconiugale, “era solo una scappatella”. Alla domanda della giornalista, che gli chiedeva se fosse in permesso premio, Parolisi si è lamentato sottolineando che “ho avuto un permesso premio di 12 ore dopo 12 anni”. E ha piagnucolato: “Sarà dura con il mio nome, c’è chi ha pregiudizi, chi no. Se trovassi un lavoro potrei uscire, ma chi me lo dà un lavoro, appena sentono il mio nome scappano”. Parole che hanno suscitato critiche e riaperto il dolore della famiglia Rea, che ormai da tempo combatte contro la possibilità che al caporal maggiore vengano riconosciuti sconti di pena. Una famiglia che non ha mai perdonato Salvatore per quello che ha fatto a Melania, vittima di un castello di bugie e tradimenti costruito dal militare che portava avanti una doppia vita: marito e padre devoto con i Rea, single e pronto a impegnarsi seriamente con la sua amante Ludovica. E quando Parolisi non è stato più in grado di recitare due parti in commedia, ha messo in atto la tragedia, scegliendo di uccidere sua moglie, diventata un ostacolo alla sua felicità, e di rendere orfana di madre la figlia Vittoria, all’epoca di soli 18 mesi.

Quel terribile 18 aprile 2011 Parolisi andò con la povera Melania nel bosco di Ripe di Civitella e la uccise con 35 coltellate, accanendosi sul cadavere seminudo per sviare le indagini. Poi denunciò la scomparsa della donna, depistando prima le ricerche e in seguito l’inchiesta per omicidio. Quando i messaggi su Facebook e le intercettazioni portarono alla luce la relazione con Ludovica, il cerchio si strinse attorno al marito, inchiodato dall’ultimo bacio, quello della morte, che aveva dato a Melania. In primo grado fu condannato all’ergastolo, ma caduta l’aggravante della crudeltà la pena è stata fissata a vent’anni.

"Troppi pregiudizi...". Parolisi in permesso premio lascia il carcere. Parolisi ha trascorso in carcere 12 dei 20 anni che gli sono stati comminati dalla Cassazione come pena per l'accusa di omicidio dei confronti della moglie, Melania Rea. Francesca Galici il 5 Luglio 2023 su Il Giornale.

Intervista esclusiva rilasciata da Salvatore Parolisi, l'ex militare condannato in via definitiva per l'omicidio della moglie, Melania Rea, a Chi l'ha visto durante uno dei permessi premio di cui può godere dopo aver scontato 12 dei 20 anni di carcere previsti dalla sua condanna definitiva. "Troppi pregiudizi...", così dice l'uomo alla giornalista del programma di Rai 3 che l'ha raggiunto durante una delle uscite che gli sono concesse. Viene considerato un detenuto modello e per la buona condotta nel nostro ordinamento sono previsti dei benefit.

L'omicidio, la detenzione, il futuro: "Parolisi detenuto modello"

Salvatore Parolisi, che oggi dice che "sarà dura" col suo nome ricominciare una nuova vita, nonostante stia pagando il suo conto con la giustizia. Gli italiani non hanno dimenticato quanto accaduto il 18 aprile del 2011, quando Melania Rea, moglie di Parolisi, scomparve nel nulla a Colle San Marco, in provincia di Ascoli Piceno. Fu lo stesso militare a chiamare i soccorsi, raccontando che sua moglie non era più reperibile. I due, insieme alla loro figlia, allora bambina, stavano facendo una gita nel bosco quando, all'improvviso, Parolisi perse le tracce della moglie. Il corpo della donna venne ritrovato all'interno del bosco, vicino a un punto ristoro, due giorni dopo la denuncia di scomparsa e i marito diventò il principale sospetto. Nonostante gli appelli in tv, Parolisi spente le telecamere telefonava alla sua amante e le chiedeva di mentire per sostenere le sue tesi. Inoltre, mentre le forze dell'ordine erano impegnate a cercare la moglie, lui era in caserma per cancellare le tracce dei suoi tradimenti su Facebook. Questi, e altri atteggiamenti sospetti hanno acceso i riflettori suo suo comportamento. Parolisi non si è mai professato colpevole.

Durante la reclusione, Parolisi si è iscritto all'università e ha dato 7 esami presso la facoltà di Giurisprudenza. Pare che abbia sempre tenuto un basso profilo durante gli anni di permanenza in carcere e che abbia iniziato a lavorare come centralinista, dimostrandosi ligio ai suoi doveri. Si sa poco altro della sua reclusione, ma tra le poche certezze emerge l'impossibilità di sentire sua figlia Vittoria, che oggi vive con i nonni ed è ormai adolescente. Aveva un anno e mezzo quando sua madre è scomparsa e a seguito dell'iter giudiziario Parolisi ha perso ogni diritto su di lei, non avendone più la patria potestà. Inoltre, pare che la ragazzina, che oggi vive a Somma Vesuviana, abbia chiesto e ottenuto di poter cambiare cognome per non portare più quello del padre, un macigno troppo pesante per i suoi trascorsi.

In permesso premio. Salvatore Parolisi ‘libero’ dopo 12 anni di carcere per l’omicidio della moglie Melania Rea: “Sarà dura, ci sono pregiudizi”. Redazione su L'Unità il 5 Luglio 2023

Salvatore Parolisi parla per la prima volta davanti alle telecamere tv dopo la condanna definitiva per l’omicidio della moglie, Melania Rea. L’ex militare, che ha scontato 12 dei 20 anni di carcere previsti dalla sentenza di condanna, è stato “intercettato” dagli inviati della trasmissione di Rai3 ‘Chi l’ha visto’ all’esterno del carcere milanese di Bollate, dove sta scontando la pena.

Parolisi sta godendo infatti di permessi premio per la sua condotta da detenuto “modello”: lavora, come anticipa il Corriere della Sera, come centralinista e può dunque lasciare la struttura carceraria dove è recluso. Proprio durante la detenzione Parolisi ha dato una ‘sterzata’ alla sua vita: si è iscritto alla facoltà di Giurisprudenza alla Statale di Milano, dando anche diversi esami, ma nel frattempo ha perso completamente i contatti con la figlia Vittoria, di cui non ha più la responsabilità genitoriale. Oggi la ragazzina vive con i nonni a Somma Vesuviana, in provincia di Napoli, e non porta più il cognome del padre.

“Sarà dura, perché il nome….è un po’ così“, afferma Parolisi incalzato dalla cronista della Rai che gli chiede come sarà fuori dalla prigione. “Poi c’è chi ha pregiudizi, chi invece no, quindi insomma è un po’…“, continua Parolisi, poi il promo s’interrompe e rimanda l’appuntamento alle 21.20 di stasera.

L’omicidio

Carmela Rea, detta Melania, svanisce nel nulla il 18 aprile 2011 in provincia di Ascoli Piceno. La scomparsa della 29enne, madre di una bambina di 18 mesi, Vittoria, viene denunciata dal marito Salvatore, caporalmaggiore dell’esercito in servizio al 235° RAV di Ascoli Piceno. La coppia, entrambi sono campani, era in realtà in crisi da tempo: mentre nella zona si attivano le ricerche di Melania, il marito si occuperà di cancellare il profilo Facebook utilizzato per mantenere i contatti e chattare con l’amante, una soldatessa dell’esercito.

Due giorni dopo la denuncia, una telefonata anonima segnala la presenza di un corpo nel bosco delle Casermette a Ripe di Civitella del Tronto: è quello di Melania, trovata seminuda e sfigurata da 29 coltellate. I sospetti virano subito sul marito militare, che nega ogni accusa di omicidio e anche di avere una relazione extraconiugale. Il 21 giugno Parolisi viene formalmente iscritto nel registro degli indagati, il 19 luglio arrestato: lui continua a ribadire di non aver ucciso la moglie, ammettendo di averla tradita.

In tribunale Parolisi viene condannato in tutti i gradi di giudizio, ma con pene via via più lievi: ergastolo in primo grado, 30 anni in Appello e 20 in Cassazione, con i giudici che non riconoscono l’aggravante della crudeltà nonostante le 29 coltellate sferrate alla moglie.

Quanto al movente, i giudici scrivono che il delitto scaturì “dopo un impeto d’ira, nato da un litigio tra i due coniugi e dovuto alla conclamata infedeltà coniugale dell’uomo”.

La reazione della famiglia Rea

L’evento ha subito scatenato la reazione della famiglia di Melania Rea. Il fratello Michele, in un’intervista a Il Centro, ha dichiarato: “In tv ripeterà che è innocente, che non ha ucciso. Ma niente potrà cancellare quello che ha fatto. Pensare che lo dirà ancora una volta ci addolora e ci fa tanta rabbia. Può dire quello che vuole, ma ci sono tre sentenze, tre gradi di giudizio che stabiliscono che lui ha ucciso mia sorella lasciandola agonizzante, colpendola mentre la figlioletta era in macchina“.

“Dopo l’omicidio di Melania – ha continuato – la mia famiglia ha fondato un’associazione contro la violenza sulle donne perché l’attenzione resti sempre alta, ma è lo Stato che deve fare di più. Invece resta al balcone a guardare gli omicidi che aumentano, a fare sconti agli assassini che possono rifarsi una vita. Ma alle vittime chi ci pensa?“. Redazione - 5 Luglio 2023

Salvatore Parolisi in libertà dopo 12 anni in carcere. A «Chi l’ha visto» dice: «Ho tradito Melania più volte ma non l’ho uccisa. Con Ludovica solo una scappatella». Valentina Baldisserri su Il Corriere della Sera il 5 Luglio 2023

Il 18 aprile 2011 la donna sparì nel nulla a Colle San Marco (Ascoli Piceno). La denuncia del marito, poi due giorni dopo il ritrovamento del cadavere. Parolisi, unico indagato per il delitto, è stato condannato a 20 anni, ma si è sempre professato innocente 

Salvatore Parolisi, condannato a 20 anni di carcere per l’uccisione della moglie Melania Rea, per la prima volta dopo anni di silenzio (e di carcere) ha parlato in una intervista esclusiva annunciata dal programma «Chi l’ha visto?» dichiarando: «Ho tradito Melania più volte ma non l’ho uccisa. Con Ludovica è stata solo una scappatella». «Mi hanno dato 12 ore di permesso dopo 12 anni. Se trovassi un lavoro potrei uscire, ma chi me lo dà un lavoro quanto sentono il mio nome e cognome, scappano» ha poi aggiunto.

Parolisi è stato intercettato dagli inviati della trasmissione all’esterno del carcere di Bollate (in provincia di Milano) dove è rinchiuso per scontare la pena. Era in permesso premio perché la sua condotta pare essere quella di un detenuto “modello”, lavora come centralinista, mai un comportamento inappropriato. Per questo da qualche tempo può usufruire dei permessi giornalieri. Ed è inevitabilmente alta la curiosità per questa intervista ad un uomo che dal 2011 alla condanna diventò (suo malgrado) un personaggio mediatico. In tv piagnucolava per sua moglie poi, fuori dagli studi, telefonava all’amante chiedendole di mentire.

Come sarà cambiato nel corso di questi 12 anni trascorsi in carcere l’ex caporalmaggiore dell’esercito? Cosa dirà dopo tanti anni di totale chiusura al mondo esterno?

Detenuto “modello”

Di lui si sa per certo che ha cercato di dare una sterzata alla sua vita, ha voluto ricominciare daccapo, come se si potesse cancellare tutto. Ha intrapreso un percorso di studi, si è iscritto alla facoltà di giurisprudenza alla Statale di Milano, ha dato sette esami. Tutto il resto è avvolto nel buio più totale. Di sicuro non può più vedere né sentire sua figlia Vittoria, di cui da tempo ha perso la patria potestà. La piccola, che al momento dei tragici fatti aveva 18 mesi, vive con i nonni materni a Somma Vesuviana e non porta più il cognome del padre. Ha ottenuto di cancellare dalla sua carta di identità il passato, ora per tutti è Vittoria Rea. Scrisse il Tribunale per i minorenni di Napoli spiegando il provvedimento che toglieva al militare la potestà genitoriale sulla figlia: «In assoluto disprezzo delle drammatiche conseguenze per la figlia, veniva dal Parolisi Salvatore uccisa la madre della minore con la figlia probabilmente in macchina, si spera addormentata».

Bugie e tradimenti: la vicenda

Quella di Salvatore Parolisi e Melania Rea è la storia di un marito e di una moglie campani, di un matrimonio in crisi, di lui che ha una relazione extraconiugale da tempo e non sa come uscirne. Il canovaccio non è originale. Bugie e tradimenti da una parte, dall’altra una moglie che sa ma spera di salvare l’unione. Il finale è un delitto tra quelli più tragici che la cronaca abbia raccontato.

È il 18 aprile 2011 quando Carmela Rea, detta Melania, 29 anni, madre di una bambina di 18 mesi, sparisce nel nulla in provincia di Ascoli Piceno. A denunciarne la scomparsa è il marito, Salvatore Parolisi, caporalmaggiore dell’esercito. «Eravamo andati a fare una gita al Pianoro di Colle San Marco. Io ero con nostra figlia alle altalene, mia moglie si è allontanata per andare in bagno e non è più tornata», dirà al proprietario di un bar proprio davanti alle giostre. Un racconto strano, sin dall’inizio. Nella prima telefonata ai carabinieri il caporalmaggiore dirà: «Se la sono pigliata». 

La svolta

Alle ricerche Parolisi non partecipa. Si scoprirà poi che passa quelle ore in caserma a cancellare il profilo Facebook con il quale chattava con l’amante, la soldatessa Ludovica P. . Gli audio concitati con lei, la sequenza drammatica delle telefonate per convincerla a sconfessare la loro relazione, saranno determinanti per tracciare il quadro. Secondo gli inquirenti Parolisi aveva promesso a Ludovica un futuro insieme. Lei lo voleva presentare ai suoi. Per Salvatore, sua moglie Melania era l’ostacolo alla felicità.

Il mistero della scomparsa trova la svolta due giorni dopo grazie a una telefonata anonima: «C’é un corpo vicino al chioschetto del Bosco delle Casermette a Ripe di Civitella del Tronto». 

Il corpo sfigurato

Quel corpo è di Melania: è seminuda, uccisa e sfigurata con 35 coltellate. Salvatore Parolisi viene messo sotto torchio ma nega qualsiasi cosa, nega anche di avere una relazione extraconiugale. Verrà intercettato nei giorni a seguire e i sospetti troveranno conferma. Secondo l’accusa, la coppia, con la bambina in auto, non si fermò mai alle giostre ma si diresse verso Ripe di Civitella (Teramo). Melania, venne aggredita alle spalle dal marito, cercò di fuggire ma non ci riuscì perché impedita dai pantaloni abbassati (stava facendo pipì). 

Dall’ergastolo a 20 anni (senza aggravante)

Il 21 giugno 2011 Il marito di Melania viene iscritto nel registro degli indagati con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Sconvolti i familiari di Melania che non avrebbero mai pensato di avere di fronte un mostro. Lui si difende: «Sono innocente, ho tradito Melania ma non l’ho uccisa». Il 19 luglio Parolisi viene arrestato e si chiude nel silenzio. La bufera è totale, la famiglia Rea chiede l’affidamento della piccola Vittoria .

Nei vari interrogatori che seguono il caporalmaggiore si avvale della facoltà di non rispondere. Il Gup dà l’ok al giudizio immediato: il 19 ottobre 2012 inizia il processo, la sentenza sarà ergastolo. La pena ridotta poi in appello a 30 anni e poi definitivamente a 20 anni in Cassazione. I giudici non riconoscono l’aggravante della crudeltà, nonostante le coltellate che hanno sfigurato la povera 29enne. Nelle motivazioni si dice che il delitto scaturì «dopo un impeto d’ira, nato da un litigio tra i due coniugi e dovuto alla conclamata infedeltà coniugale dell’uomo». Il l movente sarebbe da ricercare in «quell’imbuto nel quale Parolisi sarebbe stato inghiottito».

L'omicidio, la detenzione, il futuro: "Parolisi detenuto modello". L'ex caporal maggiore fu condannato per l'omicidio della moglie Melania Rea, nel 2011, ma si è sempre professato innocente. L'avvocato: "C'erano delle piste alternative che non sono state valutate". Rosa Scognamiglio e Angela Leucci il 27 Giugno 2023 su Il Giornale. 

Tabella dei contenuti

 Chi è Salvatore Parolisi

 L'omicidio di Melania Rea

 Dopo la condanna

Un omicidio, il carcere, la perdita della carriera e della potestà genitoriale. E poi gli studi in galera, oltre che una nuova prospettiva in vista del fine pena. Salvatore Parolisi, 45enne ex caporalmaggiore dell'Esercito condannato per l'omicidio della moglie Melania Rea, compiuto nel 2011, non ha mai lontanamente ammesso di aver compiuto il delitto.

Ma dov'è e che cosa fa oggi? "Salvatore è ancora recluso nel carcere di Bollate. Lavora come centralinista all'interno del penitenziario e sta studiando Giurisprudenza all'Università di Milano - racconta a IlGiornale.it il suo legale Antonio Cozza - Il fine pena con i giorni di liberazione anticipata è previsto per il 2029. È sempre stato un detenuto modello e quindi, man mano, potrebbe ottenere la semilibertà e tutta una serie di benefici, restando sempre sottoposto al controllo delle autorità". Tuttavia finora pare non abbia mai chiesto permessi premio: "Salvatore è nella condizione di poter chiedere dei benefici. Ha maturato quei requisiti che la legge richiede perché ciò avvenga. Se continua quest'ottimo percorso all'interno del carcere, sicuramente a breve potrà avere dei benefici".

Chi è Salvatore Parolisi

Classe 1978, l'uomo era un caporal maggiore capo dell'Esercito Italiano. Sposato con Carmela Rea, detta Melania, la coppia aveva una figlia, oltre che un altro figlio da precedente relazione. Strinse un legame con una sua allieva di nome Ludovica, che aveva 26 anni, ma Parolisi ebbe anche rapporti occasionali anche con altre allieve. Nei messaggi inviati a Ludovica prometteva che avrebbe lasciato la moglie: "Tu sei la cosa più importante, non preoccuparti i nostri accordi non vanno per le lunghe, massimo una settimana poi dovrà sparire dalla mia vista". La sentenza della Cassazione nei confronti di Parolisi fu lapidaria: "la situazione creatasi nel rapporto dell'imputato con le due donne" avrebbe contribuito a costituire "l'humus psicologico per lo scatenamento della sua furia e, propiziato dal fatto che la povera vittima era stata avvertita come un fastidioso ostacolo e come un pericolo per la sua carriera".

L'omicidio di Melania Rea 

Melania Rea scomparve il 18 aprile 2011, all'età di 29 anni. Fu Parolisi a chiamare soccorsi, entrando in un bar e affermando di non aver visto la moglie tornare dopo aver detto di aver bisogno di una toilette. Due giorni dopo, il corpo di Rea fu trovato nel bosco delle Casermette a Ripe di Civitella. Sul suo cadavere ben 35 ferite, di cui 6 a forma di svastica, eseguite con un coltello a lama monotagliente, come riporta il sito della Polizia Penitenziaria. Il 21 giugno successivo Parolisi venne iscritto nel registro degli indagati: molti dei suoi atteggiamenti, tra cui la richiesta fatta a Ludovica di cancellare i messaggi scambiati, allertarono gli inquirenti e l'uomo il 18 luglio venne arrestato.

C'è chi ritiene Parolisi innocente. "Le indagini hanno sempre presentato delle lacune importanti. C'erano delle piste alternative che non sono state valutate in modo approfondito - elenca il legale Cozza - C'erano tracce sul luogo del delitto riconducibili a terze persone. Tipo un'impronta di scarpa di misura piccola o una perla sulla calza di Melania. Dati che forse avrebbero potuto portare anche a una pista femminile. Ma ormai è acqua passata, accettiamo la decisione dei giudici e andiamo avanti. Anche perché non abbiamo intenzione di chiedere una revisione".

Parolisi fu condannato all'ergastolo nel 2012, con le pene accessorie dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici, interdizione legale e decadenza dalla potestà genitoriale. La pena fu poi ridotta a 20 anni in appello nel 2015, e infine confermata in Cassazione, dove venne esclusa l'aggravante della crudeltà. Parolisi, che tuttavia si è sempre professato innocente, avrebbe colpito Rea con rabbia e rancore, dopo averla portata a passeggiare con la figlia in un luogo a lui noto poiché aveva in passato compiuto lì delle esercitazioni militari. Secondo la ricostruzione, l'uomo si voleva liberare della moglie senza conseguenze: pare che Rea, figlia a propria volta di un militare, avrebbe promesso ripercussioni dopo aver scoperto la relazione extraconiugale del marito. "Ancora oggi si dichiara estraneo a quello che è accaduto a Melania", sottolinea però il suo avvocato.

Dopo la condanna 

A giugno 2016, a seguito dell'appello di Gennaro Rea, padre della vittima, Parolisi venne di fatto estromesso dall'esercito e spostato, come riporta Il Gazzettino, da un carcere militare a un carcere civile. "Gentile signor Rea - scrisse all'epoca il generale Alberto Rosso - Le comunico che in data 16 giugno 2016 la Direzione generale per il personale militare ha decretato la perdita di status militare di Salvatore Parolisi nonché la cessazione del rapporto di impiego con l'Amministrazione della Difesa a far data dal 13 luglio 2016. Il trasferimento di Parolisi presso un istituto di pena civile verrà eseguito una volta disposto dalla competente Procura Generale di Perugia, già in tal senso formalmente interessata da codesto ministero".

"Parolisi e Melania Rea? Una congiura femminile" Ma i dubbi sono pochi

Nel 2017 il tribunale per i minori di Napoli ha dato corso alla decadenza della potestà genitoriale per Parolisi, poiché "in assoluto disprezzo delle drammatiche conseguenze per la figlia, veniva dal Parolisi Salvatore uccisa la madre della minore con la bimba probabilmente in macchina, si spera addormentata": la giovane Vittoria, che intanto ha cambiato cognome, è infatti stata affidata dal primo momento proprio a nonno Gennaro Rea e alla nonna Vittoria, come si legge su Il Resto del Carlino.

La famiglia di Melania Rea non sa nulla di Parolisi. Il fratello della donna, Michele Rea, aveva confidato a Leggo, ad aprile 2023, che "Quella stessa legge che prevede tanti diritti, a noi non consente di sapere nulla su di lui. Non credo che quando uscirà dal carcere verrà a cercare sua figlia perché se ci avesse tenuto a lei, noi adesso non staremmo neanche parlando e Melania sarebbe ancora viva".

Parolisi quindi, che dal 2020 ha deciso di studiare Giurisprudenza, non ha visto la figlia da allora. "Salvatore non ha contatti con sua figlia - conclude Cozza - Non per sua scelta ma perché è decaduta la potestà genitoriale. C'erano stati dei momenti in cui il Tribunale dei Minori aveva autorizzato gli incontri con la bambina ma non è mai accaduto che si incontrassero. Ripeto, non per scelta del mio assistito. Ci sarà tempo e modo, quando e se la figlia vorrà, di incontrarla".

Da corriere.it il 13 Gennaio 2023.

Violetta Caprotti, figlia di Bernardo, lo storico fondatore dei supermercati Esselunga morto nel 2016, sarebbe stata vittima di un furto o di una truffa da 3 milioni e mezzo di euro, ovvero il valore del suo diamante originale sostituito con un falso. Un mistero su cui da mesi sta indagando la procura di Milano in seguito alla denuncia della donna, che venerdì 13 gennaio è stata sentita dai magistrati. L'inchiesta per arrivare a scoprire chi si è portato via la pietra preziosa, a quanto pare un regalo del padre. 

Stando alle ricostruzioni, Violetta Caprotti aveva portato il diamante, incastonato in un anello, dal rivenditore dove era stato acquistato per farlo pulire. I responsabili del negozio, però, l'hanno successivamente contattata  per dirle che la pietra falsa. L'indagine sarebbe nata proprio da un contenzioso tra Violetta Caprotti e il rivenditore che, tuttavia, ha sempre sostenuto che quel diamante era arrivato in negozio già falso. Gli inquirenti stanno lavorando per capire quando il prezioso è stato sostituito con un «tarocco» e da chi. Il fascicolo risulta a carico di ignoti.

Violetta Caprotti e il diamante da 3,5 milioni sostituito: «Da Cartier mi hanno detto che è un falso».  Giusi Fasano e Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

Milano, la donna ha denunciato il caso ed è stata ascoltata in Procura. 

Ma anche la Casa produttrice ha presentato un esposto contro ignoti, sostenendo che il gioiello ricevuto era uno zircone. Chi l'ha sostituito? 

Questa è la storia di un anello. Un bellissimo anello di platino sul quale è montato un diamante da 13,4 carati. Casa di produzione: Cartier, valore tre milioni e mezzo di euro. La sola donna che lo abbia mai indossato si chiama Violetta Caprotti ed è la prima figlia di Bernardo, lo scomparso patron di Esselunga. Suo padre glielo aveva regalato tanti anni fa e lei giura di averlo sempre custodito con gran cura: sempre casseforti, sempre combinazioni che stanno soltanto nella sua testa. E se lo ha mostrato al mondo, qualche volta, è stato soltanto per occasioni davvero speciali. Come quel ricevimento dalla regina Elisabetta... Ma un giorno di fine gennaio del 2022 Violetta riceve una telefonata. L’anello, le dicono, non vale più tre milioni e mezzo ma una manciata di euro. Perché il preziosissimo diamante è stato sostituito da una pietra zircone. Fine del luccichìo. E inizio di un giallo che più giallo non si può.

L’incipit di questo racconto risale a Natale del 2021. Violetta Caprotti organizza una cena nella sua casa di Milano. «Vorrei cambiare la montatura a quell’anello che mi aveva regalato papà», dice all’amica che è una delle più alte responsabili della Cartier Italia. «Lo facciamo appena passano le feste», assicura lei. E così il 3 gennaio in quella casa nel cuore di Milano si presentano un uomo e una donna inviati da Cartier. Verificano il numero di matricola sull’anello, prendono il pacchetto e lo consegnano a un corriere specializzato perché lo porti in negozio, in via Montenapoleone. Qui il diamante finisce nelle mani del responsabile del caveau blindato, il quale a sua volta lo porta all’analista di laboratorio che esamina tutte le gemme in entrata.

Colpo di scena: il diamante non è «più» un diamante ma è «diventato», appunto, uno zircone, una pietra di scarso valore. Gli esperti quasi non ci credono. Ripetono gli esami a Milano e poi alla casa madre, a Parigi. Niente da fare: è sempre zircone. Non resta che avvisare la proprietaria che, ovviamente, si irrita non poco, anche perché sono passati già circa venti giorni. Chi, quando e come ha fatto la sostituzione? Un impiegato infedele della Maison di lusso? Il corriere? Uno degli analisti? O quello dato da Caprotti a Cartier era già una copia sostituita di cui non si era accorta?

Partono lettere e contro-lettere tra avvocati e notai, finché sia Cartier sia Caprotti denunciano la sostituzione in due separati esposti in Procura. Entrambi contro ignoti. Ma in quella di Caprotti si intuisce che ritenga Cartier il luogo dello scambio, in quella di Cartier si intuisce che l’ipotesi sia una sostituzione avvenuta invece nel contesto familiare-sociale di Violetta Caprotti. Comunque la si voglia vedere, in questa storia c’è senza dubbio qualcuno che ha truffato. E infatti a Milano il procuratore aggiunto Eugenio Fusco e la pm Maura Ripamonti indagano per truffa. Ma sinora a carico di ignoti, perché venire a capo del rebus è arduo anche dopo aver interrogato un gran numero di testimoni. 

Nel 2018, ad esempio, Violetta aveva subìto nella sua casa di Londra un furto molto particolare: Scotland Yard non aveva trovato impronte o scasso sulla cassaforte, dalla quale però incredibilmente i ladri avevano portato via altri due anelli (tra cui uno zaffiro di valore) ma non il super diamante. L’hanno lasciato lì per errore? O astutamente sostituito in quel frangente, e Caprotti non si è mai accorta? Non lo lasciava mai incustodito, ripete. Salvo quando in pandemia andò in vacanza alle Bahamas e lo depositò in una delle super cassette di sicurezza di Harrod’s, di cui aveva solo lei la chiave.

Quell’anello, comunque, ha visto i laboratori di Cartier almeno un’altra volta. In cerca di risposte al rompicapo, i dirigenti di Cartier hanno infatti riesumato registri immodificabili del 2014: così si è scoperto che Violetta lo aveva già portato in laboratorio per allargarlo nel 2014 da 52 a 60 di misura, ma dopo il preventivo aveva deciso di rinunciare. Che lo abbia portato da qualcun altro e la truffa sia avvenuta da questo «qualcun altro»? Caprotti prima esclude l’episodio del 2014, poi di fronte alle proprie firme dice di non ricordare, ma ribadisce di non averlo mai fatto modificare da alcuno. Eppure — ulteriore mistero — l’anello risulta davvero modificato nella larghezza: da 52 a 54 e mezzo. Il che aggiunge «giallo» al «giallo», che fa sempre più ombra al luccichìo del diamante perduto.

Sparito un diamante da 3 milioni e mezzo a Violetta Caprotti. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 14 Gennaio 2023.

L'indagine sarebbe nata proprio da un contenzioso tra Violetta Caprotti e il rivenditore che, tuttavia, ha sempre sostenuto che quel diamante era arrivato in negozio già "falso". Motivo per cui la vicenda è finita al centro di due diversi esposti: uno presentato dalla legittima proprietaria e uno da Cartier. Gli inquirenti ora stanno indagando per capire quando la pietra preziosa sia stata sostituita con lo zircone e da chi

Un diamante del valore stimato di circa 3 milioni e mezzo di euro di proprietà di Violetta Caprotti, figlia di Bernardo, lo storico fondatore dei supermercati Esselunga, morto nel 2016, è stato sostituito con uno falso. Da qui una denuncia sulla scomparsa della pietra preziosa. È un vero rebus investigativo poter determinare se si sia trattato di un furto o di una truffa, sul quale sono al lavoro gli inquirenti milanesi che da mesi hanno aperto un’inchiesta per arrivare a scoprire che fine ha fatto quel diamante di così grande valore.

Ieri mattina negli uffici della procura di Milano è stata sentita proprio Violetta Caprotti, accompagnata al Palazzo di Giustizia dai suoi legali, in veste di testimone e denunciante. Secondo quanto è stato possibile ricostruire sull’indagine che viaggia “coperta” almeno dalla primavera scorsa, coordinata dal pool truffe e condotta dalla Polizia Giudiziaria della Procura milanese, nel 2021 la figlia del fondatore di Esselunga aveva portato il diamante, incastonato in un anello, dal rivenditore nel quale era stato acquistato in passato (un regalo del padre, pare) per far pulire la pietra.

I responsabili del negozio Cartier, circa una ventina di giorni più tardi però hanno contattata Violetta Caprotti , quando hanno iniziato a lavorare sul diamante. E le hanno recapitato un messaggio inaspettato : quello che doveva essere un diamante da 3 milioni e mezzo di valore era in realtà uno zircone. Le analisi sulla pietra vengono ripetute più e più volte, prima a Milano, poi a Parigi. Ma il risultato è sempre lo stesso. Che fine ha fatto il diamante?

L’indagine sarebbe nata proprio da un contenzioso tra Violetta Caprotti e il rivenditore che, tuttavia, ha sempre sostenuto che quel diamante era arrivato in negozio già “falso“. Motivo per cui la vicenda è finita al centro di due diversi esposti: uno presentato dalla legittima proprietaria e uno da Cartier. Gli inquirenti ora stanno indagando per capire quando la pietra preziosa sia stata sostituita con lo zircone e da chi. Le uniche certezze in questa vicenda al momento sarebbero due: la figlia di Caprotti possedeva una pietra indubbiamente vera, mentre quella che le è rimasta in mano, ad un certo punto, è un falso.

Sostituito dai corrieri specializzati a cui era stato affidato l’anello per essere portato nel negozio milanese di via Montenapoleone? O magari prima, senza che Violetta Caprotti se ne accorgesse? Il faro degli inquirenti, a questo proposito, è puntato anche su un episodio del 2018, quando la donna aveva subito un furto nella sua casa di Londra senza però che l’anello in questione venisse toccato (ne erano stati sottratti altri due di minor valore). Il fascicolo, per il momento, allo stato risulta a carico di ignoti. E neanche l’ipotesi di reato è chiara: furto oppure truffa?

Estratto dell’articolo di Giusi Fasano e Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 14 Gennaio 2023. 

Questa è la storia di un anello. Un bellissimo anello di platino sul quale è montato un diamante da 13,4 carati. Casa di produzione: Cartier, valore tre milioni e mezzo di euro. La sola donna che lo abbia mai indossato si chiama Violetta Caprotti ed è la prima figlia di Bernardo, lo scomparso patron di Esselunga.

[…] un giorno di fine gennaio del 2022 Violetta riceve una telefonata. L'anello, le dicono, non vale più tre milioni e mezzo ma una manciata di euro. Perché il preziosissimo diamante è stato sostituito da una pietra zircone. Fine del luccichìo. E inizio di un giallo che più giallo non si può. […] voleva cambiare la montatura a quell'anello […] il 3 gennaio […] si presentano un uomo e una donna inviati da Cartier. Verificano il numero di matricola sull'anello, prendono il pacchetto e lo consegnano a un corriere specializzato perché lo porti in negozio, in via Montenapoleone. Qui il diamante finisce nelle mani del responsabile del caveau blindato, il quale a sua volta lo porta all'analista di laboratorio che esamina tutte le gemme in entrata.

Colpo di scena: il diamante […] è «diventato […] uno zircone […] Chi, quando e come ha fatto la sostituzione? Un impiegato infedele della Maison di lusso? Il corriere? Uno degli analisti? O quello dato da Caprotti a Cartier era già una copia sostituita […]? Partono lettere e contro-lettere tra avvocati e notai, finché sia Cartier sia Caprotti denunciano la sostituzione in due separati esposti in Procura. […].

 […] Nel 2018 […] Violetta aveva subìto nella sua casa di Londra un furto molto particolare: Scotland Yard non aveva trovato impronte o scasso sulla cassaforte, dalla quale però incredibilmente i ladri avevano portato via altri due anelli (tra cui uno zaffiro di valore) ma non il super diamante. L'hanno lasciato lì per errore? O astutamente sostituito in quel frangente, e Caprotti non si è mai accorta?

Non lo lasciava mai incustodito, ripete. Salvo quando in pandemia andò in vacanza alle Bahamas e lo depositò in una delle super cassette di sicurezza di Harrod's, di cui aveva solo lei la chiave. Quell'anello, comunque, ha visto i laboratori di Cartier almeno un'altra volta. […] Violetta lo aveva già portato in laboratorio per allargarlo nel 2014 da 52 a 60 di misura, ma dopo il preventivo aveva deciso di rinunciare. Che lo abbia portato da qualcun altro e la truffa sia avvenuta da questo «qualcun altro»? Caprotti […] ribadisce di non averlo mai fatto modificare da alcuno. Eppure - ulteriore mistero - l'anello risulta davvero modificato nella larghezza: da 52 a 54 e mezzo. […]

"Mi ha soggiogato": chi è Omar Favaro, ex killer di Novi Ligure. Omar Favaro fu una delle due persone condannate per il delitto di Novi Ligure. Disse di essere stato soggiogato da Erika De Nardo, oggi è accusato dalla ex moglie per una vicenda privata. Rosa Scognamiglio e Angela Leucci il 13 Giugno 2023 su Il Giornale.

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 Il delitto di Novi Ligure

 "Voglio solo vedere mia figlia"

Nel delitto di Novi Ligure furono riconosciute come responsabili due persone. Una è Erika De Nardo, figlia e sorella delle vittime, l'altra è Omar Favaro, fidanzato della prima all'epoca dei fatti. Classe 1983, Favaro fu condannato con rito abbreviato a 14 anni di detenzione, a De Nardo ne furono comminati 16, perché i due furono ritenuti "colpevoli dei reati loro ascritti, ritenuti uniti dal vincolo della continuazione, e applicata ad entrambi la diminuente della minore età". Favaro, che durante il processo fornì dichiarazioni particolarmente aderenti alle ricostruzioni degli inquirenti - e a quella che successivamente fu la verità processuale - venne scarcerato nel 2010, grazie a indulto e buona condotta e si trasferì in Toscana per voltare pagina. "Non le porto nemmeno rancore", disse lui parlando di De Nardo al Corriere della Sera poco dopo la fine della sua pena.

Il delitto di Novi Ligure fu una vicenda che scosse fortemente l'opinione pubblica. Il 21 febbraio 2001 Susy Cassini e Gianluca De Nardo, madre e figlio rispettivamente di 42 e 11 anni, vennero massacrati nella loro casa di Novi Ligure. Cassini fu freddata da 40 coltellate, mentre il figlio venne colpito 57 volte mentre era nella doccia.

Omar Favaro, all'anagrafe Mauro, aveva 17 anni all’epoca ed era uno studente. Trascorreva le giornate con Erika De Nardo insieme alla quale si rese responsabile del duplice omicidio. Avrebbe dovuto essere un triplice omicidio, secondo il piano delittuoso iniziale: anche il padre di Erika Francesco De Nardo avrebbe potuto essere una vittima, ma proprio Favaro si disse "troppo stanco per continuare" e quindi i due desistettero.

Inizialmente la giovane diede la colpa a un killer straniero, forse albanese, ma De Nardo e Favaro furono inchiodati da un dialogo ripreso dagli inquirenti a loro insaputa nel corso degli interrogatori. Durante questo dialogo Favaro diede alla fidanzata dell'"assassina". Nella seconda versione di De Nardo, la responsabilità del delitto venne addossata tutta a Favaro, che invece ribatté, riferendosi alla fidanzata: "Mi ha soggiogato".

Successivamente Favaro fornì la propria versione dei fatti agli inquirenti: "Appena si apriva la porta dovevamo colpirli. Lei ha tirato fuori i guanti giallini da cucina e io le ho chiesto: 'Ma perché tu non metti i guanti?' Ha detto: 'Perché io ci abito qui e posso toccare tutto'. Da come me lo aveva spiegato sembrava una cosa semplice […] Sua madre si dibatteva, però lei l'ha colpita, poi l'ha spinta nell'angolo della cucina, e sua madre è riuscita a prendere il coltello. Erika gridava aiuto, anche se sua madre non riusciva a colpirla: 'Aiutami, intervieni'. Io sono intervenuto, ho tolto il coltello a sua madre e lei mi ha morsicato il pollice. Quando l'ho staccata l'ho colpita con due, tre colpi. La madre gridava: 'Erika cosa fai?, Erika ti perdono', ma Erika continuava a colpirla gridando: 'Muori, muori’. Le coltellate che mi ricordo saranno state venti, venticinque. Io ne ho date due o tre. Nel fianco, dalla pancia della signora usciva molto sangue".

Quando fu condannato in primo grado (con giudizio confermato in appello e in Cassazione), il gup dispose per Favaro "che i Servizi minorili dell’Amministrazione della Giustizia e gli operatori che seguono il giovane nell'ambito dell'Istituto per minori Ferrante Aporti di Torino, proseguano nel lavoro di sostegno ed orientamento nei confronti di Omar, che dovrà, inoltre, essere aiutato ad elaborare i vissuti legati ai delitti commessi ed alla conseguente vicenda giudiziaria".

Nell'ottobre 2011, quando Omar Favaro aveva finito di scontare la sua pena, fece grande scalpore la sua scelta di recarsi in visita alle tombe di Susy Cassini e Gianluca De Nardo al cimitero di Novi Ligure. All'epoca si disse che fosse andato a chiedere perdono, tra l'altro con cappello e occhiali scuri per essere discreto. Sempre nel 2011 fu intervistato da Matrix, raccontando di se: "Oggi io non sono più quel ragazzo. Ora so cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ho lavorato molto su me stesso e chiedo la possibilità di tornare a vivere, ma temo il pregiudizio".

Nel 2023 si è tornati a parlare di Favaro per via di alcune accuse ricevute dall'ex moglie, che si è rivolta agli inquirenti denunciando maltrattamenti e abusi sessuali. "Questa vicenda non c'entra assolutamente nulla con i fatti accaduti quando il signor Favaro era adolescente - ha chiarito il suo legale Lorenzo Repetti a IlGiornale.it - Le dirò di più: è stata strumentalizzata. Quasi a voler dimostrare a tutti costi che le accuse che vengono rivolte a Omar dalla ex moglie debbano essere vere a prescindere. Ma, lo ribadisco, questa è una faccenda privata e non c'è nulla di vero nelle accuse che vengono rivolte a Omar".

Il 40enne Omar Favaro era stato accusato dall'ex moglie di maltrattamenti, minacce e abusi sessuali. Il Tribunale del Riesame di Torino ha stabilito che all'uomo non debba essere applicata nessuna misura restrittiva. "È successo - aveva proseguito Repetti - che nell'ambito di una separazione giudiziale dove entrambi i coniugi chiedono l'affidamento della figlia minore nascono delle accuse di maltrattamenti - addirittura di rapporti intimi non consenzienti - da parte dell' ex moglie contro Omar. Accuse che, secondo noi, non solo sono calunniose ma anche strumentali a ottenere una posizione di favore per ottenere l'affidamento della figlia minore. Tutto ciò tenendo conto che c'è una consulenza tecnica d'ufficio che ha stabilito che entrambi gli ex coniugi hanno capacità genitoriale e che la bambina non può essere affidata in via esclusiva né all'uno né all'altro". Il legale ricorda che Favaro non vedrebbe la figlia da gennaio 2023, e che avrebbe rimarcato: "Non ho fatto niente e voglio solo tornare a vedere mia figlia".

Estratto dell’articolo di Sarah Martinenghi per repubblica.it il 3 giugno 2023.

Minacce di morte, botte, soprusi fisici e psicologici. "Ti sfregio la faccia con l'acido", "ti mando su una sedia a rotelle", "ti faccio la festa". La testa di lei presa per i capelli e avvicinata pericolosamente a un fornello acceso. E un clima di costante paura, controllo, insulti: "Fai schifo", "non esci viva da qui". 

Oggetti scagliati addosso, cellulari rotti, il divieto di chiamare i carabinieri. La donna ha taciuto a lungo per paura. E il tempo le è diventato nemico. La procura di Ivrea ha provato a fermare Omar, chiedendo una misura cautelare: il divieto di avvicinamento per quelle ripetute minacce di morte. Ma il giudice ha detto di no. La coppia, infatti, nel frattempo si è separata e, secondo il magistrato, non c'è più l'attualità del pericolo. Tutti i fatti sarebbero avvenuti prima del 2022.

(ANSA il 3 giugno 2023) - Omar Favaro torna 'a tu per tu' con la giustizia. Ventidue anni fa, da minorenne, fu uno dei due autori di un duplice delitto che sconvolse l'Italia, quello di Novi Ligure (Alessandria). Oggi, da quarantenne, deve scrollarsi di dosso un'accusa di minacce e violenze nei confronti dell'ex moglie: ma l'avvocato difensore, Lorenzo Repetti, parla di "ipotesi infondate e calunniose" che si inseriscono "in modo strumentale" in una tormentata causa di separazione "dove si discute dell'affidamento della figlia". 

Nel febbraio del 2001, in una casa che le cronache chiamarono 'la villetta degli orrori', furono uccisi a coltellate Susanna Cassini, 40 anni, e il figlio undicenne Gianluca De Nardo. Le indagini portarono alla luce una verità sconcertante: ad agire erano stati la figlia della donna, Erika De Nardo, 16 anni, e il suo fidanzatino, Omar Favaro, di 17. I due furono processati e condannati dalla magistratura minorile. 

Entrambi hanno scontato la pena, sono tornati in libertà e si sono costruiti una vita l'uno lontano dall'altra. Omar è indagato a Ivrea (Torino) per episodi avvenuti fra il 2019 e il 2021 in un paese fra le montagne. La moglie se ne era andata di casa e lui nel 2022 aveva ottenuto l'affidamento della figlia. La donna chiese di avere più occasioni di vedere la bimba, che ad un certo punto manifestò il desiderio di andare a vivere con la madre. Partono gli esposti incrociati.

Uno è di Omar, l'altro è dell'ex moglie, che si rivolge ai carabinieri raccontando di percosse, minacce, soprusi, violenze. 

I pubblici ministeri chiedono per l'uomo una misura restrittiva che comporta il divieto di avvicinamento, un giudice dice no e ora a decidere sarà il Tribunale del riesame. 

Nel frattempo, a febbraio del 2023, una perizia conferma la capacità genitoriale di Omar. "E' una guerra dei Roses - dice Repetti - dove le accuse, a nostro avviso, sono funzionali a ottenere nel procedimento civile una posizione di forza che alla donna, al momento, non è riconosciuta. Novi Ligure non c'entra. Però è evidente il tentativo di dare maggiore risalto alla separazione". Il caso attira l'attenzione della politica. Maria Elena Boschi (Iv) annuncia che chiederà al ministro della giustizia di verificare che dopo il diniego della misura restrittiva da parte del gip "non ci siano rischi per mamma e figlia", mentre Alfredo Antoniozzi (Fdi) sottolinea che il passato di Omar "non può determinare condanne preventive su accuse che sono ancora tutte da dimostrare". Nel 2011 Omar raccontò in esclusiva alla trasmissione Matrix quella notte a Novi Ligure: "Per anni ho avuto l'incubo delle urla di Gianluca e della madre di Erika che le diceva 'ti perdono, ti perdono'. Ora so cosa è giusto e cosa è sbagliato. Ho lavorato molto su me stesso, non sono più il ragazzo che ero allora e chiedo la possibilità di tornare a vivere. Ma temo il pregiudizio".

Nuove accuse per Omar 22 anni dopo Novi Ligure, la difesa: «Falsità dopo una separazione difficile». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.

​Il legale: «Questa storia non ha nulla a che vedere con il passato di Omar. Il mio cliente respinge tutte le accuse, che sono infondate» 

Sono trascorsi 22 anni dal massacro di Novi Ligure, quando i due giovani fidanzatini Erika e Omar uccisero a coltellate la madre e il fratellino di lei. Entrambi hanno scontato la propria condanna e si sono ricostruiti una nuova esistenza lontano dai riflettori. Ma ora il nome di Omar Favaro torna ad occupare le pagine dei giornali: la procura di Ivrea lo accusa di maltrattamenti per aver aggredito e minacciato in più occasioni l'ex moglie (quando ancora convivevano) e la loro unica figlia. 

«Questa storia non ha nulla a che vedere con il passato di Omar», vuole subito precisare l'avvocato Lorenzo Repetti (che già all'epoca difese il ragazzo ancora minorenne). Insiste il legale: «Il mio cliente respinge tutte le accuse, che sono infondate. La vicenda deve essere contestualizzata nell'ambito di una separazione giudiziale». Le accuse contro Omar sono state mosse dopo la separazione, avvenuta più di un anno fa. La Procura di Ivrea, dopo aver raccolto la denuncia della donna, aveva chiesto al gip di emettere una misura cautelare che vietasse all'uomo di avvicinarsi. Il gip l'ha respinta, ritenendo che non vi fosse un pericolo attuale.

«Ti sfregio la faccia con l'acido»

Da qui il ricorso al Tribunale del Riesame dei magistrati eporediesi che, negli atti depositati nei giorni scorsi, descrivono all'interno delle mura domestiche un quadro di prevaricazioni e abusi nei confronti della donna. Minacce di morte, botte, soprusi fisici e psicologici: «Ti sfregio la faccia con l'acido», «ti mando su una sedia a rotelle», «ti faccio la festa». La testa di lei presa per i capelli e avvicinata pericolosamente a un fornello acceso. E un clima di costante paura, controllo, insulti: «Fai schifo», «non esci viva da qui». Violenze che sarebbero avvenute nel 2020 durante i lunghi mesi di pandemia. La donna poi si sarebbe allontanata da casa, avviando le pratiche per la separazione. 

Il Tribunale Civile, in una prima fase, ha affidato la bambina a Omar e alla nonna paterna. E in un secondo momento alla madre, garantendo all'uomo gli incontri. «In ballo c'è l'affidamento della bambina - spiega il legale -. È già stata depositata una perizia che ha riconosciuto la piena capacità genitoriale di Omar. Piuttosto invita ad approfondire il rapporto tra la madre e la bambina».

Omar Favaro, indagato per violenza sessuale e maltrattamenti sull'ex moglie: «Ti sfregio con l'acido». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 03 Giugno 2023.

Insieme alla fidanzata Erika nel 2001 uccise la madre e il fratello undicenne di lei. Scontati 14 anni, ora è accusato di abusi sulla ex compagna e maltrattamenti sulla figlia

Nuove ombre su Omar, al secolo Mauro Favaro, che il 21 febbraio del 2001 a Novi Ligure aiutò la fidanzata dell'epoca, Erika De Nardo, a uccidere a colpi di coltello da cucina la quarantunenne Susanna Cassini, detta “Susy”, madre di Erika, e il fratello undicenne Gianluca De Nardo, desistendo solo alla fine dall'uccidere anche Francesco De Nardo il padre della ragazza, ingegnere e dirigente dell’azienda dolciaria Pernigotti.

Oggi “Omar”, ormai 40enne, è indagato e accusato per violenza sessuale nei confronti della ex moglie e di pesanti maltrattamenti avvenuti per anni su di lei e sulla loro figlia.

Le accuse di violenze e minacce: il gip respinge la misura cautelare

Come riportato da La Repubblica, Omar sarebbe responsabile di violenze fisiche e psicologiche e minacce nei confronti della moglie: «Ti sfregio la faccia con l’acido», «ti mando su una sedia a rotelle », «non esci viva di qui», sono solo alcune delle frasi contro la compagna. Tra gli abusi nei confronti della moglie, Omar l'avrebbe anche presa per i capelli avvicinandola pericolosamente a un fornello acceso, colpendola con degli oggetti e distruggendole i telefoni per impedirle di chiamare i carabinieri, facendola vivere in un clima di tensione e paura costante.

Il giudice per le indagini preliminari ha deciso di respingere la richiesta di misura cautelare avanzata dalla procura di Ivrea: la coppia nel frattempo si è separata e, secondo il magistrato, non c’è più l’attualità del pericolo per fatti avvenuti prima del 2022. Comportamenti che se accertati sarebbero gravissimi, ammette il gip, ma Omar ormai «ha espiato» per intero la sua colpa e quello che è accaduto 20 anni fa non può sostenere l’esigenza di limitare, di nuovo, la sua libertà.

La pm Valentina Bossi e la procuratrice capo di Ivrea Gabriella Viglione hanno deciso di appellarsi contro il rifiuto della misura cautelare e ora il tribunale del riesame di Torino dovrà rivalutare il rischio eventuale che stanno correndo le vittime.

La difesa del legale di Omar

«Il suo passato non c’entra ma continua a perseguitarlo e non deve essere strumentalizzato come invece si sta cercando di fare in una vicenda che nasce durante una causa di separazione dove è in discussione l’affidamento della figlia», ha dichiarato l’avvocato Lorenzo Repetti che già in passato ha assistito Omar.

Le accuse di maltrattamenti sulla figlia

La coppia si sarebbe conosciuta circa otto anni fa. Un legame nato sui social. All’inizio il passato sembrava non aver turbato la nascita della relazione, ma poi, inesorabile, si è ripresentato.

I fatti contestati coprono un periodo di almeno due anni. Terribile per la moglie di Favaro la fase del Covid: la giovane donna sarebbe stata costretta a subire più volte violenze sessuali e anche la bimba sarebbe stata vittima di alcuni maltrattamenti. Le indagini, ancora in corso, sono state scrupolose per cercare di ricostruire cosa sia successo e superare le difficoltà e la paura dell’ex moglie. Stando ai racconti della donna, non avrebbe potuto scegliere nemmeno come vestirsi e sarebbe stata costretta a dargli tutti i soldi guadagnati con il proprio lavoro.

La nuova vita della moglie

«Omar ha appreso solo ora di queste imputazioni totalmente infondate – afferma l'avvocato difensore – a febbraio una perizia del giudice civile ha confermato la sua capacità genitoriale. A marzo è finito di nuovo sotto accusa». La donna ha cercato di rifarsi una vita, trovando un nuovo compagno, andando a vivere altrove. Ma Omar sarebbe arrivato a minacciare anche lui obbligando persino la figlia a riferire all'uomo messaggi inquietanti.

(Da qui potete ascoltare «Diabolica», la serie podcast del Corriere della Sera che racconta la terribile vicenda della cosiddetta «coppia dell’acido»)

Estratto dell’articolo di Sarah Martinenghi per “la Repubblica” il 4 giugno 2023.

«Mi aveva minacciato che avrebbe usato il mio passato contro di me. Ma non pensavo arrivasse a tanto. Sono incredulo, sotto choc: queste accuse sono una calunnia».

Omar Favaro sa che deve rimanere calmo, ma quando è tornato a tu per tu con la giustizia, a doversi difendere dalle accuse di violenza sessuale verso l’ex moglie, per averla minacciata di morte, di sfregiarla con l’acido, e di brutali maltrattamenti contro di lei e la figlioletta, è andato su tutte le furie. 

«È arrabbiatissimo» spiega l’avvocato Lorenzo Repetti che lo assiste sia nel procedimento penale aperto dalla procura di Ivrea sia nella “guerra dei Roses” che si è scatenata con la loro separazione.

«Nessuna strumentalizzazione» contrattacca l’avvocato Emanuele Labis che tutela l’ex moglie di Omar: «La mia assistita non ha mai inteso usare il passato di lui per ottenere un provvedimento positivo in sede di separazione». Tanto è vero che «nel ricorso introduttivo non è stato fatto il benché minimo cenno a quanto accaduto nel 2001. Se avesse voluto, l’avrebbe detto al giudice». 

Secondo il legale della donna, il tribunale non sapeva, in una prima fase, chi fosse Omar: «Ha affidato la figlia al padre solo per consentirle di continuare a vivere nella casa familiare. Ma lei se ne era andata solo per tutelare la propria incolumità».

[…]

«Io sto solo lottando per mia figlia » ha ripetuto Omar quando si è trovato a leggere la sfilza di episodi contestati. Almeno una ventina, avvenuti tra il 2019 e il 2021, quando lei se ne è andata di casa. «Portandosi via persino la cucina» rimarca il suo difensore che ha depositato una serie di prove a favore dell’uomo, oggi quarantenne, che assiste fin dal 2001, quando insieme all’ex fidanzatina Erika De Nardo uccise la madre di lei e il fratellino di 11 anni, a Novi Ligure, con 97 coltellate. 

Oltre alle accuse di violenze sessuali, secondo i pm […] Omar «maltrattava la moglie determinandone costante avvilimento, paura e sofferenza». Gelosia e controllo ossessivi, tanto che «per due volte le faceva cambiare il numero di cellulare e non la lasciava uscire di casa. Pretendeva di controllare le entrate economiche facendosi consegnare il denaro che lei guadagnava». 

Per i pm, «La insultava ripetutamente, “sei anoressica”, “fai schifo”, “puttana”». Poi la minacciava «che se avesse trovato un’altra persona le avrebbe sfregiato la faccia con l’acido così che nessuno l’avrebbe più voluta, oppure l’avrebbe ridotta sulla sedia a rotelle». Lei non poteva nemmeno praticare la sua religione perché lui «glielo impediva, mettendo tutti i suoi oggetti sacri in un sacco nero». 

Nel 2019 durante un litigio avrebbe «scagliato contro la moglie una macchina del caffè colpendola alla spalla». In un’altra discussione le avrebbe «ribaltato addosso un tavolino». Ad aprile si sarebbe infuriato per un vestito: «Le rompeva il telefono, spezzando anche in due la scheda sim. L’afferrava per i capelli e la trascinava per la sala». 

Lei sarebbe riuscita a chiamare il 112, ma lui avrebbe imposto di richiamare per dire che la lite era rientrata «altrimenti non sarebbe uscita viva da quella casa ». E ancora, nel 2020, quando lei non gli aveva consegnato il denaro guadagnato «la insultava e minacciava: “Devi morire”». «Vuoi vedere che ti brucio la faccia?» le avrebbe detto durante una lite [...] in cucina, in cui lui avrebbe scagliato a terra le pentole e poi «afferrato lei per i capelli avvicinandole il volto ai fornelli accesi».

A febbraio 2021 mentre la moglie era al telefono, «interrompeva la chiamata scagliandole addosso il cellulare che le rompeva gli occhiali facendole un taglio al sopracciglio». [...]

IL PARRICIDIO DI NOVI LIGURE

Gaia Vetrano 10 Giugno 2023 su nxwss.com 

Di Novi Ligure non si parla spesso.

A tutti noi, almeno una volta nella vita, qualcuno ha domandato se ci sentissimo realmente realizzati. All’apparenza è un quesito banale. Essere felici vuol dire avere una bella casa, un lavoro prestigioso e una famiglia unita. Tutti cercano di raggiungere questo obiettivo, per dire di aver coronato i propri sogni. Una vita perfetta da sitcom americana.

Che tra i membri della stessa famiglia non vi sia altro che amore e affetto. Non astio e invidia. O addirittura odio.

Dal domani, a sedici anni, ci aspettiamo solo la serenità. Per un’intera generazione, tra gli anni Novanta e i Duemila, il futuro è ricco di romanticismo e gioia di vivere. Tra un cocktail annacquato, la parafrasi di Leopardi, e le liti generazionali con i propri genitori. In messo secondo, tutto può cambiare, perfino in una cittadina di 27mila anime, come Novi Ligure.

Eppure, oggi vi racconteremo di un uomo che aveva tutto questo, ma che in un attimo se lo è visto portare via.

Francesco De Nardo è un giovane del sud che, come tanti, agli inizi degli anni 2000, migra verso il nord per trovare fortuna. Non tutti ci riescono, ma lui trova un posto nella Pernigotti e riesce a diventare direttore dello stabilimento di Novi Ligure in non meno di un anno.

Ha una moglie di cui è innamorato, Susanna, una confortevole villetta immersa nel verde in via Via don Beniamino Dacatra 12, e due figli, Erika e Gianluca. Purtroppo, come tutti gli scenari da fiaba, questi possono infrangersi in poco tempo.

A febbraio, ad Alessandria, non c’è sicuramente caldo. Al contrario, probabilmente molto freddo. Novi Ligure è la tipica cittadina piemontese che è riuscita a costruire la sua ricchezza su una solida base industriale.

Tra tutti gli anziani che abitano in quella cittadina, chi può realmente capire cosa vuol dire avere sedici anni in un luogo dove nulla è alla tua portata. Non è usuale vedere una ragazza camminare nel cuore della notte, per la strada. Ma chi li capisce i giovani di oggi.

Eppure, c’è realmente qualche cosa che non va, se la giovane, mentre cammina attraverso i caseggiati, ansima come se avesse corso una maratona. Sono ancora le 21, è presto. Ma già, dietro le porte chiuse, molte famiglie hanno finito di cenare. 

Quando qualcuno si affaccia dalla finestra, non può non vederla. Si trascina sull’asfalto, come se stesse cercando qualcosa che ha perso. È affranta. Indossa una tuta da ginnastica, ma non sembra pronta per fare sport, o andare a correre. È a piedi scalzi, e si guarda intorno come se non avesse una meta precisa.

Non sta camminando, sta vagando.

Sono le 21. Chi ha deciso di lasciar perdere, perché non ha reputato la cosa anormale, è già seduto davanti al televisore. Pronto per qualche programma demenziale in televisione. Così la città sopita si stiracchia sul divano. Ma quella sera Novi Ligure non andrà a dormire.

È allora che, quella giovane, comincia a gridare. Chiama aiuto, mentre i cani abbaiano attorno a lei. Nessuno può ora tralasciare quella povera ragazza che vaga per la città. Così, le tende si scostano, le porte si aprono, e la luce investe la sua figura. E illumina anche la scia di sangue che si porta dietro.

Gli abiti sembrano fradici, ma non di acqua. Di sangue.

Orme che, sull’asfalto, riflettono la luce dei lampioni e il loro bagliore.

Quando arrivano i primi soccorsi mormora dei nomi. Parla di suo fratello e di sua madre. Quando le chiedono dove abita, risponde Via don Beniamino Dacatra 12.

Oggi, quella stessa strada si chiama Via caduti di Nasseria. Forse, per eliminare il ricordo di questa strage. Ma nulla potrà cancellare quella sera dalla mente di Francesco De Nardo, compreso il corpo di sua moglie e suo figlio, distesi per terra. Intrisi del loro stesso sangue. 

Un incubo senza fine

I fotogrammi di quella sera nessuno avrebbe mai pensato di viverli.

In una villetta color salmone, è appena passato un mostro. Che ha distrutto una famiglia, uccidendo una madre e suo figlio. I loro corpi, martoriati, provocano alla vista un brivido. Per gli inquirenti, è un omicidio di una violenza mai visto prima.

La mamma, Susanna Cassini, giace a terra in cucina. Il suo corpo è stato dilaniato da un coltello, buttato lì vicino. Il suo sangue è dappertutto: sul pavimento, sui mobili, sui muri e proseguendo sulle scale. Al secondo piano l’orrore continua. Il piccolo Gianluca De Nardo si trova dentro la vasca da bagno. Ha un taglio sulla spalla e, probabilmente, è morto affogato. Sul corpo presenta degli strani segni, come se fosse stato morso da un insetto.

Le mattonelle del bagno sono cosparse dei capelli del bambino, insanguinati.

Un delitto feroce che nessuno riesce a spiegarsi.

Gianluca ha solamente undici anni. È un bambino mite, tranquillo. Andava a scuola, giocava a basket. Sua madre, Susanna, è una donna dedita al volontariato. Una casalinga, cattolica praticante, ex ragioniera. Davanti a una madre e al suo bambino massacrati in quel modo, si pensa subito a una rapina finita male.

Susanna e Gianluca 

La loro è una famiglia benestante, grazie in particolare ai sacrifici di Francesco, marito di Susanna e padre di Gianluca. Quella sera è a giocare a calcetto. Quando torna a casa, ciò che trova è un mostro fin troppo grande, anche per lui.

Infine, in famiglia c’è Erika De Nardo, che per miracolo è ancora viva. Si trovava pure lei in casa quando è avvenuta la strage. Il suo racconto è un film dell’orrore. Sono le 20.30 del 21 febbraio. Era nella sua stanza, con le cuffiette, ma il volume non era troppo alto da non permetterle di sentire il ritorno a casa di sua mamma e suo fratello.

Poco dopo delle urla, e dei tonfi. La ragazza, spaventata, apre la porta della sua camera e vede una scena raccapricciante: un uomo sta accoltellando suo fratello, mentre la madre lo insegue nel tentativo di fermarlo. Erika non ha tempo e, come le urla la madre, scappa. Arriva in salotto, dove trova un altro uomo. Contro di questo lancerà una bottiglia di whiskey, poi uscirà dal seminterrato.

Dei due aggressori dirà che avevano due età differenti, e che sono due albanesi. Addirittura, identifica uno dei due. A Novi Ligure comincia la caccia all’uomo.

I dubbi su Erika

Il massacro di Novi Ligure non è più della sola città, ma è un dramma dell’intero paese. In meno di ventiquattro ore è uno dei più efferati delitti della storia del nostro paese. Ci voleva poco per capire che fosse colpa di uno straniero? Questo si chiedono in molti, altri non si limitano ai semplici insulti.

Ma il giovane albanese riconosciuto da Erika è davvero colpevole? La sua posizione non è facile: in camera nasconde dei vestiti che corrispondono alla descrizione degli indumenti indossati al killer. Quando si ferma in caserma racconta però di avere un alibi.

Gli inquirenti richiamano quindi Erika, le mostrano altre foto di pregiudicati italiani, ma la giovane è confusa. Così, si battono nuove piste, mentre sul posto si reca anche il RIS di Parma. Per il colonnello Garofano, però, c’è qualcosa che non va.

Perché nessuno ha sentito le urla di Susy o Gianluca? Come hanno fatto i due rapinatori a entrare se la porta non è scassinata? Perché il cane non ha abbaiato? Infine, a quell’orario, nessuno avrebbe programmato una rapina, perché a quell’ora tutti sono a casa, ci sarebbero stati troppi testimoni. 

Inoltre, per quale motivo uccidere un bambino di undici anni, dopo aver ucciso la madre, che poteva costituire la reale minaccia? Si parla di overcrimine, un omicidio compiuto con efferata violenza, troppo per un ladro in fuga. Non avrebbe avuto il tempo. Inoltre, dalla casa non è stato rubato nulla. Gli inquirenti cominciano a nutrire dei seri dubbi riguardo la storia di Erika.

Quest’ultima è al contrario molto fredda, addirittura la chiamano “il ghiaccio”. Può essere così distaccata una persona che ha assistito all’omicidio di sua madre e suo fratello? Forse lo shock l’ha mandata fuori di testa. O forse, Erika De Nardo sta nascondendo qualcosa.

Lei è una studentessa come tante del liceo scientifico. È la classica intelligente che non si applica, determinata e consapevole del suo fascino e della sua forza. Sul suo conto girano però brutte chiacchiere. Qualcuno la accusa di far uso di cocaina e di non aver alcuna forma di pudore.

Da qualche tempo è fidanzata con Omar Favaro, il cui reale nome sarebbe Mauro, il figlio del barista della città. Un minorenne con una cattiva reputazione, un ribelle. Su di lui si diceva fosse un bullo, decisamente ambiguo. I pomeriggi li passano assieme, di certo non a fare i compiti. Il ragazzo non piace ai genitori di Erika, chiaramente, che non approvano quella relazione morbosa.

Non certo un bel ritratto, ma nulla che possa provare un legame tra il massacro ed Erika.

Le confessioni del delitto di Novi Ligure

36 ore dopo il delitto, i giornalisti invadono le strade di Novi Ligure. Fino a quando Erika, e il suo fidanzato Omar, vengono riportati sulla scena del delitto. I due sono impassibili mentre gli inquirenti fanno notare alla ragazza tutte le incongruenze della sua testimonianza. Erika si scusa, ma non aggiunge altro.  

La svolta sarà alle 13.30. Dopo il sopralluogo, infatti, Erika e Omar sono stati chiusi in uno stanzino in caserma. I due si abbracciano, ma il giovane è nervoso perché non capisce per quale motivo siano stati fermati, visto che la polizia gli aveva detto che per oggi avevano finito.

I due ragazzi, però, non sanno che non sono soli. C’è una telecamera che sta registrando ogni singolo dettaglio della loro chiacchierata.

Erika gli ripete di stare tranquillo, di non dire più una parola. Cosa vuole nascondere? Di cosa ha parole Omar?

Fino a quando la pura verità non esce dalle loro bocce. Omar, convinto che nessuno lo stia ascoltando, confessa di aver colpito lui stesso Gianluca. di averlo accoltellato mentre si toglieva l’accappatoio. Di averlo colpito e poi buttato nella vasca, e di essersi poi lavato le mani per disfarsi del suo sangue.

Erika è impassibile. Poi risponde, raccontando delle suppliche della madre, che continuava a pregarli di fermarsi perché voleva vivere. Mentre racconta di aver accoltellato sua madre è glaciale.

Mentre raccontano di quella notte infernale, i due sono sereni, tranquilli. Si scambiano gesti d’amore, carezze. Sembrano essersi dimenticati di trovarsi in una caserma, perfino quando cominciano a darsi dell’assassino a vicenda.

A quel punto gli inquirenti posano le cuffie. Il delitto di Novi Ligure ha i suoi assassini.

La verità fino al processo

Novi Ligure è una città distrutta da questa violenza. La gente è incredula, stenta a chiederci. Con la stessa velocità con cui si erano stretti ad Erika, i suoi concittadini si allontanano da lei.

Nel momento in cui la coppia viene arrestata con l’accusa di duplice omicidio, l’uno comincia ad accusare l’altro di aver commesso il delitto. Erika sostiene che Omar ha fatto tutto solo. Che quella sera aveva deciso di voler eliminare la famiglia di lei per continuare la loro relazioni senza intralci. Lei avrebbe solamente mentito per proteggerlo. Per paura e per amore. 

Omar dice l’esatto contrario. Erika avrebbe ucciso la sua famiglia perché con loro stava male. Voleva liberarsene e l’unico modo per farlo era quello. Lui l’avrebbe solo seguita, gli avrebbe fatto da spalla.

Solamente quando parlano con il perito psichiatrico, le versioni cambiano e sembrano essere più veritiere. Erika si prende finalmente una parte della responsabilità, affermando che sapeva che Omar li avrebbe uccisi. Racconta del rapporto con sua madre, sempre conflittuale. Di come la vedesse come un’amica ma allo stesso tempo come un modello di vita irraggiungibile. Una montagna troppo difficile da scalare.

Un modello di perfezione.

Quello che i due creano è un progetto mostruoso e infantile. Un’idea nel quale restano intrappolati di cui sono entrambi equamente responsabili. Ma perché tanta ferocia? I ragazzi parlano di libertà.

In attesa del processo, i due rimangono in carcere. Lei al Beccaria di Milano, lui al Ferrante di Torino. Alla cella di Erika arrivano molte lettere, tra cui quella di un suo secondo spasimante, un dj di Verona.

Periodicamente arriva anche Francesco De Nardo a fare visita a sua figlia. I due parlano come se niente fosse. Così fino al processo, il 28 novembre. Il rumore mediatico è assordante, arriva fin fuori il tribunale. I fidanzati sono distanti, e continuano il loro teatrino.

Erika ribadisce che ad aver ucciso sia stato Omar, mentre l’idea era di entrambi. Lui ripete il contrario. Alla fine sarà il RIS a ricostruire quella notte.

La notte delle 97 coltellate

Ecco com’è andata.

La signora De Nardo e il figlio Gianluca sarebbero rientrati a casa intorno alle 19.30 e immediatamente il bambino sarebbe salito sopra a giocare e poi a prepararsi un bagno.

Erika e Omar sono in quel momento appostati nel bagno adiacente la cucina. Appena il bambino sparisce, la ragazza sarebbe andata dalla madre. Avrebbe cominciato a parlare, arrivando a litigare per i brutti voti di lei. Susanna si sarebbe detta preoccupata dalle sue brutte frequentazioni. 

A quel punto Omar sarebbe uscito fuori e, insieme a Erika, l’avrebbero aggredita, immobilizzandola.  I due, con indosso i guanti, le avrebbero sferrato le coltellate. Susanna avrebbe provato a scappare, aggrappandosi al tavolo, ma questo non fu sufficiente. Al contrario, sbatté la testa, perdendo ulteriori forze. In punto di morte, avrebbe supplicato i due di risparmiare Gianluca.

Quest’ultimo a quel punto sarebbe sceso, sentendo le grida. Dopo la madre, la sorella si avventa su di lui. Il bambino sarebbe fuggito nella camera di Erika ma, non avendo alcuna via di scampo, venne colpito ulteriormente a schiaffi. Erika, successivamente, proverà a calmarlo, dicendogli di volerlo pulire in bagno. Lì li raggiungerà Omar. Proveranno con l’annegamento ma, non soddisfatti, tentarono prima ad avvelenarlo con del veleno per topi. Infine presero anche lui a coltellate.

Nel frattempo i due fidanzati, per evitare di insospettire i vicini, alzarono la musica dallo stereo. Sulle manopole verranno trovate tracce di sangue.

Come Omar raccontò, Gianluca provò a liberarsi, prendendolo a morsi.

Sul corpo di Susanna verranno trovate 40 coltellate. Su quello di Gianluca 57.

La coppia avrebbe poi discusso su cosa fare riguardo il padre, se aspettarlo o meno in casa per uccidere anche lui.  Erika insistette, ma Omar era troppo stanco quindi lei avrebbe dovuto fare da sola. Insieme cercarono di pulire il sangue e le armi. Un coltello venne buttato tra i rifiuti, insieme i guanti, l’altro rimase in casa. Alle 20:50 Omar lasciò la casa dalla porta principale e se ne andò in motorino, venendo visto da un passante che, notandone i pantaloni insanguinati.

La difesa di Erika e Omar insiste sull’incapacità di intendere e di volere, ma il tribunale non ascolta questa versione. Erika sarebbe afflitta da un disturbo narcisistico della personalità, Omar avrebbe invece un disturbo dipendente della personalità. Lui sarebbe il braccio armato di lei.

I due sono condannati: 16 anni per lei, 14 per lui. Raggiunta la maggior età verranno trasferiti dal carcere minorile.

Omar è fuori dal 3 marso 2010. 22 anni dopo il delitto di Novi Ligure, venerdì 9 giugno 2023 tornerà nuovamente in carcere. Questa volta con le accuse di violenze sessuali e maltrattamenti sulla ex-moglie e sulla figlia.

“Ti sfregio la faccia con l’acido” e “Ti mando su una sedia a rotelle” sono solo alcune delle frasi con cui Favaro avrebbe minacciato la moglie.

Erika De Nardo, invece, nel 2009 si sarebbe laureata in Filosofia, con tesi su Socrate. Nell’ospedale psichiatrico di Castiglione delle Stiviere avrebbe trovato l’amore: un musicista di una decina d’anni più grande di lei, che andava lì come volontario. I due vivrebbero ora assieme al lago di Garda.

«Erika ha una nuova vita – ha raccontato il sacerdote don Mazzi – Si è sposata, ha maturato la giusta consapevolezza sulla tragedia, quella che permette di continuare a vivere. Il padre è stato molto importante in questo percorso».

Papà Francesco De Nardo non ha mai abbandonato quella ragazza dal doppio volto: da un lato, l’assassina di sua moglie e del suo bambino; dall’altro, la sua unica figlia. Ciò che gli rimane della sua vita da favola a Novi Ligure.

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passione e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Colpo di scena nel caso Bergamini: i dubbi del medico legale che firmò la perizia sull’omicidio. Rita Cavallaro su L'Identità il 29 Novembre 2023

Nuovo colpo di scena al processo per la verità e la giustizia per Denis Bergamini, il calciatore del Cosenza morto sotto un camion sulla statale 106, all’altezza di Roseto Capo Spulico, il 18 novembre 1989. Nell’aula del tribunale di Castrovillari, dove è alla sbarra come unica imputata per concorso in omicidio volontario aggravato l’ex fidanzata Isabella Internò, è stato chiamato a deporre il consulente tecnico di parte della famiglia Bergamini, il professor Pierantonio Ricci, Si tratta del medico legale che nel 2017 prese parte alla riesumazione del cadavere di Denis e ai successivi accertamenti volti a confutare la tesi che il calciatore si fosse suicidato, per dimostrare invece che il centrocampista del Cosenza è stato soffocato con una busta di plastica in faccia, poi, già morto o in fin di vita, adagiato sull’asfalto, dove il camion l’avrebbe sormontato con moto lento.

Ricci, però, non è stato chiamato a deporre dalla parte civile, che si era ben guardata da convocarlo, ma si è presentato ai giudici in qualità di teste della difesa della Internò, assistita dal difensore Angelo Pugliese e dalla collega Rossana Cribari. E quello che ha detto ha sollevato molti dubbi, tanto che l’avvocato Fabio Anselmo, legale di Donata Bergamini, sorella del calciatore, lo ha denunciato per patrocinio infedele e ha relegato la deposizione del medico a una rivalsa per non essere stato inserito nella lista dei testi della difesa. Ricci, infatti, ha gettato ombre su quello che è l’esame principe di tutto il caso, ovvero la glicoforina, una proteina presente nei globuli rossi in grado di dare indicazioni sulla vitalità delle lesioni. È su quell’analisi scientifica che si fonda l’impianto accusatorio dell’omicidio e di conseguenza la confutazione dell’unica verità processuale andata avanti per oltre trent’anni, il suicidio di Denis, raccontata da Isabella e dal camionista. “Ad oggi non ci sono sviluppi sull’attendibilità della glicoforina in casi come questo, la valutazione su un cadavere putrefatto si deve valutare su più fattori. Dalla positività alla glicoforina”, ha detto il professor Ricci in aula, “può emergere un sospetto, ma non può essere l’unica prova perché possono esistere dei falsi positivi. L’esame della glicoforina insieme ad altri elementi può far nascere risposte certe. Nonostante questo ritengo ancora che le conclusioni del collegio peritale sulla morte di Bergamini abbiano un serio fondamento”.

Per il consulente, dunque, il carattere sperimentale della glicoforina da solo non basta a dimostrare con certezza che Denis fosse ancora vivo quando il camion l’ha schiacciato, soprattutto alla luce del fatto che tutti gli esperimenti di sorta, finora effettuati, sono stati eseguiti su corpi freschi, deceduti da non più di sei mesi e non certo su cadaveri riesumati per due volte, come nel caso Bergamini, il cui corpo fu riesumato cinquanta giorni dopo il decesso e successivamente ventisette anni dopo. Per Ricci l’esame sul cadavere di Denis potrebbe risultare falsato dai fattori putrefattivi o dalla paraffina usata per conservare i reperti. E ha sottolineato: “Non sono il solo a pensarla così”. Nonostante tutto, il medico legale non ha cambiato idea sul fatto che il calciatore sia stato ucciso: “Sulla base dell’evidenza scientifica, dico che c’è stato un sormontamento con il corpo che aveva ancora qualche segnale di vita, che ci sia stata una morte asfittica meccanica violenta è fuori discussione”.

Eppure il sospetto sull’attendibilità di quella prova scientifica ora potrebbe pesare sulla sentenza. Tanto che la presidente della Corte, Paola Lucente, ha concluso che gli studi sull’attendibilità dell’esame della glicoforina, al momento, né confermano né smentiscono le conclusioni a cui il collegio peritale era giunto nel 2017. 

La Cassazione: «Numerose ombre sulla morte di Bergamini». Il Quotidiano del Sud il 4 dicembre 2022.

Ci sono «numerose ombre» che «avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini», scrive la Cassazione in un verdetto sul cold case della morte nel 1989 del centrocampista del Cosenza proprio mentre è in corso il processo di primo grado alla ex fidanzata del calciatore, Isabella Internò, accusata di omicidio volontario.

I supremi giudici rilevano che la richiesta di archiviazione del caso, fatto passare per suicidio, avanzata nel 2015 dal Pg Franco Giacomantonio che guidava la Procura di Castrovillari, «non fu una decisione superficiale o, peggio, deviata da una qualche parzialità» ma aveva «ampie ragioni», considerando anche il tempo passato.

Ad avviso degli “ermellini” – che si sono occupati della vicenda Bergamini nell’ambito di un processo contro un cronista per diffamazione nei confronti del pg Giacomantonio, «pur prendendo atto che la tragica vicenda ha avuto dinamiche di accertamento plurime, a volte confuse e comunque non è ancora definitivamente chiarita», non «può esservi dubbio» sul fatto che il pg abbia subito «attacchi alla sua reputazione». In particolare, la Cassazione ricorda che «fu proprio il procuratore Giacomantonio, nel 2011, a richiedere al Gip, una prima volta la riapertura delle indagini ed a svolgere, successivamente, una diffusa ed articolata istruttoria, servendosi di numerosi consulenti tecnici e svolgendo molte audizioni di persone informate dei fatti, in vista di un evidente obiettivo di fare luce sul controverso “caso giudiziario”».

«Non è questa la sede – dice la Cassazione – per diradare alcuna delle numerose ombre che avvolgono la tragica fine di Denis Bergamini, tanto da far sì che un processo sia attualmente in corso dinanzi alla Corte d’Assise di Cosenza, con imputata Isabella Internò per il reato di omicidio» ma “tacciare” il pg di Castrovillari di «forte opacità nello svolgimento delle sue funzioni e senza alcun nesso di veridicità soprattutto circa l’esistenza di collegamenti con la Internò, travalica i limiti della critica giornalistica lecita».

Caso Bergamini, l'editore del libro di Petrini: «Dai nipoti di Denis assurdità offensive». Kaos Edizioni risponde alla lettera diffusa dai parenti dell'ex calciatore del Cosenza: «Neppure il dolore può giustificare quanto hanno scritto». Il Quotidiano del Sud il 28 giugno 2022.

Non si placa la polemica su “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini, nata 21 anni dopo la pubblicazione del libro sulla morte di Denis Bergamini. Dopo l’approdo del testo nelle aule giudiziarie in cui si sta svolgendo il processo e la conseguente lettera diffusa dai nipoti di Bergamini, stavolta è il turno della Kaos Edizioni, la casa editrice che diede alle stampe l’opera.

In una lunga nota definita «di smentita» Kaos Edizioni precisa che il libro «venne redatto nella tarda primavera del 2001 attraverso plurimi colloqui coi familiari di Denis Bergamini: in particolare col padre del calciatore, il signor Domizio Bergamini. La famiglia collaborò anche fornendo la documentazione giudiziaria e l’apparato fotografico. Prima della pubblicazione, il testo del libro fu esaminato in bozza e approvato dallo stesso Domizio Bergamini e dall’allora legale di famiglia.

«Nessuna delle notizie e nessuna delle dichiarazioni riportate nel libro – aggiunge la casa editrice – è mai stata smentita, o rettificata, o negata dagli intervistati, in nessuna sede. Men che meno dal signor Domizio Bergamini (le cui dichiarazioni sono riportate alle pagg. 103-123), il quale anzi, a più riprese negli anni, ha chiesto e ottenuto copie del libro da diffondere, e ha pubblicamente manifestato gratitudine all’autore Carlo Petrini e alla Kaos edizioni. Valga ad esempio quanto dichiarato dallo stesso Domizio Bergamini al quotidiano ‘l’Unità’ il 29-1-2002, richiesto di un parere sul libro: “Petrini ha scritto la verità. Ha fatto ricerche approfondite sulla vicenda di Denis, e mi ha permesso di venire a conoscenza di cose che prima ignoravo…”».

«Nel corso degli anni, la famiglia Bergamini ha sempre manifestato gratitudine a Carlo Petrini, per un libro che di fatto ha strappato il delitto Bergamini dall’oblio. Ne è una riprova – ricorda Kaos Edizioni – quanto dichiarato dalla signora Donata Bergamini in occasione del decesso di Carlo Petrini (16 aprile 2012), e riportato da ‘La Nuova Ferrara’ il 18 aprile 2012: “È stato grazie al libro “Il calciatore suicidato” che è nato il gruppo su Facebook (Verità per Donato Bergamini)… C’è sempre stato un rapporto di amicizia tra Carlo e la nostra famiglia. Ci sentivamo frequentemente al telefono, e varie volte Carlo Petrini è venuto a casa nostra. L’avevamo sentito la settimana scorsa… Questa mattina io, mio padre e i miei figli andremo a Lucca per partecipare ai funerali. È il minimo che possiamo fare per una persona che anche dopo l’uscita del libro non ci ha mai lasciato soli e che ha sempre cercato la verità sulla morte di Denis”».

Per Kaos Edizioni «rientra nel teatro dell’assurdo, dunque, quanto scritto dai nipoti di Denis Bergamini nella pagina Facebook di Donata Bergamini: “… Il libro di Petrini ha arrecato tanto dolore a nonno Domizio e a nostra madre [sic!]… Fango costruito ad arte mescolando cose vere ad altre assolutamente false [sic!]… Una vera e propria operazione di sciacallaggio ai danni di un morto ammazzato e della sua famiglia [sic!]… Un libro denso di falsità e pettegolezzi o, peggio, accuse infamanti [sic!]… La nostra famiglia ha sbagliato a non querelare Petrini, ma non siamo avvocati e non sapevamo che questo avrebbe promosso a verità la menzogna cinica e calcolatrice [sic!]…”».

«La Kaos edizioni e gli eredi Petrini respingono le vere e proprie assurdità, gratuite e offensive, scritte dai nipoti di Denis Bergamini il 24 giugno 2022. Assurdità – concludono – che neppure il dolore connesso a una vicenda drammatica come il delitto Bergamini può giustificare».

Donata Bergamini: «Il mio è un ergastolo giudiziario». La sorella di Denis parla in esclusiva a un giorno dall’udienza. Per 33 anni non si è mai arresa chiedendo verità per la morte del fratello. CHIARA FAZIO su Il Quotidiano del Sud il 22 marzo 2023

«Domani dopo 33 anni toccherà a me testimoniare nel processo per l’assassinio di mio fratello. Sono serena. Tutta una vita spesa alla ricerca della verità. Senza odio ma con tanta amarezza verso coloro che mancarono ai propri doveri istituzionali costringendo di fatto me e la mia famiglia ad un vero e proprio ergastolo giudiziario. Dedico a loro queste ore che mancano alla mia testimonianza di fronte alla Corte d’Assise di Cosenza».

A parlare, in anteprima al Quotidiano del Sud, quando mancano 24 ore dall’udienza che la vedrà protagonista al Palazzo di giustizia di Cosenza, è Donata Bergamini, sorella di quel Denis che per la città bruzia è ormai un’istituzione.

Trentatré lunghi anni sono trascorsi da quel 18 novembre 1989, quando il calciatore del Cosenza trovò la morte lungo la strada 106 per Roseto Capo Spulico, trentatré anni durante i quali Donata Bergamini non ha mai smesso di battersi chiedendo verità e giustizia per il fratello scomparso a soli 27 anni. Nel mezzo tre inchieste, due delle quali archiviate, l’ultima aperta nel 2018  dall’allora procuratore di Castrovillari Eugenio Facciolla, quando la superperizia sul corpo del calciatore confermò quanto i familiari hanno da sempre sostenuto: e cioè che Denis fosse già morto prima di venire adagiato sull’asfalto, simulando un suicidio.

Un’ipotesi, quest’ultima, a cui Donata, il papà Domizio, scomparso solo pochi anni fa, la mamma Maria e quanti hanno avuto modo di conoscere il centrocampista di Argenta non hanno mai creduto, descrivendolo come un ragazzo gioviale, pieno di vita e di entusiasmo e amante del calcio. Ma che l’ex fidanzata Isabella Internò, unica imputata per l’omicidio di Denis, ha sempre ribadito agli inquirenti, raccontando che, dopo un’accesa discussione, il giovane si sarebbe spontaneamente tolto la vita, lanciandosi sotto un camion.

Al fianco di Donata ci sarà, come sempre, l’avvocato Fabio Anselmo, ed anche i tifosi rossoblù che senz’altro faranno sentire la loro vicinanza anche in questa occasione. Davanti a lei, Isabella Internò: domani i loro sguardi si incroceranno, forse, ancora un’altra volta prima che scatti, finalmente, l’ora della verità.

Donata Bergamini: «Abbate mi disse "Sappiamo che non è stato un suicidio, ma siamo in Calabria…"». CHIARA FAZIO su Il Quotidiano del Sud il 24 marzo 2023

Donata Bergamini al processo per la morte del fratello Denis sul colloquio con l’ex procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate, mi disse: “Sappiamo che non è stato un suicidio, ma siamo in Calabria…”.

È UN RACCONTO che comincia dalla fine. Da quella volta – l’ultima – in cui Donata Bergamini vedrà suo fratello Denis ancora vivo. Il 13 novembre 1989 il calciatore del Cosenza, dopo il derby della domenica con il Monza, si fermò a casa della sorella a Ferrara. Dal banco dei testimoni in Corte d’Assise, dove ieri è comparsa per rendere la propria versione dei fatti ai giudici e al pm della Procura di Castrovillari, Luca Primicerio, Donata parte proprio da lì: «Ricordo che gli domandai come andava a Cosenza e gli chiesi della Internò. Mi disse: “Me la trovo dappertutto, è come l’attack”».

LA TELEFONATA RICEVUTA DA DENIS A CASA DI DONATA

Quel giorno, ricorda Donata, era il compleanno di sua figlia Alice. Denis andò a comprarle un regalo, un paio di scarponcini, che non le piacquero, così andò a cambiarli. La sera si ritrovarono a casa dei genitori per la cena. Squillò il telefono. «Mio padre fece per alzarsi, ma lui lo bloccò dicendo “è mia”. Tornò rosso paonazzo, con delle goccioline sulla fronte. Papà gli disse che se aveva caldo poteva levarsi il maglione. Lui rispose “non è il caldo, sono altri i problemi”. Il giorno dopo lo invitai di nuovo a casa da me a mangiare le caldarroste, colsi l’occasione per chiedergli cosa fosse accaduto la sera prima, lui tagliò corto: “Vi piacerebbe saperlo!». Il martedì il padre Domizio lo accompagnò a Imola, per l’ultimo viaggio verso Cosenza.

LA SCOPERTA DELLA MORTE

La narrazione procede a ritroso, fino al momento della tragica scoperta. «Il 18 novembre ero a cena a casa da amici. Quando il mio ex marito arrivò era bianchissimo in volto, mi disse “Donata preparati, dobbiamo partire. Denis ha avuto un incidente”. Partimmo insieme ai miei genitori e, nel tragitto, ci disse cosa aveva saputo, e cioé che Denis si era buttato sotto a un camion. Arrivati in Caserma a Roseto – va avanti la donna -, ci dissero di andare in ospedale a Trebisacce ma la camera mortuaria non era ancora stata allestita e così tornammo a Roseto per parlare con il brigadiere Barbuscio. Il piantone ci disse che avremmo dovuto aspettare perché Barbuscio “doveva farsi la barba”.

Fecero entrare solo papà, che uscì con in mano l’orologio di Denis e una busta gialla, Barbuscio invece aveva una foto polaroid. A mio padre fu riferito che Denis si era buttato sotto un camion, che era stanco del calcio e stava per imbarcarsi per Taranto». A Donata e ai suoi familiari, però, qualcosa non tornava: ad esempio, l’orologio ancora funzionante, eppure il corpo era stato trascinato per 60 metri. Così, decisero di compiere un sopralluogo nella piazzola, lì poco distante era parcheggiata la Maserati, «era “pulita”, anche le gomme erano pulite – dice -, tuttavia ricordo che c’era fango perché quella notte aveva piovuto». Nell’ auto, il portafogli con dentro un assegno, denaro in contanti, circa 500/600 euro, un dollaro e una marca da bollo.

L’ABORTO DI ISABELLA

Un altro salto all’indietro nel tempo e si torna, poi, dritti al 1997: l’anno dell’aborto della Internò. Bergamini chiese aiuto alla sorella perché la sua fidanzata di allora (unica imputata per l’omicidio, ieri assente in aula, ndr) gli disse di essere incinta di cinque mesi e mezzo ma lui “non si fidava”. «Telefonai al mio ginecologo per farla visitare – spiega Donata -, loro salirono insieme a Ferrara e l’ecografia confermò la gravidanza. Mio fratello diceva che lui avrebbe riconosciuto il bambino, ma era lei a voler abortire perché “tuo fratello non mi sposa”, diceva. Ricordo che urlava come una pazza. E siccome in Italia non era possibile farlo, Isabella si rivolse ad una zia di Torino che aveva contatti con il Partito Radicale e che l’avrebbe indirizzata in una clinica privata di Londra. Al telefono la zia ci disse che sarebbe stato un “disonore” tenere il figlio senza sposarsi».

IL RACCONTO DI ISABELLA

Prima l’autostop a 5 macchine, o 3, poi un sorriso, infine il lancio sotto al camion, dicendo di voler lasciare il calcio e partire per l’estero. “Ti lascio il mio cuore, ma non il mio corpo”, queste sarebbero state le ultime parole pronunciate da Denis nella versione dei fatti fornita a Donata dalla Internò, che la ripeteva «come un disco rotto».

L’AUTOPSIA E LE PAROLE DI ABBATE SULLA TESI DEL SUICIDIO DI BERGAMINI

L’esame del pm Primicerio prosegue con il momento del riconoscimento del corpo e dell’autopsia (mancata). Nella camera mortuaria dell’ospedale c’erano i dirigenti Serra e Ranzani, la prima ad entrare – ripercorre Donata – «fui io e mi sentii male perché vidi il volto di mio fratello intatto, aveva soltanto una macchia tonda sulla tempia sinistra. Sembrava dormisse. Ci dissero che non potevamo toccarlo, noi di nascosto sollevammo il lenzuolo: aveva i calzini e, all’altezza delle parti intime, un sacco nero».

Nemmeno l’ombra delle scarpe – che ieri sono state mostrate in aula insieme ad altri oggetti appartenuti a Denis -, né dei vestiti, che, a detta di un infermiere, erano stati «messi in un sacco nero e portati all’inceneritore». Per quel che riguarda, invece, l’autopsia, non fu mai disposta dall’allora procuratore di Castrovillari Ottavio Abbate: quest’ultimo, nel corso dell’interrogatorio di Donata del 2 dicembre ‘89, dirà, con tono criptico ma non troppo, “Sappiamo che non è stato un suicidio, ma siamo in Calabria…”. La deposizione di Donata Bergamini proseguirà il 31 marzo, ma per il controesame degli avvocati Pugliese e Cribari potrebbe volerci un’udienza in più.

Morte di Denis Bergamini, l'ex fidanzata imputata non testimonierà in aula. Sfogo social della sorella: «Ipocrita». Davide Soattin su Il Corriere della Sera il 18 Settembre 2023.

Isabella Internò, accusata di omicidio volontario, rilascerà dichiarazioni spontanee prima della fine del processo sulla fine del calciatore nel 1989. Le accuse di Donata Bergamini: «Hai raccontato la fiaba del suicidio» 

Non si sottoporrà all’esame Isabella Internò, l'ex fidanzata di Denis Bergamini, imputata con l'accusa di omicidio volontario, in concorso con ignoti, nel processo che mira a fare luce sulla scomparsa del calciatore originario di Boccaleone di Argenta, in provincia di Ferrara, morto il 18 novembre 1989 lungo la SS106 Jonica, a Roseto Capo Spulico. A confermare la scelta sono stati i legali della donna, gli avvocati Angelo Pugliese e Rossana Cribari, che hanno sciolto i loro dubbi e comunicato la decisione della loro assistita alla Corte d'assise di Cosenza presieduta da Paola Lucente. Secondo quanto riferito dalla difesa, però, Isabella Internò rilascerà dichiarazioni spontanee prima della fine del processo. 

Prossima udienza il 26 settembre

Contro di lei si scaglia in un lungo post su Facebook la sorella Donata, che ritiene l'ex fidanzata responsabile della morte del fratello. E lo fa nel giorno del compleanno di Bergamini, nato il 18 settembre 1962. «La tua ipocrisia non ha limiti... Ti lamenti perché è stato scoperto come è stato ucciso mio fratello mentre tu, smentita nelle tue bugie, avevi raccontato la fiaba del suicidio sotto un camion che lo aveva trascinato per 60 metri?». E ancora: «Ti lamenti del fatto che io abbia partecipato a salotti televisivi e manifestazioni nel nome di Denis? Sappi che io l’ho fatto con un unico scopo: raggiungere la verità dopo depistaggi e insabbiamenti». Il processo tornerà in aula il 26 settembre, dopo che nell’ultima udienza davanti alla Corte d’Assise, a Cosenza, era stato sentito come testimone il cugino dell’attuale imputata, Dino Pippo Internò.

I dubbi

Secondo il castello accusatorio, la morte di Denis Bergamini sarebbe un caso di omicidio. Per i pm Isabella Internò avrebbe abortito dopo aver scoperto di essere rimasta incinta, e Bergamini, che non voleva sposarla, l’avrebbe lasciata: da qui il movente. Ma ancora oggi sono tanti gli interrogativi su cui non è stata fatta chiarezza. Inizialmente sembrava che il decesso del giovane calciatore fosse avvenuto per suicidio: alcuni testimoni, infatti, tra cui proprio Internò, raccontarono che l’uomo si era buttato sotto le ruote di un camion, motivo per cui l’indagine iniziale fu archiviata e nel 1992 il camionista fu assolto dall’accusa di omicidio colposo. A distanza di oltre trent’anni, però, nessuno ha mai creduto completamente a quella versione dei fatti e una perizia del febbraio 2012 eseguita dai Ris di Messina suffragò la tesi che Bergamini venne investito dal camion quando già era morto. A puntare in questa direzione due elementi: le scarpe, la catenina e l’orologio che indossava quel giorno furono ritrovati ancora intatti e, allo stesso modo, le ferite mortali ritrovate sul cadavere - secondo gli accertamenti - non erano affatto compatibili con quelle di un impatto così violento contro un camion in corsa.

La riapertura delle indagini

Sulla base dei nuovi riscontri, nel maggio 2017, la Procura di Castrovillari riaprì nuovamente le indagini e nel giugno dello stesso anno il Gip dispose la riesumazione della salma per una nuova autopsia, il cui esito riscrisse la storia giudiziaria di quanto accadde quel 18 novembre: il calciatore - secondo le risultanze autoptiche - sarebbe stato ucciso con una sciarpa e infine gettato sotto il camion per inscenarne il suicidio. Quattro anni più tardi, nel 2021, il via al processo che ancora oggi prosegue nelle aule del tribunale a Cosenza, dove unica imputata per quanto accaduto, con l’accusa di omicidio volontario in concorso con ignoti, è l’ex fidanzata Isabella Internò.

Processo Bergamini, Internò preoccupata per la Maserati. Sentito il titolare del bar in cui la ragazza andò a telefonare. Ma i ricordi sono confusi. L'avvocato Anselmo rievoca il particolare riferito all'auto del calciatore. CHIARA FAZIO su Il Quotidiano del Sud il 19 Gennaio 2023.

Le sue condizioni di salute non sono ottimali, la sua memoria vacilla, restituendo brandelli di ricordi. È così che si presenta ai giudici della Corte d’Assise Mario Infantino, titolare del bar-trattoria collocato sulla Statale, nei pressi di Roseto, dove Isabella Internò si reca per telefonare accompagnata da Mario Panunzio la sera del 18 novembre 1989. Ma non al punto da impedirgli di rispondere, comunque, alle domande del pm, Luca Primicerio, sui tragici fatti di quel giorno in cui Denis Bergamini perse la vita sulla 106.

L’uomo, con non poca difficoltà, prova a mettere in fila le fasi di quel drammatico pomeriggio, più volte contraddicendo la versione dei fatti rilasciata a suo tempo, nell’‘89, al brigadiere Barbuscio, ma la circostanza non stupisce se si tiene conto che è oggi ultraottantenne, presenta diversi acciacchi e che dall’accaduto sono trascorsi oltre 30 anni.

Le dichiarazioni rese in passato, infatti, sono coerenti tra loro e non presentano le inevitabili discrepanze odierne. Ragione per la quale si è convenuto di acquisire i verbali degli interrogatori precedenti ma di ammetterlo ugualmente a testimoniare.

Nel suo racconto narra che «verso le 17 arriva un signore con una ragazzina che piangeva (all’epoca indicò come orario le 19.30, ndr), all’inizio pensavo fosse drogata. La ragazzina, poteva avere 17, 18 anni, mi chiese i gettoni per telefonare e io gliene diedi 10. Poi chiese di andare in bagno e subito dopo arrivò il brigadiere Barbuscio a cercarla, la prese sotto braccio e la portò via».

Infantino dice di non ricordare quante telefonate fece la ragazza né a chi, tuttavia nell’‘89 le quantificò in “due o tre”. Né ricorda di aver mai dichiarato a Barbuscio di aver sentito Isabella dire che il suo ragazzo “si era ammazzato” e che il suo accompagnatore, un tipo “con accento del Nord”, fosse intervenuto confermando la morte di un giovane.

Terminato l’esame, è la parte relativa al controesame che si fa più avvincente. L’avvocato di parte civile Fabio Anselmo, infatti, rammenta di quando, nel 2017, i due ispettori di pg, Pugliese e Quintieri, si recarono in casa di Infantino chiedendo di parlare con sua moglie, Rosa Basile, la quale però si trovava a letto, malata. In quella circostanza il figlio Ciro, che quel giorno di novembre si trovava nel bar, riferì ai poliziotti che la ragazza si poggiò a una stufa dicendo ad alta voce “è morto, ma la Maserati l’ha lasciata a me”.

Ciò che Infantino ricorda in proposito è una tabula rasa, ed è per questo che Anselmo chiede di poter risentire i testi Pugliese e Quintieri insieme a Ciro Infantino, richiesta che però la Corte rigetta. A dire del legale di parte, invece, è proprio in quella frase che andrebbe ricercata la chiave della messa in scena perpetrata dalla Internò: una donna, a suo avviso, capace di fingersi disperata celando le sue vere preoccupazioni.

Nel corso dell’udienza, oltre ad acquisire le sit di Luigi Putignano e Salvatore De Paola, i due barellieri che asportarono il cadavere di Bergamini dal luogo dell’incidente, la Corte ha raccolto la testimonianza di Franca Giovanna Valerio, cognata di Rocco Napoli, l’autista del mezzo pesante transitato sul posto, la quale ha reso una versione dei fatti in palese disaccordo con quella del suo parente. Prossima udienza, il 2 febbraio.

Andrea Pistore per corrieredibologna.corriere.it il 10 gennaio 2023.

«Ho sempre pensato che fosse stata una disgrazia e non un suicidio». A dirlo è Bernardino Rinaldi, il primo dei testi sentito lunedì 9 gennaio durante il processo in Corte d’Assise a Cosenza a carico di Isabella Internò, la donna imputata di concorso in omicidio aggravato dalla premeditazione e dai futili motivi dell’ex fidanzato, il calciatore ferrarese del Cosenza Donato «Denis» Bergamini. L’ex atleta ha perso la vita il 18 novembre del 1989 lungo la statale 106 in Calabria, all’altezza di Roseto Capo Spulico.

 Gli istanti prima della morte

Rinaldi davanti ai giudici ha ripercorso gli istanti prima della morte: «Passavo di lì quel giorno per lavoro. Facevo il rappresentante e ricordo bene una Golf bianca che mi stava per venire addosso per evitare di investire una persona che era in piedi in mezzo alla strada.

Ho sempre pensato che fosse una disgrazia». Il testimone ha poi raccontato: «Ricordo un uomo al centro della corsia, che poi ho riconosciuto essere Bergamini, con le mani alzate che cercava di fermare le automobili. Sulla piazzola poco più avanti c’era un’altra macchina con dentro una persona che non so riconoscere, né ricordo particolari dell’auto. Dopo un paio di ore ho ripercorso la strada in senso inverso e ricordo di avere trovato la coda di auto e di aver pensato che alla fine quell’uomo era stato investito». L’avvocato di Isabella Internò ha sollevato una serie di dubbi sulla testimonianza, obiettando incongruenze sugli orari e sul colore della vettura ferma nella piazzola di sosta.

 I messaggi

Sono stati acquisiti anche una serie di messaggi scambiati tra i figli della donna e Donata Bergamini, la sorella del calciatore. Un altro testimone, il pregiudicato Rocco Napoli, che il giorno della morte stava transitando sulla statale Jonica e che si è presentato spontaneamente dai carabinieri, ha raccontato in aula che «quel giorno piovigginava. Ho visto una macchina ferma in piazzola. Poco prima c’era un ragazzo che camminava sul ciglio della strada e che, mentre proseguivo, procedeva pericolosamente sulla corsia. Ho sterzato per non metterlo sotto.

Aveva lo sguardo assente e ricordo di aver pensato che fosse un pazzo che per poco non mettevo sotto. In piazzola ricordo ci fosse una Maserati chiara con all’interno una donna».

 Sul momento il testimone non avrebbe riconosciuto l’ex calciatore, ma sostiene di aver capito solo più tardi che fosse Bergamini. In aula è comparsa anche Anna Napoli, avvocato e cugina di Rocco che era al distributore dei genitori lungo la Jonica e che ha spiegato come il cugino le spiegò di aver visto quel ragazzo che avrebbe tentato di buttarsi sotto il furgone. Diverse obiezioni sono state sollevate dall’avvocato di parete civile Fabio Anselmo circa l’attendibilità dei due testimoni.

 Le contestazioni

Contestazioni ci sono state anche da parte della presidente della Corte d’assise, Paola Lucente, nei confronti dell’ultima teste, Antonietta Valerio, moglie di Rocco Napoli, in merito a dichiarazioni diverse ed incompatibili rese nel tempo. La prossima udienza è stata fissata per il 12 gennaio.

Le ricostruzioni

Lo scorso novembre in aula era stato ascoltato Raffaele Pisano, 84 anni, il camionista che aveva travolto Bergamini: «Si è buttato sotto il camion volontariamente» aveva ribadito, confermando la tesi che ha sempre sostenuto del suicidio. Secondo la Procura di Castrovillari però, quella del gesto volontario fu una messinscena ed in realtà il corpo di Bergamini fu adagiato davanti al camion quando era già senza vita.

 A carico di Pisano era già stato avviato all’epoca un procedimento penale, che però era stato successivamente archiviato in considerazione delle risultanze emerse dall’inchiesta della Procura di Castrovillari, secondo le quali Bergamini si sarebbe suicidato. Tesi smentita dall’inchiesta aperta successivamente dalla stessa Procura della Repubblica di Castrovillari, all’epoca in cui era diretta da Eugenio Facciolla, secondo la quale quello di Bergamini sarebbe stato in realtà un omicidio volontario.

La relazione: «Bergamini era già morto quando fu investito». CHIARA FAZIO su Il Quotidiano del Sud il 26 Ottobre 2022

«DENIS Bergamini era già morto o era in limine vitae quando fu investito dal camion?». Alla domanda del pubblico ministero Luca Primicerio, il professor Vittorio Fineschi risponde senza tema di smentita: «Sì, era già morto». Il docente di Medicina legale della “Sapienza”, convocato ieri in qualità di teste nel processo “Bergamini”, non ha dubbi sul punto e motiva la sua tesi con i risultati investigativi ottenuti grazie alla “glicoforina”, la proteina di membrana impiegata nel corso della riesumazione del cadavere del calciatore. «Non si tratta di una sperimentazione – ribadisce più volte Fineschi, pioniere degli studi sulla “vitalità della lesione” – bensì di una tecnica ormai stratificata, in grado di restituire dati di assoluta validità scientifica. Insomma, non si possono ottenere dei “falsi positivi” ed è un’indagine valida anche nei casi di putrefazione».

Nel caso di specie, la glicoforina avrebbe consentito di stabilire che le lesioni rinvenute sul corpo di Denis gli sarebbero state inferte quando era già privo di vita. Si evincerebbe dalle «tracce di vitalità su organi lontani dalle parti attinte, come ad esempio la laringe». Al contrario, non sarebbero emerse lesioni sul volto, «completamente sano e senza alcun osso fratturato», né sul cranio, nessuna alterazione traumatica sul torace e gli arti superiori». Da qui la ricostruzione della dinamica dell’incidente, secondo cui la morte del giovane sarebbe sopraggiunta «a causa di meccanismo asfittico tramite un mezzo soffice, un cuscino o un sacchetto. Al momento dell’investimento – va avanti il prof – il corpo giaceva supino sul selciato stradale; fu prima colpito sul lato destro dalla ruota anteriore destra del camion, trascinato per un breve tratto (alcuni metri), sormontato e poi nuovamente attinto durante la retromarcia. Il che avrebbe prodotto la rotazione del bacino».

E allora – domanda la presidente della Corte Paola Lucente – come spiegare le fratture sulla parte sinistra del corpo, segnalate dal professor Francesco Maria Avato, colui che nel 1990 eseguì la prima autopsia? Per Fineschi si tratta di un «limite osservazionale», dovuto al fatto che la parte bluastra visibile in corrispondenza dell’osso sacro fosse una semplice diffusione emoglobinica, peraltro appartenente a un tessuto di cui non fu mai prelevata né analizzato un campione.

Finaschi, poi, sollecitato dalle domande degli avvocati di parte civile Fabio Anselmo, e di Isabella Internò, Rossana Cribari e Angelo Pugliese, si sofferma ad analizzare le analogie con i casi di Stefano Cucchi e Giulio Regeni, ai quali egli stesso collaborò suggerendo il metodo della glicoforina durante le fasi della riesumazione e dell’analisi delle lesioni, ma anche quello di Valentina Pitzalis, in Sardegna, che però in seguito fu archiviato.

Sul banco dei testimoni, sempre ieri sono comparsi anche i medici legali Roberto Testi e Giorgio Bolino, autori a loro volta di altre tre perizie tra il 2011 e il 2013. Il processo riprende l’8 novembre con la testimonianza dell’ex boss di ‘ndrangheta Franco Pino.

Caso Bergamini, quando Isabella si autoincriminò. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano Del Sud il 4 luglio 2022.

La gelosia ossessiva di Isabella Internò e l’onore ferito dei suoi familiari. È dall’incontro di queste due nevrosi che, secondo la Procura di Castrovillari, fiorisce il movente dell’uccisione di Donato Bergamini, e il processo che si celebra in Corte d’assise, sponda accusa, punta tutto su questa tesi. In aula se n’è avuto, fin qui, un assaggio consistente grazie alle testimonianze succedutesi udienza dopo udienza: da Roberta Alleati – la sposa segreta e sedicente – a Roberta Sacchi – fisioterapista e amante per un giorno –  passando per i compagni di squadra Luigi Simoni e Sergio Galeazzi, sono davvero tante le persone che oggi si dicono beninformate sulla morbosità dell’imputata e sul sentimento tossico che la legava a Denis, e a loro si sono aggiunte via via anche diverse adolescenti dell’epoca, ragazze che frequentavano il ritrovo dei calciatori – la villetta di Commenda – amiche o semplici conoscenti del calciatore alle quali lui stesso avrebbe rappresentato più volte il fastidio provocatogli da quella ex fidanzata possessiva e assillante.

L’elenco è destinato a ingrossarsi, dato che all’appello mancano ancora Tiziana Rota – quella del «Meglio morto che di un’altra» – Michele Padovano e, soprattutto Donata Bergamini. Non a caso, è proprio lei a imporre il dato della gelosia folle della Internò, trasformandolo in una verità acquisita, ma solo dal 2010 in poi. In precedenza, infatti, né lei né altri si pronunciano sull’argomento, tant’è che quando nel 2001 esce il libro di Carlo Petrini – oggi vittima di un principio di cancel culture da parte dei suoi stessi sostenitori –  il tema della gelosia di Isabella non viene affrontato neanche di striscio.

Di questo aspetto della vicenda non si parla neanche nell’immediatezza, quando i ricordi avrebbero dovuto essere più vividi, ovvero fra il 1989 e il 1991. Nessun accenno da parte dei testimoni interpellati dall’allora pubblico ministero Ottavio Abbate e, successivamente, nulla di significativo al riguardo emerge dal processo per omicidio colposo imbastito contro il camionista Raffaele Pisano. Anzi, in quella sede è il pm d’udienza Maurizio Saso a offrire un assist formidabile alla sorella di Denis chiamata a testimoniare in aula. «Quali furono le cause della rottura?» le chiede a proposito del rapporto sentimentale fra suo fratello e la Internò. «Ma niente – risponde Donata – In un primo momento mi disse perché aveva saputo che era stata con un altro calciatore. E poi dopo, in ottobre, abbiamo avuto l’occasione di parlarne abbastanza bene, e mi disse che non gli piaceva proprio più».

Nessun riferimento alla gelosia, dunque, ma la musica cambia vent’anni più tardi, quando saltano fuori le parole che poco prima di morire Denis avrebbe riferito alla sorella –  «Isabella è come l’attack» – e sulle quali si innestano le rivelazioni successive di altri testimoni. Ecco allora che a detta della Rota, la Internò «si appostava sotto casa sua per controllarlo» e «gli annusava i vestiti» per verificare che non fosse andato con altre donne. «Era una stalker» taglierà corto più di recente la Alleati, in precedenza anche lei muta sull’argomento.

Eppure c’è una sola persona che nel 1989 fa accenno alla gelosia di Isabella e, paradosso dei paradossi, è Isabella stessa. «Ero gelosa per il lavoro che faceva, e perché la sua notorietà lo metteva al centro delle attenzioni femminili» spiega la ragazza ad Abbate il 23 novembre di quell’anno durante il suo secondo colloquio in Procura. Trenta e passa anni dopo, proprio questo diventerà il movente dell’omicidio, e piuttosto che tentare di nasconderlo, la diretta interessata cosa fa? Si autoincrimina.

«È stato Denis a volere la fine del nostro rapporto, io avrei fatto qualsiasi cosa  perché lo stesso continuasse» aggiunge, quasi un’escalation confessoria, vista con gli occhi degli inquirenti che oggi perseguono l’obiettivo della sua colpevolezza. E invece è molto  probabile che quelle dichiarazioni le abbia rese a scopo difensivo. All’epoca, infatti, più d’una fonte indica proprio in Bergamini il geloso della coppia, circostanza che in quei giorni la Internò sminuisce, salvo poi ammettere – al pari di altri testimoni – che il ragazzo era «tormentato» dalle voci sulla presunta relazione tra lei e un altro calciatore, seppur tale flirt fosse addirittura precedente all’arrivo di Denis a Cosenza.

In quelle ore, però, c’è un pensiero che tormenta pure  l’allora diciannovenne ragazza di Roges: passare come responsabile morale della morte del  fidanzato. Acqua fresca rispetto al calvario che l’attende da lì a vent’anni, ma di questo suo timore, durante il processo contro Pisano se ne accorgeranno tutti, persino la parte civile,  tant’è che il pretore Antonino Mirabile che, in seguito, lo scriverà a chiare lettere nella sentenza che assolve il camionista. Quel 23 novembre, però, a cinque giorni dalla tragedia, è lei stessa che non fa nulla per nascondere questa sua preoccupazione, dicendosi «sgomenta per le illazioni giornalistiche prive di ogni fondamento in ordine al fatto che Denis si sarebbe suicidato per amor mio».

Insomma, ha da poco ucciso un uomo, ma ha paura di essere giudicata, di finire nel mirino dei moralisti e più in generale dell’opinione pubblica. Davvero una strana assassina questa Isabella Internò.

 Caso Bergamini, l'assassino non è al telefono: i centralinisti smentiscono Padovano. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 25 giugno 2022.

Il processo Bergamini scorre lento fra testimonianze per lo più di contorno, almeno fin qui, che si succedono in ordine sparso senza che, dopo ben diciannove udienze, sia ancora emerso nulla di dirimente in relazione agli eventi tragici del 18 novembre 1989. Ieri, però, agli atti del dibattimento ne sono transitate due molto importanti che risalgono al 29 novembre di quell’anno, undici giorni dopo la tragedia di Roseto Capo Spulico.

Sono quelle dei segretari dell’allora motel Agip di Quattromiglia, struttura in cui i calciatori del Cosenza si radunavano alla vigilia delle partite casalinghe. Purtroppo, i ricordi di Emilio Prezioso e Vincenzo Tucci non potevano essere più rinverditi in aula – il primo è deceduto da tempo, l’altro solo di recente – ragion per cui sono state acquisite le dichiarazioni rese da entrambi all’epoca dei fatti.

Si tratta di racconti che offrono una risposta a un quesito centrale della vicenda: prima di uscire dall’albergo per recarsi al cinema “Garden”, e da lì andare poi incontro al suo destino, Bergamini ricevette davvero, intorno alle tre del pomeriggio, una telefonata in camera così come riferisce il suo compagno Michele Padovano? È un tema importantissimo perché, nella ricostruzione degli eventi proposta dall’accusa, quella telefonata sarebbe stata operata dall’attuale imputata, Isabella Internò, per dare al calciatore l’appuntamento fatale nella piazzola sulla Ss 106, cento chilometri più a nord, il luogo dove in seguito troverà la morte.

In chiave colpevolista è un passaggio quasi obbligato, dato che in un’epoca in cui non esistevano cellulari, chat, social network e altri mezzi di comunicazione, quella telefonata rappresenta l’unico punto di contatto possibile fra i carnefici e la vittima, il solo strumento a loro disposizione per poterlo attirare in trappola. Il punto è che, a sentire Tucci e Prezioso, che quel sabato 18 novembre si alternano alla reception, quella telefonata non esiste, non c’è mai stata. Tutte le chiamate, sia in entrata che in uscita dall’albergo, dovevano passare obbligatoriamente dalla hall, il receptionist di turno collegava poi lo spinotto apposito all’interno desiderato e il gioco era fatto.

Quel giorno, però, nessuno di loro riferisce di aver passato la linea nella stanza di Bergamini, il che complica terribilmente le cose. Perché allora Padovano afferma di aver assistito a quella conversazione, durata solo pochi secondi, durante la quale Denis avrebbe detto all’interlocutore solo «Pronto» e «Ciao» prima di riagganciare, salvo poi «rabbuiarsi» all’improvviso? Sarà lui stesso a chiarirlo quando arriverà il suo turno in aula, ma nell’attesa val la pena ricordare che l’ex attaccante della Juve non fa alcun accenno a questa circostanza il 27 novembre del 1989, nove giorni dopo il dramma, quando viene sentito in Procura dall’allora pm Ottavio Abbate.

In quella sede, riferisce solo di un’altra telefonata che Denis fa dalla cabina dell’albergo poco prima di recarsi al cinema, ed è una circostanza confermata da Tucci e che combacia anche con la versione di Isabella, la quale ha sempre sostenuto di essere stata contattata più volte dal suo ex fidanzato per incontrarsi con lui quel pomeriggio.

A dimostrarlo non c’è solo la telefonata fatta dall’albergo, ma anche quelle che partono dal “Garden”, e se riguardo a quest’ultime gli investigatori tagliano corto – «Bergamini non ha mai telefonato dal cinema» – l’altra chiamata, quella effettuata dal motel, la inquadrano nel contesto più ampio della «farsa» inscenata quel giorno dalla Internò. In sintesi, immaginano che la ragazza abbia dato istruzioni a Denis di simulare la chiamata dalla cabina così da avere poi uno strumento in più per dimostrare che era stato lui a cercare lei e non viceversa.

Davvero ingegnoso, ma torniamo a Padovano, anzi ai familiari di Denis, perché sono loro, nei primi anni Duemila, a riferire di aver ricevuto da Michele questa e altre confidenze: la telefonata in camera sì, ma anche il clima di festa che si respirava in casa Internò dopo il funerale di Bergamini, con tanto di vini e pastarelle ordinate per l’occasione.

In seguito il diretto interessato negherà di aver assistito a questa scena surreale, ma dal 2010 in poi, ventuno anni dopo i fatti, introduce il tema della telefonata in camera. Ne parla prima con l’avvocato Eugenio Gallerani, all’epoca difensore di parte civile della famiglia Bergamini, poi nel 2012 con il procuratore Franco Giacomantonio e nel 2017 con il suo successore Eugenio Facciolla. È a partire da questa data che l’argomento decolla, diventando un cardine della presunta macchinazione assassina. Nessuno ne mette in dubbio l’autenticità, e addirittura, sempre dal 2017 in poi, fioriscono le testimonianze a riscontro.

Secondo un altro calciatore – Sergio Galeazzi – Padovano racconta l’episodio della telefonata in camera al resto della squadra, già poche ore dopo la morte di Denis. Anche il massaggiatore Beppe Maltese, l’ultimo teste interpellato due giorni fa, dice di aver raccolto nell’immediatezza quella voce che, fonte Padovano, circolava nello spogliatoio, e di aver chiesto a un impiegato del motel di mostrargli i tabulati delle telefonate che, purtroppo e «stranamente», erano stati già distrutti.

Va da sé che all’epoca non esisteva alcun tabulato, lo ha confermato un altro centralinista interpellato in aula, spiegando come all’epoca non fosse possibile risalire all’identità dei chiamanti né a quella delle persone chiamate; l’unico dato disponibile era solo quello degli scatti per le chiamate in uscita – duecento lire per le urbane, una cifra più consistente per le extraurbane – che venivano conteggiati a fine serata e addebitati ai calciatori.

Nessun tabulato quindi, ma soprattutto nessuna telefonata in camera, a patto di non voler aggiungere anche i poveri Tucci e Prezioso al novero dei presunti cospiratori. Nessuno ha osato tanto, almeno fin qui, e non è un caso che 48 ore fa la loro verità sia entrata nel processo quasi alla chetichella, facendosi largo nel labirinto di testimonianze ambigue che ingolfano questa vicenda e che, probabilmente, risentono dell’inquinamento generato da oltre un decennio di trasmissioni tv, commenti della domenica e pseudo inchieste giornalistiche sul tema. Una verità “silenziosa” quella dei due centralinisti, che stride anche con il clamore di queste ore. Com’è giusto che sia.

Caso Bergamini, l'editore del libro di Petrini: «Dai nipoti di Denis assurdità offensive». Kaos Edizioni risponde alla lettera diffusa dai parenti dell'ex calciatore del Cosenza: «Neppure il dolore può giustificare quanto hanno scritto». Il Quotidiano del Sud il 27 giugno 2022.

 Non si placa la polemica su “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini, nata 21 anni dopo la pubblicazione del libro sulla morte di Denis Bergamini. Dopo l’approdo del testo nelle aule giudiziarie in cui si sta svolgendo il processo e la conseguente lettera diffusa dai nipoti di Bergamini, stavolta è il turno della Kaos Edizioni, la casa editrice che diede alle stampe l’opera.

In una lunga nota definita «di smentita» Kaos Edizioni precisa che il libro «venne redatto nella tarda primavera del 2001 attraverso plurimi colloqui coi familiari di Denis Bergamini: in particolare col padre del calciatore, il signor Domizio Bergamini. La famiglia collaborò anche fornendo la documentazione giudiziaria e l’apparato fotografico. Prima della pubblicazione, il testo del libro fu esaminato in bozza e approvato dallo stesso Domizio Bergamini e dall’allora legale di famiglia.

«Nessuna delle notizie e nessuna delle dichiarazioni riportate nel libro – aggiunge la casa editrice – è mai stata smentita, o rettificata, o negata dagli intervistati, in nessuna sede. Men che meno dal signor Domizio Bergamini (le cui dichiarazioni sono riportate alle pagg. 103-123), il quale anzi, a più riprese negli anni, ha chiesto e ottenuto copie del libro da diffondere, e ha pubblicamente manifestato gratitudine all’autore Carlo Petrini e alla Kaos edizioni. Valga ad esempio quanto dichiarato dallo stesso Domizio Bergamini al quotidiano ‘l’Unità’ il 29-1-2002, richiesto di un parere sul libro: “Petrini ha scritto la verità. Ha fatto ricerche approfondite sulla vicenda di Denis, e mi ha permesso di venire a conoscenza di cose che prima ignoravo…”».

«Nel corso degli anni, la famiglia Bergamini ha sempre manifestato gratitudine a Carlo Petrini, per un libro che di fatto ha strappato il delitto Bergamini dall’oblio. Ne è una riprova – ricorda Kaos Edizioni – quanto dichiarato dalla signora Donata Bergamini in occasione del decesso di Carlo Petrini (16 aprile 2012), e riportato da ‘La Nuova Ferrara’ il 18 aprile 2012: “È stato grazie al libro “Il calciatore suicidato” che è nato il gruppo su Facebook (Verità per Donato Bergamini)… C’è sempre stato un rapporto di amicizia tra Carlo e la nostra famiglia. Ci sentivamo frequentemente al telefono, e varie volte Carlo Petrini è venuto a casa nostra. L’avevamo sentito la settimana scorsa… Questa mattina io, mio padre e i miei figli andremo a Lucca per partecipare ai funerali. È il minimo che possiamo fare per una persona che anche dopo l’uscita del libro non ci ha mai lasciato soli e che ha sempre cercato la verità sulla morte di Denis”».

Per Kaos Edizioni «rientra nel teatro dell’assurdo, dunque, quanto scritto dai nipoti di Denis Bergamini nella pagina Facebook di Donata Bergamini: “… Il libro di Petrini ha arrecato tanto dolore a nonno Domizio e a nostra madre [sic!]… Fango costruito ad arte mescolando cose vere ad altre assolutamente false [sic!]… Una vera e propria operazione di sciacallaggio ai danni di un morto ammazzato e della sua famiglia [sic!]… Un libro denso di falsità e pettegolezzi o, peggio, accuse infamanti [sic!]… La nostra famiglia ha sbagliato a non querelare Petrini, ma non siamo avvocati e non sapevamo che questo avrebbe promosso a verità la menzogna cinica e calcolatrice [sic!]…”».

«La Kaos edizioni e gli eredi Petrini respingono le vere e proprie assurdità, gratuite e offensive, scritte dai nipoti di Denis Bergamini il 24 giugno 2022. Assurdità – concludono – che neppure il dolore connesso a una vicenda drammatica come il delitto Bergamini può giustificare».

Processo Bergamini, galeotto fu il libro. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 23 Giugno 2022.

Più che per la qualità delle testimonianze rese in aula, la diciannovesima udienza del processo Bergamini passerà agli annali della cronaca per le scintille, sempre più incendiarie, tra i difensori di Isabella Internò, in particolare l’avvocato Angelo Pugliese, e il suo collega di parte civile Fabio Anselmo. Quest’ultimo ha lamentato infatti «uno sfregio alla memoria di Denis» che, a suo avviso, si stava consumando in aula; ma l’intervento distensivo del presidente Paola Lucente –

«Questo non lo avremmo mai consentito», seppur tempestivo, non è riuscito a placare gli animi. Per tutta risposta, infatti, Pugliese gli ha urlato contro, accusandolo di istigare l’opinione pubblica contro di lui: «Se succede qualcosa a me o all’avvocato Rossana Cribari – ha affermato testualmente – la colpa è sua». La rabbia è esplosa in modo deflagrante intorno alle 15, mentre era in corso la deposizione di Giuseppe Maltese, già massaggiatore del Cosenza calcio nonché uno dei migliori amici di Denis. Pugliese, in sede di controesame ha chiesto ai giudici di poter leggere al testimone alcuni passi del libro “Il calciatore suicidato” di Carlo Petrini (Kaos ed.), il testo che vent’anni fa riaccese i riflettori sulla vicenda. In quel volume, infatti, c’è un’intervista da lui rilasciata all’autore, un dialogo in cui Maltese, fra le altre cose, traccia un profilo caustico di Bergamini – da lui definito «troppo ingenuo» e per questo preso di mira da alcuni compagni di squadra – e insinua anche sospetti su un suo consumo di spinelli.

Inizialmente il massaggiatore non smentisce queste dichiarazioni, e oggi motiva quella scelta adottata nel 2001 con la volontà di non infierire sullo scrittore già malato (Petrini morirà nel 2012); la sua smentita parte solo nel 2017, in fase d’indagini, e ieri Pugliese ha cercato di metterlo nuovamente a confronto con quei suoi pensieri apocrifi. Anselmo si è opposto, ma il presidente della Corte ha dato via libera alla lettura in aula, tant’è che il diretto interessato ha poi confermato buona parte dell’intervista a eccezione dei passaggi più scabrosi: quello sulla droga e l’altro relativo alla scarsa considerazione che gli altri calciatori avrebbero avuto di Bergamini. Nel bel mezzo, però, è arrivata la reprimenda del patron di parte civile e l’esplosione d’ira del suo avversario processuale che ha paventato denunce contro il collega ferrarese, chiedendo la trasmissione in Procura del verbale d’udienza.

Non si è trattato di una scossa isolata, dal momento che il fuoco cova sotto le ceneri fin dall’inizio del processo. Non a caso, altre fibrillazioni si erano registrate nelle precedenti udienze, con lo stesso Anselmo che, addirittura, aveva reso noto un episodio a dir poco inquietante che lo avrebbe riguardato: «Mi è stato prospettato il rischio che io potessi avere un incidente stradale nelle trasferte in automobile tra Ferrara e Cosenza, aggiungendo che sarei dovuto stare attento, con il relativo commento che non ne sarebbe valsa la pena», aveva dichiarato al giornale “La Nuova Ferrara” lo scorso 19 marzo; parole che, visti i temi del processo in corso, sembrano quasi ammiccare all’esistenza di un metodo tutto cosentino nel travisamento degli omicidi. Non sappiamo se, in quel caso, alla denuncia a mezzo stampa ne abbia fatto seguito pure una a carabinieri o polizia, ma l’episodio conferma comunque come il dibattimento in aula si svolga in un clima tutt’altro che cavalleresco.

Prima di Maltese, sulla scomoda sedia aveva preso posto Francesco Marino, il compagno di squadra di Bergamini al quale la Internò telefonò la sera del 18 novembre. «Mi disse: non sai niente? Denis è morto. Ma non era disperata, non piangeva», ha affermato l’ex terzino rossoblù. Procura e parte civile hanno provato a esplorare il tema dell’apparente distacco emotivo della ragazza che, secondo il calciatore «non era fredda, sembrava volesse raccontarmi solo il fatto». Marino era la quinta persona con cui parlava quella sera. Prima di lui, infatti, si era sfogata con il camionista, con un automobilista di passaggio, con l’allenatore Luigi Simoni e con la propria mamma. Quest’ultima non fa testo, ma tutti gli altri, in tempi e modi diversi, hanno rappresentato lo stato di shock e di prostrazione in cui versava. Prossima udienza l’otto luglio. 

Caso Bergamini, tre secondi per la tragedia: la perizia tecnica del 1989. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 15 Giugno 2022.

Uno degli aspetti del caso Bergamini ritenuti più misteriosi, forse il più misterioso, rimanda alla dinamica dei tragici eventi di Roseto Capo Spulico del 18 novembre 1989. Da anni, infatti, i seguaci della tesi del complotto omicida evidenziano a spron battuto l’impossibilità che l’impatto con un camion delle dimensioni di quello guidato da Raffaele Pisano, lasci sulla vittima solo i segni determinati dalla ruota dell’automezzo.

E invece è ciò che sarebbe avvenuto: non un osso rotto, non una ferita significativa refertata su altre parti del cadavere del calciatore, compreso il volto rimasto pressoché intatto, tutti elementi che stridono anche con il dato di un corpo che si vuole trascinato sull’asfalto per almeno 49 metri.

Ecco, la dinamica di ciò che accade quella sera è, a ben vedere, la cifra stessa del mistero per gli inquirenti di oggi. Non lo era, però, per quelli del 1989, che a loro disposizione avevano una perizia redatta da Pasquale Coscarelli, esperto in infortunistica stradale e consulente tecnico nominato dall’allora pm Ottavio Abbate. Si tratta di un atto poco appariscente dal punto di vista mediatico, ma forse determinante per la comprensione dei fatti.

Coscarelli, infatti, si reca sul luogo dell’incidente il 28 novembre, dieci giorni dopo, per documentare lo stato dei luoghi e, aiutandosi con le foto scattate nell’immediatezza, avanza una possibile ricostruzione di ciò che accadde al km 401 della Strada statale 106.

A suo avviso, Bergamini è «in posizione eretta» quando gli piomba addosso il pesante automezzo che procede a una velocità molto ridotta – fra 30 e 35 km all’ora – e in fase di ulteriore decelerazione. Proprio il moto lento del camion fa sì, secondo il perito, che non si verifichino le conseguenze tipiche di un investimento, con il corpo abbattuto al suolo o sbalzato in avanti.

Nulla di tutto ciò invece, con il povero Bergamini che viene letteralmente sollevato da terra, caricato sulla parte frontale del camion e sospinto in avanti «senza proiezione o lancio balistico». A quel punto, però, Pisano ha già il piede sul freno, e così dopo pochi metri – 15 o 18 al massimo – riesce ad arrestare la marcia, è a quel punto che il corpo di Bergamini viene rilasciato al suolo, proprio mentre la ruota anteriore destra compie un mezzo giro in avanti e gli schiaccia l’addome. Tutto si sarebbe consumato nel giro di due secondi, al massimo tre.

«Poteva addirittura salvarsi, poteva anche salvarsi» dirà due anni con tono di rimpianto Antonino Mirabile, pretore nel processo per omicidio colposo contro Raffaele Pisano. Sì, avrebbe potuto, ma purtroppo il destino aveva in serbo un finale diverso. Secondo il perito, dunque, sì spiega così il «sormontamento parziale di un corpo disteso sull’asfalto», e non certo perché quel corpo fosse a terra in quanto già privo di vita. E non solo.

All’epoca, Coscarelli risolve anche l’enigma trascinamento sì, trascinamento no. La risposta è che non vi fu alcun trascinamento. Questo è solo un equivoco generato a caldo da un errore veniale del brigadiere Francesco Barbuscio, che quella sera esegue i primi rilievi del caso su una scena già inquinata, al buio e sotto la pioggia.

Il carabiniere nota sull’asfalto una frenata di 49 metri e l’attribuisce all’incidente appena avvenuto, poi alcune ore più tardi va in caserma con il camionista e compila il suo primo verbale di sommarie informazioni, quello in cui l’allora cinquantenne rosarnese dichiara di aver trascinato il corpo di Denis.

«Mi sono conformato a quello che diceva il brigadiere» spiegherà in seguito Pisano, ma quella strisciata non presenta tracce di sangue, solo di pneumatico. Impossibile che abbia a che fare con la tragedia, Coscarelli lo rappresenta a Barbuscio che, correttamente, conviene e mette a verbale: «Frenata di attribuzione dubbia».

Nel 1991, durante il già citato processo contro Pisano, il consulente di Abbate tornerà poi sul capitolo posizione del corpo: Bergamini era ancora in piedi o già disteso al suolo? La domanda gliela pone proprio in questi termini il difensore del camionista, l’avvocato Giacomo Saccomano, ai tempi in cui nessuno fra giudici, pubblici ministeri e avvocati (anche quelli di parte civile) pensa anche lontanamente che possa essersi trattato di un omicidio.

E quindi Bergamini era già a terra o in posizione eretta? Coscarelli non ha dubbi: era certamente in piedi perché in caso contrario Pisano «non lo avrebbe avvistato in tempo», «non avrebbe avuto la reazione istintiva di frenare e di evitare un investimento», non ne avrebbe avuto «lo spazio né il tempo», morale della favola: «Lo avrebbe travolto». Trent’anni dopo arriverà la medicina legale della dottoressa Carmela Buonomo a mettere in discussione la logica, ma questa è un’altra storia. 

Caso Bergamini, la superteste e la paura di "laggiù". MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud l'1 Giugno 2022.

La supertestimone del processo Bergamini che non si presenta in aula perché «ha paura» è uno spettro che si aggira in Corte d’assise dallo scorso gennaio, cioè da dal giorno in cui la programmata audizione di Tiziana Rota, moglie dell’ex calciatore Maurizio Lucchetti, salta ufficialmente per motivi di salute della diretta interessata. In quel caso, a paventare il sospetto che le ragioni della sua assenza siano ben altre, è il pm Luca Primicerio, e da allora quel suo pensiero esternato ad alta voce  – «Ritengo abbia paura» – ha continuato ad aleggiare in aula, udienza dopo udienza, fino allo scorso 26 maggio, quando la donna ha marcato nuovamente visita; stavolta, però, allegando una documentazione clinica dal contenuto in apparenza inoppugnabile.

La Rota non sta bene per davvero, come certificano diversi medici, dando atto che è sotto osservazione psichiatrica e in condizioni tali da non poter testimoniare, a loro avviso né ora e né mai.

Ma di chi o di cosa ha paura Tiziana Rota? E perché le sue parole sono ritenute così importanti? Lombarda d’origine e coniugata con l’allora compagno di squadra di Denis, nel suo biennio di permanenza in Calabria sostiene di aver stretto un rapporto confidenziale, se non di amicizia, con l’attuale imputata. A novembre del 1989, lei e suo marito si sono già trasferiti a Salerno, ma in occasione di una loro comparsata in città, qualche giorno prima della data fatidica del 18, Tiziana avrebbe incontrato la Internò davanti a una pasticceria di Rende, raccogliendo il suo sfogo sulla fine della relazione con Bergamini. «Se non può essere mio, meglio che muoia», avrebbe vaticinato Isabella e, al sopraggiungere dei due cugini, sempre lei avrebbe aggiunto: «Zitta, che se sanno che mi ha lasciata lo ammazzano per davvero». Addirittura due possibili moventi in un colpo solo, dunque, confidenze che la moglie di “Lucky gol” tiene segrete per circa vent’anni salvo poi affidarle, nel 2010, all’avvocato Eugenio Gallerani, il vecchio legale della famiglia Bergamini allora impegnato a tentare di far riaprire il caso.

Va da sé che l’allora procuratore di Castrovillari Franco Giacomantonio attribuirà un peso molto relativo a tutte le testimonianze fiorite da 2010 in poi, compreso il discorso della pasticceria, e che le stesse, invece, diventeranno oro colato per i suoi successori; differenze di vedute a parte, un approccio problematico alle affermazioni della signora Lucchetti sembrano consigliarlo anche le intercettazioni più recenti.  Proprio lei, infatti, a colloquio con Donata Bergamini nel 2017 le dice di aver pensato «già dal giorno successivo» che a uccidere suo fratello fosse stata Isabella, parole che stridono con le scelte operate nell’immediatezza, a gennaio del 1990, quando lei e suo marito decidono di ospitare la Internò nella loro nuova dimora, a Vietri sul Mare, per «farla distrarre un po’». Strano contegno, visto che la consideravano un’assassina.

A ciò si aggiungono altre captazioni dalle quali affiora il dubbio che la sua «paura», quella a cui in seguito farà riferimento Primicerio, sia anche una suggestione determinata da pregiudizi ancestrali. A colloquio con Sergio Galeazzi, un altro ex calciatore, la Rota sbotta: «Non ho detto tutto. E non dico più niente perché ho paura».  Ma paura di che? «Delitto d’onore! Lo sappiamo tutti com’è andata», e aggiunge di aver comunque informato Donata Bergamini delle informazioni inedite in suo possesso. Proprio alla sorella di Denis, Tiziana manifesta i suoi timori in un dialogo successivo: «Paura, insomma, la paura, sapete come vanno le cose giù al Sud», concetto ripreso poi a colloquio con un giornalista che la cerca per una comparsata in tv: «Laggiù avevo paura» dice, rievocando il suo biennio cosentino. «Laggiù mi faceva paura la vita, difatti non so voi con che coraggio ci andate».  

Dopo aver preso atto della sua impossibilità a essere presente in aula, sia i giudici che la pubblica accusa hanno convenuto sull’opportunità di mettere Tiziana Rota e Maurizio Lucchetti – il suo caregiver – in coda all’elenco dei testimoni (devono esserne sentiti ancora poco meno di duecento) nella speranza che la salute della donna migliori; in caso contrario, si aprirà una disputa sull’acquisizione delle sue dichiarazioni. 

Caso Bergamini, quel “pasticciaccio” all’obitorio: le verità inedite sull’autopsia. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 27 maggio 2022.

Ci sono un carabiniere, un medico e un pubblico ministero nella morgue di Trebisacce. Non è l’incipit di una barzelletta lugubre, ma il secondo atto di una tragedia. È il 19 novembre del 1989, e i tre non sono soli in quello stanzone d’ospedale: con loro c’è anche un corpo privo di vita, quello di Donato Bergamini, deceduto la sera prima sulla Ss 106, all’altezza di Roseto Capo Spulico, sotto la ruota anteriore destra di un camion in transito.

La mattina successiva è in corso l’ispezione cadaverica e il dottor Antonio Raimondi detta il referto che il maresciallo Carbone trascrive su carta intestata della Procura sotto la supervisione del pm Ottavio Abbate. Sembra una pratica routinaria, ma trentatré anni dopo si trasforma in un gioco degli equivoci fino a diventare un nuovo capitolo del mistero. Ieri, infatti, Carbone e Raimondi si sono ritrovati in tribunale sulla scena del processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore oggi accusata di aver inscenato il suo investimento per coprire quello che in realtà è stato un omicidio premeditato. In sintesi, uno strangolamento «soft» mascherato da suicidio.

E secondo la Procura attuale, anche quel documento medico-legale redatto all’indomani della morte dell’atleta può far parte della presunta macchinazione. La sponda l’ha offerta proprio Raimondi nel 2017, perché sentito dalla polizia giudiziaria nega di aver partecipato a quell’accertamento. «Non sono un anatomopatologo, quella che leggo non è una terminologia che mi è propria» disse all’epoca, e lo ha ribadito anche ieri in aula.

All’epoca prestava servizio al Pronto soccorso, un piano in su rispetto all’obitorio, e sostiene di essere stato chiamato da «un inserviente forse» perché «alcune persone importanti» volevano parlare con lui. Bergamini, dice di averlo visto solo di sfuggita, ma di non averlo toccato, né di aver eseguito ispezioni sul suo cadavere. Cosa c’è scritto allora quel verbale di ispezione? Il pm formula dei quesiti relativi al possibile orario della morte nonché alle cause, e il medico risponde: «Arresto cardiocircolatorio» determinato dall’investimento del mezzo pesante. Su quel verbale si da atto poi di aver tastato la mano di Denis – la cosidetta digitopressione – per valutare la natura delle ipostasi e, dopo un accenno alla rigidità degli arti inferiori, si parla della presenza di «politraumi in diverse parti del corpo».

Per Raimondi, nulla di tutto ciò, considerato che lui Bergamini sostiene di averlo visto appena ma di non averlo mai sfiorato. L’audizione di Carbone non ha diradato le ombre, anzi le ha addensate. L’ex comandante della stazione di Trebisacce, interrogato anche lui nel 2017, disse di ricordare che quel giorno, con lui e Abbate, c’era proprio Raimondi, ma ieri non era più così sicuro. «Forse si attendeva l’arrivo di un medico legale da Bari».

È tornato poi alla versione iniziale, ribadendo come anche a suo avviso nessuno dei presenti abbia messo le mani su quel corpo. Il confronto all’americana fra i due, disposto dalla Corte d’assise, non ha risolto il dilemma, ragion per cui su richiesta dei difensori della Internò, i giudici hanno convocato d’urgenza Abbate. «Non comprendo le ragioni per le quali si dovrebbe dubitare dell’autenticità di questo documento» ha detto fra le altre cose, rispondendo alle domande che accusa, difesa e parte civile gli hanno sottoposto a turno.

Nei suoi ricordi, quell’ispezione cadaverica fu disposta per decidere se eseguire in seguito l’autopsia. Il responso fu negativo perché «non c’era alcun elemento per dubitare che i fatti fossero andati diversamente da come li avevano raccontati i testimoni», e a ciò si aggiungevano anche una serie di evidenze, prima fra tutte il corpo di Denis ridotto in quello stato.

L’addome confuso con il torace, traumi descritti come «multipli» che invece erano localizzati solo nel punto in cui la ruota sormontò il corpo, l’assenza della firma di Raimondi sul verbale (erano presenti però tutti i suoi dati anagrafici, indirizzo di residenza incluso): a questi dettagli si sono richiamati accusa e parte civile per metterlo in difficoltà, ma a loro l’ex pm ha ricordato che «un mese dopo – in realtà erano trascorsi solo nove giorni, ndr – diedi disposizioni di effettuare l’autopsia, anche perché l’opinione pubblica si poneva molte domande, la posizione della famiglia Bergamini era mutata, e non volevo che quel mancato accertamento fosse percepito come un intralcio alla giustizia. A garanzia di ulteriore trasparenza, delegai però il pm di Ferrara, luogo di residenza della famiglia Bergamini».

Sarà il Tribunale ferrarese, in seguito, a nominare il consulente medico, e ea da sé che in presenza di un esame autoptico il verbale d’ispezione cadaverica diventi già all’epoca un documento superato; dopo più di trent’anni non è più così. «Ma per quale ragione poi si dovrebbe dubitare della sua autenticità?» ha ribadito Abbate, ed è una domanda alla quale nessuno osa rispondere, soffia ancora in aula e nel vento. E a proposito di autopsia: il testimone ha fatto accenno anche a una conversazione intrattenuta a caldo con Domizio Bergamini, il papà di Denis, che in presenza dell’allora presidente della società del Cosenza, Antonio Serra, gli avrebbe chiesto di non effettuare quell’esame sul corpo di suo figlio.

Una circostanza contestata dall’avvocato Fabio Anselmo: «Non voleva che fosse eseguita a Castrovillari?» ha domandato il legale di parte civile, ma al riguardo Abbate ha citato testualmente le parole dell’ormai defunto genitore: «Dottore, se avete deciso di fare l’autopsia, non fatela. Evitatemi questo strazio». Nel 1989 Ottavio Abbate era l’unico magistrato inquirente in servizio a Castrovillari, città all’epoca orfana di un procuratore della Repubblica. Non ha una scorta, ma ciò non gli impedisce di guidare la prima inchiesta antimafia che porta all’arresto e poi alla condanna di Giuseppe Cirillo, allora boss indiscusso della Sibaritide e collegato alla camorra di Cutolo. In seguito diventerà presidente del tribunale di Sala Consilina e poi di quello del Pollino. È in pensione dal 2016.

Processo Bergamini. Castagnini, i "No" di un capitano. Tirato in ballo da un calciatore nelle intercettazioni, nega di essersi venduto le partite, "Mai fatto, ne vado fiero". MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud 23 Giugno 2022.

Era il capitano di quel Cosenza che in due anni sfiorò il doppio salto dalla serie C alla A e, trenta e passa anni dopo, Renzo Castagnini è dovuto tornare con la memoria a quella stagione calcistica indimenticabile, esplorandone però il capitolo più triste: la morte del suo compagno di squadra Donato Bergamini.

Lo ha fatto da testimone, convocato anche lui sulla scena del processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata di Denis oggi accusata di omicidio premeditato e volontario. Isabella, la ragazza di Rende che piange disperata davanti alla bara del suo amato e che riceve una carezza di conforto proprio da Castagnini; un gesto immortalato dai fotografi dell’epoca, che segna la vicinanza di un momento lontano e irripetibile. Ieri, infatti, i posti in aula assegnati a entrambi dal destino erano molto più distinti e distanti: sul banco dei testimoni lui, su quello degli imputati lei.

«Non frequentavo Bergamini fuori dal campo di gioco – ha ricordato l’ex centromediano oggi 66enne – e più in generale non frequentavo i calciatori scapoli, essendo già sposato e con una figlia. Sapevo che lui e la Internò erano fidanzati, ma non ho mai parlato con loro di questioni relative al loro rapporto. Li vedevo come due ragazzi giovani che stavano insieme e basta».

Gli inquirenti lo hanno sentito una prima volta nel 1989, a ridosso della tragedia; poi nel 2012 e ancora nel 2017, periodo in cui è stato anche intercettato. Sul dramma di Roseto, però, Castagnini ha sempre avuto ben poco da dire, e ieri non ha fatto eccezione alla regola, tanto da sottrarsi persino alla domanda più ricorrente del processo, quella che il pm Luca Primicerio propone a un po’ tutti i testimoni interpellati: «Che idea si è fatto della morte di Bergamini? Ritiene possibile che si sia suicidato?». Risposta: «Non compete a me farmi un’idea, non mi piace giudicare».

Le “chiacchiere dei giornali” però, quelle neanche lui ha potuto ignorarle. E così, nel 2017 a colloquio con gli investigatori, un’idea al riguardo mostra di essersela fatta, un pensiero che ha rinverdito ieri in aula: «Pensai a una disgrazia, a un gesto spericolato di Denis. Ho in mente un giorno trascorso con lui in piscina e ricordo i suoi tuffi molto temerai dal trampolino. Aveva una grande coordinazione, e lo invidiavo per questo».

Il tuffo in piscina che ritorna, la stessa rappresentazione della tragedia di Roseto fatta dalla Internò che, anche per aver sempre evocato questa immagine ritenuta inverosimile, se non impossibile, si ritrova oggi inchiodata alla croce giudiziaria. Isabella ne parlò nell’immediatezza con Castagnini? Interiorizzò questa suggestione? Un tema tralasciato da accusa e difesa che hanno seguito, invece, copioni paralleli durante i rispettivi esami e controesami.

L’aspetto emotivo in primo piano per Primicerio, ovvero l’ultimo allenamento, il giorno della morte: «Era carico e motivato – ha ribadito Castagnini – e spronava me e i compagni a vincere la partita, il giorno successivo, per tirarci fuori da una classifica non buona».

E poi, il calcioscommesse, argomento sul quale l’attuale direttore sportivo del Palermo, con un trascorso da capo scout della Juventus, ha inteso mettere le cose in chiaro: «Sono nel mondo del calcio da 47 anni, e mai nessuno si è avvicinato a me chiedendomi di alterare il risultato di una partita. Ne vado fiero».

Al riguardo, il pubblico ministero l’ha toccata piano; la difesa, invece, ha usato la scimitarra. Non a caso, l’avvocato Angelo Pugliese gli ha letto le intercettazioni di alcuni suoi compagni di squadra – il portiere Luigi Simoni in primis – che gettano sospetti in materia proprio su di lui.

«Ero in attività mentre due grandi inchieste sul Totonero facevano il loro corso senza che io sia mai stato coinvolto in alcun modo» è stata la risposta più articolata. Per il resto, a domande più esplicite, i suoi “No” secchi e ripetuti sono rimbombati più volte nel silenzio della Corte d’assise. Con le sorelle Brunella e Paola Ricci si è cambiato decisamente argomento. Titolari di un ristorante all’epoca molto frequentato da calciatori e dirigenti del Cosenza – lo “Steak house” di Laurignano – ebbero il privilegio di avere Bergamini a cena, due volte a casa e una nel locale.

Quest’ultimo episodio risale all’inizio di novembre del 1989, e il ricordo che specie una delle due sorelle ha di quella sera è di un Bergamini “pensieroso”, “triste”, “con gli occhi bassi”, quasi “assente”. L’anno precedente una di loro ci è uscita insieme un paio di volte, qualche giro in auto a Commenda, ma poi «ho saputo che era fidanzato e la cosa non è andata avanti».

Giuliana Tampieri, invece, è la donna all’epoca ventitreenne che trascorre con lui la notte del 12 novembre 1989, all’hotel Hilton di Milano dopo la trasferta del Cosenza a Monza. «Lo conoscevo da quando avevo diciotto anni, veniva con il padre a mangiare nella trattoria in cui lavoravo come cameriera. Gli piacevo, ma io non ero interessata a lui. L’ho rivisto anni dopo, a settembre del 1989, quando è venuto a trovarmi un po’ a sorpresa. Qualche mese prima era deceduto il mio fidanzatino dell’epoca e probabilmente lui lo aveva saputo».

Denis la invita in Lombardia e poi trascorre la serata con lei, parlano di argomenti leggeri e “banali” e poi prendono due camere separate. «Non ci ha provato, è stato sempre molto rispettoso. Solo dopo la sua morte ho appreso che aveva una fidanzata a Russi, ma se lo avessi saputo prima non sarei neanche andata a Monza».

Infine, Stefano Benanti, oggi finanziere a Rimini ma in quei giorni talento della giovanile del Cosenza a volte aggregato alla prima squadra. Bergamini lo ricorda come un «combattente in campo», ma poco loquace con lui a differenza di altri come Michele Padovano e Claudio Lombardo. A Benanti, Denis darà un passaggio a casa il giorno prima di morire, un viaggio descritto così dal diretto interessato: «Era più taciturno del solito, non scambiammo neanche una parola». Mezza, invece, la scambia con Isabella dopo il fattaccio, dopo averla incontrata casualmente in città: «Mi ripeté in modo succinto che Denis voleva andarsene dall’Italia, che scese dall’abitacolo e si allontanò dall’auto. Non ricordo se mi disse di aver assistito al suo investimento o se lo perse di vista proprio nell’attimo in cui passò il camion».

Caso Bergamini, escono dall'inchiesta il camionista e il marito della Internò. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 15 maggio 2022.  

I LORO nomi sono rimasti due anni nel registro degli indagati e per un altro triennio nel limbo, fra coloro i quali son sospesi. Ora, però, Luciano Conte e Raffaele Pisano escono dall’inchiesta sulla morte di Donato Bergamini con un provvedimento d’archiviazione che era già nell’aria da tempo, ma per la cui ufficialità entrambi hanno dovuto attendere un bel po’. Ora però c’è anche quella, perché alla richiesta avanzata lo scorso febbraio dal pm Luca Primicerio si è aggiunto il provvedimento del gip Simone Falerno.

Diverso era il grado di coinvolgimento nella vicenda dei due ex indagati per come ipotizzato dagli inquirenti. Conte, poliziotto in quiescienza, è il marito di Isabella Internò, la donna accusata dell’omicidio del calciatore, e a sua volta era sospettato di favoreggiamento. Nel suo caso, gli investigatori erano andati a ripescare un’intercettazione del 2012, risalente ai tempi della precedente inchiesta poi archiviata. Si tratta di un’ambientale fra lui e la consorte, captata nella sua automobile, di poco precedente all’appuntamento che, in quei giorni, Isabella ha con l’allora procuratore Franco Giacomantonio. Non è ancora formalmente indagata per la morte del suo ex fidanzato e sarà sentita in Procura come semplice testimone; in previsione di quell’evento il marito le dà alcuni suggerimenti sul contegno da tenere durante l’interrogatorio. Le consiglia di abbondare con i «non ricordo» nelle sue risposte, considerato che sono passati 23 anni dalla morte di Bergamini e, probabilmente, da poliziotto, teme che dall’altra parte ci siano persone pronte ad appigliarsi a ogni piccolo dettaglio per poterlo poi utilizzare contro di lei.

Non sarà così, tant’è che gli inquirenti dell’epoca non scorgono la presenza di alcun reato in quella conversazione, a differenza dei loro successori che, nel 2018, procederanno per favoreggiamento. Un’ipotesi di reato già prescritta all’epoca, figuriamoci nel 2022,  fatto sta che è proprio all’intervenuta prescrizione che si richiama Primicerio per motivare la richiesta di archiviazione.        

Tutt’altro discorso per Pisano. Il camionista che investì Denis era sotto inchiesta per concorso in omicidio; già giudicato (e assolto) nel 1992 quando l’accusa era di omicidio colposo, non avrebbe potuto comunque essere processato una seconda volta per gli stessi fatti. Non è questo, però, il motivo per cui è uscito di scena. Già la polizia giudiziaria, nel 2019, era stata costretta ad ammettere che il suo coinvolgimento nei fatti di Roseto Capo Spulico del 18 novembre 1989 è puramente incidentale: passava di lì per caso.

Primicerio riprende le conclusioni di quell’informativa e propone una formula dubitativa: «I fatti esposti non consentono di sostenere efficacemente in dibattimento l’ipotesi del suo coinvolgimento nell’omicidio», ma i termini utilizzati dal gip per archiviare la sua posizione suonano in modo più netto: «Non si rileva un suo fattivo coinvolgimento nella verosimile messinscena del suicidio del Bergamini». L’uscita di scena del rosarnese pone ora una serie di dubbi procedurali sulla posizione che lo stesso assumerà nel processo in corso contro la Interò.  Pisano, infatti, è inserito nella lista dei testimoni di accusa e difesa, e il suo status di persona già imputata in un procedimento connesso, suggerisce che debba essere sentito in aula assistito da un avvocato di fiducia. E soprattutto che gli sia concesso di avvalersi anche della facoltà di non rispondere. Una diversa interpretazione del Codice, rimanda a un’altra possibilità. Il suo “ne bis in idem”, il fatto che non possa essere processato due volte per lo stesso reato, esclude anche l’eventualità di una sua possibile e futura incriminazione, in tal caso da testimone (con o senza avvocato) avrebbe l’obbligo di rispondere.

Un dilemma che sarà risolto quando arriverà il suo turno in aula, appuntamento che la Procura evidentemente non ritiene così urgente nonostante l’uomo abbia già compiuto 84 anni e di tutta la vicenda sia un po’ il testimone chiave. Non a caso, sono state celebrate già sedici udienze del processo e di convocazioni, per lui, ancora neanche l’ombra.  

Processo Bergamini: la rivincita del "gruppo Z", sentiti i carabinieri che nel 2011 ipotizzarono il delitto d'onore. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 09 maggio 2022.  

All’epoca, Donata Bergamini li ribattezza “Gruppo Z”, nulla a che vedere con Putin, semmai con i cavalieri dell’apocalisse: ritiene, infatti, che quei carabinieri siano gli ultimi che indagheranno sulla morte di suo fratello Denis. Correva l’anno 2011, e in seguito la cronaca le darà torto. L’inchiesta sui fatti del 18 novembre 1989 alla quale partecipa anche il suddetto Gruppo sarà archiviata, ma di lì a poco la palla passerà ad altri investigatori che chiederanno (e otterranno) il rinvio a giudizio di Isabella Internò per l’omicidio volontario dell’allora calciatore del Cosenza. Un delitto che si ritiene maturato per motivi passionali – «l’onore» – nell’alveo della famiglia della ragazza, ex fidanzata della vittima, che a ben vedere era proprio la tesi portata avanti dal cosiddetto “Gruppo Z”.

Anche per questo, stamane sulla scena del processo si è consumata la piccola rivincita di quei carabinieri. Due di loro, il luogotenente Roberto Redavid e il maresciallo Fabio Lupo, sono stati convocati per ripercorrere l’informativa da loro redatta nel 2012, ai tempi in cui agivano su delega del procuratore Franco Giacomantonio.

Il pubblico ministero d’udienza li ha impegnati a ripercorrere un po’ tutti gli accertamenti da loro svolti, ed è venuto fuori come i temi trattati fossero quelli poi ripresi in toto dai loro successori: la gelosia di Isabella, l’aborto della ragazza come spartiacque del rapporto sentimentale fra lei e il calciatore, l’assenza di ragioni valide per cui quest’ultimo potesse togliersi la vita, l’esclusione di piste alternative quali la droga, il calcioscommesse, il crimine organizzato. Va da sé che tra i compiti a loro demandati vi fosse la ricerca di nuove prove, alcune attività intercettive, l’acquisizione di documenti e testimonianze, ma non certo una possibile ricostruzione di dinamica e movente del presunto omicidio, circostanza che porterà poi Giacomantonio a contestare loro di essersi «avventurati in valutazioni che esulavano dalle loro prerogative» o di aver «azzardato congetture articolate su ipotesi di verosimiglianza e plausibilità autoreferenziale».

Acqua passata, perché dieci anni dopo le loro tesi hanno trovato cittadinanza in un’aula di tribunale. Il loro esame è stato lungo e articolato, a tratti ridondante, considerato che sugli stessi temi si erano già espressi i loro successori, autori dell’informativa più recente nel 2017, ma tant’è: quello in corso davanti ai giudici della Corte d’assise presieduta da Paola Lucente (con Marco Bilotta a latere) è anche un processo di logoramento oltre che di trincea.

Non è mancato il momento spettacolo, con la richiesta avanzata dalla Procura di ascoltare in aula un’intercettazione ambientale del 2011 fra Isabella e suo marito Luciano Conte, tentativo poi abortito a causa della pessima qualità dell’audio. In conclusione, Lupo e Redavid hanno sgomberato il campo dalle ombre che aleggiavano da anni sul loro trasferimento decretato proprio dopo la consegna dell’informativa. Nessuno ha voluto fermarli, erano in rotta con la loro scala gerarchica per altri motivi, tant’è che in precedenza avevano persino denunciato i propri superiori, gli stessi che nonostante gli animi tesi li avevano poi messi a indagare sul caso Bergamini. Mercoledì, intanto, si torna in aula. 

Processo Bergamini, il Covid blocca le udienze. Anselmo contagiato chiede e ottiene il rinvio, ma i testi erano comunque assenti congedati dalla Procura già prima della decisione del giudice. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 aprile 2022.  

Il Covid fa capolino sulla scena del processo Bergamini, rallentando così le operazioni in aula. Lo aveva fatto già una volta, a scapito di qualche giudice popolare, ma oggi la storia si è ripetuta.

A essere contagiato, stavolta, è stato l’avvocato Fabio Anselmo, patron di parte civile, e dato che tutti i suoi collaboratori sono finiti in quarantena, nell’impossibilità di nominare sostituti processuali, ieri mattina il legale ferrarese ha inviato in extremis alla Corte d’assise una richiesta di rinvio dell’udienza per legittimo impedimento.

Stamane i giudici avrebbero dovuto decidere se accogliere o meno l’istanza, e considerato che la presenza in aula della parte civile non è considerata vincolante, l’esito non era poi così scontato. Si è optato poi per un rinvio, ma la singolarità di questa vicenda è che anche in caso di parere contrario dei giudici, la seduta sarebbe saltata lo stesso.

Questo perché, sempre nel pomeriggio di mercoledì, la Procura di Castrovillari ha contattato telefonicamente i testimoni in scaletta, comunicando loro di non presentarsi in aula. «Visto che sono persone un po’ in avanti con l’età», si è giustificato il pubblico ministero d’udienza che, evidentemente, dava per scontato l’esito della querelle.

In tutto ciò la difesa di Isabella Internò ha lamentato di non essere stata messa al corrente delle manovre in atto, ma di averlo appreso solo a babbo morto. In aula non c’erano gli avvocati Angelo Pugliese né Rossana Cribari, messi fuori gioco da impedimenti di natura privata e professionale, ciò nonostante da parte loro non era arrivata alcuna richiesta di rinvio dell’udienza. Pronti a dare battaglia fra i banchi c’erano i loro sostituti Giuseppe Lanzino e Pasquale Marzocchi, e proprio loro hanno rilevato «l’irritualità» delle fasi che hanno portato al rinvio, pretendendo che le loro osservazioni fossero messe a verbale.

È finita lì, senza strascichi ulteriori perché il presidente Paola Lucente ha chiuso la questione, annullando anche l’udienza in programma domani per dare appuntamento a tutti il prossimo 9 maggio. Covid permettendo. Quel giorno, dunque, saranno sentiti i testimoni rimasti in sospeso, tre dei quali ritenuti molto importanti dalla parte civile. Non a caso, le persone convocate in aula da Anselmo dovrebbero introdurre il tema dei «depistaggi» che per l’avvocato della famiglia Bergamini incombono su questa storia.

Il dottor Antonio Raimondi è il medico dell’ospedale di Trebisacce che il 18 novembre del 1989 esegue la ricognizione cadaverica sul corpo di Denis alla presenza dell’allora pm Ottavio Abbate e di un ausiliario dei carabinieri. Nel referto, breve e conciso, parla di «politraumatismi alle parti molli e alle ossa in diverse parti del corpo» e dietro queste parole, messe nero su bianco e in apparenza neutre, secondo Anselmo si cela un depistaggio. Va da sé che, sentito nel 2017 durante le indagini, Raimondi smentisca di aver eseguito quell’accertamento medico legale e di essersi limitato solo a «un’ispezione visiva» del cadavere. Perché nega? Sarà lui stesso a fare chiarezza in aula. Dopo di lui arriverà il momento dei carabinieri del Gruppo Z, così ribattezzati nel 2012 da Donata Bergamini. Confezionano loro l’informativa quando a guidare l’inchiesta c’è Franco Giacomantonio, ed è un documento matrice rispetto a quello che sette anni dopo produrrà l’ispettore Ornella Quintieri.

Non a caso è in quelle pagine che si parla per la prima volta di delitto d’onore e di un Bergamini soffocato e vittima di una cospirazione familiare, tesi all’epoca bollate dal procuratore e dal gip come «mere congetture autoreferenziali», ma che oggi, invece, rappresentano la cifra del processo in corso. Fatto sta che nel 2014, una volta completata l’informativa, il cosiddetto Gruppo Z chiede di operare ulteriori intercettazioni e raccogliere altre testimonianze, ma per Giacomantonio, già orientato ad archiviare l’inchiesta, può bastare così.

Nei giorni successivi, la rete e gli organi d’informazione interpretano così la notizia: «Trasferiti i carabinieri che indagano sul caso Bergamini». Ora se andò davvero così, lo sapremo fra qualche giorno dalla viva voce dei diretti interessati. Gruppo Z a parte, fra i testimoni non ci sarà più un carabiniere in pensione, Iconio Bagnato, che nel 1989 guidava la stazione di Rocca Imperiale. Purtroppo, è deceduto nei giorni scorsi.

Processo Bergamini, "compagni di scuola" della Internò a rischio incriminazione. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 13 Aprile 2022.

Nel film di Verdone si incontrano dopo quindici anni per una rimpatriata che si rivelerà amara. A Cosenza di anni ne passano trentadue, ma stavolta la location prescelta è il palazzo di giustizia perché una di loro è sotto accusa per omicidio volontario, quello di Donato Bergamini.

Compagni di scuola di celluloide nel primo caso, in carne e ossa nel secondo: sono gli ex ragazzi della Ragioneria di Rende, sezione B, quella frequentata negli anni Ottanta da Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore morto il 18 novembre del 1989. È finita male, proprio come al cinema, perché due di loro – Luisa Marsico e Antonio Mazzitelli – rischiano ora l’incriminazione per falsa testimonianza.

A spingere in questa direzione, chiedendo la trasmissione degli atti in Procura, sono stati il pm Luca Primicerio e il patrono di parte civile Fabio Anselmo, con i giudici che si sono riservati una decisione che, verosimilmente, sarà resa nota il 28 aprile alla ripresa dei lavori in aula.

A inguaiare la prima sono stati i tentennamenti rispetto alle dichiarazioni da lei rese prima nel 2012 e poi nel 2017, verbali nei quali la donna riferiva del contegno tenuto dalla Internò nei giorni successivi alla tragedia di Roseto Capo Spulico. “Isabella cambiava continuamente versione – ebbe ad affermare all’epoca – una volta diceva che si era tuffato, un’altra che era scivolato. Ragion per cui non mi sembrò sincera e scadette ai miei occhi come amica”.

Considerazioni personali, in verità pure innocue, che la Marsico fa all’età di diciott’anni e che rinverdisce molti anni più tardi alla polizia giudiziaria, ma che a grandi linee non si è sentita di confermare ieri in aula. “Il punto è – ha spiegato – che ho visto troppe puntate di “Quarto grado” e “Chi l’ha visto” e ho letto troppi giornali, ormai non riesco più a distinguere un ricordo vero da una notizia appresa successivamente”. Apriti cielo. Anselmo ha azzardato l’ipotesi che a condizionarla non siano stati i rotocalchi televisivi, ma “articoli di certa stampa locale”, senza precisare quali articoli. Quale stampa.

E quando poi la testimone aggiunge di aver espresso gli stessi dubbi all’ispettore Ornella Quintieri, colei che la sentì a sommarie informazioni, ecco venire giù il diluvio. “Se l’ha detto, allora perché non è stato verbalizzato?”. Primicerio e poi la parte civile l’hanno ammonita più volte, ricordandole la falsa testimonianza è un reato. “Forse non l’ho detto all’ispettore”, ammetterà alla fine l’ex compagna di Isabella.

È poi uscita in lacrime dall’aula per far posto a Mazzitelli. Prima, però, ha parlato con lui per qualche minuto nel corridoio del tribunale, attirando così le ire sul suo collega di sedia, ieri più scomoda che mai. “Cosa vi siete detti?” lo ha incalzato ancora Anselmo. “Abbiamo parlato di cucina e pulizia della casa” ha risposto prontamente il testimone. “Cerchi di essere più credibile” lo ha redarguito il presidente della Corte.

Il questionario approntato per lui ricalcava a grandi linee quello della Marsico. Isabella era innamorata di Bergamini? E lui di lei? Quando si sono lasciati? Nell’uno e nell’altro caso è emerso che la ragazza non raccontava granché della sua vita privata, ma al netto di qualche dettaglio in più raccontato nei verbali e taciuto in aula, a far scivolare Mazzitelli è stata una fotografia: la Internò e sua madre in chiesa, davanti alla bara di Denis, e alle loro spalle un uomo. “Non so chi sia” ha risposto il testimone. E riapriti cielo.

Perché il 7 dicembre del 2017, a colloquio con la Quintieri e con l’assistente capo Pasquale Pugliese, quella figura, la stessa figura, era da lui indicata come Dino Pippo Internò, il cugino di Isabella. “E quindi come fa oggi a non riconoscerlo?”. La spiegazione è immediata: “Me l’hanno detto i poliziotti che si chiamava così, io lo conoscevo solo di vista, ma trent’anni dopo non ricordavo come fosse fisicamente”.

Anche con lui il pubblico ministero è stato inflessibile. E poco importa che anche stavolta il tema del processo – il presunto delitto d’onore – non sia stato neanche sfiorato. “Chiedo la trasmissione degli atti in Procura” ha concluso Primicerio, un epilogo che ha dato spunto a Mazzitelli per una provocazione: “Sì va bene, lo riconosco. È Dino Pippo Internò”.

A quel punto, però, in aula era piovuto già abbastanza. Nessun rilievo dai difensori Angelo Pugliese e Rossana Cribari che si sono limitati a richiamare, di tanto in tanto, pm e parte civile, invitandoli a “non intimidire i testimoni”. Le parti si sono invertite. Capita spesso, anche nei migliori processi.

Processo Bergamini, in aula la foto di Denis dopo la riesumazione. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud l'8 aprile 2022.

L’immagine del volto di Donato Bergamini, così come si presentava dopo la riesumazione eseguita a 47 giorni dalla sua morte, ha fatto capolino stamane in Corte d’assise, dove si celebra il processo contro Isabella Internò, l’ex fidanzata del calciatore oggi accusata di omicidio volontario.

A mostrarlo in aula è stato il pm Luca Primicerio a corredo della testimonianza di Massimiliano De Pasquale, un ultrà del Cosenza che la sera del 18 novembre 1989, dopo aver appreso di quanto avvenuto a Roseto Capo Spulico, si mette in auto e insieme ad altri tifosi raggiunge il luogo della tragedia, cento km più a nord rispetto alla città capoluogo. Fa tappa anche all’ospedale di Trebisacce dove, nel frattempo, è stato trasportato il corpo del calciatore che vede disteso sul tavolaccio e coperto da un lenzuolo. “Aveva un ematoma di forma circolare sulla tempia, non ricordo se a destra o sinistra, ma sembrava una moneta” ha ricordato De Pasquale durante la sua testimonianza.

È una delle tante suggestioni che ruotano attorno alla vicenda. In quelle ore concitate, infatti, a notare la ferita in questione sono i familiari di Denis, il papà Domizio in primis, e sulla stessa scia altre persone trovatesi a passare quella sera dalla morgue di Trebisacce riferiranno in seguito della presenza di quella macchia rossa o rosacea della grandezza di “una nocciolina” sulla tempia della vittima. Alla circostanza hanno dato molto credito anche gli investigatori, tant’è che secondo l’ispettore capo Ornella Quintieri, quel segno rotondo altro non è che la bruciatura provocata “da una pistola” che qualcuno gli avrebbe poggiato sulla tempia a mo’ di minaccia prima di soffocarlo e sdraiarlo sulla carreggiata a coronamento della messinscena.

Il problema, però, è che quell’ematoma non esiste. Non se ne fa alcun accenno nel referto autoptico a firma del professor Francesco Maria Avato, ma a scanso d’equivoci non si vede neanche nella foto mostrata ieri in aula e scattata dallo stesso medico legale prima di eseguire l’autopsia. A tal proposito, poco importa che fosse trascorso ormai un mese e mezzo dal decesso, perché quella ferita, se davvero fosse esistita, avrebbe dovuto essere ancora lì. A quale bruciatura e a quale pistola faceva riferimento allora la Quintieri?

Ne riparleremo, anche perché quella foto, c’è da scommetterci, sarà mostrata nuovamente nel prosieguo del processo e in formato extralarge. Per il momento ha fatto il suo ingresso in aula in modo del tutto incidentale dato che le ragioni per cui è stato convocato De Pasquale erano altre. L’uomo doveva riferire di un colloquio avuto con tale Rita Perna, una conoscente di Bergamini e amica dello stesso testimone. A quest’ultimo, la donna avrebbe confidato di aver assistito a un litigio tra Denis e Isabella davanti al liceo “Scorza” di via Popilia, location insolita considerato che, a quei tempi, la ragazza frequentava un altro istituto scolastico – la Ragioneria di Rende – ma tant’è: già in fase d’indagine la Perna aveva smentito di aver detto quelle cose; avrebbe dovuto essere sentita durante la scorsa udienza, ma ha marcato visita giustificando la propria assenza alla Corte.

Dettagli poco rilevanti comunque, un po’ come quelli riferiti da Carmela Parise e Fabrizia Principe, due ex compagne di classe della Internò. Entrambe hanno ricordato come a scuola un po’ tutti sapessero del suo fidanzamento con il calciatore del Cosenza, ma secondo la Principe la diretta interessa non ostentava quella relazione così importante. “Con noi era rimasta la stessa” ha sottolineato. Primicerio ha posto loro domande del tipo “Ha mai sentito Isabella vantarsi di aver guidato l’auto di Bergamini” oppure “Lei ha mai fatto filone insieme alla Internò?”, poi a mezzogiorno meno un quarto, ne ha avuto abbastanza pure lui.

Mancava l’avvocato Fabio Anselmo, reduce dai trionfi dei processi Cucchi, a riprova del fatto che quella in programma oggi a Cosenza fosse un’udienza tutt’altro che memorabile. La prossima, se vogliamo, sarà addirittura peggio. La Procura, infatti, continua a riservarsi la convocazione dei testimoni chiave della vicenda – saranno in tutto sette o otto su duecentotrenta – e attinge ancora dal fondo della sua lista. Ciò significa che al ritorno in aula, il 13 aprile, toccherà ad altri cinque ex compagni di classe dell’imputata.

Processo Bergamini: prima di morire «aveva la testa altrove, era innamorato». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.

Immusonito, assente, su un altro pianeta. «Non era sereno». Così si presenta Donato Bergamini agli occhi di Fabiana Novelli una settimana circa prima della sua morte. È l’ultima volta che la donna vede il calciatore, e proprio lei oggi si è presentata in Corte d’assise per tornare con la memoria a quel meeting avvenuto ad Argenta, in Emilia Romagna, nel negozio della sorella di Denis.

All’epoca Fabiana è fidanzata con Luigi Simoni, il portiere del Cosenza grande amico di Bergamini. I due sono stati anche coinquilini, ma da alcuni mesi il portiere si è trasferito a Pisa, ragion per cui i loro incontri si sono diradati. Quel lunedì avrebbero dovuto riabbracciarsi ancora una volta, ma Denis era taciturno, sbrigativo, restò lì solo pochi minuti. Insomma, «si vedeva che non c’aveva voglia» sottolinea Fabiana.

«Era preoccupato?» le chiede il patrono di parte civile, Fabio Anselmo, ma in realtà «no, aveva la testa altrove». Dove, chi può dirlo. Di Isabella Internò, Fabiana ha pochi ricordi. La vede spesso a casa di Bergamini quando si reca a Cosenza a trovare il suo fidanzato, ma «non parlavamo molto. Io ero lì per Luigi, lei stava lì per Donato. Non eravamo interessate a diventare amiche».

Tre anni prima, a colloquio con la polizia giudiziaria, spiega che la Internò era invisa alle altre mogli dei calciatori, tant’è che non usciva mai con loro, oggi però ha dato un senso diverso a quelle parole: «Noi venivamo da fuori, quindi era naturale che facessimo gruppo. Isabella era del posto, qui aveva le sue amiche, probabilmente non le interessava far parte del gruppo delle mogli e fidanzate». Scherzi della verbalizzazione, non un caso isolato.

Di quella ragazza con i capelli biondi a caschetto Denis «era innamorato», ma si tratta solo di una sua opinione, il pm Luca Primicerio ci tiene a precisarlo prima di sollecitarne un’altra di opinione, con la domanda più ricorrente di questo processo alla quale neanche lei può sottrarsi: «Non ho mai ritenuto possibile che Denis si sia suicidato. Aveva la testa piena di progetti e tanta voglia di vivere».

È stata lei il principale testimone del giorno, il che la dice lunga sulla rilevanza degli altri, tutte donne, convocati in aula per l’occasione. Lucia Cuccaro da Poppi, provincia di Arezzo, lo conosce nell’estate dell’85 quando il Cosenza è in ritiro nel paesino toscano, e da allora mantiene con lui un rapporto epistolare che si protrae fino all’88. La sua audizione si è protratta per circa un’ora.

Dopo di lei arriva il turno di Rossella F., ragazza della villetta di Commenda che tra la fine del 1988 e l’inizio dell’89 frequenta i calciatori del Cosenza, tra cui Bergamini. «Avete avuto rapporti sessuali?» le chiede brutalmente Primicerio. La risposta è «sì». Il presidente della Corte d’assise vuole sapere quante volte, ma lei non ricorda. «Una, dieci?» la incalza in aiuto alla memoria. «Facciamo sei» taglia corto Rossella. Un supplizio durato una mezzoretta.

Quando si lasciano Bergamini e Isabella? È uno dei tormentoni del processo, un quesito al quale fin qui ogni testimone ha associato una risposta diversa. Per la Novelli stavano ancora insieme a giugno del 1989, secondo Rossella si erano lasciati già dall’estate precedente. Quest’ultima è la tesi preferita da Procura e parte civile, considerato che Denis aveva in animo di sposarsi con la Alleati – «Con chi?» si è inserita Fabiana, sinceramente sbigottita – ragion per cui chi frequentasse la Internò a dicembre del 1989, poche settimane dopo la tragedia di Roseto, non dovrebbe avere grande importanza.

E invece a quanto pare importa. L’ultima testimonianza del giorno verte proprio su questo tema. Tiziana De Carlo, all’inizio di quel mese, raccoglie il tam tam diffusosi sul corso di Paola e si mette alla ricerca di Luciano Conte, l’attuale marito di Isabella, avvistato da più persone in compagnia della sua nuova fiamma, «l’ex di Bergamini».

Tiziana li localizza e li descrive «in atteggiamenti intimi», ovvero con la testa di lei poggiata sulla spalla di lui. Stavano insieme già all’epoca? Il pm mostra con enfasi il foglio matricolare del poliziotto Conte, in quei giorni in servizio a Palermo, dal quale risulta una licenza a Paola proprio nel periodo indicato.

A riscontro della De Carlo, ma anche di un’altra evidenza suggerita dal difensore Angelo Pugliese: che il 18 novembre del 1989 Conte si trovava in Sicilia. Nel frattempo domani si torna in aula. Tra gli altri, sarà sentito l’ex procuratore di Bergamini e di altri calciatori, Bruno Carpeggiani.

Processo per la morte di Bergamini, la verità sul “gran rifiuto” al Parma. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 28 Marzo 2022.

«Avrebbe avuto un ingaggio principesco, in una squadra costruita per andare in serie A e, per giunta, a due passi da casa sua. Una prospettiva molto allettante per chiunque, no?». Giovanbattista Pastorello è ancora oggi incredulo quando torna con la memoria all’estate del 1989, al giorno del gran rifiuto di Donato Bergamini. Era lui il direttore sportivo del Parma, la squadra allenata da Nevio Scala che proprio quell’anno inaugura il ciclo che, da lì a poco, la proietterà ai vertici del calcio europeo. Pastorello era l’uomo incaricato di costruire l’organico di quella squadra e, in cima alla sua lista, c’era proprio l’acquisto di Bergamini.

«Era una trattativa chiusa, il calciatore aveva accettato ed era felicissimo di giocare per noi. Poi, nel giro di pochi minuti cambiò idea. Pensi che anche il mio presidente, Ernesto Ceresini, ci restò malissimo». Proprio in extremis Denis sceglie di restare a Cosenza e nel contesto degli eventi che da lì a pochi mesi culmineranno nella tragedia di Roseto, quello del mancato trasferimento al Parma rappresenta ancora oggi uno dei capitoli più oscuri.

«È rimasto giù per lei» ipotizzava il portiere Luigi Simoni in una conversazione intercettata, laddove per lei s’intende Isabella Internò, ma per gli inquirenti che hanno lavorato al caso è una spiegazione inaccettabile, che mette in crisi la rappresentazione di un Bergamini ormai disinnamorato della sua ex e già proteso a sposare un’altra donna.

Non a caso, la polizia giudiziaria individua ben altre ragioni per cui il calciatore avrebbe deciso di restare in Calabria: «Era reduce da un infortunio, altrove avrebbe dovuto conquistarsi il posto mentre a Cosenza era certo di essere titolare», ma è un assunto che Pastorello respinge con forza. Era lui che sceglieva i giocatori – «In sette anni Nevio Scala non mi ha mai suggerito un acquisto» – e Denis non faceva eccezione alla regola: «Cercavamo un giocatore con le sue caratteristiche. Era centrale nel progetto e lui ne era consapevole».

Altro che infortunio insomma, ma tant’è: nell’elenco degli oltre duecento testimoni arruolati dalla Procura di Castrovillari non figura l’ex direttore sportivo del Parma. La sua testimonianza non entrerà nel processo, dunque, e quasi quasi se ne intuisce anche il motivo. E a proposito di testimoni: un’amica di penna del 1987, il medico sociale della squadra, una prof conosciuta in piscina, il suo procuratore dell’epoca e l’ex fidanzata del suo miglior amico.

Sono questi i testimoni che coloreranno le due udienze del processo in programma oggi e domani in Corte d’assise. Testimonianze minori – a eccezione di quella di Bruno Carpeggiani, il procuratore – segno evidente di come la Procura continui a girarci intorno, rimandando l’appuntamento clou con i consulenti medico-legali e, soprattutto, con il camionista Raffaele Pisano. È lui, infatti, il principale teste del processo, depositario della verità sui fatti del 18 novembre 1989, ma per sentirlo in aula è probabile che bisognerà attendere ancora mesi, forse anni. Non a caso, il pm Luca Primicerio pare intenzionato a esplorare prima la personalità del calciatore attraverso i racconti di amici, compagni e conoscenti che, messi insieme, rappresentano almeno due terzi dei testimoni in scaletta.

Racconti marginali rispetto all’economia del processo che mira a dimostrare la tesi dell’omicidio, ma che la pubblica accusa ha scelto di mettere in primo piano con buona pace dell’ultraottantenne Pisano relegato ancora in panchina. Una lunga fase interlocutoria, dunque, che si protrae ormai da ben dodici udienze e che si prolungherà nelle prossime 48 ore.

Processo Bergamini, il giorno di Lombardo: «Isabella non l'aveva dimenticata». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 17 marzo 2022.

Il suo tiro dal limite che si stampa sul palo durante la partita contro l’Udinese è un ricordo ancora  vivo negli occhi di tutti i tifosi perché su quel gol mancato resiste, trentadue anni dopo, il mito della promozione in serie A sfumata al fotofinish. Il nome di Claudio Lombardo, testimone del giorno al processo Bergamini, è associato  a quel montante che, dicono i  nostalgici, «ancora trema», ma per Cosenza sportiva rappresenta molto di più. «Nervoso e scattante» lo definiva compiaciuto Gianni Di Marzio, il mister, che non a caso ne aveva fatto un atleta multiruolo: terzino goleador – destro o sinistro per lui fa lo stesso – ma anche centrale di difesa, giocava bene pur in mezzo al campo e persino in attacco, tant’è che – per gli amanti delle statistiche – in cinque anni di permanenza in Calabria ha indossato tutte le maglie della squadra, quando i numeri andavano ancora dal due all’undici.

Tanto eclettico era in campo il Lombardo di nome e di nascita (è originario di Voghera) quanto rigido e tutto d’un pezzo si è mostrato ieri nel ruolo per lui inedito di testimone. Davanti ai giudici, infatti, misura i toni, pesa ogni singola parola, ripercorre vecchie e nuove dichiarazioni precisando qui è là: «Questo non ricordavo di averlo detto» e «Qui forse ho esagerato un po’».

Non vuole rendere falsa testimonianza. Se ne guarda bene, lui che di Denis era amico vero. Un partito, quello degli amici, al quale dopo la sua morte si iscriveranno in tanti, ma che all’epoca è circoscritto al portiere Gigi Simoni, all’allenatore in seconda Toni Ferroni. È lo stesso Bergamini, nel suo ultimo giorno di vita, a fare questo elenco al massaggiatore Beppe Maltese, un altro incluso nella lista.

E poi lui, Claudio Lombardo. Anche per questo, la sua testimonianza, ieri, rivestiva particolare importanza. Con Denis parlavano spesso «dei piaceri della vita» o dei progetti calcistici, ma poco o nulla su dettagli intimi e personali del biondo centrocampista perché lui «era schivo». Isabella Internò la conosceva bene, e il suo rapporto con Denis lo definisce prima «felice» poi «tormentato». Un giorno apprende che i due si sono lasciati, ma aggiunge che secondo lui l’amico «non l’aveva dimenticata». Quando i magistrati lo sentono per la prima volta nel 1989, dodici giorni dopo la tragedia di Roseto, dispensa loro un aneddoto: «Denis soffriva per una precedente relazione avuta da Isa. Una volta mi disse, non sai quanto mi dia fastidio che sia stata con qualcun altro prima di me».

Quindi era «geloso» dedurrà in seguito l’avvocato Rossana Cribari dal fronte della difesa, incontrando però l’opposizione di Luca Primicerio: «Ha parlato di fastidio» preciserà il pubblico ministero, giacché quello della gelosa, per giunta ossessiva e anche un po’ assassina, è un ruolo assegnato in esclusiva alla Internò.

Il punto è che di tutto questo Lombardo non sa nulla, al contrario di tanti altri ex compagni di squadra che, dal 2010 in poi, sul tema si mostrano molto beninformati. Claudio, l’amico di Denis, ignora perché la coppia sia poi scoppiata, e non sa nulla neanche dell’aborto di Isabella, a differenza di un Galeazzi qualsiasi che invece – ma solo dal 2018 – sostiene di averlo appreso in tempo reale dal diretto interessato. E non solo. Non ha mai sentito parlare di Roberta Alleati, la fidanzata segreta e promessa sposa, né delle altre donne che, in questi anni, si sono presentate come depositarie di brandelli di confidenze ricevute dal calciatore. Nei suoi ricordi, per quello che vale, per Denis c’era solo Isabella. Primicerio ha provato a farlo scivolare facendo riferimento a due ragazze che, nella Cosenza degli anni Ottanta, erano solite concedersi ai calciatori che, per l’occasione, le avevano ribattezzate «le sorelle Cornacchia», argomento accolto con una certa contrarietà dal presidente della Corte, Paola Lucente: «Erano due prostitute?». Non se n’è capito il motivo, sia del soprannome che di tutto il resto.

L’altro ostacolo era un’intercettazione fra lui e Simoni durante la quale quest’ultimo parla a ruota libera di omicidio collegandolo all’aborto e alla famiglia Internò. In quel colloquio Lombardo sembra dar corda all’interlocutore, ma una volta in aula messo davanti a quelle parole rubate al telefono, non ne ricorda il senso. Primicerio e il legale di parte civile, Fabio Anselmo, tentano in tutti i modi di stimolarne la memoria: leggono e rileggono quella trascrizione, addirittura gli fanno ascoltare la registrazione. Alla fine il testimone conviene sulla possibilità di aver espresso una sua opinione influenzata anche «da situazioni mediatiche». Un’ammissione non da poco, visti i tempi.

Prima di lui sul banco dei testimoni aveva preso posto Massimo Storgato, difensore scuola Juve transitato anche da Cosenza nella stagione calcistica 89/90, l’ultima di Denis. Acquistato al mercato di riparazione, in quel mese di novembre era aggregato alla squadra solo da due settimane e dopo la trasferta di Monza offrì un passaggio in auto a Denis per fare rientro in Calabria. Pochi e sfumati i suoi ricordi relativi a quel viaggio, con un dettaglio però che gli è rimasto impresso da allora: «Mi disse che aveva avuto un rapporto sentimentale con una ragazza cosentina, ma che era finito. E poi che pensava di investire i soldi guadagnati grazie al calcio nell’attività di famiglia, un allevamento di maiali». Prossime udienze il 28 e 29 marzo.

Processo Bergamini, Denis e le ragazze della villetta. In aula alcune compagne di scuola della Internò fra cui anche l’ex di Fabrizio Frizzi. Stefano Ruvolo a Isabella: «Prego per te perché la verità venga fuori». MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 14 Marzo 2022.

Più che a un processo per omicidio, la decima udienza dell’affaire Bergamini somiglia a una puntata di “Piccoli problemi di cuore”. Protagoniste le ragazze della Ragioneria di Rende, la scuola frequentata in gioventù da Isabella Internò, l’imputata. Sul banco dei testimoni c’era quella che, nella ricostruzione della polizia giudiziaria, era una sua rivale: Emilia Graziella De Bonis, che qualche anno dopo farà la corista a “Domenica in”, guadagnandosi anche una certa notorietà per via della sua relazione sentimentale con il compianto Fabrizio Frizzi.

All’epoca, però, Graziella è solo un’aspirante ballerina di sedici anni, anche lei iscritta all’Itc di Quattromiglia, seppur in una classe diversa da quella di Isabella. «Denis aveva un debole per lei» riferiva qualche udienza fa l’ispettrice Ornella Quintieri, dea ex machina dell’inchiesta, ma sul punto è stata proprio la diretta interessata a gettare acqua sul fuoco: «Tra noi c’era una conoscenza superficiale. Quando mi vedeva passare dalla villetta di Rende ci salutavamo e nulla più». Il famoso appuntamento che Denis le avrebbe dato pochi giorni prima di morire in realtà non sarebbe mai esistito. «Non ricordo se lui o Padovano dissero a me e alla mia amica – Elena Tenzi, ndr – che nel caso in cui fossimo stati di nuovo in villetta ci saremmo rivisti domenica dopo la partita, ma non era un vero e proprio appuntamento».

La Procura di Castrovillari la considera importante perché quel giorno, che la De Bonis colloca otto o dieci giorni prima della morte di Bergamini, mentre lei e il calciatore chiacchierano poco lontano dalla villetta, nei pressi di una farmacia, passa da lì Isabella e, stando a ciò che riferisce Graziella, lei e il suo fidanzato (ex?) si scambiano solo un gelido «ciao». L’ipotesi degli inquirenti è che proprio quello sia l’istante in cui la Internò matura la convinzione di aver perso per sempre il suo amore e che, umiliata e sconfitta, abbia messo poi in moto la macchina cospirativa e familiare per ordirne l’omicidio.

A dimostrazione di ciò, ci sarebbero due circostanze narrate sempre dalla De Bonis. La prima è relativa a un biglietto anonimo, recapitatole circa un mese dopo i fatti del 18 novembre nel quale «mi si attribuiva la colpa della morte di Bergamini», l’altro invece riguarda un incontro avuto durante l’orario di lezione le gemelle Teresa e Stefania Libero, entrambe compagne di classe dell’imputata, che con tono minaccioso le avrebbero intimato «di non essere addolorata per la morte di Bergamini perché l’unica titolata a esserlo era Isabella». Sia del biglietto minatorio che del colloquio avuto con le sorelle Libero, la testimone ne parla nel 2010 con l’avvocato Eugenio Gallerani, all’epoca impegnato a raccogliere quanti più indizi e spunti utili per far ripartire le indagini, ma non ne fa accenno nel 2012, quando si tratta di confermare il tutto davanti ai carabinieri. «Forse perché non me l’hanno chiesto» ha tagliato corto l’ex ballerina Rai, specificando poi di non ricordare la forma e il contenuto preciso di quella lettera né dove la stessa le fosse stata recapitata. Dettagli emersi dal controesame degli avvocati Rossana Cribari e Angelo Pugliese che hanno consentito di limitare a circa mezz’ora la presenza in aula della De Bonis.

Più estenuante, poco prima, si era rivelato invece l’esame delle due Libero. Entrambe, infatti, non ricordavano praticamente nulla di quei giorni. Non erano legate a Isabella da particolare amicizia, ma la ricordano «disperata e in lacrime» nei giorni precedenti al funerale di Denis. La De Bonis? Una dice di averne un ricordo vago, l’altra nemmeno quello. Nessuna di loro, poi, sostiene di aver mai parlato con lei di Bergamini.

Il pm Luca Primicerio e i legali di parte civile, Fabio Anselmo e Alessandra Pisa, le hanno incalzate per un’ora abbondante con domande del tipo: «Ha mai visto Isabella andare a scuola in macchina?», «Bergamini è mai passato a prenderla all’uscita?», «Chi erano le compagne di classe più intime della Internò» e altri piccoli problemi di cuore, ma senza grande costrutto: domande neutre, risposte quasi nulle. Isabella la ricordano trentatré anni prima come una ragazza «allegra e socievole», ma dalla fine della scuola in poi non hanno mai più avuto modo di incontrarla o di parlare con lei, sostengono. E per il resto è notte fonda.

Un atteggiamento che Primicerio ha definito «reticente» e il presidente della Corte, Paola Lucente, «rigido», ma tant’è: l’informativa concepita dalla Quintieri sotto le direttive dell’allora procuratore Facciolla, riserva pagine e pagine alle due gemelle, con tanto di fascicolo fotografico annesso. Fotogrammi che le ritraggono insieme all’uscita di scuola e altri, decisamente più sfocati, estratti dai video del funerale celebratosi nella chiesa di Loreto dove, mischiata nella folla, gli investigatori ritengono di intravedere «la carnagione olivastra e le sopracciglia folte» di una delle gemelle, il tutto per dimostrare che non fossero semplici conoscenti di Isabella, bensì una sorta di guardie del corpo.

Sono stati loro i principali testimoni del giorno, seguiti a ruota dalla già citata Tenzi, da Teresa Lopez – un’altra ex studentessa – e il già calciatore Stefano Ruvolo, protagonista di un piccolo colpo di teatro. Alla fine della sua deposizione, infatti, ha chiesto di poter salutare la Internò, permesso accordato dalla Corte. «Prego per te – le ha detto stringendole le mani – e spero che la verità venga fuori presto. Per te». Domani intanto si torna in aula con altri due ex compagni di squadra: Claudio Lombardo e Massimo Storgato.

Morte Denis Bergamini, scontro in aula per la presenza di Nicola Morra. MARCO CRIBARI Il Quotidiano del Sud il 10 Febbraio 2022.

«Lui amava vivere». A ogni domanda dell’avvocato Angelo Pugliese, difensore di Isabella Internò, Bruno Caneo risponde con questo inciso a mo’ di sfida. È il terzo testimone del giorno e siamo alla fine di un’udienza che si è già protratta per otto ore di fila. L’ennesima ad alta tensione.

La scena è quella del processo “Denis Bergamini”, il calciatore del Cosenza morto sotto alle ruote di un camion il 18 novembre del 1989 all’età di 27 anni. Un omicidio secondo la Procura di Castrovillari che, trentadue anni dopo, dopo ripetuti tentativi falliti, ha trascinato a giudizio l’ex fidanzata della vittima, all’epoca diciannovenne.

Nervi ancora a fior di pelle in aula, dicevamo, e in tal senso la prima del nuovo procuratore Alessandro D’Alessio è servita ad abbassare i toni di qualche decibel, senza allentare le tensioni determinate dalla presenza, sul banco degli imputati, di una donna sotto assedio mediatico e giudiziario da quasi tredici anni, ma alla quale è stata data la possibilità di difendersi solo dallo scorso ottobre, data d’inizio del processo. Come e perché Isabella abbia ucciso Denis non è ancora oggetto di dibattimento. La Procura ha preferito partire dalla natura del suo rapporto sentimentale con il calciatore. I testimoni di ieri si inserivano proprio in questo solco.

LA LUPARA DELLA DOTTORESSA

Roberta Sacchi è la fisioterapista di Pavia che aiuta Denis a guarire dalla brutta frattura che lo tiene lontano dai campi da gioco da gennaio ad aprile del 1989. «Mi parlò subito di Isabella, di come lei lo cercava ossessivamente, che se la trovava dappertutto, ma che per lui era diventata come una sorella. Se accettava di stare con lei era solo perché si dispiaceva a vederla così». La dottoressa pavese lo dichiara solo nel 2018, ventinove anni dopo i fatti, e lo ribadisce ieri in aula. «Attento alle lupare» dice a Bergamini nell’aprile di quell’anno, quando il calciatore – con cui nel frattempo ha un flirt – le ribadisce di essersi allontanato dalla Internò.

«I tempi sono cambiati anche al Sud» le risponde lui, ma poi il 12 novembre, sei giorni prima di morire, le confida: «Sai che avevi ragione? Da quelle parti i tempi non sono cambiati». La Sacchi ne parla solo nel 2018 dopo aver consultato alcuni appunti dell’epoca, una sorta di diario in cui annotava i fatti per lei più interessanti. «Le agendine però sono andate smarrite in un trasloco».

L’ABORTO E L’ONORE

Guido Dalle Vacche è il cognato di Bergamini e con la sua testimonianza si torna a parlare dell’aborto affrontato da Isabella a luglio del 1987, quando la ragazza era ancora minorenne. Per la Procura è uno dei possibili moventi dell’omicidio. «Denis mi disse: io non la sposo, al più riconosco il bambino, ma a patto che sia davvero figlio mio».

Delle Vacche viene sentito dagli investigatori nel 1989 e non riferisce nulla di tutto ciò. In quell’anno, diversi compagni di squadra parlano di un Bergamini tormentato da una relazione che la Internò ha avuto con un altro calciatore, addirittura prima del suo arrivo a Cosenza. Nessuno parla della gelosia di Isabella. Quella salterà fuori dai loro ricordi solo a partire dal 2010, e da allora anche suo cognato racconta come nel 1987 Denis arrivi a dubitare platealmente della fedeltà di quella ragazza, decidendo però di restarle al fianco negli anni successivi.

«Fino al novembre del 1988» suggerisce Guido, «luglio 1989» aveva detto in precedenza il portiere Luigi Simoni, il miglior amico di Denis, ma è un’asticella che ognuno muove avanti e indietro nel tempo a proprio piacimento. «Isabella mi sembrò pure d’accordo a non tenere il bambino perché una ragazza madre al Sud sarebbe stata un disonore per la famiglia» aggiunge l’ex marito di Donata Bergamini, aprendo così una finestra sul movente che due anni dopo – perché attendere così tanto? – avrebbe determinato la ragazza a trasformarsi in assassina in società con suoi congiunti non meglio precisati. «Domizio – il papà di Bergamini, ndr – lo capì subito che nell’omicidio non c’entravano la droga, il totonero e la criminalità, ma che c’entrava la famiglia Internò».

LE LACRIME DI CANEO

L’ex centrocampista di Pisa, Genoa e Cosenza, oggi 65enne allenatore della Turris, avrebbe voluto essere sentito subito per tornare al lavoro. D’Alessio lo rintuzza in modo brusco: «Quello che stiamo facendo qui mi sembra più importante». Attenderà sbuffando il suo turno e, una volta preso posto sulla scomoda sedia, precisa di non essere stato amico di Denis, ma «legato a lui solo da ottimi rapporti di spogliatoio». Nel 2018 anche Caneo si lascia andare davanti al magistrato e spiega di aver appreso da Denis che la Internò con lui «era come un martello», ma ieri ha precisato che non si trattava di confidenze raccolte di persona, ma solo «voci di spogliatoio». 

L’emozione ha il sopravvento quando gli viene chiesto di rievocare il momento in cui lui e gli altri calciatori apprendono della morte del loro compagno di squadra. Caneo piange a dirotto e da quel momento in poi agita il vessillo della Verità condivisa: «Lui amava vivere».

L’INCURSIONE DI MORRA

L’ultimo acuto, prima del rinvio dei lavori al 25 febbraio, lo regala il senatore Nicola Morra che fa capolino in aula e in una pausa dell’udienza si intrattiene in conversazione con l’avvocato Fabio Anselmo, il patrono di parte civile.

Pugliese insorge e il presidente della commissione Antimafia con scorta al seguito alza il dito per chiedere la parola. Permesso negato dal presidente della Corte d’assise, ma le ragioni del suo blitz in tribunale le spiegherà in seguito a noi: «Dovevo solo presentare ad Anselmo un suo potenziale cliente, un siciliano che mi ha chiesto di poter parlare con lui. E invece di farlo andare fino a Ferrara, ci siamo dati appuntamento a Cosenza, considerato che oggi l’avvocato sarebbe stato qui». Nessuna ombra ulteriore, dunque. Che di quelle ne aleggiano già abbastanza.

Caso Bergamini, parla la fidanzata segreta: "Internò era una stalker, Denis voleva sposarmi". Nel processo in corso a Cosenza, in cui l'ex compagna ufficiale è accusata di omicidio, parla un'altra donna entrata nella vita del calciatore. Alessia Candito su La Repubblica il 15 gennaio 2022.

Una testimonianza importante nel processo sulla morte di Denis Bergamini. In aula a Cosenza ha parlato Roberta Alleati, la donna che avrebbe preso il posto di Isabella Internò nella vita del calciatore. "Avevamo una storia d'amore io e Denis, ero io la sua fidanzata e promessa sposa, non Isabella come tutti pensano", ha detto Roberta Alleati. 

Alleati ha parlato del rapporto che Denis aveva con l'ex compagna "ufficiale", Isabella Internò, l'unica imputata nel processo, accusata di aver organizzato l'omicidio per punirlo. "Isabella lo stalkerizzava", ha detto la donna, che ha parlato di una storia terminata per sfinimento, aggiungendo che Bergamini appariva turbato per quello che stava vivendo.

Nell'ultima telefonata, due giorni prima della morte, il calciatore le avrebbe detto che qualcuno non aveva accettato la fine della storia con Isabella. Per anni la morte dell'ex calciatore, avvenuta il 18 novembre 1989, era stata classificata come un suicidio, pur tra mille incongruenze. 

L'udienza si è aperta con la lettura di una lettera che Alleati scrisse nel novembre del 1989 alla famiglia Bergamini, per raccontare la relazione. C'era scritto che Denis avrebbe voluto un figlio proprio da lei, conosciuta nel 1983, prima del suo arrivo a Cosenza. Una relazione che sarebbe ripresa nel maggio del 1989.

Il calciatore del Cosenza, squadra che allora come oggi giocava in B, era uno dei beniamini dei tifosi. Per motivi ancora da chiarire, la sera della sua morte ci fu un incontro tra il giovane e la sua ex fidanzata. Lei aveva 19 anni, lui neanche 27. Fra loro un rapporto travagliato, segnato anche da un aborto a Londra.

I due, sull'auto del calciatore, si sarebbero fermati in una piazzola sulla strada statale 106 Jonica. Bergamini, sceso dalla vettura, morì investito da un camion, in quello che fu etichettato come un suicidio. Ma la famiglia ha sempre pensato che si sia trattato di una messa in scena per coprire un omicidio. La prossima udienza è prevista per l'8 febbraio.

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” il 15 gennaio 2022.

Un'altra donna aveva preso il posto di Isabella Internò nella vita di Denis Bergamini quando l'ex calciatore fu trovato morto la sera del 18 novembre 1989 sulla ex statale 106. È per questa donna, conosciuta nel 1983, quando lei aveva 17 anni, che Denis avrebbe lasciato la Internò, oggi sul banco degli imputati per difendersi dall'accusa di concorso nell'omicidio del calciatore.

Un delitto per «punirlo» ipotizza la Procura di Castrovillari che esclude l'ipotesi del suicidio. Denis si era innamorato di quella donna, al punto di chiederle di sposarlo. Il giocatore, però, aveva paura di farsi vedere in sua compagnia a Cosenza quelle poche volte che lei riusciva a raggiungerlo. 

«Ti presenterò come un'amica, perché dobbiamo mantenere il nostro segreto» le diceva. I particolari di quella love story nata quando Bergamini giocava nel Russi, paesino in provincia di Ravenna, sono stati raccontati ieri, per la prima volta, dalla stessa protagonista Roberta Alleati, oggi infermiera del 118 a Canazei, davanti ai giudici della Corte d'Assise di Cosenza.

«Mi diceva che mi amava moltissimo, come non aveva mai amato nessuna, che ero la donna della sua vita. E quando mi chiese di sposarlo, una sera a cena a Cervia, era fine agosto del 1989, mi lasciò di stucco, anche perché mi aveva annunciato di volere un figlio, il più grande sogno della sua vita». 

Quel che Roberta ha raccontato ieri è quanto lei stessa scrisse in una lettera inviata qualche giorno dopo la morte di Denis alla sua famiglia. Un passaggio di quella missiva potrebbe essere la chiave per capire chi e perché ha ucciso il calciatore del Cosenza. I due parlano al telefono l'ultima volta il 16 novembre 1989, due giorni prima della morte.

«Lo sentii strano e mi disse che non c'era nulla di particolare. Dopo qualche insistenza, mi confessò che c'era qualcuno che gli voleva male». «"La ragione?" chiesi. "L'unico torto che posso aver fatto è quando ho lasciato Isabella. Ricordati che siamo in Meridione e sai come sono! Per qualcuno forse è stato un affronto, lasciarla dopo tre anni" disse. La telefonata si concluse con un "Ti amo tanto"». 

«Denis era stalkerizzato da Isabella» ha detto Roberta, davanti ai giudici. «La loro storia finì per sfinimento, perché lei era gelosissima e non lo lasciava vivere».

Processo Bergamini, il calcioscommesse irrompe in aula. MARCO CRIBARI su Il Quotidiano del Sud il 14 gennaio 2022.

Si è parlato anche di calcioscommesse durante l’udienza di ieri del processo sulla morte di Denis Bergamini. «Eravamo un gruppo unito, come fratelli, mai venduto una partita» ha tuonato Simoni, ammettendo al più qualche pareggio concordato negli ultimi minuti di gioco in nome di un interesse reciproco. È il caso ad esempio della partita promozione tra il Monopoli e il Cosenza del maggio 1988 terminata 0 a 0, ma nulla di più. Al riguardo, però, una contestazione si è levata dai banchi d’accusa.

Il pm Luca Primicerio, infatti, gli ha letto il contenuto di un dialogo fra lui e l’ex attaccante Michele Padovano, successivamente alla Juve e finanche in Nazionale, nella quale i due commentano una partita fra il Cosenza e l’Empoli disputata sempre a maggio ma del 1989, quando le due squadre militavano in serie B. I calabresi vincono per 2 a 0 ma a fine partita si registra un parapiglia innescato dai giocatori toscani, furiosi a loro dire per il mancato rispetto di un accordo che prevedeva un pareggio con risultato a occhiali.

Accordo stipulato da chi? La conversazione fra Simoni e Padovano è criptica, e all’ex portiere il pm ha chiesto di chiarire sul punto. La spiegazione data dal testimone è stata la seguente: due suoi compagni dell’epoca, Renzo Castagnini e Bruno Caneo si erano recati, nei giorni precedenti alla partita, a Coverciano per conseguire il patentino da allenatori, e quella domenica non erano stati schierati come titolari dall’allenatore Bruno Giorgi.

Il sospetto di Simoni era che lo stesso mister li avesse esclusi nel timore che, durante la loro permanenza al Nord, potessero essersi incontrati con qualche emissario empolese. Ambigua l’intercettazione, ancor di più la spiegazione che non ha dissipato le ombre e i dubbi del caso. Anche perché a ben vedere, i due gol della vittoria furono siglati proprio da Caneo subentrato dalla panchina. Delle due l’una insomma: o i sospetti del compianto Giorgi erano infondati, o Simoni e Padovano stavano parlando di altro.

Bergamini: pm, teste ha paura di testimoniare. ANSA il 10 gennaio 2022. La moglie di un ex calciatore del Cosenza avrebbe paura a testimoniare nel processo in corso di svolgimento davanti ai giudici della Corte d'assise di Cosenza, chiamati a fare luce sulla morte del calciatore Donato "Denis" Bergamini avvenuta il 18 novembre 1989 sulla statale 106, nei pressi del Castello di Roseto Capo Spulico (Cosenza). E' quanto emerso nell'udienza di oggi. La donna, Tiziana Rota, è la moglie dell'ex calciatore del Cosenza Maurizio Lucchetti. A riferirlo in aula è stato il pm Luca Primicero che ha dichiarato che la teste - la cui testimonianza è prevista per venerdì prossimo - "sarà assente per motivi di salute ma ritengo, per come si evince dalle intercettazioni, che abbia paura di testimoniare".

La Rota è stata amica di Donato Bergamini e di Isabella Internò, fidanzata all'epoca dei fatti del calciatore rossoblu e unica imputata al processo con l'accusa di omicidio aggravato da premeditazione e dai motivi futili.

Al momento è in corso l'interrogatorio di Sergio Galeazzi, compagno di squadra del centrocampista ferrarese nel Cosenza alla fine degli anni ottanta. (ANSA).  

Violenza e depistaggi: la lunga agonia di Serena. "Poteva essere salvata". La perizia: "Fu colpita, poi lasciata morire in un bosco". Alla sbarra tre carabinieri e moglie e figlio di uno di loro. Stefano Vladovich il 21 Novembre 2023 su Il Giornale.

Dieci ore di agonia. Serena Mollicone, la diciottenne di Arce trovata senza vita a Fontana Liri, in provincia di Frosinone, il 3 giugno 2001, poteva essere salvata. Ma gli assassini, dopo averla colpita alla testa, l'hanno lasciata morire in un bosco. «Una morte lenta», spiega l'anatomopatologa Cristina Cattaneo dell'Università di Milano, ascoltata dai giudici della Corte di Assise di Appello di Roma che il 26 ottobre hanno riaperto il caso, dopo l'assoluzione in primo grado del Tribunale di Cassino dei cinque imputati. Alla sbarra l'ex comandante dei carabinieri del paese ciociaro, Franco Mottola, suo figlio Marco e sua moglie Annamaria, accusati di concorso in omicidio. A processo anche due carabinieri in servizio nella stessa caserma, il maresciallo Vincenzo Quatrale e l'appuntato Francesco Suprano, accusati di omicidio in concorso con i tre e, solo Quatrale, anche di istigazione al suicidio del brigadiere Santino Tuzi. A depistare per anni le indagini, secondo l'accusa, è stato Suprano.

Seconda udienza in secondo grado sul drammatico caso della liceale che voleva denunciare gli spacciatori del paese e che proprio nella caserma dei carabinieri sarebbe stata aggredita prima di essere trasportata, in fin di vita, nel bosco delle Anitrelle. «Serena - spiega in aula la consulente - aveva un edema celebrale ma senza sanguinamento. Non la tipica emorragia, quindi non è morta sul colpo. Probabilmente muore perché le vengono chiuse le vie aeree, tra le 13 e le 20,30 dello stesso giorno». Ovvero il 1° giugno quando, uscita di casa per la denuncia, scompare nel nulla. Un'agonia, la sua, durata da una a dieci ore, secondo la professoressa Cattaneo. Il consulente ha ribadito ciò che aveva già affermato a Cassino, ovvero che il cranio della Mollicone «è compatibile con il buco nella porta della foresteria dei carabinieri. La testa ha impattato con l'arcata zigomatica».

All'udienza di ieri erano presenti solo Franco e Marco Mottola e il carabiniere Francesco Suprano accusato di favoreggiamento. La Cattaneo ha ribadito un punto fermo per l'accusa, stabilito nel laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense Labanof e che conferma il rapporto del Ris: «La testa di Serena è molto più coerente con la lesione (riportata nell'impatto con la porta, ndr) che con un pugno». Serena sarebbe stata ferita, al termine di una lite, nell'alloggio della caserma di Arce e avrebbe sbattuto la testa contro la porta danneggiandola. La difesa sostiene, invece, che quella lesione sulla porta dei Mottola sarebbe stata causata da un pugno scagliato da Franco in un altro momento. Il corpo viene poi trasportato altrove per inscenare un delitto passionale.

«Serena voleva denunciare il figlio del comandante - racconta al Giornale nel 2019 il padre della ragazza, Guglielmo Mollicone, che sarebbe poi deceduto nel 2020 -. Ma è finita nella tana del lupo: è stata portata negli alloggi e uccisa». Un caso segnato da gravi errori giudiziari. Come testimonia Carmine Belli, il carrozziere accusato nel 2003 dell'omicidio, rinchiuso in carcere per 19 mesi e scagionato dopo tre gradi di giudizio. Il suo errore? Andare in caserma per aiutare nelle indagini: «Credo di aver visto la ragazza scomparsa», aveva raccontato a Mottola.

La famiglia della 18enne non si arrende. Omicidio Serena Mollicone, 5 appelli contro l’assoluzione dei Mottola: “Quella sentenza è sbagliata”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 22 Marzo 2023

La famiglia di Serena Mollicone non ci sta e con cinque distinti e separati appelli chiede con forza di rivedere il caso e la decisione che ha portato i giudici in primo grado ad assolvere tutti gli imputati nel processo per l’omicidio della 18enne uccisa l’1 giugno 2001. Dopo l’attesa delle motivazioni della corte d’Assise di Frosinone (oltre 200 giorni, più di quanti ne è durato il processo), questa settimana scadono i termini per fare ricorso contro la decisione dei giudici assieme a quelli della procura, anche i difensori di Consuelo, la sorella della 18enne uccisa l’1 giugno 2001, hanno depositato la propria richiesta di appello.

A ricostruire la vicenda è il Corriere della Sera. Nelle ultime ore alle richieste si aggiungono anche quelle di tutte le altre parti civili: il padre defunto di Serena, Guglielmo, lo zio Antonio, la cugina Gaia, l’anziano Armida e la famiglia Tuzi. In sostanza per tutti quella sentenza è sbagliata. Secondo i richiedenti innanzitutto la sentenza non considera attendibile Santino Tuzi, il vicebrigadiere morto suicida dopo aver rivelato la presenza di Serena nella caserma di Arce la mattina che sparì.

Sollevano dubbi anche sulla presunta mancanza di movente. La Corte non ha creduto a quanto riferito da alcuni testimoni secondo cui Marco Mottola spacciasse in caserma e per questo motivo era nata una lite con la giovane. Poi i depistaggi di cui si sarebbe reso responsabile il maresciallo Franco Mottola a partire dall’ordine di servizio falso redatto quella mattina. Inoltre le consulenze tecniche che, secondo i richiedenti,  identificano nel legno di una porta della caserma la superfice contro cui fu sbattuto il capo della 18enne. Infine, come riportato dal Corriere, “anche parlando solo di indizi e non di prove – è il ragionamento della richiesta di appello – ci troveremmo di fronte a una serie infinita e non credibile di coincidenze che indicano nei componenti della famiglia Mottola gli assassini di Serena Mollicone”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

«Numerosi elementi indiziari, costituenti dei tasselli fondamentali dell’impianto accusatorio del pm, non sono risultati sorretti da un sufficiente e convincente compendio probatorio». E questo «impone» alla corte d’Assise di Cassino l’assoluzione di Marco, Franco e Anna Maria Mottola dall’accusa di aver ucciso Serena Mollicone.

 Lo scrivono i giudici nelle 236 pagine di motivazioni depositate a ben 206 giorni dalla sentenza del 15 luglio. Più del doppio del tempo impiegato a svolgere l’intero processo nel quale i familiari della 18enne, sparita ad Arce l’1 giugno 2001 e ritrovata cadavere in un bosco due giorni dopo, avevano riposto forse le ultime speranze di avere la verità.

 Per i giudici va messa in dubbio la ricostruzione per la quale Serena entrò nella caserma dei carabinieri quella mattina. L’unica testimonianza certa sui suoi spostamenti permette di collocarla a Isola Liri mentre fa l’autostop per tornare in paese dopo una visita dentistica intorno alle 9.30. Quanto accaduto dopo resta avvolto nel mistero di tante versioni non concordanti.

È «inverosimile» che Serena si sia recata in caserma per denunciare per spaccio Marco Mottola, «proprio lì dove suo padre era comandante», scrivono i giudici (la procura aveva offerto in extremis una motivazione alternativa nel recupero dei libri di scuola lasciati nell’auto di Marco dopo un passaggio ricevuto). E non ci sono elementi per sostenere che vi sia davvero mai entrata, data che la decisiva testimonianza del brigadiere Santino Tuzi, poi morto suicida nel 2008, è «contraddittoria, incerta, confusa o mutevole, frutto di suggestioni e ricostruzioni dal medesimo effettuate sul momento, alla luce degli elementi e che gli venivano via via offerti».

 […]

 Secondo i giudici ci sono inoltre elementi (inesplorati) per individuare altri colpevoli, oltre che per ridisegnare la dinamica dell’omicidio. Scrive la corte: «Dall’istruttoria sono emersi consistenti e gravi elementi indiziari dei quali si deve necessariamente desumere l’implicazione nella commissione del delitto di soggetti terzi rimasti ignoti». La corte si riferisce alle impronte digitali trovate «all’interno dei nastri adesivi che legavano le mani e le gambe di Serena» che non appartengono agli imputati.

Su una di queste «è stato rivenuto un profilo genetico misto con contribuente maschile, di cui è stata esclusa la paternità degli imputati». Sui pantaloni e sulle scarpe ci sono poi tracce di sostanze chimiche impiegate «per la lucidatura di marmi, vetri o specchi e delle carrozzerie» con cui Serena dovrebbe essere venuta in contatto quando era già «in posizione supina». Il pool difensivo, incassato il successo, sostiene di aver individuato il nome del «vero» colpevole. Una persona già deceduta.

Le motivazioni delle 5 assoluzioni. Omicidio Serena Mollicone, i giudici fanno a pezzi l’accusa: “Indizi senza prove, ci sono altri coinvolti ignoti”. Redazione su Il Riformista il 6 Febbraio 2023

Molti indizi ma nessuna prova. Così i giudici della Corte d’Assise di Cassino hanno ‘giustificato’ nelle loro motivazioni l’assoluzione dei cinque imputati per la morte di Serena Mollicone, la studentessa 18enne di Arce (Frosinone) uccisa e poi abbandonata in un bosco il primo giugno del 2001.

Il 5 luglio dello scorso anno i giudici hanno assolto tutti gli imputati: Franco Mottola, ex maresciallo della caserma dei carabinieri di Arce, la moglie Anna Maria ed il figlio Marco, tutti originari di Teano (Caserta), oltre ai carabinieri Vincenzo Quatrale e Francesco Suprano che erano in servizio il giorno in cui la studentessa fu uccisa.

Quatrale, all’epoca vice maresciallo, e l’appuntato Suprano, erano accusati rispettivamente di concorso esterno in omicidio e favoreggiamento.

Nelle 236 pagine di motivazioni si legge che “gli esiti dibattimentali non offrono indizi gravi, precisi e concordanti sulla base dei quali possa ritenersi provata, oltre ogni ragionevole dubbio la commissione in concorso da parte degli imputati della condotta omicidiaria contestata”. Per i giudici d’Assise “numerosi elementi indiziari, costituenti dei tasselli fondamentali dell’impianto accusatorio del pm, non sono risultati sorretti da sufficiente e convincente compendio probatorio”.

Insomma, nei confronti dei cinque imputati ci sono molti indizi ma nessuna prova. Non a caso i giudici rimarcano che nell’istruttoria dibattimentale siano emersi “consistenti e gravi elementi indiziari nei quali si deve necessariamente desumere l’implicazione nella commissione del delitto in esame di soggetti terzi, che sono rimasti ignoti”.

Il riferimento a sconosciuti mai indagati è relativo in particolare al rinvenimento di “impronte dattiloscopiche all’interno dei nastri adesivi che legavano le mani e le gambe di Serena, impronte ritenute utili per l’identificazione e che non appartengono agli imputati”.

I giudici hanno poi smontato anche la tesi dei presunti, e a questo punto inesistenti, depistaggi dell’inchiesta da parte del maresciallo Franco Mottola “in sede di prime indagini”. Per i giudici di Cassino “sono emerse delle prove che si pongono in termini contrastanti rispetto alla ricostruzione dei fatti da parte della pubblica accusa” e alcuni tasselli sostenuti dalla Procura “si sono rivelati inconsistenti” e “sono emersi degli elementi a discarico dei singoli imputati“.

Unabomber, l'uomo nuovo (Luigi Pilloni) e i fratelli Zornitta. Ecco chi sono gli 11 indagati. Michela Nicolussi Moro su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

Trieste, tra gli iscritti dai pm spunta un cagliaritano. Il 13 marzo incidente probatorio sul confronto con il Dna tratto dai reperti

Un nuovo indagato, Luigi Pilloni, e un altro attentato aggiunto alla lista dei 28 già noti e che hanno terrorizzato Veneto e Friuli Venezia Giulia dal 1994 al 2006. Si tratta della bottiglietta di Coca Cola contenente un ordigno inesploso trovata da un cacciatore il 28 ottobre 2007 a Zoppola (Pordenone). Procede rapida l’inchiesta bis su Unabomber aperta lo scorso novembre su richiesta di due vittime, Francesca Girardi e Greta Momesso, dalla Procura di Trieste. Che ipotizza i reati di attentato per finalità terroristiche o strage con l’aggravante dell’associazione con finalità di terrorismo e che lunedì si è vista accogliere dal presidente della sezione Gip, Luigi Dainotti, la richiesta di incidente probatorio. È stato fissato per le 9.30 del 13 marzo e servirà a verificare se è possibile l’estrazione di tracce biologiche da dieci reperti recuperati sui luoghi di cinque attentati e, in caso positivo, se è fattibile compararne i risultati con il profilo genetico degli undici indagati, delle persone inserite nella banca dati Dna e di ulteriori soggetti ritenuti di interesse investigativo.

Il nuovo indagato: cagliaritano 61 anni

Dieci indagati erano già stati coinvolti all’epoca ma le loro posizioni erano state archiviate, uno invece è entrato nell’inchiesta due mesi fa. È appunto Luigi Pilloni, cagliaritano di 61 anni trasferito a Gaiarine di Treviso, secondo i vicini di casa non da molto tempo, e segnalato agli inquirenti dai carabinieri del Nucleo investigativo di Treviso il 26 dicembre scorso. L’uomo, che adesso non ha un lavoro stabile, ha subìto una perquisizione, non ha alcun legame con Elvo Zornitta, l’ingegnere di Azzano Decimo al centro della prima inchiesta, né ha mai lavorato in aziende produttrici di componenti utilizzati da Unabomber per confezionare gli ordigni. Sui motivi che hanno portato a lui vige il massimo riserbo, l’unico concetto trapelato parla di «una persona la cui attendibilità appare problematica ed è tutta da verificare».

Insieme a Pilloni saranno coinvolti nell’incidente probatorio i fratelli Elvo e Galliano Zornitta, quest’ultimo residente a Belluno e al tempo tenuto sotto osservazione per un problema fisico che si pensava poter essere alla base della rabbia dell’attentatore; i gemelli Lorenzo e Luigi Benedetti, 52 anni di Sacile; i fratelli Claudio e Dario Bulocchi, 70 e 60 anni di Fontanafredda (Pordenone); Luigi Favretto, 74 anni, residente a Tarcento (Udine); Angelo La Sala, 74 anni che abita a Lestans di Sequals (Pordenone); Cristiano Martelli, 59 anni abitante ad Azzano Decimo (Pordenone); Giovanni Fausto Muccin, 65 anni, di Casarsa della Delizia (Pordenone). A parte Lorenzo Benedetti, Galliano ed Elvo Zornitta, a tutti è stato assegnato l’avvocato d’ufficio Alessandra Devetag del Foro di Trieste, che deve però ricevere il mandato fiduciario. «Sarà necessario acquisire i profili genetici di Luigi Benedetti, Claudio Bullocchi, La Sala, Martelli, Muccin, Pilloni e Galliano Zornitta», scrive il gip, mentre il Dna degli altri era già stato depositato a suo tempo. «Va qui chiarito che al momento non sono stati acquisiti a carico di alcuno dei soggetti sottoposti a indagine elementi più significativi — precisa il gip Dainotti — e che la loro menzione in questa sede deriva soltanto dall’esigenza di evitare possibili future prospettazioni di nullità o inutilizzabilità dei risultati dell’incidente probatorio richiesto».

Dna: test sui peli ritrovati in diversi ordigni

Insomma, al momento non ci sono prove di colpevolezza a carico degli indagati, come già specificato dal procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo, che coordina l’inchiesta insieme al sostituto Federico Frezza: «Nei confronti di nessuno degli indagati sono stati acquisiti elementi tali da consentire di convogliare le investigazioni in una precisa direzione. Sarà l’accertamento genetico, speriamo, a portare elementi utili a tal fine». Verranno dunque analizzati i peli trovati nell’ordigno inesploso il 6 marzo 2000 e inserito in una bomboletta di stelle filanti durante il Carnevale di San Vito al Tagliamento; i peli rinvenuti nell’uovo-bomba inesploso e lasciato al supermercato di Portogruaro il 31 ottobre 2000; i peli repertati nel tubo-bomba che il primo novembre 2000 ferì una donna in un vigneto di San Stino di Livenza; il nastro isolante sulla confezione di pomodoro esplosa in mano a Nadia De Ros il 6 novembre 2000; il nastro isolante sull’ordigno inesploso e nascosto in un tubetto di maionese a Roveredo in Piano il 17 novembre 2000. Sotto la lente anche rilievi dattiloscopici relativi alla bomba esplosa nel bagno del tribunale di Pordenone il 24 marzo 2003; l’inginocchiatoio contenente una bomba che non deflagrò e fu trovata il 2 aprile 2004; la scatoletta di sgombro inviata l’11 marzo 2005 con una derrata alimentare dalle suore di Concordia Sagittaria alle consorelle in Romania e all’interno della quale c’era un ordigno, inesploso; il congegno, non deflagrato, scoperto sotto la sella della sua bici da una donna il 9 luglio 2005 a Portogruaro; e appunto la bottiglia di Coca Cola recuperata a Zoppola.

«Io, indagato per Unabomber, sono un pensionato e ho paura che m’incastrino». Storia di Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera l’8 febbraio 2023.

Uno parla di choc, un altro di paure, un terzo ha perso cinque chili... Per quanto la procura di Trieste abbia cercato di indorare la pillola ricordando che non c’è alcun elemento nuovo e che si tratta sostanzialmente di un atto dovuto per ragioni tecniche, i nuovi indagati del caso Unabomber non l’hanno presa affatto bene. Sono in undici, ci sono molti pensionati, alcuni ultrasettantenni, dieci di loro erano già stati iscritti e archiviati una ventina d’anni fa nel corso della vecchia indagine sul bombarolo. Ora la procura di Trieste vorrebbe utilizzare le nuove tecniche scientifiche per estrarre tracce genetiche da dieci reperti di altrettante bombe piazzate in quegli anni, dal 2000 al 2007, per compararle con il loro Dna e con quelli inseriti nella banca dati del Dna. La speranza è naturalmente di trovare l’impuntito Unabomber.

«Mi sento osservato»

«Per me questa vicenda è sconvolgente, ora mi sento osservato anche se non c’entro nulla con quel disgraziato. E devo pure prendermi un avvocato per difendermi, io che da buon friulano sarei anche un po’ tiratino coi soldi. Vorrei capire perché», si preoccupa Fausto Muccin, pensionato di Casarsa della Delizia, uno degli undici. Il perché è in quel sospetto di vent’anni fa, tramontato nello spazio di una perquisizione. «Capisco che potevo rientrare in quel profilo: ero perito chimico, abitavo in zona e vivevo da solo, come ora. Ma quando sono venuti hanno compreso bene che non potevo essere io. Non ho laboratori, sono volontario della croce rossa e non ho preso mai neppure una multa. E poi basta guardarmi per capire che non posso fare del male a una mosca». Muccin ha una paura: «Io il Dna io lo do ma non mi fido perché se vogliono incastrarti t’incastrano anche se sei innocente, basta vedere quello che è successo a Zornitta che abita non distante da qui, eh». Così, Muccin. Poi ci sono i gemelli Luigi e Lorenzo Benedetti, cinquantaduenni di Sacile, uno titolare di un’impresa agricola, l’altro di una ditta che affila utensili.

«Non so se darò il Dna»

«Per me è stato uno choc - dice Luigi che si trova all’estero per lavoro -. Trovo assurdo che vadano a indagare sempre gli stessi, avevano già fatto tutte le verifiche del caso a quei tempi, che senso ha ripetere tutto di nuovo». Il Dna? «Non lo so se lo darò, vedremo, se hanno delle prove sì, ma, insomma, ne devo parlare con il mio avvocato». A difendere buona parte dei nuovi indagati è l’avvocato Alessandra Devetag: «Al momento sono avvocato d’ufficio, se qualcuno mi nominerà di fiducia spero di poter avere un perito che partecipi alle analisi. Sempre che qualcuno voglia assumersi gli oneri di una difesa tecnica che qui sarebbe necessaria. Io penso che abbiano sbagliato a procedere in questo modo, senza tener conto di cosa significhi per queste persone, tutte di una certa età, tornare sotto indagine. Cioè delle ripercussioni psicologiche della vicenda. Io sono in contatto con uno di questi che già aveva sofferto in maniera indicibile all’epoca della prima iscrizione e che ora sta rivivendo lo stesso incubo: lui non parla, non ce la fa, e ha perso 5 chili da quando gli hanno notificato l’atto, il mese scorso».

Il nuovo nome

L’avvocato Devetag ha qualcosa da ridire sull’indagine: «Trovo allucinante che sia stato concesso a dei giornalisti di entrare in magazzino e di aprire i reperti senza tute e guanti». Ha già depositato delle deduzioni, entrando nel merito delle singole posizioni, soprattutto rispetto all’unico nuovo nome, Luigi Pilloni, sessantenne di Gaiarine (Treviso), operaio: «Ho evidenziato la fragilità delle presunte prove a suo carico e il fatto che prima di un’indagine sul Dna si potevano fare altre cose. E solo nel caso in cui fossero emersi degli indizi si sarebbe dovuto procedere con l’indagine genetica». Pilloni è imbarazzato: «Non ho fatto nulla di male e non voglio dovermi giustificare», telegrafa mentre la moglie rassicura: «Dormo con lui dal 2004, figuriamoci se non mi sarei accorta di qualcosa».

La mossa della Procura di Trieste. Unabomber, 17 anni dopo l’ultimo attentato si riapre l’inchiesta: 11 indagati, c’è Zornitta ma anche un nome nuovo. Redazione su Il Riformista il 20 Gennaio 2023

Dopo averlo annunciato lo scorso novembre, il procuratore capo di Trieste Antonio De Nicolo è passato “ai fatti”: è stata infatti ufficialmente riaperta l’inchiesta ‘cold case’ su Unabomber, il misterioso dinamitardo che tra il 1994 e il 2006 fu responsabile di una lunga serie di attentati, 28 per la precisione, nel nord-est dell’Italia, seminando panico e feriti.

A distanza dunque di 17 anni il registro degli indagati si riapre: De Nicolo vi ha iscritto 11 persone, nomi che avevano già trovato posto tra quelle righe negli scorsi anni per poi venire tutti archiviati. Solo uno è un ‘volto nuovo’ nell’inchiesta su Unabomber.

Procura che al momento si cela nel massimo riserbo: le uniche notizie che trapelano sono un comunicato molto asciutto in cui si precisa che la richiesta al Gip è stata formulata dal pm Federico Frezza e che il nuovo indagato è “una persona la cui attendibilità appare problematica ed è tutta da verificare”.

Al Gip il procuratore De Nicolo e il pm Frezza hanno chiesto un incidente probatorio per analizzare dieci vecchi reperti sequestrati nel periodo in cui Unabomber era ‘operativo’ nel nord-est, tra  Friuli e Veneto.

L’incidente probatorio è il procedimento con cui si anticipa e si acquisisce la formazione di una prova nel corso delle indagini preliminari: serve cioè a “cristallizzare”, come si dice in termini legali, eventuali prove che potrebbero essere utilizzate nel corso di un processo.

Chi invece parla pubblicamente è Elvo Zornitta, l’ingegnere di Corva di Azzano Decimo (Pordenone) indagato per anni fino alla dimostrazione della sua innocenza: Zornitta fu scagionato quando emerse che la prova regina conto di lui fu in realtà manomessa da un poliziotto, Ezio Zernar, poi condannato.

Ci sono anch’io fra i nuovi indagati? — chiede Zornitta al Corriere della Sera — Nessun problema, speriamo che trovino finalmente questo disgraziato. Ho sentito che vogliono estrarre il Dna da un pelo trovato sull’uovo di un ordigno del 2000. Mi sembra un elemento che può aiutare. Se poi prendono quello dell’attentato del lamierino del 2004 magari si scopre che è la stessa mano”.

A favore della riapertura delle indagini è anche l’avvocato Maurizio Paniz, difensore dello stesso Zornitta. “Era fisiologico che qualsiasi iniziativa avrebbe interessato tutte le persone indagate nel passato, compreso l’ing.Zornitta – dice Paniz – Non sapevamo, tuttavia, che le persone coinvolte nell’indagine fossero ben 10“.

Paniz auspica che le persone indagate diano il loro Dna, che i reperti siano stati conservati bene e trasportati in maniera adeguata, tuttavia incrollabile è “la stima nei confronti del Procuratore De Nicolo e del sostituto Frezza“, sono “certo che faranno le cose per il meglio. Magari si riuscisse finalmente a scoprire il colpevole“.

L’inchiesta è stata riaperta dopo una istanza di Marco Maisano, giornalista e conduttore tv al lavoro su un podcast sul caso Unabomber,  e da due donne vittime di Unabomber, Francesca Girardi e Greta Momesso. Maisano ha lavorato per mesi a OnePodcast su Unabomber e, visionati i reperti, ha trovato un capello bianco su un uovo inesploso e due capelli e peli repertati recuperando un ordigno inesploso a San Stino di Livenza

Unabomber, la reazione di Greta: «Felice delle novità, è già un primo risultato». Un brindisi con Francesca. Le voci delle vittime dopo la riapertura dell’indagine sul bombarolo del Nordest da parte della procura di Trieste: «Presa la giusta direzione». Michela Nicolussi Moro su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

Greta Momesso, ferita da Unabomber nel 2005, e i rilievi del 2003 sul pennarello esplosivo trovato a San Biagio di Callalta

La notizia arriva mentre lei sta mangiando. Greta Momesso, che oggi ha 24 anni, quando ne aveva sei perse parte della mano sinistra per lo scoppio di un cero elettrico acceso nel duomo di Motta di Livenza il 13 marzo 2005. È una ragazza risolta, ha vissuto prima a Berlino e poi a Trento, dove ha studiato Neuroscienze cognitive all’Università, e adesso vive a Milano. Come Francesca Girardi, l’altra «ex bambina» ferita gravemente nell’attentato del 25 aprile 2003 a a Fagarè di San Biagio di Callalta (Treviso). A 9 anni perse la mano destra e la funzionalità dell’occhio destro per aver raccolto un evidenziatore esplosivo sul greto del Piave. Ora ha 28 anni, lavora a Milano appunto, e insieme a Greta l’estate scorsa ha presentato alla Procura di Trieste la richiesta di riaprire le indagini sul bombarolo che tenne in scacco il Nordest, piazzando trenta ordigni tra il 1994 e il 2006.

Elogio del silenzio

«Sto finendo di leggere il comunicato con cui il procuratore di Trieste, Antonio De Nicolo, annuncia di aver iscritto undici persone nel registro degli indagati — ha risposto ieri pomeriggio al telefono Greta —. Mi sto rendendo conto di cosa possa significare e ne sono molto felice. Con la mia famiglia proprio in questi giorni stavamo apprezzando il silenzio nel quale, stavolta, vengono condotte le indagini. Nulla a che vedere con il clamore mediatico che seguì gli attentati di quegli anni. Il silenzio significa poter lavorare in pace, senza eccessive pressioni, una nuova modalità che sta dando velocemente i suoi frutti. Siamo contenti». Greta e Francesca sono tornate a sentirsi proprio in occasione del ritorno di interesse sul caso, da parte dei media prima e della magistratura poi. «Attualmente viviamo entrambe a Milano, ci vediamo spesso, andremo a bere qualcosa per festeggiare la novità — continua Greta —. Non ho idea di chi possa essere Unabomber, ma credo che gli inquirenti si stiano muovendo nella giusta direzione. Vent’anni fa si è partiti con oltre mille indagati, era tutto molto difficile. Oggi essere riusciti a circoscriverne il numero a undici è già un buon presuppostoper puntare ad arrivare a qualcosa di concreto. Grazie anche alle nuove tecniche scientifiche, che potrebbero sortire migliori conclusioni».

Sul nuovo coinvolgimento di Elvo Zornitta, l’ingegnere di Azzano Decimo che alla fine rimase l’unico indagato finché la sua posizione non fu archiviata per il crollo della prova regina, la giovane osserva: «Credo che anche a lui faccia piacere la riapertura delle indagini. Ha sempre detto che dare un volto al vero colpevole lo libererebbe da un incubo colpevole di aver rovinato pure la sua vita. Potrebbe essere la prova del nove in grado di restituirgli la pace». Francesca Girardi, che ha dichiarato di voler incontrare il suo attentatore per chiedergli il perché di tanto dolore provocato e se, tornando indietro, lo rifarebbe, affida i suoi pensieri a Facebook. «Sono una sopravvissuta, che da quel 25 aprile 2003 non ha mai smesso di lottare — scrive —. Quel giorno, oltre a tutto il resto, ho perso la mia innocenza e la mia infanzia. Ma ho anche trovato qualcosa di speciale. Unabomber, senza volerlo, mi ha regalato la grinta, la forza e la consapevolezza che niente e nessuno potrà mai spegnere il mio sorriso. Oggi ho 28 anni e sono pronta a combattere ancora per avere giustizia, per me e per le altre vittime».

La doppietta di Pantani compie 25 anni. Il Pirata veniva dalla stupenda vittoria ottenuta al Giro d’Italia nello stesso anno, dove aveva stroncato Pavel Tonkov sulla salita di Montecampione. Nel Tour, portato a casa il 2 agosto di 25 anni, fa sta in un’immagine plastica: Pantani sul podio e Gimondi che, precipitatosi a Parigi, lo abbraccia e gli alza il braccio verso il cielo in segno di trionfo. Marco Fortis su Il Riformista il 2 Agosto 2023 

Il 2 agosto del 1998 agli Champs Élysées un grande campione italiano, l’indimenticabile Marco Pantani, vinceva il Tour de France, 33 anni dopo che un altro grande campione, Felice Gimondi, nel 1965, aveva fatto sua la Grande Boucle rivelando al mondo tutto il suo talento. Il ricordo di quel 2 agosto di 25 anni fa sta in un’immagine plastica: Pantani sul podio e Gimondi che, precipitatosi a Parigi, lo abbraccia e gli alza il braccio verso il cielo in segno di trionfo.

Pantani veniva dalla stupenda vittoria ottenuta al Giro d’Italia nello stesso anno, dove aveva stroncato Pavel Tonkov sulla salita di Montecampione. Arrivato al Tour, Marco si era aggiudicato l’undicesima tappa nei Pirenei al Plateau de Beille, distanziando l’arcigno rivale tedesco Jan Ullrich ma senza riuscire a piegarlo. Sembrava quasi impossibile che lui o altri, come l’americano Bobby Julich, potessero insidiare la maglia gialla, saldamente sulle spalle di Ullrich. Lo squadrone della Deutsche Telekom pregustava il trionfo a Parigi del suo corridore, che aveva già vinto il Tour de France l’anno prima. Invece il 27 luglio sulle pendici del Col du Galibier andò in scena una delle più grandi imprese della storia del ciclismo. E fu Pantani a scriverla.

Nel commentare la tappa del Galibier in TV sui canali Rai Adriano De Zan e Davide Cassani avevano appena finito di dire che non sarebbe stato facile per Pantani battere Ullrich ma soprattutto infliggergli un distacco tale da rovesciare la corsa. Quando, improvvisamente, il “Pirata” scattò come una molla, mentre la pioggia cominciava a bagnare la strada e le nuvole basse scendevano sull’epico destino di quel pomeriggio. Preso qualche metro di vantaggio sul tedesco, Pantani quasi si fermò in surplace sulla sua bicicletta voltandosi a controllare la situazione.

Accortosi che Ullrich non riusciva a stargli a ruota, Marco ripartì come un razzo, mentre milioni di telespettatori italiani trattenevano il fiato. Pantani – letteralmente scatenato – riprese facilmente alcuni fuggitivi e raggiunse il colle sotto una pioggia battente, con le luci delle moto che fendevano la nebbia attorno a lui, tra ali di tifosi urlanti. Il campione romagnolo prese al volo una mantellina che gli era stata data da un addetto della sua squadra ma non riuscì ad infilarsela sulle prime curve insidiose della discesa e dovette fermarsi qualche secondo per indossarla.

I commentatori della RAI temettero per un attimo che Pantani fosse perfino caduto sull’asfalto bagnato. Ma non era così. Infilata la mantellina, Marco riprese a scendere forsennatamente diretto verso il Col de Lautaret e l’attacco della salita finale delle Deux Alpes, sulla quale incrementò ulteriormente il suo vantaggio. Partito quarto in classifica generale con tre minuti di ritardo su Ullrich, Pantani quel giorno concluse la tappa infliggendo quasi nove minuti di distacco al tedesco e prendendosi il Tour.

Il Galibier è un colle mitico. Il 27 luglio 1998 giorno Pantani lo scalò dal versante Nord, quello più lungo e difficile. Un versante che ti sfianca perché – lasciata la ventosa valle della Maurienne – i ciclisti devono prima affrontare il Col de Télégraphe, un “antipasto” che con la sua pendenza costante intorno all’8% e punte fino al 10% appesantisce le gambe. Poi, dopo una breve discesa fino all’abitato di Valloire, la strada ricomincia a salire con un lungo ed estenuante avvicinamento alle pendici del Galibier, prima sulla destra e poi sul versante sinistro del vallone dove scorre il torrente Valloirette. Fino ad arrivare agli ultimi quattro chilometri che, superato nuovamente il torrente, portano allo scollinamento del Col du Galibier, situato a 2.556 metri sul livello del mare. Nei pressi del punto dove Pantani andò in fuga, quel memorabile 27 luglio, nel 2011 è stata posta una stele trasparente con una base in pietra, denominata “Monument Pantani Forever”.

Ovunque sulle strade delle Alpi si possono trovare cippi o statue dedicate alla leggenda di Marco Pantani. Una delle più importanti si trova sul versante di Mazzo del Passo del Mortirolo, in Valtellina. Un’altra è posta poco prima del Colle Fauniera, nel cuneese. Vi è persino un cippo che lo ricorda poco dopo Finero, al culmine della periferica vallata che collega Cannobbio sul Lago Maggiore con la Valle Vigezzo.

Dopo il Tour 1998, all’apice del successo, nel 1999 la carriera di Pantani fu interrotta a Madonna di Campiglio da una sospensione per ematocrito alto al Giro d’Italia, che il ciclista di Cesenatico stava rivincendo in modo imperioso, dopo aver compiuto altre imprese strabilianti. Indimenticabile, in particolare, fu la rimonta di tutto il gruppo che Pantani aveva fatto nella tappa del 30 maggio – dopo essersi fermato per un salto di catena – con la strepitosa vittoria finale al traguardo del Santuario di Oropa, davanti a Jalabert, Gotti e Savoldelli, ripresi e poi staccati uno dopo l’altro.

In un’epoca in cui il doping imperava, un periodo oscuro che sarebbe culminato con l’epopea negativa di Lance Armstrong al Tour de France, anche Pantani fu coinvolto nell’uso di metodi che “ispessivano” il sangue. Ma chiunque capisca minimamente qualcosa di ciclismo sa anche che nessuno in quegli anni è stato più forte di Pantani. In un mondo libero dal doping, lui avrebbe vinto lo stesso staccando tutti, a mani basse sul manubrio, danzando sui pedali, com’era nel suo stile.

Diverse volte, nel corso di gare di gran fondo per amatori, mi è capitato di trovare la forza per affrontare gli ultimi ripidi metri di salita pensando che Pantani era passato di lì, lasciando una traccia indelebile sull’asfalto, quasi una guida, una specie di ispirazione e di incoraggiamento per chi sarebbe venuto dopo. Mi ricordo come fosse adesso che il pensiero di Pantani mi aiutò molto durante una “Marmotte”, la gran fondo francese per eccellenza, proprio sulle pendenze finali del Galibier e su quelle dell’Alpe d’Huez, ma anche in altre circostanze, come sul Gavia e poi sul ripido Mortirolo in una Gran Fondo “Pantani”, una splendida gara dedicata proprio a lui. E, ancora, sul Colle Fauniera, durante una estenuante Gran Fondo Fausto Coppi corsa sotto un sole rovente. Sono certo che anche a tanti altri amanti della bicicletta è successo di provare la stessa sensazione scalando qualche montagna, cioè di rivolgere la memoria alle gesta di Pantani e di ricavare da quel pensiero riserve supplementari di energia ed entusiasmo.

Pantani ha lasciato sulle strade d’Europa record di scalata ancora oggi imbattuti, come i tempi di salita all’Alpe d’Huez. Le sue imprese al Giro d’Italia e al Tour de France sono entrate negli annali del ciclismo. Così come i suoi infortuni e le sue rinascite; e, purtroppo, anche il suo destino sfortunato, il tunnel della droga e la sua drammatica fine. Migliaia di tifosi ed appassionati visitano regolarmente la sua tomba, specie in occasione della “Nove Colli”. In anni in cui la sigla RAI del Giro d’Italia era la bellissima “In fuga” di Lucio Dalla, anche il mondo della musica rimase affascinato dalla figura del “Pirata”. E, in effetti, Marco Pantani è probabilmente il ciclista a cui sono state dedicate più canzoni in assoluto. Basti ricordare, tra le tante, “E mi alzo sui pedali” degli Stadio, “In fuga” di Francesco Baccini, “Prendi in mano i tuoi anni” dei Litfiba, “Le rose di Pantani” di Claudio Lolli o “L’ultima salita” dei Nomadi.

Nel 2003 ebbi occasione di vedere da vicino proprio quella che sarebbe stata l’ultima salita di Pantani, nella tappa Canelli-Cascata del Toce del Giro d’Italia. Eravamo arrivati già dal mattino in una ventina della nostra squadra di ciclismo all’ultimo tornante prima dell’arrivo. Dopo ore di attesa, mangiando al sacco, assiepati ai bordi della strada tra i pini, cominciammo a sintonizzare le nostre radioline per seguire gli ultimi chilometri della corsa in attesa del passaggio dei corridori. Nei pressi della frazione Chiesa improvvisamente il “Pirata” scattò, accendendo gli entusiasmi dei tifosi e dei telecronisti Auro Bulbarelli e Davide Cassani. Ma Pantani era ormai in declino e completamente svuotato di energie. Nel giro di un minuto fu ripreso dagli altri corridori e la tappa andò a Gilberto Simoni, che quell’anno vinse la corsa rosa. Vedemmo il “Pirata” passare sconsolato davanti a noi, quasi ingobbito: fu tutto molto triste.

Scendendo in bici dalla Cascata del Toce fino a Domodossola dove avevo lasciato l’auto, mi misi gli auricolari per ascoltare una cassetta dove avevo registrato la sigla del Giro d’Italia del 1996, cantata proprio da Marco Pantani, quell’anno appiedato da un infortunio. Piuttosto che ricordare il Pantani di quella ultima triste salita in val Formazza, preferii ritornare con la memoria al Pantani felice e sorridente di quel vecchio video musicale della RAI, quando il “Pirata” era ancora pieno di sogni, di entusiasmo e di quella enorme forza che poi lo avrebbe portato a vincere nello stesso anno il Giro d’Italia e il magico Tour de France del 1998.

Marco Fortis

Estratto dell'articolo di Pier Augusto Stagi per “il Giornale” lunedì 31 luglio 2023.

Quel giorno non ebbe bisogno di lanciare via la bandana e nemmeno gli occhiali l’orecchino o il brillantino che portava al naso, gli fu sufficiente indossare la maglia gialla e alzare il bracco destro, che in quella circostanza glielo sollevò al cielo nientemeno che Felice Gimondi, l’ultimo italiano a vincere il Tour, trentatré anni prima di lui. 

Correva l’anno 1998 e soprattutto correva Marco Pantani, che per l’occasione si era presentato con tanto di pizzetto e baffi gialli d’ordinanza fatti dall’amico parrucchiere Alberto Mancusi per salire sul grandino più alto del podio dei Campi Elisi […] 

Era il 2 agosto di venticinque anni fa, dopo aver vinto quasi due mesi prima il Giro d’Italia, il fuoriclasse di Cesenatico unì alla rosa il giallo della Grande Boucle. 

Sono passati venticinque anni da quel giorno luminescente e radioso, ma il ricordo di quell’estate calda e stordente ci è restata nel cuore nitida e intensa come non mai. «Ricordo tutto alla perfezione: non potrebbe essere diversamente – ci racconta Beppe Martinelli, che di quella Mercatone Uno era il direttore sportivo -.

Marco ha scritto pagine memorabili di questo sport e io posso solo dire di avere avuto la fortuna d’incontrarlo sulla mia strada. Ricordo come se fosse ieri l’antefatto di quella avventura che nemmeno doveva esserci. Difatti dopo il successo sulle strade del Giro, Marco non avrebbe voluto correre quel Tour. Poi ci fu l’improvvisa morte di Luciano Pezzi, presidente e team -manager di quella Mercatone Uno e allora riuscimmo a toccare le corde giuste di Marco che a Luciano era legatissimo. Di lui aveva un autentico rispetto, diciamo piuttosto una venerazione: quando Pezzi parlava, Marco ascoltava rapito.

Pezzi era convinto che Marco fosse l’unico in grado di poter riportare in Italia il Tour e lo sosteneva uno che aveva guidato un giovanissimo Felice Gimondi in maglia gialla fino a Parigi come direttore sportivo di quella fantastica Salvarani. Partimmo con l’intenzione di vincere una o due tappe di montagna e, francamente, nessuno di noi aveva il minimo pensiero rivolto alla maglia gialla. 

L’unico, forse, era Marco che come di consueto dovevi convincerlo a fare una cosa, ma una volta che lo avevi rimesso in sella con il numero sulla schiena, lui riacquistava immediatamente lo spirito agonistico e ingaggiava la sfida con il mondo: lui contro tutti. Era un corridore fantastico, che sapeva fare cose uniche […]».

L’inizio, però, non fu dei più semplici. Un avvio in salita, nonostante la strada fosse assolutamente pianeggiante. «Fu così, perché dopo il Giro Marco aveva staccato. Per dodici giorni non toccò la bicicletta: dal circuito di Bologna post Giro a quella telefonata di Marco nella quale mi dice... “ma io non ho la bicicletta”, passarono appunto quasi due settimane, nelle quali Marco fece di tutto fuorché pedalare. Era il 24 giugno, per Marco il discorso era chiuso: c’era da andare solo al mare. 

Poi il 26 mancò Pezzi e lo convincemmo e partimmo alla volta del Tour, destinazione Dublino. Male in Irlanda (169° a 48” da Boardman, ndr), male nella crono di Correze, nella quale pagò a Ullrich 4 minuti, anche se io lo considerai un successo. Su quelle distanze (58 km, ndr) Marco avrebbe dovuto prenderne quasi il doppio e fu in quel momento che compresi che non eravamo lì per fare i turisti, ma la cosa che più contava è che lo capì lui».

Difatti, arriva la vittoria di tappa a Plateau de Beille e, cinque giorni dopo, il volo leggendario sul Galibier che lo portò a Les Deux Alpes e lo proiettarono in cima al Tour in maglia gialla. 

«Sapevamo che Ullrich era vulnerabile sotto l’aspetto emotivo. Se fossimo riusciti ad isolarlo, sarebbe andato nel panico, come poi successe. Marco era forte, sia di gambe che di testa, in quelle situazioni si esaltava, non c’era bisogno di dirgli nulla, se non accompagnarlo verso il trionfo. Marco fece qualcosa di pazzesco, un volo di rara bellezza, che ancora oggi vivo nei miei pensieri come una delle fiabe più belle vissute nella mia vita».

[…]

Estratto da Corriere.it giovedì 27 luglio 2023.

(…)

Martinelli, qual è il suo primo ricordo di quel Tour storico?

«Ricordo quali erano le premesse di quel Tour. Dopo la vittoria al Giro d’Italia, Marco aveva un po’ staccato la spina. Fu la morte di Luciano Pezzi a dirottarlo verso il Tour. Era il suo mentore. Il sogno di Luciano era quello di rivedere un italiano vincere il Tour dopo 33 anni. Andò anche per provare ad esaudire quel sogno. Partimmo con l’intenzione di vincere una tappa di montagna. Assolutamente mai pensavamo di vincere la maglia gialla». 

L’inizio fu disastroso. Cosa ricorda di quei giorni difficili?

«Marco non era in condizione e perse subito terreno. Nella lunga cronometro di Correze, Jan Ullrich gli dette 4 minuti. Dopo neanche 10 giorni eravamo fuori classifica a oltre 5 minuti dalla maglia gialla, ma avevamo fiducia nelle montagne. La cosa più importante però era un’altra: Marco non era mai caduto e per uno come lui che in carriera aveva avuto tanti infortuni non era una cosa da poco».

Poi arrivò la 15esima tappa, quella che tutti si ricordano da Grenoble a Les Deux Alpes con il Galibier che Pantani utilizzò come trampolino di lancio. Come fu la vigilia? Sentivate odore d’impresa?

«Al mattino, sul nostro piccolo camper, avevamo parlato di far saltare la corsa da lontano. Pensavamo di muovere un po’ le acque sul Galibier ma non avevamo certo pianificato un attacco del genere». 

Con Pantani però era difficile fare previsioni…

«Marco improvvisava. Mi chiese quanto era lungo il Galibier. Gli risposi che era lunghissimo. Non servì altro. Quando attaccò a 7 km dalla vetta, da una parte ero sorpreso ma dall’altra vedevo che aveva fatto subito il vuoto. Per fortuna trovammo alcuni corridori che erano in fuga e che collaborarono. Dettero una piccola mano a Marco».

Ci fu anche la crisi di Ullrich, lo pensavate così vulnerabile?

«Quella fu invece una grande mano. L’impresa di Marco resta, ma fu determinante anche il crollo di Ullrich. Non era più lucido, era in crisi di freddo e di nervi. Capimmo che c’era qualcosa che non andava quando in salita lo vedemmo un po’ indietro rispetto ai compagni di squadra. Marco non portava la radiolina ma appena potei affiancarlo gli dissi “vai” e lui partì. Sapevamo che qualora Ullrich fosse rimasto da solo, senza gregari, sarebbe andato un po’ in panico. Così fu». 

(…)

Oropa 1999, la rimonta più bella del Pirata. Marco Pantani vede sganciarsi la catena ai piedi dell'ultima salita, ma non desiste: spinge sui pedali e gradualmente supera tutti quanti. Paolo Lazzari il 2 Luglio 2023 su Il Giornale.

Progredisce con passo spedito. Quegli altri sono attardati, cacciati nelle retrovie. Sfila verso le pendici del santuario di Oropa, votato al culto solenne della Madonna nera, con quella maglia rosa che ha strappato via di nuovo soltanto un giorno fa, approfittando degli impicci patiti da Laurent Jalabert. In classifica Marco Pantani ha messo via 53'' su Savoldelli e oltre un minuto su Gotti. Eppoi per lui quello è un pendio, più che una salita impervia. Pendenza media del 6,2%. Lungo nemmeno 12 km. Il pirata è pronto a trangugiarselo. Vuole piazzare i gomiti sul Giro d'Italia.

D'un tratto però una voce crepa quel placido 30 maggio 1999. "Attenzione, Pantani ha forato! Anzi no, è un problema meccanico". Adriano De Zan e Davide Cassani quasi non ci credono. E figurarsi lui, Marco, che si vede costretto a smontare rapidamente di bici per appurare il malanno. Che poi sarebbe un banalissimo guaio: la catena che si è sganciata. Ma pare comunque sufficiente per dissipare tutto il vantaggio acquisito. Sfila infatti il gruppo al suo fianco, mentre lui rammenda la questione con l'ausilio della moto shimano che prontamente lo soccorre. Quando risale in sella ha accumulato un ritardo di 45'' dagli altri e deve ripartire praticamente da fermo. Adesso è ai piedi del santuario, lungo un rettilineo che si infila tra i caseggiati tiepidi di Cossila San Grato e Cossila San Giovanni. Sì, potrebbe anche provare a riagganciarli.

Solo che Pantani ha in mente un'altra cosa. La modestia non fa parte delle sue marce. Accontentarsi è un verbo espunto da tempo dal suo vocabolario personale. Marco non vuole soltanto riprenderli. Intende superarli. Tutti quanti. Non è una decisione banale. Quest'ascesa appena iniziata sta per incidere la storia del ciclismo recente di un arabesco apprezzato raramente. Non si tratta di umana tracotanza. Il pirata sa che può abbordarli. Conosce le pieghe del suo corpo. Lascia che la voglia di farcela erompa. E inizia a risalire.

I compagni della Mercatone Uno intanto hanno rallentato per aspettarlo. Tra di loro c'è anche Garzelli, che vincerà il Giro l'anno seguente. Quando intravedono la sua sagoma iniziano a tirare a turno, per aprirgli una breccia. Fanno il lavoro sporco per il loro capitano. Da quel punto mancano meno di 10 km al santuario: la sola prospettiva mentale di quell'impresa appare irrealistica. Però la strategia pare funzionare. Pantani aggancia l'ultimo compagno che ha lanciato il ritmo, Marco Velo, e si stacca per dipingere la rimonta definitiva.

Quel che succede adesso, con Marco che spinge sui pedali come un forsennato, è sinceramente qualcosa di impensabile. Recupera gradualmente 40 secondi di distacco. Supera, ad uno ad uno, la bellezza di 49 corridori fuggiti via, sgretolandone le velleità. La sua irresistibile ascesa soggioga anche calibri come Ivan Gotti, Gilberto Simoni e Paolo Savoldelli.

Ormai Marco va talmente forte che inizia a credere di potersi riprendere la testa della corsa. Crepitano entusiasmo i telecronisti. Impazzisce il pubblico. Adesso scatta e va a riprendersi anche Jalabert. Sarebbe già abbastanza assurdo così, ma non gli basta. Si alza sui pedali e lo stacca a 3 km dall'arrivo, dandogli alla fine 20 secondi di distacco, raggranellati per la maggior parte nel tratto più duro della salita, il suo giardino di casa.

Pantani taglia il traguardo per primo, ma non solleva le braccia al cielo. Talmente in trance da non essersi nemmeno realizzato di aver vinto. Gli ci vuole la festa che sgorga tutt'intorno per capire. Bisogna pizzicarsi la pelle per credere che sia vero. Una delle rimonte più intense di sempre. Nell'arcipelago emotivo costruito dalle imprese piratesche, probabilmente l'abbordaggio più bello.

Estratto dell'articolo di Pier Bergonzi per la Gazzetta dello Sport il 30 aprile 2023.

Vent’anni dopo! Christina scende dal treno di fronte al cartello con la scritta bianca “Cesenatico” su fondo blu e i ricordi si arrampicano più veloci di Marco Pantani sull’Alpe d’Huez. Quando il Pirata vinceva e ai cronisti che gli chiedevano perché andasse così forte in salita lui rispondeva con quello sguardo laser «... per abbreviare l’agonia». 

Christina Jonsson è stata la storica fidanzata di Marco Pantani. L’aveva conosciuto nell’inverno del 1995, quando lei, danese, cercava lavoro nella Riviera romagnola e Marco era già un campione emergente nel nostro ciclismo. Lei ballava sui cubi, lui la prese per mano e per sette anni hanno ballato insieme sui saliscendi (nel loro caso sulle montagne russe) della vita. Christina ha vissuto gli anni più belli di quel Pirata che aveva conquistato il mondo a pedali, ma anche gli anni della caduta vertiginosa con quelle devastanti conseguenze che hanno portato Pantani a morire a Rimini, nell’algida stanza del residence Le Rose, il 14 febbraio del 2004, in circostanze che lasciano ancora tante, troppe domande aperte. Marco aveva solo 34 anni.

«La morte di Marco mi ha piegata Non potevo pronunciarne il nome» Christina non lo vedeva dall’estate del 2003, quando aveva deciso di staccare i ponti con l’Italia per rifugiarsi a Losanna, in Svizzera, dove ha lavorato in una galleria d’arte. «Ma non c’è stato giorno in cui non abbia in qualche modo pensato a Marco - racconta -. Quando ci ha lasciato, mi sono sentita sconfitta e distrutta. Piegata da un dolore così forte che ancora non ho superato del tutto. Ci sono voluti tanti anni di lavoro su di me per andare oltre, in qualche modo. Fino a poco tempo fa, non riuscivo a pronunciare il suo nome e stavo male appena sentivo qualcuno che parlava o raccontava di lui. Non sopportavo, e non sopporto ancora, chi ne parla male». 

Ogni 14 febbraio, nella scuola d’arte di Losanna, Christina ha organizzato una mostra d’arte. «Ne avevo bisogno per esorcizzare il dolore. Era un modo, l’unico modo per restare in contatto con Marco. L’arte mi aiutato molto. E’ stato il mio rifugio». Da quell’estate del 2003, l’anno dell’ultimo Giro e dell’ultima corsa di Pantani, Christina non era mai più tornata in Italia. Era finita nel frullatore delle responsabilità vere o presunte. Le era stato puntato l’indice addosso. Qualcuno la riteneva corresponsabile di quel viaggio senza ritorno di Pantani. «Ho prenotato e cancellato più volte i biglietti per venire a Cesenatico»

Ma a metà marzo, finalmente, ha deciso tornare a Cesenatico per incontrare mamma Tonina e papà Paolo Pantani, e anche Manola, la sorella di Marco. Per riabbracciare quella che per qualche anno è stata la sua famiglia, tra l’appartamento di Viale dei Mille, dove Pantani lavava la bicicletta nella vasca da bagno, e la villa di via Fiorentini, dove Marco teneva il cavallo vinto al Tour de France. «E’ stato un passo importante - dice Christina -. Ci pensavo da anno, ma ho dovuto lavorare tantissimo su di me per riuscirci. Ho programmato e cancellato i voli più volte, ma alla fine sono stata davvero felice. È stato come superare l’esame più importante della mia vita. 

Avevo il timore che nulla fosse più come prima, che la città e le persone mi potessero respingere e invece è stato tutto facile, tutto bello e intenso. Ho capito, una volta di più perché amavo Cesenatico e la sua gente. Sono rimasta impressionata dalla crescita dei pini. Una cosa pazzesca. Cesenatico non è solo mare. È molto di più. E poi l’incontro con Tonina... e con Paolo e Manola. È bastato poco perché ritrovassimo le battute, le risate, quante risate, di 25 anni fa. Tonina mi aveva accolto in casa e mi aveva dato un lavoro nella piadineria. È sempre stata tosta, una dura. Una Pantani. Ma so che mi ha voluto bene».

«L’ho accolta come una figlia L’ho trovata più matura, più dolce» Anche per Tonina Pantani l’incontro è stato un momento forte. La mamma di Marco, che non ha mai smesso, nemmeno per un minuto, di combattere la sua battaglia per la «verità» (è sicura che Pantani sia stato ucciso), era piuttosto arrabbiata con Christina. La riteneva complice di quel lato oscuro della vita di Marco. Ma il tempo ha smussato molti degli angoli vivi e anche Tonina aveva voglia di rabbracciare quella ragazza intelligente col casco biondo e gli occhi illuminati di vita. «Sì, l’ho accolta come una figlia. Le avevo fatto sapere che mi sarebbe piaciuto incontrarla e sono stata felice che sia tornata a Cesenatico - dice mamma Pantani -. L’ho trovata molto più matura, molto dolce. Per tutti noi, e in particolare per Paolo, è stato un momento forte. Ci siamo fatti qualche risata quando le ho ricordato le mie sfuriate in piadineria, io ero un po’ “selvaggia”, le mie urla erano proverbiali e Christina se le ricordava bene. Del resto Marco in qualcosa, qualcosa tanto, assomigliava a me. E adesso spero di non perderla di vista. Tutto quello che mi riporta a Marco, per me è sempre una forte emozione».

Mamma Tonina continua la sua battaglia per la verità. Tra una richiesta di riapertura del processo e la ricerca di nuove prove, lei non si ferma. «E fa bene - commenta Christina -. Tonina per carattere e tenacia è davvero una Pantani. Io ho la mia idea ben chiara su quello che è successo a Rimini in quel febbraio del 2004, ma preferisco tenerla per me. Sono però vicino alla famiglia e appoggio in pieno la loro battaglia. Al posto di mamma Tonina, farei come lei». 

(...) Cesenatico l’ha riconquistata. «Ho ritrovato Jumbo e qualche altro amico di allora - dice Christina —. La città è cambiata tanto, oppure sono cambiata io e la vedo con occhi diversi. Ma mi piace sempre. Se chiudo gli occhi e cerco un ricordo bello, mi rivedo all’inizio della mia storia con Marco nel cortile dell’appartamento di Viale dei Mille a due passi dalla piadineria e a uno sguardo dal mare. Eravamo felici con niente, eravamo giovani con grandi sogni. Sogni che sono rimasti appesi, anzi spezzati da un destino che ancora mi deve delle spiegazioni. Il dolore è stato così grande che ancora mi è rimasto addosso»

Marco Pantani, cosa sappiamo davvero a 19 anni dalla morte. Davide Di Santo su Il Tempo il 14 febbraio 2023

Diciannove anni. E altri ne passeranno senza che si possa mettere un punto a questa storia. Sempre che questo tipo di storie possano finire davvero. La morte di Marco Pantani, il 14 febbraio 2004, continua sollevare interrogativi nonostante il tempo che passa, le inchieste che si susseguono, l’attenzione intermittente dei media.

Cosa è successo davvero quel giorno nella stanza «5D» del residence Le Rose di Rimini? E in che misura la morte è legata a un’altra data fatidica per il destino del Pirata, il 5 giugno 1999, quando fu sospeso dal Giro d’Italia per l’ematocrito troppo alto? Per ripercorrere le tappe di una vicenda dolorosa che è rimasta scolpita nella memoria di tanti sportivi, e provare a riannodare i molti fili rimasti sospesi, da oggi è online sul sito de Il Tempo la prima puntata del podcast «Abisso Pantani - Il Giorno dei Giorni».

Al suo interno la voce di un testimone che offre un punto di vista davvero unico per dare un senso a questa storia. È Roberto Manzo, che di Pantani è stato prima un tifoso, poi un amico. In fine l’ultimo avvocato del campione nei processi sportivi seguiti alla squalifica di Madonna di Campiglio, nel ’99.

La memoria nel corso del tempo tende a semplificare le situazioni complesse. Trascura le contraddizioni e amplifica le certezze. Cerca un compromesso che talvolta chiamiamo verità. Sul caso Pantani è stato scritto e detto di tutto, ma ascoltare la viva voce di chi lo conosceva davvero e da vicino, lo ha seguito nei momenti più difficili - nell’«abisso» -, ha visto con i suoi occhi la stanza dove è morto, ha seguito da legale l’autopsia su cadavere, ebbene, offre tutta un’altra prospettiva.

La versione ufficiale, messa in discussione da diverse inchieste giudiziarie nel corso degli anni ma che nella sostanza non ha subito modifiche, è che Marco Pantani è morto per un’overdose di cocaina e farmaci all’interno del residence riminese dove si era isolato da tutto e da tutti dopo gli ennesimi contrasti con la famiglia, che stava cercando ancora una volta di farlo uscire dal tunnel della dipendenza. L’unico processo celebrato per i fatti di San Valentino 2004 è stato quello ai danni degli spacciatori, condannati a pene lievi. Ma i genitori del Pirata hanno cercato a più riprese di dimostrare che il figlio sarebbe stato ucciso, o comunque che quando è morto era insieme a qualcuno che in seguito ha spostato il corpo e alterato la scena.

 Gli ultimi capitoli della sequela di esposti e inchieste sul caso Pantani sono un dossier realizzato su mandato della famiglia da un ex generale della Guardia di Finanza, Umberto Rapetto, e le conclusioni della Commissione parlamentare Antimafia sul test antidoping che di fatto ha messo fine alla carriera del Pirata, mentre a Rimini è ancora aperta un’inchiesta sulle circostanze che portarono alla morte del ciclista. "Stiamo leggendo gli atti dei lavori della commissione antimafia sul caso Pantani e siamo nella fase conclusiva della nostra indagine", ha dichiarato il procuratore capo di Rimini, Elisabetta Melotti. L'inchiesta si avvia verso la conclusione e secondo quanto trapela confermerebbe l'esito delle precedenti indagini. Tuttavia gli avvocati della famiglia Pantani, Fiorenzo e Alberto Alessi, sono decisi ad andare avanti con le indagini difensive e consegneranno nuovo materiale sulla morte del campione e sulla squalifica per doping. 

 Nella relazione parlamentare, invece, vengono messe nero su bianco tutte le anomalie che hanno caratterizzato il test di Madonna di Campiglio, ma anche quanto emerso in seguito alle dichiarazioni di Renato Vallanzasca, il boss della mala, a cui un detenuto avrebbe confidato che dietro alla squalifica ci fosse la mano della camorra. La vittoria di Pantani al Giro d’Italia del ’99 avrebbe fatto saltare il banco delle scommesse clandestine e per questo, con il Pirata in testa a una tappa dalla conclusione, sarebbe scattata la trappola.

La provetta è stata manomessa? E come è possibile dimostrarlo? Pantani è stato volontariamente fatto fuori dal giro, mazzata che lo farà sprofondare nell’abisso della droga e della depressione? «Il 5 giugno 1999 è il giorno della morte di Marco Pantani. Non fisicamente, ma moralmente e spiritualmente. Perché è vero, come diceva Pasolini: "so chi sono i colpevoli ma non ho le prove". Sono certo che sia stato fregato», spiega Manzo nel podcast in cui ripercorre le tappe dell’ultima, tragica corsa di Pantani. Perché la possibile manomissione del test ematico e la tesi del giro delle scommesse clandestine erano già agli atti del primo processo, quello per frode sportiva terminato con l’assoluzione, celebrato in un momento in cui Pantani, da idolo delle masse, era diventato per tutti un dopato. Il racconto dell’avvocato inizia qualche mese prima di quel test. Sul lungomare di Miano Marittima avanza regale una Mercedes del ’55, a bordo c’è Marco Pantani reduce dalla storica doppietta Giro-Tour. È felice.

***

«Abisso Pantani - Il Giorno dei Giorni» è un podcast di Davide Di Santo, che ha curato anche il sound design e le musiche originali. Protagonista del racconto è Roberto Manzo, ultimo avvocato del Pirata e autore del libro «Chi ha ucciso Marco Pantani» (Mondadori). Le tre puntate («L’incontro», «La caduta» e «La ricerca della verità») sono disponibili sulla piattaforma Spreaker. 

Marco Pantani, anniversario morte: omicidio e fake news. Storia di Marco Bonarrigo su Il Corriere della Sera il 14 febbraio 2023.

La nuova inchiestaSono passati 19 anni dalla morte, avvenuta a Rimini il 14 febbraio 2004, ma alcuni misteri sulla morte di Marco Pantani restano. A fine 2021 la saga Pantani si è infatti arricchita di un nuovo capitolo, la richiesta da parte della famiglia (assistita questa volta dall’avvocato Fiorenzo Alessi) di aprire per la terza volta un’inchiesta sulle cause della morte del Pirata. Tonina Pantani vuole «dare finalmente pace al mio cuore». L’indagine - coordinata dalla procuratrice capo Elisabetta Melotti - parte a monte da una segnalazione della Commissione Parlamentare Antimafia che nel 2018/2019 si occupò del caso ascoltando, tra gli altri, Fabio Miradossa, l’uomo che fornì a Pantani la dose letale. Alla richiesta del presidente di spiegare perché a sua opinione Pantani sarebbe stato ucciso e da chi, Miradossa chiese di secretare l’audizione: nei 46 minuti complessivi coperti da segreto - ma in possesso della Procura di Rimini - potrebbe esserci la nuova pista investigativa. Un filone di indagine (questo sì indicato dalla famiglia) è la ricerca delle due escort che, la mattina in cui Marco fu ucciso, un taxista accompagnò al Residence Le Rose. Il taxista è stato rintracciato e sentito per tre ore dai Carabinieri di Rimini a inzio febbraio: avrebbe fornito elementi utili a cui gli inquirenti stanno lavorando. Il problema da un lato potrebbe essere quelle identificare dopo 19 anni le due escort (forse le ultime persone ad entrare nella stanza), dall’altro di ritrovarle per capire se possano fornire elementi utili.Ma anche la nuova inchiesta è avviata verso l’archiviazione.Un campione amato e divisivo Marco Pantani resta in ogni caso una figura amatissima ma anche divisiva dello sport e della cronaca italiana. Chi ne ricorda le gesta e la figura appartiene a due grandi partiti. Il primo — senza dubbio maggioritario — sposa senza esitazione la tesi che Marco abbia cominciato a morire psicologicamente nel 1999 quando venne incastrato da un controllo antidoping farlocco al Giro d’Italia e sia poi stato fisicamente eliminato cinque anni dopo in una stanza del Residence Le Rose. Il secondo crede fermamente che Marco sia stato trovato col sangue fuori norma a Madonna di Campiglio perché aveva esagerato con le sostanze dopanti e sia morto di overdose dopo un lungo e devastante percorso di tossicodipendenza. Ristabilire un minimo di verità storica dei fatti può essere utile a entrambi gli schieramenti.Pantani era davvero un grande talento? Difficile valutare a posteriori chi era davvero fuoriclasse e chi invece ronzino truccato da cavallo da corsa in un’epoca (1990-2005) in cui il ciclismo è stato stravolto dall’uso di prodotti e metodi dopanti che hanno alterato completamente i valori in campo: tutti i vincitori del Tour de France dal 1996 al 2005 compreso, tranne Pantani, hanno avuto formalmente a che fare col doping. Che Marco Pantani fosse un fuoriclasse lo dimostrano però i test accuratissimi eseguiti su di lui nel settembre 1989 (Marco aveva 19 anni e non era certo «trattato») da Giuseppe Roncucci, uno dei più stimati tecnici a livello dilettantistico. Roncucci lo testò prima di avviarlo verso la Giacobazzi, squadra importante del settore dilettantistico. «Lo feci pedalare su una cyclette speciale per misurarne la “cilindrata”. Dicevano che era un talento, considerati età (19 anni) e peso piuma (56 chili), immaginavo arrivasse poco oltre 300 watt. Mollò a 410: un dato pazzesco. Ripetemmo il test altre sei volte in due anni: stessi risultati. Un fenomeno assoluto». Di valutazioni su atleti di alto livello Roncucci ne fece centinaia: nessuno si avvicinò mai a quei valori. Pantani è mai stato trovato positivo a un controllo antidoping? Mai, con un’importante eccezione, però. Premesso che nel periodo in cui Marco era in attività non esistevano test per smascherare l’Epo e le trasfusioni (che all’epoca dilagavano) e i controlli a sorpresa si facevano solo in gara, Pantani non è mai stato trovato positivo a un controllo antidoping ufficiale a nessuna sostanza all’epoca proibita, come del resto Lance Armstrong. Nel 2013, però, le rianalisi dei campioni di urina scongelati del Tour 1998 vinto dal Pirata, rilevò la presenza di Epo nelle sue urine dopo l’undicesima tappa che vinse, dopo la quindicesima e la sedicesima in cui finì secondo. Pantani è mai stato trovato con parametri anomali? Sì, molte volte. Il sangue di Pantani è stato un mistero fisiologico e farmacologico per tutta la sua carriera. Tra il 1992 e il 1996, Marco (che gareggiava con la Carrera) frequentava regolarmente assieme a decine di altri atleti lo studio del professor Francesco Conconi, all’Università di Ferrara. Conservati a suo nome o con vari pseudonimi (Panzani, Panti, Ponti, Padovani...) i parametri ematici del romagnolo mostrano oscillazioni impressionanti, fisiologicamente inspiegabili: l’ematocrito passava dal 41-42% al 52-56% con una coincidenza perfetta tra qualità dei risultati ottenuti e valori alti. Quando Pantani viene ricoverato all’Ospedale delle Molinette dopo lo spaventoso incidente alla Milano-Torino 1995, il suo 60,1%, fisiologicamente inspiegabile per i periti, costringe i medici a somministrargli litri di diluente per scongiurare una trombosi e poi due sacche di sangue. Quell’incidente portò Pantani a processo penale anni dopo davanti al tribunale di Forlì per «frode sportiva», con una condanna a tre mesi di reclusione poi annullata in appello. Nella loro perizia Gianmartino Benzi e Adriana Ceci spiegarono che «... globuli rossi, emoglobina e ferritinemia sono assolutamente anomali sia per una persona normale, sia per un atleta di alto livello, sia per lo stesso Pantani». Altre anomalie riguardano ovviamente il controllo di Madonna di Campiglio e il fatto che l’atleta si muovesse sempre con una centrifuga portatile per il controllo dell’ematocritoPantani è mai stato coinvolto in inchieste giudiziarie? Sì. A cominciare dal celebre «processo Conconi» in cui i dati dei suoi parametri sanguigni conservati nei file dell’università di Ferrara erano tra i più anomali in assoluto e passando poi per il processo di Forlì (incidente alla Milano-Torino) approdando a quello di Trento successivo alla sua espulsione dal Giro d’Italia del 1999 a Madonna di Campiglio. Il possesso di sostanze proibite gli venne attribuito (ma mai provato in via giudiziaria) dopo il blitz dei Nas alla tappa di Sanremo (la 17ma) del Giro d’Italia del 2001: a processo penale per uso di insulina andò il suo massaggiatore, lui rimediò una sospensione sportiva di alcuni mesi.Pantani è mai stato «coperto» dalle autorità sportive? Sì, in un caso anche dalle massime autorità sportive. Accadde nella primavera del 2000, quando, benché Pantani fosse devastato fisicamente e psicologicamente dall’episodio di Madonna di Campiglio, la federazione volle a tutti i costi portarlo ai Giochi di Sidney, su un tracciato per nulla adatto alle sue caratteristiche. Come tutti i candidati ai Giochi, Pantani venne visitato al centro di preparazione olimpica del Coni di Roma. Visti i risultati degli esami del sangue effettuati nel ritiro della nazionale, il professor Pasquale Bellotti, all’epoca membro della Commissione Scientifica del Coni, scrive alla federazione ciclistica e ai suoi superiori comunicando che «il quadro ematologico di Pantani, verificato ieri a Salice Terme, è estremamente preoccupante. Il regolamento attuale non ci consente di bloccarlo, ma tre dei cinque parametri sono fortemente alterati e pongono a rischio la sua salute». Pantani aveva ematocrito al 49% e ferritina da malato: 1.019 ng/mL. La federazione rispose affermando che l’atleta aveva superato tutti i controlli antidoping. Il Coni, risentito, invitò con decisione Bellotti a occuparsi di altro. E Pantani andò a Sidney tornando più depresso di prima. Qualcuno l’ha davvero incastrato a Madonna di Campiglio? Due ore dopo il «fatale controllo» che fece espellere Pantani dal Giro del 1999 per ematocrito alto, a Madonna di Campiglio piombarono i Nas e la Guardia di Finanza. Tutto il materiale utilizzato per i test venne sequestrato ed analizzato con cura e costituì elemento probante nel processo sul caso che si aprì a Trento: parlare di controlli non professionali e caotici è profondamente scorretto. Interrogato dagli inquirenti, il medico di Pantani (incredibilmente assente durante il controllo), Roberto Rempi, ammise che l’atleta si controllava da solo il sangue, che l’ematocrito la sera prima era altissimo (tra 48 e 49) e Marco fuori controllo dal punto di vista sanitario. Sui campioni di Campiglio ci fu un’accurata e documentata perizia dell’Università di Parma: il Dna del sangue era di Pantani, il diluente nella provetta non ebbe effetto sul risultato mentre «l’assunzione esogena di eritropoietina artificiale» spiegava «virtualmente i parametri modificati nel campione di sangue 11.440». I medici responsabili del controllo erano professionisti ospedalieri che — a dispetto di accuse infamanti durate anni — non avevano alcun legame con Pantani o soggetti esterni. Il processo (dove Pantani fu assolto come sempre perché il doping fino al 2001 non era reato) arrivò a una conclusione lineare: Pantani venne espulso per ematocrito alto perché aveva l’ematocrito alto a causa di un uso massiccio di Epo. Nessuno ha mai dimostrato il contrario.Qualcuno ha davvero ucciso Marco Pantani? Decine di udienze, migliaia di pagine di atti investigativi non hanno portato a nessuna prova concreta su un possibile omicidio di Marco Pantani la sera 14 febbraio 2004 al Residence Le Rose di Rimini. Anche se la nuova inchiesta partita nel 2021 ha il compito di togliere ogni possibile dubbio. Al momento tuttavia mancano prima di tutto il movente e poi gli elementi fattuali per affermare che Marco sia stato assassinato e non morto di overdose. Pantani era in uno stato di dipendenza dalla cocaina avanzatissimo e, grazie alla sua disponibilità economica, rappresentava il cliente perfetto per qualunque spacciatore: ucciderlo non avrebbe avuto senso. L’idea che questo possa essere stato tramite ingestione forzata di cocaina non ha riscontri giudiziari nella storia del crimine mentre il corpo non presentava nessun tipo di ferita o trauma alternativo all’overdose.Qualcuno ha inquinato le prove della scena del crimine? Possibile. Possibile che Pantani non fosse solo nella stanza del residence (come detto si stanno cercando due escort che potrebbero essere state le ultime a vedere Pantani) anche se è probabile che eventuali altre persone se ne siano andate prima della morte, visto che la stanza è stata trovata bloccata dall’interno. E’ evidente però dalle immagini girate dalla polizia giudiziaria che sulla scena c’erano troppe persone che non avevano nulla a che fare col caso, ma dalla stanza non mancava nessun oggetto personale. Possibile poi che il «caso Pantani» sia stato trattato con una certa superficialità investigativa, come la morte, di routine, di un povero tossico: indagini più accurate avrebbero sgombrato il campo da equivoci.Le numerose controinchieste hanno svelato dettagli inediti? Escludendo ovviamente la nuova inchiesta della procura di Rimini, gli elementi di chi non crede alla tesi dell’overdose/suicidio sono da anni sempre gli stessi e riportati in centinaia di documenti: l’estremo stato di disordine della stanza che farebbe pensare a una colluttazione, generici ricatti del mondo dello spaccio o della prostituzione, la presenza al residence di persone che Pantani non avrebbe dovuto vedere. Molte delle tesi sono smontabili facilmente: in diversi libri si sostiene ad esempio che la struttura del residence sarebbe stata rapidamente demolita e ricostruita per cancellare le prove dell’omicidio. Il residence fu semplicemente rinnovato e la stanza dov’è morto Pantani mantiene tuttora la sua struttura originale. Esiste una documentazione «imparziale» sul caso Pantani? Non semplice trovare tra decine di libri appassionatamente «partigiani» dei racconti obbiettivi sulla tragedia di Marco Pantani. Due vanno segnalati. L’eccellente, accuratissimo «The Death of Marco Pantani» del cronista inglese Matt Rendell (tradotto in numerose lingue, non in italiano) e «Delitto Pantani» del giornalista romagnolo di giudiziaria Andrea Rossini, attualmente edito da Nda

Marco Pantani, il documento inedito sulla sua morte: cambia tutto? Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 21 dicembre 2022

Mattei e Pantani. Due giganti con due storie diverse e distanti ma legate da un filo rosso. Sport e politica, doping e petrolio. In un qualunque paese al mondo le due vicende non si potrebbero accomunare. In Italia invece sì, perché troppi morti sono misteri e troppi misteri nascondono morti eccellenti. Ancor oggi la vulgata ritiene che Enrico Mattei, fondatore dell'Eni, l'uomo del riscatto economico italiano attraverso il sovranismo energetico, sia morto in un "incidente aereo". Non è bastata un'inchiesta della magistratura che nel 1996 ha sancito come la sua fine sia dovuta, senza alcun dubbio, ad un "attentato dinamitardo".

Quarant'anni dopo, in un'altra Italia, una vicenda diversa e uguale. Nel 2004 il campione di ciclismo Marco Pantani viene trovato morto nella camera d'albergo di un hotel di Rimini. Secondo Wikipedia: «Le circostanze della morte di Pantani, al pari di quella della sua esclusione dal Giro d'Italia del 1999, sono ancora oggetto di dibattito». Non così per Davide De Zan che firma con il libro "Pantani per sempre" (edizioni Pienogiorno), una seconda inchiesta sulla vita e la morte del più amato dei campioni del ciclismo moderno. Un'indagine approfondita e puntuale come nello stile di De Zan a cui si devono le più importanti rivelazioni sulla tragica fine del Pirata a quasi diciotto anni dalla sua morte, anzi dal suo omicidio. Leggendo le pagine del libro si capisce perché l'amore per il campione di ciclismo romagnolo non accenna a finire. Ed emerge anche la rabbia e l'incredulità per come si voglia negare la verità. Ci troviamo davanti alla storia di un uomo fortissimo e sensibile, «un fiore d'acciaio» come viene efficacemente definito. La storia dell'ultimo eroe del ciclismo romantico, del più grande scalatore di tutti i tempi.

Nel libro c'è anche la storia dell'uomo ucciso due volte. La prima alla tappa di Madonna di Campiglio nel giugno 1999 quando i carabinieri misero (di fatto) fine alla sua carriera per un'accusa di doping. La seconda morte è quella sopraggiunta in un residence di Rimini nel giorno di San Valentino del 2004. De Zan, prendendo il testimone del padre Adriano, ha raccontato Giri d'Italia, Tour de France ma anche i più grandi avvenimenti sportivi degli ultimi quarant' anni, ma alle telecronache ha aggiunto le qualità di cronista. Un segugio che non ha mai mollato allineandosi in questo a mamma Tonina, al papà Paolo e ai veri amici di Marco. Un'ostinazione che ha portato a nuovi capitoli nell'inchiesta sulla morte di Pantani, ad altre verità scomode, a nuove sconvolgenti pagine.

Scrive De Zan: «Qualche anno fa ho aperto un percorso sulla strada della verità, per tutti quelli che avessero voglia di osservare più a fondo la storia di un campione e di un uomo che ci aveva lasciato troppo presto, e con troppi perché. Allora non potevo raccontare tutto ciò che sapevo, perché c'era un'inchiesta giudiziaria ancora aperta. Molti di quei documenti li trovate invece in queste pagine...». Attendendo, come per Enrico Mattei, che un giorno un giudice a Berlino...

Cosimo Cito per repubblica.it il 9 dicembre 2022.

Sono possibili altre ipotesi sul decesso di Marco Pantani”. La relazione della Commissione parlamentare antimafia squarcia un nuovo velo sulle possibilità di giungere alla verità nella vicenda che da 18 anni continua a non avere una parola fine. La famiglia non ha mai creduto all’ipotesi del suicidio o della morte per overdose da consumo di cocaina del Pirata. 

La Commissione guidata da Nicola Morra ha approfondito il caso: “Gli elementi emersi dall’istruttoria consentono di affermare che una diversa ricostruzione delle cause della morte dell’atleta non costituisca una mera possibilità astratta e devono indurre chi indaga a scrutare ogni aspetto della vicenda senza tralasciare l’eventualità che non tutto sia stato doverosamente approfondito, ricercandone, eventualmente le ragioni”. 

Pantani, la mafia dietro l'esclusione dal Giro del '99?

L’indagine, soprattutto nella parte riguardante i fatti di Madonna di Campiglio (l'esclusione di Pantani dal Giro 1999 per ematocrito oltre i limiti consentiti a due tappe dalla fine, quando ormai il Pirata era certo di vincere la Corsa rosa) si è svolta anche attraverso il IV Comitato "Influenza e controllo criminali sulle attività connesse al gioco nelle sue varie forme", coordinato dal senatore di Forza Italia Giovanni Endrizzi. 

L'avvocato di Tonina Pantani: "La Procura vada fino in fondo, Marco fu ucciso"

L’avvocato di Tonina Pantani, Fiorenzo Alessi, grandissimo appassionato di ciclismo, commenta così. “La Procura di Rimini, nella persona del sostituto procuratore Luca Bertuzzi, ha aperto un nuovo fascicolo, al momento contro ignoti, sulla morte di Marco Pantani. Leggendo l’enorme mole di documenti, abbiamo scoperto alcuni elementi trascurati dalle precedenti indagini, dei buchi, dei vuoti. 

Ci conforta sapere che anche la Commissione antimafia abbia trovato nuovi elementi e confidiamo nel fatto che abbia trasmesso gli stessi alla Procura. Il caso Pantani è avuto tanti passaggi, tanti salti in avanti e ritorni indietro. Ora crediamo di avere in mano delle carte molto buone per arrivare a una verità processuale e restituire a Marco e alla sua famiglia, alla signora Tonina in particolare, verità e giustizia”. 

Pantani, le prove che sostengono l'ipotesi dell'omicidio

L’avvocato Alessi segue le vicende della famiglia Pantani da poco più di un anno: “La Commissione antimafia ha scritto anche di irregolarità nel controllo di Madonna di Campiglio, della provetta, dell’errore nella trascrizione dell’orario, nella presenza di personaggi estranei nella stanza alle normali procedure Uci. Tutte cose sacrosante, che purtroppo però, per il genere di reato ipotizzato, si scontrano con l’avvenuta prescrizione e anche con i principi della riforma Cartabia. Sull’omicidio di Marco, perché noi di omicidio siamo convinti si tratti, invece si può andare fino in fondo. E così faremo”.

La morte di Pantani e le inchieste

Marco Pantani morì in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio 2004. Sul caso è stata aperta una nuova inchiesta, la terza, per omicidio, dopo le dichiarazioni in commissione parlamentare antimafia del suo pusher, Fabio Miradossa: “La verità non la volevano, hanno beccato me ma io già 16 anni fa dicevo che Marco è stato ucciso, non è morto per droga, lui ne usava quantità esagerate e quella volta ha avuto una quantità minima di cocaina rispetto a quello a cui era abituato e l’ha avuta 5 giorni prima della morte. Qualsiasi drogato usa subito la droga”.

Alessandro Fulloni per corriere.it l’8 dicembre 2022.

«La morte di Marco Pantani? Chiedevo in giro delle informazioni che potessero essere utili... ero sempre in giro in macchina a chiedere a tutti. A Rimini indagavo molto in quel periodo. Quel poliziotto? Un giorno di primavera, prima che aprissimo l’albergo, c’era anche mia moglie, viene a casa mia e ci dice: “Smettete di indagare perché avete rotto le p...” . Testuali parole: “Fate la fine di Marco. Dì a tua zia che fate tutti la fine di Marco”». È puntuale e dettagliata, la relazione della Commissione parlamentare Antimafia su Marco Pantani, trovato morto il giorno di San Valentino, nel 2004.

Nelle 48 pagine dell’inchiesta coordinata dall’ex senatore M5S Giovanni Endrici compaiono anche testimonianze inedite, tra cui quella di Maurizio O., marito di una nipote di mamma Tonina, ascoltato il 18 novembre 2020. L’uomo, che all’epoca era un ultrà del Cesena calcio, racconta che anche in questo «mondo ci eravamo coalizzati chiedendo agli spacciatori che lo frequentavano di non dargli la droga. Quel mondo aveva risposto molto bene. Non solo molti della zona non gli davano la droga ma gli volevano molto bene, lo proteggevano. Ma avendo molta disponibilità di soldi, Marco ci scavalcava rivolgendosi a soggetti esterni e per questo ha incontrato Miradossa — lo spacciatore poi assolto in Cassazione, ndr — e altri».

Il pomeriggio di quel 14 febbraio Maurizio viene allertato da un suo amico poliziotto, Giuseppe T., che morirà due anni dopo — «morte sospetta», preciserà il nipote di Tonina in commissione — in un incidente in moto. L’agente — in servizio all’antidroga della questura di Rimini — gli dice che a Marco è successo qualcosa di grave, «senza specificare altro».

Il familiare del campione corre al residence “le Rose” dove il Pirata fu trovato morto. Qui «gli viene impedito di salire nella stanza» occupata da Marco e lui allora, «accortosi di un secondo accesso», riesce a salire lo stesso «senza incontrare ostacoli». «La porta era leggermente aperta — è il resoconto della relazione — e l’accesso alla camera era interdetto con il nastro tipico utilizzato dalle forze dell’ordine, posto in diagonale». 

Sporgendosi all’interno senza entrare, aveva visto il bagno al piano inferiore dell’appartamento. «Nel visionare la documentazione fotografica mostratagli nel corso dell’audizione», l’uomo «ha affermato con sicurezza che la scena da lui vista non corrispondeva a quella rappresentata nelle fotografie. In particolare, nel guardare una foto, ha chiarito: “Questo è il bagno ma non era così quando l’ho visto io », precisando che lo specchio rotto «si trovava appoggiato alla parete posta a destra dell’ingresso del bagno, in una posizione diversa da quella rappresentata nelle fotografie».

L’uomo ha poi affermato di non essere mai stato sentito, sino al giorno dell’audizione, dagli inquirenti e di non aver ritenuto di presentarsi spontaneamente per riferire quanto a sua conoscenza anche perché, avendo cercato di indagare sulla morte del cugino, era stato destinatario di minacce riportategli dall’agente. Appunto: «Comincio a indagare come pian piano farà poi la sua mamma. E il poliziotto, un giorno di primavera, prima che aprissimo l’albergo viene a casa mia e ci dice: “Smettete di indagare perché avete rotto le palle”». Testuali parole: «“Fate la fine di Marco. Dì a tua zia che fate tutti la fine di Marco”».

Il familiare del Pirata e l’agente dell’antidroga si conoscevano da tempo, erano amici,e l’investigatore «gli aveva detto di essere stato mandato a riferirgli quelle minacce, senza precisare da chi provenissero». Addirittura «per un breve periodo si era mostrato arrabbiato» nei suoi confronti «quasi per dirgli che lo stava mettendo nei guai ». 

Ma dell’incidente al poliziotto cosa si sa? L’Antimafia non ha effettuato approfondimenti. L’agente, che aveva 35 anni e che oltre a sapere della tossicodipendenza del ciclista «conosceva le dinamiche e gli equilibri sul territorio relativi al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti», fu trovato di notte privo di vita dopo una rotonda sulla via Emilia, non lontano da casa. Le cronache cittadine raccontano che , forse «per l’asfalto reso viscido dalla pioggia», in quella notte tra l’11 e il 12 luglio 2006 perse il controllo della sua Harley Davidson, schiantadosi. Nient’altro.

Con quella di Marco, quella del poliziotto sarebbe la terza morte «sospetta» in questa vicenda che ha scosso l’Italia. L’altra è quella di Wim Jeremiasse, commissario Uci e istituzione al Tour, alla Vuelta e alla corsa rosa, responsabile del prelievo ematico condotto su Pantani prima della tappa di Madonna di Campiglio in cui venne fermato.

«Oggi il ciclismo è morto» disse in lacrime poche ore dopo il test, la mattina del 5 giugno 1999. Impossibile che il commissario Uci potesse spiegare altro: sei mesi dopo morì - «in circostanze non proprio chiare», scrissero i carabinieri dei Nas - in un incidente in Austria. Dov’era andato per fare da giudice in una gara di pattinatori su ghiaccio. Sprofondò con l’auto in un lago ghiacciato, il Weissensee, su cui stava spostandosi alla testa di un piccolo corteo di macchine. La sua auto giù per 35 metri nell’acqua gelida, inghiottita dal cedimento improvviso della superficie: Wim venne trovato cadavere dai sommozzatori che lo recuperarono circa un’ora dopo. La donna che era con lui, Rommy van der Wal, sopravvisse miracolosamente dopo avere cercato invano di estrarlo dall’abitacolo.

Da sportmediaset.mediaset.it il 7 Dicembre 2022. 

E' stata resa pubblica la relazione della Commissione Antimafia sulla morte di Marco Pantani, secondo cui "sono possibili altre ipotesi sul decesso dell'ex campione di ciclismo anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima". 

La Commissione sottolinea anche che "diverse sono le scelte e i comportamenti posti in essere dagli inquirenti che appaiono discutibili". 

Inoltre sulla vicenda che portò all'esclusione del Pirata dal Giro 1999 "diverse e gravi furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni". 

La Commissione Antimafia guidata da Nicola Morra nella XVIII legislatura ha approfondito il caso anche attraverso il IV Comitato ‘Influenza e controllo criminali sulle attività connesse al gioco nelle sue varie forme’, coordinato dal senatore Giovanni Endrizzi che ha proposto la relazione finale.

L’inchiesta condotta dal IV Comitato ha fatto affiorare singolari e significative circostanze che rendono possibili altre ipotesi sulla morte” di Marco Pantani “anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima”. 

E’ quanto sottolinea la Commissione parlamentare Antimafia nella relazione contenente le “Risultanze relative alla morte dello sportivo Marco Pantani ed eventuali elementi connessi alla criminalità organizzata che ne determinarono la squalifica nel 1999″, approvata sul finire della scorsa legislatura e ora resa pubblica.

Resta aperto l’interrogativo che da anni la famiglia del corridore pone: è davvero certo che Marco Pantani sia deceduto per assunzione volontaria o accidentale di dosi letali di cocaina, connessa all’assunzione anche di psicofarmaci?”, si chiede la Commissione. 

Gli elementi emersi dall’istruttoria svolta da questa Commissione parlamentare – si sottolinea nella relazione – consentono di affermare che una diversa ricostruzione delle cause della morte dell’atleta non costituisca una mera possibilità astratta che possa essere ipotizzata in letteratura e in articoli di cronaca giornalistica e devono indurre chi indaga a scrutare ogni aspetto della vicenda senza tralasciare l’eventualità che non tutto sia stato doverosamente approfondito, ricercandone, eventualmente le ragioni”.

"La vicenda di Marco Pantani ha scosso le coscienze di tutti e non soltanto di coloro che ne hanno apprezzato le gesta atletiche nelle salite più impervie, frutto della stessa tenacia con la quale oggi la signora Pantani invoca giustizia per il proprio figliolo.  

Nell’opinione pubblica, dopo un primo momento di incertezza dovuta, forse, anche a un’informazione che, nei giorni immediatamente successivi alla squalifica, lo aveva condannato senza possibilità di appello, è stata sempre diffusa la convinzione che qualcosa di anomalo fosse accaduto sia a Madonna di Campiglio che a Rimini nella tragica sera di San Valentino del 2004. Questa Commissione ritiene che i numerosi elementi dubbi che sono emersi nel corso dell’istruttoria siano di tale rilievo da meritare un attento approfondimento: le ipotesi fondate su quegli elementi non possono essere ridotte a mere possibilità astratte oggetto di discussione in servizi televisivi o su articoli stampa” sottolinea la Commissione parlamentare Antimafia nella relazione.

Morte Pantani, la Commissione antimafia: "Anomalie su esclusione dal Giro". La Repubblica il 7 Dicembre 2022

Secondo la relazione presentata dal presidente uscente Nicola Morra "diverse e gravi" furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni

Nel giugno 1999 al Giro d'Italia a Madonna di Campiglio, "diverse e gravi" furono le violazioni alle regole stabilite affinché i controlli eseguiti sui corridori fossero genuini e il più possibile esenti dal rischio di alterazioni: lo afferma il presidente uscente della Commissione parlamentare antimafia, Nicola Morra, presentando il lavoro svolto dall'Antimafia, e in particolare dal Comitato coordinato dal senatore Endrizzi, su quelle che vengono definite le "numerose anomalie" che contrassegnarono la vicenda che portò all'esclusione di Marco Pantani dal Giro d'Italia.

Nello specifico, nell'effettuare i controlli sugli atleti - spiega Morra - non venne rispettato il Protocollo siglato dall'UCI con l'ospedale incaricato di eseguirli. Dal lavoro della Commissione, è emerso che nell'apporre l'etichetta sulla provetta che conteneva il campione ematico di Marco Pantani non vennero seguite le regole imposte per garantirne l'anonimato, essendo presenti altri soggetti, diversi dall'ispettore dell'UCI che avrebbe dovuto essere l'unico a conoscere il numero che contrassegnava la provetta.

"E' stato inoltre accertato - puntualizza Morra - che il prelievo di sangue sul campione di Cesenatico venne effettuato alle ore 7.46 e non già alle ore 8.50, come invece indicato nel processo che egli dovette subire per 'frode sportiva': questa grossolana difformità, piuttosto singolare escluse la possibilità che in quel processo fosse valutata l'ipotesi della manipolazione mediante 'deplasmazione' del campione ematico".

A conclusione delle indagini portate avanti, l'Antimafia afferma nella relazione che: "Contrariamente a quanto affermato in sede giudiziaria, l'ipotesi della manomissione del campione ematico, oltre che fornire una valida spiegazione scientifica agli esiti degli esami ematologici, risulta compatibile con il dato temporale accertato dall'inchiesta della Commissione: collocando correttamente l'orario del prelievo a Marco Pantani alle ore 7.46, quindi più di un'ora prima rispetto a quanto sino ad oggi ritenuto, risulta possibile un intervento di manipolazione della provetta".

E l'ipotesi, per Morra, è ancor più plausibile alla luce delle informazioni fornite da Renato Vallanzasca - confermate dagli altri elementi acquisiti dall'organismo di inchiesta parlamentare - che rivelano i forti interessi della camorra sull'evento sportivo, oggetto di scommesse clandestine, e l'intervento della stessa camorra per ribaltarne il risultato tramite l'esclusione di Pantani, del quale era ormai pressoché certa la vittoria.

L'inchiesta della Commissione si è anche soffermata su alcune anomalie verificatesi nel corso delle indagini svolte sulla morte del corridore. "L'Autorità giudiziaria accolse immediatamente l'ipotesi dell'accidentalità del decesso, ricondotto all'autoassunzione di sostanze esogene, escludendo del tutto la possibile riferibilità dello stesso ad un'azione omicidiaria", ricorda Morra. Ma l'Antimafia ha svolto alcune audizioni che sembrano porre in discussione il quadro probatorio che condusse agli esiti giudiziari. Le dichiarazioni rese in Commissione dagli operatori sanitari che intervennero sul luogo del decesso di Pantani, racconta Morra, hanno escluso la presenza del 'bolo di cocaina' rinvenuto poi vicino il cadavere. "La Commissione parlamentare antimafia auspica - conclude Morra - che venga fatta piena luce sugli avvenimenti che videro protagonista il campione di Cesenatico"

"Possibili altre ipotesi sulla sua morte". Si riapre il caso Pantani? La commissione Antimafia ha espresso tutti i suoi dubbi sulle cause che hanno portato alla morte di Marco Pantani il 14 febbraio del 2004. Marco Gentile l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Sono passati quasi 19 anni dalla morte di Marco Pantani, ma ci sono ancora molte ombre sulle cause che hanno portato al decesso del "Pirata" a soli 34 anni. La Commissione Antimafia, infatti, ha riaperto il caso e si stanno vagliando altre possibili cause sulla sua morte. Secondo quanto riportato da Sportmediaset, è stata resa pubblica la relazione della Commissione in merito a quell'increscioso fatto di cronaca avvenuto il 14 febbraio del 2004.

La mamma del "Pirata", si è sempre battuta e si sta battendo per trovare la verità. Recentemente la signora Tonina aveva fatto una dichiarazione choc: "Cercate le due escort che sono salite nella sua stanza la mattina in cui Marco è morto", e ancora: "Voglio, questa verità. Non aiuterà me, perché Marco non me lo restituisce più nessuno. Ma sulla tomba gli ho fatto una promessa. Perché da quando fu squalificato nel 1999 fino a che è morto, lui ha lottato per scoprire chi lo aveva tradito. E non c’è riuscito. Quindi, adesso tocca a me continuare". Marco fu ritrovato morto presso una stanza dell’hotel Le Rose di Rimini forse ucciso da un mix di cocaina e farmaci antidepressivi.

Un caso infinito

Sulla morte di Pantani si è detto e scritto tanto in questi anni ma non si è ancora arrivati ad una certezza sulle cause che hanno portato alla scomparsa del fuoriclasse di Cesenatico. "Sono possibili altre ipotesi sul decesso dell'ex campione di ciclismo anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima", la relazione della Commissione Antimafia che indaga sulla morte del Pirata. Viene inoltre sottolineato come siano diverse le scelte e i comportamenti posti in essere dagli inquirenti che appaiono discutibili.

La Commissione Antimafia è guidata da Nicola Morra che nella XVIII legislatura ha approfondito il caso anche attraverso il IV Comitato coordinato dal senatore Giovanni Endrizzi che ha proposto poi la relazione finale. Inoltre, "L’inchiesta condotta dal IV Comitato ha fatto affiorare singolari e significative circostanze che rendono possibili altre ipotesi sulla morte di Marco Pantani anche considerando un eventuale ruolo della criminalità organizzata e di quegli ambienti ai quali purtroppo egli si rivolgeva a causa della dipendenza di cui era vittima".

Secondo la Commissione Antimafia, inoltre, le "risultanze relative alla morte dello sportivo Marco Pantani ed eventuali elementi connessi alla criminalità organizzata che ne determinarono la squalifica nel 1999. Resta aperto l’interrogativo che da anni la famiglia del corridore pone: è davvero certo che Marco Pantani sia deceduto per assunzione volontaria o accidentale di dosi letali di cocaina, connessa all’assunzione anche di psicofarmaci?", la domanda che si pone la Commissione.

Il caso Pantani è ancora avvolto da tante ombre e non è ancora ben chiaro cosa sia successo a Madonna di Campiglio, a Rimini e nella tragica sera del 14 febbraio del 2004 che portò alla sua morte. I tanti dubbi fatti emergere dalla Commissione Antimafia hanno messo in risalto come questo caso meriti un approfondimento e che le ipotesi fondate su quegli elementi non possono essere ridotte a mere possibilità astratte oggetto di discussione in servizi televisivi o su articoli stampa.

Da gazzetta.it il 17 settembre 2022

 “Le verità che ci sono state consegnate non sono soddisfacenti né per quanto riguarda la squalifica al Giro d’Italia né per quanto riguarda le vicende che hanno portato alla morte" del ciclista Marco Pantani. Lo ha detto il senatore Giovanni Endrizzi che ha coordinato il Comitato preposto nell’ambito della Commissione Antimafia, presentando alla stampa la relazione conclusiva della Commissione. "Nel primo caso - ha spiegato Endrizzi - fa specie che nessuno abbia voluto mai considerare le regole per i controlli, Pantani è stato processato per frode sportiva e nessuno ha verificato che cosa dicevano i protocolli delle analisi che noi abbiamo riscontrato essere lacunosi".

"Lamentiamo che alcune verifiche non sono state svolte - ha aggiunto - e oggi non abbiamo la possibilità di produrre questi dati mancanti" relativi ai valori ematici. Su questo la Commissione ha audito Renato Vallanzasca ma "il dubbio che le mafie possano aver infiltrato il Giro d’Italia rimane una ipotesi aperta che non abbiamo potuto chiudere e quindi tantomeno escludere". Sulla morte di Pantani, invece, ha detto ancora Endrizzi, "sono state rilevate incongruenze logiche e metodologiche", "noi abbiamo riscontrato che alcune porte non sono state aperte sull’ipotesi che ci sia stato un contributo di terzi al decesso, non è nostra competenza aprirle ma plaudiamo all’iniziativa della procura di Rimini di aver riaperto le indagini, da parte nostra forniremo ulteriore materiale in un clima i cordiale collaborazione sperando in una verità ultimativa".

Pantani, trovata l’escort dell’ultima mattina. Ma lei smentisce il tassista: «Mai stata con il Pirata». Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.

L’autista raccontò di averla accompagnata insieme a un’altra donna nel residence di Rimini in cui il campione morì il 14 febbraio 2004. Rintracciata dai carabinieri, nega di essere mai salita in quella stanza: «Non lo conoscevo nemmeno». L’amica è morta. 

L’indagine va avanti con elementi inediti. Ma sembra di essere in salita. E restano ancora un rebus le ultime ore di Marco Pantani. I carabinieri di Rimini hanno sentito, infatti, una delle due escort che un tassista sostiene di aver accompagnato al residence Le Rose quella mattina del 14 febbraio 2004 in cui il Pirata fu trovato morto. Un collasso dovuto a «un’ingestione abnorme e anomala di farmaci prevalentemente antidepressivi che, assieme a cocaina» provocarono il decesso, hanno stabilito le due inchieste arrivate alla medesima conclusione.

A spingere però per la riapertura di una terza indagine è stata soprattutto la determinazione di Tonina Belletti, la mamma di Pantani che, assistita dagli avvocati Fiorenzo e Alberto Alessi, nei mesi scorsi aveva dichiarato ai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Rimini, delegati per le indagini: «Marco non era solo la notte che è morto, con lui c’erano due escort».

Una convinzione basata sulla testimonianza, prima in un’intervista alle Iene, poi acquisita dai carabinieri, di un tassista di Cesenatico sui cinquant’anni che sostiene di aver accompagnato, quella mattina, due escort nel residence riminese.

I carabinieri, come riporta l’edizione riminese del Resto del Carlino, sono riusciti ad identificarle: si tratta di due ragazze, allora ventenni, che all’epoca lavoravano come cubiste in una discoteca della Riviera e occasionalmente facevano le escort. Una delle due donne — entrambe straniere dell’Est — è stata rintracciata e sentita dai carabinieri, mentre l’altra nel frattempo è morta, stroncata da un male incurabile. Il suo racconto, però, confligge totalmente con quello del tassista, visto che ha negato di aver mai conosciuto Pantani.

L’autista però era stato piuttosto preciso nel suo racconto: «Al mattino ho accompagnato la Dani e la Donni da Marco in hotel», aveva detto alle Iene. Aveva indicato anche un orario: tra le 8 e le 9, vedendole poi salire in albergo. Dopo un po’ di minuti le ragazze sarebbero uscite e tornate in auto con lui: «Avevano un maglione verde e un marsupio». Poi non le ha mai più viste. Pantani – così accertarono le perizie – morì tra le 11,15 e le 12,45 per un mix di cocaina e farmaci antidepressivi. Se il tassista si è deciso a raccontare ciò che vide diciotto anni dopo quel terribile San Valentino e non prima, è stato «perché non volevo problemi in famiglia».

È probabile che la Procura, seguendo anche le indicazioni dei legali della madre del Pirata, nei prossimi giorni senta altri testimoni per capire se il 14 febbraio 2004, quando Pantani morì, c’erano o meno altre persone insieme a lui.

Anticipazione da Oggi il 24 febbraio 2022.

Sono passati 18 anni da quando, il 14 febbraio del 2004, Marco Pantani fu trovato morto nel residence Le Rose di Rimini. La terza inchiesta sulla morte del Pirata prosegue e la mamma del campione, Tonina, in un’intervista ad Andrea Purgatori, pubblicata nel numero di OGGI in edicola da domani, dice: «A me purtroppo sembra sempre il primo giorno. Vado a letto e il pensiero è quello, mi sveglio e il pensiero è quello. Io i primi due anni non ho capito più niente.

Poi mi sono messa alla ricerca della verità. E adesso la voglio, questa verità. Non aiuterà me, perché Marco non me lo restituisce più nessuno. Ma sulla tomba gli ho fatto una promessa. Perché da quando fu squalificato nel 1999 fino a che è morto, lui ha lottato per scoprire chi lo aveva tradito. E non c’è riuscito. Quindi, adesso tocca a me continuare». Mamma Tonina, nell’intervista a OGGI, racconta anche il Pantani privato, di come il campione era cambiato dopo la squalifica per doping e del presentimento che l’aveva assalita prima della sua morte.

Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2022. «Pantani è sempre stato un ragazzo fragile. Noi in Carrera lo proteggevamo come un figlio, dopo, quando se n’è andato, qualcuno gli ha cucito addosso un vestito che non era il suo...». Tito Tacchella si adombra per un attimo, improvvisamente. La consueta giovialità — tratto marcato di un uomo che porta i suoi 81 anni decisamente bene — si spegne solo quando parla di Marco Pantani. Oggi ricorrono i 18 anni da quel maledetto 14 febbraio del 2004, quando fu trovato morto in un residence di Rimini: «Sono già 18 anni...» sospira Tito, con i fratelli Imerio e Domenico fondatore nel 1965 a Stallavena, nel Veronese, della Carrera, l’azienda d’abbigliamento che a fine anni Sessanta produsse il primo jeans interamente italiano. Fu proprio Tito Tacchella, nel 1992, a scoprire e introdurre nel ciclismo professionistico Pantani, allora ambizioso giovane in quella Carrera squadrone dell’epoca (leggi qui l’intervista al suo primo allenatore). «Qualche anno prima, nel 1987, avevamo vinto Giro d’Italia, Tour de France e Mondiale con Roche, nel 1986 il Giro con Visentini. Nei primi anni ‘90 avevamo Chiappucci, ciclista spettacolare, se non ci fosse stato Indurain almeno un Tour lo avrebbe vinto. Pantani, corteggiato da squadre anche più ricche della nostra, voleva venire in Carrera a tutti i costi proprio perché voleva correre con Chiappucci, il suo idolo. Fui io a trattare con lui: ricordo che si accontentò di un ingaggio più basso del suo valore, purché fossero previsti premi alti. Lui era tanto timido e fragile umanamente, quanto sicuro di sé in bicicletta. Sapeva di essere forte».

E lei Tacchella, imprenditore e ciclista per hobby, di talenti se ne intendeva...

«Io avevo un debole per Visentini, secondo me anche più forte di Roche, ma timidissimo e non sicuro di sé, altrimenti avrebbe vinto di più. Chiappucci, per dirle, caratterialmente era all’opposto: lui amava il contatto con i tifosi, dopo una gara usciva dalla roulotte e stava ore a parlare con la gente. Non ne ho visti altri fare così. Ma il demiurgo di quella Carrera era il capo dell’area sportiva, Boifava, e con lui gli altri due diesse che lo coadiuvavano, Quintarelli e Martinelli. Quintarelli in molti lo hanno dimenticato, un uomo rude e semplice, ma intuitivo come nessuno in corsa».

Negli anni ‘80 e primi ‘90 Carrera era una della capofila delle squadre italiane nel ciclismo. Squadre italiane che oggi nei professionisti sono quasi del tutto sparite...

«Non è più sostenibile il ciclismo per un’azienda italiana. Oggi ci sono gli oligarchi dell’est e le multinazionali che mettono 50 milioni di euro all’anno di budget. I campioni prendono come un calciatore, hai 30 ciclisti per squadra e ognuno di loro ha un meccanico personale. Ai nostri tempi pagavi tre-quattro meccanici in tutto. Noi entrammo nel ciclismo dopo le esperienze come sponsor nel basket e nel calcio. Ero un appassionato e fui io a spingere i miei fratelli, ma intuivamo che si sarebbe trattato anche di un investimento redditizio. Grazie alle bici entrammo di prepotenza nei mercati europei, in particolare Francia, Germania e Spagna».

In questo contesto lei ingaggia un giovanissimo Pantani.

«Siamo nel 1991, fine estate, nei giorni che seguono il Mondiale vinto da Bugno. Pantani aveva 21 anni ed era il dilettante più forte in circolazione: voleva assolutamente venire da noi per correre con Chiappucci. Era il suo idolo, ma poco dopo i rapporti si sarebbero affievoliti per la rivalità. Pantani allora però era soprattutto un ragazzo timidissimo, con noi ha cominciato a vincere e a rivelarsi al mondo, ma rimanendo sempre se stesso. Il cambiamento vero lo ha avuto dopo...».

Ricordava prima che gli hanno vestito addosso un vestito non suo. Detto da lei, fratello di un sarto e fondatore di una grossa azienda di abbigliamento, la metafora assume un suo peso...

«Nel 1997 andò alla Mercatone Uno, lo riempirono di soldi, pressioni e aspettative. Noi non potevamo più trattenerlo, non riuscivamo a star dietro a quelle cifre. Ma è chiaro che chi lo ingaggiò doveva rientrare dall’investimento e non solo con le vittorie. E così lo addobbarono e lo trasformarono in un personaggio, in un prodotto di marketing. La bandana, il Pirata e queste cose qui. Tutto bello, ma Pantani non era davvero preparato a recitare quel ruolo, quella visibilità extra-sportiva non era la sua. Eppoi c’era questa ricerca spasmodica di risultati eclatanti, anche quando non serviva. Se hai sette minuti di vantaggio in classifica generale sul secondo, hai già vinto, non serve stravincere andando a prenderti la tappa».

Gli anni ‘90 sono gli anni dell’Epo...

«Che allora era una pratica lecita, non considerata di per sé doping, al limite se ti trovavano con valori superiori venivi sospeso 15 giorni, ma null’altro. Ricordo Marco che a inizio carriera si lamentava perché corridori che aveva sempre battuto nei dilettanti lo superavano. Lui allora era uno di quelli che lo combatteva l’Epo».

Eppure per l’ematocrito alto Pantani viene sospeso nel 1998 a Madonna di Campiglio, terz’ultima tappa di un Giro già vinto. E’ l’inizio della fine.

«Ho sempre sospettato che lì abbia fatto un errore il medico, Pantani quel giorno era in alta quota a duemila metri e non in pianura. Ma, ripeto, lui quel Giro lo aveva già vinto, non occorreva che rincorresse con esasperazione le tappe. Ma l’errore più grave fu compiuto dopo Campiglio».

Cioè?

«Se fosse stato ancora in Carrera, io lo avrei preso di forza e lo avrei isolato per farlo allenare in vista del Tour, che gli avrei fatto correre rabbioso come una tigre. Invece in Mercatone Uno lo hanno assecondato permettendogli di tornare a Cesenatico, in riviera romagnola tra locali notturni, vita e soprattutto amicizie discutibili. Nel mondo del ciclismo tutti sapevano che certe losche figure circondavano Pantani, ma chi doveva non lo ha aiutato. Chi gli voleva bene era la sua ragazza danese (Christina Jonsson, ndr) e Boifava, ma la ragazza qualcuno l’ha osteggiata fino a farla allontanare. Pantani è morto in una solitudine dell’anima profonda, attorno a lui e dentro di lui c’era un vuoto assurdo».

Enea Conti per corrieredibologna.corriere.it il 14 febbraio 2022.

A diciotto anni dalla morte di Marco Pantani prosegue l’inchiesta della procura di Rimini sul decesso del campione di Cesenatico, trovato morto in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio del 2004. Alla vigilia dell’anniversario, i carabinieri – che indagano sui fatti – hanno ascoltato un tassista, ritenuto un super testimone, che nel 2017, parlando ai microfoni della trasmissione di Italia Uno «Le Iene» aveva raccontato di aver accompagnato nello stesso residence in cui alloggiava Marco Pantani, Le Rose di Rimini, due escort. 

Si tratterebbe di due giovani che – stando a quanto testimoniato – sarebbero entrate e uscite nel motel dopo pochi minuti con un maglione e un marsupio poche ore prima del decesso del ciclista. Su quanto raccontato dal tassista (originario di Cesenatico) ai carabinieri vige il massimo riserbo. Non è stato tuttavia un incontro lampo, ma un’audizione molto lunga, pare addirittura più di tre ore.

Le indicazioni di Tonina Pantani

A prescindere dal racconto fornito dal super testimone ai carabinieri si tratta comunque di un passaggio importante. All’inizio di febbraio Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi (nominato legale di famiglia alla fine del 2021) era stata ascoltata dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo. In quell’occasione aveva depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare le due escort entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista.

«O è un mitomane o qualcuno sa qualcosa»

I carabinieri hanno quindi dato credito alle indicazioni di Tonina Pantani rintracciando il tassista. Lo stesso avvocato Florenzo Alessi aveva spiegato all’inizio di febbraio che era importante ascoltarlo. “Raccontare di aver accompagnato queste ballerine o escort che fossero è inquietante. O siamo di fronte a un mitomane o di fronte a qualcuno che sa qualcosa”. La stessa madre del Pirata aveva fornito elementi utili a identificare il tassista. 

Le inchieste precedenti

Questa è la terza inchiesta sulla morte di Marco Pantani. Nella prima, aperta all’indomani della morte del Pirata, Fabio Miradossa, accusato di aver consegnato a Pantani la dose letale di droga, patteggiò quattro anni e dieci mesi, mentre Ciro Veneruso, che quella dose l’avrebbe procurata, fu condannato a tre anni e dieci mesi. La Cassazione assolse un terzo imputato, Fabio Carlino, che, al contrario di Miradossa, non accettò il patteggiamento. 

Fu proprio una dichiarazione di Miradossa, fatta pervenire dalla commissione parlamentare antimafia alla procura di Rimini, a far riaprire la terza inchiesta contro ignoti per l’accusa di omicidio. Miradossa sostenne allora che il Pirata era alla continua ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, quando un controllo antidoping fermò il Pirata che stava per vincere il Giro d’Italia.

Morte Pantani, nuove indagini su richiesta di mamma Tonina: interrogato il tassista che accompagnò due escort. La Stampa il 13 febbraio 2022.

Marco Pantani, terza inchiesta sulla morte a RiminiDomani saranno 18 anni dalla morte di Marco Pantani e mentre Cesenatico si prepara ad una commemorazione in chiesa, organizzata dalla famiglia, la terza indagine sulla fine del 'Pirata' prosegue. È stato infatti interrogato dai Carabinieri di Rimini, nei giorni scorsi, il tassista che asserisce di aver accompagnato due donne al residence 'Le Rose' di Rimini, dove il 14 febbraio 2004 il campione di ciclismo fu trovato senza vita. Il tassista avrebbe confermato l'episodio ma le generalità delle due donne sono ancora tutte da confermare. A spingere per la riapertura di una terza indagine, dopo che le due precedenti avevano archiviato il caso come morte causata da un mix di droga e farmaci, è Tonina Belletti, la mamma di Pantani che, sempre nei giorni scorsi aveva dichiarato ai Carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo di Rimini, «Marco non era solo la notte che è morto, con lui c'erano due escort».

Enea Conti per corrieredibologna.corriere.it il 13 febbraio 2022.

A diciotto anni dalla morte di Marco Pantani prosegue l’inchiesta della procura di Rimini sul decesso del campione di Cesenatico, trovato morto in una stanza del residence Le Rose di Rimini il 14 febbraio del 2004. Alla vigilia dell’anniversario, i carabinieri – che indagano sui fatti – hanno ascoltato un tassista, ritenuto un super testimone, che nel 2017, parlando ai microfoni della trasmissione di Italia Uno «Le Iene» aveva raccontato di aver accompagnato nello stesso residence in cui alloggiava Marco Pantani, Le Rose di Rimini, due escort. 

Si tratterebbe di due giovani che – stando a quanto testimoniato – sarebbero entrate e uscite nel motel dopo pochi minuti con un maglione e un marsupio poche ore prima del decesso del ciclista. Su quanto raccontato dal tassista (originario di Cesenatico) ai carabinieri vige il massimo riserbo. Non è stato tuttavia un incontro lampo, ma un’audizione molto lunga, pare addirittura più di tre ore.

Le indicazioni di Tonina Pantani

A prescindere dal racconto fornito dal super testimone ai carabinieri si tratta comunque di un passaggio importante. All’inizio di febbraio Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi (nominato legale di famiglia alla fine del 2021) era stata ascoltata dai carabinieri del nucleo investigativo del reparto operativo. In quell’occasione aveva depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare le due escort entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista. 

«O è un mitomane o qualcuno sa qualcosa»

I carabinieri hanno quindi dato credito alle indicazioni di Tonina Pantani rintracciando il tassista. Lo stesso avvocato Florenzo Alessi aveva spiegato all’inizio di febbraio che era importante ascoltarlo. “Raccontare di aver accompagnato queste ballerine o escort che fossero è inquietante. O siamo di fronte a un mitomane o di fronte a qualcuno che sa qualcosa”. La stessa madre del Pirata aveva fornito elementi utili a identificare il tassista.

Le inchieste precedenti

Questa è la terza inchiesta sulla morte di Marco Pantani. Nella prima, aperta all’indomani della morte del Pirata, Fabio Miradossa, accusato di aver consegnato a Pantani la dose letale di droga, patteggiò quattro anni e dieci mesi, mentre Ciro Veneruso, che quella dose l’avrebbe procurata, fu condannato a tre anni e dieci mesi. La Cassazione assolse un terzo imputato, Fabio Carlino, che, al contrario di Miradossa, non accettò il patteggiamento. 

Fu proprio una dichiarazione di Miradossa, fatta pervenire dalla commissione parlamentare antimafia alla procura di Rimini, a far riaprire la terza inchiesta contro ignoti per l’accusa di omicidio. Miradossa sostenne allora che il Pirata era alla continua ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, quando un controllo antidoping fermò il Pirata che stava per vincere il Giro d’Italia.

Marco Pantani, 18 anni dalla morte. Il primo allenatore: «Gli urlarono drogato e lui segò la bici». Enea Conti su Il Corriere della Sera l'11 febbraio 2022. Da Taccuino Di Verita.it.

Era un talento naturale. Un po’ per merito di mamma a papà, cioè per come era venuto al mondo, un po’ per la sua determinazione e per il suo orgoglio. Pino Roncucci lo conosceva molto bene Marco Pantani. Lo incontrò nel 1989, un anno prima che il Pirata di Cesenatico entrasse nella sua Giacobazzi, la squadra di cui fu uno storico direttore sportivo e con cui Pantani vinse tre Giri D’Italia dilettanti. A 87 anni e a pochi giorni dal diciottesimo anniversario dalla morte Roncucci racconta ancora aneddoti e curiosità sul suo campione. Dai primi test alla Giacobazzi, alla vittoria del primo Giro nel 1992 fino all’approdo tra i professionisti alla Carrera Jeans di Davide Boifava. La tragedia del residence Le Rose? Ognuno cerca la sua verità e speriamo che con queste ultime indagini venga a galla quella definitiva. Non credo che Marco si sia drogato al punto di suicidarsi.

Pino Roncucci, si racconta che per Pantani lei sia stato un mentore se non la persona più importante della sua carriera…lei cosa dice?

Se lo si dice perchè con me cresciuto e maturato. Ci conoscemmo nel 1989, con me partecipò a tre Giri D’Italia, categoria dilettanti. Venne alla Giacobazzi nel 1990 ma già l’anno prima gli feci una serie di test per inquadrarlo. Marco era un talento naturale. Gli ho sempre detto che doveva ringraziare mamma e papà per come era venuto al mondo. E che carattere.. . Fu lui a contattarmi, voleva entrare in squadra. Cos andai a Cesenatico e gli chiesi a bruciapelo perchè volesse unirsi a noi. Rispose che voleva vincere il Giro D’Italia. Io scoprii che aveva davvero tutte le carte in regola per andare anche oltre il Giro dilettanti che vinse nel 1992 dopo essere arrivato terzo nel 1990 e secondo nel 1991.

Ovvero?

Partiamo dal carattere. Era determinato. Disse che voleva vincere il Giro D’Italia dilettanti già prima di averlo corso all’esordio. Il fisico era impressionante. Al mattino all’alba aveva 46 battiti cardiaci al minuto. Incredibile. E pesava 54 chili, un vantaggio a quei tempi in cui le bici poi erano molto più pesanti di allora cos come l’abbigliamento. La sua muscolatura era quella tipica dello scalatore. Una volta, in ritiro, ci capitò un massaggiatore che anni prima massaggi anche Fausto Coppi. Lo guardò e mi disse: “ma dove lo hai preso questo? Non vedi che non c’ha nulla addosso? un pugno di ossa e basta”. Poi dopo che lo massaggi cambi idea tornò da me e mi disse: ‘Oh, Pino questo c’ha i muscoli di Coppi. uno scalatore nato uno scalatore puro.

Dove si allenava a quei tempi Marco Pantani?

Lui si sempre allenato da solo a quei tempi andava ad allenarsi a Castrocaro dove andava in ritiro o sul Monte Fumaiolo vicino alle sorgenti del Tevere dove andava in un alberghetto della zona. Aveva un recupero eccezionale gli bastava poco per tornare in forma sia in allenamento che in corso di gara. Anche perchè solo così poteva essere un ciclista “attaccante” che puntava gli avversari a testa alta.

Marco Pantani, 18 anni dalla morte: le foto inedite

Poi il cambio di squadra e il passaggio alla Carrera…

Davide Boifava, il direttore sportivo lo prese molto felicemente. Posso raccontare un aneddoto a riguardo. Boifava gli sottopose un contratto molto vantaggioso per quella che era l’et che Marco aveva a quei tempi. Gli chiese subito se fosse soddisfatto ma Marco gli rispose che non lo era e senza fronzoli. E perchè? “Perchè mancano tutte le clausole e i premi se vinco la tappa o se vinco il Giro”. Sentite le sue parole con stupore il direttore sportivo and a prendere carta e matita e aggiunse quanto detto da Marco. Poi gli disse: “Pantani, lei ha fatto un affare”. E lui ancora di tutta risposta. “Noi, siete che voi che lo avete fatto, l’affare”.

Ha continuato a vedere e sentire Pantani dopo il passaggio alla Carrera Jeans?

Quando dopo la vittoria del Giro d’Italia dilettanti lo riportai a casa a Cesenatico in macchina, sotto casa mi disse. “Hai visto Pino? Ti avevo promesso di vincere il Giro e ho mantenuto la promessa”. E allora io gli risposi: “ti ho riportato a casa sano, perchè hai vinto ma non ti ho sfinito”. Da quel giorno continuammo a sentirci fino a 30 giorni prima della sua morte. Era il suo compleanno, (il 13 gennaio ndr) gli telefonai per fargli auguri, lui era a Predappio da un amico. Ricordo ancora quella conversazione. “Marco come stai? So che hai qualche problema..” e lui non battè ciglio. “Si ho dei problemi…”. Lo invitai a casa mia ma non riuscì a venire. Trenta giorni dopo seppi della sua morte.

Che cosa ha pensato quando ha saputo della sua morte?

Ho pensato che era morto per la seconda volta. Non l’ha mai accettato quel responso, ovvero la squalifica dal Giro D’Italia. La prima volta Marco Pantani morto a Madonna di Campiglio. Marco era arrabbiatissimo e suscettibile. Al di l della squalifica trova intollerabile che qualcuno pensasse che quanto aveva già vinto era dovuto al doping. Marco aveva un orgoglio viscerale. Una volta and in bici ad allenarsi qui in Romagna. Qualcuno lo riconobbe gli urlò “drughd” che in dialetto significa “drogato”. Quando tornò a casa, segò in due la bici per la rabbia. Poi si lasci andare in un quel tunnel della droga da cui lui riteneva, credendosi padrone di s stesso, di uscire quando voleva. E questo piano piano lo ha distrutto.

Cosa ha pensato quando ha letto della riapertura dell’inchiesta?

Lo so e ho letto negli anni un sacco di cose. Ognuno ha cercato la sua verità e speriamo che questa volta questa verità esca. Io non credo che Marco si sia drogato al punto di suicidarsi. I dubbi sono tanti: ma esistono le indagini, la magistratura, la Polizia. Tocca a loro.

Enea Conti corrieredibologna.corriere.it il 4 febbraio 2022.

Come è noto oramai da qualche mese la Procura di Rimini indaga ancora sulla morte di Marco Pantani. Ed è la terza volta che accade, e la speranza è fare chiarezza in via definitiva sulle ultime ore di vita del Pirata. 

L’ipotesi – si procede contro ignoti – è quella di omicidio. L’ultimo capitolo è andato in archivio nelle scorse ore: Tonina Pantani, la madre del campione di Cesenatico, accompagnata dall’avvocato Florenzo Alessi è stata ascoltata dai carabinieri del Nucleo investigativo del reparto operativo. 

Come riportano i quotidiani locali ha depositato una nuova memoria e fornito nuovi elementi (su cui vige il massimo riserbo) che potrebbero essere utili alle indagini. Con una richiesta particolare, quella di rintracciare due escort che erano entrate nella stanza del residence le Rose il 14 febbraio del 2004 poche ore prima il decesso del ciclista. 

Non è la prima volta che si parla delle due ragazze da rintracciare.

Di queste due figure si incominciò a parlare anni fa. La trasmissione Le Iene mandò in onda il racconto di un autista che aveva spiegato di aver accompagnato due escort al residence le Rose, che sarebbero poi salite in camera di Pantani per poi fare ritorno poco dopo, dopo aver prelevato un maglione e un marsupio.

L’inchiesta attuale prende spunto da un’audizione di Fabio Miradossa, il pusher di Marco Pantani, alla commissione parlamentare antimafia andata in scena il 7 gennaio del 2020. In quell’occasione Miradossa — che nel 2005 patteggiò una pena per spaccio (fu lui a cedere ultima dose a Pantani) — disse: «Marco è stato ucciso, l’ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato».

Caso Pantani, la madre in Procura a Rimini: "Non era solo quando morì, c'erano due escort". La donna sentita per tre ore e mezza nell'ambito della nuova inchiesta. La Repubblica il 4 Febbraio 2022.

Fra dieci giorni saranno passati 18 anni dalla triste sera di San Valentino quando in un residence di Rimini fu trovato morto Marco Pantani e il ricordo del grande campione di ciclismo non trova ancora pace. La convinzione della madre Tonina e del padre Giorgio, e con loro di molti tifosi, è che non tutto sia stato detto e non tutto sia stato accertato sulla fine dello scalatore di Cesenatico, morto a 34 anni. Nonostante due inchieste archiviate, l'ultima nel 2016, nonostante i processi agli spacciatori che avrebbero ceduto al 'Pirata' la dose letale, la famiglia non si arrende e continua a chiedere verità. 

Mamma Tonina è tornata dai carabinieri, a Rimini, ed è uscita dalla caserma dopo tre ore e mezza. "Marco non era solo la notte che è morto, con lui c'erano due escort", è quello che la donna avrebbe detto ai militari del nucleo investigativo del reparto operativo, che indagano nell'ambito del nuovo fascicolo riaperto recentemente dalla Procura. Un fascicolo che, però, rimane a 'modello 45', anche dopo la nuova testimonianza: non si ipotizzano reati e non ci sono indagati.

A sollecitare in qualche modo la ripresa degli accertamenti era stata la commissione parlamentare antimafia, che ha inviato ai magistrati riminesi una relazione dove c'è, tra l'altro, l'audizione, in parte secretata, di Fabio Miradossa, il pusher che patteggiò nel 2005 una pena per spaccio di cocaina legato alla morte di Pantani. "Marco è stato ucciso, l'ho conosciuto 5-6 mesi prima che morisse e di certo non mi è sembrata una persona che si voleva uccidere. Era perennemente alla ricerca della verità sui fatti di Madonna di Campiglio, ha sempre detto che non si era dopato", le parole di Miradossa, a gennaio 2020. 

Il pm riminese Luca Bertuzzi recentemente ha richiesto la registrazione completa della deposizione.

Lo stesso Miradossa, però, già sentito nell'ambito del nuovo fascicolo, non avrebbe aggiunto nulla di rilevante a ciò che la prima e la seconda indagine sulla morte del Pirata avevano appurato. Nell'archiviare, nel 2016, la Procura di Rimini definì fantasiosa e priva di fondamento l'ipotesi di un omicidio e la Cassazione, un anno dopo, rigettò il ricorso della famiglia. 

Ma la madre, che nel frattempo si è rivolta a un nuovo legale, l'avvocato Fiorenzo Alessi, non molla ed è stata sentita per l'ennesima volta in Procura, dopo aver consegnato un corposo dossier con documenti e spunti investigativi, e ora anche dai carabinieri. 

Finora, anche se varie ricostruzioni giornalistiche hanno adombrato scenari alternativi, le inchieste hanno detto che Pantani morì da solo, in una stanza del residence 'Le Rose', chiusa dall'interno. Per un'azione prevalente di psicofarmaci, così da far pensare più a una condotta suicida, che a un'overdose accidentale. È stata fin qui sempre esclusa l'ipotesi di un'assunzione sotto costrizione. Non hanno portato a risultati neppure gli accertamenti su un presunto intervento della Camorra al Giro d'Italia del 1999, quando Pantani venne escluso per l'ematocrito alto, il 5 giugno. Per il campione quel giorno di giugno a Madonna di Campiglio fu l'inizio della fine. 

Una fine tragica e prematura per un grande sportivo, difficile da accettare per tanti appassionati e soprattutto da chi gli voleva bene e che continua a chiedere che sia fatta piena luce.

"Emanuela un mezzo per colpire il Vaticano": Pietro Orlandi choc su presunto ricatto. Il Vaticano e la procura di Roma indagano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro a ilGiornale.it: "Ci sono messaggi Whatsapp che meritano approfondimenti. Abbiamo fatto i nomi". Rosa Scognamiglio il 6 Ottobre 2023 su Il Giornale.

"Ci sono alcuni messaggi WhatsApp tra due persone vicine a Papa Francesco, inviati da telefoni riservati della Santa Sede, che parlano di movimenti legati alla vicenda di Emanuela". Lo rivela a ilGiornale.it Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela Orlandi, la 15enne scomparsa a Roma il 22 maggio 1983. Nel 2023 sia la procura di Roma sia la Santa Sede hanno aperto un fascicolo d'indagine che servirà a far luce sulla misteriosa vicenda. A giugno c'è stata anche l'approvazione da parte della Camera di una Commissione parlamentare d'inchiesta: "Spero ci sia l'approvazione anche da parte del Senato subito dopo la pausa estiva", continua Orlandi.

Caso Orlandi: la lettera dal Sud America apre la "pista famigliare"

Pietro Orlandi, in queste settimane sono emersi alcuni dettagli relativi a una vecchia vicenda famigliare che coinvolge sua sorella Natalina e uno zio paterno, Mario Meneguzzi. Cosa c'è di vero?

"È un episodio accaduto nel 1978, che peraltro è stato travisato e ingigantito all'inverosimile. Non c'è stato alcun tipo di approccio fisico tra Natalina e mio zio, solo delle attenzioni verbali. C'è chi addirittura ha parlato di 'stupro' e 'abuso'. Trovo assurdo fare certe illazioni quando, già al tempo, la vicenda era stata ampiamente chiarita".

Secondo lei perché è saltata fuori adesso?

"Evidentemente qualcuno ha ritenuto che il momento fosse propizio per provare a scaricare le responsabilità della scomparsa di Emanuela sulla famiglia distogliendo, ancora una volta, l'attenzione dal Vaticano".

Dice?

"Ne sono convinto. Non è un caso che se ne sia parlato proprio mentre si deve decidere sulla Commissione parlamentare d'inchiesta. È stato un colpo basso, un tentativo ignobile di gettare fango sulla nostra famiglia e sminuire la vicenda di Emanuela".

“La fotografammo nella camera ardente”: l’altra donna del caso Orlandi

Cosa glielo fa pensare?

"Sono andati a ripescare una storia di un assurdo coinvolgimento di un parente, mio zio, ipotesi approfondita ed esclusa già 40 anni fa. Sarebbe molto più proficuo, invece, se chi di dovere approfondisse i nuovi elementi di cui disponiamo e messi già a disposizione da mesi al promotore Diddi e alla Procura di Roma".

A cosa si riferisce?

"Parlo di alcuni messaggi WhatsApp tra due persone vicine a Papa Francesco, inviati da telefoni riservati della Santa Sede, che parlano di movimenti legati alla vicenda di Emanuela. Perché nessuno, né dal Vaticano né dalla procura di Roma, ha interpellato queste persone i cui nomi sono stati consegnati a entrambe le procure?"

Lei che idea si è fatto al riguardo?

"Che la verità è scomoda e a nessuno interessa cercarla davvero".

“Lo Ior, Solidarnosc e lo zio ‘ricattabile’”: i misteri da non trascurare nel caso Orlandi

Però è stata aperta anche un'inchiesta in Vaticano sulla scomparsa di sua sorella. Non era mai successo prima.

"Certo. E all'inizio ero molto entusiasta di questa iniziativa della Santa Sede. Ma considerando la piega che stanno prendendo le indagini, dubito che la loro intenzione sia quella di far emergere la verità e dare giustizia a Emanuela”.

È sfiduciato?

"Sono quarant'anni che noi familiari chiediamo la verità sulla scomparsa di Emanuela. Se però continuano a puntare il dito sui 'soliti' nomi - mi riferisco a personaggi che in un modo o nell'altro hanno avuto un ruolo in questa vicenda - non si va da nessuna parte".

Tra i "soliti nomi" a cui accenna, c'è un riferimento implicito anche la Banda della Magliana o parla di altri?

"La Banda della Magliana, intesa come organizzazione criminale, non c'entra. Che vi sia stato un coinvolgimento di Enrico De Pedis, che aveva contatti col cardinale Ugo Poletti, mi sembra quantomeno plausibile. In ogni caso, se ha avuto un ruolo in questa vicenda, come ripeto da anni, è stato marginale, di 'bassa manovalanza'. Ma ci sono altre circostanze, più recenti, da approfondire".

A tal proposito, nelle ultime settimane si è parlato della presunta "pista di Boston" che accomunerebbe il destino di Emanuela a quello di altre ragazze misteriosamente scomparse in quel periodo. Ritiene che possa essere attendibile?

"No, a mio avviso non lo è. Così come non credo che il rapimento di Emanuela sia legato alla scomparsa di Mirella Gregori".

Sembra non avere dubbi.

"Non ci sono elementi che accomunano le due vicende, neanche le presunte rivendicazioni de 'l'amerikano'. Anzi, le dirò di più su Mirella Gregori: credo che bisognerebbe riaprire le indagini. A parer mio, ci sono dei verbali che andrebbero nuovamente esaminati".

"Il Papa…". La rivelazione nell'audiocassetta sulla Orlandi

Ritornando a sua sorella Emanuela, cosa può dirci riguardo alla doppia cassetta che fu recapitata alla sede romana dell'Ansa e in Vaticano a meno di un mese dalla scomparsa?

"Non ho dubbi che sul quel nastro ci sia impressa la voce di Emanuela. Lo hanno confermato anche le analisi del Sismi".

E gli altri suoni/gemiti che si sentono in sottofondo?

"Potrebbero essere dei frammenti di un film a luci rosse sovrapposti alla voce di mia sorella".

Secondo lei, chi potrebbe aver avuto interesse a orchestrare una cosa del genere?

"Qualcuno che aveva interesse a ricattare il Vaticano lasciando intendere di avere in mano una prova, o presunta tale, di ipotetiche circostanze che avrebbero gettato ombre sull'Istituzione".

"La 'Vatican girl'? Mia sorella Emanuela. Quelle attenzioni da un prelato..."

E quindi un "ricatto nel ricatto"?

"C'è un ricatto mediatico e uno sotterraneo in questa vicenda. Come ripeto da quarant'anni: Emanuela è stata solo il 'mezzo' per colpire il Vaticano".

Non ha mai pensato a un'ipotesi alternativa?

"No. Tutti gli elementi emersi in questi quarant'anni, a partire dal famoso appello di Papa Wojtyla ai rapitori di mia sorella, non lasciano margine di dubbio. L'unica pista che sento di escludere è quella dell'allontanamento volontario. Mi sembra pura fantascienza".

Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."

Lo scorso 27 giugno c'è stata l'approvazione della Camera all'istituzione della commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Crede che sia un passo avanti?

"Certo. Anzi sono molto ottimista al riguardo. Ci ho sperato e credo che sia la strada giusta per arrivare alla verità. Mi auguro che ci sia l’approvazione anche dal Senato subito dopo la pausa estiva".

Ha sempre detto di cercare Emanuela "viva".

"E continuerò a farlo finché non avrò la prova del contrario".

Rosa Scognamiglio

Estratto dell’articolo di Pino Nicotri per blitzquotidiano.it il 3 ottobre 2023.

Emanuela Orlandi, dopo 40 anni il mistero continua. Ora siamo certi che quel clamoroso rapporto dei carabinieri era un documento autentico e non una polpetta avvelenata, difficile ora stabilire la rilevanza del documento ai fini dell’inchiesta. 

Certamente Mario Meneguzzi, lo zio Mario, era persona integerrima, coinvolto nella vicenda in quanto cognato del padre di Emanuela. Ma il rapporto dei carabinieri è senza dubbio interessante e merita un approfondimento. Andiamo per ordine. 

Il 23 luglio abbiamo scritto del rapporto inviato dai carabinieri al magistrato Domenico Sica il 30 agosto 1983, cioè poco più di due mesi dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi. Rapporto inedito, riguardante le confidenze fatte a un ufficiale dell’Arma dall’ingegner Andrea Mario Ferraris, allora fidanzato e oggi marito di Natalina Orlandi, sorella di Emanuela. 

Rapporto inedito che, come abbiamo scritto il 23 luglio, ha messo in moto le verifiche della Segreteria di Stato vaticana sfociate dopo otto giorni, cioè l’8 settembre, nella conferma che Natalina nel 1978, cioè all’età di 21 anni, aveva subito “attenzioni morbose” da parte di suo zio Mario Meneguzzi. Che l’aveva anche “terrorizzata” con la minaccia di farla licenziare dal suo lavoro di impiegata nel parlamento italiano se ne avesse parlato.

Di quel rapporto avevamo solo la metà superiore della prima pagina, mancava quindi il nome di chi lo ha redatto e inviato al magistrato Sica. Stando così le cose, di conseguenza non potevamo essere certi della sua autenticità.  […] 

Nel documento, i carabinieri forniscono a Sica quel che si dice una informativa, cioè una serie di notizie dettagliate, su Mario Meneguzzi, sposato con la sorella Lucia di Ercole Orlandi e quindi zio acquisito di Emanuela. L’informativa è una prova certa che i carabinieri dopo le confidenze fatte a un loro ufficiale dall’allora fidanzato di Natalina ritengono opportuno “attenzionare” zio Mario al magistrato.

E che lo vogliano “attenzionare” riguardo la scomparsa della nipote Emanuela è reso evidente, oltre che dall’oggetto stesso del rapporto, dal fatto che i carabinieri specificano che Emanuela nell’estate dell’anno precedente, 1982, era stata in vacanza nella casa di montagna di suo zio a Torano Borgorose. 

Riguardo la casa di vacanza al mare di Santa Marinella i carabinieri scrivono che si trova in via Ecletina e che non ha un numero civico. Questo indirizzo è completamente diverso da quello – via Santa Marinella numero 15 – che Mario Meneguzzi sostenne essergli stato detto da una voce femminile registrata fattagli ascoltare con una telefonata del cosiddetto “Americano”, l’asserito portavoce dei “rapitori”. Il fatto che venisse citato quell’indirizzo era per Meneguzzi la prova che la voce femminile apparteneva davvero a Emanuela, “forse drogata, con la voce impastata”.

Se non mi è sfuggito qualcosa, la voce femminile e l’indirizzo di via Santa Marinella numero 15 specificato da tale voce figurano solo nelle affermazioni di Mario Meneguzzi, ma non ci sono in nessuna registrazione fino ad oggi nota. 

A seguito dell’informativa il magistrato Sica decide due cose: 

– chiede conferma – e l’avrà l’8 settembre – alla Segreteria di Stato vaticana delle molestie subite cinque anni prima da Natalina da parte di suo zio Mario, molestie evidentemente confidate da Ferraris all’ufficiale dei carabinieri citato senza nome nello stesso rapporto; 

– fa controllare i movimenti di Mario Meneguzzi. 

Meneguzzi però, evidentemente guardingo, si accorge di essere pedinato da due uomini in auto e chiede conferma all’innamorato di sua figlia Monica, cioè al neo poliziotto di 23 anni Giulio Gangi, appena entrato anche nel servizio segreto civile SISDE come semplice coadiutore senza che i Meneguzzi e gli Orlandi, che aveva frequentato in vacanza a Torano, lo sapessero.

Il fatto che si sia rivolto a Gangi ESCLUDE TASSATIVAMENTE che Meneguzzi potesse pensare di essere seguito dai “rapitori” di Emanuela per eventuali trattative per il suo rilascio. Se avesse sospettato di essere seguito dai “rapitori” avrebbe dovuto infatti RIVOLGERSI AI MAGISTRATI anziché TENERE NASCOSTA la faccenda. 

“Se li rivedi prendi nota della targa della loro auto”, gli dice Gangi. E zio Mario quando rivede i suoi pedinatori si annota la targa della loro e la comunica a Gangi. 

“Controllai e scoprii che si trattava di una targa fasulla, usata per le auto “coperte” della polizia. E feci la grande cazzata di dirlo a Meneguzzi”, mi ha detto più volte Gangi quando l’ho conosciuto bene e siamo diventati amici: “Ho così distrutto ogni possibilità di indagine seria su di lui. Ormai avvisato e in allarme, si sarà ovviamente comportato di conseguenza”. 

E Sica, come mi ha dichiarato il magistrato Ilario Martella, non farà altre indagini “perché convinto che fosse una storia tra la nipote Emanuela e lo zio Mario Meneguzzi”. Storia ormai comunque indimostrabile dopo l’infelice soffiata di Giulio Gangi. 

Quando nel 2002 ho riferito questa convinzione di Sica a Egidio Gennaro, per molti anni avvocato degli Orlandi, lui non s’è mostrato per nulla meravigliato: anzi, ha commentato la mia frase con un sorprendente “ah, già”. 

Come dichiarato da Pietro Meneguzzi, figlio di Mario, in una recente intervista Ercole Orlandi la sera della scomparsa cerca per telefono Mario Meneguzzi nella sua casa di Roma, ma zio Mario non c’è. Motivo per cui risponde Pietro, il quale ha dichiarato di avere risposto tra le 21:30 e le 22. E di avere spiegato a Ercole che suo padre era in vacanza a Torano. Sta di fatto che né Ercole né Pietro Meneguzzi si prendono la briga di telefonare a Torano dopo tale telefonata: oppure hanno telefonato senza trovare nessuno? Ercole parla al telefono con suo cognato solo verso mezzanotte.

Mario Meneguzzi ha affermato a verbale che il giorno della scomparsa di sua nipote era a Torano con sua moglie Lucia, sorella di Ercole, Anna Orlandi, altra sorella di Ercole, e della propria figlia Monica. Da notare che Pietro Orlandi ha invece sempre sostenuto, anche nel libro “Mia sorella Emanuela”, che zia Anna quella sera si trovava invece nella loro casa in Vaticano “a preparare la pizza per la cena”. 

Anna Orlandi abitava in Vaticano nella stessa casa di suo fratello Ercole e della sua famiglia. C’è perciò da aggiungere che se è vero che in quei giorni o anche solo quel giorno lei stava a Torano con Mario Meneguzzi allora Ercole doveva saperlo: quindi perché cercarlo per telefono nella casa di Roma? Forse perché Ercole aveva telefonato a Torano senza trovare nessuno?

Resta il fatto che a verbale, per quanto se ne sa, NON c’è nulla di sicuro e incontestabile per quanto riguarda la fascia oraria tra le 19 e le 22 circa, la fascia oraria che purtroppo comprende la scomparsa di Emanuela. Dov’era Meneguzzi in quelle tre ore? Questo andava assolutamente verificato, ma NON è stato fatto in modo sufficientemente inattaccabile quanto meno per quanto riguarda la presenza o no di zia Anna Orlandi.

Di per sé non avere un alibi o anche darne uno falso non è una prova di colpevolezza. Una persona infatti a verbale può mentire per tanti motivi: per scarsa memoria, perché magari era con l’amante… o per altri motivi ancora. Il magistrato Ilario Martella ha interrogato Meneguzzi il 31 ottobre 1985, cioè oltre due anni dopo la scomparsa della nipote, e NON ha approfondito dove fosse, con chi era e cosa stesse facendo Meneguzzi in quella disgraziata fascia oraria.

È assolutamente clamoroso oltre che gravissimo che non si sia indagato su questo punto e si sia invece preferito rincorrere per 40 anni tutte le piste esoteriche e apodittiche del momento. […] Il 2 giugno 2006 Pietro Meneguzzi su proposta del Consiglio dei ministri è stato nominato Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Pino Nicotri per blitzquotidiano.it giovedì 31 agosto 2023.

Emanuela Orlandi: una nuova pista nel mistero che dura da 40 anni. Come ho anticipato in un articolo precedente, quando il 7 luglio sono stato interrogato dal Procuratore di Giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi, ho suggerito una ben precisa pista. 

Vediamo quale e perché. Nel suo libro Atto di dolore, edito nel 2016, Tommaso Nelli cita, senza farne il nome, quanto raccontatogli da una ex compagna di scuola di Emanuela. Vale a dire, che un “alto prelato” aveva molestato Emanuela: “Lei mi ha confidato che l’alto prelato ci ha provato mentre erano nei giardini vaticani”. 

L’episodio è stato citato anche nelle miniserie Vatican Girl, trasmessa da Netflix lo scorso ottobre, mantenendo l’anonimato della ex compagna di scuola e senza neppure citare Nelli. Di recente l’asserito alto prelato viene definito “vicino al Papa”.  

Ho saputo da tempo che l’ex compagna di scuola si chiama Paola e che chi “ci ha provato” con Emanuela nei giardini vaticani non solo non è “un prelato vicino al Papa”, ma non è neppure un prelato non vicino al Papa né un semplice sacerdote. Si tratta invece di un laico, all’epoca dipendente del Vaticano e abitante in Vaticano: Pietro Magnesio.

Pietro Magnesio, affetto da problemi di dipendenza dall’alcol, era l’allora responsabile degli impianti elettrici del Vaticano. Ed era il padre del Pierluigi coetaneo e compagno di liceo di Emanuela, della quale era molto amico, anzi l’amico più importante oltre che innamorato cotto. 

Il ragazzo di comportava con lei appunto come un buon amico e un sicuro confidente. Riservato, intelligente, un po’ timido. Senza inflessioni dialettali (il “pariolino” di cui ha parlato Mario Meneguzzi dopo averne ricevuto una telefonata?), e anzi corretto se non forbito nel linguaggio.

Se Emanuela era stata fatta oggetto di molestie lo ha sicuramente raccontato a Pierluigi. Al quale ha sicuramente raccontato anche di eventuali altre attenzioni eccessive da parte di “un adulto a lei molto vicino”, come il magistrato Domenico Sica ha definito almeno in conversazioni private con colleghi l’uomo della cui esistenza e responsabilità nella scomparsa di Emanuela era più che convinto. Sica è il magistrato che un mese dopo la scomparsa di Emanuela è diventato il responsabile delle indagini.

I Magnesio abitavano vicino alla farmacia vaticana, ma più verso i giardini, in fondo a via della Posta. Lei era quasi tutti i pomeriggi a casa di Pierluigi, anche per studiare perché erano in classi diverse ma solo per la sezione. Oppure si trovavano sotto la casa di lui nel cortile/piazzale e sul suo comodo muretto perimetrale. Il padre di Pierluigi aveva avuto quindi sicuramente modo di notare bene Emanuela. 

Le molestie di Pietro Magnesio, che per il suo lavoro disponeva di un furgoncino, non erano rimaste un segreto non solo per la compagna di scuola Paola. Infatti verso le 13 del 23 giugno, cioè del giorno immediatamente successivo alla scomparsa di Emanuela, mentre era col suo furgoncino al varco di Porta S. Anna il papà di Pierluigi venne bloccato da don Aron, un sacerdote agostiniano, che creando uno scompiglio si mise a urlare arrabbiatissimo:

“Scendi, scendi! Tu, non hai nulla da confessare? Eh, sicuro di non avere nulla da confessare?! Scendi, maledetto, scendi!”. Solo l’accorrere del personale della gendarmeria vaticana mise fine all’alterco, sciogliendo il capannello di curiosi fermatisi ad assistere alla scena permise a Magnesio di allontanarsi col suo furgone. Ai gendarmi che gli chiedevano cosa fosse successo don Aron prima di andar via e senza aggiungere altro ha risposto sconsolato: “Quella stupida si è fatta fregare!”. 

Della scena venne a conoscenza anche il capo della gendarmeria, il prudentissimo Camillo Cibin, che non si sa per quale motivo, nonostante i solleciti di alcuni gendarmi, non fece nulla per chiarire i motivi del decisamente strano alterco. O se ha fatto qualcosa non lo ha fatto sapere a nessuno.

Tant’è che la magistratura vaticana non ne sapeva nulla finché non ne ho parlato io il 7 luglio nel corso della mia testimonianza, spiegando che si tratta di notizie che mi ha dato monsignor Francesco Saverio Salerno quando l’ho intervistato per tutt’altre faccende. 

Certo sarebbe strano che Emanuela il 22 giugno avesse accettato di salire nell’auto o furgone di chi con lei “ci aveva provato”. Ma Pietro Magnesio potrebbe averla convinta dicendole parole più o meno come le seguenti: “So che ho sbagliato. Ti chiedo scusa e giuro che non succederà più. Sono pur sempre il papà del tuo Pierluigi. Dai, facciamo pace. Sali che ti porto a casa”.

Pietro Magnesio venne privato del suo incarico e dell’abitazione in Vaticano nel 1990, dopo la denuncia di due ragazzine di avere ricevuto proposte di tipo sessuale in cambio dell’autoradio del furgone. Suo figlio Pierluigi pare sia andato a vivere in Spagna. 

Nei primi tempi dell’inchiesta gli inquirenti s’erano fatti l’idea che fosse stato lui a fare le prime tre telefonate a casa Orlandi – in una delle quali aveva detto di chiamarsi proprio Pierluigi – e che potesse conoscere il colpevole e che telefonasse per depistare: forse sotto minaccia o forse di propria iniziativa. 

Il problema è che la prima telefonata di “Pierluigi” – alla quale ha risposto come per tutte le altre per un mese Mario Meneguzzi, zio acquisito di Emanuela – è quasi certamente sua e non è stata registrata. Nel raccontare la telefonata agli Orlandi e agli inquirenti zio Mario ha riportato tutto o ha dimenticato qualcosa?

Il 27 ottobre 1987, durante la diretta di Telefono Giallo è arrivata la telefonata di un uomo che ha gridato concitato: “Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano!”.  L’autore della telefonata ha interrotto la comunicazione prima di poter essere registrato e prima di andare in onda. Gli inquirenti non hanno escluso che potesse trattarsi di Pierluigi Magnesio, ma non hanno mai saputo spiegarsi il perché, se era davvero lui, di quella chiamata.

Forse Pierluigi aveva paura di raccontare di suo padre, ancora in servizio in Vaticano? O di fare il nome dell’uomo che Sica parlando della scomparsa di Emanuela aveva definito un “adulto a lei molto vicino”?

Emanuela Orlandi e la morte di Paola Diener, figlia del capo dell'Archivio segreto vaticano. «Fu scelta per ricattare i vertici Ior». Fabrizio Peronaci  su Il Corriere della Sera mercoledì 9 agosto 2023.

La pista dei messaggi da Boston rilancia il movente economico. La 33enne morì (folgorata sotto la doccia) nell'ottobre 1983. In quei giorni la commissione Italia-Vaticano discuteva sul mega-rimborso legato al crack dell'Ambrosiano  

Emanuela Orlandi e la pista di Boston, il crack del Banco Ambrosiano e il profondo rosso delle casse vaticane. All'indomani dell'individuazione da parte della Procura di Roma di una donna 59enne coinvolta nell'invio (a fine 1983) di messaggi dal Massachusetts, nel giallo della "ragazza con la fascetta" torna alla ribalta il movente economico. La novità, in estrema sintesi, è questa: da oltreoceano, in una delle 4 lettere inviate al giornalista Richard Roth, corrispondente romano dell'emittente Cbs, i responsabili dell'«operazione Orlandi» parlarono della "soppressione" di una non meglio precisata "cittadina", avvenuta "il 5 ottobre 1983", oltre tre mesi dopo il mancato ritorno a casa di Emanuela. Un messaggio rimasto incomprensibile fino al 2013, quando il reo confesso Marco Accetti spiegò che i sequestratori alludevano a  Paola Diener, 33 anni, figlia del responsabile dell'Archivio segreto vaticano, morta folgorata sotto la doccia proprio quel giorno, nella casa di via Gregorio VII in cui viveva con gli anziani genitori, il cavalier Joseph Diener, appunto, stretto collaboratore di Giovanni Paolo II, e sua moglie Maria. «Avevamo già attenzionato la ragazza per svolgere pressioni in ambito ecclesiale - dichiarò il fotografo romano oggi 67enne - ma la morte improvvisa della giovane, evento a noi estraneo, ci colse di sorpresa. Tuttavia, sfruttammo la disgrazia per far credere che l'avessimo uccisa noi e per aumentare la nostra capacità intimidatoria».

La commissione Ior-Ambrosiano

Fin qui, quanto già emerso. Ma c'è dell'altro. Dal recente riesame degli atti dell'inchiesta 2008-2015 sui sequestri Orlandi-Gregori, infatti, è affiorata una circostanza sfuggita (o sottovalutata) in passato, ritenuta centrale dagli attuali inquirenti. «A differenza di Emanuela e di Mirella - pose a verbale Marco Accetti una decina d'anni fa - la Diener non doveva essere sequestrata, ma utilizzata a fini di ricatto. Ci serviva una nuova donna per influire sui lavori della Commissione bilaterale riguardante i fatti dell'Istituto opere di religione, che avrebbe dovuto consegnare i risultati entro il 30 settembre 1983». 

Il maxi-debito della Santa Sede

Eccolo, dunque, il colpo di scena: secondo il principale sospettato delle scomparse Orlandi e Gregori (Accetti fu prosciolto nel 2015, ma dal 2022 è tornato sotto indagine per l'omicidio collegato di Katy Skerl), una terza giovane, Paola Diener, finì nel mirino dello stesso gruppo di potere coperto (tonache infedeli, servizi segreti deviati, malavita) con un fine preciso: far capitolare i vertici del Vaticano nella partita in corso sugli scandali finanziari. La commissione bilaterale sul dissesto Ior-Ambrosiano era composta da Agostino Gambino, Pellegrino Capaldo e Renato Dardozzi per la parte vaticana e da Filippo Chimenti, Mario Cattaneo e Alberto Santa Maria per quella italiana. Un negoziato duro, segnato da numerosi passi falsi, con una posta in gioco altissima: trovare il modo di far restituire all'Italia dalla Santa Sede, salvando la faccia, le molte centinaia di miliardi di lire inghiottite dalle casse vaticane negli anni precedenti, in buona parte per sostenere il sindacato polacco Solidarnosc. 

La scadenza del 30 giugno

Tale trattativa, cruciale per l'immagine della Chiesa, rappresentò dunque il movente primario del sequestro di una giovane concittadina del Papa? A giudicare dall'interventismo di Karol Wojtyla, che fin dal 3 luglio 1983, a soli 11 giorni dal mancato rientro di Emanuela, si espose in prima persona lanciando accorati appelli per la liberazione, parrebbe di sì. E va considerata un'altra tessera del mosaico che si va componendo: la scadenza del 30 settembre 1983 non era la prima. In precedenza c'erano state altre date-ultimatum. Tre mesi prima del presunto ricatto-Diener, in particolare, una situazione pressoché identica - come si legge  negli atti giudiziari oggi "rivisitati" - avrebbe tragicamente influito sulla mancata riconsegna di Emanuela e Mirella alle rispettive famiglie: «Il 30 giugno 1983 la commissione incaricata di risolvere il contenzioso Ior-Ambrosiano - ha dichiarato Accetti in uno degli interrogatori davanti al pm Giancarlo Capaldo - avrebbe dovuto esprimere un parere definitivo e risolutivo sulla vertenza, ma venne aggiornata. I lavori furono rinviati sine die. Tale decisione ci insospettì, per cui le due ragazze vennero ulteriormente trattenute in attesa di comprendere le ragioni del rinvio». Fu insomma il primo tempo? Fallito il ricatto tramite la finta "scappatella" da casa di Emanuela (così lasciarono intendere i telefonisti iniziali, all'indomani del 22 giugno) i rapitori dopo l'estate rilanciarono le loro pretese, nelle trattative sotterranee, facendo credere di aver "soppresso" Paola Diener, guarda caso anche lei figlia di una personalità nota nella Città del Vaticano? 

Morte di Calvi, attentato a Rosone

Le nebbie sembrano diradarsi, alla luce dei messaggi di rivendicazione pervenuti da Boston, uno dei quali, l'audio contenuto in una cassetta, registrato dalla donna oggi 59enne (allora era poco più che maggiorenne), di ceto medio alto, residente a Roma nord,  identificata dalla Procura nelle scorse settimane. D'altra parte, nella vicenda Orlandi-Gregori il movente economico (da integrare con quello politico internazionale, connesso alle accuse di Ali Agca a Est come mandante dell'attentato) si impose fin da subito come il più accreditato e sostenuto dai maggiori riscontri. L'ipotesi di un sequestro legato al dissesto della banca della Santa Sede, il famigerato Ior guidato da Paul Marcinkus, fu presa in considerazione innanzitutto perché il contesto parlava chiaro: il presidente dell'Ambrosiano Roberto Calvi "suicidato" l'anno prima a Londra (giugno 1982); il suo vice, Roberto Rosone, vittima di un attentato a Milano (aprile 1982) eseguito dalla "mala" romana; soldi, tanti soldi in entrata nella banca vaticana; gli stessi danari in partenza, con modalità semiclandestine, verso la Polonia "testa d'ariete" contro Mosca; l'agente segreto Francesco Pazienza a colloquio con altissimi prelati (qui il servizio del Corriere) per "incastrare" Marcinkus; Giovanni Paolo II in visita a Cracovia, nelle stesse ore in cui Emanuela telefonava a casa per dire di aver ricevuto una strana proposta di lavoro per la Avon, che letta al contrario si legge Nova, come la pontificia fondazione che gestiva l'obolo della Chiesa... 

Le mosse della Procura

Uno scenario complesso ma con più di un fondamento, a quanto pare. Tanto più adesso che l'ingresso sulla scena della donna che rivendicò il sequestro da Boston, interpretato alla luce delle risultanze già agli atti, consente ulteriori approfondimenti. Sul fatto che la nuova testimone sia stata o no sentita il riserbo è totale. Bocche cucite in Procura. Il pm Erminio Amelio, titolare dell'inchiesta collegata su Katy Skerl (dopo la scoperta, nel 2022, del furto della salma al Verano), avrebbe consegnato il materiale istruttorio che eccede le sue competenze al collega  Stefano Luciani, titolare del fascicolo su Emanuela Orlandi aperto in seguito a un ricorso della famiglia al Csm. 

I verbali su Paola Diener

Tra le nuove prove testimoniali all'esame della Procura, inevitabilmente, quelle attorno a Paola Diener (e alla connessa pista economica) sono state poste in cima alle altre. E dunque può essere utile rivederle in rapida sequenza, una ad una, le dichiarazioni di Marco Accetti tornate dopo anni sotto la lente d'ingrandimento. La prima riguarda la decodificazione del comunicato (il terzo da Boston, dicembre 1983) rimasto per 30 anni inspiegato. Cosa intendevano dire i rapitori con la frase «comunicheremo esclusivamente al Segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli il nominativo della cittadina soppressa il 5-10-1983 a causa della reprensibile condotta vaticana?». Ecco la risposta: «Ci riferivamo alla morte di Paola Diener, una giovane che avevamo contattato nei mesi precedenti, un po’ come la Orlandi, per esercitare pressioni su alcuni prelati, solo che si dimostrò non idonea alle nostre aspettative...». Poi, a seguire, le altre dichiarazioni. Il profilo della vittima: «La giovane Diener, sulla trentina, abitava in via Gregorio VII con i genitori. In casa sua mettemmo delle microspie. Ma non facemmo in tempo ad avvalerci di lei perché morì in un incidente casalingo: un fatto casuale nel quale noi, e credo anche la nostra controparte, fummo estranei». L'azione criminale: «Volevamo essere certi che non riferisse al padre il contatto avuto con noi, e per questo posizionammo una microspia presso la sua abitazione. Io ero in strada, controllavo che non arrivasse nessuno della famiglia». I possibili riscontri: «Per accedere al palazzo ci fingemmo clienti di uno studio di agopuntura cinese. L'appartamento era al piano terra, entrando sulla destra, dotato di cortile. C'era un cagnolino vivacissimo, che ci intralciò nel nostro lavoro, tanto che dovemmo interrompere l’azione per dargli da mangiare. Ma alla fine riuscimmo a microfonarla». La disgrazia: «Sorprendentemente, leggendo i quotidiani, ne riscontrammo l’improvvisa morte dovuta a folgorazione per elettricità mentre la stessa era all’interno della vasca da bagno. Ritenemmo il fatto assolutamente incidentale, ma lo sfruttammo per far credere che fosse nostra opera, citandolo in uno dei nostri comunicati…». Infine, l'ultima macabra dichiarazione: «Fotografammo il viso della Diener presso la camera ardente e lo mostrammo a chi di dovere». 

L'accordo di Ginevra 

Ora, l’idea che un giovanotto coinvolto in azioni coperte, senza dubbio all’epoca in uso dentro e fuori gli ambienti ecclesiastici, una mattina di quel lontano ottobre 1983 si sia intrufolato, mescolato ai parenti in lutto, in una delle sale dell’obitorio dell’istituto di medicina legale, al Verano, per scattare foto alla defunta, ha dell’abominevole. Ma tant'è. Toccherà ai magistrati, nella nuova fase, mettere un punto fermo. Tenendo presente un altro dato certo: la Commissione bilaterale sullo Ior-Ambrosiano, tra ultimatum e pressioni esterne, in effetti alla fine un'intesa la trovò, con la firma (nel maggio 1984) del cosiddetto accordo di Ginevra, in base al quale il Vaticano si impegnò a versare all'Italia 250 milioni di dollari a titolo di "contributo volontario". Scandalo rientrato e Santa Sede costretta a cedere, insomma: da questo punto di vista, chi aspirava a vedere Marcinkus nella polvere avrebbe avuto partita vinta, al netto della tragedia di due ragazzine sparite e delle altre vittime di questo enigma infinito. 

Voce e grafia. Si apre la "pista di Boston" su Emanuela Orlandi. Nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi si potrebbe aprire la "pista di Boston": e spuntano altre ragazze e donne dal destino misterioso come Mirella Gregori. Angela Leucci l'1 Agosto 2023 su Il Giornale.

La Banda della Magliana, la pista inglese, la pista turca: ora nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi c’è chi ventila sempre di più la possibilità di una “pista di Boston”, corroborata da una testimonianza che appare attendibile, a fronte di un’altra da tempo giudicata invece inattendibile.

In un articolo sul Corriere della Sera, il giornalista Fabrizio Peronaci torna sulla conferma di una donna che, in una rivendicazione audio del dicembre 1983 inviata a un giornalista di Boston, avrebbe “prestato” la voce per leggere un comunicato di rivendicazione relativo al rapimento del 22 giugno 1983 della 16enne cittadina vaticana. La donna, che oggi ha 59 anni e sarebbe una residente alto-borghese di Roma Nord, sarebbe stata coinvolta senza avere la consapevolezza di cosa si trattasse in realtà. Alla 59enne sono state chieste informazioni dagli inquirenti nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio e il trafugamento del corpo di Katy Skerl, uccisa nel 1984: secondo Peronaci è possibile che a questo punto i casi di Orlandi e Skerl vengano unificati, naturalmente come già accaduto per la scomparsa di Mirella Gregori.

Dalla loro gli inquirenti hanno del materiale su cui indagare. Richard Roth infatti, il giornalista che ricevette la rivendicazione audio, fu il destinatario di quattro messaggi ricevuti tra il settembre e il dicembre 1983, tutti scritti a penna - si ipotizzò vergati da una donna giovane per via della grafia e in un linguaggio morfologicamente e lessicalmente ostico. Secondo quanto stabilito all’epoca delle prime indagini, il linguaggio sarebbe stato finalizzato ad apparire un depistaggio agli occhi dell’opinione pubblica e quindi a mantenere segreti i presunti negoziati. Tuttavia non sarebbe la prima volta nella storia d’Italia che criminali o terroristi ricorrano a linguaggi settari per comunicare all’esterno, spesso mescolando codici dall’apparenza alti a caratteristiche che riguardano il cosiddetto italiano dei semi-colti (come per esempio il posporre il nome al cognome quando si cita una persona).

In una delle lettere ricevute dal giornalista statunitense era richiesta la liberazione di Mehmet Ali Agca, che nel 1981 aveva attentato, fallendo, alla vita di Papa Giovanni Paolo II. In un altro si parlava di Mirella Gregori, in un altro ancora veniva citata la “soppressione in data 5-10-1983” di una donna, e infine nell’ultimo si faceva riferimento all’anticomunismo del pontefice e al Banco Ambrosiano. In più il giornalista ricevette un cartoncino con un codice alfanumerico mai decodificato, con la scritta “795-RNL”, le cui consonanti sono presenti nel cognome Orlandi, quasi si trattasse di parte di un codice fiscale.

L'ipotesi turca, i misteri del Vaticano e le carte inglesi: ecco tutte le piste del caso Orlandi

All’epoca il giudice Domenico Sica stabilì, attraverso perizia grafologica, che i messaggi ricevuti da Roth erano stati scritti dalla stessa mano che aveva inviato una missiva anche alla mamma di Mirella Gregori e un comunicato su Emanuela Orlandi nascosto in un furgone Rai. Il tutto quindi fu ritenuto credibile, anche alla luce del fatto che in effetti un’altra donna morì - sebbene a seguito di un incidente domestico - il 5 ottobre 1983: si trattava di Paola Diener, 33enne figlia di Joseph Diener, capo-custode dell'Archivio segreto vaticano.

Il fotografo Marco Accetti, che si autoaccusò di essere coinvolto nel caso Orlandi senza essere creduto - disse tra l’altro di essere in possesso del flauto della 16enne, ma lo strumento in questione era molto simile tuttavia non quello della scomparsa - affermò che Diener, così come Orlandi e Gregori, era stata attenzionata dai rapitori per esercitare pressioni sull’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini e sull’avvocato Gennaro Egidio, che assisteva le famiglie Orlandi e Gregori.

Accetti affermò inoltre che a scrivere quei biglietti sarebbe stata una giovane a lui vicina, così come vicina sarebbe stata anche colei che i messaggi li inviò da e per Boston. Si è supposto che la prima fosse una donna di nome Patrizia, mentre la seconda avrebbe potuto essere l’allora moglie di Accetti, che soggiornò a Boston proprio in quel periodo: entrambe però hanno smentito seccamente il loro coinvolgimento.

Estratto dell’articolo di Pino Nicotri per blitzquotidiano.it lunedì 31 luglio 2023.

Emanuela Orlandi, il mistero continua: liti in famiglia? Le rivelazioni sulle insistite avance di zio Mario Meneguzzi, verso la nipote Natalina Orlandi, continuano a tenere banco. 

Questo nonostante la versione “tranquillizzante” fornita dalla stessa Natalina nella ormai famosa conferenza stampa dello scorso 11 luglio.  Continuano e anzi pare si aggravino gli screzi tra i Meneguzzi e gli Orlandi.  

Il figlio Pietro di Mario Meneguzzi nonostante sia una versione minimalista contesta in toto quanto detto da  Natalina: si vede chiaramente dal minuto 18 dell’intervista fattagli dalla giornalista Anna Boiardi di Quarto Grado. Il tutto mentre Pietro Orlandi, fratello di Natalina e della scomparsa Emanuela, si indigna al solo parlare di zio Mario in termini non totalmente innocentisti e fideisti.

Il problema principale però per tutti questi tre protagonisti è la loro credibilità. Che, alla luce dei FATTI che esponiamo qui di seguito NON appare eccelsa. 

Intanto però facciamo una premessa. Natalina ha detto in conferenza stampa che delle avance dello zio non ha mai parlato a nessuno in famiglia, e che ne ha parlato solo al suo fidanzato Andrea Ferraris un anno dopo. Non c’è quindi nessun bisogno di conferma dell’autenticità del documento dei carabinieri da me diffuso  per capire due cose, molto importanti: 

– a informare il 30 agosto ’83 i carabinieri delle avance in questione può essere stato solo il fidanzato […]; 

– NON ha senso pensare che il fidanzato sia andato dai carabinieri se si fosse trattato solo di avance a base di semplici parole. Per andare dai carabinieri che indagavano […] sulla scomparsa di Emanuela, […]  ci dev’essere stato evidentemente un qualche elemento abbastanza grave da far sospettare che zio Mario Meneguzzi potesse aver avuto a che farci. Si direbbe quindi che non di avance a base di sole parole si sia trattato.

– Di questa brutta storia zio Mario/nipote Natalina potrebbe essere trapelato in seguito, cioè dopo l’83, qualcosa in Vaticano. E questo potrebbe spiegare la telefonata del 27 ottobre 1987 di Pierluigi Magnesio a Telefono Giallo: “Se parlo mi ammazzano”. 

Veniamo ora alla credibilità di ognuno di questi tre protagonisti odierni, che sull’alibi di Mario Meneguzzi per il pomeriggio sera del giorno della scomparsa di Emanuela si contraddicono in maniera vistosa. Basti dire che la zia Anna Orlandi, […] per quella disgraziata serata viene data contemporaneamente presente con i Meneguzzi nella loro casa di villeggiatura montana di Spedino Borgorose, periferia di Torano, a 91 chilometri da Roma, e a casa degli Orlandi in Vaticano intenta a preparare la pizza per la cena.

1) – Nella puntata del 5 luglio 2010 di “Chi l’ha visto?” Natalina, alla presenza del Ferraris diventato nel frattempo suo marito, ha affermato  […] che nell’83 la stazione ferroviaria Roma S. Pietro non esisteva ancora, mentre invece esisteva dal 29 aprile 1894, cioè da oltre un secolo! E che non era più in funzione la stazione dei treni interna al Vaticano, distante dalla stazione Roma S. Pietro solo 2-300 metri di binari, mentre tale stazione nell’83 anche se meno di prima era ancora utilizzata. 

Due errori serviti solo ed esclusivamente a non far sapere ai telespettatori che, come avevo scritto più volte, da Monte del Gallo si sente il fischio dei treni di quella stazione e che quindi il cosiddetto “Americano” la sua prima telefonata a casa Orlandi, il 5 luglio 1983,  potrebbe averla fatta proprio da Monte del Gallo. Avvalorando così in qualche modo quanto mi aveva detto una mia fonte, e io avevo pubblicato,  secondo la quale Emanuela è morta a Monte del Gallo la sera stessa della scomparsa. 

Doppio errore particolarmente inspiegabile anche perché è molto probabile collaborasse già il sostituto commissario della Squadra Mobile Pasquale Viglione, che di quelle due stazioni sapeva tutto: stando a quanto da lui stesso scritto su Facebook, in una pagina che si occupa del mistero Orlandi, l’anno successivo andando in pensione ha firmato con “Chi l’ha visto?” un contratto di collaborazione per 20 puntate. 

Il poliziotto già ai primi di marzo 2010, cioè quattro mesi PRIMA di quel 5 luglio 2010, si era occupato dello stesso argomento della puntata in questione. E  aveva stilato una meticolosa informativa inviata l’8 marzo alla magistratura dal capo della Squadra Mobile Vittorio Rizzi, che smentisce nettamente “Chi l’ha visto?” […]. 

[…] Natalina ha abitato in Vaticano per più di 20 anni, anche dopo l’83: poteva davvero ignorare che la stazione interna quell’anno funzionava ancora? 

2) – Infine: è da persona seria avere sempre taciuto in interviste e apparizioni televisive che lei nel parlamento italiano era la segretaria dell’avvocato Gianluigi Marrone, responsabile dell’Ufficio legale della Camera e contemporaneamente Giudice Unico del Vaticano? Veste, quest’ultima, con la quale Marrone ha risposto più volte “NO!” a rogatorie dei magistrati italiani che indagavano sull’attentato dell’81 del turco Alì Agca contro Papa Wojtyla e sulla scomparsa di Emanuela, che la vulgata dell’epoca voleva rapita per essere scambiata con lo stesso Agca condannato all’ergastolo.

All’epoca fidanzato e in seguito marito di Natalina. 

1) – Ha avvalorato col silenzio i due strani errori marchiani di Natalina e Sciarelli sulle due stazioni ferroviarie citate. […]

2) – Il 15 luglio 2015 ha presentato all’Ordine dei giornalisti un esposto contro di me a base di affermazioni false e insinuazioni diffamatorie la principale delle quali è la seguente: Nicotri, […]  ha avanzato “ipotesi desunte di pura fantasia o completamente destituite da ogni fondamento al fine di avvalorare la sua ipotesi pseudo-deduttiva-informativa: la minorenne [cioè Emanuela] è stata istigata dalla famiglia a prostituirsi e che i familiari stessi nascondessero tale nefandezza”. 

Evito di commentare una tale bestiale affermazione. Inventata di sana pianta perché, oltre a non averla io mai neppure solo pensata, NON può essere stata letta in nessuno mio scritto né sentita in nessuna mia intervista.

L’elenco potrebbe essere sterminato, ma ci limitiamo ai FATTI principali.

1) – A suo tempo Pietro ha dichiarato che suor Dolores, la direttrice della pontificia scuola di musica Ludovico Da Victoria frequentata da Emanuela e sita nel palazzo di S. Apollinare,  aveva ordinato a tutti gli studenti di non frequentare la contigua basilica di S. Apollinare perché riteneva “pericoloso” il suo rettore, don Piero Vergari. 

Pietro della diffidenza di suor Dolores verso don Vergari ha dichiarato di essere stato messo al corrente da alcune amiche di Emanuela che frequentavano anche loro la scuola di musica.

Amiche delle quali non ha mai fatto il nome così come non ha mai fatto il nome delle amiche che a suo dire gli hanno detto che Enrico De Pedis, l’asserito grande capo della banda della Magliana, frequentava la scuola di musica perché amico sia di suor Dolores che dell’onorevole Oscar Luigi Scalfaro, futuro ministro dell’Interno e presidente della Repubblica, la cui segreteria particolare era adiacente ai locali della scuola di musica. 

La “rivelazione” sul divieto di entrare nella basilica è comunque platealmente contraddetta da un rapporto dei carabinieri citato dall’Ansa il 6 agosto 1983. Nel rapporto si legge che Emanuela aveva cantato nel coro per l’anniversario della morte del cardinale Pericle Felici, titolare di quella basilica.

Ma a contraddire clamorosamente e in modo tombale la “rivelazione” di Pietro è lo stesso Pietro in una sua intervista al Corriere della Sera del 19 maggio 2012. Emanuela dopo avere telefonata a casa per dire che aveva avuto una molto ben pagata proposta di distribuire volantini pubblicitari della ditta di cosmetici della Avon e dopo avere tentato inutilmente di salire sull’autobus della linea 70, pare abbia riattraversato la strada: e Pietro ha dichiarato che potrebbe essere tornata indietro per andare a ritirare proprio nella basilica un pacco di volantini della Avon. E tralasciamo la stranezza di volantini pubblicità di cosmetici da ritirare in una basilica…. 

2) – Pietro si offende e accusa di diffamare Emanuela se si insinua che le sarebbe piaciuto entrare nel mondo dello spettacolo, come ho scritto in un recente articolo. Per Pietro evidentemente per una donna far parte del mondo dello spettacolo è un cosa equivoca, disonorevole, disonesta, dimenticando che nel mondo dello spettacolo lavorano migliaia di uomini e donne rispettabili. E  dimenticando in particolare che:

– le sue figlie Salomé, chitarra e voce, Rebecca Orlandi, chitarra basso e voce, ed Elettra, batteria e voce, hanno fondato il complesso musicale The Coraline, col quale si esibivano a Roma nel pub Il Gerbillo Furioso, in via Germanico, e al Trafic Club, sulla via Prenestina, hanno recitato un monologo a testa nei provini a “Ciak si Roma – Il Gioco del Lotto”, provino fatto nel 2014 anche da un’altra giovane Orlandi, Federica, forse nipote di Pietro, e che si conclude con un esasperato “’Fanculo!”. 

Le tre Coraline hanno vinto la prima edizione del Fiat Music del 2016 e il 7 dicembre 2017 si sono esibite nel programma Roxy Bar al teatro Ariston di Sanremo . Le tre figlie e la nipote di Pietro Orlandi fanno o hanno cioè fatto parte a pieno titolo del mondo dello spettacolo;

– e lui stesso il 29 settembre 2016 le ha portate a esibirsi nel programma televisivo di successo X Factor. 

3) – Pietro dal 2012 su Facebook si inventa che nei miei libro ho scritto “che Emanuela e le sue sorelle erano delle geishe al servizio di preti in Vaticano con il consenso della famiglia” 

CONCLUSIONE. Credo possa bastare perché i lettori siano in grado di farsi un’idea documentate della credibilità di questi tre personaggi.

Caso Orlandi, tra indagini e novità che "scagionano" il Vaticano. Addio commissione? Nico Spuntoni il 30 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il monito di Mattarella contro la sovrapposizione tra organismi parlamentari e magistratura ne complica l'iter. Intanto, spunta un nuovo documento sulle indagini relative alla scomparsa di Emanuela 

Nella settimana che si avvia alla conclusione si sono registrate due non irrilevanti notizie nel caso di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della prefettura della casa pontificia di cui si sono perse misteriosamente le tracce a Roma il 22 giugno del 1983.

La prima si deve a Pino Nicotri, storica firma de L'Espresso e autore di ben quattro libri su un affaire lungo ormai 40 anni. L'indiscrezione del giornalista è relativa al caso di cronaca in sé. L'altra novità riguarda l'istituzione della commissione parlamentare d'inchiesta sulla scomparsa.

Nuovi dettagli sulle avances dello zio?

Questo luglio è stato il mese in cui è divenuto di pubblico dominio uno scambio di lettere risalente al settembre del 1983 in cui l'allora segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli chiese e ottenne la conferma da monsignor José Luis Serna Alzate, consigliere spirituale della famiglia Orlandi ai tempi della sua permanenza romana alla sede dell'Istituto missioni Consolata, dell'esistenza di attenzioni morbose da parte dello zio Mario Meneguzzi nei confronti della nipote più grande, Natalina Orlandi, che sarebbero avvenute nel 1978.

La sorella di Emanuela ne parlò - ma non in confessione - al religioso all'epoca dei fatti e quest'ultimo confermò l'episodio in una lettera di risposta all'allora numero due della Santa Sede scritta tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela. A parlarne a Casaroli, come rivelato dal Tg La7 in base a quanto scritto dal cardinale, furono ambienti investigativi romani. Quindi, gli inquirenti italiani dell'epoca attenzionarono Mario Meneguzzi, portavoce della famiglia nei delicati giorni successivi alla scomparsa presumibilmente dopo essere venuti a conoscenza di quest'episodio di cinque anni prima.

Ma come facevano le autorità a essere a conoscenza di quelle che Natalina, in una conferenza stampa organizzata il giorno dopo al servizio del telegiornale di Enrico Mentana, ha definito avances? "Ne parlai al mio fidanzato, oggi mio marito, e al nostro confessore di famiglia", ha raccontato la primogenita degli Orlandi. In un articolo pubblicato su Blitzquotidiano.it, il giornalista Pino Nicotri sostiene che nelle carte giudiziarie relative al caso esisterebbe un rapporto datato 30 agosto 1983 con quest'oggetto: "Relazione di servizio inerente dichiarazioni confidenziali rilasciate da Andrea Ferraris, fidanzato della signorina Natalina Orland, sorella maggiore di Emanuela, ad ufficiale di questo Reparto, circa un episodio avvenuto cinque anni orsono tra la Natalina stessa e lo zio Mario Meneguzzi".

L'indagine saltata

Secondo Nicotri, se il documento fosse autentico dimostrerebbe che il "primo a riferire direttamente ai carabinieri e in via confidenziale quelle avances sarebbe infatti stato il 30 agosto 1983 lo stesso fidanzato di Natalina, Andrea Ferraris, diventato in seguito suo marito". Non solo: il giornalista fa notare che "sarebbero quindi state queste asserite confidenze a mettere in moto il meccanismo sfociato nei successivi giorni del settembre ’83". Stando così le cose, sembrerebbe che l'allora titolare dell'inchiesta Domenico Sica ritenne di mettere sotto la lente d'ingrandimento la figura di Meneguzzi presumibilmente dopo aver appreso delle avances del '78 su Natalina, sebbene occorra ricordare che quell'episodio non può essere considerato in alcun modo una prova della colpevolezza dello zio nella sparizione dell'altra nipote avvenuta cinque anni dopo.

Meneguzzi, che in quei primi mesi era finito al centro dell'attenzione mediatica dopo aver assunto l'incarico di interlocutore del telefonista che sosteneva di avere in ostaggio Emanuela senza mai dare riscontri concreti del suo essere in vita, fu pedinato dalla squadra mobile senza successo. Accortosi di essere seguito da una macchina, lo zio di Emanuela fornì la targa all'allora giovane agente del Sisde Giulio Gangi - conoscente dei Meneguzzi - che gli confermò come quella fosse una vettura nella disponibilità delle forze dell'ordine.

Quest'ultima circostanza è stata raccontata dallo stesso Gangi - morto lo scorso novembre - a Nicotri che l'ha riportata nel suo libro Emanuela Orlandi. Il rapimento che non c'è. Tempo fa, l'ex agente raccontò su un gruppo Facebook la sua versione sull'allontanamento dal Sisde all'inizio degli anni '90 addebitandolo ad un "'appunto' anonimo, non intestato, nel quale venivo accusato di aver svolto 'inopportune indagini sul caso Orlandi'".

L'alibi

Emersa la vicenda delle attenzioni nei confronti di Natalina, la famiglia di Meneguzzi ha deciso far quadrato per difendere la memoria di Mario, deceduto nel 2009. La vedova Lucia e i figli Giorgio e Monica hanno reagito con un comunicato respingendo le "allusioni più o meno esplicite sulla figura di Mario, paventando una sua dubbia moralità e, addirittura, un possibile coinvolgimento nella scomparsa della povera Emanuela". Un altro figlio, Pietro, ha parlato invece ai microfoni di Quarto Grado esprimendo dubbi sulle avances del 1978 di cui sarebbe stata vittima Natalina Orlandi per mano del padre Mario. "Io ho saputo in conferenza stampa quello che è stato dichiarato da mia cugina però la verità è unilaterale, è una cosa che dice lei", ha affermato Pietro Meneguzzi. Su quelle che monsignor José Luis Serna Alzate chiamò "attenzioni morbose" nella lettera al cardinal Casaroli, dunque, sembrerebbe non esserci una piena sintonia tra la primogenita Orlandi e la famiglia Meneguzzi.

Tra la conferenza stampa degli Orlandi dell'11 luglio e l'intervista alla trasmissione di Rete4 di Pietro Meneguzzi c'è intesa sull'alibi dello zio Mario per la giornata del 22 giugno 1983: era nella sua casa in montagna nel reatino. Il giornalista Tommaso Nelli ha riportato su Spazio70 il verbale dell'interrogatorio che il giudice istruttore Ilario Martella fece nel 1985 allo zio di Emanuela e nel quale spiegò di essere stato informato dal cognato Ercole della scomparsa della nipote mentre si trovava in "località Torano di Borgorose, a circa 110 km da Roma" dove era giunto la "mattina dello stesso giorno insieme con mia moglie, mia figlia Monica e mia cognata Anna Orlandi". Avvertito attorno alla mezzanotte, lo zio si trovava con i familiari più stretti nella seconda casa ad un'ora di macchina dalla Capitale.

La presenza della cognata Anna a Borgorose è stata in questi giorni oggetto di discussione tra gli appassionati al caso perché nel libro Mia sorella Emanuela. Sequestro Orlandi: voglio tutta la verità scritto con il giornalista Fabrizio Peronaci, Pietro Orlandi colloca la zia Anna a cena nell'appartamento dietro a porta Sant'Anna in quelle drammatiche ore di attesa del ritorno di Emanuela la sera del 22 giugno 1983. Il libro è del 2011 mentre il verbale dello zio Mario è del 1985, due anni dopo il fatto: Pietro potrebbe aver ricordato male quest'aspetto relativo alla serata che ha cambiato la vita della sua famiglia.

Commissione in salita

L'altra notizia della settimana è relativa all'istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa della ragazza chiesta a gran voce dal fratello Pietro nell'ultimo mese ha alzato i toni attaccando duramente Enrico Mentana, Pino Nicotri e Dagospia per aver dato spazio al carteggio Casaroli-Alzate. Secondo l'uomo, "stanno facendo e faranno di tutto affinché la commissione parlamentare sia affossata", aggiungendo che "se continuano ad usare manovalanza come Nicotri, Mentana, Dagospia e chissà chi altri , vuol dire che ormai stanno alla frutta".

Dopo il via libera unanime all'istituzione arrivato a fine giugno, però, non ci sono solo le nuove rivelazioni a far sorgere più di un dubbio sull'opportunità di far nascere questa commissione. Nei giorni scorsi, infatti, sono arrivate le parole del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella che alla cerimonia della consegna del ventaglio da parte della stampa parlamentare ha lanciato un monito chiaro: "Iniziative di inchieste con cui si intende sovrapporre attività del Parlamento ai giudizi della magistratura si collocano al di fuori del recinto della Costituzione e non possono essere praticate", aggiungendo che "non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento, usato parallelamente o, peggio, in conflitto con l’azione della Magistratura". Il capo dello Stato ha parlato, ovviamente, in termini generali ma è difficile non leggere nelle sue parole un riferimento alle due commissioni d'inchiesta più note tra quelle che potrebbero vedere la luce in questa legislatura: quella sul Covid e quella sul caso Orlandi.

Anche perché, nel frattempo sia il promotore di giustizia vaticano che la procura di Roma hanno aperto un fascicolo sulla scomparsa avvenuta quarant'anni fa determinando la possibilità di una sovrapposizione, proprio ciò che Mattarella ha invitato a scongiurare nel caso delle commissioni d'inchiesta parlamentari. In un editoriale su Il Riformista, Matteo Renzi ha osservato a proposito di ciò: "Che senso ha fare una commissione di inchiesta del Parlamento italiano per attribuire a Papa Giovanni Paolo II responsabilità nella terribile vicenda Orlandi?".

In effetti, nella conferenza stampa dell'11 luglio, Pietro Orlandi è tornato a premere sull'istituzione dell'organismo parlamentare ed ha inoltre rivendicato la presunta importanza della documentazione da lui consegnata al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi. Tra quella documentazione c'era la registrazione rubata al pregiudicato romano Marcello Neroni con accuse gravissime e totalmente infondate nei confronti, addirittura, di papa Wojtyla. Un'eventuale commissione parlamentare d'inchiesta dovrebbe indagare anche su quella che papa Francesco ha bollato come "una cretinata"? Il rischio c'è ed avrebbe anche un costo. Infatti, mentre l'ufficio del promotore di giustizia vaticano e la procura di Roma proseguono nelle loro indagini, anche i parlamentari sarebbero chiamati ad indagare in un organismo che dovrebbe costare 50mila euro l'anno tra personale, locali e strumenti operativi vari.

È quanto si legge nel testo che ha accorpato le proposte di legge di tre deputati del centrosinistra per l'istituzione della commissione e che già nella premessa non è incoraggiante sulla precisione delle indagini da realizzare: vi si legge, infatti, che l'organismo si dovrebbe concentrare sulla "scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, avvenute nel 1985, a distanza di un mese l'una dall'altra, in circostanze mai chiarite". Peccato che, come è noto, la sparizione di Emanuela risale al 22 giugno del 1983 mentre quella di Mirella Gregori - per la quale non è mai stato accertato alcun concreto legame con la precedente - sia avvenuta il 7 maggio 1983.

Caso Orlandi, individuata una donna coinvolta nelle rivendicazioni: sua la voce in un messaggio audio da Boston. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera giovedì 27 luglio 2023.

La novità emerge dalle indagini sul giallo collegato di Katy Skerl, uccisa nel 1984. La nuova sospettata all'epoca aveva 19 anni: registrò una comunicazione vocale giunta via posta da Boston il 6 dicembre 1983 

Dal giallo collegato dell’omicidio di Katy Skerl, la diciassettenne trovata strangolata a Grottaferrata nel gennaio del 1984, arrivano nuovi spunti anche sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. La Procura di Roma, nell’ambito dell’inchiesta aperta nell’estate 2022 sul furto della bara di Katy dal cimitero Verano, nelle scorse settimane ha sentito più volte il supertestimone e reo confesso del caso Orlandi, Marco Accetti, e proprio da questa nuova tornata di interrogatori (condotti dal pm Erminio Amelio) sarebbe emersa la novità. Nei verbali è infatti finito il nome della donna che, nel dicembre 1983 (sei mesi dopo la scomparsa della figlia del messo pontificio), registrò un messaggio su un’audiocassetta inviata da Boston (assieme a un testo scritto a penna) al giornalista americano Richard Roth, corrispondente da Roma per la Cbs. Si tratta di una delle 4  rivendicazioni del sequestro Orlandi giunte da Oltreatlantico, all’epoca ritenute autentiche grazie a una perizia grafologica che le confrontò con le precedenti lettere del cosiddetto “Amerikano“.

Quella "voce" ha un volto

Ebbene, adesso quella voce arrivata in Italia da Boston il 6 dicembre 1983 al giornalista dell'emittente televisiva ha finalmente un nome e un volto: si tratta di una donna di 59 anni, romana, che al momento dell’invio della cassetta dal Massachusetts, tramite posta ordinaria, aveva solo 19 anni. La donna sarebbe già stata convocata dagli inquirenti e  avrebbe ammesso la sua responsabilità limitatamente alla “recitazione” del comunicato, nel quale si confermava la richiesta dello scambio (già avanzata ripetutamente in precedenza) tra Emanuela Orlandi e Ali Agca, attentatore del Papa due anni prima, il 13 maggio 1981. La stessa testimone, residente in un quartiere di Roma nord, si sarebbe detta completamente all'oscuro dell'intrigo, tirata in ballo inconsapevolmente, quasi per gioco, senza poter intuire il guaio nel quale era stata catapultata.

La seconda persona sulla scena

Dopo quarant’anni, insomma, spunta una seconda persona in carne e ossa in qualche modo partecipe delle vicende legate alla scomparsa della figlia del messo pontificio di Karol Wojtyla. Fino a oggi, l’unica certezza acquisita sulle voci dei sequestratori era che uno dei telefonisti fosse stato lo stesso Accetti, come accertato dal confronto con il tono e la cadenza di "Mario" (lo sconosciuto che chiamò casa Orlandi i primi giorni), e dalla perizia affidata a Marco Perino, il consulente fonico della famiglia nonché di Netflix, che l'aveva ingaggiato nell'ambito della serie “Vatican girl”. Novità rilevante, dunque: la ragazza della "voce da Boston" oggi individuata registrò il messaggio con un finto accento inglese a Roma, salvo poi consegnare il nastro ai rapitori, che lo girarono a qualcuno in partenza per gli Stati Uniti. 

La competenza dei pm

Ma perché tale complicazione? Il mittente oltreoceano, probabilmente, fu ideato con il fine di disorientare gli investigatori, già alle prese con un giallo complicatissimo, inquinato da manipolazioni e depistaggi di ogni genere. Va tenuto presente che in quello stesso scorcio del 1983 (estate-autunno) la giovanissima moglie di Accetti, compagna di scuola della sorella, si trovava in vacanza nella capitale del Massachussets, come da lei stessa posto a verbale.  Resta da chiarire se gli atti relativi al ruolo della nuova, seconda “telefonista” siano già stati trasmessi per competenza al pm Stefano Luciani, titolare del fascicolo tuttora aperto sul caso Orlandi, dopo la presentazione di un esposto al Csm da parte della famiglia. (fperonaci(at)cs.it)

Estratto dell'articolo di Pino Nicotri per blitzquotidiano.it venerdì 28 luglio 2023.

Il carteggio riguardante le insistenti avance fatte nel 1978, cinque anni prima della scomparsa di Emanuela Orlandi, dallo zio Mario Meneguzzi a sua nipote Natalina, sorella anche di Emanuela, ha avuto l’effetto di un sasso contro un grande nido di vespe. S’è immediatamente messo in moto il fronte negazionista: pare quasi che ispirandosi al film “Salvate il soldato Ryan” sia andato in produzione fulminea il film “Salvate lo zio Mario”. 

Cosa ovvia e scontata visto che avendo avvalorato per 40 anni le ipotesi più assurde e scombiccherate, lucrandoci alla grande da parte di molti e facendo la fortuna di qualche programma televisivo e annessi conduttori, era francamente impossibile che costoro non difendessero le proprie posizioni con le unghie e con i denti. Fino al rilancio dei sospetti su Papa Wojtyla, alla riproposizione della “trattativa” - corpo di Emanuela in cambio dello spostamento della sepoltura di De Pedis dallo scantinato della basilica di S. Apollinare - e fino ad altro ancora anche se assurdo e già dimostrato falso dalle indagini giudiziarie. 

In questo pronto intervento negazionista si sono distinti il Corriere della Sera e Il Fatto Quotidiano: entrambi hanno fatto ricorso all’intervista a “un ex poliziotto che a suo tempo partecipò alle indagini”. Poliziotto pronto a garantire che “lo zio non c’entra nulla, facemmo indagini anche su di lui e appurammo che non c’entrava nulla. Perquisimmo anche la sua abitazione”.

La cosa strana e decisamente insolita, oltre che assolutamente poco seria e professionale, è che entrambi i giornali hanno intervistato lo stesso poliziotto senza farne il nome, mantenendone cioè l’anonimato. […] 

Sorprende che Il Fatto Quotidiano, fama di giornale colpevolista se non proprio forcaiolo, per quanto riguarda zio Mario Meneguzzi sia invece sceso immediatamente in campo come garantista e addirittura negazionista.

Come che sia, è evidente che l’ex poliziotto è Pasquale Viglione, come del resto confermatomi anche dall’interno del Corriere della Sera. Viglione, che conosco bene e al quale ho fatto notare con messaggi whatsapp la scorrettezza dell’anonimato, quando è andato in pensione ha avuto un contratto con il programma “Chi l’ha visto?” per fare da consulente per una ventina di puntate. 

Un particolare della sua “testimonianza” dimostra che è stata piuttosto affrettata e fin troppo disinvolta. Viglione infatti ha affermato che di zio Mario Meneguzzi venne perquisita “anche l’abitazione”. Il problema è che Meneguzzi di abitazioni ne aveva almeno tre, tutte frequentate nel periodo della scomparsa di Emanuela e del racconto dell’ex poliziotto: la casa al mare di Santa Marinella, la casa vacanze a Spedino Portorose vicino Torano e almeno una casa a Roma. Chiaro quindi che Viglione non ricorda bene…

Per realizzare il film Salvate lo zio Mario è stato immediatamente ricordato il suo alibi: quando a Roma sparì Emanuela lui era in vacanza nei pressi di Torano, quindi è sicuramente innocente. Certo, è sicuramente innocente, ma Torano si trova a soli 90 chilometri da Roma, raggiungibile in un’oretta. 

Inoltre a suo tempo Ercole Orlandi, padre di Emanuela, gli telefonò disperato verso mezzanotte per chiedere anche il suo aiuto. Erano cioè trascorse ben cinque ore trascorse dalla scomparsa di Emanuela. E in cinque ore si può andare a Roma e tornare a Torano anche due volte […]

Pietro Meneguzzi a suo tempo sostenne che il giorno della scomparsa di Emanuela tutta la famiglia era a Torano, quando invece il padre Mario testimoniò nel 1985 che con lui a Torano c'erano solo la moglie Lucia Orlandi, la loro figlia Monica e la zia Anna Orlandi, che abitava da una vita in Vaticano con la famiglia di suo fratello Ercole, padre di Emanuela. La stessa zia Anna che Pietro Orlandi nel suo libro “Mia sorella Emanuela - Voglio tutta la verità”, scritto nel 2012 con il giornalista del Corriere della Sera Fabrizio Peronaci, sostiene fosse invece in casa con lui, i suoi genitori e tre sorelle in attesa di Emanuela per mangiare la pizza. 

Mario Meneguzzi è sicuramente innocente, anche perché il suo tampinare all’epoca i magistrati per sapere cosa stessero man mano appurando, cosa che li insospettì molto fino a sospettare di lui e a farlo pedinare, può essere dovuto a voler proteggere non necessariamente se stesso, ma eventualmente invece un amico, un parente, una persona cara. 

[…]

Il lancio da parte del TG7 del famoso carteggio su zio Meneguzzi e nipote Natalina è stato preceduto da altre accuse infamanti contro alcuni giornalisti e magistrati, compreso soprattutto il Promotore di Giustizia del Vaticano, lanciate da Pietro Orlandi e dai suoi seguaci senza se e senza ma. Una volta avvenuto, il lancio è stato immediatamente definito dagli Orlandi e Meneguzzi “un puro depistaggio attuato attraverso i media”. Pietro Orlandi, convinto erroneamente che il carteggio sia stato fatto filtrare a bella pista dal Vaticano anziché dal palazzo di Giustizia di piazzale Clodio, è arrivato a dire che con quel carteggio il Vaticano ha “perso l’ultimo briciolo di dignità”.

Ma allora la lettera all’arcivescovo di Canterbury con annessa “pista inglese”, i cinque fogli che riportano gli asseriti resoconti delle spese del Vaticano per Emanuela ancora viva e prigioniera, le voci che hanno portato all’apertura di due tombe del cimitero Teutonico vaticano e la dozzina di piste rivelatesi tutte fasulle ma avvalorate spesso anche da Pietro in questi 40 anni cosa sono? Non sono depistaggi attuati attraverso i media? Non sono briciole di dignità man mano perse? O ci sono depistaggi che si possono citare e depistaggi che si devono invece tacere? [...]

E a proposito di dignità:

- è dignitoso continuare a sputare nel piatto dove si abita e si mangia a prezzi scontati? E’ cioè dignitoso continuare ad abitare in un bell’appartamento - in via della Conciliazione a soli 150 metri da piazza S. Pietro - la cui proprietà fa capo a quello stesso Vaticano che si accusa di essere responsabile della sorte di Emanuela e/o di tacerla in modo omertoso? E’ dignitoso continuare a fare benzina e spese a prezzi scontati nei negozi di questo stesso Vaticano?

- E’ dignitoso che un fratello continui a sbandierare per televisione quelli che insiste a definire “lamenti di mia sorella mentre viene stuprata”?

- E’ dignitoso che il fratello per confermare quanto detto dal “reo confesso” Marco Fassoni Accetti sbandieri per televisione, radio e giornali che Emanuela il giorno in cui è scomparsa “aveva le mestruazioni”?

- E’ dignitoso che Pietro Orlandi non chiarisca le frasi dette a monsignor Saverio Salerno su maneggi di “quattrini sporchi” e “soldi sporchi” quando lavorava alla banca vaticana IOR?

La reazione scomposta e isterica esplosa quando si è scoperta la cosiddetta pista dello zio Mario parrebbe avere tutta l’aria della PROVA PROVATA che gli Orlandi NON vogliono si indaghi nell’ambiente amical parentale. Ma perché questo violento fuoco di sbarramento? Perché andare a caccia di farfalle sotto l’arco di Tito invece di indagare dove fino ad oggi si è potuto indagare poco o niente? Perché si vuole che si indaghi in cimiteri vaticani e perfino tra le mutande e le lenzuola di Papa Wojtyla, ma assolutamente NO su Mario Meneguzzi e dintorni, assolutamente NO sull’ambiente amical-parentale? 

La famiglia di zio Mario Meneguzzi minaccia querele a raffica e dichiara che il suo familiare ha avuto una vita "specchiata" con una forte "impronta religiosa”. Non ne dubitiamo. L’impronta religiosa sarà anche stata forte, anzi fortissima, ma certo Papa Wojtyla ne aveva una molto più forte, tanto che oltre che Papa lo hanno anche fatto santo.

Eppure non è stato ritenuto intoccabile né insospettabile da chi oggi si strappa i capelli per il reato di lesa maestà riguardo Mario Meneguzzi. Pietro Orlandi e compagmia bella non hanno infatti esitato a lanciare ANCHE contro Papa Wojtyla le note accuse pecorecce di responsabilità o quanto meno di interessata omertà nella scomparsa di Emanuela. 

L’avvocatessa Laura Sgrò, legale degli Orlandi, dichiara indignata che con la pubblicazione del carteggio relativo alle avance di Mario Meneguzzi "si è fatta macelleria della vita di una persona”. Peccato che l’avvocatessa dimentichi come e chi ha fatto macelleria della vita di varie altre persone: da don Piero Vergari, rettore della basilica di S. Apollinare, a monsignor Marcinkus, responsabile della banca vaticana IOR, da Oscar Luigi Scalfaro, ministro dell’Interno e poi anche presidente della Repubblica,  fino, lo ripetiamo, a Papa Wojtyla e al cittadino qualunque Sergio Virtù

Possibile che gli Orlandi e i Meneguzzi non si rendano contro che il loro atteggiamento rischia di parere il miglior atto d’accusa contro il loro familiare e dintorni, cioè contro l’intero ambiente amical-parentale? 

Passi che Pietro Orlandi ignori i proverbi “corda troppo tesa spezza se stessa e l’arco”,  “il troppo stroppia”, “chi di spada ferisce di spada perisce” e la sua variante “chi di calunnia ferisce di calunnia colpisce”. Ma è strano che proprio lui, nato, cresciuto e con una intera vita di lavoro in Vaticano, ignori che “il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi”.

Pino Nicotri per blitzquotidiano.it il 25 luglio 2023.

Mistero Emanuela Orlandi: gli inquirenti stanno cercando di trovare l’originale e gli annessi allegati di un documento che circola da qualche giorno. Se autentico e non polpetta avvelenata manderebbe drammaticamente in frantumi la versione riduzionista che Natalina Orlandi nella conferenza stampa dell’11 luglio ha dato delle avances di suo zio Mario Meneguzzi cinque anni prima della scomparsa di sua nipote Emanuela, sorella di Natalina. 

Secondo tale documento il primo a riferire direttamente ai carabinieri e in via confidenziale quelle avances sarebbe infatti stato il 30 agosto 1983 lo stesso fidanzato di Natalina, Andrea Ferraris, diventato in seguito suo marito. 

Sarebbero quindi state queste asserite confidenze a mettere in moto il meccanismo sfociato nei successivi giorni del settembre ’83 nelle ormai note conferme arrivate dal Sudamerica da parte dell’ex confessore e consigliere spirituale dell’intera famiglia Orlandi, monsignor José Luis Serna Alzate. Conferme delle avance, della paura suscitata in Natalina e dell’annessa minaccia di farla licenziare dal lavoro nel Parlamento italiano se ne avesse anche solo parlato. 

Come ormai emerso e accertato, è stata la magistratura italiana a rivolgersi all’allora Segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli per sapere se erano vere certe voci riguardanti molestie e avance fatte a Natalina Orlandi da suo zio Mario Meneguzzi. 

Dopo questo input Casaroli, usando un codice cifrato ultra segreto data la delicatezza della questione, ha girato le domande al sacerdote che nel 1978 era il confessore e consigliere spirituale di Natalina e della sua famiglia.  

Se è vero il documento sul quale stanno facendo ricerche gli inquirenti dimostrerebbe che alla magistratura italiana la pulce nell’orecchio, cioè i sospetti su zio Mario, è stata messa tramite i carabinieri dallo stesso fidanzato di Natalina. 

Cosa che avrebbe una evidente conseguenza:

– non potrebbe essere vero quanto sostiene a spada tratta Pietro Orlandi, e cioè che i magistrati sospettavano di suo zio, al punto da farlo pedinare, solo perché temevano che potesse consegnare di persona ai “rapitori” di sua nipote Emanuela i soldi dell’eventuale riscatto o che potesse essere avvicinato da loro per dirgli le condizioni per il suo rilascio. 

Mario Meneguzzi si accorse di essere pedinato, perciò si rivolse al suo amico Giulio Gangi, innamorato non corrisposto di Monica Meneguzzi, figlia di Mario, e giovane poliziotto appena entrato nei ranghi del servizio segreto civile SISDE.

Gangi purtroppo gli confermò che era davvero pedinato, mandando così all’aria il lavoro dei magistrati e la possibilità di ulteriori controlli sullo zio Mario Maneguzzi. 

La ricerca degli inquirenti nella massa abbastanza disordinata della carte giudiziarie non sarà facile: anni fa quando sono stato autorizzato dal presidente del tribunale di Roma a visionarle per le mie ricerche il personale ci ha messo più di dieci giorni solo per rintracciarle. 

E alla fine mi sono trovato davanti una massa di faldoni decisamente non in ordine. Tanto che non sono riuscito a trovare un indice delle carte, utile per potersi orientare a condurre ricerche su temi specifici. 

Ma cosa c’è scritto nel documento in questione? Eccone il testo a partire dall’intestazione e dal numero di protocollo: 

“LEGIONE CARABINIERI DI ROMA REPARTO OPERATIVO

  -3a Sezione-

N. 0159977/2-20  “P” di prot.                Roma, li 30.8.1983.-

RAPPORTO GIUDIZIARIO: – circa gli ulteriori accertamenti svolti in relazione alla scomparsa di Emanuela ORLANDI. –

ALLA PROCURA DELLA REPUBBLICA DI

(Sost.Proc. Dott.D. Sica) ROMA 

Seguito rapporti giudiziari pari numero ed oggetto di questo Reparto

Si trasmette una relazione di servizio inerente dichiarazioni confidenziali rilasciate da Andrea FERRARIS, fidanzato della signorina Natalina ORLANDI, sorella maggiore di Emanuela, ad ufficiale di questo Reparto, circa un episodio avvenuto cinque anni orsono tra la Natalina stessa e lo zio Mario Meneguzzi”.

Purtroppo si tratta solo della mezza pagina superiore dell’asserito rapporto giudiziario, manca quindi il nome di chi lo ha redatto e inviato al magistrato Domenico Sica.

Noto inoltre che tra i tre cognomi citati quello di  Meneguzzi è il solo che non è stato scritto tutto in lettere maiuscole. Ma questa potrebbe essere solo la distrazione del carabinere che ha battuto a macchina il rapporto, come del resto avvenuto nei rapporti dei carabineri da me citati in un articolo riguardante la ventilata sepoltura di Emanuela nei sotterranei di Castel S. Angelo. Rapporti da me citati e da nessuno smentiti. 

In attesa degli accertamenti degli inquirenti, e sperando che il documento non sia autentico perché altrimenti le conseguenze sarebbero devastanti, dobbiamo comunque rilevare alcune cose che su alcuni particolari cambiano la narrativa dominante: 

1) – il carteggio Sica/Casaroli/monsignor Serna Alzate/e ritorno NON risulta sia mai stato trasmesso da Domenico Sica ai suoi successori nell’inchiesta Orlandi, vale a dire ai magistrati Ilario Martella, Giovanni Malerba e Adele Rando. Sica dunque o lo ha fatto sparire o lo ha trattenuto. Perché?

E’ evidente il desiderio del Vaticano di non alimentare le malelingue, in modo da proteggere l’immagine degli Orlandi e la loro pace familiare. Ercole Orlandi, padre di Natalina ed Emanuela, oltre che di Pietro, Federica e Maria Cristina, era pur sempre il postino del Papa e con la sua famiglia abitava all’interno del Vaticano. 

Tale desiderio di massima discrezione può essere stato recepito da Sica. Che dopo l’errore marchiano di Giuio Gangi pur continuando a sospettare di Mario Meneguzzi non poteva più sperare di arrivare a dimostrarne l’eventuale colevolezza. Tanto valeva chiudere a chiave da qualche parte quelle carte.

2) – Lo stesso carteggio Sica/Casaroli/monsignor Serna Alzate/e ritorno il Vaticano NON lo ha messo tra le varie carte consegnate alle autorità italiane quando ha risposto alle rogatorie. Risposte da me pubblicate nei miei libri e articoli. 

Il carteggio è stato cioè trattenuto nella Segreteria di Stato. Evidentemente per proteggere gli Orlandi e la loro pace familiare tenendoli al riparo da quanto esploso a scoppio ritardato in questi giorni grazie al fatto che il carteggio è stato fatto filtrare, a quanto mi risulta, da Piazzale Clodio. 

3) – Raul Bonarelli, sovrastante della Vigilanza Vaticana (poi confluita nella Gendarmeria), il giorno prima di essere interrogato come testimone dal magistrato Adele Rando, cioè il 13 ottobre 1993, riceve dal Vaticano una  telefonata con la quale gli viene detto “ti passo il capo”.

Il quale capo gli raccomanda di non dire  “che le cose della faccenda Orlandi sono andate alla Segreteria di Stato”. Il capo probabilmente era Camillo Cibin, responsabile della Gendarmeria, e il suo intervento è stato sugegrito da “Sua eccellenza Bertani”, vale a dire monsignor Luigi Bertani. 

Si è sempre pensato e scritto, l’ho fatto anch’io, che a Bonarelli venisse autorevolmente “consigliata” l’omertà totale per nascondere chissà quale responsabilità o colpa d’Oltretevere nella scomparsa di Emanuela. 

Oggi si può più serenemente e realisticamente pensare che non si voleva saltasse fuori il carteggio citato. E che non si voleva saltasse fuori perché si voleva invece proteggere la famiglia Orlandi. 

4) – Alla luce di quanto emerso del carteggio citato, assume ben altro aspetto la risposta che avrebbe “lasciato le cose così come si trovavano” data da monsignor Giovanni Battista Re, assessore della Segreteria di Stato, a monsignor Savero Salerno quando questi gli propose di scandagliare le proprie vaste conoscenze, anche in campo finanziario, per cercare di capire cosa potesse essere successo a Emanuela.

Non di menefreghismo da coscienza sporca o di coda di paglia si tratterebbe, ma anche in questo caso di desiderio di evitare gravi problemi agli Orlandi.

Pietro Orlandi ha sempre preteso ad alta voce che il magistrato vaticano Alessandro Diddi verificasse tutte le chiacchiere, le voci e i pettegolezzi raccolti anche di recente, compresi quelli che si riferivano a bagordi sessuali di Papa Wojtyla e “alti prelati vaticani” oltre che alla pista inglese, tanto per cambiare fasulla anche quella, che tira in ballo l’arcivescovo di Canterbury. 

Per non dire delle pretese di aprire – come avvenuto – tombe nel cimitero Teutonico vaticano perché quacuno gli aveva riferito la chiacchiera che vi era sepolta Emanuela.

Pietro Orlandi sarà quindi sicuramente felice che gli inquirenti cerchino di vederci chiaro anche in quest’ultima “chiacchiera”  del rapporto giudiziario dei carabinieri datato 30 agosto 1983.

Estratto dell’articolo di Nina Fabrizio per “il Giorno” il 19 luglio 2023.

«La pista amical-familiare è statisticamente la più diffusa ma è l’unica che in questo caso non si è voluta prendere in considerazione». A parlare è Pino Nicotri, giornalista che al caso di Emanuela Orlandi ha dedicato ben 4 volumi e le cui indagini e valutazioni sono divenute ora anche una testimonianza raccolta dal promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi, titolare dell’inchiesta vaticana voluta da papa Francesco a 40 anni di distanza dalla scomparsa della ragazza. ’Emanuela Orlandi, il rapimento che non c’è’ è il titolo del suo ultimo volume e già dice molto della pista accreditata da Nicotri.

Ne avete parlato con Diddi?

«Con Diddi […] non abbiamo parlato della cosiddetta pista dello zio, cioè riconducibile a Mario Meneguzzi, ma di altre ipotesi. Ad esempio quella legata alla partecipazione di Emanuela a un programma televisivo». 

Ci dica di più.

«Un mesetto prima di sparire Emanuela aveva partecipato alla trasmissione Tandem sulla Rai e io ho notato che era in prima fila, inquadrata spesso, è possibile che qualcuno della troupe avesse notato questa ragazza e la facesse inquadrare con una certa insistenza, da lì potrebbe essere nato qualche rapporto di conoscenza ma la cosa non è mai stata indagata. È importante invece perché ricostruendo anche le varie fasi del giorno della scomparsa il 22 giugno 1983, appare più plausibile che lei, su Corso Rinascimento, dopo aver perso l’autobus, si fosse fermata a parlare con qualcuno che conosceva». 

Quindi non un sequestro?

«Io non credo. […] Forse […] ha seguito qualcuno». 

Ipotesi che le sono valse anche una certa ostilità della famiglia.

«Io non ho mai insinuato nulla sulla moralità di Emanuela. […] Per esempio a scuola scrive un tema in cui parla degli amici che ti mollano. Spesso marinava la scuola. Forse Emanuela aveva un problema, un qualche problema che non la faceva stare bene».

Ma perché allora non indagare nel contesto a lei vicino?

«In realtà è quello che fece subito la titolare dell’inchiesta, la magistrata Margherita Gerunda, che seguì l’ipotesi dell’omicidio dopo una violenza ma fu spostata dalle indagini il 18 luglio. Lei mi disse che erano sempre stati convinti che fosse un normale caso di violenza sessuale e che però era una cosa molto brutta da dire alla famiglia così si prendevano in considerazione anche altre ipotesi. Mi disse anche che non vedeva di buon occhio lo zio Meneguzzi perché era troppo protagonista, sembrava volesse sapere come andavano le indagini. Anche il magistrato successivo Sica sospettava di lui, lo faceva pedinare». 

Proprio in questi giorni però è uscita un’intervista a un ex poliziotto che scagiona Meneguzzi.

«Anche qui molte stranezze. Io credo che il poliziotto anonimo sia Pasquale Viglione che dopo la pensione si mise a lavorare pagato per Chi l’ha visto».

Poi che successe?

«Ci fu un primo errore, privilegiare la pista bulgara legata ad Alì Agcà. Ha tenuto banco per anni, faceva comodo, c’era la guerra fredda e serviva a scatenare sdegno contro l’Unione Sovietica». 

[…] Che cosa può essere successo?

«Quando ci sono casi di abusi finiti male, soprattutto quando vittima e carnefice si conoscono, ci sono due motivi per cui si tenta di occultare tutto. Il primo naturalmente è che non si vuole essere scoperti». 

Il secondo?

«La vergogna perché hai abusato di una fiducia, ad esempio della fiducia della famiglia Orlandi, perciò si fa sparire il corpo, come fu ad esempio il caso di Wilma Montesi ritrovata sulla spiaggia di Torvajanica. Poi venne fuori che era coinvolto il figlio di un esponente di primo piano della Dc».

Mirella Gregori, "elementi nuovi". La famiglia chiede nuove indagini. Il Tempo il 18 luglio 2023

Due storie separate o unite da un solo filo rosso? Le scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori a 40 anni dai fatti sono tornate d'attualità. Di quest’ultima ragazza, svanita nel nulla il 7 maggio 1983, si è parlato a Giallo d’estate su Cusano Italia TV. Nel corso della trasmissione è intervenuta la sorella Maria Antonietta Gregori: "Per Mirella come per Emanuela Orlandi, la verità è più semplice di quanto si possa pensare o di quanto ci è stato fatto credere. La tratta delle bianche e la pedofilia nella Chiesa sono le ipotesi più probabili. Mi sogno sempre Mirella viva e che si è rifatta una vita; sogno che ha una famiglia, un marito e dei figli. Spero sia davvero così come nei miei sogni".

Il legale della famiglia Gregori, Nicodemo Gentile, ha affermato: "Stiamo lavorando in modo serio con un pool di specialisti insieme ad Antonietta Gregori, a una nuova ricostruzione di come andarono realmente le cose e stiamo per presentare in Procura a Roma un’istanza di riapertura delle indagini. Indaghiamo e chiederemo di indagare su tutte le persone, soprattutto gli amici e tutti coloro che gravitavano nella vita di Mirella; per fortuna ancora sono vivi e quindi sono persone che possono raccontare e aiutarci. Per esempio, stiamo lavorando per individuare e rintracciare un ragazzo definito ’biondino' che ricorre più volte nei racconti dei testimoni. Sarebbe uno dei due ragazzi che il 6 maggio approfittarono della festicciola al bar dei Gregori in via Volturno per guardare da vicino e fotografare Mirella come raccontò la mamma della 15enne scomparsa. E ritroviamo un ’biondino' anche nei racconti di una bidella della scuola di Mirella, l’istituto commerciale; questa bidella racconta che 4 giorni prima della scomparsa di Mirella Gregori, due ragazzi entrarono nella scuola e spacciandosi per parenti chiesero notizie di una ragazza della seconda classe, Mirella appunto. La stessa Sonia De Vito, grande amica di Mirella 

Gregori, raccontò di una confidenza fattale da Mirella in base alla quale un ’biondino' un giorno l’aveva seguita invitandola a salire in macchina. Ovviamente Mirella rifiutò".

Ci sono poi altri elementi da chiarire, su altri personaggi che hanno avuto contatti nel giorno in cui Mrella è scomparsa. "Stiamo lavorando per rimettere in discussione tutte le dichiarazioni che riguardano la giornata di Alessandro De Luca, compagno di Mirella alle medie", ma anche "la posizione di Sonia amica di  Mirella che lavorava al bar di via Nomentana sotto casa dei Gregori. D’altronde Sonia non solo è l’ultima persona ad aver visto Mirella  ma è anche l’ultima persona ad averci parlato prima della scomparsa".  "Insomma, abbiamo elementi nuovi per risolvere il giallo della scomparsa di Mirella Gregori. Io ci credo e come detto tra poco presenteremo un’istanza alla Procura di Roma per una riapertura delle indagini", spiega il legale. 

Lo Ior, Solidarnosc e lo zio ‘ricattabile’”: i misteri da non trascurare nel caso Orlandi. Il giornalista Fabrizio Peronaci evidenzia come, pur non avendo strettamente a che fare con il sequestro, lo zio di Emanuela Orlandi potesse essere "ricattabile". Angela Leucci il 18 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il buco nell’acqua della presunta pista famigliare dimostrerebbe una cosa: la scomparsa di Emanuela Orlandi è un caso intricato ed estremamente internazionale. È questo il pensiero del giornalista Fabrizio Peronaci, che ha rilasciato un’intervista in merito al Quotidiano Nazionale. E, sebbene non ci siano prove che Orlandi sia ancora viva, il giornalista non ha escluso che possa essere stata condotta all’estero e messa sotto protezione.

“Non dobbiamo cadere nell’errore di considerarla una pista - ha commentato Peronaci a proposito delle avance verbali subite da uno zio da parte della sorella della scomparsa - ma quest’ultima ‘fiammata’ va inquadrata in quello che è stato davvero il caso Orlandi, una raffinatissima operazione di intelligence tesa ad attuare un ricatto in quell’epoca orrenda che erano i primi anni ’80 dove all’ombra del Vaticano avvenivano cose gravissime come l’uccisione del banchiere Roberto Calvi o il tentato omicidio del suo vice Roberto Rosone da parte del boss della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati”.

In altre parole, Peronaci non solo appoggia la tesi consolidata in questi giorni per cui Mario Meneguzzi, zio degli Orlandi, non avrebbe avuto nessun ruolo attivo o di mandante nel rapimento della nipote Emanuela, ma più che altro insinua la possibilità che Meneguzzi fosse “ricattabile”. Secondo Peronaci il sequestro sarebbe connesso con “un ricatto su più livelli”, relativo agli esordi del caso, “quando ci furono evidenze che ci portavano a ritenere che la pista internazionale e quella economica legata allo Ior si intrecciassero”. E il rapimento sarebbe connesso anche a molteplici soggetti presuntamente implicati: dagli ambienti ecclesiastici alla criminalità organizzata, fino ai servizi segreti deviati e alla massoneria.

Nei giorni scorsi era stato sentito dal Corriere della Sera un poliziotto che aveva indagato fin dal primo momento e per 20 anni sul caso Orlandi. E sebbene il militare abbia chiarito più volte che Meneguzzi non avrebbe avuto nessun ruolo nel sequestro della nipote, eventualità comprovata dalle numerose indagini svolte sul suo conto, ha anche spiegato che lo zio avesse molte conoscenze nei servizi segreti, dato che lavorava al bar della Camera: “Aveva conoscenze, amicizie, poteva bussare a porte che alla famiglia sarebbero state invece precluse”.

"Fuori da ogni sospetto". Le rivelazioni del poliziotto sullo zio della Orlandi

Il giornalista ha evidenziato come altre giovani cittadine vaticane fossero pedinate all’epoca e l’allarme fosse stato lanciato già nel 1981, quando ci fu l’attentato a papa Giovanni Paolo II. E che Emanuela Orlandi, solo a marzo 1983, fosse diventata cittadina vaticana. “Nessuno ci ha raccontato questo cambio di cittadinanza evidentemente funzionale al fatto che da cittadina vaticana il Papa se ne sentisse coinvolto - ha chiosato il giornalista - e infatti il Papa rivolge una serie di appelli per la liberazione. Ancora: la ragazza si allontana il 22 giugno e c’è la famosa telefonata a casa in cui dice che le era stato offerto un lavoro strapagato per la Avon. È chiaro che riferiva parole in codice. Avon è l’anagramma di una fondazione pontificia, la Nova, che si occupava delle finanze vaticane e dei soldi girati a Solidarnosc. Si voleva dire, basta con tutti questi soldi in Polonia perché non sono tutti puliti”.

Cosa c’entra Solidarnosc? Questo era il nome del sindacato polacco cattolico che si oppose al comunismo e accelerò la caduta del regime a influenza sovietica - all’indomani dei fatti di Berlino (il crollo del Muro) e alla vigilia di quelli di Mosca (il cosiddetto “golpe di agosto”), all’interno della dissoluzione del Patto di Varsavia. Accadde però nel 1981 che una nube nera aleggiasse su Solidarnosc: presunti finanziamenti occulti sarebbero stati percepiti dal sindacato, provenienti dallo Ior e dal Banco Ambrosiano di Roberto Calvi, che si sarebbe suicidato - ma la sua storia è rimasta per molti versi misteriosa - un anno più tardi, quindi nel 1982.

Caso Orlandi, il giornalista-detective: "Ior e Solidarnosc dietro la scomparsa".

Le rivelazioni di Peronaci sul giallo lungo quarant’anni: "Il movente economico e quello internazionale s’intrecciano. Mai una prova che fosse viva. Non esiste una pista familiare".

Nina Fabrizio su Il Quotidiano.net. Roma, 18 luglio 2023 – “Non dobbiamo cadere nell’errore di considerarla una pista ma quest’ultima ‘fiammata’ va inquadrata in quello che è stato davvero il caso Orlandi, una raffinatissima operazione di intelligence tesa ad attuare un ricatto in quell’epoca orrenda che erano i primi anni ’80 dove all’ombra del Vaticano avvenivano cose gravissime come l’uccisione del banchiere Roberto Calvi o il tentato omicidio del suo vice Roberto Rosone da parte del boss della Banda della Magliana, Danilo Abbruciati". Nessuna ’pista familiare’ nel caso di Emanuela Orlandi dopo le ultime rivelazioni sullo zio della ragazza, Mario Meneguzzi, che avrebbe tentato approcci e avances nei confronti della sorella maggiore di Emanuela, Natalina, secondo il giornalista investigativo Fabrizio Peronaci, autore di diversi saggi sul giallo più misterioso d’Italia. Ma un elemento nuovo, "una complicazione che ci dice che lo zio fosse ricattabile e ci dà conferma di quanto fosse premeditata e sottile l’operazione che ha coinvolto Emanuela".

Peronaci, facciamo un po’ d’ordine nella ridda di ipotesi e supposizioni sul destino della ’Vatican girl’. Dove guardare?

"Al primo tempo della scomparsa della ragazza. La soluzione del caso Orlandi è in una molteplicità di moventi, un ricatto su più livelli, si può capire solo partendo fin dall’inizio dell’83, quando ci furono evidenze che ci portavano a ritenere che la pista internazionale e quella economica legata allo Ior si intrecciassero".

Quali i riscontri?

"Intanto se fosse soltanto una pista legata ad aspetti sessuali non si spiegherebbe perché anche altre ragazze vaticane, figlie di personaggi più in alto del padre di Emanuela, fossero entrate nel mirino con pedinamenti. Poi non si capirebbe perchè c’era un allarme già dei servizi segreti francesi nell’81 su possibili rapimenti. Ci fu un’azione premeditata che si spiega nel legame con l’attentato a papa Wojtyla di quell’anno. Alì Agcà finisce in galera subito, condannato a luglio all’ergastolo ma al tempo stesso comincia a ricevere in carcere esponenti dei servizi segreti che gli promettono che verrà liberato".

Che altro?

"Un altro riscontro riguarda l’atto di emigrazione della ragazza che prima era cittadina italiana. È del marzo 1983, solo tre mesi prima della scomparsa, nessuno ci ha raccontato questo cambio di cittadinanza evidentemente funzionale al fatto che da cittadina vaticana il Papa se ne sentisse coinvolto, e infatti il Papa rivolge una serie di appelli per la liberazione. Ancora: la ragazza si allontana il 22 giugno e c’è la famosa telefonata a casa in cui dice che le era stato offerto un lavoro strapagato per la Avon. È chiaro che riferiva parole in codice. Avon è l’anagramma di una fondazione pontificia, la Nova, che si occupava delle finanze vaticane e dei soldi girati a Solidarnosc. Si voleva dire, basta con tutti questi soldi in Polonia perché non sono tutti puliti".

E ad operare secondo la sua tesi sarebbe stato quello che lei ha chiamato il Ganglio, un agglomerato di soggetti dei servizi segreti deviati, massoni, pezzi di ambienti ecclesiastici e ambienti criminali?

"Proprio così. Credo che un ulteriore riscontro arrivi proprio dall’elemento ‘nuovo’ che riguarda lo zio Meneguzzi. Fu lui ad assumere il ruolo di portavoce della famiglia e a far sostituire l’avvocato che avevano preso gli Orlandi con un altro, l’avvocato Egidio, pagato dal Sisde. Perché un avvocato del Sisde quando ad esempio la famiglia di Mirella Gregori aveva un suo avvocato pagato faticosamente di tasca propria?".

Quale può essere stato il destino di Emanuela?

"È sempre mancata una prova eclatante che fosse in vita, ad esempio la classica foto con giornale. Ma possono esserci altre interpretazioni come quella che fin da subito sia stata resa irreperibile, allontanata in quanto persona da mettere sotto protezione perché l’operazione era una operazione in cui la presenza dei servizi era importante. Non mi sento di escludere una regia talmente abile da confezionare un suo trasferimento all’estero come si fa ad esempio con un pentito".

Caso Orlandi, il fratello Pietro sbotta con Dagospia: "Asserviti". La replica. Il Tempo il 16 luglio 2023

Scontro durissimo tra Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela Orlandi scomparsa ormai 40 anni fa e su cui indagano nuovamente la procura di Roma e la giustizia vaticana, e Dagospia. Il sito di Roberto D'Agostino domenica 16 luglio ha pubblicato un articolo per affermare che sarebbe ora di "dire che il Vaticano non ha mai avuto nulla a che fare con Emanuela Orlandi". Alla base del "report" c'è uno studio che spiega come tra il maggio e il giugno del 1983, ossia quando è scomparsa Emanuela,  nel perimetro di un chilometro e mezzo dalla Basilica di San Pietro sparirono altre 15 ragazze. Numero che cresce estendendo il raggio della ricerca. Il sito sottolinea come la pista della pedofilia e degli abusi in Vaticano è stata già percorsa e scartata dagli inquirenti a suo tempo. 

La reazione del fratello di Emanuela è arrivata con un post su Facebook in cui Pietro Orlandi rilancia l'articolo e commenta: "Questo è un’altro tipo di giornalismo asservito che non conosce nulla di questa storia e che non ha neanche il coraggio di firmarsi, e fa bene perché dovrebbe solo vergognarsi e nascondersi se gli rimane un briciolo di dignità".

Un attacco durissimo, che Dagospia riporta per intero non senza un contro-commento, non rinunciando al tono irriverente: "Prendiamo atto della risposta di Pietro Orlandi al Dagoreport di oggi e lo ringraziamo per averlo condiviso sul suo profilo Facebook, così da permettere una diffusione ancora più ampia dell'articolo, visto il gran numero di 'follower' che ha sui sociale - si legge sul sito - Registriamo (offese comprese) quanto scrive il fratello di Emanuela". "Abbiamo un unico appunto per Orlandi, che non riguarda tanto il merito della vicenda (per quello, bastano e avanzano il Dagoreport in questione e la mail del giornalista Pino Nicotri), quanto piuttosto l'ortografia: un altro si scrive senza apostrofo!".  

Caso Orlandi, Dagospia all'attacco: "Il Vaticano non c'entra". Spunta il report. Il Tempo il 16 luglio 2023

Non sarebbe ora di "dire che il Vaticano non ha mai avuto nulla a che fare con Emanuela Orlandi?". Ad affermarlo è Dagospia che riporta uno studio effettuato da esperti che dimostra come nel perimetro di un chilometro e mezzo dalla Basilica di San Pietro tra maggio e giugno del 1983, ossia quando è scomparsa Emanuela, sono sparite sedici ragazze, compresa la cittadina vaticana. I dati sono contenuti in uno studio dell’agenzia specializzata NeuroIntelligence, condotto dai criminologi Franco Posa e Jessica Leone su incarico dell’avvocato penalista Valter Biscotti. Se la ricerca viene estesa ai quartieri limitrofi il numero delle ragazze scomparse aumenta a 34, tutte giovani "con una età media di 15,7 anni. Nessuna è mai stata ritrovata", scrive il sito di Roberto D'Agostino.

Per Dagospia la pista della pedofilia in Vaticano, caldeggiata dalla famiglia di Emanuela Orlandi, non è concreta e quando è stata indagata, in questi 40 anni, non ha portato a nulla. "Sui giornali arrivano anche le opinioni dei poliziotti che avrebbero indagato (indagato?) sul caso, gettano accuse sulla pedofilia dei preti, e accusano il Vaticano di reticenza - si legge nel sito -  Nel 1983 la Gendarmeria Vaticana non esisteva: l’aveva abolita Paolo VI nel 1964 e sostituita con una guardiania giurata chiamata Servizio di Vigilanza Vaticana e il Tribunale esisteva solo sull’Annuario Pontificio - si legge nell'articolo - La gendarmeria rinascerà (..) anni dopo. (...) Il crimine della Orlandi è stato commesso fuori le sacre mura, e in Italia vige il principio del 'locus commissi delicti': indagano gli organi competenti sul territorio. E la Procura di Roma per tre volte ha indagato e archiviato il caso perché le ipotesi ventilate non hanno trovato alcun riscontro nei fatti".

Posizione che non piacerà ai familiari della ragazza, che in una infuocata conferenza stampa alla Stampa estera, a Roma, hanno respinto con forza la pista familiare rispuntata dopo un servizio del Tg La7 - anche questa, va detto, a suo tempo è stata valutata dagli inquirenti - e lanciato pesanti accuse al Vaticano. Sul caso è tornata a indagare la procura di Roma, così come il Promotore di giustizia vaticano mentre si attende l'istituzione della Commissione di inchiesta parlamentare dopo il via libera delle Aule. 

DAGOREPORT domenica 16 luglio 2023.

Prendete come centro la Basilica di San Pietro, tracciatevi intorno una circonferenza di un chilometro e mezzo: tra maggio e giugno del 1983, da dentro quel perimetro, sono scomparse sedici ragazze, tra le quali Emanuela Orlandi, con un'età tra i quattordici ed i diciotto anni. Nessuna di loro è mai stata ritrovata, ammesso che qualcuno le abbia cercate per davvero. 

Se appena appena si allarga il cerchio, ma neanche più di tanto, e vi si aggiunge due o tre quartieri limitrofi, dal 1982 al 1983, lo studio accerta che "nell'area geografica presa in considerazione sono stati identificati i casi salgono a 34, tutte ragazze con una età media di 15,7 anni. Nessuna è mai stata ritrovata.

I dati sono stati verificati di recente da uno studio dell’agenzia specializzata NeuroIntelligence e condotta dai criminologi Franco Posa e Jessica Leone su incarico dell’avvocato penalista Valter Biscotti. I dati sono pubblici e sono stati riportati da servizi dell'Ansa, ma i giornali hanno preferito seguire la sacra rappresentazione del “daje all’infame Vaticano” messa in scena nella sala dell’Associazione della Stampa Estera con la gentile collabo-razione dalla giornalista turca (e filo Erdogan) Esma Cakir. 

Poi sui giornali arrivano anche le opinioni dei poliziotti che avrebbero indagato (indagato?) sul caso, gettano accuse sulla pedofilia dei preti, e accusano il Vaticano di reticenza. Nel 1983 la Gendarmeria Vaticana non esisteva: l’aveva abolita Paolo VI nel 1964 e sostituita con una guardiania giurata chiamata Servizio di Vigilanza Vaticana e il Tribunale esisteva solo sull’Annuario Pontificio.

La gendarmeria rinascerà sarà ristrutturata anni dopo, quando il commendator Cibin fu sostituito dal “comandante” Domenico Giani. Il crimine della Orlandi è stato commesso fuori le sacre mura, e in Italia vige il principio del “locus commissi delicti”: indagano gli organi competenti sul territorio. 

E la Procura di Roma per tre volte ha indagato e archiviato il caso perché le ipotesi ventilate non hanno trovato alcun riscontro nei fatti. E figuriamoci se gli scalcagnati vigilantes apri portone del Vaticano avrebbero potuto fare meglio di carabinieri, polizia, servizi e magistrati italiani.

Inoltre, 1 agosto 1983 sul settimanale Panorama uscì un articolo a firma Marina Bussoletti e Bruno Ruggiero dal titolo "Emanuela e le altre" nel quale, partendo dal caso Orlandi che aveva già conquistato la ribalta mediatica, ci si soffermava sui duemila minorenni spariti in Italia, quell’anno, fino a quel momento, "in maggioranza ragazze". Sono state tutte ritrovate? Morale della storia, commissione parlamentare, famigliari, avvocati, giornalisti, amici e benefattori compresi? Quando la merda è tanta, le mosche accorrono numerose…

DAGONEWS domenica 16 luglio 2023.

Prendiamo atto della risposta di Pietro Orlandi al Dagoreport di oggi e lo ringraziamo per averlo condiviso sul suo profilo Facebook, così da permettere una diffusione ancora più ampia dell'articolo, visto il gran numero di "follower" che ha sui social. 

Registriamo (offese comprese) quanto scrive il fratello di Emanuela, la ragazza scomparsa ormai più di 30 anni fa: "Questo e’ un’altro tipo di giornalismo asservito che non conosce nulla di questa storia e che non ha neanche il coraggio di firmarsi, e fa bene perché dovrebbe solo vergognarsi e nascondersi se gli rimane un briciolo di dignità". 

Abbiamo un unico appunto per Orlandi, che non riguarda tanto il merito della vicenda (per quello, bastano e avanzano il Dagoreport in questione e la mail del giornalista Pino Nicotri), quanto piuttosto l'ortografia: un altro si scrive senza apostrofo! 

Dagospia domenica 16 luglio 2023. Riceviamo e pubblichiamo: 

Mi occupo del caso Orlandi da 22 anni, ci ho scritto quattro libri e centinaia di articoli, MAI smentito dai fatti, anzi ho demolito tutti i “supertestimoni” prima ancora dei magistrati. 

Sono perciò il giornalista che su questa brutta storia ne sa di più: ma il circo Barnum televisivo, a partire da Sciarelli, ed “esperti vari”, i veri responsabili dell’impossibilità di indagini serie, fa finta di niente…. 

La commissione parlamentare non servirà a un cazzo anche perché per “orientarsi” hanno consultato giornalisti che di palle sul caso Orlandi ne hanno sparate di enormi.

Per giunta sulla bicamerale comanderà Pietro (Orlandi), se interrogano persone a lui sgradite e se non accuseranno il Vaticano lui strepiterà a rotta di collo, seguito dal gregge di pecoroni decerebrati suoi fan. 

Questa brutta storia è un’altra Caporetto del giornalismo italiano, ridotto a chiacchiera da bar: non bastava piazza Fontana, la tragedia Moro, Ustica, ecc.

Buona domenica. 

Pino Nicotri

(ANSA il 12 luglio 2023) - "Il 19 aprile scorso i magistrati vaticani hanno consegnato riservatamente all'Italia, coperta dal segreto istruttorio, la documentazione disponibile relativa al caso, inclusa quella raccolta nei mesi precedenti nel corso dell'attività istruttoria". 

Lo afferma il direttore della sala stampa della Santa Sede, Matteo Bruni, sul caso Orlandi. "In merito alle notizie che coinvolgono un parente di Emanuela - continua -, si rileva che la corrispondenza in questione indica espressamente che non vi è stata alcuna violazione del sigillo sacramentale della Confessione".

"La Santa Sede - conclude Bruni - condivide il desiderio della famiglia di arrivare alla verità sui fatti e, a tale fine, auspica che tutte le ipotesi di indagine siano esplorate"

Estratto dell'articolo di Ferruccio Pinotti per corriere.it il 12 luglio 2023.  

Chi era il padre confessore della famiglia Orlandi che in confessionale avrebbe ricevuto le confidenze sulle presunte molestie a Natalina da parte dello zio Mario Meneguzzi, peraltro recisamente smentite o comunque ridimensionate ieri dalla famiglia in una conferenza alla Stampa estera?

Il Corriere è stato in grado di ricostruire l’identità del misterioso sacerdote colombiano che figurerebbe nelle deposizioni di Natalina e al quale molti anni fa si sarebbe rivolto il cardinale Agostino Casaroli, n. 2 del vaticano dopo Wojtyla, per avere conferme. 

Il racconto del controverso episodio relativo a Natalina figurerebbe dentro una corrispondenza segreta, datata settembre 1983 (tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela, avvenuta il 22 giugno) [...], tra l’allora segretario di Stato [...] e un sacerdote sudamericano, in seguito spedito in Colombia da Giovanni Paolo II.

[...] Casaroli pose una domanda precisa al sacerdote colombiano, scrivendogli, sostanzialmente: «È vero che in passato Natalina, sorella maggiore di Emanuela, ha dichiarato di essere stata molestata sessualmente da suo zio Mario?». 

La risposta era stata: «Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, l’aveva fatta assumere qualche tempo prima».

Il segretario di Stato vaticano Casaroli, mentre si rivolgeva al religioso in Colombia, avrebbe specificato che la richiesta di conferma su questo elemento arrivava addirittura dagli ambienti investigativi di Roma, che all’epoca vagliavano varie piste. 

[...] Ma chi era il misterioso confessore di Natalina Orlandi, il sacerdote vicino a lei, a Emanuela e alla famiglia? Si tratta di monsignor Monsignor José Luis Serna Alzate, religioso dell’Istituto missioni Maria Consolata, morto il 28 settembre 2014. Serna Alzate era nato il 17 febbraio 1936 a Aranzazú, nell’arcidiocesi di Manizales, in Colombia. 

Ed era stato ordinato sacerdote a Roma il 23 dicembre 1961. Il religioso aveva studiato Filosofia presso il Seminario dei Padri della Consolata a Torino e Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Venne ordinato sacerdote a Roma nel 1961. 

Già con l’ordinazione sacerdotale era divenuto parroco della Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia). Fu missionario itinerante a Caquetá, ispettore dell’istituto missionario della Consolata di Colombia e consigliere dello stesso istituto a Roma. Un religioso itinerante, attivo tra Roma e il Sudamerica.

[...] Come molti missionari, Serna Alzate aveva trascorso lunghi periodi a Roma, entrando in contatto con la famiglia Orlandi. A confermarlo al Corriere è lo stesso Pietro Orlandi: «Lo conoscevo benissimo, era una delle più brave persone in Vaticano». Pietro conferma quindi che monsignor Serna Alzate conosceva e frequentava la famiglia ed anche la stessa Emanuela: «Sì, alla Consolata ci aveva messo a disposizione il teatro, la sala per riunirci. 

E aveva dedicato molto tempo spazio a tutto il gruppo dei ragazzi di Sant’Anna (La Pontificia parrocchia di sant’Anna in Vaticano: una chiesa interna al vaticano, nel cui coro cantava Emanuela, ndr), sia grandi che dell’età di Emanuela. La famosa foto di Emanuela che suona il flauto è stata scattata al teatro della Consolata. In ogni caso, come già detto, siamo sicuri che lui non c'entri niente con la sparizione di Emanuela. Non serve rivangare questa cosa di Natalina perché è passata ma soprattutto non ha nessun legame con la vicenda di Emanuela».

[...] a un certo punto a monsignor Serna viene ordinato di lasciare Roma: «Fu fatto vescovo e mandato in Colombia». Monsignor Serna Alzate doveva essere figura cara a Wojtyla perché per farlo vescovo, nel 1985, il vicariato apostolico di Florencia fu elevato a diocesi con la bolla Quo expeditius di papa Giovanni Paolo II. 

Quindi il 9 dicembre 1985, al momento dell’erezione della diocesi di Florencia, Serna Alzate ne era divenuto primo vescovo. Poi l’8 luglio 1989 l’ex confessore e consigliere spirituale degli Orlandi era stato nominato primo vescovo di Líbano-Honda, diocesi creata ad hoc per lui nel 1989 sottraendone il territorio alla arcidiocesi di Ibagué. La diocesi venne eretta l’8 luglio 1989 con la bolla Ita iam hosce di papa Giovanni Paolo II, ricavandone il territorio dall’arcidiocesi di Ibagué. Il 12 luglio 2002 Serna alzate rinunciò al governo pastorale della diocesi.

[...] Le coincidenze «colombiane» nella vicenda Orlandi sono più d’una. Uno più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II è stato il cardinale colombiano Darío Castríllon Hoyos (1929-2018), a lungo prefetto vaticano della Congregazione per il clero, ritenuto da varie inchieste uno dei protagonisti attivi della politica degli insabbiamenti e della copertura degli abusi sessuali. [...]

[...] Il 13 dicembre 2022 Alì Agca, protagonista dell’attentato al papa (curiosamente previsto e annunciato tre giorni prima da un medium di Bogotà a un quotidiano colombiano) ha dichiarato al Corriere di aver incontrato in Turchia un sacerdote colombiano che gli avrebbe rivelato: «Emanuela Orlandi era un fatto tutto vaticano e lei é stata presa in consegna da alcune suore fin dall’inizio, ha compreso l’importanza del suo ruolo e lo ha accettato serenamente. So di lei soprattutto grazie a un sacerdote che mi ha visitato in Italia e anche qui a Istanbul. Un uomo, un religioso, animato da una fede autentica, che conosce i misteri del mondo e che non mente».

Estratto dell’articolo di F. Fia. per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2023.

Continuano a far rumore le rivelazioni sul possibile, e già smentito, coinvolgimento dello zio Mario Meneguzzi nella scomparsa di Emanuela Orlandi. Alla notizia data lunedì del Tg del La7 circa un precedente approccio dell’uomo con la sorella della 15enne sparita 40 anni fa, Natalina, era seguita la dura presa di posizione dei familiari della ragazza, inclusa la sorella, sul tentativo di inquinare le indagini diffondendo false rivelazioni per nascondere le (presunte) responsabilità del Vaticano. 

E ieri proprio la Santa Sede è intervenuta pubblicamente attraverso il direttore della sala stampa, Matteo Bruni: «Tutta la documentazione sul caso Orlandi è stata consegnata all’Italia il 19 aprile scorso», dice in una nota. L’intento è quello di smarcarsi dalle accuse di non collaborazione o peggio, inquinamento delle prove. Al centro della vicenda c’è la lettera che il segretario di Stato monsignor Casaroli avrebbe ricevuto dal padre spirituale della famiglia Orlandi, andato intanto in Colombia, con la conferma, avuta durante una confessione di Natalina, delle «attenzioni» da lei subite da parte dello zio. […]

«In merito alle notizie che coinvolgono un parente di Emanuela — recita ancora il comunicato vaticano — si rileva che la corrispondenza in questione indica espressamente che non vi è stata alcuna violazione del sigillo sacramentale della Confessione». 

In questa ricostruzione resta il mistero di chi abbia informato Casaroli della confessione e chi l’abbia poi veicolata ai media, trattandosi di un atto presente già nelle indagini dell’epoca. […]

Estratto dell’articolo di Fulvio Fiano per corriere.it Il 14 luglio 2023.

«Su Mario Meneguzzi ci attivammo, su nostra iniziativa autonoma, fin dalle primissime ore. Ci colpì quel suo attivismo eccessivo, i modi di fare di chi sembrava sicuro di essere più importante di un semplice zio di Emanuela Orlandi. Poi però chiarimmo tutto e capimmo anche il perché si comportasse così. Con la sparizione della nipote non ha nulla che fare». 

Chi parla è un investigatore di primo livello, oggi in pensione, che per quasi 20 anni, a partire da quel giugno 1983, ha seguito il caso della 15enne sparita nel nulla, senza che ancora oggi ci sia una pista certa, prima ancora che un colpevole, di quel fatto di cronaca tornato ancora una volta attuale con le rivelazioni su un possibile coinvolgimento del fratello della mamma.  […] 

Che tipo di attività svolgeste su di lui?

«Intanto va chiarito che l’iniziativa fu nostra e che mai la procura ci trasmise il verbale dell’interrogatorio in cui Natalina riferì di quelle molestie, né fummo noi a informare monsignor Casaroli della confessione da lei resa al suo padre spirituale. Come dicevo, saltava all’occhio il suo darsi così da fare, il tenere i contatti con l’esterno e con i presunti rapitori. Lo seguimmo, ispezionammo anche casa sua, ma la pista tramontò presto». […] 

Che cosa intende?

«Che lavorando al bar della Camera, avendo amici nei servizi segreti, era normale che anche la famiglia lo investisse del ruolo di risolutore di quella situazione così drammatica. Aveva conoscenze, amicizie, poteva bussare a porte che alla famiglia sarebbero state invece precluse. Ripeto, si rivelò al di sopra di ogni sospetto». […] 

Chiedeste anche voi aiuto o collaborazione nelle indagini?

«No, ma sapevamo che poteva rivelarsi utile data la piega che prese il caso». 

Si riferisce ai presunti o possibili intrighi internazionali?

«Sì, tutto va rapportato al clima dell’epoca. Pensi al presunto coinvolgimento di Alì Agca. A noi era chiaro fin da subito che fosse una bufala, una pista rilanciata da qualcuno che aveva interesse a confondere le acque. Però d’altro canto era impossibile tralasciarla e ci ha fatto perdere un sacco di tempo». 

Meneguzzi era vicino anche all’avvocato Egidio, altra figura assai discussa, vicina ai servizi segreti.

«Diciamo che forse la professione legale non era la sua attività principale. Ufficialmente gestiva un centro di studi internazionali, era console onorario dell’Oman». 

Pietro Orlandi non ha dubbi sul fatto che sia emerso oggi questo aspetto dell’indagine: un depistaggio per salvare il Vaticano dalle sue responsabilità. Che ne pensa?

«Che forse ha ragione, anche se l’ipotesi del coinvolgimento di una persona vicina a Emanuela può avere una sua logica. Pietro fa bene a invocare la commissione parlamentare, ma non credo che questa porterà a risultati concreti». 

A tanti anni di distanza e a mistero irrisolto, che idea le è rimasta del caso?

«Tra tutte le tantissime piste prese in considerazione e seguite, la più probabile, anche se non dimostrata, resta quella di una sovrapposizione tra un caso di pedofilia interna al Vaticano e un inserimento di soggetti esterni che hanno provato a usare il caso a loro vantaggio. Penso alla banda della Magliana e al tentativo di riavere somme di denaro dal cardinale Marcinkus. Qualcosa di simile a quanto accaduto con Calvi».

Caso Orlandi, svelato il sacerdote che raccolse le confidenze della sorella di Emanuela. Per lui il Papa creò una diocesi ad hoc in Colombia. Storia di Ferruccio Pinotti su Corriere della Sera il 12 luglio 2023.

Chi era il da parte dello zio Mario Meneguzzi, peraltro recisamente smentite o comunque ridimensionate ieri dalla famiglia in una conferenza alla Stampa estera? Il Corriere è stato in grado di ricostruire l’identità del misterioso sacerdote colombiano che figurerebbe nelle deposizioni di Natalina e al quale molti anni fa si sarebbe rivolto il cardinale Agostino Casaroli, n. 2 del vaticano dopo Wojtyla, per avere conferme. Il racconto del controverso episodio relativo a Natalina figurerebbe dentro una corrispondenza segreta, datata settembre 1983 (tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela, avvenuta il 22 giugno) ‘83, tra l’allora segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli e un sacerdote sudamericano, in seguito spedito in Colombia da Giovanni Paolo II. L’incartamento porta alla luce uno scambio di posta diplomatica tra la Santa sede e Bogotà, suggerendo nuovi elementi investigativi. Il sacerdote in Colombia, infatti, non era un religioso qualsiasi: era stato, e pure per lungo tempo, il consigliere spirituale, nonché il confessore, della famiglia Orlandi.

Il segretario di Stato

Casaroli pose una domanda precisa al sacerdote colombiano, scrivendogli, sostanzialmente: «È vero che in passato Natalina, sorella maggiore di Emanuela, ha dichiarato di essere stata molestata sessualmente da suo zio Mario?». La risposta era stata: «Sì, è vero,Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, l’aveva fatta assumere qualche tempo prima». Il segretario di Stato vaticano Casaroli, mentre si rivolgeva al religioso in Colombia, avrebbe specificato che la richiesta di conferma su questo elemento arrivava addirittura dagli ambienti investigativi di Roma, che all’epoca vagliavano varie piste.

Ma chi era il misterioso confessore di Natalina Orlandi, il sacerdote vicino a lei, a Emanuela e alla famiglia? Si tratta di monsignor Monsignor José Luis Serna Alzate, religioso dell’Istituto missioni Maria Consolata, morto il 28 settembre 2014. Serna Alzate era nato il 17 febbraio 1936 a Aranzazú, nell’arcidiocesi di Manizales, in Colombia. Ed era stato ordinato sacerdote a Roma il 23 dicembre 1961. Il religioso aveva studiato Filosofia presso il Seminario dei Padri della Consolata a Torino e Teologia presso la Pontificia Università Urbaniana di Roma. Venne ordinato sacerdote a Roma nel 1961. Già con l’ordinazione sacerdotale era divenuto parroco della Cattedrale di Florencia (Caquetá, Colombia). Fu missionario itinerante a Caquetá, ispettore dell’istituto missionario della Consolata di Colombia e consigliere dello stesso istituto a Roma. Un religioso itinerante, attivo tra Roma e il Sudamerica.

Come molti missionari, Serna Alzate aveva trascorso lunghi periodi a Roma, entrando in contatto con la famiglia Orlandi. A confermarlo al Corriere è lo stesso Pietro Orlandi: «Lo conoscevo benissimo, era una delle più brave persone in Vaticano». Pietro conferma quindi che monsignor Serna Alzate conosceva e frequentava la famiglia ed anche la stessa Emanuela: «Sì, alla Consolata ci aveva messo a disposizione il teatro, la sala per riunirci. E aveva dedicato molto tempo spazio a tutto il gruppo dei ragazzi di Sant’Anna (La Pontificia parrocchia di sant’Anna in Vaticano: una chiesa interna al vaticano, nel cui coro cantava Emanuela, ndr), sia grandi che dell’età di Emanuela. La famosa foto di Emanuela che suona il flauto è stata scattata al teatro della Consolata. In ogni caso, come già detto, siamo sicuri che lui non c'entri niente con la sparizione di Emanuela. Non serve rivangare questa cosa di Natalina perché è passata ma soprattutto non ha nessun legame con la vicenda di Emanuela».

La diocesi creata ad hoc per nominarlo vescovo

Come conferma Pietro Orlandi, a un certo punto a monsignor Serna viene ordinato di lasciare Roma: «Fu fatto vescovo e mandato in Colombia». Monsignor Serna Alzate doveva essere figura cara a Wojtyla perché per farlo vescovo, nel 1985, il vicariato apostolico di Florencia fu elevato a diocesi con la bolla Quo expeditius di papa Giovanni Paolo II. Quindi il 9 dicembre 1985, al momento dell’erezione della diocesi di Florencia, Serna Alzate ne era divenuto primo vescovo. Poi l’8 luglio 1989 l’ex confessore e consigliere spirituale degli Orlandi era stato nominato primo vescovo di Líbano-Honda, diocesi creata ad hoc per lui nel 1989 sottraendone il territorio alla arcidiocesi di Ibagué. La diocesi venne eretta l’8 luglio 1989 con la bolla Ita iam hosce di papa Giovanni Paolo II, ricavandone il territorio dall’arcidiocesi di Ibagué. Il 12 luglio 2002 Serna alzate rinunciò al governo pastorale della diocesi.

Coincidenze colombiane

Le coincidenze «colombiane» nella vicenda Orlandi sono più d’una. Uno più stretti collaboratori di Giovanni Paolo II è stato il cardinale colombiano Darío Castríllon Hoyos (1929-2018), a lungo prefetto vaticano della Congregazione per il clero, ritenuto da varie inchieste uno dei protagonisti attivi della politica degli insabbiamenti e della copertura degli abusi sessuali. Nel 2001 il cardinale colombiano si congratulò con il vescovo di Bayeux Pierre Pican per non aver informato la polizia di un prete che aveva commesso abusi sessuali su minori. Il sacerdote in questione venne successivamente condannato a 18 anni di carcere.

Rivelazioni controverse

Il 13 dicembre 2022 Alì Agca, protagonista dell’attentato al papa (curiosamente previsto e annunciato tre giorni prima da un medium di Bogotà a un quotidiano colombiano) ha dichiarato al di aver incontrato in Turchia un sacerdote colombiano che gli avrebbe rivelato: «Emanuela Orlandi era un fatto tutto vaticano e lei é stata presa in consegna da alcune suore fin dall’inizio, ha compreso l’importanza del suo ruolo e lo ha accettato serenamente. So di lei soprattutto grazie a un sacerdote che mi ha visitato in Italia e anche qui a Istanbul. Un uomo, un religioso, animato da una fede autentica, che conosce i misteri del mondo e che non mente».

Emanuela Orlandi, chi era davvero "zio Mario": da sospettato a mediatore. Claudia Osmetti su Libero Quotidiano il 12 luglio 2023

I capelli corti, le labbra sottili, sempre a fianco di papà Ercole. «La mia bambina... Mi dica, sta bene?». La voce strozzata dello zio Mario, cioè di Mario Meneguzzi, al telefono, in quei giorni maledetti, quei giorni là, quelli del 1983, subito dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, quando non si sa niente, quando sobbalzano tutti, al primo trillo, in quell’appartamento in piazzetta Sant’Egidio, a ridosso del palazzo Apostolico, a Roma. Perché dall’altro lato del filo ci potrebbero essere i rapitori, potrebbero dare novità sulla “ragazza con la fascetta”. È lui, è lo zio Mario, che risponde, fisicamente, per primo, a quelle chiamate. In almeno un’occasione si “spaccia” per papà Ercole: «Mi dica almeno come sta».

Stacco, come in un film (anche se questo non è un film, nonostante il tentativo di Netflix di farne una miniserie, è uno dei misteri più intricati, nascosti, impenetrabili della storia d’Italia): giorni nostri, 2023. Quarant’anni dopo. Meneguzzi non c’è più, è morto qualche anno fa. Però si riapre il caso di Emanuela, non tanto nelle aule della giustizia (anche se impegnati sul faldone ci sono sia la Santa Sede che la Camera dei deputati che vota l’istituzione di una commissione parlamentare per far luce sulla vicenda), quanto in quelle mediatiche. Ed eccolo lì, che riaffiora come uno scoglio, il nome di Mario Meneguzzi. Torna nel carteggio (riservato ma finito negli atti della prima inchiesta, segreto ma di cui oramai si sa praticamente tutto) tra l’allora segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli e il confessore della famiglia Orlandi che agli inizi degli anni Ottanta presta servizio in Colombia, ossia in Sudamerica: il riferimento è a presunte molestie sessuali che avrebbe subito Natalina Orlandi, una delle sorelle di Emanuele, e che vedrebbero coinvolto proprio lo zio Mario. “Sono vere quelle accuse?”, chiede Casaroli. “Sì”, risponde il prete. “È stata la procura di Roma a sollecitare questa conferma”.

Allora la magistratura sa, allora non è la prima volta che il nome di Menguzzi fa capolino in questa inchiesta. No, non lo è. E infatti lui, Menguzzi, lo dice una, due, tutte le volte che glielo chiedono, gli inquirenti e gli investigatori: non-ero-neanche-a-Roma-quel-giorno. Era a Borgorose, aggiunge, e più precisamente nella frazionicina di Torano, che oggi fa meno di 700 abitanti, in provincia di Rieti: non dovrebbe essere complesso, in un posto così piccolo, trovare un riscontro. E forse quello. Oppure forse ci si mette papa Wojtyla che il 3 luglio di quel nerissimo 1983, neanche due settimane dopo la scomparsa di Emanuela, ufficializza per la prima volta l’ipotesi del sequestro. Lo fa pubblicamente, dalla finestra di San Pietro, di domenica, all’Angelus. E poi, in privato, alla presenza di pochi ma non conta, è pur sempre un pontefice, il papa che diventerà santo, Giovanni Paolo II, fa intendere che dietro ci potrebbe essere la pista del terrorismo. «Cari Orlandi», ribadisce la sera della viglia di Natale di quello stesso anno, uscendo dalla casa della famiglia, «voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è uncaso di terrorismo internazionale».

Tanto basta, dello zio Mario non si interessa (quasi) più nessuno. Non lo segue più nessuna macchina «con la targa coperta», come la definisce Giulio Gangi, un agente del Sisde (i servizi segreti) che si è preso una cotta per sua figlia Monica: sta guidando sul litorale romano, in quei primi mesi, Meneguzzi e capisce che ha qualcuno alle calcagna. Allora chiede aiuto e Gangi lo rassicura: una «targa coperta» è un nome in codice per un’auto della Squadra mobile. Un colpo di fortuna che, neanche un anno prima, la figlia abbia fatto entrare in famiglia quel ragazzotto un po’ timoroso, conosciuto in vacanza, che guarda il caso fa l’agente per i servizi segreti? Un altro colpo di fortuna che gli Orlando danno retta subito allo zio Mario quando suggerisce di nominare come avvocato Gennaro Egidio, pure lui una figura considerata vicino al Sisde? «Lo ritengo più adatto in questo genere di cose», si giustifica Meneguzzi: ma “quali cose” visto che di ufficiale non c’è nulla, di chiarito neanche? Il Corriere della Sera sostiene, oggi, che siano addirittura gli stessi rapitori a chiedere che sia lo zio Mario a tenere i rapporti sia con le autorità che con la stampa e che la prima telefonata di contatto non abbia squillato a casa Orlandi. Ma a quella Meneguzzi. 

«Contro la famiglia Orlandi bassa macelleria mediatica». Parla Laura Sgrò, avvocata della famiglia della ragazza scomparsa nel 1983. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 luglio 2023

«Bassa macelleria!», Laura Sgrò, avvocata della famiglia Orlandi, commenta senza peli sulla lingua lo “scoop” de La7 che getta odiosi sospetti su Mario Meneguzzi, zio di Emanuela, peraltro deceduto da tempo. Il telegiornale di Enrico Mentana cita infatti un carteggio del settembre 1983 (tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela) tra l’allora segretario di Stato vaticano Agostino Casaroli e un sacerdote sudamericano confessore spirituale di Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, in cui Meneguzzi viene addirittura accusato di molestie sessuali nei confronti di Natalina che all’epoca aveva 21 anni. Peccato che nessuno abbia tentato di contattare la diretta interessata per chiederle di confermare le accuse, magari per paure che smontasse l’imbarazzante servizio giornalistico come poi ha fatto in conferenza stampa il giorno successivo. Una gogna post-mortem, quella riservata a Meneguzzi che, oltre a riempire di dolore e di indignazione gli Orlandi, ottiene l’effetto di portare le indagini sulla sparizione di Emanuela ancora una volta lontane dalle mura del Vaticano.

Avvocata Sgrò, come ha fatto La7 a conoscere il contenuto della lettera?

Non ne ho davvero la minima idea, dovrebbe chiederlo innanzitutto a Mentana. Quello che le posso dire con certezza è che una lettera inviata al segretario di stato appartieneper definizione alla segreteria di Stato. Dal servizio andato in onda si evince che sia stata trasmessa anche alla procura di Roma. Per cui o è stato qualcuno da una parte, o è stato qualcuno dall’altra, tertium non datur. Natalina Orlandi ne era a conoscenza dal 2017 ma nessuno di noi è stato informato della transito della missiva alla redazione de La7 e alla procura romana.

Si trattava oltretutto di una confessione spirituale, in teoria protetta dal segreto.

Guardi, la confessione spirituale è vincolata dal segreto come la confessione religiosa ufficiale. Lo dice esplicitamente anche Papa Francesco per il quale anche l’atto della direzione spirituale domanda una segretezza analoga a quella del sacramento della confessione.

Di fronte a questa violenza mediatica reazione degli Orlandi è stata pronta.

Sono state ventilate delle accuse gravissime su un uomo che è morto e che non si può difendere, è stata messa in discussione l’indagine condotta da un bravo magistrato che oggi non c’è più come Domenico Sica, è stata sbattuta in piazza la vita privata di una persona come Natalina Orlandi, per una vicenda delicatissima, senza concederle il minimo diritto di replica. Si è fatta macelleria della vita privata delle persone.

Perché Natalina non è stata contattata?

Il nostro numero lo hanno tutti, per la redazione de La7, che ci ha già chiamato decine di volte, sarebbe stato facilissimo informarci, per una questione di etica e di buon gusto. L’operazione è stata talmente brutale che abbiamo dovuto indire subito una conferenza stampa per smentire quelle illazioni, un comunicato non sarebbe bastato. Le assicuro che l’indignazione della famiglia è stata immensa, Pietro Orlandi era furioso e lo era naturalmente anche Natalina anche se il suo primo pensiero non era rivolto a tutelare se stessa ma a proteggere la zia e i cugini che nulla sapevano di quegli atti inopportuni, anche se nei confronti Natalina non ci sono mai state molestie sessuali come dicono i media ma solo attenzioni e regali e tutto è durato molto poco.

E il Vaticano in tutto questo che ruolo ha svolto?

Stiamo parlando di una lettera del Segretario di Stato, è dal 2017 che faccio istanze per avere copia della documentazione ma non ho ancora ricevuto nulla. Non stiamo parlando di carte impolverate e oscure, spuntate fuori all’improvviso ma di documenti che da sei anni sono nella piena disponibilità di chi esercita il governo in Vaticano

Come mai si è attivato questo tritacarne mediatico?

Bisognerebbe chiederlo a quelle “manine” che hanno deciso di far trapelare la lettera dopo tutti questi anni, passata dalle mani vaticane a quelle di Mentana. Non ho risposte certe però mi pongo una domanda: per quali motivi nel 1983 nessuno ha portato la lettera sul tavolo del dottor Sica?

Il caso della 15enne scomparsa 40 anni fa. Emanuela Orlandi, la favola satanica su Papa Wojtyla pedofilo e assassino e la “furia” politica del fratello Pietro. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 12 Luglio 2023 

C’è qualcosa di molto innaturale, illogico e allarmante negli atteggiamenti furiosi e oltraggiosi che si registrano quando emergono nuovi fatti o nuove ipotesi sulla scomparsa nel 1983 della quindicenne Emanuela Orlandi che non vadano d’accordo con una orribile vulgata, nata senza alcuna prova che ha uno scopo evidentissimo: distruggere l’immagine storica del Papa polacco Karol Wojtyla, Giovanni Paolo II, il vero autore attraverso il sindacato Solidarnosc e il suo leader Lech Walesa del collasso del sistema sovietico e della caduta dell’impero di Mosca. Una generazione è scomparsa, una nuova e inconsapevole viene nutrita con una favola satanica: quella secondo cui il Papa fu il seduttore pedofilo e il mandante della soppressione di Emanuela Orlandi.

Da Presidente di una commessione d’inchiesta riaprii nel 2005 l’indagine sull’attentato al Papa dell’11 maggio del 1981, realizzato dal killer turco Mehmet Alì Agca, che fu arrestato e rivelò la trama ordita dai Sevizi Segreti bulgari per conto dei servizi segreti militari sovietici. Poi, dopo il rapimento di Emanuela, si rimangiò tutto dichiarandosi «Gesù Cristo tornato sulla terra». Dalla prigione turca con una lettera pubblicata da Repubblica chiese di aiutarlo a uscire dal carcere turco offrendo la liberazione della Orlandi. Scarcerato, nel 2010 invitò Pietro Orlandi ad un incontro segreto che attrasse l’attenzione di tutti i Servizi Segreti perché fu stabilita la strategia per diffamare la memoria stessa del Papa polacco per distruggere la sua immagine politica antisovietica. Da allora, il fratello di Emanuela è diventato il più acceso accusatore del Papa polacco ottenendo la massima visibilità mediatica.

A questo punto il Vaticano ha riaperto un dossier già inviato alla procura di Roma su uno zio di Emanuela, Mario Menguzzo, il quale avrebbe molestato Natalina Orlandi (sorella maggiore di Emanuela). Questo zio, morto da tempo, si improvvisò gestore delle telefonate con i rapitori della nipote, di cui non disse nulla. Così, si apprende che il Papa polacco aveva preso talmente a cuore la tragedia degli Orlandi da far intervenire il Segretario di Stato, monsignor Casasoli, per chiedere notizie all’ex confessore della famiglia Orlandi che confermò che Natalina era terrorizzata dagli agguati dello zio. E fin qui siamo nella cronaca.

Ma poi c’è un punto che non è di cronaca ma politico e riguarda la «furia» espressa da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, il quale insorge, con grande amplificazione mediatica, ogni volta che emerge un fatto, un indizio, un ricordo che scardina la tesi – del tutto politica e sostenuta da alcuna prova – delle mostruose responsabilità dell’uomo che dalla sede apostolica mise in crisi e fece crollare il sistema sovietico in Europa molto prima del simbolico «muro di Berlino». Ali Agca nel frattempo, invocando il Terzo segreto di Fatima (cosa che gli capita spesso), ha definito «assolute sciocchezze» tutte le voci su un Papa pedofilo e assassino che va molto di moda nel vasto partito filorusso, che non ha mai mandato giù il Papa polacco.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Emanuela Orlandi, i fratelli smontano la pista dello zio: "In Vaticano sanno cos'è successo". Il Tempo l'11 luglio 2023

Le nuove rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi rilanciate dal Tg La7 sono al centro di una conferenza stampa di Pietro e Natalina, fratello e sorella della ragazza cittadina vaticana scomparsa 40 anni fa. E la "pista" che porta a ""zio Mario", e dunque alla sfera familiare, provoca la loro reazione sdegnata. "La verità fa male a qualcuno, e non può essere quella di mio zio, che può far male solo alla famiglia. In Vaticano sanno cos’è successo, lo sapeva Wojtyla, lo sapeva Ratzinger e forse probabilmente lo sa anche Francesco", ha detto  Pietro Orlandi a margine della conferenza stampa dopo il servizio del tg diretto da Enrico Mentana. Non credo che Diddi (il promotore di giustizia vaticano che indaga sul caso, così come la procura di Roma, ndr) avrebbe mai il coraggio, la personalità e la responsabilità di prendere iniziative personali. C’è qualcuno dietro a Diddi che non vuole questa commissione parlamentare e che non vuole arrivare alla verità" ha aggiunto sulla commissione parlamentare d'inchiesta che dovrebbe essere istituita a breve dopo l'ultimo via libera. 

Riguardo alla pista emersa ieri, prende le mosse da una lettera del Segretario di Stato Vaticano Agostino Casaroli, tre mesi dopo la scomparsa della ragazza,  a un sacerdote sudamericano inviato in Colombia da Giovanni Paolo II:  dal carteggio emerge che in passato la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, ha rivelato di essere stata molestata sessualmente dallo zio Mario. "Da parte di mio zio è stato un approccio quasi infantile da ragazzi, è stata una cosa molto semplice. Non c’è stato mai un rapporto fisico. Mi sono sentita a disagio, non è stata una situazione piacevole. Mi ha fatto capire con delle parole il suo interesse e io ho fatto capire che non ne avevo. È finita là", ha spiegato Natalina Orlandi. "Non mi è piaciuto il modo in cui è uscita questa notizia. Mia zia ha 90 anni e miei cugini non sapevano niente", ha spiegato sottolineando che di questo "si sapeva già in Vaticano e in procura a Roma".

Inoltre Mario Meneguzzi, lo zio di Emanuela, era fuori Roma con la famiglia il giorno della scomparsa, ha ribadito Pietro Orlandi incontrando i giornalisti presso la sede dell’Associazione della stampa estera: "Non ho prove documentali al riguardo ma ho chiaro il ricordo di mio padre che, non vedendo rincasare Emanuela, chiamò il fratello Mario al telefono fisso, all’epoca non esistevano i cellulari, di una casa dalle parti di Borgorose nel Reatino. Zio era in vacanza con la moglie e i figli".  "Vorrei incontrare Papa Francesco privatamente per dirgli delle carogne che gli girano intorno", ha tuonato infine il fratello di Emanuela. 

La furia del fratello Pietro. Chi era lo zio di Emanuela Orlandi, Mario Meneguzzi, accusato di molestie: “Fango, scaricano tutto sulla famiglia”. Fratello di Lucia Orlandi, cognato di Ercole Orlandi, gestì la comunicazione via telefono dopo la scomparsa della 15enne. La furia di Pietro Orlandi, che organizza una conferenza stampa: "Di questa vicenda si era già occupata la magistratura italiana nei primi anni Ottanta senza arrivare ad alcun esito". Redazione Web su L'Unità l'11 Luglio 2023

Mario Meneguzzi era titolare della caffetteria di Montecitorio. Era padre di tre figli, Pietro, Giorgio e Monica ed era marito di Lucia Orlandi, cognato di Ercole Orlandi, il padre di Emanuela. Quando la ragazzina, protagonista di uno dei casi più torbidi e clamorosi nella storia italiana degli ultimi anni, sparì nel giugno 1983, gli venne assegnato dai genitori dell’adolescente il compito di gestire i rapporti con l’esterno, con i giornali e i presunti rapitori. Lo zio dell’adolescente scomparsa è il protagonista cui porta l’ultima pista battuta sul mistero della ragazza scomparsa a Roma.

Le accuse sono state rilanciate dalla Santa Sede da un carteggio del settembre 1983 ripescato in Vaticano in cui si leggeva che l’allora Segretario di Stato Casaroli aveva chiesto a un sacerdote inviato in Colombia da Papa Wojtyla delle informazioni. Quel sacerdote era stato confessore degli Orlandi e confessore di Natalina, sorella maggiore di Emanuela. Il Segretario chiedeva una conferma sugli abusi sessuali subiti da quest’ultima da parte dello zio Mario. “Sì, è vero —la risposta da Bogotà — , Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima”.

Nessuna prova. Meneguzzi fu anche pedinato dagli investigatori. Era stato lui a intrattenere i rapporti con “Mario”, “Pierluigi” e l’“Americano”, gli interlocutori che telefonavano a casa Orlandi. Finse di essere il padre della ragazza. Era considerato molto vicino ai servizi segreti italiani, in particolare ad agenti del Sisde. Ercole Orlandi avrebbe dichiarato in un’intervista al Corriere della Sera nel 2001 che a rapire la figlia erano stati proprio “i servizi segreti”. Già dal fascicolo d’inchiesta originario risaltava lo stupore di chi indagava nel raffronto tra il volto di Mario Meneguzzi e l’identikit tracciato dal vigile e dal poliziotto che raccontarono di aver visto, la sera della scomparsa, un uomo che parlava con la 15enne appena uscita dalla scuola di musica. Raffronto mai raccontato dai fatti – Pietro Orlandi ha già raccontato che quel giorno, il giorno della scomparsa, lo zio non era a Roma.

La Procura capitolina guidata da Francesco Lo Voi si concentrerà anche sul motivo per il quale quell’episodio non venne evidentemente valorizzato abbastanza dalle indagini precedenti. Ma per il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro Orlandi, la pista è vecchia, già battuta. “Sono arrabbiato, furioso. Hanno passato il limite come non mai e con l’avvocato Sgrò sto organizzando una conferenza stampa. Non possono scaricare le responsabilità di tutto su una famiglia”. Pietro Orlandi ha organizzato una conferenza stampa per oggi pomeriggio alle 16:00 presso la sede della Stampa Estera.

“Non pensano ai parenti, ai figli? No, questa carognata non può passare così. Nessuno ha chiamato né me, né mia sorella, né i figli di mio zio. Non siamo stati chiamati dalla Procura di Roma da nessuno. Mi auguro che questa commissione parlamentare parta e svergogni chi oggi miserabilmente ci ha infangato. Di questa vicenda si era già occupata la magistratura italiana nei primi anni Ottanta senza arrivare ad alcun esito. Spero che queste non siano le uniche carte, che non sono affatto una novità, che la procura Vaticana ha inviato alla procura di Roma”. Mario Meneguzzi è morto, non può certo difendersi.

Redazione Web 11 Luglio 2023

Estratto dell’articolo di Fabrizio Peronaci per corriere.it l'11 luglio 2023.

«La mia bambina, mi dica... Sta bene?» Adesso che i ruoli si sono per certi versi capovolti, e il portavoce della famiglia Orlandi, quello «zio Mario» che tanti si chiedevano perché avesse avuto l'incarico di rispondere al telefono, è stato chiamato in causa nella vicenda, il giallo di Emanuela Orlandi va letto da un angolo visuale nuovo. Il fratello Pietro, in vista della conferenza stampa indetta per ribattere al "fango", ha tuonato: «Sono furioso, vogliono scaricare la responsabilità sulla famiglia». 

I collegamenti tra le presunte molestie dello zio in famiglia e la scomparsa di Emanuela, in effetti, per ora non ci sono. […] Ma le domande restano e inquietano l'Italia, dopo 40 anni in attesa della verità. Chi era davvero Mario Meneguzzi, cognato di Ercole, il papà di Emanuela? Hanno fondamento le accuse di abusi da parte dello zio paterno (sua moglie Lucia era sorella del messo pontificio) a Natalina, la prima delle sorelle Orlandi, di cui c'è traccia negli atti della prima inchiesta?

Perché tali voci, "silenziate" per 40 anni, adesso sono state rilanciate dalla Santa Sede, grazie alla lettera ripescata in Vaticano in cui l'allora Segretario di Stato Casaroli chiese al confessore di Natalina conferma degli abusi? Si tratta forse di una "rivalsa" seguita alle accuse di Pietro Orlandi a Giovanni Paolo II di tre mesi fa? 

Le prime risposte non possono che venire da una maggiore conoscenza del personaggio. Mario Meneguzzi, defunto da molti anni, padre di tre figli, Pietro, Giorgio e Monica, all'epoca era direttore della caffetteria di Montecitorio: a partire dal 22 giugno 1983 diventò famoso per l'incarico che gli fu affidato dai genitori di Emanuela di gestire lui i rapporti con l'esterno, giornali e soprattutto i rapitori della quindicenne.

In un primo tempo fu anche oggetto di "attenzioni" degli investigatori e ripetutamente pedinato, da Roma alla casa al mare a Santa Marinella, nell'ambito della "pista familiare", poi lasciata cadere. Nella ventina di conversazioni con i sequestratori registrate dalla polizia, oltre all'avvocato Gennaro Egidio, compare quasi sempre Meneguzzi  che parla sia con il sedicente "Mario", il secondo telefonista apparso sulla scena dopo "Pierluigi" il 28 giugno 1983 (la cui voce somiglia molto a quella di Marco Accetti) sia con il cosiddetto "Amerikano". 

Mario Meneguzzi parlando con i suoi interlocutori all'inizio finse di essere il papà, Ercole, e i milioni di appassionati al caso della "ragazza con la fascetta" adesso hanno nelle orecchie la domanda sulla "sua bambina" rivolta con voce strozzata («Mi dica almeno come sta! Sta bene?»). 

Perché dunque il cognato scelto portavoce?  È una domanda che a questo punto assume rilievo. Forse perché era ricattabile? Ercole Orlandi chiarì subito di non essere nella condizione emotiva di "reggere" al peso della comunicazione esterna, ma un mese dopo (intervista al Corriere del 26 luglio 1983) fu lo stesso Meneguzzi a chiarire il suo ruolo e anche qualcosa di più: «Sono stato io a nominare l'avvocato Gennaro Egidio, perché lo ritengo più adatto in questo genere di cose», dichiarò.

Egidio, legale che aveva già trattati affari legati ad ambienti ecclesiastici, era considerato molto vicino ai servizi segreti italiani, tanto che a proporlo, secondo quel che si era saputo finora, era stato uno degli agenti del Sisde presenti in casa Orlandi all'indomani della scomparsa. Ma a quale "genere di cose" alludeva Meneguzzi? 

Lo zio aveva forse contezza già nella primissima fase della partecipazione degli apparati di sicurezza all'operazione compiuta sulla pelle di sua nipote? Di certo papà Ercole, molti anni dopo, in prossimità della morte, dichiarò testualmente in una delle poche interviste concesse (Corriere, 13 maggio 2001) che a rapire sua figlia «erano stati i servizi segreti».

Sempre legato alle "barbe finte", va considerato un altro tassello: Giulio Gangi, il giovane agente del Sisde morto lo scorso anno, si presentò a casa Orlandi due giorni dopo e sostenne di essersi attivato per la sua amicizia con Monica Meneguzzi, la giovane figlia di Mario conosciuta l'estate precedente in un paesino in provincia di Rieti, di cui si era invaghito. La conoscenza riguardava anche il padre? 

E c'è dell'altro. Secondo recenti rivelazioni pervenute all'autore di questo articolo, furono gli stessi rapitori, la sera del mancato ritorno a casa di Emanuela, a chiedere che i rapporti con la stampa e le autorità venissero affidati allo zio, con uno scopo preciso: sincerarsi che la famiglia avesse preso sul serio l’accaduto, vale a dire che il rapimento era «a scopo di ricatto».

Dare immediato seguito alla richiesta su chi dovesse essere il portavoce, in altri termini, sarebbe stato il primo atto di un braccio di ferro con la famiglia poi andato avanti per oltre due anni. E, a questo proposito, va segnalata anche un'altra indiscrezione proveniente da fonte investigativa, finora non rivelata: la prima telefonata alla famiglia Orlandi sarebbe pervenuta in realtà non il 25 giugno (con "Pierluigi") ma già la sera del 22, non ai genitori di Emanuela bensì a casa dello stesso Meneguzzi. Un ragazzo avrebbe chiesto di parlare con Monica, la figlia, alla quale sarebbe stato detto che Emanuela stava bene e che doveva essere il padre a fare il primo appello. 

Emanuela Orlandi, la clamorosa rivelazione sulla pista familiare e lo “zio Mario”. Christian Campigli su Il Tempo il 10 luglio 2023

Uno dei più contorti ed intricati casi italiani. Un mistero lungo quasi mezzo secolo. E un'inchiesta che potrebbe aprire a nuove, clamorose prospettive. Sono passati tre mesi dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, quando, in modo assolutamente segreto, Il Segretario di Stato Vaticano Agostino Casaroli scrive un messaggio per posta diplomatica a un sacerdote sudamericano inviato in Colombia da Giovanni Paolo II. Secondo l'inchiesta esclusiva del Tg La7, il carteggio potrebbe spostare, completamente, la prospettiva della scomparsa della Orlandi. Il religioso a cui è destinata la lettera è stato a lungo consigliere spirituale e confessore della famiglia di Emanuela. E infatti la domanda esplicitata nel messaggio è molto diretta: Casaroli gli chiede se è vero che in passato la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, gli ha rivelato di essere stata molestata sessualmente dallo zio Mario. Chi è lo zio Mario?

E’ Mario Meneguzzi, marito di Lucia Orlandi, zia paterna dei 5 ragazzi Orlandi. Nel suo messaggio il cardinale Casaroli chiarisce che la richiesta di confermare questo elemento gli arriva da ambienti investigativi romani. La risposta che giunge dal Sudamerica è sconvolgente. “Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima”. Si apre una pista mai analizzata prima, ovvero quella familiare.

Nell'inchiesta del Tg La 7 viene rivelato che Natalina, le insidie subite dallo zio, le mise anche a verbale nell’interrogatorio – mai emerso dagli atti – reso a un magistrato di Roma. Ma è chiaro che questi elementi nuovi, seppur eclatanti, da soli non possono costituire un atto di accusa nei confronti di una persona, Mario Meneguzzi, che tra l’altro non c’è più. In una storia intricata e complessa, c'è da porsi almeno due domande: che rapporti aveva "zio Mario" con il Sisde? E, soprattutto, siamo certi non sia l'ennesimo tentativo di depistaggio? 

Emanuela Orlandi, la pista che porta allo zio. Le lettere dal Vaticano alla Procura di Roma: «Avrebbe molestato la sorella della 15enne». Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 10 Luglio 2023.

A tre mesi dalla scomparsa il segretario di Stato Casaroli ottenne dal confessore della famiglia della 15enne scomparsa la conferma di molestie dell'uomo, Mario Meneguzzi, sulla sorella della ragazza. 

Dalle carte consegnate poche settimane fa dal promotore di giustizia Vaticana, Alessandro Diddi, alla procura di Roma emerge una scambio di lettere potenzialmente dirompente nell’inchiesta lunga 40 anni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Una pista che ha già parziali riscontri per essere stata in parte già seguita e poi inspiegabilmente abbandonata tra le tante di questi anni e che ricondurrebbe all’interno della famiglia della ragazza la sua misteriosa scomparsa. La possibile svolta è stata anticipata dal Tg La7 nell'edizione delle 20 del 10 luglio.

«ATTENZIONI MORBOSE»

Il carteggio risale al settembre 1983, quando della 16enne figlia di un messo della prefettura della Casa pontificia e cittadina vaticana non si hanno notizie ormai da tre mesi. Nella massima riservatezza l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli scrive un messaggio per posta diplomatica a un sacerdote sudamericano inviato in Colombia da Giovanni Paolo II. Il destinatario della lettera viene interpellato su una circostanza specifica e potenzialmente legata al caso, della quale è a conoscenza in quanto per lungo tempo il prelato è stato consigliere spirituale e confessore della famiglia Orlandi. Casaroli vuole avere da lui conferma del fatto che la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, gli abbia mai rivelato di essere stata molestata sessualmente dal loro zio, oggi defunto, Mario Meneguzzi. L’uomo è il marito di Lucia Orlandi, sorella del padre di Emanuela e Casaroli a stretto giro di posta diplomatica riceva la conferma di questo episodio, sul quale era stato sollecitato da ambienti investigativi romani: «Sì, è vero — è la replica scritta che arriva da Bogotà — , Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima».

LE INDAGINI SFUMATE

L’altro dato sul quale si concentra ora la procura capitolina guidata da Francesco LoVoi, è il motivo per il quale questo episodio, noto agli investigatori dell’epoca per essere stato confermato dalla stessa Natalina Orlandi in un verbale di testimonianza, non venne allora valorizzato dalle indagini. Di Mario Meneguzzi — come ricostruisce il servizio de La7 —, oltre al lavoro alla Camera era nota la vicinanza con ambienti del Sisde, tanto che su suo consiglio il cognato Ercole Orlandi si affidò all’avvocato Gennaro Egidio con la garanzia che alla parcella del legale ci avrebbe pensato il Servizio per le informazioni e la sicurezza democratica. Fu proprio Menguzzi a rispondere ad alcune delle telefonate anonime che davano informazioni più o meno credibili e verificabili su Emanuela («Mario» era anche il nome di uno dei telefonisti) per poi «sottrarsi» a un pedinamento della Squadra Mobile sulla strada verso Santa Marinella del quale venne, non si sa come, a conoscenza.

L’IDENTIKIT

Per ora si parla solo di sospetti, ma altri elementi sono stati già raccolti sullo zio di Emanuela. Ad esempio è compatibile col suo volto l’identikit tracciato dal vigile e dal poliziotto che riferirono di aver visto, la sera della scomparsa, un uomo a colloquio con la 16enne appena uscita dalla scuola di musica vicino al Senato, dove lei si esercitava col flauto. Anche questo dato è rintracciabile nel fascicolo d’inchiesta originario che viene ora riesaminato a fondo: il pm Margherita Gerunda, poi sostituita, ipotizzava l’inganno da parte di una persona conosciuta, sulla cui auto la 16enne sarebbe salita perché si fidava. «Abbiamo inviato alla procura di Roma documenti forse sfuggiti o che bisognava saper cercare», diceva poche settimane fa Diddi, «piste di indagine meritevoli di ulteriore approfondimento» sulle quali il pg diceva di aver «raccolto tutte le evidenze reperibili nelle strutture del Vaticano e della Santa Sede, raccogliendo anche «dei dati che non erano mai stati lavorati». Tra questi potrebbe esserci la vera svolta nel mistero di Emanuela. Amarissimo il commento del fratello Pietro su Facebook: «Oggi ho capito che sono delle carogne. Hanno deciso di scaricare tutto sulla famiglia, senza vergogna. Mi fanno schifo». 

A destra Mario Meneguzzi (oggi defunto), marito di Lucia Orlandi, sorella del padre di Emanuela. A sinistra l'identikit dell'uomo visto con Emanuela la sera del 22 giugno 1983, quando la quindicenne scomparve. Un volto, per gli inquirenti, compatibile con quello di Meneguzzi

Emanuela Orlandi, torna la pista dello zio: «attenzioni morbose» sulla sorella. ENRICO DALCASTAGNÉ su Il Domani l'11 luglio 2023

Un servizio del Tg La7 riapre la pista famigliare sulla scomparsa della 15enne: nel 1983 il segretario di Stato Casaroli chiese conferme su Mario Meneguzzi, zio della ragazza, che gestiva il bar della Camera ed era vicino al Sisde. Il fratello di Emanuela: «Vogliono scaricarci le responsabilità»

Dalle carte consegnate poche settimane fa dal promotore di giustizia Vaticana, Alessandro Diddi, alla procura di Roma emerge una scambio di lettere potenzialmente dirompente nell’inchiesta lunga 40 anni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Una pista già seguita e poi abbandonata in passato che ricondurrebbe all’interno della famiglia della ragazza la sua misteriosa scomparsa. È quanto rivela un servizio andato in onda lunedì sera la Tg La7.

Il carteggio – si spiega nel servizio – risale al settembre 1983, quando della 15enne figlia di un messo della prefettura della Casa pontificia e cittadina vaticana non si hanno notizie ormai da tre mesi. Nella massima riservatezza, l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli scrive un messaggio per posta diplomatica a un sacerdote sudamericano inviato in Colombia da Giovanni Paolo II.

Il destinatario della lettera viene interpellato su una circostanza specifica di cui è a conoscenza essendo stato consigliere spirituale e confessore della famiglia Orlandi. Casaroli vuole avere da lui conferma del fatto che la sorella maggiore di Emanuela, Natalina, gli abbia rivelato di essere stata molestata sessualmente dal loro zio Mario Meneguzzi, oggi defunto. Sempre via posta, diplomatica, Casaroli riceve conferma di questo episodio.

INTERVIENE LA FAMIGLIA

«Nessuno ci ha avvisato della messa in onda del servizio: martedì, nel corso di una conferenza stampa, spiegheremo il nostro pensiero su tutto questo», ha detto l’avvocata Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi. Duro invece il commento di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela: «Oggi ho capito che sono delle carogne. Hanno deciso di scaricare tutto sulla famiglia, senza vergogna, mi fanno schifo», ha scritto su Facebook. 

ENRICO DALCASTAGNÉ. Giornalista professionista. È laureato in Mass media e politica a Bologna e ha frequentato il master in giornalismo della Luiss di Roma. Già collaboratore del Foglio e di YouTrend, si occupa di politica e società italiana. 

"La sorella Natalina abusata dallo zio". Spunta la pista familiare. Il fratello: "Vogliono scaricare la responsabilità". Patricia Tagliaferri l'11 luglio 2023 su Il Giornale. 

Dal rapimento legato al terrorismo internazionale alla pista familiare, passando dallo scandalo sessuale all'interno della Santa Sede agli affari della Banda della Magliana. Il giallop della scomparsa di Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa a Roma nel 1983, si arricchisce di un nuovo capitolo. L'ultimo capitolo sui cui stanno attualmente indagando sia l'ufficio del promotore di giustizia della Santa Sede che la Procura di Roma, riguarda uno zio della ragazza, Mario Meneguzzi, marito di Lucia Orlandi, zia paterna di Emanuela.

L'uomo, che in un primo momento tenne i rapporti telefonici con le persone che sostenevano di aver rapito la giovane, è morto da tempo, ma si torna a parlare di lui dopo che il suo nome è emerso da un careggio tra l'allora cardinale Segretario di Stato Vaticano Agostino Casaroli e un sacerdote sudamericano, inviato in Colombia da Giovanni Paolo II, a lungo consigliere spirituale e confessore della famiglia della ragazza. Lo scambio risale al settembre 1983, tre mesi dopo la scomparsa di Emanuela, e riguarderebbe presunte molestie che Natalina, la sorella maggiore della quindicenne, avrebbe raccontato di aver subito da uno zio ora deceduto. Una versione messa a verbale durante un interrogatorio reso a un magistrato di Roma. La missiva, inviata per posta diplomatica, sarebbe stata sollecitata da ambienti investigativi romani per chiarire se il religioso fosse a conoscenza del fatto che Meneguzzi avesse molestato la sorella maggiore della giovane scomparsa. Una domanda a cui il religioso rispose in maniera affermativa. «Sì, è vero, Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio, me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei Deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima».

La notizia ha mandato su tutte le furie Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela. «Sono arrabbiato, furioso. Hanno passato il limite come non mai. Non possono scaricare le responsabilità di tutto su una famiglia. Non pensano ai parenti, ai figli? No, questa carognata non può passare così». Pietro, che oggi terrà una conferenza stampa, vuole chiedere un incontro privato a Papa Francesco.

Caso Emanuela Orlandi, spuntano documenti inediti sullo zio Mario e sulla presunta violenza alla sorella Natalina. Dal ruolo dello zio Mario alla presunta violenza alla sorella Natalina, emergono documenti inediti sul caso di Emanuela Orlandi. La rabbia di Pietro. Ilaria Minucci su Notizie.it il 10 Luglio 2023

Un servizio del Tg di La7 ha rivelato l’esistenza di documenti inediti relativi al caso di Emanuela Orlandi che riguardano lo zio Mario Meneguzzi e sul presunto abuso sessuale che l’uomo perpetrò ai danni della sorella maggiore della ragazza scomparsa, Natalina Orlandi. Il servizio dell’emittente ha mandato su tutte le furie Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, che ha asserito di essere pronto a lottare contro chi ha intenzione di “scaricare le responsabilità sulla famiglia”.

Documenti inediti su Emanuela Orlandi, il ruolo dello zio Mario e l’ipotesi dell’abuso

Spunta un retroscena inedito sul caso di Emanuela Orlando. Secondo quanto svelato in esclusiva dal Tg di La7, è stato diffuso un messaggio di Agostino Casaroli datato settembre 1983, all’epoca la cittadina vaticana era svanita nel nulla da appena tre mesi. Casaroli, nel messaggio, ha puntato il dito contro lo zio deceduto della ragazza, Mario Meneguzzi.

Il pezzo di Flavia Filippi, nello specifico, rivela l’esistenza di una lettera spedita per posta diplomatica da Casaroli a un sacerdote sudamericano che era stato mandato in Colombia da Papa Giovanni Paolo II. Al sacerdote, che era stato a lungo consigliere spirituale e confessore della famiglia Orlandi, l’uomo chiese se fosse vero che, in passato, la sorella maggiore di Emanuela, Natalina Orlandi, gli avesse confidato di essere stata molestata sessualmente dallo zio Mario.

Il messaggio è parte dei documenti inviati dal Vaticano alla procura di Roma che ha recentemente aperto una nuova indagine sul caso.

Alla missiva di Casaroli, il prete rispose in modo esplicito e agghiacciante. “Sì, è vero. Natalina è stata oggetto di attenzioni morbose da parte dello zio. Me lo confidò terrorizzata: le era stato intimato di tacere oppure avrebbe perso il lavoro alla Camera dei deputati dove Meneguzzi, che gestiva il bar, la aveva fatta assumere qualche tempo prima”, ha riferito il religioso.

Per quanto riguarda l’assunzione a Montecitorio, dove Natalina ha cominciato a lavorare come impiegata nell’ufficio legale da prima del 1983, sono fatti ampiamente riferiti dalla diretta interessata durante un interrogatorio dinanzi a un magistrato romano e sono riportati nella pubblicistica sul caso Orlandi.

La reazione di Pietro Orlandi: “Carogne, voglio scaricare le responsabilità sulla famiglia”

Dopo il servizio del Tg di LA7, il fratello della ragazza scomparsa, Pietro Orlandi, ha postato un messaggio sul gruppo Facebook Petizione Emanuela. “Oggi ho capito che sono delle carogne. Hanno deciso di scaricare tutto sulla famiglia, senza vergogna, senza vergogna mi fanno schifo”, ha scritto.

Contattato dall’agenzia di stampa Adnkronos, il fratello di Emanuela ha asserito di essere “furioso” perché “vogliono scaricare le responsabilità sulla famiglia”. Ha anche sottolineato che la Procura di Roma non ha mai convocato né lui né sua sorella Natalina.

Pietro Orlandi ha anche affermato di avere la speranza che la commissione d’inchiesta “parta e svergogni chi ci infanga”. E ha aggiunto: “Chiederò un incontro a Papa Francesco. Hanno passato il limite come non mai. Con l’avvocato Sgrò sto organizzando per domani una conferenza stampa. Non possono scaricare le responsabilità di tutto su una famiglia… Non pensano ai parenti, ai figli? No, questa carognata non può passare così”.

Emanuela Orlandi, squarciate le gomme dell'auto del fratello: "Probabilmente è stato un folle". "Mi auguro sia un gesto isolato", questo il commento di Pietro Orlandi dopo che gomme della sua auto sono state bucate. Valentina Mericio su Notizie.it il 8 Luglio 2023

Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, la quindicenne scomparsa in Vaticano è stato vittima di un quello che potrebbe essere stato un gesto vandalico: le quattro gomme della sua auto sono state bucate. L’episodio che era stato anticipato dal blog “Notte criminale” è avvenuto nei giorni scorsi: “Molto probabilmente è il gesto di un folle, di qualcuno a cui sto antipatico per qualcosa che ho detto o fatto. Mi auguro sia un gesto isolato ma se in futuro a qualcuno dovesse venire in mente un gesto intimidatorio, sappia che io denuncio, non sto in silenzio a subire”, è stata la sua dichiarazione rilasciata ad Adnkronos.

Emanuela Orlandi, bucate le gomme di Pietro

Per il momento l’autore del gesto rimane sconosciuto. Al fine di fare chiarezza su quanto accaduto verrà effettuata un’analisi sulle telecamere posizionate nella zona. Nei mesi scorsi Pietro Orlandi aveva rilasciato delle parole pesantissime su San Giovanni Paolo II. Va segnalato che non si tratta del primo episodio “sospetto” del quale è stata vittima la famiglia di Pietro. La madre aveva infatti ricevuto in precedenza una lettera anonima dai contenuti intimidatori: “Caro Pietro, sei un bugiardo e tu lo sai! Vergognati per le allusioni su Wojtyla”, è quanto si legge.

Sulla questione Pietro Orlandi si era espresso così: “Tutto è possibile. Rispetto alla questione di Wojtyla arrivò quella lettera a mia madre, qualcuno sui social si disse contrariato però poi andare lì col coltello e tagliare le gomme… In un luogo, come Borgo Santo Spirito, pieno di telecamere”.

Ad ogni modo Orlandi ha fatto sapere di aver provveduto a denunciare l’accaduto. Ha precisato che ad essere state tagliate erano solo le gomme della sua auto e che era stato un usato un coltello: “Ora stanno visionando le telecamere. Vedremo”, ha infine commentato.

Emanuela Orlandi e i gialli collegati, spunta il caso Moro: la nonna di Katy Skerl fu testimone in via Fani. Fabrizio Peronaci su Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2023

Eleonora Skerl, nonna della 17enne uccisa nel 1984, fu interrogata dalla Digos  il 16 marzo 1978. I legami con il caso Orlandi, le analogie tra i comunicati Br e dell'Amerikano 

Il giallo infinito della scomparsa di Emanuela Orlandi (1983), del quale a breve si occuperà una commissione parlamentare d'inchiesta, si incrocia con un altro mistero italiano, il più tragico e controverso dal dopoguerra: il caso Moro (1978). In passato erano emerse analogie tra il linguaggio dei sequestratori della «ragazza con la fascetta» e quello usato dai brigatisti. Gli investigatori - analizzando i messaggi dell'«Amerikano» e del «Fronte Turkesh» - avevano notato punti di contatto lessicali tra chi aveva preso Emanuela e gli «uomini delle Brigate rosse»: un certo uso del gerundio, il ritmo sincopato, alcune locuzioni. Il sospetto fu che, tra i registi dell'operazione-Orlandi (allontanamento da casa della quindicenne, a scopo di ricatto), potesse esserci qualcuno che ragionasse (e scrivesse) con le stesse categorie mentali dei rapitori dello statista democristiano, se non proprio un terrorista rosso in persona. Tuttavia, in mancanza di riscontri, la traccia fu abbandonata. Oggi invece, 40 anni dopo, arriva il colpo di scena: esiste un verbale d'interrogatorio di cui nessuno - a cominciare dalla magistratura - si è mai accorto, che stabilisce una connessione tra l'enigma Orlandi e l'affaire  Moro.

Testimone della strage in via Fani

Eccola, la novità che il Corriere è in grado di documentare: Katy Skerl, la 17enne strangolata il 21 gennaio 1984 in una vigna di Grottaferrata, vittima di uno dei gialli collegati alla sparizione di Emanuela, era la nipote di una testimone oculare del rapimento di Aldo Moro. Poco prima delle 9 del 16 marzo 1978, affacciata al suo appartamento di via Stresa 96, all'angolo con via Fani (zona Trionfale), c'era la nonna paterna Eleonora Skerl, all'epoca 58enne. Il commando br guidato da Mario Moretti fece fuoco uccidendo i 5 uomini della scorta e strappando l'onorevole Moro dal sedile posteriore della Fiat 130 blu, e la donna era lì, alla finestra, spaventata e con le orecchie tese. Posizione privilegiata: dall'alto, con buona visuale delle vie di fuga. Tanto che quella stessa mattina, mentre l'intero Paese si fermava sgomento, la teste veniva portata in Questura. 

Le indagini sulla parentela

Il verbale firmato da Eleonora Skerl fu redatto dalla Digos alle 12.35 del 16 marzo 1978. Oggi, dopo indagini svolte negli uffici anagrafici di mezza Europa, un ricercatore indipendente ed esperto in sicurezza digitale, Alberto Fittarelli, ha appurato che non si tratta di un caso di omonimia. Era proprio lei: la signora Skerl, nata nel 1919 in Romania, madre di Peter, regista apolide in quegli anni famoso per un film scabrosissimo vietato ai minori, nonché nonna di Katy, che di lì a sei anni sarebbe rimasta vittima di un oscuro omicidio. Alla residente in via Stresa, in particolare, fu chiesto se prima delle raffiche di mitra esplose sulla scorta di Aldo Moro avesse udito altri spari, possibile indizio di un gruppo di fuoco più ampio.

L'incrocio tra due misteri italiani

La nonna di Katy Skerl era in via Fani, dunque: due misteri d'Italia s'incrociano. Per la prima volta, un filo robusto connette i casi Orlandi e Moro. Ma quali trame potrebbero celarsi dietro il combinato disposto della testimonianza del 16 marzo 1978, la morte violenta di Katy e la scomparsa della «ragazza con la fascetta»? Il delitto Skerl è tornato d'attualità in relazione al sequestro Orlandi nel 2015, quando Marco Accetti, il fotografo che si è autoaccusato del rapimento,  invitò gli inquirenti ad aprire la tomba della 17enne. Fu una sorta di sfida al procuratore Giuseppe Pignatone, che aveva appena archiviato l'inchiesta: «La bara della Skerl è stata rubata per far sparire una prova (una camicia con l'etichetta "Frattina", ndr) del collegamento con Emanuela Orlandi. Controllate e poi mi direte se sono un mitomane». 

Il doppio movente

La verifica, a lungo rinviata, è stata compiuta nel luglio 2022 e ha dato esito positivo: in effetti la cassa con la salma era stata trafugata dal cimitero Verano e nel loculo era rimasta soltanto una maniglia d'ottone (qui la video-anticipazione del cronista, nel 2021). Ciò ha inevitabilmente accresciuto la credibilità del reo confesso e indotto il pm Erminio Amelio ad aprire un'inchiesta, alla quale sta lavorando da mesi un pool di investigatori della Squadra mobile romana. Secondo Accetti (qui le sue vittime, reali e presunte), Katy Skerl fu ammazzata per vendetta dalla fazione opposta a quella che aveva organizzato il sequestro di Emanuela e di Mirella Gregori, al fine di attuare un duplice ricatto: da un lato frenare il fermo anticomunismo di Giovanni Paolo II (e indurre Ali Agca a ritrattare le accuse a Est, sgradite alla componente ecclesiastica favorevole al dialogo con Mosca), dall'altro defenestrare il capo dello Ior Marcinkus e recuperare i soldi inghiottiti dallo scandalo Ior-Ambrosiano.

Il profilo di Katy (e di suo padre)

Anche Katy, insomma, fu vittima dei regolamenti di conti ambientati ai tempi della Guerra Fredda? Il profilo della ragazza accredita tale scenario, anche perché la pista del maniaco, in assenza di tracce di violenza sessuale, fu presto scartata. Soprattutto dal 2022, con la scoperta della tomba vuota, il movente politico ha acquisito peso crescente. La 17enne, studentessa del liceo artistico Giulio Romano (abitava con madre e fratello a Montesacro), era iscritta alla Fgci, pacifista e femminista convinta. Il padre Peter, regista giramondo nato a Belgrado nel 1940 (e poi trasferitosi in Svezia, a Roma e negli Stati Uniti), era famoso per il film hard "Bestalità", campione d'incassi in sale di terz'ordine. Non si può escludere che nella scelta di Katy come vittima sacrificale la figura paterna (utile a evocare scenari depistanti di pedofilia e perversione) abbia avuto rilievo. Ma non basta: nel 2014 il Corriere scoprì che compagna di classe di Katy era stata Snejna Vassileva, la figlia di uno dei funzionari bulgari (addetto militare d'ambasciata) accusati di complicità con Agca nell'attentato a Wojtyla del 13 maggio 1981 (pista rossa). Una circostanza che riporta al movente internazionale. Possibile siano tutte coincidenze? O forse la presenza della nonna in via Fani chiude il cerchio? Katy fu scelta come bersaglio per i rimandi che portava con sé, da spendersi in operazioni coperte?

Il gerundio nei comunicati Br e su Emanuela

Ulteriori spunti vengono dalle assonanze con il gergo Br riscontrate nei messaggi dei sequestratori di Emanuela e Mirella (qui, ecco perché le due storie sono collegate). Un primo punto di contatto balza agli occhi nel comunicato del 20 luglio 1983, data di scadenza dell’ultimatum per lo “scambio” della giovane Orlandi (scomparsa un mese prima) con Agca, quando l'«Amerikano» dettò un testo perfettamente sovrapponibile al linguaggio brigatista. Scrisse a tal proposito, lo stesso giorno, l’agenzia Ansa: «Il gerundio usato nella seconda parte del messaggio («pervenendo alla soppressione del 20 luglio») è significativo e ha un precedente nel comunicato n. 9 delle Brigate rosse («eseguendo la sentenza»), diffuso durante il sequestro Moro». Ancora: è pura casualità o al contrario l'analogia dimostra che qualcuno degli ideatori dell’affaire Orlandi non era poi così estraneo al clima politico-culturale e ai movimenti eversivi di quel periodo?

La «nota personalità»

C'è poi un secondo tassello. Si tratta di una locuzione diventata di pubblico dominio ai tempi del sequestro Moro, riproposta più volte dai rapitori di Emanuela: «La nota personalità». Vediamo l'antefatto: la mattina del 9 maggio 1978, quando non era ancora stato scoperto il corpo di Moro, Claudio Signorile, vicesegretario del Psi, fu convocato dal ministro dell'Interno Francesco Cossiga, e in seguito, a proposito di tale incontro, l'esponente socialista racconterà: «Nell'ufficio c’era una cicalina collegata con il prefetto e il capo della polizia: "È stata individuata un’automobile, andiamo a vedere...”  Un attimo di silenzio e poi: "È la nota personalità". Cossiga diventa bianco e dice “Mi devo dimettere”. Ci abbracciamo, me ne vado...» A cosa alludeva Signorile? Forse al fatto che il futuro capo dello Stato fosse già informato dell'avvenuta esecuzione di Moro? 

La sciarada delle Idi di Marzo

In ogni caso, un'espressione del genere non si dimentica. E 7 anni dopo i registi dell'azione Orlandi-Gregori infilano più volte la «nota personalità» nelle rivendicazioni firmate "Fronte Turkesh". Prima nel "Komunicato  XXX" del 27 novembre 1985, nel quale si annuncia che «Emanuela non tornerà»: «Sono stati spietati. La colpa è del Vaticano, di papa Wojtyla, dello Ior, del ‘giudice’ di Alì Agca, del governo del Costa Rica e di una nota personalità...» Poi nel messaggio di poco successivo (3 dicembre 1985), che oltre a riepilogare i precedenti e prendere le distanze da tal Ilario Ponzi, firmatario di alcune lettere da Ancona, propone un rompicapo sul quale si sono applicate più generazioni di investigatori, studiosi, giornalisti. Vediamolo: «La nota personalità: ecco il codice, non è difficile – 2 X IB - 3 X BANO – before born Idi di marzo – Gregori è uguale - EPR - + I VV - 15,15,15,15 + ...» A quale traditore alludevano i rapitori, evocando l’assassinio di Giulio Cesare? Il groviglio di lettere, sigle, numeri e segni matematici non è stato mai decodificato: una sciarada da tentare di risolvere oggi, anche alla luce di quel faccia a faccia Signorile-Cossiga... 

La piccola Katy sapeva troppo?

Grazie alla rilettura dei pregressi indizi e alla novità del verbale "dimenticato" su via Fani, insomma, il dubbio di una "manina" delle Br dietro l'intrigo Orlandi trova più di un appiglio. Il ricercatore Alberto Fittarelli, per non incorrere in errori sulla "vera" Eleonora Skerl, ha contattato archivi e uffici anagrafici dalla Romania alla Serbia, dove la nonna di Katy aveva vissuto con suo marito, prima di essere espulsa dal regime di Tito e fuggire in Italia. «Certamente - ragiona Fittarelli, che ha pubblicato il suo lavoro nel sito SEDICidiMARZO.org - esercita una certa suggestione pensare che la povera Katy, giovanissima militante comunista con forti motivazioni politiche, sei anni dopo via Fani, magari incuriosita da quanto visto, sentito o raccontato in casa da sua nonna, abbia svolto indagini in proprio, imbattendosi in qualcosa di più grande di lei, e che per questo sia stata punita. Però attenzione - aggiunge lo studioso - in mancanza di riscontri siamo per l'appunto alle prese con una suggestione, per quanto sorprendente e interessante. Ad altri il compito di accertare la verità». La parola agli inquirenti tuttora in campo, dunque: Procura di Roma, Ufficio del promotore di giustizia vaticano e commissione parlamentare bicamerale, non appena verrà istituita. Quarant'anni dopo, sarà la volta buona? 

Papa Francesco ricorda Emanuela Orlandi a 40 anni dalla scomparsa. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 25 giugno 2023

L’anniversario è stato il 22 giugno. Per Pietro Orlandi che ha organizzato una manifestazione in piazza San Pietro «è stato un segnale positivo, non me lo aspettavo, credo che questo sia un bel passo avanti». Per Orlandi è un segnale anche ai senatori che discutono la commissione di inchiesta in parlamento: «Il papa in questo momento vuole che si arrivi alla verità»

Papa Francesco ha menzionato per la prima volta dal balcone che affaccia su piazza San Pietro Emanuela Orlandi, la cittadina vaticana scomparsa in circostanze mai chiarite nel 1983: «In questi giorni ricorre il 40esimo anniversario della scomparsa di Emanuela Orlandi. Desidero approfittare di questa circostanza per esprimere ancora una volta la mia vicinanza ai familiari, soprattutto alla mamma, e assicurare la mia preghiera. Estendo il mio ricordo a tutte le famiglie che portano il dolore di una persona cara scomparsa», ha detto Bergoglio in occasione dell’Angelus.

Un ricordo auspicato dalla famiglia, che da giorni aveva annunciato la sua presenza in piazza San Pietro, attraverso il fratello Pietro e l’avvocata Laura Sgrò, con un piccolo gruppo di manifestanti. «Verità, verità», hanno gridato subito dopo aver ascoltato le parole del pontefice sulla ragazza. Sono arrivati in Piazza San Pietro portando con sé striscioni.

La loro voce, dalla piazza, si è sentita molto forte mentre il santo padre parlava. Per Pietro Orlandi «è caduto un tabù. È stato un segnale positivo, non me lo aspettavo, credo che questo sia un bel passo avanti». La gendarmeria vaticana ha riferito che erano presenti circa 20 mila fedeli. Circa cento, si legge sul sito Vatican News, formava il gruppo che sostiene la famiglia Orlandi. Ieri è stato dato il via libera anche per portare i cartelloni, secondo la famiglia un segnale chiaro anche al parlamento italiano, che sta discutendo sull’insediamento una Commissione di inchiesta.

GIOVANNI PAOLO II

La menzione di papa Francesco arriva dopo quelle di Giovanni Paolo II. Papa Wojtyla domenica 3 luglio 1983, sempre durante l’Angelus, rivolse un appello per la liberazione di Emanuela, ufficializzando l’ipotesi di un sequestro che fino a quel momento nessuno aveva dichiarato.

Un interessamento che ha fatto arrivare le prime ombre sul Vaticano: come faceva a sapere che si trattava di un caso di rapimento? Dopo quello ci saranno altri sette appelli pubblici in un anno.

Il pontefice successivo, papa Benedetto XVI, non è mai intervenuto sulla vicenda. Ancora una volta nel 2013 papa Francesco invece, non durante un discorso ufficiale, ma durante un incontro, si è rivolto direttamente a Pietro Orlandi: «Emanuela sta in cielo». Il fratello ha sempre ritenuto che la santa sede sapesse più di quanto sia emerso sinora. Proprio il 22 giugno, Alessandro Diddi, il promotore di giustizia vaticano, ha inviato alcuni degli atti di indagine alla procura di Roma. Dopo aver interpellato alcuni dirigenti vaticani di allora, ha detto, sarebbero «confermate alcune piste».

LA COMMISSIONE IN PARLAMENTO

Resta in sospeso la questione della commissione di inchiesta parlamentare. Fratelli d’Italia continua a rinviare l’avvio, la settimana prossima la commissione Affari costituzionali del Senato dovrà decidere se approvare modifiche al testo approvato dalla Camera. Se così fosse, il testo dovrebbe tornare a Montecitorio in terza lettura, spostando ancora i lavori in parlamento sul caso.

Diddi, convocato in Senato sul tema, si era detto contrario all’istituzione della commissione. Per Orlandi però sarebbe lo stesso pontefice a dare il suo consenso: «Spero che questo segnale sia ascoltato da quei senatori che si stanno opponendo alla commissione perché devono sapere anche loro che evidentemente anche il papa in questo momento vuole che si arrivi alla verità».

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica e la gavetta giornalistica nella capitale, ha collaborato con Il Fatto Quotidiano e Roma Sette, e lavorato a Staffetta Quotidiana. Idealista.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.

Vicino alla famiglia della ragazza scomparsa più famosa d’Italia, ma non al punto da condividere l’avvio di una commissione d’inchiesta sul caso, il promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi punta a trasmettere fiducia: «In pochi mesi — dice di fronte alle telecamere di Tg1 mattina Estate — abbiamo raccolto molte carte, forse erano sfuggite negli anni passati agli inquirenti e le abbiamo messe a disposizione della Procura della Repubblica di Roma». 

Poche parole rivolte agli addetti ai lavori in attesa di una vera discovery, possibile solo di fronte a una prima conclusione. Tuttavia a quarant’anni dalla sparizione di Emanuela Orlandi (era il 22 giugno del 1983) i due approfondimenti che viaggiano paralleli — la nuova inchiesta del Vaticano e l’altra della Procura di Roma affidata al pm Stefano Luciani — restituiscono qualche speranza alla famiglia. […]

In attesa di apprezzabili novità le carte restano ovviamente coperte. E tuttavia: «I documenti rintracciati — insiste Diddi promettendo di battersi «senza paura»— non erano a disposizione di qualcuno, purtroppo le cose bisogna cercarle e saperle cercare...». 

A riprova che la collaborazione offerta dalle autorità vaticane (era stato lo stesso papa Francesco a chiedere a Diddi di lavorare sul progetto) starebbe, lentamente, sortendo qualche effetto lasciando emergere una pista concreta.

Le parole del promotore finiscono per riaprire il tema commissione d’inchiesta sì o no. Lo stesso Orlandi, affiancato dall’avvocata Laura Sgrò, ha lanciato una sorta di appello alla presidente del consiglio Giorgia Meloni: «Riteniamo — ha detto— che gli ideali della verità e della giustizia non abbiano colore politico e non appartengano a nessun partito ma a tutti gli uomini di buona volontà».

La mamma di Emanuela, Maria Pezzano ha già compiuto 93 anni («Dopo aver conosciuto le più angosciose ipotesi attende ancora la verità», ha detto Sgrò nel corso dell’udienza del 6 giugno scorso in Senato) ma il punto è che sulla commissione d’inchiesta non vi sarebbe accordo politico e dunque nessuna certezza. […]

Martedì prossimo, il 27, si capirà meglio l’orientamento del Senato con la votazione. Ieri nella ricorrenza della scomparsa di Emanuela la senatrice pentastellata Alessandra Maiorino che aveva seguito dal principio la vicenda ha confermato il proprio sì ad una commissione: «Rappresenterebbe un occhio vigile sulle inchieste stesse. […]

40 anni dalla scomparsa della Orlandi: gli ultimi sviluppi. Emanuela Orlandi, 15 anni, sparì da Roma il 22 giugno del 1983. Rapimento o pedofilia? La sua famiglia non ha mai smesso di cercare la verità: "Non ci daremo pace finché non sarà fatta giustizia". Rosa Scognamiglio il 23 Giugno 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è Emanuela

 La ''scomparsa”

 La denuncia

 Le prime indagini

 Papa Karol Wojtyla parla di ''rapimento”

 Sospetti collegamenti con l'attentato a Giovanni Paolo II

 L'ombra della Banda della Magliana

 C'entra la pedofilia?

 Avvistamenti e ''sviste''

 "Cercate dove indica l'angelo”

 Ultime notizie su Emanuela Orlandi

Sono trascorsi ormai decenni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, la 15enne sparita da Roma la sera del 22 giugno 1983. Lunghi anni di mistero, intrighi, depistaggi e false testimonianze che hanno segnato le tappe di una vicenda intricata e spigolosa. E la verità, nonostante la ricerca affannosa dei familiari, sembra ancora un miraggio lontano, sepolta sotto una pila di dossier archiviati chissà dove, celata sotto un velo di omertà instancabile. Oggi, come allora, la domanda resta sempre una e una soltanto: cosa è accaduto a Emanuela? "Non ci fermeremo finché non salterà fuori la verità", dice il fratello Pietro a IlGiornale.it.

Chi è Emanuela

Una ragazza di 15 anni, un'adolescente piena di vita che adora le canzoni di Gino Paoli. Emanuela, nata a Roma il 14 gennaio 1968, è la figlia di Ercole Orlandi, un commesso della Prefettura e della casa pontificia, e di Maria Pezzano. Insieme ai genitori e i suoi 4 fratelli, vive in un appartamento dentro le Mura Leonine del Colle Vaticano. Lellè, come è solita chiamarla sua madre, frequenta il secondo anno del Liceo Scientifico presso il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II. Dotata di uno spiccato talento musicale, da anni frequenta una scuola di musica a piazza Sant'Apollinare, nel cuore della Capitale. Segue corsi di pianoforte, solfeggio e canto corale ma si distingue tra gli altri apprendisti per la maestria con cui suona il flauto traverso. Un futuro da musicista forse, che le è stato negato nella tenera età della spensieratezza.

La ''scomparsa”

È il pomeriggio del 22 giugno 1983. Emanuela si reca a lezione di musica, alle ore 16. Alle 18.45 lascia l'aula, dieci minuti prima del solito e da una cabina telefonica chiama la sorella Federica per dirle che avrebbe rincasato in serata per via di un ritardo dei mezzi di trasporto. Nel corso della breve conversazione, racconta di aver ricevuto un'offerta di lavoro da uno sconosciuto che le avrebbe proposto circa 370mila lire per un'attività di volantinaggio durante una sfilata nell'atelier delle sorelle Fontana, firme dell'alta moda sartoriale. Federica le suggerisce di declinare l'invito salvo poi parlarne al rientro coi genitori.

Attorno alle 19.30, Emanuela raggiunge la fermata di corso Rinascimento insieme a due compagne di corso, Maria Grazia e Raffaella. Le ragazze salgono sull'autobus, Lellè dice loro di attendere quello successivo perché troppo affollato. Secondo un'altra versione invece, la quindicenne avrebbe confidato all'amica Raffaella di dover attendere l'uomo che le avrebbe proposto l'impiego part-time. Poi, si sarebbe fermata a parlare con una donna dalla chioma bionda e riccioluta, una persona mai identificata, forse un'altra compagna di corso. Fatto sta che, da quel momento, di Emanuela si perdono le tracce.

La denuncia

Non vedendo sua figlia rincasare, Ercole Orlandi passa al setaccio le vie attigue alla scuola di musica e quelle del Colle Vaticano in compagnia del figlio Pietro. Contatta la preside dell'Istituto che gli fornisce i recapiti telefonici di altre frequentanti del corso ma nessuna è in grado di riferire informazioni utili al ritrovamento della giovane. Disperato, l'uomo si reca al Commissariato ''Trevi'', in piazza Collegio Romano, per chiedere aiuto ma i poliziotti gli dicono di attendere ancora qualche ora prima di avviare le ricerche.

La denuncia viene formalizzata da Natalina Orlandi, sorella di Emanuela, il 23 giugno 1983 presso gli uffici dell'Ispettorato Generale P.S. ''Vaticano”. Il giorno seguente, l'intera città di Roma è tappezzata da un volantino di scomparsa corredato di foto della 15enne. “Anni 15 – alta metri 1,60 – recita l'identikit diramato dalla polizia – Al momento della scomparsa aveva capelli neri, lunghi e lisci, indossava pantaloni jeans, camicia bianca e scarpe da ginnastica. Non si hanno sue notizie dalle ore 19 di mercoledì 22 giugno, chi avesse utili informazioni è pregato di telefonare al numero 69.84.982”. 

Le prime indagini

La prima pista battuta dalla polizia è quella dell'allontanamento volontario, poi di una sospetta scomparsa. Nelle ore immediatamente successive all'accaduto, il telefono della famiglia Orlandi squilla senza sosta. Si susseguono, con ritmo incalzante, segnalazioni di vario genere da parte di presunti conoscenti di Emanuela ma nessuna si rivela attendibile o proficua ai fini delle indagini.

Nei giorni seguenti, il fratello della giovane e alcuni amici appurano che la 15enne è stata avvistata in compagnia di un uomo, poco distante da piazza Sant'Apollinare. L'indiscrezione viene confermata da un vigile urbano in servizio davanti al Senato che, interrogato dai carabinieri, racconta di aver visto Emanuela con un ''signore alto, ben vestito” che sarebbe giunto all'incontro a bordo di una Bmw Touring verde. Dopo varie ricerche, lo sconosciuto viene rintracciato: si tratta di un sedicente promotore di cosmetici che è solito adescare adolescenti con la promessa di un lavoro di poche ore ben retribuito. Nulla a che vedere con l'altelier delle sorelle Fontana, men che meno, con Emanuela. Da questo momento, la vicenda prende tutt'una altra piega.

Papa Karol Wojtyla parla di ''rapimento”

È domenica 3 luglio 1983 quando Giovanni Paolo II, durante l'Angelus, si rivolge con un appello ai presunti rapitori della giovane: è la prima volta che si allude in maniera esplicita al sequestro. “Una preghiera per Emanuela, rapita, di cui siamo tutti preoccupati insieme con la sua famiglia – dice il pontefice – Per parte mia, posso assicurare quanto umanamente possibile per la soluzione della dolorosa vicenda. Voglia il Dio concedere per la trepidazione di questi giorni la gioia degli abbracci”. Parole che riecheggiano tra le centinaia di fedeli riuniti in Piazza San Pietro, dichiarazioni che segnano l'inizio di un nuovo e complesso percorso di indagini.

E il Vaticano, finisce nell'occhio del ciclone. "Sono sicuro che, in qualunque modo, il Vaticano c'entri qualcosa - afferma Pietro - Un papa non fa 6 appelli, in totale, per una ragazza scomparsa. Quando è stato diramato il bollettino dalla Santa Sede, quello relativo all'udienza di domenica 3 luglio, tra le varie voci in elenco c'era 'rapimento Emanuela Orlandi'. È stata la prima volta che non si utilizzava la parola 'scomparsa'' in riferimento alla vicenda di mia sorella".

"Il Papa…". La rivelazione nell'audiocassetta sulla Orlandi

Sospetti collegamenti con l'attentato a Giovanni Paolo II

Il 5 luglio 1983 giunge una telefonata alla sala stampa vaticana. Un giovane, con l'accento spiccatamente anglofono – ribattezzato per questo motivo come l'amerikano - afferma di tenere in ostaggio Emanuela Orlandi. Lo straniero fa riferimento a Mehmet Ali Ağca, il terrorista legato all'organizzazione criminale di estrema destra turca Lupi grigi che, il 13 maggio 1981, sparò due colpi di pistola al Papa in piazza San Pietro.

Tre giorni dopo, l'8 luglio, un uomo con inflessione mediorientale telefona a una compagna di corso di Emanuela sostenendo che la ragazza fosse nelle loro mani e che, se avessero voluto rivederla, avevano 20 giorni di tempo per fare lo scambio con Mehmet Ali Agca, tratto in arresto dopo l'attentato a Wojtyla. Nel mezzo della presunta trattativa, con l'ultimatum previsto alla data del 20 luglio, ci finisce il Cardinale Segretario di Stato Agostino Casaroli al quale la banda criminale chiede di fare da intermediario per la liberazione del terrorista turco.

Il 18 luglio viene installata una linea telefonica con le sale vaticane ma nonostante le ripetute sollecitazioni de l'amerikano – 16 telefonate in totale – la vicenda non ha alcun seguito reale. Il 20 novembre 1984, i Lupi grigi dichiarano con il “comunicato numero 20” di custodire nelle proprie mani Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, un'altra quindicenne scomparsa da Roma il 7 maggio del 1983. Ma la ''pista turca” viene ben presto smentita durante le indagini per l'attentato al pontefice.

Più tardi, il 2 febbraio del 2010, il fratello di Emanuela, Pietro, ha un colloquio con Mehmet Ali Ağca che conferma l'ipotesi del rapimento per conto del Vaticano facendo il nome del cardinale Giovanni Battista Re in quanto ''persona informata dei fatti”. Ma il cardinale smentisce le dichiarazioni del terrorista e, anche questa volta, le indagini della magistratura si arenano: Agca viene definito ''inattendibile” nelle carte delle inchiesta. "La pista turca non è mai stata approfondita, come delle resto tutte altre che sono state abbandonate - continua Pietro - ma io credo che Ali Agca non fosse completamente inattendibile".

L'ombra della Banda della Magliana

L'11 luglio del 2005, alla redazione del programma Chi l'ha visto? giunge una telefonata anonima in cui qualcuno afferma che per risolvere il caso Orlandi è necessario indagare sull'identità di un defunto sepolto nella Basilica di Sant'Apollinare facendo il nome del cardinal Ugo Poletti: “del favore che gli fece Renatino”, dice lo sconosciuto. Si scopre così che nella Basilica è stato seppellito il boss della Banda della Magliana, Enrico De Pedis (detto Renatino), su richiesta esplicita del cardinale Poletti, al tempo presidente Cei.

Nel 2007, un altro pentito della cricca criminale romana, Antonio Mancini, rilascia alcune dichiarazioni inerenti al coinvolgimento di De Pedis e alcuni esponenti vaticani nel caso Orlandi. “Si diceva che la ragazza era roba nostra”, rivela ai magistrati della Procura di Roma. Le sue dichiarazioni vengono confermate da un altro pentito della Banda, Maurizio Abbatino che, nel 2009, racconta del presunto sequestro di Emanuela nell'ambito dei rapporti intrattenuti dalla cosca con alcune personalità vaticane per attività illecite (riciclaggio di denaro) connesse allo Ior.

I tre papi, l’Amerikano, il boss della Magliana: tutti i protagonisti del caso Orlandi

Ma è con Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano legata sentimentalmente a De Pedis dal 1982 al 1984, che la vicenda assume una piega diversa. La donna riferisce che il rapimento di Emanuela sarebbe stato effettuato materialmente da De Pedis su ordine di monsignor Paul Marcinkus, direttore dello Ior coinvolto nel crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi nel noto ''risiko bancario'' che, tra i protagonisti della complessa vicenda, annovera il nome di Licio Gelli, della Loggia massonica P2.

La 15enne romana, tra le poche cittadine vaticane del tempo e per questo ostaggio di pregio, sarebbe stata usata come ''merce di scambio'' nella trattativa per la restituzione del denaro investito dalla Banda nelle casse dello Ior (almeno 20 miliardi). La Minardi riferisce poi che la Orlandi è stata uccisa una volta saltato l'affare. Ma un altro pentito della Banda assicura che la scomparsa di Emanuela non è in alcun modo connessa all'ex boss Renatino. Il 14 maggio 2012 viene aperta la tomba di De Pedis per reperire eventuali tracce di Dna appartenenti alla 15enne, ma la ricerca risulta vana e inconcludente. Nel 2015 su richiesta della Procura, il Gip Cataldo decide di archiviare l'inchiesta di Emanuela Orlandi per ''prove incosistenti”. Da quel momento, la vicenda piomba nel silenzio.

C'entra la pedofilia?

Un'altra pista investigativa, quella della pedofilia, segna la tortuosa vicenda. Emanuela potrebbe essere finita nel giro di alcuni festini a sfondo sessuale che coinvolgerebbero esponenti di spicco del clero, un gendarme vaticano e un'ambasciata straniera ospitata, al tempo, presso la Santa Sede. La nuova ipotesi si profila dopo alcune dichiarazioni rilasciate da padre Gabriele Amorth, esorcista e scrittore, secondo cui Emanuela sarebbe stata drogata e poi uccisa in un'orgia tenutasi in Vaticano.

Al gendarme sarebbe stato affidato il compito di reclutare le giovani vittime che avrebbero avuto il compito di intrattenere i prelati. Dichiarazioni analoghe sono state rilasciate da un ex affiliato di Cosa Nostra. L'uomo ha affermato che la 15enne sarebbe morta durante un'orgia, a base di sesso e droga, e sarebbe sepolta in Vaticano. Per quanto i recenti accadimenti di cronaca rendano plausibili anche la pista della pedofilia, non vi è stato mai modo di accertare tali supposizioni. "È una possibilità - continua il fratello di Emanuela - ma non credo molto si tratti della pista giusta. Il Vaticano avrebbe liquidato la questione alla svelta, magari tirando in ballo qualche prelato già deceduto, e la vicenda sarebbe stata chiusa".

Avvistamenti e ''sviste''

Ci sono anni di silenzio mediatico dopo l'archiviazione del caso dell'inchiesta nel 2015. Tuttavia si susseguono segnalazioni riguardanti presunti avvistamenti della giovane, ormai in età matura, fuori dai confini dell'Italia. Dapprima si accenna a un convento di clausura in Lussemburgo, poi si parla di un manicomio a Londra dove la ragazza sarebbe rinchiusa e sedata da anni. Tutte proiezioni attendibili ma prive di fondamento.

Nell'ottobre del 2018, durante i lavori di restauro della Nunziatura Vaticana di via Po, vengono ritrovate alcune ossa. Il Vaticano concede il via libera agli esami del Dna: potrebbero appartenere a Emanuela o alla giovane Mirella Gregori. Le indagini, affidate dalla Santa Sede alla procura di Roma e alla Polizia Scientifica, si concludono con un nulla di fatto. Quelle ossa non appartengono a nessuna delle due ragazze. L'ennesimo buco nell'acqua, a un passo o lontano anni luce dalla verità.

"Cercate dove indica l'angelo” 

La svolta arriva l'estate del 2019. L'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, riceve una lettera anonima in cui si fa riferimento ad una tomba del Cimitero Teutonico “dove indica l'angelo”, recita testualmente il testo della missiva. In un punto esatto del camposanto infatti, si troverebbe la statua di un angelo che impugna una pergamena con una formula in latino: “requiescat in pace”.

Quanto basta ai familiari di Emanuela per redigere un'istanza formale al Segretario di Stato Vaticano, Parolin, in richiesta di apertura del loculo soggiacente la statua. L'11 luglio 2019 vengono aperti due loculi, quello della principessa Sofia di Hohenlohe-Waldenburg-Bartenstein e della principessa Carlotta Federica di Meclemburgo-Schewein, entrambe defunte nell'Ottocento. Le tombe sono vuote ma, scavando più a fondo, vengo ritrovati ben 26 sacchi di ossa. Le verifiche dei frammenti, vengono affidate a Giovanni Arcudi, perito d'ufficio della Santa Sede, che dopo averle esaminate decreta non appartenere alla giovane scomparsa il 22 giugno 1983.

Il 30 aprile 2020 dalla sala stampa vaticana viene emesso un comunicato che archivia l'inchiesta. “Le verifiche sui reperti – recita la nota stampa – effettuate dal professor Giovanni Arcudi, perito d'ufficio, alla presenza dei consulenti della famiglia Orlandi, hanno portato a concludere che i frammenti rinvenuti non appartengono alla povera Emanuela: i più recenti risalgono ad almeno 100 anni fa. Di qui, la richiesta di archiviazione che chiude uno dei capitoli della triste vicenda, nella quale le Autorità vaticane hanno offerto, sin dall'inizio, piena collaborazione. Il provvedimento di archiviazione lascia alla famiglia Orlandi di procedere, privatamente, ad eventuali ulteriori accertamenti su alcuni frammenti già repertati e custoditi, in contenitori sigillati, presso la Gendarmeria”.

La scelta della Santa Sede non ha fermato la famiglia Orlandi, per nulla intenzionata ad abbandonare la pista o intraprenderne di nuove. Sono trascorsi decenni da quel pomeriggio torrido di giugno ma il tempo sembra essersi fermato: cosa è successo a Emanuela? "Potrebbe essere ancora viva - conclude Pietro - Di una cosa sono certo, chi sa come stanno le cose è ancora al suo posto. Ma noi non ci fermeremo finché non sarà fatta giustizia".

Ultime notizie su Emanuela Orlandi

A cavallo tra la fine del 2022 e l'inizio del 2023 una nuova attenzione ha circondato il caso Orlandi, grazie anche alla realizzazione della serie Netflix "Vatican Girl". Per questo si sta lavorando a una commissione parlamentare d'inchiesta e il Vaticano e la procura di Roma hanno aperto un fascicolo d'indagine. L'istituzione della commissione al momento è stata soggetta a vari rinvii.

Da parte sua la famiglia, supportata dall'avvocato Sgrò, aveva da tempo richiesto di sottoporre agli inquirenti della Santa Sede degli screen di una chat su WhatsApp di cui sarebbe entrata in possesso: questa chat potrebbe rivelarsi cruciale per scoprire quale sia stato il destino della giovane Emanuela. Pietro Orlandi è stato ascoltato in Vaticano dal promotore di giustizia Alessandro Diddi ad aprile 2023, consegnandogli tutto il materiale in proprio possesso.

Inoltre la famiglia ha ingaggiato dei periti, come tecnici audiofonici che sono al lavoro, tra l'altro, su un'audiocassetta inviata a luglio 1983 all'Ansa. Nell'audiocassetta, liquidata al tempo come un collage di audio presi da film porno, si sente la voce, classificata come quella di un'adolescente di area romana negli anni '80, di una giovane torturata: la famiglia Orlandi ha sempre creduto quella voce assomigliare a quella della figlia e sorella perduta. Intanto emergono storie agghiaccianti sulle amiche e gli amici della giovane scomparsa: due delle persone a lei vicine sono finite in istituti di cura, mentre un’altra vive all'estero dopo essere stato sospettato di essere vicino ai rapitori.

Estratto dell’articolo di Fabrizio Peronaci per “il Corriere della Sera” il 22 giugno 2023.

A furia di domandarsi che fine abbia fatto e di rivederla nella foto con la fascetta tra i capelli, oppure mentre suona il flauto al saggio di musica, milioni di italiani hanno finito per volerle bene. Emanuela la sequestrata più famosa al mondo. Emanuela la ragazzina mai cresciuta, rimasta ai 15 anni in cui sparì. Emanuela emblema dei più sordidi intrighi. Sono 40 anni, domani: 

macchina indietro alle 19 del 22 giugno 1983, […] Oltretevere comandava il papa-sciatore, il primo pontefice nato oltrecortina, che in quelle ore si trovava nella sua Polonia, acclamato da un intero Paese piegato dal giogo comunista. La Guerra Fredda era allo zenit.

Tempo di trame, di spie e di banchieri odorosi d’incenso: Emanuela Orlandi, la figlia del commesso di Giovanni Paolo II, uscì dalla scuola di musica di Sant’Apollinare, si avviò alla fermata del bus, confidò all’amica Raffaella di aver ricevuto un’offerta di lavoro, telefonò a casa e da allora la stiamo ancora aspettando. 

Nessuna persona sulla faccia della terra è stata cercata tanto. Due Stati coinvolti, altrettante inchieste durate in tutto 21 anni, i fascicoli aperti di recente in Vaticano e a Piazzale Clodio, le discussioni per istituire una commissione parlamentare, la serie tv che ha dato al giallo risonanza planetaria, reportage, libri...[…]

I soldi, tanti, in uscita dalle Mura leonine per sostenere la causa polacca. Il crack Ior-Ambrosiano. Monsignor Marcinkus, il suo sigaro e la fama di donnaiolo. La baronessa Rothschild morta in circostanze misteriose. Il banchiere Calvi «suicidato» a Londra. La malavita nelle pertinenze del Cupolone. La lista dei 121 prelati massoni... […] 

Agca che non fa appello alla condanna all’ergastolo. Agca che riceve due 007 in cella. Agca che accusa la Bulgaria (ed estensivamente il Cremlino) di essere stata mandante del crimine. Le voci di una sua scarcerazione grazie a un sequestro di persona. Emanuela che scompare il 22 giugno 1983 e prima di lei, il 7 maggio, la coetanea Mirella Gregori. 

È una sfida difficile ma ancora possibile, la ricerca della verità su Emanuela, Mirella e sulle vittime di gialli collegati (almeno due: Josè Garramon, investito in pineta, e Katy Skerl, strangolata in una vigna). Posta sul tavolo l’enorme mole di nomi, piste, falsi allarmi e depistaggi, infatti, il lettore può inoltrarsi a ragion veduta nell’intrigo, alla luce di un faro che va tenuto sempre acceso: quello dei riscontri. 

La pista sessuale, spesso evocata senza alcuna prova, fino a tirare in ballo persino il Papa Santo, su cosa si fonda? E quella economica? E quella internazionale? Le due quindicenni sono state forse ostaggi «multiuso», buoni per ricatti su più livelli, frutto del groviglio di trame (spie, massoneria, scandali finanziari) tipiche di quei tempi cattivi?

Tre indizi fanno una prova, diceva Agatha Christie. Qui sono molti di più. Sfogliando i 6 volumi, il polverone si dirada, lasciando affiorare elementi di rilievo, spesso dimenticati. Ad esempio che i servizi francesi lanciarono un Sos-sequestri con largo anticipo; che altre due giovani concittadine del Papa furono pedinate prima che la scelta ricadesse su Emanuela; che famosi 007 di casa nostra (Pazienza) ed eminenti prelati (il braccio destro del cardinale Casaroli) cospirarono per fare fuori Marcinkus; che Emanuela emigrò in Vaticano tre mesi prima di sparire (la cittadinanza era funzionale al piano di ricatto?); che Agca ritrattò le accuse a Est, guarda caso, subito dopo il sequestro.

Le avvisaglie di una sporca operazione in codice sulla pelle di ragazzine, insomma, furono parecchie: Emanuela confidò a un’amica di doversi assentare per un po’, come se fosse stata già «agganciata»; un’altra amica fu terrorizzata al punto da finire sotto cure psichiatriche; l’ultima telefonata a casa tira in ballo la ditta di cosmetici Avon, parola che, letta al contrario, riporta alla fondazione pontificia Nova, cassaforte vaticana operativa all’epoca; il Sisde attenzionò casa Orlandi fin da subito; 

lo stesso Sisde pagò la parcella dell’avvocato degli Orlandi; e infine non va dimenticato il superteste che consegnò il flauto riconosciuto dai parenti di Emanuela e dimostrò di sapere che la bara di Katy Skerl era stata rubata, come poi confermato dall’apertura della tomba, un anno fa. È stato l’ultimo, macabro sigillo a una storia sbagliata. Emanuela: come in cielo, così in terra. E così sia...

Estratto dell’articolo di Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 22 giugno 2023.

A quarant'anni dalla scomparsa, il tridente su Emanuela Orlandi è già spuntato.

Inchiesta del vaticano, commissione parlamentare d'inchiesta e nuova indagine della procura di Roma dovevano assestare un colpo micidiale a chi depista, insabbia e manomette la verità per consegnare a noi tutti, finalmente, i sigilli su una delle storie più tormentate del nostro Paese. 

Invece, la creazione della commissione è finita nella melina e nelle sabbie mobili della politica con una parte trasversale delle Camere che non ne vede e apprezza necessità e urgenza. L'indagine del promotore della giustizia Alessandro Diddi subisce scossoni, polemiche, attacchi e diffidenze tra lo stesso e i familiari della ragazza. 

Rimane in piedi la nuova inchiesta della procura di Roma. Il sostituto Stefano Luciani lavora sottotraccia. Ha imposto ai suoi investigatori il riserbo, indispensabile per evitare il puntuale affondamento patito ogni qualvolta che si è tentato di accendere una lampadina sulla fine di Emanuela. 

Aldilà dell'ottimismo, c'è però da chiedersi se i magistrati di piazzale Clodio riusciranno davvero a segnare qualche risultato, essendo ormai questa la terza indagine avviata a Roma e dopo che per decenni si è scandagliato ogni possibile filone, passato al setaccio ogni indizio.

Certo, quando l'allora procuratore di Roma chiese e ottenne l'archiviazione, il suo aggiunto Giancarlo Capaldo voleva proseguire negli approfondimenti, a iniziare da quelli sul controverso Marco Accetti – misterioso testimone affacciatosi nell'ultimo anno di investigazioni – ma è un fatto che i tasselli mancanti andrebbero cercati soprattutto oltre le mura leonine. 

Ed è per questo che sia il filone penale di Diddi, sia la commissione parlamentare potevano rompere i cardini della porta della menzogna. Invece, quando il promotore di giustizia ha mosso rilievi sull'opportunità che la nostra politica si occupi del caso, arrivando a dire che «la commissione d'inchiesta sarebbe un'intromissione», nessuno ha detto niente. È stato il libera tutti. Nessuno ha stigmatizzato le parole politiche di questo «magistrato».

Nessuno ha pesato l'intromissione sua nelle scelte del nostro Parlamento sovrano su un sequestro di persona avvenuto – si ricorda – in Italia. Nessuno, ancora, ha solo ricordato che per quarant'anni il vaticano è stato passivo su questa vicenda non avviando nessuna indagine, almeno formale, sulla sparizione di una sua cittadina. 

[…] L'anniversario dei quarant'anni dalla scomparsa poteva essere un'ottima coincidenza per sciogliere il mistero e tagliare il traguardo della verità. La recente docufiction Vatican Girl aveva sollecitato domande e inquietudini dagli episcopati più lontani, il rischio che questa storia del passato venisse usata strumentalmente contro l'attuale pontefice indispettiva il gesuita di santa Marta. Ma sembra trovarsi ora di fronte a un fuoco di paglia. 

Complici nella frenata sono state sicuramente certe intercettazioni su un possibile ruolo di Giovanni Paolo II, stando almeno alle chiacchiere tra personaggi vicini alla banda della Magliana. Testi diffusi tempo fa ma riattualizzati ed enfatizzati tanto da impaurire tanti, troppi. Che Wojtyla possa aver saputo e avuto addirittura un ruolo sembra e rimane lunare e calunnioso fino a prova contrario ma solo la mera ipotesi ha offerto il potenziale esplosivo che questa ricerca di verità racchiude.

Qualcuno deve aver strumentalizzato le intercettazioni per terrorizzare in modo da lasciare tutto ancora sospeso. Adesso bisognerà capire cosa accadrà domenica all'Angelus delle 12, la famiglia Orlandi ha annunciato un sit in che andrà poi a confluire in piazza san Pietro. Si tratta di vedere se il Papa farà cenno all'anniversario o se, invece, ignorerà la questione. […]

Il gelo ha raffreddato gli entusiasmi di tutti e riaperto gli scontri. Ed è un peccato perché sembrava essere arrivata l'ora della verità dopo anni di falsi testimoni, mitomani, ex agenti dei servizi segreti, millantatori e faccendieri. […

Emanuela Orlandi "sapeva troppo": il tassello che mancava, perché è stata rapita. Libero Quotidiano il 21 giugno 2023

"La ragazza che sapeva troppo": così Giancarlo Capaldo, il pm del caso Orlandi, la giovane scomparsa a Roma il 22 giugno di 40 anni fa, ha definito Emanuela. "Ritengo che lei sapesse qualcosa, qualcosa di cui forse non era del tutto consapevole, qualcosa che sapeva senza quasi accorgersene ma che interessava ai responsabili della sua sparizione", ha detto al Giorno il magistrato, che si occupò del caso dal 2008 al 2015.

Capaldo, però, non crede a chi pensa si sia trattato di uno scambio di persona: "Ritengo che doveva essere rapita proprio lei". Il caso, comunque, sembra ancora lontano dall'esser risolto. "Ci sono state innumerevoli false piste. Alcune sconfessate dal tempo, altre perché prive di qualunque riscontro. Emanuela viva in Turchia o in Marocco, ad esempio, pure illazioni", ha spiegato il magistrato. Inoltre, se per lui non è affatto credibile la figura di Alì Agcà, lo sarebbe invece quella di "Renatino De Pedis ma non come boss di chissà quale super struttura criminale. La Banda della Magliana era più che altro un agglomerato di bande di raccogliticci. De Pedis è nell’ambito di questi personaggi dalle connotazioni criminali ma che aveva contatti con persone come don Pietro Vergari, con un mondo ecclesiastico di cui poteva usufruire o che di lui si poteva servire". 

Tuttavia, Capaldo non ritiene che la ragazza possa essere ancora viva: "Non mi sembra probabile, piuttosto è possibile che non sia morta nell’immediatezza". Secondo il pm, inoltre, il Vaticano avrebbe alzato un muro in tutti questi anni sulla vicenda: "Non soltanto per quanto riguarda gli aspetti dell’ispezione alla tomba di De Pedis a Sant’Apollinare, ma nel corso di tutta la storia il Vaticano ha brillato per assenza totale di collaborazione, non hanno collaborato con me come con valenti colleghi e in nessuna delle forme proposte, è oggettivo". Infine ha chiosato: "C’è stata molta omertà e l’omertà nasconde sempre qualcosa".

Estratto dell'articolo di Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 20 giugno 2023.

Giovedì 22 giugno saranno trascorsi quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne vaticana di cui si sono perse misteriosamente le tracce nel 1983. Quattro decenni di silenzi e depistaggi, ma in questi mesi qualcosa è cambiato. 

In parlamento si discute da settimane dell’istituzione di una commissione di inchiesta sul caso, mentre a gennaio il Vaticano, su richiesta di papa Francesco, ha aperto per la prima volta un fascicolo d’indagine sulla scomparsa, che oggi è in mano al promotore di giustizia Alessandro Diddi. 

Quest’ultimo, se da un lato ha chiesto e ottenuto la collaborazione della procura di Roma, pochi giorni fa, convocato a palazzo Madama, si è detto contrario alla commissione parlamentare. Che sarebbe, a parer suo, una «intromissione perniciosa». 

Il niet di Diddi ha creato fastidi tra deputati e senatori che stanno lavorando all’istituzione della commissione e alla stessa famiglia Orlandi, che crede che un organismo terzo possa essere utile alla ricerca della verità. 

Anche dentro le sacre mura i nemici di Diddi (che rappresenta l’accusa nel controverso processo contro Angelo Becciu) dicono che non voglia avere nessuno, tantomeno il parlamento, che possa mettere i bastoni tra le ruote alla sua inchiesta interna.

Qualcuno, soprattutto, indica anche nel caso Orlandi i rischi potenziali di un conflitto di interesse, visto che Diddi è ancora oggi pm del papa Oltretevere ma contemporaneamente avvocato in Italia. Davvero la prima indagine in Vaticano su Orlandi rischia di collidere con la sua attività di legale? «Non c'è interferenza» e «faccia attenzione a quello che scrive, proprio perché faccio l’avvocato so difendermi », replica a Domani. 

Il curriculum di avvocato di Diddi è noto, e può creare qualche intreccio. In passato l’uomo con due lavori ha infatti difeso nel processo Mafia capitale Salvatore Buzzi, imputato insieme a Massimo Carminati, il teorico del “mondo di mezzo”, maturato tra i Nuclei armati rivoluzionari della destra eversiva e la banda della Magliana.

La stessa banda che continua a tornare nelle molteplici piste del caso Orlandi, e su cui ha indagato la procura di Roma fino all’archiviazione del 2015, firmata dall’allora capo della procura di Roma Giuseppe Pignatone. Oggi presidente del tribunale della Santa sede. 

 Sul ruolo della banda nella vicenda Orlandi Diddi nutre qualche dubbio. «Temo che il ruolo della Banda della Magliana nel caso Orlandi sia stato sopravvalutato, sebbene esistano alcune evidenze», ha detto al Corriere. Dichiarazione che ha sorpreso molti, visto che la sua indagine da pm papale è appena iniziata, e le conclusioni in teoria sarebbero molto al di là da venire.

Come promotore di giustizia Diddi (che finchè è magistrato del papa ha anche la cittadinanza vaticana) difende gli interessi dello stato vaticano. Nominato direttamente dal papa (e quindi non terzo rispetto al potere esecutivo) è anche iscritto all’albo degli avvocati di Roma. 

Secondo il codice deontologico, oltre ad avere il dovere di fedeltà all’assistito, deve evitare qualunque conflitto di interessi, che sussiste anche nel caso in cui il nuovo mandato determini la violazione del segreto sulle informazioni fornite da altra parte assistita o cliente, o la conoscenza degli affari di una parte possa favorire ingiustamente un’altra.

Oltre Buzzi Diddi ha molti assistiti famosi, cognomi noti nel panorama criminale italiano. Diddi ha difeso alcuni membri della famiglia Casamonica, parte del clan mafioso finito nel processo Mafia capitale. «Non so a chi alluda. Difendo alcuni Casamonica e la settimana scorsa non dico che sono stati assolti ma le pene sono state dimezzate. Quelli che difendo io non hanno contatti con Carminati», spiega a Domani. 

[…] 

La nascita della pista della Banda della Magliana nella sparizione di Emanuela Orlandi si deve a tre momenti cruciali: la telefonata del 2005 a Chi l’ha visto che ha collegato il caso alla sepoltura del boss Enrico “Renatino” De Pedis nella basilica di Sant’Apollinare; la diretta testimonianza della compagna di allora di “Renatino”, Sabrina Minardi, che ha riferito di aver visto con i suoi occhi Emanuela Orlandi tenuta in ostaggio dalla Banda e poi riconsegnata al Vaticano; infine un’intervista audio a Marcello Neroni, ex sodale di De Pedis, che ha lanciato una pista interna sulla pedofilia.

Minardi nel 2008 ha fatto direttamente il nome di Carminati. Le hanno chiesto se “il nero” sapesse della ragazza. «Sicuramente sì», la sua risposta. Carminati, sentito dai pm, ha smentito tutto. 

Diddi (in versione promotore di giustizia) sta poi collaborando con la procura di Roma guidata da Francesco Lo Voi per la risoluzione del caso Orlandi e, ha riferito più volte, ha il mandato del papa – il suo datore di lavoro – a indagare la verità «senza riserve». 

La collaborazione con la procura solleva però delle perplessità per le possibili incompatibilità tra i due ruoli che svolge. In via teorica, per esempio, Diddi come magistrato vaticano che usa una polizia giudiziaria (la gendarmeria) potrebbe entrare in possesso di informazioni di cui potrebbe giovarsi per la sua attività di avvocato in Italia.

Può essere dunque acquisita un’indagine gestita, coordinata e firmata di chi è in potenziale conflitto di interessi vista l’attività di avvocato? Cosa dire delle sue due carriere? «Lo sa anche il mio datore di lavoro, e mi ha scelto proprio per questo», risponde Diddi. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per “il Corriere della Sera” il 7 giugno 2023.

Convocata per offrire risposte, l’audizione al Senato sulla scomparsa di Emanuela Orlandi finisce per amplificare i dubbi. La politica si divide (e prende tempo). La famiglia rivolge un nuovo appello per far luce sul mistero. I protagonisti dell’appuntamento s’interrogano sul confine tra verità e interferenza. 

La sfilata di investigatori e testimoni di un caso lungo quarant’anni (era il 22 giugno del 1983) non scioglie ma rilancia il giallo d’Oltretevere. Nessuno degli interpellati — il promotore vaticano di giustizia Alessandro Diddi, il presidente del Tribunale della Santa Sede Giuseppe Pignatone (già procuratore a Roma), il procuratore Francesco Lo Voi, il giornalista Andrea Purgatori e l’avvocata della famiglia Laura Sgrò — sembra però favorevole alla resa.

Non Diddi che confida nelle novità «di grande interesse investigativo» venute dalla audizione fiume di Pietro Orlandi in Vaticano. Non Lo Voi che «sulla base delle informazioni vaticane» ha avviato una nuova inchiesta. Non il cronista di lungo corso Purgatori, convinto che sia ancora possibile fare chiarezza sulla pista del ricatto finanziario alla Santa Sede (una tentata estorsione nei confronti di alcuni prelati con l’obiettivo di orientare diversamente la politica estera della santa Sede).  […] 

Dice Diddi, in un intervento che gli attirerà la perplessità dei senatori: «Aprire una terza indagine (oltre a quelle del Vaticano e della Procura di Roma, ndr ) che segue logiche diverse da quelle istruttorie sarebbe una vera intromissione e pernicioso per la genuinità del lavoro che stiamo facendo».  […]

Ma è la successiva precisazione del promotore di giustizia a evocare il vero spauracchio: «Con l’avvio di ogni indagine — spiega Diddi — se ne sviluppa una parallela sui media da evitare». Giura di non essere prevenuto ma teme l’intromissione della stampa. Intervenendo per secondo, Lo Voi ha cura di scegliere parole meno nette: «Vengo da una lunga pratica di investigazioni contro la mafia e la convivenza con le commissioni parlamentari ad hoc non ci ha mai intralciato, piuttosto temo che la commissione diventi la ribalta di personaggi che in passato si sono serviti del caso Orlandi per la propria notorietà». […]

Estratto da liberoquotidiano.it il 7 giugno 2023.

[…] Andrea Purgatori è intervenuto in ufficio di presidenza della I Commissione del Senato nell'ambito della discussione sull'istituzione della Commissione parlamentare d'inchiesta e ha dichiarato: "Nella mia esperienza sul caso Orlandi ho capito che c'erano cose di cui non si voleva parlare, ad esempio il ruolo dei servizi segreti. 

Esiste un aspetto di 'strategia del silenzio' che la Santa Sede ha usato e ben venga il fatto che il Papa abbia deciso di andare a fondo, ma non riesco a vedere il conflitto di interessi tra l'indagine penale e quella che potrebbe fare una Commissione di inchiesta utile a ricostruire uno scenario", ha concluso Purgatori. […]

Emanuela Orlandi, bomba di Purgatori in Commissione: "Vaticano e servizi..." Il Tempo il 06 giugno 2023

"Credo di essere l’unico ad aver seguito la storia di Emanuela Orlandi dall’inizio, nei primi giorni della sparizione, e credo di avere anche una buona esperienza da cronista per aver seguito molte Commissioni parlamentari di inchiesta", premette Andrea Purgatori, probabilmente il maggiore esperto del caso. È intervenuto in audizione in Commissione Affari al Senato dove si discute dell’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Orlandi e di Mirella Gregori. 

"È vero, nessuna ha mai trovato la soluzione di un mistero italiano - ha detto Purgatori - Tuttavia la cosa importante che una Commissione parlamentare di inchiesta politica deve fare è la ricostruzione dello scenario. E su questo francamente non vedo controindicazioni sull’indagine penale", afferma il giornalista che ha per questo ricordato alcuni passi avanti compiuti in passato dalle Commissioni sul caso di Ustica e Aldo Moro.

Ma c'è di più. "Nella mia esperienza sul caso Orlandi ho capito che c’erano cose di cui non si voleva parlare, ad esempio il ruolo dei servizi segreti. Esiste un aspetto di ’strategia del silenzio' che la Santa Sede ha usato e ben venga il fatto che il Papa abbia deciso di andare a fondo", afferma il conduttore di Atlantide, su La7, che ribadisce come non possa esserci un conflitto di interessi tra l’indagine penale e "quella che potrebbe fare una Commissione di inchiesta utile a ricostruire uno scenario". 

"Negli anni l’atteggiamento della Santa Sede è stato duro e violento nei confronti di chi diceva cosa diverse da quelle che si volevamo sentire. Riguardo il ricatto finanziario della Santa Sede, fui rimosso dal servizio dal Corriere della Sera. Ci sono cose di cui non si è mai voluto parlare, ad esempio del ruolo dei servizi segreti. Non sono mai ascoltati e queste sono proprio le tipiche attività che può svolgere una Commissione d’inchiesta", ha spiegato Purgatori. Recentemente, su La7, il giornalista ha anche dedicato diverse puntate di Atlantide alla vicenda, ospitando ad esempio il fratello di Emanuela Pietro Orlandi, e mandando in onda il famoso audio in cui un ex membro della Banda della Magliana che lanciava gravi accuse a Papa Karol Wojtyla. 

Emanuela Orlandi, l'ex carabiniere: "Dov'è sepolta". Si scatena la furia del fratello. Libero Quotidiano il 03 giugno 2023

Un giallo infinito, quello di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa in Vaticano ormai 40 anni fa. Un caso riaperto: la procura di Roma ha infatti ripreso l'indagine, di concerto con il Vaticano. E in queste ultime ore sta facendo molto parlare quanto detto da Antonio Goglia, ex carabiniere ed impiegato comunale di San Giorgio a Cremano, parole riferite al procuratore Stefano Luciano: "Nei sotterranei di Castel Sant' Angelo, o Mole Adriana, altrimenti detta Mausoleo di Adriano, dietro una porta rinforzata dovrebbe trovarsi una stanza di circa 20 metri quadri, nella quale dovrebbero trovarsi resti umani, compresi quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori", ha fatto sapere l'ex carabiniere.

Una scoperta, ha aggiunto, a cui sarebbe arrivato lui stesso dopo "studi approfonditi" e in base a "fatti concreti". L'ex carabiniere invoca anche di essere interrogato dal magistrato vaticano Alessandro Diddi, convinto di avere elementi importanti, anzi risolutivi.

Peccato però che Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela e che ormai da decenni si batte per la verità, non abbia gradito molto quanto detto da Goglia. Il disappunto viaggia sui social, laddove scrive: "Purtroppo leggo articoli e ipotesi senza movente reale che passano per certe al centro per cento e che generano solo confusione. Mi dispiace - rimarca -. Tanto si sa che ogni cosa viene, senza controlli, ripresa da altri siti generando confusione su confusione, ipotesi su ipotesi e qualcuno sarà contento. Come gridare al lupo al lupo perché quando uscirà quella reale sarà considerata come tante, falsa", conclude un furibondo Pietro Orlandi. 

Estratto da quotidiano.net il 4 giugno 2023.

Emanuela Orlandi sarebbe sepolta a Castel Sant'Angelo, assieme a Mirella Gregori: a sostenerlo è un ex carabiniere, Antonio Goglia, impiegato comunale di San Giorgio a Cremano, in una lettera inviata al sostituto procuratore Stefano Luciani incaricato di riaprire le indagini sul mistero Orlandi. 

A scriverlo è ItaliaOggi nell'edizione di ieri. "..Vi comunico che nei sotterranei del Castel Sant'Angelo, dietro una porta rinforzata, dovrebbe trovarsi una stanza di circa 20 metri quadri nella quale dovrebbero trovarsi resti umani, compresi quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. La struttura dovrebbe ricadere sotto l'Autorità del Comune di Roma e perciò non dovrebbe essere difficile approntare un sopralluogo”, si legge nella missiva.

"È pura follia, com'è possibile che gli venga data tutta questa attenzione?”. Lo dice Pietro Orlandi all'ANSA sulle dichiarazioni dell'ex carabiniere Antonio Goglia […]. “Lo conosco da anni - spiega -, ogni volta cambia ipotesi […] È uno che racconta frottole”. 

"Già in passato - ricorda Pietro Orlandi - aveva scritto in procura, ogni volta con ipotesi senza riscontri, ipotesi completamente diverse tra loro. È passato, come movente, dalla teologia della liberazione, ai preti pedofili di Boston, al terrorista Carlos, ai Marrani e altri”. 

[…]--  Secondo Piero Orlandi, “il fatto allucinante è proprio che tutti gli vanno dietro - ribadisce , e questo crea la solita confusione. Poi in un momento particolare come questo è assurda questa cosa, veramente assurda”.

"Il suo intento è apparire". Emanuela Orlandi e la “giostra dei depistatori”, le parole dell’ex carabiniere (“so dove è sepolta”) scatenano il fratello Pietro. Redazione su Il Riformista il 4 Giugno 2023

Il corpo di Emanuela Orlandi sepolto a Castel Sant’Angelo, assieme a quello di Mirella Gregori. A sostenerlo è l’ex carabiniere Antonio Goglia, impiegato comunale di San Giorgio a Cremano (Napoli), in una lettera inviata al pm di Roma Stefano Luciani che sta lavorando sulla nuova inchiesta aperta per far luce sulla misteriosa scomparsa, avvenuta 40 anni fa, della giovane 15enne.

“Vi comunico – è il contenuto della missiva, secondo quanto riporta il quotidiano Italia Oggi – che nei sotterranei del Castel Sant’Angelo, o Mole Adriana, altrimenti detta Mausoleo di Adriano, dietro una porta rinforzata dovrebbe trovarsi una stanza di circa 20 metri quadri nella quale dovrebbero trovarsi resti umani, compresi quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. La struttura dovrebbe ricadere sotto l’Autorità del Comune di Roma e perciò non dovrebbe essere difficile approntare un sopralluogo”.

Una lettera che inizia con una premessa: “Avendo condotto studi approfonditi e basandomi su fatti concreti che al momento ritengo preferibile non porre in evidenza”. Parole che scatenato Pietro Orlandi, fratello di Emanuele: “E’ pura follia, com’è possibile che gli venga data tutta questa attenzione?”. Orlandi ritiene l’ex militare Goglia poco attendibile: “Lo conosco da anni, ogni volta cambia ipotesi, e a cominciare da Nicotri o Peronaci gli dànno tutto questo spazio. E’ uno che racconta frottole”.

“Già in passato – ricorda Pietro Orlandi – aveva scritto in procura, ogni volta con ipotesi senza riscontri, ipotesi completamente diverse tra loro. E’ passato, come movente, dalla teologia della liberazione, ai preti pedofili di Boston, al terrorista Carlos, ai Marrani e altri”. Secondo il fratello di Emanuela Orlandi, “il suo intento è apparire su un articolo e, grazie a Nicotri che l’ha intervistato, ci riesce e tutti gli vanno dietro. Assurdo”. Secondo Piero Orlandi, “il fatto allucinante è proprio che tutti gli vanno dietro – ribadisce , e questo crea la solita confusione. Poi in un momento particolare come questo è assurda questa cosa, veramente assurda”.

“Per rispetto della pubblica opinione e del Parlamento stesso, mi auguro che il Senato approvi celermente la costituzione della Commissione d’Inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. È ormai evidente che dal giorno in cui si è capito che il Parlamento se ne sarebbe davvero occupato è ripresa la giostra dei depistatori, degli esibizionisti, dei furbi che cercano di creare nuove cortine fumogene. Invece serve un lavoro serio, di setaccio e di collaborazione delle massime istituzioni italiane e vaticane. La commissione a questo serve. La si approvi senza più ritardi”. Così in una nota il deputato del Partito Democratico, Roberto Morassut. 

Emanuela Orlandi, "in una stanza di 20 metri quadri". L'ex carabiniere terremota il Vaticano. Libero Quotidiano il 02 giugno 2023

Dopo che la Procura di Roma non esclude la riapertura delle indagini, il caso di Emanuela Orlandi potrebbe subire un'altra svolta. Complice Antonio Goglia. L'ex carabiniere è infatti convinto che il corpo della 15enne scomparsa il 22 giugno 1983 sia sepolto a Castel S. Angelo anziché nel cimitero Teutonico del Vaticano. Una tesi già spiegata attraverso una lettera indirizzata al sostituto procuratore Stefano Luciani, incaricato dalla Procura della Repubblica di Roma di riaprire le indagini sul mistero Orlandi. Nella missiva Goglia scende nei dettagli: "Vi comunico che nei sotterranei del Castel Sant' Angelo, o Mole Adriana, altrimenti detta Mausoleo di Adriano, dietro una porta rinforzata dovrebbe trovarsi una stanza di circa 20 metri quadri. Nella quale dovrebbero trovarsi resti umani, compresi quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. La struttura dovrebbe ricadere sotto l' Autorità del Comune di Roma e perciò non dovrebbe essere difficile approntare un sopralluogo. Mi assumo tutta la responsabilità di quanto dichiaro e sono pronto a risponderne civilmente e penalmente".  

A riguardo, raggiunto da ItaliaOggi, l'ex carabiniere cita il vecchio canone 1058 (quello che proibisce il matrimonio tra religiosi). Quest'ultimo, "è stato confermato dall'attuale codice di diritto canonico del 1983, anno dei sequestri della Orlandi e della Gregori. Il numero 1058 del canone in questione i sequestratori lo indicano chiaramente nel chiedere che il codice telefonico di loro accesso alla Segreteria di Stato vaticana per le trattative fosse il codice 158".

Ecco allora la sua conclusione, a cui è arrivato "avendo condotto studi approfonditi e basandomi su fatti concreti che al momento ritengo preferibile non porre in evidenza": "Secondo la mia tesi, il codice 158 identifica senza ombra di dubbio il canone 1058 che impone il celibato sacerdotale. Quel codice serve a fare comprendere immediatamente cosa vogliono i sequestratori: l'abolizione del celibato sacerdotale, canone 1058, altrimenti avrebbero ucciso la Orlandi e la Gregori". 

Crimini e Criminologia”: lo speciale dedicato a Mirella Gregori scomparsa 40 anni fa. Nicola Santini su L'Identità il 7 Maggio 2023

Non solo “Quarto grado” e “Chi l’ha visto”. Da un po’ di tempo a questa parte, all’interno del panorama televisivo, si sta facendo spazio un programma in onda ogni domenica alle ore 21 su Cusano Italia TV (Canale 264 del digitale terrestre): “Crimini e Criminologia” con Fabio Camillacci. Stasera, sempre alle 21, andrà in onda una puntata speciale ed esclusiva, incentrata sulla scomparsa di Mirella Gregori, la ragazza 15enne che quarant’anni fa spariva nel nulla, il 7 maggio 1983 a Roma. L’avvenimento fu collegato alla sparizione della cittadina vaticana Emanuela Orlandi, che scomparve un mese e mezzo dopo. Mirella Gregori, nata a Roma il 7 ottobre 1967, figlia minore dei titolari di un bar di via Volturno, viveva con i suoi genitori a Porta Pia ed era descritta da tutti come una brava ragazza che studiava con profitto presso un istituto tecnico della Capitale. Il giorno della scomparsa, Mirella Gregori si recò regolarmente a scuola e tornò a casa attorno alle 14, dopo essersi intrattenuta in un bar vicino casa con l’amica Sonia, che venne poi ascoltata nell’ambito delle successive indagini. Sonia dichiarò che lei e Mirella avevano parlato del più e del meno e non seppe fornire altre informazioni. Tornata a casa, Mirella rispose al citofono e fu invitata a scendere da un sedicente amico, tale “Alessandro”. La ragazza uscì dicendo alla madre che aveva un appuntamento presso il monumento al bersagliere di Porta Pia con un vecchio compagno di classe, il quale, ascoltato poi dagli inquirenti, dichiarerà che quel pomeriggio era impegnato altrove. Sono passati 40 anni ma di Mirella Gregori nessuna traccia. A “Crimini e Criminologia” interverrà in grande esclusiva Antonietta Gregori, la sorella maggiore di Mirella. Sarà presente anche il legale della famiglia, l’avvocato Nicodemo Gentile, Presidente di Penelope l’Associazione delle Famiglie e degli Amici delle Persone scomparse. Inoltre, interverranno: il giornalista e scrittore Mauro Valentini che ha scritto il libro “Mirella Gregori: cronaca di una scomparsa”, la psicoterapeuta e giornalista Barbara Fabbroni, il criminologo e giornalista Michel Maritato. Si parlerà di “scomparsi” e di Mirella Gregori anche nello spazio dedicato alla rubrica “La chiave di volta”, con la psicologa e criminologa Antonella Elena Rossi. Infine, consueto appuntamento con “L’Osservatorio sui crimini di guerra” in Ucraina grazie alla corrispondente Iryna Guley.

Emanuela Orlandi e il caso di Mirella Gregori, sequestrata 40 anni fa: spunta una nuova testimone. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della sera il 7 Maggio 2023

Il 7 maggio 1983 la figlia di un barista in zona Termini sparì dopo una citofonata. Le modalità del "prelevamento" e un precedente tentativo di aggancio 

C'è una fotografia, nella tragedia di Mirella Gregori, la seconda quindicenne scomparsa il 7 maggio 1983, esattamente 40 anni fa, che la unisce alla "gemella" (di destino e di sfortuna) Emanuela Orlandi, sparita un mese e mezzo dopo, il 22 giugno dello stesso anno. In questa foto Mirella sorride al papa. Proprio lui, Karol Wojtyla, il pontefice Santo nelle ultime settimane "oggetto di offese offensive e infondate", come ha ricordato papa Francesco all'Angelus del 16 aprile. Mirella, in questi quattro decenni, è stata di certo una "sequestrata di serie B", come ha ricordato spesso la sorella Maria Antonietta, rispetto alla figlia del commesso pontificio (qui cosa sappiamo per certo del caso Orlandi), ma non per questo la sua vicenda va considerata di minore importanza, dal punto di vista investigativo, rispetto a quella della "ragazza con la fascetta". I due gialli nelle indagini fin qui svolte sono sempre stati collegati. I nomi e cognomi sono stati scritti uno accanto all'altro sui faldoni. La commissione parlamentare d'inchiesta - quando nascerà, ammesso che il Senato dia presto l'ok - si occuperà anche di lei. E allora eccole - 40 anni dopo - le evidenze maggiori del mistero di Mirella Gregori (qui le foto "restaurate", assieme a quelle di Emanuela) uscita dalla casa di via Nomentana alle 15.30 del 7 maggio 1983 dopo aver ricevuto una chiamata al citofono e aver detto alla mamma «torno tra dieci minuti».

Mirella e la pista internazionale

Secondo l'ipotesi prevalente, approfondita sia nella prima inchiesta dei giudici Sica e Martella (1983-1997) sia nella seconda (2008-2015, grazie al memoriale dell'indagato Marco Accetti), la figlia del barista di via Montebello fu presa nell'ambito della pista internazionale (combinata a quella sullo Ior): Mirella Gregori cittadina italiana allontanata da casa poco prima di Emanuela, cittadina vaticana, per attuare un doppio ricatto legato alla figura di Alì Agca, l'uomo che due anni prima (13 maggio 1981) aveva sparato al papa  polacco in piazza San Pietro. E del quale, non a caso, misteriose "entità" chiesero ripetutamente la liberazione all'indomani delle due scomparse. Secondo questo scenario, il possesso delle due ragazzine avrebbe consentito al gruppo che le prelevò (il cosiddetto "Ganglio", elementi di malavita, dei servizi segreti e tonache dissidenti rispetto alla linea del Papa) di svolgere pressioni sia sul Vaticano (tramite Orlandi) sia sullo Stato italiano (tramite Gregori) per la concessione della grazia ad Agca concordata in cambio di una sua ritrattazione delle accuse a Est (in particolare la Bulgaria) come mandante dell'attentato. Ritrattazione che effettivamente avvenne il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela. Il doppio sequestro per frenare l'attacco al mondo comunista di cui Wojtyla era a quei tempi primo artefice, insomma. Queste la chiave di entrambe le operazioni.

La scelta dopo la visita in Vaticano

Ebbene,  è qui che torna la famosa foto della quindicenne Mirella sorridente, quasi estasiata, a pochi centimetri dal viso di Giovanni Paolo II, durante la visita della sua classe in Vaticano avvenuta pochi mesi prima. Un investigatore coinvolto nelle prime indagini, nonostante il tanto tempo trascorso, i depistaggi e le novità emerse, non ha modificato di un millimetro le sue convinzioni dell'epoca: nel duplice sequestro ci fu lo zampino dei servizi oltrecortina. «La Gregori fu presa nell'ambito della pista internazionale, certo. Bisogna entrare nel metodo del Kgb. Loro hanno bisogno di una persona che induca il Vaticano a trattare per liberare il turco e così salvare Mosca dalle accuse di partecipazione nel complotto e attivano i loro canali, gente infiltrata, relazioni diplomatiche, conoscenze trasversali. Scoprono la famosa foto di ‘sta ragazzina con il papa e zac!, è perfetta, si ritrovano tra le mani un’arma di ricatto potentissima, l’immagine del Santo padre con una ragazzina. Meglio di così! La scelta è fatta…» La fotografia di Mirella in Vaticano, in effetti, era stata esposta a lungo nella bacheca dell’Osservatore Romano e da lì poteva essere nata l'idea. 

L'appostamento di due ceffi nel bar

Quanto all'azione, lo stesso gruppo che fa cadere nel tranello Emanuela con la (finta) proposta di lavoro per la Avon, irretisce Mirella inducendola a dire una bugia a sua madre. Uno dei fatti riscontrati è che il giorno prima, 6 maggio 1983, Paolo Gregori, il papà, aveva organizzato un rinfresco per l’inaugurazione del bar, appena ristrutturato, e che due brutti ceffi, sotto i 30 anni, si erano affacciati, mettendo gli occhi addosso a Mirella e scattando fotografie. Gli stessi - legati alla banda della Magliana e indagati 30 anni dopo - che in base agli identikit circa un mese e mezzo dopo pedineranno Emanuela in Prati, in via Corridori, a bordo di una A112, mentre la ragazza tornava a casa in Vaticano dopo essere stata al mare con le amiche. 

L'uscita da casa e l'appuntamento a Porta Pia

L’irruzione alla festa del bar, in ogni caso, evidenzia manovre preparatorie. Il sequestro di Mirella ha certamente questo antefatto. E l’azione scatta neanche 24 ore dopo: l'unico in 40 anni a raccontare nel dettaglio la scena dell'allontanamento da casa della ragazza dai capelli ricci è stato Marco Accetti, l’uomo del flauto consegnato agli Orlandi nel 1983, il quale ha posto a verbale che «in realtà a citofonare a casa Gregori era stata la sua amica, Sonia, da noi ripresa filmicamente», e che Mirella dopo aver salutato la madre era entrata  nel bar sotto casa (gestito dai genitori di Sonia, appunto) e lì aveva cambiato gli abiti, chiudendosi nella toilette. A quel punto la busta con i vecchi vestiti sarebbe stata consegnata da Sonia “alla ragazza tedesca”, la misteriosa Ulrike del "Ganglio" descritta da Accetti come un’infiltrata della Stasi, “con i capelli biondi occultati in una parrucca castana”.  E ancora: “I vestiti furono scelti dalla Gregori dietro nostra indicazione, con etichetta identificabile. La ragazza ci diede la lista in anticipo”. Mirella sarebbe poi andata effettivamente nel piazzale di Porta Pia dove, sotto alla statua del Bersagliere, avrebbe trovato “l’imprenditore” (De Pedis, secondo il memoriale Accetti) ad attenderla in macchina, e con lui si sarebbe allontanata. Questa la versione di un'azione combinata 007-malavita alla quale la Procura nel 2015 decise di non dare seguito, archiviando l'inchiesta, ma di cui in tempi recenti si è tornati a parlare per le indagini aperte dal pm Erminio Amelio sul giallo collegato di Katy Skerl.

«Agganciammo anche un'altra ragazza»

Comunque siano andati i fatti, la bugia detta alla madre e l'aver prestato fede a chi le tese il tranello furono determinanti: la ragazza non è mai tornata. Ma Mirella Gregori non sarebbe stata la prima a essere presa di mira. Stando ai verbali depositati in Procura (che la commissione parlamentare potrebbe decidere di acquisire) c’erano stati precedenti tentativi di aggancio. In particolare, lo stesso gruppo sospettato di aver rapito le figlie del messo pontificio e del barista avrebbe avvicinato una ragazzina di terza media per compiere un'operazione del genere, circa un anno e mezzo prima. Accetti ha infatti riferito che «nel 1981 necessitavamo di alcune giovanissime per poterle usare in ricatti e pressioni, senza che le stesse ne fossero consapevoli. Dovevano solo apparire fugacemente. Per cui una mia collaboratrice di 17 anni si introdusse nella palestra del plesso scolastico di via Montebello, frequentato anche da Mirella Gregori, che comprendeva sia le medie sia le superiori, e sottrasse la borsa a una studentessa di 13 anni, notata come intelligentemente precoce. Questo gesto aveva il duplice scopo di leggere l’eventuale diario per conoscerne meglio le caratteristiche e di riceverne la riconoscenza al momento della restituzione. Valutammo la sua personalità e concludemmo che non era idonea, in quanto costei aveva uno stretto rapporto con il fratello militare, con il quale si sarebbe potuta confidare». Ci sarebbe stato anche un contatto personale, a quanto pare: «Fui io a chiamarla - aggiunge Accetti - avendo letto il telefono nel diario. Le dissi che avevo trovato la sua borsa sul cofano della mia auto e gliela feci riconsegnare dalla nostra ragazza, dicendole che era mia figlia. Lei si chiama Antonella Fini. All’epoca abitava nei pressi della scuola, nel condominio di via Goito 17, al secondo piano. Ora vive fuori Roma». Questa ragazza nel frattempo diventata donna è in grado di confermare? Corrisponde il dettaglio del fratello militare? La signora, oggi sui 55 anni, ricorda il furto dello zaino scolastico e la successiva telefonata? Se l'aggancio nella scuola di via Montebello avvenne nelle circostanze riferite, va da sé che la versione Accetti (già avvalorata dal ritrovamento nell'estate 2022 della tomba vuota di Katy Skerl) ne uscirebbe ulteriormente rafforzata... Misteri, dubbi, nuove scenari: 40 anni dopo, il giallo delle ragazzine sparite al tempo della Guerra Fredda è più attuale che mai. (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, il restauro digitale delle vecchie foto fornisce indizi sui rapitori. E regala emozioni. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 5 maggio 2023.  

Le ragazze scomparse "rivivono" grazie alle elaborazioni grafiche di un musicista-informatico. Chi le pedinò? L'uomo davanti al Senato era De Pedis? Ecco le nuove immagini 

Sono passati talmente tanti anni da quelle due giornate dannate - il 7 maggio 1983 per Mirella Gregori e il 22 giugno successivo per Emanuela Orlandi - che anche i non molti documenti rimasti risentono dell'usura del tempo. Le fotografie, innanzitutto. Brandelli di carta lucida dell'epoca - quando si aveva ancora la bella abitudine di andare al negozio per sviluppare i rullini - nel frattempo usurati, sgualciti, tagliuzzati. Emanuela? Quell'immagine lì: un quadratino in bianco e nero sfocato, con la famosa fascetta tra i capelli. Mirella? Una dolce ragazzina dai capelli ricci, ma come dissolta nella nebbia di un passato remotissimo... E allora eccolo, il modo di sentirle più vicine: restaurare quegli scatti ingialliti, colorarli secondo criteri professionali, donare alle due ragazze scomparse un volume, una profondità, una capacità di trasmettere emozioni attraverso il loro sguardo tornato vivido, intenso... Quasi come se quegli scatti fossero stati fatti oggi, con i moderni Smartphone. 

È stato un compositore di musica applicata alle immagini originario di Cagliari e oggi residente ad Amsterdam, Gregorj Cocco, 52 anni, a regalare alle famiglie (che hanno apprezzato molto) e ai tanti appassionati del caso le nuove immagini "rivitalizzate": Emanuela e Mirella come non le si sono mai viste, non più asettici ritagli di giornali ma persone catapultate nel presente. Le nuove foto, frutto anche di studi di anatomia e psicologia del viso, hanno già iniziato a circolare in Rete e sono destinate a modificare la percezione emozionale e affettiva del giallo Orlandi-Gregori. Ma non solo: il musicista si è cimentato anche con gli identikit di alcuni personaggi entrati nelle inchieste giudiziarie come possibili rapitori o fiancheggiatori del duplice sequestro, e il risultato è sorprendente: quei malavitosi che pedinarono Emanuela e la contattarono davanti al Senato, che si appostarono davanti alla scuola di musica o si collocarono davanti al bar di Mirella - alla luce delle nuove elaborazioni fotografiche - diventeranno forse riconoscibili? 

Emanuela e il suo sorriso

«Sorriso in controluce. Ripristino da vecchia foto in Bianco e Nero». La prima immagine che si è trovata tra le dita Gregorj Cocco è stata quella di una Emanuela pensosa, con un sorriso ineffabile. Eccola, con l'aggiunta del colore e dei volumi, come doveva essere agli occhi di chi le era vicino, quando non c'erano i telefonini capaci di immortalare in tempo reale qualsiasi frammento di vita. «Sono uno di quei bambini nati a inizio anni '70 - racconta il compositore  - che rimasero impressionati dalla storia di Emanuela. Fino a un mese fa ricordavo la vicenda a grandi linee, come tanti, ma poi sono incappato in una intervista a Pietro, quel signore dai capelli bianchi, il fratello, e nel sentirlo ho pensato quanto poteva aver patito quell’uomo... Allora mi sono informato meglio, ho cercato in Rete, visto le foto sbiadite senza più neanche la loro scala di grigi, e mi son detto: mi voglio dedicare a loro, a  Emanuela e all'altra ragazza, Mirella. Il mio vuole essere un regalo, nulla di più...»

La foto più famosa

Emanuela Orlandi e la sua fascetta tra i capelli: la foto più famosa, pubblicata migliaia di volte sui giornali di mezzo mondo negli ultimi 40 anni. L'elaborazione grafica fa percepire la ragazza presente, a pochi centimetri da chi osserva l'immagine, anche se essendo la foto originale danneggiata il programma non ha "letto" il colore della fascetta, che era in realtà gialla e rossa. «Le foto da me elaborate - precisa Gregorj Cocco - sono accessibili a tutti, media e giornalisti compresi, ma a due condizioni: divieto assoluto di commercializzazione e obbligo della citazione dell'autore, nel rispetto della licenza CC, Creative Commins». L'autore sul "no" a qualsiasi speculazione è molto fermo: «Non è concepibile che si possa guadagnare neanche un centesimo sulle immagini di queste due ragazze e sul calvario delle rispettive famiglie. Mando un fraterno abbraccio alla famiglia Orlandi e alla famiglia Gregori».

Con il collarino, segnalata a Bolzano

Un'altra immagine nota (e rielaborata) di Emanuela Orlandi è questa: la ragazza è voltata alla sua sinistra e indossa una maglietta bianca, una salopette di jeans e un collarino. Dettaglio importante a fini investigativi, in quanto una testimone residente a Terlano (Bolzano) nel 1985 credette di riconoscere la quindicenne sparita proprio grazie alla collanina. «Tanti mi chiedono quale software io usi - spiega Cocco - perché ormai siamo abituati a delegare tutto a un software o a una app, come quelle usate dalla ragazzine per schiarirsi la pelle o rifarsi il trucco. No! Il software sono io, con una penna per tablet e un tavoletta grafica...» Il primo passo è «scaricare la vecchia foto da elaborare sul desktop» e poi «attraverso vari programmi si esaminano i valori cromatici sulla scala dei grigi, svolgono le correlazioni con i colori e individua la lettura più esatta e rispettosa di un'espressione del viso, un sorriso, un'increspatura del volto...» 

In concerto, con l'adorato flauto

Emanuela in concerto poche settimane prima di sparire, con il suo adorato flauto traverso. «Vedere materializzarsi lo sguardo di questa ragazza  man mano che andavo avanti nell'elaborazione della foto è stata un'emozione molto forte», racconta Cocco. 

La prima Comunione 

Emanuela Orlandi durante la sua prima Comunione: l'immagine, già di per sé intensa, è valorizzata dalle nuove tecnologie. L'autore, riferendosi anche alla recente serie di Netflix, ha intitolato questo scatto: «A Catholic and Vatican Girl»

Tre sorelle Orlandi in villeggiatura

Tre sorelle Orlandi (da sinistra Emanuela, Natalina e Cristina) in villeggiatura. Manca Federica, nata dopo Pietro, che ricevette l'ultima telefonata a casa di Emanuela, nel pomeriggio del 22 giugno 1983. La fotografia, intitolata dall'autore "Una famiglia felice", è stata ridigitalizzata a colori e restaurata da un datato originale in bianco e nero.

Mirella Gregori com'era 

Tra le elaborazioni fotografiche anche quella di Mirella Gregori, scomparsa 46 giorni prima di Emanuela, il 7 maggio 1983. La sorella Antonietta, anche lei come Pietro Orlandi molto attiva nella ricerca della verità, ha ringraziato l'autore delle immagini.

I volti (non più sbiaditi) nei manifesti

I manifesti con la scritta «È scomparsa» sono elementi iconici del giallo Orlandi-Gregori, riproposti anche di recente sui muri di Roma in occasione del lancio della docu-serie di Netflix. I due manifesti della foto qui sopra furono realizzati in abbinata nel 2008, in occasione del 25° anniversario della doppia scomparsa delle ragazze. Le immagini fin qui viste erano sbiadite, nella versione digitalizzata è come se Emanuela e Mirella volessero "uscire" dalla cornice in cui il destino le ha relegate.

L'identikit del giovane al Senato: De Pedis?

L'immagine del giovane visto da un vigile urbano in corso Rinascimento, di fronte al Senato, mentre conversava poco prima delle 17 del 22 giugno 1983 con Emanuela Orlandi, apre la mini-galleria di tre elaborazioni fotografiche tratte da identikit delle forze dell'ordine. Ecco il risultato del  lavoro di Cocco: dall'identikit del sospettato si giunge a una foto (che dà la percezione forte delle tre dimensioni) di un giovane biondo e longilineo.  Il Reparto Operativo dei carabinieri attribuì al soggetto un'età compresa tra i 35 e i 40 anni, ma l'esito del lavoro al computer è diverso: «Di quest'uomo si hanno 3 identikit, 2 disegni a matita e uno assemblato - spiega il compositore e designer grafico - e in base ai dati del volto posso escludere con certezza che avesse 35-40 anni. Il software 3D mi ha dato ripetutamente il range 25-28 anni e riportandolo manualmente a 40 tutti gli altri parametri non tornano». Il dettaglio è fondamentale dal punto di vista investigativo anche oggi: secondo il supertestimone Marco Accetti quell'uomo visto davanti al Senato era il boss della banda della Magliana Enrico De Pedis, che nel 1983 aveva 29 anni. 

L'identikit del ragazzo con la frangetta

Questo giovane con la frangetta scura è stato descritto come uno dei due che si appostarono di fronte al bar dei Gregori, il 6 maggio 1983, giorno prima della scomparsa di Mirella. Il musicista-informatico, partendo dal bozzetto della polizia scientifica, ha realizzato un ingrandimento di occhi, naso e bocca. «Io non so se questo tizio sia stato mai identificato o fermato - dice Gregorj Cocco - ma con un’immagine così nitida e verosimile è presumibile che le forze dell’ordine possano avere un’idea più precisa di chi fosse costui. Se questa persona ha precedenti, anche di 40 anni fa, allora può rientrare negli archivi digitalizzati. Basterebbe inserire questa foto nel sistema per ottenere un riscontro in tempo reale». Sia chiaro, aggiunge il musicista-informatico, «il mio lavoro finisce qui: è stato un piccolo gesto per le ragazze e chi ha voluto loro bene, nell'auspicio che possa essere anche utile a chi svolge le indagini».

Gli identikit a scuola di musica e sotto casa

Ecco l'identikit dei due giovani visti da Marta S., compagna di  Emanuela, davanti alla scuola di musica il 22 giugno 1983, e da Elvira M., mamma di un'altra amica della scomparsa, a Borgo Pio, sotto casa. La somiglianza è impressionante e ha indotto a Gregorj Cocco a realizzare un'elaborazione unica dell'immagine dell'uomo che pedinava le ragazze, in varie zone di Roma. Potrà essere utile nell'ambito dell'inchiesta in corso presso il Vaticano e di quelle future? (fperonaci@rcs.it)

Nessuno deve rimanere in balìa della potestà punitiva dello Stato a tempo indeterminato. Emanuela Orlandi e Lauro Azzolini, i casi riesumati, i processi impossibili e la prescrizione come salvaguardia. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

La cronaca giudiziaria ci consegna, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro, due casi giudiziari che a mio avviso dimostrano in modo lampante quanto sia assurda la regola che esclude la prescrizione per i reati puniti con la pena dell’ergastolo. Tra un mese saranno trascorsi 40 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ne sono addirittura trascorsi 48 dal conflitto a fuoco tra brigatisti e Carabinieri alla cascina Spiotta, dove persero la vita l’appuntato Giovanni D’Alfonso e la brigatista Mara Cagol, moglie di Renato Curcio.

Apprendiamo che la Procura di Roma, in qualche modo -chissà quale- stimolata dal Promotore di Giustizia dello Stato Vaticano, ha riaperto le indagini, naturalmente contro ignoti, sul caso Orlandi; mentre il GIP di Torino ha accolto la richiesta di riapertura delle indagini a carico dell’ormai 82enne Lauro Azzolini, sospettato di essere il terzo uomo fino ad oggi mai identificato, presente alla sparatoria e dunque concorrente nell’omicidio dell’appuntato D’Alfonso.

C’è un’altra singolarità che accomuna queste due sorprendenti riaperture (riesumazioni, sarebbe meglio dire) di indagini: in entrambi i casi, l’autorità giudiziaria si era già pronunciata, valutandone l’archiviazione nel caso di Emanuela Orlandi, e nel caso di Azzolini, da quanto leggo, addirittura con la formula “per non aver commesso il fatto” pronunziata dall’allora Giudice Istruttore (il che rende misteriosa la notizia della riapertura, ma tant’è).

Sparatoria di cascina Spiotta, l’ex Br Azzolini indagato dopo 48 anni per l’omicidio del carabiniere D’Alfonso

Si pretende dunque di indagare su un fatto omicidiario certo e un altro presunto a distanza rispettivamente di 48 e 40 anni; e anzi, se davvero vi sono notizie rilevanti dal punto di vista investigativo, vi è l’obbligo di indagare, perché l’azione penale è obbligatoria ed il reato di omicidio aggravato, punito con la pena dell’ergastolo, è imprescrittibile. La pubblica opinione tende a salutare con favore queste notizie, che danno l’idea rassicurante della implacabilità della Giustizia, la quale prima o poi, pressoché al pari di quella divina, si immagina finirà per punire il colpevole di delitti così efferati. Ma uno sforzo nemmeno eccessivo di razionalità dovrebbe aiutare, invece, a coglierne l’autentica assurdità. Se infatti queste vicende sono state già investigate a lungo, per di più nella imminenza dei fatti, senza approdare ad alcun risultato, è difficile immaginare che esse possano d’improvviso essere disvelate a distanza di quasi mezzo secolo o poco meno.

Ma soprattutto, è dal punto di vista degli eventuali indagati o imputati che si deve apprezzare la assurdità di questa pretesa di sostanziale eternità dell’esercizio della potestà punitiva dello Stato. Se tutte le persone dotate di senno dovrebbero con onestà intellettuale interrogarsi sulla attendibilità, ad esempio, di prove testimoniali ma anche scientifiche assunte a 40 o 50 anni dal fatto che si intende ricostruire, ancor più dovrebbero chiedersi come una persona possa difendersi concretamente ed efficacemente dall’accusa di aver commesso un fatto 40 o 50 anni addietro. Qualcuno di voi sarebbe in grado di ricostruire, ad esempio, dove si trovasse, il 5 giugno del 1975, e a che ora?

La prescrizione, come hanno finalmente compreso in tanti, è un antico istituto giuridico che salvaguarda le regole basilari dello Stato di Diritto: nessuno deve rimanere in balìa della potestà punitiva dello Stato a tempo indeterminato. Hanno davvero senso queste assurde deroghe ad un così elementare principio di civiltà?

Gian Domenico Caiazza, Presidente Unione CamerePenali Italiane

Emanuela Orlandi, 5 audizioni al Senato prima del voto sulla commissione di inchiesta. Sarà sentito anche Pignatone. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 24 Maggio 2023

Dopo l'approvazione all'unanimità della Camera, l'iter del disegno di legge sul nuovo organismo d'indagine incontra resistenze a Palazzo Madama

Commissione parlamentare d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: novità dell’ultima ora. Il Senato ha deciso, prima di procedere al voto sull’istituzione dell’organismo bicamerale, di sentire il magistrato Giuseppe Pignatone, ex procuratore di Roma, principale artefice dell’archiviazione del caso Orlandi nel 2015, poi diventato presidente del tribunale Vaticano. 

Udienza preliminare

Pignatone sarà ascoltato dalla I commissione affari costituzionali del Senato in un’audizione preliminare voluta dai rappresentanti del centrodestra, per giungere a una valutazione più ponderata sull’opportunità o meno di approvare la commissione d’indagine. Oltre a Pignatone saranno auditi l’avvocata Laura Sgrò (famiglia Orlandi), il promotore di giustizia in Vaticano Alessandro Diddi (titolare dell’inchiesta aperta lo scorso gennaio), il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi; e il giornalista de La7 Andrea Purgatori. Gli incontri sono stati fissati per martedì 6 giugno.

Le allusioni di Pietro Orlandi

Il varo della Bicamerale, quindi, è sempre più incerto. L’iter ha subito una frenata in seguito alle dichiarazioni televisive di Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa, che all’inizio di aprile, nelle more dell’approvazione definitiva della commissione parlamentare, ha fatto pesanti allusioni ai comportamenti privati di Papa Giovanni Paolo II (“usciva la sera dal Vaticano con due monsignori polacchi e non certo per benedire le case”), dichiarazioni che tra le tante hanno provocato una secca replica di Papa Francesco, durante l’Angelus, a metà aprile. 

Il percorso inceppato

Da quel momento, il percorso del disegno di legge a Palazzo Madama, che si prevedeva molto rapido alla luce dell’approvazione della Camera, avvenuta all’unanimità lo scorso 23 marzo, si è inceppato. Le perplessità sono sopraggiunte soprattutto nella maggioranza, con una serie di emendamenti, ma anche in alcuni settori dell’opposizione (Carlo Calenda ha proposto una durata dei lavori di non più di un anno, mentre Matteo Renzi si è detto esplicitamente contrario).

 Emanuela Orlandi, caos al Senato sulla Bicamerale. Pietro: “Sono amareggiato”. L’ex Pm Lupacchini: “Chi spinse Neroni a fare quelle dichiarazioni”. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 20 Maggio 2023

Freno tirato al Senato sulla proposta per la nascita di una commissione Bicamerale parlamentare d’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Dopo essere stata approvata con voto unanime alla Camera. 

A rendere più difficile il percorso è la richiesta di svolgere audizioni prima di procedere all’esame e alla votazione del testo. Del cambio di linea della maggioranza si è fatto portavoce il senatore Marco Lisei. Durante la seduta del 16 maggio, piuttosto che discutere e votare il testo-base – per poi girarlo all’Aula di Palazzo Madama per l’approvazione definitiva – l’esponente di Fratelli d’Italia ha proposto di svolgere alcune audizioni “per ulteriori chiarimenti”. Il senatore vorebbe avere la certezza “che sia in corso un’indagine della Procura di Roma” si legge dal verbale della seduta e che “ritiene quindi opportuno udire, per esempio, l’autorità giudiziaria competente”. Il termine è fissato entro il 23 maggio.

Una commissione parlamentare, dovrebbe essere totalmente indipendente da Procura e Vaticano” – la reazione in un post su Facebook di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Orlandi rivolge comunque “un plauso ai deputati e presidente della Camera per la volontà nel pretendere all’unanimità, in tempi brevissimi, l’approvazione per la Commissione d’inchiesta.. La giustizia merita rispetto”.

La banda della Magliana – E proprio questa mattina a Roma l’ex magistrato Otello Lupacchini, in occasione della presentazione del suo ultimo libro ‘De Iniustitiae execratione’  ha rilasciato alcune dichiarazioni  sulle affermazioni dell’ex della Banda della Magliana Marcello Neroni.

Quello che mi interessa capire è quale scopo si proponeva chi lo mandò a fare quelle dichiarazioni” – dice Lupacchini commentando l’audio sul caso Orlandi con le accuse a Giovanni Paolo II. ”Neroni era un soggetto ‘border line’ rispetto alla criminalità e ai Servizi, quindi il vero problema è capire chi è perché lo abbia indotto, 14 anni fa, a fare quelle dichiarazioni a ruota libera. Cosa si voleva far succedere?” sottolinea e conclude l’ex magistrato. Giulio Pinco Caracciolo

Emanuela Orlandi e la terza inchiesta: ecco cosa può succedere adesso (e perché non è solo una storia sessuale). Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 16 maggio 2023.

I pedinamenti precedenti, l’Sos-sequestri in Vaticano, i messaggi in codice sullo scandalo Ior: numerosi riscontri accreditano un duplice movente, politico e affaristico 

Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983 

Adesso che anche la Procura di Roma, dopo il Vaticano e prima del Parlamento italiano, è tornata a indagare sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, per la prima volta da quel 22 giugno 1983 del mancato ritorno a casa della “ragazza con la fascetta” ci si può lasciare andare a un cauto ottimismo. Il caso di cronaca più torbido e inquinato da depistaggi del secondo dopoguerra, oggi sembra davvero potersi avviare a soluzione - anche grazie all’impulso dell’opinione pubblica - ammesso che le autorità giudiziarie e politiche riescano ad afferrare il bandolo giusto e a dare vita a un lavoro di squadra virtuoso e animato da pieno spirito di collaborazione. Toccherà ai titolari dei due fascicoli formalmente aperti (il promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi  e il pm Stefano Luciani supportato dal suo capo, Francesco Lo Voi, per la Procura di Roma) cercare di individuare prove robuste, capaci di spiegare come andarono effettivamente i fatti e condurre di conseguenza ai responsabili (quelli in vita, perlomeno), mentre ai 20 deputati e 20 senatori della Commissione bicamerale d’inchiesta spetterà il compito non meno difficile di inquadrare il contesto politico, affaristico e  spionistico in cui le ragazze sparirono (c’è anche Mirella Gregori, oltre a Emanuela). 

Pedofilia, nessun riscontro

In questo cold case anomalo, che tanto somiglia a una saga infinita alla Dan Brown, esiste insomma una conditio sine qua non: per sbrogliare la matassa è indispensabile inquadrare correttamente il movente. In mancanza dell’arma del delitto (che qui non è mai apparsa, neppure in via ipotetica) e del corpo (cercato invano in cimiteri fuori e dentro le Sacre mura), solo una spiegazione logicamente forte, suffragata da riscontri, potrà supplire all’assenza degli altri due “pilastri” necessari a risolvere un delitto senza colpevoli. Perché la figlia del messo di papa Wojtyla, Ercole Orlandi, fu allontanata di casa? Da sempre, in questi 40 anni scanditi da omertà e depistaggi, l’ipotesi della pedofilia (concetto per la verità improprio, visto sesso ed età) ha aleggiato sopra il mistero di Emanuela e Mirella, come possibile chiave risolutiva. Ma, a ben guardare, di indizi concreti sulla pista sessuale non ne è mai emerso neppure uno. Solo voci anonime, illazioni, sospetti. E talvolta fango, come accaduto in tempi recenti ai danni di papa Giovanni Paolo II. 

Le due piste più seguite

È un fatto, al contrario, che sulle altre due piste fin dall’inizio seguite dalla magistratura italiana e poi archiviate nel 1997 e nel 2015 – quella internazionale, legata alla richiesta di scambio con Alì Agca, l’attentatore del Papa, e quella economica, suffragata dal dissesto della casse vaticane (scandalo Ior e Ambrosiano) dissanguate dalla causa polacca e dalla spregiudicatezza di monsignor Marcinkus – di riscontri ne siano emersi parecchi, sia prima del mancato ritorno a casa delle quindicenni sia dopo, nelle convulse indagini andate in scena in quella tremenda estate 1983. E dunque eccoli, tutti i “puntelli” di un lavoro investigativo che potrebbe rivelarsi di portata storica. L’insieme del quadro indiziario e probatorio – fortificato dall’analisi del contesto politico di cui dovranno occuparsi i parlamentari – riuscirà a realizzare una costruzione solida al punto da far emergere forze occulte coinvolte nell'intrigo o persino, per effetto della nuova lettura dei fatti, i nomi dei responsabili? 

Le trame dopo l'attentato al Papa

Di certo, i servizi segreti nostrani e stranieri hanno avuto un ruolo. Sempre e fin da subito. Per cogliere sino in fondo la natura dell’operazione-Orlandi (perché di questo si trattò, in gergo da intelligence) occorre rivivere il clima infuocato dei primi anni Ottanta, quando il papa venuto dall’Est profondo conoscitore e fiero avversario dei regimi comunisti, Karol Wojtyla, si allea con il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e si fa carico della missione più ardua: vincere la Guerra Fredda, annichilire l’Impero del male sovietico. In questo scenario, il 13 maggio 1981, un giovane terrorista turco di estrema destra si presenta armato in piazza San Pietro e per un soffio (molti in Vaticano, compresa la vittima, per un miracolo della Madonna di Fatima, dicono) non lo uccide. Da quel momento la situazione si fa confusa. Il giudice istruttore Ilario Martella imbocca la cosiddetta pista “rossa”, nell’idea che dietro il killer turco, pazzo all’apparenza ma in realtà furbissimo, ci sia la mano del Kgb. Iniziano a circolare voci: Agca che riceve in cella la visita di due 007 occidentali; Agca e "l'imbeccata"; Agca che “inguaia” Mosca; Agca che non ha presentato appello alla condanna all’ergastolo (luglio 1981), perché qualcuno gli ha assicurato che uscirà di galera presto, e in altro modo...

L'allarme francese e i pedinamenti 

È in questo snodo a metà tra cronaca e storia che affiorano in controluce, già molto prima delle loro scomparse, i volti di Emanuela e Mirella… A partire dal 1982, gli stessi servizi segreti francesi dello Sdece guidati dal conte Alexandre de Marenches che a inizio 1981 avevano diramato un “alert” (purtroppo inascoltato) sull’attentato al Papa, mettono in guardia la Santa Sede (tramite l'abate dei padri premostratensi) sul possibile sequestro di cittadini vaticani. Timori eccessivi? Non proprio. Nel frattempo di fatti concreti  e inquietanti ne erano accaduti, eccome. Uomini che seguivano ragazze vicine al Santo Padre, tanto per cominciare: una sorta di “prova generale”. Sia la figlia dell’aiutante da camera di Giovanni Paolo II (Angelo Gugel) sia quella del comandante della Gendarmeria (Camillo Cibin) furono infatti pedinate a lungo dopo l’azione di piazza San Pietro. I rispettivi papà se ne accorsero e presero contromisure, ponendole sotto scorta, e così i rapitori scesero a un livello inferiore, mettendo nel mirino la figlia del commesso pontificio (che non a caso in seguito si arrabbiò moltissimo, quando scoprì di non essere stato informato del pericolo).  Raffaella Gugel, in particolare, nel luglio 1984 dichiarò a verbale davanti ai carabinieri del Reparto operativo di essere stata seguita sull'autobus da un giovane «con capelli scuri ricci, occhi scuri, tipo nazionalità turca», mentre andava a scuola, due o tre volte a settimana. Chi era costui? Va ricordato - anche se processualmente non ha avuto sbocco - che alcuni dei presunti complici di Agca processati nel 1985 assieme ai bulgari (e assolti per insufficienza di prove) in quel periodo erano a Roma. 

I moduli con «richiesta di contatto»

Altro antefatto: tra aprile e giugno del 1983, prima e dopo le scomparse, sui giornali romani uscirono almeno una trentina di trafiletti (a pagamento) firmati S.R., che lanciavano una misteriosa «richiesta di contatto» in relazione a una non meglio identificata «trattativa» su una certa «quotazione». Quattro di questi moduli vennero pubblicati sul Messaggero nei giorni a cavallo della scomparsa di Emanuela. Di chi si trattava? «La sigla voleva dire Servizi della Repubblica», è stata la decodificazione fornita da fonti qualificate, in tempi recenti. La partecipazione di 007 deviati, inoltre, fu richiamata espressamente da qualcuno che, con strazio permanente, doveva essersi fatto un'idea precisa dell'accaduto: il padre. In un'intervista al Corriere della sera del maggio 2001, Ercole Orlandi si disse convinto che sua figlia era stata «rapita dai servizi segreti».

Emigrata in Vaticano

Avanti, c'è altro. L'emigrazione di Emanuela dal luogo ufficiale di residenza, a Roma (via Nicolò V), in Vaticano (dove in realtà visse sempre), si è scoperto che fu formalizzata soltanto tre mesi prima della sparizione, come da atto anagrafico datato 23 marzo 1983. Un’altra coincidenza? O magari non sarà che il diventare a pieno titolo cittadina dello Stato pontificio fosse necessario per porre in essere un ricatto contro i vertici della Chiesa? Il cambio di Stato di residenza, in altri termini, fu forse il frutto di pressioni mai venute alla luce, nel timore di ritorsioni? 

Gli appelli del Papa santo

Per afferrare il bandolo di un caso tanto complesso e avvelenato da interessi e manipolazioni, il metodo più efficace è procedere per sottrazione. Cosa può essere ragionevolmente accaduto, con il più alto grado di probabilità? Da questa visuale, la pista sessuale risulta essere non solo la meno compromettente (la Chiesa ormai da decenni ha fatto i conti con gli scandali a luci rosse) ma soprattutto la meno compatibile con i dati di fatto venuti alla luce. Se Emanuela fosse davvero finita nelle grinfie di tonache sporcaccione, perché organizzare pedinamenti? Oppure: a che scopo, se tutto si era esaurito in una spregevole violenza, mandare messaggi criptati attraverso i giornali? O ancora: perché dare visibilità planetaria a una storia di presunti abusi su minori, come avvenne a partire dal primo degli otto appelli per Emanuela che il pontefice lanciò dalla finestra dell’Angelus il 3 luglio 1983? Evidentemente aveva intuito, il papa polacco, che in ballo c’era altro, un ricatto serio, ordito da forze a lui nemiche. E valutò che fosse utile farsi sentire. Nella stessa direzione va la frase pronunciata davanti alla famiglia il 24 dicembre 1983, quando Wojtyla, in visita agli Orlandi per gli auguri di Natale, spiegò che il loro era «un caso di terrorismo internazionale».

I messaggi cifrati nell'ultima telefonata

Veniamo agli indizi successivi. Anche dall’esame di quanto accaduto poco prima e subito dopo la scomparsa si possono trarre spunti utili a  individuare il movente. Attenzione: Emanuela - come noto - nell’ultima telefonata a casa alle 19 del 22 giugno 1983 ripete inconsapevolmente dei messaggi criptati, allorquando dice alla sorella Federica che qualcuno le aveva fatto una proposta di lavoro per la ditta di cosmetici Avon, in occasione di una sfilata della casa di moda Sorelle Fontana prevista tre giorni dopo presso la Sala Borromini, per 375 mila lire in un solo pomeriggio. Bene: la sfilata non esisteva e la cifra era altissima, del tutto inverosimile. Se ne può dedurre che si trattò di frasi in codice da usare nelle trattative sotterranee (qui un'analisi parola per parola), scelte da chi irretì la quindicenne, allo scopo di comunicare sotterraneamente con la controparte e attivare il ricatto, una volta che, dopo la denuncia, il contenuto di quella telefonata fosse diventato pubblico. Ancora: se di pista sessuale si tratta, quale il senso di tale contorta macchinazione? Un maniaco - in tonaca o senza - agisce nell’ombra, semmai. Non cerca visibilità. 

La Avon, anagramma della fondazione Nova

In tempi recenti, poi, è emerso che all’epoca una delle casseforti vaticane impegnate nel finanziamento del sindacato cattolico Solidarnosc era la fondazione ecclesiastica Nova, che poi ha mutato nome. Di nuovo, attenzione: siamo di fronte a un anagramma. Quattro lettere che, al contrario, si leggono “Avon”. Ennesima coincidenza? Oppure non sarà che gli artefici dell’operazione Orlandi-Gregori (in ipotesi: un gruppo coperto all’ombra del Vaticano, con infiltrazioni di “mala” romana, massoneria e barbe finte), volessero mandare a dire a qualcuno «badate, fatela finita con la Polonia e dateci indietro i soldi prestati?» È la pista economico-affaristica connessa al flusso di danari destinati a Solidarnosc, appunto. 

La ritrattazione dopo il rapimento

Ma pure lo scenario del terrorismo internazionale indicato da Wojtyla trova conforto in un elemento fattuale. Occhio alle date: la sera del 22 giugno 1983 Emanuela non torna a casa e giusto sei giorni dopo, il 28, Agca ritratta le accuse ai bulgari (ed estensivamente a Mosca) di complicità nell'azione di piazza San Pietro. Della serie: voi avete onorato le promesse, sequestrando una ragazzina da usare in cambio della mia liberazione, e io vi ripago, tenendo fuori il mondo sovietico. È la pista internazionale. Quella di un “ganglio” attivo sotto il Cupolone, ispirato da tonache favorevoli al dialogo con l'Est e non in linea con il tenace anticomunismo di Karol. Lo scenario di molestie sessuali, festini, orge di cui tanto si è parlato in 40 anni, insomma, indizi alla mano continua a restare defilato: potrebbe essere stato a più riprese agitato come una cortina fumogena utile ad allontanare dalla verità quando ci si stava avvicinando o, tutt'alpiù, essere stato un movente accessorio, supplementare, subentrato dopo che le ragazze erano già state prese per le ragioni fin qui descritte, queste sì, avvalorate da riscontri. In tale quadro, la presenza del secondo ostaggio, Mirella Gregori, di nazionalità italiana, sarebbe servito per fare pressioni sul presidente Sandro Pertini, unico titolare del potere di grazia a favore del detenuto Agca.

Gli 007 in casa e l'avvocato non pagato

L’analisi dell’intrigo nato attorno alle quindicenni più famose d’Italia, dunque, se integrata dal contesto storico, politico e istituzionale in cui nacque produce un quadro indiziario preciso: duplice sequestro "a movente multiplo", teso a condizionare i vertici della Chiesa sui fronti più importanti, la collocazione del Vaticano sullo scacchiere geo-politico e i danari, all'epoca al centro di inenarrabili contese. Ulteriori tasselli fuori posto sono legati a domande da sempre sospese: perché i servizi segreti si presentarono in casa Orlandi già dai primi giorni, nella persona di due agenti del Sisde (qui il ruolo di Giulio Gangi, morto mesi fa) e del Sismi? Come si spiega che alla famiglia fu imposto l’avvocato Gennaro Egidio, noto per essere "amico" delle barbe finte? E ancora, per quale motivo Ercole Orlandi non pagò mai la parcella (dopo che gliene fu presentata una e sbiancò per la cifra altissima) e il conto dell’avvocato da quel momento andò sempre a carico del Sisde? 

Quelle frasi sibilline delle ragazze

Viaggio concluso. Nebbie più diradate (forse). Ma meritano un cenno anche alcune frasi sibilline delle vittime, tuttora inspiegate e forse rivelatrici. «Non mi vedrete per un po'», anticipò Emanuela a una compagna di scuola poco prima della scomparsa, confidenza poi riferita a un giornalista de L'Unità, che sull'argomento pubblicò un articolo il 13 luglio 1983. «Mamma, non ti preoccupare se mancano i soldi in casa. Tra poco ne guadagnerò tanti e vi aiuterò io», disse a sua madre Mirella, lasciandola di stucco. Marco Accetti, l’uomo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela, ha raccontato che le ragazze caddero nel tranello in quanto venne loro detto che avrebbero dovuto stare fuori «solo qualche giorno», per «fare un favore» ai loro padri: il primo, Ercole Orlandi, in difficoltà per questioni di lavoro in Vaticano; l’altro, Paolo Gregori, indebitato per la ristrutturazione del bar. Briciole di verità, allusioni, bugie... Se ne verrà mai a capo? Da 40 anni il complotto va avanti così. La parola passa adesso ai magistrati inquirenti, ai parlamentari, a uomini di Chiesa. E a tutti i testimoni, diretti o indiretti, che potrebbero dare un contributo, anche a tarda età, grazie a uno scrupolo di coscienza. (fperonaci@rcs.it)

Caso Orlandi, la storia (inquietante) delle amiche: una in clinica psichiatrica, l'altra sedata. Un compagno minacciato di morte. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 5 giugno 2023.

Raffaella, l'ultima a vedere Emanuela, fu pedinata a lungo, si ammalò e non si è mai ripresa. Silvia, al quale la scomparsa confidò di doversi allontanare per qualche tempo, è stata sottoposta a trattamenti farmacologici 

Emanuela Orlandi 40 anni dopo, i misteri non finiscono mai: ci sono anche degli effetti collaterali inquietanti, da brividi, nella storia della "ragazza con la fascetta" scomparsa il 22 giugno 1983. Che fine hanno fatto le amichette e i compagni che a vario titolo furono testimoni, inconsapevoli e involontari, dell'accaduto? Cosa è successo loro? Una, Raffaella, compagna di musica all'epoca 19enne, raccontò alla stampa quanto le aveva detto Emanuela Orlandi prima di sparire (la proposta di lavoro per la Avon e altro) e da quel momento fu pedinata, minacciata, intimidita da personaggi mai identificati: rimase talmente sotto choc da farsene una malattia per tutta la vita. Oggi, a 59 anni, è ricoverata in una clinica psichiatrica. 

Un'altra amica, Silvia, compagna di classe al Convitto nazionale, disse a un giornalista che Emanuela le aveva confidato che si sarebbe allontanata da casa «per un po' di tempo». Una testimonianza delicata, che fa balenare contatti pregressi. Da quel momento Silvia, oggi 55enne, è passata da un trattamento farmacologico all'altro e il cugino denuncia: «Per non farla parlare l'hanno irretita, sedata, annichilita. Non la sento da anni. Potrebbe anche essere morta». 

Un terzo ragazzino, Pierluigi, anche lui iscritto al liceo scientifico frequentato da Emanuela, stesso nome (forse non a caso) di quello del primo telefonista che contattò gli Orlandi, fu ripetutamente minacciato di morte. Era venuto a sapere qualcosa? Nel 1987 chiamò in diretta "Telefono giallo" e con voce rotta esclamò: «Se parlo mi ammazzano». Poi trovò riparo all'estero, dove vive tuttora, a 55 anni, con pochissima voglia di parlare dell'evento che gli ha stravolto la vita. 

Pressioni e intimidazioni

Ebbene, c'è anche tutto questo nel già complicatissimo, inafferrabile, per certi verso mostruoso intrigo legato alla scomparsa della figlia quindicenne del messo pontificio di papa Wojtyla. Emanuela Orlandi fu allontanata da casa con un tranello nell'ambito di in un piano di ricatto contro il pontefice polacco, ma gli ideatori dell'operazione andarono oltre, coinvolgendo altri minori:  da un lato, infatti, utilizzarono qualche amica confidando che avrebbe riferito quanto venuto a sapere (così da far partire i ricatti sotterranei) e, dall'altro, non mancarono di esercitare pressioni e intimidazioni tali da provocare gravi choc. È un territorio poco scandagliato e inquietante, quello delle amicizie della scomparsa, che riserva molte sorprese: anche Raffaella, Silvia, Pierluigi (e per certi versi Sonia, nel caso gemello di Mirella Gregori) hanno pagato un prezzo carissimo e sono da considerare vittime a tutti gli effetti. Ecco le loro storie. 

Raffaella, mai più ripresa dallo choc

La vicenda di Raffaella Monzi, compagna del corso di musica presso il complesso di Sant'Apollinare (ultimo luogo frequentato dalla scomparsa), è nota. Emanuela al termine della lezione di canto corale, attorno alle 19 del 22 giugno 1983, raccontò a Raffaella (4 anni più grande, all'epoca abitante con la famiglia in via Panisperna) di aver ricevuto una proposta di lavoro (del tutto inverosimile) per distribuire volantini della ditta di cosmetici Avon, il sabato successivo, in occasione di una (inesistente) sfilata di moda in cambio della cifra (spropositata) di 375 mila lire (erano tutti messaggi in codice, leggi qui). La triste novità oggi, 40 anni dopo, è che quella bella ragazza bionda con i capelli ricci non si è mai ripresa. Alla soglia dei 60 anni, è rinchiusa in una struttura psichiatrica fuori Roma, nei pressi di Subiaco. Fu la mamma a spiegare, in una intervista:  «Da quel giorno del 1983 la vita di Raffaella non è stata più la stessa. Eravamo tanto esasperati e spaventati che decidemmo di andare via da Roma e di trasferirci a Bolzano, ma c'erano persone che hanno continuato a controllarci. Raffaella fu seguita da un giovane biondino. Ogni volta ce lo trovavamo davanti e un giorno le disse: “Vieni via con me, lascia i tuoi genitori…”». 

La telefonata: «Sua figlia è bellissima...»

Una situazione angosciante, la sensazione di avere il fiato di qualcuno molto cattivo sul collo... Così prosegue il racconto della signora Monzi, riferendosi agli agganci per strada da parte del "biondino": «Fu un episodio che ci colpì anche se decidemmo di non darci peso, pensando che fosse uno spasimante. Tornati a Roma, Raffaella mi raccontò che una persona la fotografava per strada. E un giorno ricevetti una telefonata: “Ho visto tua figlia sul treno: è bellissima. La voglio sposare”. Non ho mai saputo chi fosse e come avesse il nostro numero di telefono. Di certo era una persona che la controllava. Per mia figlia è stato un incubo dal quale non si è più ripresa». Raffaella non mise più piede alla scuola di musica "Da Victoria" e al ritorno da Brunico, dove quell'estate per tentare di distrarsi lavorò come baby sitter, si iscrisse al conservatorio di Santa Cecilia. Perché i rapitori la misero nel mirino? L'intento era tenerla in pugno, terrorizzarla per evitare che rivelasse qualcosa? Il dubbio, leggendo i verbali di interrogatorio, viene dal passaggio in cui Raffaella ricorda che Emanuela, oltre alla faccenda della Avon, la disse di aver appuntamento con una persona. Forse il timore del "biondino" (e più ancora dei suoi superiori, veri registi dell'azione) era che la scomparsa avesse confidato a Raffaella dettagli utili all'identificazione? 

Silvia e le confidenze di Emanuela

C'è poi Silvia Vetere, compagna di classe al II liceo scientifico del Convitto nazionale... «Emanuela aveva intenzione di trovarsi un lavoro. Non aveva voglia di studiare e faceva sega a scuola». Le sue dichiarazioni messe a verbale sia nel 1983 (22 luglio) sia nel 2008 (11 novembre, nell'ambito della seconda inchiesta) sono state le uniche in controtendenza rispetto all'immagine "casa e chiesa" resa pubblica dai familiari della "ragazza con la fascetta". Niente di grave, beninteso. Qualcosa certamente di non disdicevole, comune a milioni di adolescenti: Emanuela era un po’ ribelle e con poca voglia di stare sui libri, cosa d'altronde palesata dalle due  materie (latino e francese, con un 4 e un 5) nelle quali era stata rimandata a settembre e dalla sfilza di 6 restanti. Piuttosto, c'è un passaggio dei  verbali di Silvia, oggi 55enne, che appare rilevante ai fini di una corretta ricostruzione dell'accaduto: «I professori le chiedevano cosa volesse fare e lei rispondeva che aveva intenzione di cercarsi un lavoro». 

La frase-chiave: «Non mi vedrete per un po'»

Ecco, questo non era mai affiorato: una sorta di determinazione a cambiare vita, a rompere le righe. Fu sull'onda di questo stato d'animo che, ingenuamente, cadde nel tranello dell'allontanamento da casa, magari con la promessa che sarebbe tornata presto?  Tale scenario è rafforzato da un altro spunto: la frase riferita da Silvia Vetere a un giornalista de L'Unità, che la pubblicò il 13 luglio 1983: «Non mi vedrete per un po’», aveva confidato Emanuela all'amica, a fine maggio. Segno che era stata già agganciata? Che era consapevole di essere stata coinvolta in un "gioco avventuroso", ma tutto sommato non poi così pericoloso e destinato a durare poco? «Fra il maggio e l’ottobre 2014 avevo cercato Silvia Vetere. Prima all’abitazione del 1983 e poi tramite la sorella, che però mi spiegò come fosse impossibilitata a parlare, perché affetta da seri problemi di salute», ha spiegato Tommaso Nelli nel libro "Atto di dolore". Addirittura non in grado di esprimersi, insomma: un trauma irreversibile. 

Il cugino: «Silvia narcotizzata» 

Sono proprio i «seri problemi di salute» di Silvia, rivisti oggi alla luce della complessità dell'operazione-Orlandi, a gettare ombre angoscianti.  Il fatto di essere venuta a conoscenza di retroscena utili a fini investigativi può aver esposto la ragazzina?  Per il cugino Massimo Festa, 61 anni (sua nonna materna Anna era la sorella del nonno di Silvia), non v'è ombra di dubbio. «Silvia è stata vittima di un ulteriore sequestro, è stata portata in strutture psichiatriche per impedirle di ripetere quel che sapeva su Emanuela Orlandi. Quel che le era stato confidato era scomodo. Per questo è stata prelevata a più riprese, bombardata di farmaci, narcotizzata, annichilita nel corpo e nella psiche, in una struttura per tossicodipendenti, nella fascia a nord di Roma, e in centri specializzati per pazienti psichiatrici. Quel 13 luglio 1983, tramite l'articolo su L'Unità, cominciò a emergere che era in possesso di informazioni delicate, e successivamente, negli interrogatori, potrebbe essere stata intimidita. Fatto è che non si è mai più ripresa. Anche grazie al ruolo avuto da una nostra parente, non ho più avuto modo di incontrare Silvia da molti anni. Ora potrebbe anche essere morta». Un racconto sconvolgente, da delineare meglio, ma ancorato ad alcuni dati di fatto: sarà oggetto delle prossime indagini sul caso Orlandi? Resta soltanto una foto, di Silvia la compagna di classe: un caschetto di capelli castani (inquadrati dal cerchietto rosso) nella puntata di Tandem, sulla Rai, alla quale tutta la classe era stata invitata il 20 maggio 1983. In un altro fotogramma c'è Emanuela, accanto alla conduttrice...

Pierluigi, dubbi e coincidenze

E veniamo alla terza storia, quella di Pierluigi Magnesio, pure lui 55enne, compagno di classe di Emanuela (e di Silvia), non è mai stata al centro dell'attenzione mediatica ma è in realtà importante, contiene indizi di peso, a lungo valutati dagli inquirenti. Accadde questo. A Pierluigi, anche lui cittadino vaticano, figlio di un elettricista in servizio presso la Santa Sede, gli investigatori pensarono subito per una semplice associazione: così si era autonominato il primo telefonista, il "Pierluigi" con la voce posata e senza inflessioni (per questo ribattezzato dalla famiglia "il pariolino") che chiamò a casa Orlandi tre giorni dopo il mancato ritorno a casa, la cui voce non fu però  registrata in quanto papà Ercole non aveva ancora approntato una segreteria telefonica.  Fu il sostituto procuratore generale Giovanni Malerba, nella sua requisitoria dell’agosto 1997 a chiusura dell'inchiesta iniziata ben 14 anni prima, a dare rilievo al compagno di classe, fino al punto da ipotizzare che fosse stato lui - sotto pressione o minaccia - il primo telefonista: «Non sembra azzardata l’ipotesi che il ‘Pierluigi’ delle prime tre telefonate possa identificarsi nel predetto Magnesio Pierluigi; l’età del giovane al momento del fatto induce senz’altro a escludere il suo consapevole e volontario coinvolgimento nel sequestro; e tuttavia, ove il ‘telefonista’ Pierluigi si identificasse nel Magnesio, dovrebbe inferirsi che questi fosse stato contattato dai sequestratori e indotto, verosimilmente con minacce, a effettuare le prime telefonate in funzione di depistaggio. Ove così fosse, ancora oggi il Magnesio potrebbe fornire utilissimi elementi per l’identificazione dei sequestratori. Appare pertanto utile, se non necessario, approfondire l’indagine sul punto».  

La telefonata in tv: «Se parlo mi ammazzano»

Auspicio rimasto lettera morta, però: nell'inchiesta successiva (2008-2015) gli investigatori saranno assorbiti dalle verifiche sul ruolo avuto dalla banda della Magliana (qui "Aliz", il messaggio in codice che dimostra il coinvolgimento del boss De Pedis) e dal telefonista reo confesso, quel Marco Accetti che consegnerà il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela. Tornando a Magnesio,  lo si può quindi considerare testimone e al tempo stesso vittima dei fatti? Questo fu lo scenario tratteggiato nelle primissime indagini. Ipotesi rafforzata, peraltro, da quanto successo in diretta tv il 27 ottobre 1987, quando a  "Telefono giallo" arrivò una telefonata: «Buona sera, sono Pierluigi. Se parlo, mi ammazzano». Gelo in studio. Corrado Augias sulle spine. Si trattava di Magnesio? Secondo i successivi approfondimenti della Procura di Roma sì,  era proprio l’amico di Emanuela. Nuove e angoscianti domande: perché il compagno di scuola finì in pericolo? Che genere di intimidazioni subì e da chi? E ancora: il suo trasferimento all'estero, in un Paese non rivelato, ha avuto a che fare con l'essere stato "intercettato" dal sequestro Orlandi? 

La commissione parlamentare

Dubbi, misteri, nuovi spunti. Domani 6 giugno si torna a parlare del caso Orlandi-Gregori al Senato, a proposito del varo della commissione parlamentare d'inchiesta, messo in discussione dai partiti della maggioranza dopo i recenti attacchi del fratello a Giovanni Paolo II, che hanno provocato anche la replica di papa Francesco. L'esito della nuova fase di ricerca della verità, dal punto di vista politico, appare quindi molto più in bilico rispetto a due mesi fa, quando la Camera votò il disegno di legge in prima battuta, all'unanimità. Ma un dato è certo: sono tante, troppe le coincidenze che via via affiorano in questo torbido intrigo, a pochi giorni dal 40°anniversario del mancato ritorno a casa di Emanuela. (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi, aperta nuova inchiesta dalla Procura di Roma, in collaborazione con il Vaticano. È la terza in 40 anni. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 15 Maggio 2023.

La nuova indagine affidata al pm Stefano Luciani, piena collaborazione con il pm vaticano Alessandro Diddi. Possibile l'unificazione con il caso Skerl 

Dopo le due inchieste dei magistrati italiani già archiviate da tempo (1983-1997 e 2008-2015), c'è stato il fascicolo aperto dal Vaticano lo scorso gennaio, la Commissione bicamerale messa in cantiere dal Parlamento e già votata alla Camera e adesso, la terza e rilevante novità: anche la Procura di Roma torna formalmente a indagare sul caso Orlandi. Il procuratore Francesco Lo Voi, come aveva già fatto intendere nei giorni scorsi (qui l'articolo del Corriere), ha deciso di affidare una nuova inchiesta sulla scomparsa della "ragazza con la fascetta" a un pubblico ministero esperto come Stefano Luciani. Da indiscrezioni, si è appreso che auspicio della magistratura italiana è di attivare una "piena collaborazione" (scambio di documenti, audizioni e altro) con il promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, che nelle scorse settimane ha già sentito testimoni in tonaca oltre a Pietro Orlandi, il fratello della ragazza sparita il 22 giugno 1983, all'uscita dalla scuola di musica, e mai più tornata a casa. In particolare, Piazzale Clodio avrebbe già acquisito degli atti, messi a disposizione dalla Santa Sede, nell'ambito di un procedimento avviato in precedenza, dopo che il Csm aveva chiesto informazioni su un esposto presentato dalla famiglia. 

L'esposto al Csm e la "trattativa" sul corpo

Il procedimento era stato avviato nel 2021 e aveva portato anche all'audizione dell'ex procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, titolare dell'indagine archiviata nel 2015. L'oggetto dell'iniziativa verteva sulla «richiesta di accertamenti sulla condotta dei magistrati della Procura con riferimento ai colloqui intercorsi con il Vaticano per il rinvenimento del corpo di Emanuela Orlandi».  Capaldo, ora in pensione, in alcune trasmissioni televisive aveva affermato di avere incontrato, per approfondimenti investigativi, due rappresentanti del Vaticano che gli «promisero di rivelare dove fosse il corpo». Una questione che ha scatenato polemiche  e fastidio ai vertici della Gendarmeria (il comandante e il suo vice) chiamati in causa personalmente da Pietro Orlandi, anche se non presente alla presunta "trattativa". 

La reazione del fratello: «Fatto positivo»

«È una cosa positiva - ha commentato il fratello di Emanuela - che la procura di Roma abbia acquisito atti dal Vaticano, perché per la prima volta ci sarà una collaborazione, sempre negata in passato, tra Santa Sede e magistratura ordinaria». Per la sua legale, l'avvocata Laura Sgrò, la nuova inchiesta «è una bella notizia, quello che noi chiediamo da anni». Era stato lo stesso procuratore Lo Voi, una ventina di giorni fa, a far balenare l'ipotesi di un nuovo filone d'indagine, centrato sulle novità emerse negli ultimi 7-8 anni, dopo l'archiviazione della precedente inchiesta dell'aggiunto Giancarlo Capaldo basata sia sul ruolo di Marco Accetti (il fotografo oggi 67enne che nel 2013 ha consegnato il flauto riconosciuto dai familiari di Emanuela) sia sull'ipotetico contributo al rapimento dato da uomini della banda della Magliana (tre gli indagati, tra i quali l'autista del boss De Pedis). «Dopo 40 anni non è facile trovare nuovi elementi e nemmeno fare le pulci alle attività svolte dagli inquirenti dell'epoca, ogni situazione va contestualizzata - aveva anticipato Lo Voi - ma non è da escludere che sarà coinvolta nuovamente la Procura, motivo per cui non posso parlare». 

L'inchiesta collegata del pm Amelio

Va considerato, d'altra parte, che un'inchiesta a Piazzale Clodio su un giallo collegato alla scomparsa di Emanuela Orlandi è già in corso da quasi un anno: si tratta di quella condotta dal pm Erminio Amelio relativa all'omicidio di Katy Skerl, la 17 enne trovata strangolata nel gennaio 1984 a Grottaferrata, la cui bara è stata rubata dal cimitero Verano (il furto era stato preannunciato dallo stesso Accetti con largo anticipo, e scoperto nel luglio 2022). Adesso, non è escluso che i due fascicoli vengano unificati, considerati i numerosi punti di contatto: secondo "l'uomo del flauto", Katy fu assassinata per vendetta dalla controparte del gruppo clandestino (formato da elementi dei servizi segreti, malavitosi romani e tonache contrarie alla linea di papa Wojtyla), che pochi mesi prima si era reso responsabile degli allontanamenti da casa di Emanuela e di Mirella Gregori. (fperonaci@rcs.it)

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 15 maggio 2023.

La procura di Roma ha riaperto le indagini su Emanuela Orlandi. Questo è quanto apprende Repubblica. Dopo l'inchiesta aperta dai pm dello Stato Vaticano, dopo la discussione in Parlamento per l'apertura di una commissione d'inchiesta, ecco che anche la magistratura italiana decide di riaprire l'indagine sulla scomparsa della 15enne cittadina Vaticana avvenuta il 22 giugno del 1983. 

Ma c'è di più, perché i magistrati della Santa Sede guidati da Alessandro Diddi e quelli romani guidati da Francesco Lo Voi stanno collaborando al caso. L'indagine è stata affidata a un sostituto procuratore molto esperto, si tratta del pubblico ministero Stefano Luciani. Si tratta dello stesso pm che si è occupato del caso Orlandi in merito alle dichiarazioni dell'ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo. 

Capaldo aveva detto pubblicamente che due alti funzionari del Vaticano, quando lui era titolare del fascicolo sulla scomparsa dell'Orlandi, gli avevano detto che si sarebbero dati da fare per far trovare il corpo della ragazza. 

Le parole di Capaldo sono sempre state smentite dalla Santa Sede e la procura di Roma ha già passato al vaglio le dichiarazioni dell'ex magistrato proprio con Luciani. Adesso però il lavoro del pm si amplia e riguarda nel complesso la scomparsa della ragazza. […]

Dai soldi sporchi della Mafia, ai servizi segreti di numerosi Paesi, passando per alcune organizzazioni terroristiche internazionali. E poi ancora gli abusi sessuali subiti da parte qualche alto prelato. Sta di fatto che dopo quasi 40 anni, la scomparsa della ragazza rimane avvolta nel mistero. […]

Emanuela Orlandi, le scorie delle false piste che in quarant'anni nessuno ha spazzato via. Giancarlo de Cataldo su La Repubblica il 16 Maggio 2023. 

La magistratura italiana ha deciso di riaprire l'indagine. Chi si occuperà ora del caso avrà avanti a sé un compito molto complesso.

La collaborazione giudiziaria fra la procura di Roma e il Vaticano consentirà finalmente di accertare la verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Nessuno può saperlo, ma tutti ce lo auguriamo. Chi si occuperà ora del caso avrà davanti a sé un compito assai complesso: riannodare le fila della caterva di atti, rimettere ordine nella pluralità discordante dei filoni d'inchiesta, cercare di individuare una traccia comune che dia al tutto un senso compiuto.

Molte ipotesi si sono avvicendate, nel tempo. Alcune suggestioni hanno esercitato una presa mediatica maggiore di altre. Per anni si è inseguita la "pista turca", cioè il rapimento operato dai Lupi Grigi o dal sedicente Fronte Turkesh per ottenere la liberazione di Ali Agca. Per anni, finché nel 2002 il colonnello Bohnsack, dirigente della Stasi, il servizio segreto della Germania Orientale, poi intervistato da Marco Ansaldo su questo giornale, si attribuirà la paternità della pista turca, "creata ad arte per distogliere la pressione dai bulgari", indicati come mandanti dell'attentato contro Papa Wojtyla. Più volte si è assistito alla riproposizione dello "scoop" del legame fra Enrico De Pedis, morto incensurato nel '90 ma ritenuto il vero capo della Banda della Magliana, e il Vaticano.

Qui lo scenario sarebbe di un ricatto per rientrare in possesso di somme spregiudicatamente gestite dalla finanza vaticana dell'epoca. Ma di concreto, obiettivamente, fra testimoni inattendibili e contraddittori, ritrattazioni e analisi scientifiche fallite (non c'erano le ossa di Emanuela, nella tomba di De Pedis in Sant'Apollinare) poco o niente. L'autodenuncia del fotografo Marco Fassoni Accetti, ancorché riproposta con grande enfasi dalla recente serie Vatican Girl, risale a una decina di anni orsono: il suo memoriale si può consultare, dal 2014, su blitzquotidiano.it.

La stessa "pista londinese", riesplosa negli ultimi giorni, appartiene a una filiera di informazioni più volte reiterate, talora con il sostegno di personaggi autorevoli: Emanuela figlia segreta di un Papa, ovvero nipote di un altro Papa, o entrambe le cose; Emanuela viva, vegeta e sposata da qualche parte nel mondo; Emanuela a Londra, o addirittura a Roma, Emanuela che accetta serenamente il suo destino (quale?) o muore dopo essersi nascosta (perché?) per tutti questi anni. E via dicendo. Non vanno invidiati, i nuovi inquirenti. Dovranno ripulire il campo da molte scorie, e magari la verità si nasconde in dettagli che, a prima vista, appaiono trascurabili o incongrui. Nessuno può essere sicuro che vi sia davvero stato un rapimento. Non è possibile escludere che Emanuela, e forse, prima di lei, anche Mirella Gregori, siano rimaste vittime di un predatore sessuale. Lo stesso legame fra le due sparizioni - Orlandi e Gregori - non è mai stato provato. Né si è mai raggiunta la certezza che i rapitori - veri o presunti - abbiano davvero fornito prova di aver avuto in loro possesso Emanuela.

Una massa immensa, e informe, di dati, attende di essere riesaminata. È probabile che si debba ripartire dall'inizio. Dalle ore successive alla scomparsa. Dalle primissime testimonianze, dalla ricostruzione dei giorni precedenti, dalla presenza di eventuali segnali d'allarme, da amicizie e conoscenze. Senza trascurare alcuna possibilità. In ogni caso, un'indagine congiunta è di per sé una buona notizia: sul campo avremo investigatori esperti, che potranno muoversi con l'ausilio di nuove tecnologie e, si spera, senza il condizionamento delle tante reticenze che troppo spesso, in questi lunghi quarant'anni, hanno contribuito ad alimentare il mistero. Chissà, per esempio, se oggi le gerarchie di Oltretevere si mostreranno più collaborative di quando, nell'ottobre del 1993, un non identificato "superiore" consigliò, o, per meglio dire, ordinò al Sovrastante dell'Ufficio centrale di vigilanza del Vaticano di astenersi dal riferire alcunché, e soprattutto che indagini interne erano state svolte: "Niente, noi non sappiamo niente, sappiamo dai giornali, ebbè, che ne sappiamo noi? Se te dici io non ho mai indagato... l'Ufficio ha indagato all'interno... questa è una cosa che è andata poi... non dirlo che è andata alla Segreteria di Stato".

Emanuela Orlandi, la Procura di Roma riapre le indagini dopo 40 anni. L’indagine è stata affidata al pubblico ministero Stefano Luciani, collaborano al caso i magistrati della Santa Sede guidati da Alessandro Diddi e quelli romani guidati da Francesco Lo Voi. Massimo Balsamo il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

Ennesima svolta sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne scomparsa il 22 giugno del 1983 mentre rientrava a casa dopo le lezioni di musica. Secondo quanto riportato da Repubblica, la Procura di Roma ha riaperto le indagini con la collaborazione dei magistrati del Vaticano guidati da Alessandro Diddi. Soddisfatto Pietro Orlandi: "È una cosa positiva che la Procura di Roma abbia acquisito atti dal Vaticano perché per la prima volta ci sarà una collaborazione, sempre negata in passato, tra Santa Sede e magistratura ordinaria".

L’indagine è stata affidata a un sostituto procuratore di esperienza, ovvero il pubblico ministero Stefano Luciani, lo stesso che si occupò del caso Orlandi in merito alle dichiarazioni dell'ex procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo. L’uomo raccontò che due alti funzionari della Santa Sede gli avevano detto che si sarebbero dati da fare per fare ritrovare il corpo della giovane. Affermazioni sempre smentite dal Vaticano. Ora il pubblico ministero lavorerò su un terreno decisamente più ampio, chiamato a fare chiarezza sulla scomparsa della cittadina vaticana quarant’anni dopo. "Il nostro augurio è che ci sia una cooperazione leale tra la procura di Roma e il Vaticano alla ricerca della verità. È una bella notizia, è quello che noi chiediamo da anni per avere la verità su Emanuela", il primo commento dell'avvocato di Pietro Orlandi, Laura Sgrò, ai microfoni dell'Ansa.

La procura di Roma riapre le indagini su Emanuela Orlandi

Dopo l’inchiesta aperta dai pubblici ministeri del Vaticano e la discussione in parlamento per l’apertura di una commissione d’inchiesta, una novità significativa su uno dei più celebri casi irrisolti della storia italiana e vaticana. Nel corso degli anni si sono moltiplicate voci, testimonianze e rumors: dall’attentato a Giovanni Paolo II passando per lo Ior, fino alla Banda della Magliana e il crack del Banco Ambrosiano. Senza dimenticare le insinuazioni sui presunti abusi sessuali subiti da Emanuela Orlandi da parte di qualche alto prelato.

La cassetta "sadomaso" e la pornostar: il mistero sulla registrazione di Emanuela Orlandi

Poco meno di un mese fa il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi non aveva escluso l’eventualità di una ripresa delle indagini: "Dopo quaranta anni non solo non è facile trovare elementi, ma nemmeno fare le pulci alle attività svolte dagli inquirenti dell'epoca perché ogni situazione, ogni indagine va contestualizzata. Non è da escludere che sarà coinvolta nuovamente la Procura di Roma, motivo per cui non posso parlarne", le sue parole a un evento organizzato con gli studenti della scuola don Bosco di Palermo. Lo Voi aveva inoltre posto l’accento sulle molte lacune nelle indagini: "Di sicuro c'è che ci sono alcuni reati cosiddetti comuni, anche se gravi, in cui o la soluzione arriva in pochi giorni, oppure ci si impantana e dopo trenta-quaranta anni ancora se ne discute". Recentemente, inoltre, si è riacceso il dibattito sull’ormai famosa pista londinese, sostenuta con forza dal fratello Pietro Orlandi - in prima linea per chiedere verità sul destino della sorella - nonostante le tante ipotesi di depistaggio.

Orlandi e le carte vaticane. I pm riaprono l'inchiesta. Terzo fascicolo sulla giovane scomparsa nell'83. Decisiva la Santa Sede. Soddisfatta la famiglia. Stefano Vladovich il 15 Maggio 2023 su Il Giornale.

Quarant'anni di misteri, depistaggi e indagini. La Procura di Roma riapre per la terza volta il caso Orlandi e acquisisce gli atti dell'inchiesta avviata in Vaticano a gennaio. È davvero la svolta per arrivare alla verità sulla scomparsa della ragazzina di 15 anni, cittadina vaticana, avvenuta il 22 giugno del 1983?

Il fratello Pietro, le cui dichiarazioni su un presunto giro di baby squillo fra prelati e persino con Giovanni Paolo II hanno provocato dure reazioni, è soddisfatto. «Una bella notizia - commenta il legale della famiglia Orlandi, l'avvocato Laura Sgrò - è quello che chiediamo da anni». Un atto che segue la richiesta di informazioni del Csm. Insomma, un superpool coordinato dal promotore di giustizia della Santa Sede Alessandro Diddi, e il procuratore capo di piazzale Clodio, Francesco Lo Voi che ha affidato il faldone al pm Stefano Luciani.

Non è chiaro se con la riapertura delle indagini sulla Orlandi si riapre anche lo scenario sulla scomparsa di Mirella Gregori, 15 anni, avvenuta un mese prima. Caso archiviato, come per la Orlandi, nel 2015. Mirella non era cittadina vaticana, i genitori gestivano un bar vicino la stazione Termini e vivevano sulla Nomentana. Eppure le analogie fra le due ragazze si rincorrono per i tre decenni di indagini. Mirella esce di casa nel pomeriggio del 7 maggio 1983 dopo essere rientrata da scuola. Qualcuno suona al citofono, le vuole parlare, Mirella non lo conosce. Dopo poco, però, spiega ai genitori che deve incontrare un tale Alessandro, un vecchio compagno di classe. L'appuntamento è per le 15 sotto il monumento ai bersaglieri a Porta Pia. Da quel momento non si hanno più notizie della 15enne. L'amico, interrogato, nega. «Ero altrove».

Un mese e mezzo dopo Emanuela esce dalla scuola di musica a Sant'Apollinare, in Campo Marzio, con il suo flauto traverso e sale su un'auto di grossa cilindrata. Otto anni dopo proprio in quella basilica verrà sepolto il boss della Magliana Enrico Renatino De' Pedis, detto anche il Presidente, ucciso un anno prima in via del Pellegrino. È lui a sequestrare la ragazza, secondo la sua ex, Sabrina Minardi, e a tenerla nascosta fino a un fantomatico scambio con monsignor Marcinkus, all'epoca a capo dello Ior, la Banca Vaticana. Lo scambio avviene al Gianicolo, dove più volte Renatino e il monsignore si passano borsoni zeppi di banconote, «Due miliardi di lire in due Louis Vuitton», denaro sporco, da riciclare e che sarebbe servito per finanziare il movimento polacco Solidarnosc, dice la Minardi. Un favore personale, quello di De' Pedis, all'alto prelato finanziere?

Anche il racconto della donna, che porta la polizia alla presunta prigione della Orlandi sulla Circonvallazione Gianicolense, fa un buco nell'acqua. Stessa storia per la pista bulgara, indicata dall'attentatore di Papa Wojtyla, Mehmet Alì Agca, che vuole la scomparsa delle due ragazze collegata a quella del giornalista sovietico Oleg Bitov del 9 settembre dello stesso anno. Nonostante i comunicati dei Lupi Grigi, terroristi turchi, che sostengono di tenerle in ostaggio, non si arriva a niente. Alla Orlandi è collegato un altro giallo, l'omicidio di Katy Skerl, 17 anni, strangolata a Grottaferrata nel gennaio 1984. Un teste chiave ma più volte screditato, Marco Accetti, sostiene che la Skerl viene uccisa per vendicare i sequestri Orlandi e Gregori. Per Pietro Orlandi, Emanuela sarebbe stata portata a Londra e tenuta prigioniera in un ostello dei padri scalabriniani.

Chi l'ha visto, "quella zozzetta di Emanuela Orlandi": bufera sulla Sciarelli. Libero Quotidiano il 29 aprile 2023

Piovono critiche su Chi l’ha visto? Al centro la riapertura delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Di questo si è occupato il programma condotto da Federica Sciarelli su Rai 3. La trasmissione, tra le altre cose, ha mandato in onda l'audio portato dal fratello Pietro Orlandi al promotore di giustizia del Vaticano. Questo riporta le parole di Marcello Neroni, sodale di Enrico De Pedis, il "Renatino" della Banda della Magliana.

Eppure Alessandro Ambrosini, il giornalista che nel 2009 l'aveva registrato, storce il naso: "Non capisco perché abbia voluto parlare del termine 'zozzette', con la signora Natalina Orlandi in studio, davanti al suo pubblico. Quando pubblicai l’audio su Notte Criminale, decisi di 'nascondere' alcuni termini offensivi nei confronti di Emanuela, del cardinale Casaroli e di Giovanni Paolo II. E li nascosi per evitare il pubblico ludibrio nei confronti dei protagonisti di questo racconto che ancora è congettura". E ancora: "Lei l’ha reso pubblico sapendo benissimo che non raccontava niente di più sul caso di Emanuela, in termini investigativi". Ambrosini attacca la Sciarelli, rea di aver "ripetuto quella parola, che è nella logica e nel linguaggio di un personaggio il cui spessore criminale è stato appurato nel tempo, con l’aggravante di non sapere di essere registrato. E l’ha ripetuta giustamente indignandosi, creando però un pregiudizio sulle parole di Neroni". 

Finita qui? Niente affatto: "Ci riprovi dott.ssa Sciarelli. Ci riprovi a smontare quell’audio. E lo faccia bene la prossima volta. Lo faccia e lo sotterri in modo definitivo. Ne sarei felice. Dimostri, oltre ogni ragionevole dubbio, che è una 'chiacchiera da bar'. Come lei l’ha definito superficialmente. La verità non si costruisce per come vogliamo sentirla, la verità la si accetta per quello che è".

Caso Orlandi, il giornalista del video choc contro Sciarelli: cosa non ha censurato. Francesco Forgione su Il Tempo il 30 aprile 2023

“Non so perché Federica Sciarelli abbia fatto sentire quell’audio”. Il giornalista Alessandro Ambrosini torna a parlare di quanto accaduto nella scorsa puntata di “Chi l’ha visto?”, continuando la polemica con la conduttrice Rai e aggiungendo ulteriori dettagli su un elemento del caso Emanuela Orlandi tornato recentemente d'attualità. Si tratta di una nota audio che Ambrosini pubblicò sul blog “Notte Criminale”. Il noto programma di Rai3 ha mandato in onda lo scioccante audio, portato dal fratello Pietro Orlandi al promotore di giustizia del Vaticano. L'audio riporta le parole di Marcello Neroni, che negli anni 80 era vicino al boss della Banda della Magliana Enrico “Renatino” De Pedis.  

Lo stesso Ambrosini nel suo blog “Notte Criminale” si era rivolto direttamente alla conduttrice per un termine in particolare che è stato fatto ascoltare ai telespettatori. Nel programma, Federica Sciarelli ha fatto ascoltare l’audio senza alcune delle censure fatte a suo tempo dal giornalista che nel 2009 l'aveva registrato. Nell’audio di “Chi l’ha visto?” viene fatta ascoltare una parte in cui Neroni parla di Emanuela Orlandi e l’altra ragazza definendole delle “zozzette”. Sulla questione è tornato a parlare proprio Ambrosini in un’intervista rilasciata a FQ Magazine: “Non capisco perché abbia voluto parlare del termine 'zozzette', con la signora Natalina Orlandi in studio, davanti al suo pubblico. Quando pubblicai l’audio su Notte Criminale, decisi di 'nascondere' alcuni termini offensivi nei confronti di Emanuela, del cardinale Casaroli e di Giovanni Paolo II. E li nascosi per evitare il pubblico ludibrio nei confronti dei protagonisti di questo racconto che ancora è congettura”.

Nel corso della puntata la Sciarelli ha più volte sottolineato il termine offensivo usato da Marcello Neroni: “È pur sempre un criminale che parla, non un signore di Roma Nord, ciò che dice va limato. Non ha molto senso lasciarsi sconvolgere dal suo gergo. Federica Sciarelli è una giornalista di lungo corso, non una sprovveduta: non capisco perché fosse così sconvolta, considerata la sua esperienza” continua Ambrosini. “Lei ha volutamente ripetuto quella parola, che è nella logica e nel linguaggio di un personaggio il cui spessore criminale è stato appurato nel tempo, con l’aggravante di non sapere di essere registrato. E l’ha ripetuta giustamente indignandosi, creando però un pregiudizio sulle parole di Neroni”.

Secondo Ambrosini, la conduttrice avrebbe enfatizzato il linguaggio scurrile di Neroni per smontare la veridicità delle sue dichiarazioni nell’audio. Il giornalista del blog “Notte criminale” parla della figura di Neroni ritenendolo attendibile in quanto “non può essere un personaggio minore, lui il nodo di collegamento tra forze dell’ordine e la criminalità, lui sa molto. È un personaggio vissuto a cavallo tra il mondo di mezzo e il mondo di sotto. Aveva rapporti forti sia con i criminali che con parte delle istituzioni, era a metà. Di conseguenza, è credibile perché nella sua vita ha attraversato questi mondi”. Ambrosini chiude con una considerazione sulle parole del criminale e sul ruolo chiave del Vaticano sul caso Orlandi: “Di fondo il racconto è credibile, nelle specifiche sarebbe da provare e confermare ma solo il Vaticano sa la verità. Solo lì dentro sanno e possono verificare”.

La vulgata “luciferina”. Caso Orlandi-Gregori, la commissione parlamentare d’inchiesta e la lotta di potere nel Vaticano: l’asse Meloni-Papa Francesco. Nicola Biondo su Il riformista il 22 Aprile 2023 

La commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Orlandi-Gregori influenzerà a lungo i rapporti tra Roma e Città del Vaticano e avrà un riflesso sullo stesso pontificato di Papa Francesco. I motivi sono molteplici e così legati tra loro che è facile immaginare un impatto geopolitico dell’indagine della Commissione. Certo non sarebbe la prima volta che gli affari di uno stato estero finiscono al centro di un indagine del Parlamento: ma rispetto a quanto avvenuto in Commissione Stragi o in quella sul dossier Mitrokhin in questo caso la scomparsa delle due adolescenti pur avvenuta sul suolo italiano è da ricondursi -qualsiasi movente si voglia contemplare- al Vaticano.

Partiamo da un dato di fatto: la commissione è stata richiesta solo da esponenti dell’opposizione, del Pd, del Movimento e di Azione, primo firmatario Roberto Morassut storico esponente della sinistra romana. Nel febbraio scorso la questione ha investito i piani alti del governo che aveva chiesto al Parlamento un rinvio per non meglio chiariti “approfondimenti”.

Sembrava uno stop, una pietra tombale. E invece a sorpresa direttamente da Giorgia Meloni è arrivato un semaforo verde. Fonti vicine al governo sostengono che il dossier commissione è stato attentamente valutato da Alfredo Mantovano che ricopre un ruolo chiave a Palazzo Chigi, quello di autorità delegata per la sicurezza, vale a dire interfaccia del governo con i servizi segreti. Mantovano, già magistrato di punta e con una vasta esperienza in tema di intelligence, ha incontrato nei mesi scorsi anche Pietro Orlandi.

Secondo altre fonti Giorgia Meloni ha personalmente tenuto a comunicare a Papa Francesco dell’avvio delle indagini parlamentari: nulla di scandaloso ovvio ma è un ulteriore spia che segnala l’importanza della questione. Tra i compiti della Commissione ci sarà quello di indagare e valutare le azioni compiute da apparati dello stato e dalla magistratura e se vi siano stati omissioni o depistaggi: ciò significa accendere un faro sulle modalità di contrasto a fenomeni criminali come la Banda della Magliana, se vi siano state protezioni con l’utilizzo di fonti interne e confidenti e di cosa è fatta quella terra di mezzo in cui Stato e crimine si fanno la guerra. E come non immaginare ampio il dibattito, anch’esso non privo di possibili riflessi internazionali, sulla incredibile messe di informazioni immesse nelle inchieste e nei media da Ali Agca, l’uomo che ha sparato a Karol Wojtyla. La domanda nell’aula di Palazzo S. Macuto ritornerà ad essere centrale: fu solo il gesto di un killer isolato o un network lo condusse nella primavera del 1981 armato a Piazza S.Pietro? 

Insomma, comunque la si voglia vedere la commissione parlamentare indagherà su uno dei periodi  più importanti, turbolenti e misteriosi nella storia del Vaticano e di riflesso dello Stato italiano. La cronologia è da brividi: 1981, attentato contro Wojtyla; 1982, morte di Roberto Calvi che poco prima di essere ucciso scrive una lettera minacciosa al Papa; 1983 sparizioni di Orlandi e Mirella Gregori, 1984, emersione dei legami della banca vaticana con i faccendieri Flavio Carboni (a sua volta legato a mafia e banda della Magliana) e Francesco Pazienza.

Per chi non lo dovesse ricordare il contesto è quello degli anni di piombo dell’alta finanza con i “banchieri di Dio” Sindona e Calvi, con fiumi di denaro di provenienza “sospetta” che affluivano nelle casse Vaticane e da qui finivano in mezzo mondo. Tutto questo però in fondo riguarda il passato. Non sfugge a nessuno che qualche riflesso l’indagine potrà avere sulla lotta di potere all’interno del Vaticano e più in generale della chiesa cattolica.

La storia, le opere e la geopolitica di Francesco sono totalmente opposte alla visione che fu di Wojtyla. Uno gesuita, l’altro conservatore, il primo che guarda a Oriente e al Sudamerica con una forte critica al capitalismo, l’altro tra i protagonisti della lotta al comunismo, legatissimo ai circoli americani e cattolici più oltranzisti, infine lontanissimi sul piano della dottrina. Per dirla tutta, Wojtyla ha fatto la storia della chiesa spingendosi oltre, Francesco in questo campo è ancora a distanza siderale come “leader” politico. Il Papa polacco ha archiviato il ‘900 delle ideologie, il Papa argentino lavora ad un nuovo ordine mondiale, per semplificare al massimo.

È in questo contesto di messa in discussione degli equilibri consolidati che affiora, maligno è il caso di dire, il sospetto che agita più di un porporato, e cioè che per affermare la visione “francescana” occorre mettere in ombra, magari “sporcare”, quella del predecessore e i suoi innegabili successi politici. La Commissione di inchiesta sarebbe l’occasione perfetta per un’operazione del genere, secondo questa vulgata “luciferina”.

Retro-pensiero che paradossalmente sembra essere stato confermato proprio da Papa Francesco quando tre giorni fa, con inusitata asprezza, ha contestato alcune ricostruzioni sulla vita di Wojtyla avanzate da Pietro Orlandi sulla scorta delle incredibili rivelazioni provenienti dagli interna corporis della Magliana. Un passo che va valutato attentamente: perché è per decisione di Francesco che si è aperta ufficialmente e per la prima volta una inchiesta vaticana sul caso Orlandi-Gregori e forse è proprio per non dare adito a quel retropensiero che di fronte alle parole di Orlandi si è dovuto intervenire.

Il cortocircuito a mezzo stampa è solo l’antipasto di ciò che vedremo con l’avvio dei lavori della Commissione, un circo mediatico che si attiva sempre e si polarizza intorno alle varie figure di questo intrigo internazionale: un tempo era Ali Agca poi i pentiti della Magliana oggi le dichiarazioni di Pietro Orlandi e l’emersione di nuove e sconvolgenti piste.

La cronologia aiuta l’analisi: l’11 aprile scorso Pietro Orlandi viene ascoltato dal Promotore di giustizia Alessandro Diddi per otto ore. Il giorno precedente Diddi aveva affermato che, “sul caso Orlandi papa Francesco e il Segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, vogliono che emerga la verità senza riserve e senza condizionamenti”.

Nel corso dell’audizione Orlandi affronta la questione Wojtyla, porta con sé il famoso nastro con la verità alternativa che coinvolge il papa polacco e accenna alle voci ricevute sulle sue uscite notturne con alti prelati “non certo per benedire le case”. Il giorno dopo in tv Orlandi ripete le stesse cose e poche ore dopo arrivano le prime note di “censura”: a dare l’avvio è Stanisław Dziwisz, arcivescovo emerito di Cracovia, vero uomo ombra del papa polacco. Subito seguito dall’agenzia di stampa Vatican.news che addirittura accusa l’avvocato Laura Sgrò, legale di Orlandi, di tacere particolari fondamentali agli investigatori del Vaticano.

Per ultima arriva la durissima replica del Papa. “Certo di interpretare i sentimenti dei fedeli di tutto il mondo, rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate”. Strana casualità: queste parole sono state pronunciate proprio in uno dei possibili “teatri” dove si sarebbe decisa la sorte della Orlandi, vale a dire Regina Coeli il carcere romano dove, secondo le rivelazioni del “magliaro” Marcello Neroni, due cappellani avrebbero dato l’incarico alla fazione di De Pedis di rapire la giovane romana.

Pietro Orlandi e il suo legale finiscono così sul banco degli accusati, ma la verità è semplice. Le uscite “segrete” in incognito di Wojtyla non sono un segreto per nessuno, tantomeno per il cardinale Dziwisz che le ha rivelate proprio nel suo libro, “Una vita con Karol”, e che lui stesso ideava e organizzava. Insomma una tempesta mediatica che ha ribaltato i ruoli esponendo Orlandi e la Sgrò negli inediti panni di mestatori e reticenti. E nella quale pare essere caduto lo stesso Papa Francesco la cui volontà è stata espressa per bocca del Procuratore Diddi, “massima libertà d’azione per indagare ad ampio raggio senza condizionamenti di sorta e con il fermo invito a non tacere nulla”

Di certo anche nel Parlamento italiano si è indebolito il fronte dell’insabbiamento del caso e si è preferita la trincea. Ma cosa potrebbe succedere se di fronte alle richieste documentali che la Commissione avanzerà al Vaticano o di audizioni di protagonisti importanti dell’epoca, come il cardinale Dziwisz, arrivasse una risposta negativa?

Chi farà da mediatore da Roma e la Santa Sede? Quante dosi di verità sul caso Orlandi-Gregori gli equilibri politici, nazionali e non solo, potrebbero sopportare? Nicola Biondo

Emanuela Orlandi, la pista sottovalutata del serial killer dietro la scomparsa di Mirella Gregori e la morte di dieci ragazze romane. Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, vuole la verità sulla scomparsa della sorella. L'ipotesi del libro-inchiesta del magistrato Otello Lupacchini e del giornalista Rai Max Parisi "Dodici donne un solo assassino". Valentina Stella su Il Dubbio il 17 aprile 2023

Che fine ha fatto Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa a soli 15 anni dal centro di Roma il 22 giugno del 1983? Sono passati quasi quarant’anni da quel giorno ma nessuno ha ancora la risposta definitiva. Intanto l’onorevole del Partito democratico Roberto Morassut ha chiesto l’istituzione di una Commissione di inchiesta bicamerale sui casi riguardanti la scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori e l’omicidio di Simonetta Cesaroni. Nella relazione introduttiva non si ipotizza una unica mano dietro la sparizione e uccisione delle tre ragazze romane. Ma c’è invece chi la pensa diversamente.

In un interessante libro - inchiesta dal titolo “Dodici donne Un solo assassino – da Emanuela Orlandi a Simonetta Cesaroni” (Koinè edizioni) il magistrato Otello Lupacchini e il giornalista Rai Max Parisi scrivono: “Roma. Dieci donne uccise e due scomparse. Si chiamavano Emanuela Orlandi e Mirella Gregori – si legge nella quarta di copertina – Questo libro inchiesta svela l’esistenza di un serial killer responsabile degli omicidi e delle sparizioni. Tutti i fatti di sangue rimasti insoluti, accaduti tra il 1982 e il 1990. L’ultima vittima si chiamava Simonetta Cesaroni'.

Gli autori hanno un’ipotesi precisa sull’identità dell’assassino, ancora libero di agire. Secondo la loro ricostruzione, Emanuela Orlandi fu vittima dunque di un serial killer capitolino, il quale solo successivamente seppe della provenienza vaticana della ragazza assassinata. Così si rivolse a uomini che conosceva indirettamente e che facevano parte della banda della Magliana. Questi si ritrovarono fra le mani gli effetti personali della ragazza e la possibilità di ricattare il Vaticano: fu quindi il serial killer ad avere adescato Emanuela così come tutte le altre. Raccontano, infatti, gli autori che quando scomparve Emanuela “a Roma erano state già uccise tre giovani donne e un’altra adolescente s’era misteriosamente allontanata da casa senza dare più notizie. Nei setti anni a seguire, altre otto donne – tra le quali un’altra adolescente – verranno uccise. Di nessuno di questi omicidi e sparizioni è stato individuato il colpevole”.

Mirella Gregori, Rosa Martucci, Augusta Confaloni, Bruna Vattese, Tea Stroppa, Lucia Rosa, Fernanda Durante, Katy Skerl, Cinzia Travaglia, Marcella Giannitti, Giuditta Pennino e infine Simonetta Cesaroni. Chi ci sarebbe dietro tutti questi gialli insoluti? 22 Giugno 1983: Emanuela Orlandi si reca presso l’Accademia Tommaso Ludovico da Victoria, in piazza Sant’Apollinare a Roma, per partecipare a una lezione di flauto, prevista per le ore 17:00. Intorno alle 15:30 un vigile la vede vicino a Palazzo Madama, mentre sta parlando con un uomo, il quale ha parcheggiato la sua auto in zona vietata. Il vigile si avvicina e nota che il soggetto sta facendo vedere alla ragazza un campionario di profumi.

L’individuo, esortato a spostare la macchina, risponde “Va bene, allora ci vediamo dopo”. Il vigile racconterà che tra i due c’era una certa confidenza. Quello stesso pomeriggio Emanuela, durante l’intervallo della lezione, telefona a casa e riferisce a una delle sorelle di aver ricevuto una proposta di lavoro: le era stato offerto di presentare i profumi della Avon a una sfilata di moda delle Sorelle Fontana. Poi esce dall’Accademia e intorno alle 19:00 si dirige alla fermata dell’autobus insieme a un’amica per tornare a casa e confida anche a lei della proposta ricevuta. Il bus arriva, l’amica sale ma Emanuela decide di non salire. Nessuna la rivide più.

In seguito i vertici del marchio statunitense faranno sapere di non avere avuto al loro interno rappresentanti di sesso maschile e di non utilizzare quel tipo di tecnica per reclutare personale. E pure le Fontana dissero di non aver mai avuto a che fare con l’Avon, anche se riferirono a un agente del Sisdi che altre tre ragazze si erano recate da loro parlando di questo lavoro che in realtà non esisteva.

Era quello il suo modus operandi per adescare le ragazze? Dopo qualche tempo l’agente venne richiamato dall’atelier: un’altra ragazza era andata lì a chiedere delucidazioni sul lavoro per la Avon. La giovane confermò di essere stata approcciata da un soggetto che le aveva fatto quella proposta. Gli agenti del Sisde, facendo fissare alla ragazza un appuntamento con la persona in questione, lo rintracciarono e fermarono: si trattava di un uomo sui 30 anni, figlio di un industriale, girava con una Ferrari. Perché invece non fu seguito? - si è chiesto l’agente del Sisdi - . Aveva usato un nome falso per adescare la giovane. Si giustificò dicendo di essere timido e che usava questo sotterfugio per avere l’opportunità di conoscere delle donne. Venne mostrato il suo volto al vigile che aveva visto Emanuela parlare con una persona il giorno della scomparsa, ma quest’ultimo non lo riconobbe come l’individuo avvistato quel pomeriggio. La pista cadde nel vuoto.

Tuttavia, secondo quanto riportato nel libro di Max Parisi e Otello Lupacchini, quel tizio possedeva abitazione, uffici, attività e magazzini sparsi in prossimità dei luoghi degli omicidi irrisolti. C’era dunque uno schema geografico. Inoltre “dieci delle undici vittime che precedettero al cimitero Simonetta Cesaroni sappiamo furono strangolate. Soltanto a Fernanda Durante il serial killer tolse la vita a pugnalate, e noi – hanno scritto gli autori – le pugnalate le abbiamo confrontate. Abbiamo paragonato lo schema dei colpi di serramanico sul corpo di Fernanda Durante alla sequenza delle stilettate su quello di Simonetta Cesaroni.

Entrambe furono ferite mortalmente alla gola e al petto, e non ci sarebbe molto da dire, ma tutte e due furono anche pugnalate sulle cosce. Non si trattò di ferite mortali. Si trattò forse di ferite rituali”. Inoltre le vittime avevano un aspetto fisico simile, i cadaveri venivano portati in luoghi diversi, lavati e privi degli indumenti intimi. A ciò va aggiunto il fatto che sulla scrivania accanto al cadavere della Cesaroni “l’assassino lasciò anche un biglietto - scrivono gli autori – c’era scritto ‘CE DEAD OK’, che potrebbe significare ‘Cesaroni uccisa ok’, ma le lettere C ed E sono anche la prima e l’ultima del cognome dell’uomo della Ferrari”, ossia del serial killer ancora in libertà.

Emanuela Orlandi e i gialli collegati, l'ultimo fidanzato di Katy Skerl: «Alla festa era tesa, scappò via. Poi scattò la trappola». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2023

Francesco Morini, 56 anni, racconta le ultime ore della ragazza uccisa a Grottaferrata nel 1984. Caso riaperto per il furto della bara al cimitero Verano. «In piena notte ci arrivò una telefonata con richiesta di aiuto»

Katy Skerl, uccisa nel 1984, e il suo ultimo fidanzato, Francesco Morini, oggi 56enne

«Eccomi, piacere. Io sono l'ultimo fidanzato di Katy Skerl...» Sorride. «Un bel po' invecchiato, s'intende...» 

Racconti, è importante...

«Io e Katy ci frequentammo esattamente per 21 giorni. Andai a casa sua, conobbi la mamma e il fratello. Sono passati quasi 40 anni, è vero, ma come avrei potuto dimenticarla? La sua orrenda fine mi lasciò inebetito, sconvolto. Avevamo tre passioni comuni: la politica, i cantautori, la storia dell'arte....»

Cerchi di ricordare bene. Ogni dettaglio può diventare un indizio. 

«Sognavo a occhi aperti: una ragazza così bella, simpatica, brillante, aveva scelto proprio me. Io non avevo ancora 17 anni, lei li aveva appena compiuti. Fu la mia prima storia sentimentale: i baci, le passeggiate in centro, i primi approcci... Tutto filava a meraviglia...»

Fino a che? 

«Fino a quella maledetta festa del 21 gennaio 1984, un sabato pomeriggio. Katy scappò da sola, di fretta. Ci rimasi male perché non volle che l'accompagnassi. La salutai sulla porta e non la vidi mai più. Il giorno dopo a casa mia si presentò la polizia, per dirci che l'avevano strangolata ai margini di una vigna. E  nella notte arrivò una telefonata che ancora mi tormenta...»

Incubi che ritornano. Il giallo di Emanuela Orlandi e i delitti  collegati. Quello di Katy Skerl, la 17enne uccisa a Grottaferrata nel gennaio 1984, presenta un elemento singolare e di indubbio rilievo investigativo: nella concatenazione di sangue e misteri innescata dalla scomparsa della figlia del messo pontificio (giugno 1983), l'omicidio della studentessa  romana, figlia di Peter Skerl, famoso regista di film porno anni '70 ("Bestialità", "Ragazza tutta nuda assassinata in un parco"), è infatti l’unico caso sul quale la Procura di Roma sta tuttora indagando a pieno ritmo. L'inchiesta è stata aperta la scorsa estate dal pm Erminio Amelio dopo la scoperta che la bara di Katy era stata rubata, così come anticipato dal testimone Marco Accetti (l'uomo che ha consegnato il flauto riconosciuto dai familiari di Emanuela), a suo dire per «eliminare una prova del collegamento con il caso Orlandi, vale a dire l'etichetta della camicia indossata dalla defunta». Ebbene, era vero. La tomba al riquadro 115 del cimitero Verano è stata effettivamente trovata vuota. E, di conseguenza, la pista di una vendetta della fazione opposta a quella messa sotto ricatto con il sequestro Orlandi-Gregori ha ripreso quota: dalla morte violenta di Katy si potrebbe tirare un filo capace di avviare a soluzione l'intero intrigo della Vatican connection. 

Parla il fidanzato di Katy

Arriviamo così all’ultimo fidanzatino di Katy... Francesco Morini, oggi 56enne, romano, musicista, attore e autore di libri noir (in tandem con il fratello Max), si è presentato al Corriere con l'intento di «raccontare tutto» quel che sa, nell'auspicio di «contribuire all'accertamento dei fatti». In questa intervista il testimone (non ancora interrogato dalla Squadra mobile di Roma) ricostruisce l'ultimo giorno trascorso con la vittima, rivela alcune circostanze inquietanti e a tratti si commuove, rivivendo le emozioni del suo primo amore. 

Francesco, piacere: ci racconta tutto per filo e per segno? Quando, dove e come conobbe Caterina Skerl detta Katy?

«Ricordo come fosse ieri. Frequentavo il terzo anno al liceo classico Orazio, quartiere Talenti. Ho conosciuto Katy alla festa di Capodanno organizzata il 31 dicembre 1983 da un ragazzo che non conoscevo in un casolare alla Marcigliana, zona Bufalotta. A presentarmela fu un compagno di scuola che io e mio fratello ancora frequentiamo, che abitava nello stesso palazzo di Katy in via Isidoro del Lungo, a Montesacro Alto. "Ti va di venire a una festa?" E io accettai...» 

Anni '80: John Travolta e il disimpegno. 

«No! Noi eravamo impegnati, di sinistra, ma ci arriveremo... Fatto è che con Katy ci siamo trovati a brindare insieme al nuovo anno e ci siamo subito piaciuti. Una tipa spigliata, solare, intraprendente. Fu lei a prendere l'iniziativa, a provarci con me... Non mi sembrava vero: una ragazza così carina e e intelligente mi veniva dietro!» 

Siete quindi stati insieme esattamente tre settimane. 

«Esatto, così ha voluto il destino. Ci siamo visti sei-sette volte, andando a spasso in centro, a visitare chiese barocche come Sant'Andrea della Valle, che erano la nostra passione. Io per interessi miei, lei perché frequentava il liceo artistico Giulio Romano, a Ponte Milvio. Per il resto ci davamo appuntamento ai giardinetti di piazza Sempione, ascoltavamo musica, ci confrontavamo sui compiti da fare, oppure ce ne stavamo in intimità, nella sua stanza, ma senza esagerare... Qualche volta mi hanno anche invitato a cena, con sua mamma, una bibliotecaria del Comune di Roma, persona dolcissima, molto affabile, e con suo fratello Alex, che ora mi pare sia montatore cinematografico. Il padre regista, invece, non l'ho conosciuto, si erano già separati». 

Il più bel ricordo insieme?

«Il 5 gennaio 1984, giorno dei suoi 17 anni, ci vedemmo solo io e Katy, a casa sua: le regalai il disco “La donna cannone” di Francesco De Gregori. Ne fu felicissima. Ad accomunarci era la politica: lei antimilitarista, pacifista, iscritta alla Fgci, i giovani comunisti, io simpatizzante di Democrazia proletaria. Ci confrontavano per ore: Reagan, il riarmo, l'imperialismo, le battaglie femministe... Nel suo liceo era una leader, partecipava a tutti i cortei». 

La tomba di Katy Skerl, trovata vuota (la bara è stata rubata) nel luglio 2022 

Arriviamo al fatale 21 gennaio, giorno di Sant'Agnese, citato in una lettera anonima sul caso Orlandi arrivata nel 2013, nella quale si faceva riferimento a "una vigna", guarda caso il luogo in cui fu trovata morta Katy... 

«Quel sabato pomeriggio alla famosa festa di largo Cartesio, a casa di una ragazza dell'Orazio, io arrivai attorno alle 17, partendo da casa mia, e lei dopo circa tre quarti d’ora. Quando la vidi mi accorsi subito che era tesa, nervosa, un po' assente. Attorno alle 18.30 mi disse che doveva andarsene, per dormire dalla sua amica Angela, con la quale il giorno dopo aveva programmato una gita sulla neve, a Campo Felice. Infatti aveva con sé un grande borsone. Fu categorica: io provai a insistere per accompagnarla, mi preoccupavo perché era già buio, ma lei continuava a ripetere “no, voglio andare da sola". Mi ingelosii, sospettai di un altro ragazzo. Esserci lasciati male, dopo una discussione, è ancora un mio grande cruccio». 

Dalle 18.30 inizia il giallo. Quale percorso secondo lei fece Katy? 

«La palazzina di largo Cartesio si trova in cima a una collinetta: immagino sia andata giù verso la Nomentana a piedi, passando in un parco, per arrivare alla fermata dell’autobus, da dove raggiungere Termini e poi, con la linea A del metrò, la stazione Lucio Sestio, dove aveva appuntamento con Angela. Ma non arrivò mai. Cosa immaginare? Tanta insistenza nel voler andare via da sola può dimostrare che aveva un appuntamento con colui che poi si è rivelato l'assassino, o con qualcuno che la consegnò al killer... Il fatto che fu strangolata ma non sottoposta a violenza sessuale mi porta a escludere l'ipotesi del maniaco». 

Lei come passò la serata senza Katy?

«Tornai a casa, dove c’era anche Max, attorno alle 9 di sera. Ero dispiaciuto: all'epoca non c'erano mica i telefonini, non potevo sentirla e mi mancava. Andai a dormire dopo mezzanotte e il giorno dopo rimasi sgomento, quando a casa nostra si presentò la polizia dicendoci che Katy era stata ritrovata nel fango, all'altro capo di Roma, ai Castelli, Grottaferrata. A quel punto collegai quanto era successo solo poche ore prima. Quella stessa notte del 21 gennaio, infatti, quando ancora non sapevamo dell'omicidio, a casa nostra squillò il telefono fisso in corridoio. Andò mia madre a rispondere. Io sentii, mi alzai barcollando e le andai incontro nell’oscurità. Mia mamma mettendo giù la cornetta disse: "Era una ragazza che chiedeva aiuto, si sarà sbagliata". In quel momento ovviamente non ho pensato a Katy, ma il giorno dopo sì...»

La morte di Katy è stata collocata prima attorno alla mezzanotte e poi, in tempi recenti, nell'indagine in corso, alle 21-22 del sabato. Lei è sicuro dell'ora della telefonata? 

«Certamente. Io andavo a dormire dopo la mezzanotte, prima leggevo, ascoltavo musica o strimpellavo la chitarra. Deve essere stato tra l'una e le due di notte, questo è sicuro. Mi rivedo ancora davanti agli occhi mia madre assonnata, in corridoio, che bisbiglia: "Era una voce femminile, ha chiesto aiuto tre volte..." Delle due l'una...» 

Dica: cosa pensa sia successo? Chi può aver lanciato il disperato Sos? 

«Non si scappa: o i medici legali hanno sbagliato nel collocare l'ora della morte a fine serata del sabato, ma mi pare difficile; oppure quella telefonata è stata fatta volontariamente, con l'obiettivo di depistare, di far pensare che Katy era ancora viva e non già morta strangolata nella vigna». 

Che idea si è fatta sul movente dell’omicidio? 

«Dico la verità, pensai a un collegamento con il caso Orlandi ben prima che quel signore, Marco Accetti, se ne uscisse affermando che Katy era stata vittima della fazione contraria a chi aveva preso Emanuela. Il periodo d'altra parte era lo stesso, 1983-84; l'età delle vittime simile, 15-17 anni; e poi c’era il fatto che Katy, oltre a essere impegnata politicamente, era anticlericale senza mezzi termini, s'infiammava contro la Chiesa. Quando nel 2013 si è parlato di una vendetta, quindi, alcuni tasselli mi sono parsi incastrarsi. Soprattutto il fatto, scoperto leggendo i giornali, che in classe di Katy al liceo artistico c'era la figlia di uno dei funzionari bulgari accusati di essere stati i mandanti dell’attentato al Papa, compiuto da Agca due anni prima, nel 1981. Proprio lo scambio con il turco era stata la prima richiesta per liberare Emanuela Orlandi. Strano, no? Più che una coincidenza, mi pare un indizio serio, da valutare attentamente».

Grottaferrata, la stradina in cui fu uccisa Katy Skerl il 21 gennaio 1984 

Ancora uno sforzo di memoria, Francesco: ha mai sentito parlare di una seconda festa alla quale potrebbe essersi recata Katy quella stessa sera? 

«Sì, lessi qualcosa al riguardo, forse su "Paese sera". Che Katy poteva essere andata a una seconda festa, dopo quella di largo Cartesio, a sfondo orgiastico... Io personalmente non ne ho mai saputo nulla e tendo a escluderlo: Katy aveva con sé il borsone con gli indumenti per la neve, aveva in mente la gita con l'amica...» 

Quasi quarant'anni dopo, cosa le resta di questa bruttissima storia che le consegna un ruolo importante come testimone ? 

«Il dolore e l'incredulità per l'accaduto e il desiderio di darle giustizia. Mio fratello ed io stiamo lavorando a un libro sul mistero di Katy. Forse siamo ancora in tempo per sapere cosa è successo. Per me fu uno choc. Le circostanze erano scabrose, di Katy parlarono i giornali, e mi ritrovai da solo, giovanissimo, angosciato, senza strumenti per elaborare il lutto, in una bolla spazio-temporale che durò mesi. In famiglia non se ne parlava, a scuola c'era imbarazzo. Dopo il fattaccio, inoltre, mia madre ed io fummo pedinati per settimane. Un signore in giacca e cravatta mi aspettava sempre davanti al liceo Orazio, tanto che una volta gli dissi: “Ma la vuol smettere di fare finta di leggere il giornale?" E lui rispose: “Come si permette? Io sono il papà di un’alunna". Non era vero, gli agenti in borghese mi stavano sempre addosso. All’inizio misero anche me nella cerchia dei sospettati, segno che brancolavano talmente nel buio...» Oggi meno, forse. È stato acquisito qualche punto fermo in più. Il giallo di Katy, un'altra ragazzina che, come Emanuela, amava indossare la fascetta tra i capelli, è più attuale che mai. Merito dell'inchiesta in corso a Piazzale Clodio e della rivelazione su quella telefonata angosciante in piena notte, che apre piste e scenari mai esplorati in passato. (fperonaci@rcs.it)

Omicidio di Katy Skerl, il fidanzato interrogato in Questura: si indaga sulla telefonata notturna e sulle minacce di morte. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

Francesco Morini convocato dopo l'intervista al "Corriere". Doppio mistero: la disperata richiesta d'aiuto nelle ore in cui la17enne fu strangolata e una scritta sotto casa («Uccideremo Katy Skerl»)

Francesco Morini oggi 56enne (foto Guaitoli) e  Katy Skerl, sua fidanzata all'epoca del delitto

«È andata bene, anche se l'emozione è stata notevole: tornare a parlare di Katy con gli investigatori, dopo l'incredibile scoperta che la sua bara è stata rubata, mi ha fatto rivivere quei mesi di angoscia e incredulità...» Ha varcato il portone di via San Vitale, sede della Questura romana, a metà pomeriggio,  oltre 39 anni dopo la tragedia. Era il 21 gennaio 1984 quando Katy Skerl, 17 anni, studentessa di liceo artistico, fu strangolata ai bordi di una vigna a Grottaferrata dopo essere stata con lui a una festa a casa di amici, in zona Casal de' Pazzi. Uno dei tanti delitti romani irrisolti. Solo che questo - il giallo della fidanzatina barbaramente assassinata - negli ultimi anni si è intrecciato con fattacci ancora più gravi e famosi, a cominciare dal sequestro di Emanuela Orlandi, e così a Francesco Morini, oggi 56 anni, musicista e autore di libri noir, è toccata la ventura di rimettere indietro di decenni la macchina del tempo, e di ritrovarsi sotto interrogatorio come persona informata sui fatti. 

«Sono stati molto gentili, mi hanno chiesto di cercare di ricordare il più possibile di quel che accadde quella sera maledetta, quando Katy scappò dalla festa per incontrarsi con l'amica Angela, e finì in trappola. Volevano sapere le mie ipotesi», ha detto il testimone dopo le tre ore di botta e risposta, senza dilungarsi «perché c'è il segreto istruttorio, dobbiamo aspettare gli sviluppi». La verbalizzazione si è svolta negli uffici della Squadra mobile, secondo piano, sezione Omicidi, all'indomani dell'intervista al "Corriere" nella quale Morini, che frequentava il liceo classico Orazio, ha ricostruito nel dettaglio quei 21 giorni di amore acerbo e impacciato («fu lei a provarci, per me era la prima storia sentimentale»), conclusi nel modo più tragico: l'arrivo in casa della polizia, il giorno dopo, 22 gennaio 1984, grazie al nome e all'indirizzo trovati sul diario della vittima, per comunicare che la sua fidanzatina era stata ammazzata.  

Al di là dei fatti recenti già noti - il furto della bara scoperto nel 2022 grazie alle rivelazioni (a lungo ignorate) del  superteste del caso Orlandi Marco Accetti - l'interrogatorio "a scoppio ritardato" è servito a mettere meglio a fuoco almeno due elementi di mistero. A Morini è stato chiesto conto della telefonata arrivata la notte del 21 gennaio a casa sua, prima ancora che si sapesse dell'omicidio di Katy. Rispose la madre, accorrendo in pigiama in corridoio, dalla camera da letto. «Il telefono squillò di sicuro dopo l'una - è stata la versione del testimone - perché io andavo a letto tardi, non prima di mezzanotte. Incrociai in corridoio mamma, che mi disse che una voce femminile aveva gridato tre volte "Aiuto!" prima di mettere giù, o forse essere costretta ad agganciare». 

Di chi si trattava? Della diciassettenne poi trovata senza vita? Gli accertamenti condotti dal pm titolare dell'inchiesta, Erminio Amelio, tendono a escluderlo, in quanto la morte di Katy per strangolamento, in un tratturo alla periferia di Grottaferrata, con il viso schiacciato nel fango, è stata collocata tra le 21 e le 22-23, non oltre. E dunque? Quella telefonata fu un depistaggio, un tentativo di confondere le acque? È una circostanza presa seriamente in considerazione dagli inquirenti, in queste ore. Tale pista riconduce infatti a manovre sotterranee che potrebbero accreditare la versione di Accetti, vale a dire l'uccisione di Katy per vendetta da parte della fazione opposta a quella (il cosiddetto "ganglio", un mix di 007 deviati, malavitosi ed ecclesiastici senza scrupoli) finita sotto ricatto con il sequestro Orlandi-Gregori. 

Il secondo indizio è altrettanto inquietante: secondo alcuni amici abitanti a Montesacro Alto, nel settembre 1983 (4 mesi prima del delitto) sotto la casa della vittima era apparsa una scritta a caratteri cubitali, vergata con il gesso sull'asfalto, al centro di via Isidoro del Lungo. Tre parole: «Uccideremo Katy Skerl». Avvertimento serio o macabro scherzo? Alcuni degli allora ragazzetti degli anni Ottanta, oggi incanutiti, in tempi recenti sarebbero stati sentiti nell'ambito di indagini difensive e avrebbero attribuito la paternità del messaggio ad ambienti neofascisti, forse legati al gruppo "Il panico", attivo nel quartiere Trieste.  È anche in questa direzione, dunque, che si muoveranno nelle prossime settimane le indagini, nell'ipotesi che una colorazione politica dell'omicidio (Katy militava nella sinistra, era sempre in prima fila ai cortei) potrebbe inquadrarsi nello scenario complesso e tuttora irrisolto del rapimento Orlandi-Gregori. (fperonaci@rcs.it)    

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per repubblica.it il 18 aprile 2023.

"Dopo le parole apparentemente confortanti del pm del Vaticano Diddi ‘scaveremo a fondo in ogni direzione anche le più gravi senza sconti a nessuno’ - ha spiegato Pietro Orlandi - mi ero illuso e dissi "nel 2023 non possono esistere persone intoccabili"... invece esistono. 

E mi illusi anche quando dissi " non c'è più quella sudditanza psicologica nei confronti del Vaticano, né giornalisti asserviti al loro potere". Purtroppo mi sbagliavo di grosso, basta dare un'occhiata ai quotidiani. Fortunatamente c'è ancora chi ragiona con la propria testa e non ha accettato di chinarsi a nessuno e decide di scrivere quello che la coscienza, e non gli altri, gli impone di scrivere".

Intanto è previsto per oggi pomeriggio in Commissione Affari Costituzionali l'avvio della discussione sull'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, già approvata dalla Camera. […]

La signora Pezzano vive ancora in Vaticano. Emanuela Orlandi e il dolore di mamma Maria, la pizza, la partita dell’Italia e le parole a Papa Wojtyla: “Quando torna mia figlia apriamo regalo”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 21 Aprile 2023

Maria Pezzano è la mamma di quattro figli, compresi Emanuela e Pietro Orlandi che ha rilanciato in tv (dicendosi poi “dispiaciuto”) un audio e pesanti insinuazioni su presunti giri di pedofilia ai massimi livelli del Vaticano. All’indomani del monito di papa Francesco il Segretario di Stato Pietro Parolin ha detto: “La Santa Sede vuole chiarire, arrivare alla verità. Credo che lo si debba innanzitutto alla mamma, che è ancora viva e soffre molto”.

La signora Pezzano è anche nonna, e per i suoi nipoti – soprattutto le tre ragazze di Pietro che sono in prima fila nella battaglia per la verità -, è una figura importante soprattutto dopo la perdita nel 2004 del capofamiglia, il messo pontificio Ercole Orlandi, che morì di crepacuore per non essere riuscito a trovare la sua Emanuela. Ancora oggi nonna Maria risiede in Vaticano, nello stesso appartamento di via Sant’Egidio dal quale “Lellè”, come lei la chiamava, uscì la sera del 22 giugno 1983 e non tornò più.

Nonostante l’età avanzata – come ricorda il Corriere della Sera – non ha mai mancato di far sentire la sua voce, ribadendo nelle interviste di continuare a sperare “nel miracolo di riabbracciare Emanuela” e indossando ai sit-in anche lei la maglietta bianca con il volto stilizzato della figlia e la scritta La verità rende liberi. La signora Maria è una donna del Sud, sorretta da una tempra forte e animata da un proposito: “Non voglio morire senza sapere dove sia Emanuela”.

Scomparsa Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e l’incontro in Vaticano: “Il Papa vuole piena verità, non nasconderemo nulla”

Il figlio Pietro racconta come sua madre, nata in casa in un paesino dell’Irpinia negli anni ’30, sia venuta a Roma a 18 anni per fare l’infermiera ed abbia conosciuto così suo padre Ercole: “Si conobbero nell’Italia del dopoguerra, quando la felicità erano le corse in Lambretta fino alla rotonda di Ostia, lei con le gambe su un lato e la gonna ben stretta sotto le ginocchia. E si divisero 54 anni dopo, nel marzo 2004, quando il cuore ormai stanco del dipendente vaticano decise che era giunto il momento del commiato”.

La giovane coppia si trasferì presto a casa di nonno Pietro, capofila dei commessi papali, che nell’andare in pensione parlò con il prefetto pontificio, il quale nulla obiettò all’idea di rimpiazzarlo con Ercole, fino a quel momento impiegato come elettricista. Arrivarono i figli tra la fine degli anni ‘50 e i ’60.

Una vita felice fino al 22 giugno 1983. Di quel giorno la signora Maria conserva un ricordo vivido. La mattina aveva deciso di preparare per cena pizza per tutti. Nel pomeriggio, quando Emanuela stava suonando il piano, lei stava in cucina. La sera c’era una Italia-Brasile, e Ercole e Pietro erano interessatissimi. Dalle 21, quando Lellè ancora non rientrava in casa, l’armonia si spezzò. Telefonate, ricerche negli ospedali, i giri per Roma. Così mamma Maria gettò le  teglie di pizza nella pattumiera.

“Da quel momento – ha ricordato il figlio Pietro – Mamma Maria era sempre sul divano. Bianca, senza parole. Non voleva uscire, lo choc l’aveva fatta stramazzare”. Le cognate le dicevano: “Maria, prendi le gocce, ti tireranno su”, oppure: “Maria, mangia qualcosa, non puoi stare a digiuno”. Le questioni pratiche – senza più Emanuela – avevano perduto ogni senso.

Ma quando si trattò di confutare la valanga di indizi che le persone in possesso della figlia, o in contatto con i veri sequestratori, fornirono nei comunicati mamma Maria tornò forte in prima linea: l’ostaggio ha sei nei sulla schiena, soffre di pressione alta, è allergica al latte, ha una predilezione per le scarpe di colore bianco etc. Una continua verifica tra bluff e ricordi da riferire agli investigatori.

Maria Pezzano è soprattutto una donna devota. Il 24 dicembre 1983 accolse con emozione in casa il papa Wojtyla, venuto per gli auguri di Natale e per consolarla. Quell’abbraccio è una delle immagini iconiche della tragedia di Emanuela che è rimasta anche nella memoria di Pietro: “Giovanni Paolo II era in piedi, accanto al pianoforte di Emanuela, che ci porgeva i suoi regali: un bassorilievo raffigurante una Madonna e un cesto di dolci. Mia madre gli disse: Santità, non è una scortesia ma un gesto di speranza, questo lo apriremo quando tornerà Emanuela”. Non si è persa neanche la beatificazione il 1° maggio 2011: “Non potevo mancare. Ci è stato vicino quand’era in vita e adesso da lassù, da beato, spero possa fare il miracolo, regalarmi la gioia di riabbracciare mia figlia”.

Il 13 gennaio 2018, quando Emanuela avrebbe compiuto 50 anni, la signora Pezzano scrive una lettera aperta al Corriere della Sera: “Figlia mia, oggi compi cinquant’anni. Dovrei immaginarti con i capelli striati di bianco e qualche ruga in viso, ma non ci riesco. Ti rivedo sempre ragazzina, che mi corri incontro per darmi un abbraccio e un bacio dicendomi ‘ti voglio bene’. Lo aspetto ancora, il tuo abbraccio, così come aspetto da un momento all’altro di sentire le prime note del Notturno di Chopin che suonavi così bene e mille volte hai provato a insegnare a Pietro. Lui non è riuscito ad andare avanti nell’apprenderlo, così come noi non siamo riusciti ad andare avanti nelle nostre vite da quando t’hanno strappata via. Ti abbiamo cercata per tutti questi anni e continueremo a cercarti. Non ci arrenderemo mai. Finché avremo forza, finché avremo fiato, tu sarai il nostro primo pensiero. La mia speranza, mai sopita, è che chi sa possa avere un rigurgito di coscienza e indicarci come ritrovarti. Auguri Lellè, figlia mia”. Riccardo Annibali

Verissimo, Pietro Orlandi: "Wojtyla? Lo dicevano tutti". La pista del ricatto. Il Tempo il 30 aprile 2023

Pietro Orlandi torna sulle accuse e sui sospetti su Papa Giovanni Paolo II, al secolo Karol Wojtyla, nell'ambito della scomparsa della sorella, Emanuela Orlandi, caso tornato d'attualità anche per la volontà del Vaticano di scrivere finalmente la parola fine sulla vicenda e trovare la verità. "Quella cosa che Wojtyla uscisse di nascosto la sera era una frase che dicevano tutti quanti. Io non ho offeso nessuno e per questo non mi sono mai scusato. Ho riportato le parole di un audio, non mie, in cui si fanno dichiarazioni pesanti su Papa Wojtyla e sulla questione di Emanuela. Ho ritenuto opportuno farle ascoltare al promotore di giustizia affinché sentano questa persona", ha detto Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, a Verissimo su Canale 5. Il riferimento è all'audio che riporta le parole di Marcello Neroni, che negli anni 80 era vicino al boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, detto Renatino. 

"Non so come siano andate le cose, se lo sapessi...", precisa il fratello di Emanuela Orlandi, ma "secondo me, Emanuela è stata presa per ricattare qualcuno e De Pedis è stato utilizzato come manovalanza". "Sono sempre stato convinto che Wojtyla sapesse cosa era successo a Emanuela; quando ci venne a trovare 6 mesi dopo la scomparsa mi parlò di terrorismo internazionale, ma lui permise che calasse il silenzio e che il silenzio rimasse su questa vicenda anche dopo. Papa Francesco ci ha messo 11 anni a riaprire il caso e mi auguro ci sia la volontà di fare chiarezza", ha spiegato Pietro.

Nel corso dell'intervista viene toccato anche il tema degli abusi: "Se la pedofilia ha avuto un ruolo è perché qualcuno l'ha utilizzata per dare più forza all'oggetto del ricatto che non può essere una ragazzina, anche se cittadina vaticana. Emanuela non poteva avere questa enorme importanza. Magari Emanuela è stata messa in una situazione per creare poi l'oggetto del ricatto nei confronti di qualcuno - argomenta Orlandi - se il Vaticano da 40 anni fa di tutto per evitare che la verità possa uscire evidentemente la verità tocca qualcosa di molto pesante".

Da ansa.it l'1 maggio 2023.

"Io non mi sono mai scusato perchè non ho offeso mai nessuno, ho ritenuto opportuno fare ascoltare un audio, poi che io abbia detto quella frase, che Wojtyla usciva di nascosto, è una frase che dicevano tutti quanti, non era considerata una cosa grave, però qualcuno ha voluto legare questa situazione alle parole di questo componente della banda della Magliana".

Lo dice Pietro Orlandi, intervistato da "Verissimo", tornando sulla bufera innescata dalle sue dichiarazioni sulle uscite notturne di san Giovanni Paolo II.

Orlandi ha parlato anche di Wojtyla accostandolo alla figura del padre e affermando che uno era una figura "negativa", cioè Wojtyla, e l'altra "positiva", il padre.

"Mio padre è morto nel 2004 - ha raccontato - è stato un altro momento buio, nel giro di un anno sono morte due persone, nel 2004 mio padre, nel 2005 Wojtyla, sono le due persone che mi tenevano legato a questa vicenda, Wojtyla in negativo perchè io sono sempre stato convinto che lui sapesse che cosa era successo a Emanuela, ricordo quando venne a casa da noi e ci parlò di terrorismo internazionale, ci assicurò che avrebbe fatto il possibile ma poi permise al silenzio e all'omertà di calare su questa vicenda, ha mantenuto il silenzio fino alla fine, così è successo per Ratzinger e Papa Francesco lo ha fatto per dieci anni, forse ora hanno capito che il silenzio non è servito, questi 40 anni passati non posso però dimenticarli e la parola perdono l'ho cancellata dal vocabolario".

"Quando sento la dichiarazione del segretario di Stato, Parolin - ha aggiunto - sono contento che dica che con questa inchiesta dobbiamo fare chiarezza per una madre che soffre, ma questa madre adesso ne ha 93 di anni e in questi 40 anni non mi sembra che nessuno si sia stracciato le vesti per lei". 

"Quando sono usciti quei documenti tutti li hanno bollati come falsi, ridicoli, anche in Vaticano però non mi hanno mai risposto alla domanda come mai stavano in una cassaforte della Prefettura degli Affari economici. Non ho abbandonato quella pista, credo che Emanuela sia stata portata là e più che la Banda della Magliana c'entra Renatino De Pedis, Emanuela è stata presa per ricattare qualcuno, De Pedis è stato utilizzato come manovalanza", ha proseguito, a  proposito della pista di una Emanuela rapita e poi trasferita in un convento in Inghilterra.

"Io ci credo al passaggio raccontato dalla Minardi - continua sulle dichiarazioni di Sabina Minardi nella serie documentario di Netflix "Vatican girl" -, in quel momento era stata consegnata al Vaticano, poi se un abuso abbia avuto luogo potrebbe essere stato per creare l'oggetto di un ricatto". Orlandi ha esordito nella trasmissione affermando che per lui Emanuela "è viva", "la sento viva".

"Il Vaticano - ha infine accusato - da 40 anni fa di tutto per evitare che la verità possa uscire, altrimenti non mi posso spiegare tutti i comportamenti di questi 40 anni". L'inchiesta aperta dai pm d'Oltretevere, comunque, "io l'ho presa come cosa positiva - afferma -, da qualche parte dovrà portarci, questa inchiesta secondo me potrebbe durare pochissimo perchè io l'ho sempre detto, con un po' di buona volontà potrebbero farla durare pochissimo".

La cassetta "sadomaso" e la pornostar: il mistero sulla registrazione di Emanuela Orlandi. Angela Leucci l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Un audiocassetta misteriosa e due documenti che potrebbero rappresentare un depistaggio: sono ancora molti i punti oscuri nella scomparsa di Emanuela Orlandi

Tabella dei contenuti

 L’audiocassetta

 La pista inglese

Tutto falso oppure no? Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi presenta da sempre contorni foschi a causa dei numerosi presunti depistaggi. Alcuni si sono rivelati solo atti di mitomania, altri potrebbero essere indagati, dato che oggi il Vaticano ha aperto un’inchiesta sul caso. La trasmissione “Chi l’ha visto?” ha preso in esame alcuni di questi presunti depistaggi: dalla cassetta lasciata all’Ansa nel luglio 1983 alla cosiddetta pista inglese.

L’audiocassetta

Nel giallo di Emanuela Orlandi, cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 c’è un’audiocassetta che potrebbe rivelarsi cruciale. Questa audiocassetta è in realtà la seconda che fu lasciata alla famiglia della giovane, la prima pare sarebbe stata abbandonata e prelevata da membri del Vaticano: il condizionale in questi casi è d’obbligo, perché questa prima cassetta non è mai stata trovata. Tanto più che secondo gli inquirenti la seconda cassetta, ricevuta nella sede Ansa di Roma, conteneva solo spezzoni di film porno, mentre la famiglia è convinta che in alcuni punti la voce potrebbe essere quella di Emanuela Orlandi.

A “Chi l’ha visto?” i telespettatori si sono lanciati diverse ipotesi, come tale Axel, che si è occupato di ripulire l’audio e quindi sostituire la verosimiglianza della frase “Dio che mi lasci dormire adesso” contenuta nella cassetta in “Dove mi lasci dormire adesso?”. Un altro spettatore ha affermato di avvertire nel nastro un uomo che parla con intonazione napoletana dire: “Chi è questa poveretta?”.

Il giornalista Francesco Paolo Del Re ha ascoltato i pareri di due esperti. La prima è la pornostar, oggi produttrice, Jessica Rizzo, che è apparsa molto turbata mentre veniva riprodotto l’audio: “A me non sembrano tanto grida di piacere. O è un film sadomaso… Io ho fatto 250 film, ma c’erano più grida di piacere, poi mentre si gioca, ci si diverte, scappano anche delle parole, a volte spinte. Qui avverto qualcosa di lugubre, non di eccitante”. Si trattava di un video sadomaso - o meglio uno snuff movie - oppure la cassetta è autentica?

È stato intervistato inoltre il critico cinematografico Marco Giusti, che ritiene che il sonoro di un film porno dell’83 dovrebbe essere più chiaro, ed esclude si tratti di un horror. Piero Orlandi, presente in trasmissione, ha ricordato che secondo gli analisti del Sismi la seconda cassetta sarebbe autentica e ci sarebbe un’altissima probabilità che la voce sia di Emanuela Orlandi.

La pista inglese

Ci sono due documenti che potrebbero rappresentare un presunto depistaggio ma che fanno interrogare l’opinione pubblica: Emanuela Orlandi è rimasta viva dopo la sua scomparsa e ha soggiornato in Inghilterra?

"Emanuela e l'altra 'zozzetta'": violenza choc sul giornalista che indaga su Orlandi

Uno di questi documenti è una lettera in cui l’arcivescovo di Canterbury dal 1991 al 2002 George Carey avrebbe chiesto un incontro al cardinale Ugo Poletti - lo stesso che approvò la sepoltura a Sant’Apollinare per Enrico “Renatino” De Pedis della Banda della Magliana - per parlare di Emanuela Orlandi. Ma questo documento non è su carta intestata e un parente di Carey ha sottolineato come sia scritto in un pessimo inglese, impossibile che l’arcivescovo si sia espresso così.

L’indirizzo in cui Poletti avrebbe soggiornato, secondo quanto riportato in questo documento, assomiglia a un’altro che compare in una presunta nota spese. In questa nota spese sarebbero attestati dei costi di soggiorno per Emanuela Orlandi, con tanto di parcelle mediche (tra cui quella di un ginecologo), e un’ultima voce che lascerebbe pensare al trasporto di una salma da Londra in Vaticano. Il Vaticano ha smentito la veridicità della nota spese e in effetti, in base ad alcuni refusi presenti, sembra un falso prodotto in epoca successiva all’adozione dell’euro.

"Si sono tirati indietro". L'accusa di Pietro Orlandi al Comune di Roma per l'anniversario. Pietro Orlandi ha raccontato del passo indietro del Comune di Roma nell'organizzazione del quarantennale della scomparsa della sorella Emanuela Orlandi. Angela Leucci l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il Comune di Roma, dopo aver espresso entusiasmo per le iniziative dedicate al quarantennale della scomparsa di Emanuela Orlandi, avrebbe fatto un passo indietro. La cittadina vaticana scomparve il 22 giugno 1983 e attualmente il Vaticano ha aperto un’inchiesta ascoltando, ad aprile 2023 il fratello della giovane Pietro Orlandi.

Le successive dichiarazioni di quest’ultimo alla trasmissione DiMartedì avrebbero sollevato un polverone: Pietro Orlandi riportò in quel caso alcune chat, consegnate al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, in cui un ex esponente della Banda della Magliana aveva espresso delle parole forti nei confronti di papa Giovanni Paolo II, mettendolo tra l'altro in relazione con la scomparsa di Emanuela Orlandi. L’indignazione è costata a Pietro Orlandi anche la ricezione di una lettera minatoria.

“Io in questi 40 anni sono sempre stata una persona corretta e onesta - ha chiarito il fratello della scomparsa a ‘Chi l’ha visto?’ - Adesso qualcuno mi vuol far passare per una persona non corretta e non onesta. Per anni chiedo un incontro, di essere convocato per verbalizzare, finalmente vengo chiamato, si apre questa inchiesta: sto 8 ore là dentro, sono contento di stare 8 ore là dentro e alla fine dico ‘Chiamatemi quando volete, giorno, notte, in qualunque momento’. Per sicurezza porto anche un memoriale, in cui scrivo tutte le cose che avrei detto a voce, con le fotografie dei WhatsApp, tutti i documenti, i nomi di 28 persone. Sentirmi dire il giorno dopo, un voltafaccia, che noi ci rifiutiamo di andare avanti, di collaborare, perché ci rifiutiamo di fare i nomi di persone… Io sono rimasto così: sono impazziti qua dentro?”.

"Emanuela e l'altra 'zozzetta'": violenza choc sul giornalista che indaga su Orlandi

Pietro Orlandi ha inoltre lamentato che il Comune di Roma abbia cambiato idea a seguito del polverone. “Stavo per organizzare per il quarantennale della scomparsa di Emanuela, come nel 2012 - ha raccontato ancora l’uomo - mi sarebbe piaciuto fare questo sit in al Campidoglio e poi, come nel 2012 andare all’Angelus. Con la fotografia. Avevo chiesto al Comune: entusiasti, mi aveva dato pure appuntamento il sindaco di Roma il 26 aprile per incontrarci per organizzare. Appena esplode questa cosa qua, hanno fatto un passo indietro, mi hanno detto: ‘No, il Comune di Roma riguardo al quarantennale ha deciso di soprassedere per via del Giubileo del 2025’. E poi mi hanno detto: ‘Le motivazioni sono quella situazione che è successa con il Vaticano’. Quindi, quando io qualche anno fa, qualche mese fa, ho detto: finalmente mi sono accorto che da parte delle istituzioni non c’è più quella sudditanza psicologica nei confronti del Vaticano, purtroppo mi sto rendendo conto invece che c’è quella sudditanza psicologica, c’è chi fa un passo indietro”.

"Emanuela portata a Londra". Pietro Orlandi e la lettera che cambia tutto. Pietro Orlandi rivela una delle prove in grado di corroborare tale ipotesi: fondamentale anche il riferimento a Clapham Road. Federico Garau l'11 Maggio 2023 su Il Giornale.

Emanuela potrebbe essere stata portata a Londra: Pietro Orlandi racconta a Sky Tg24 della lettera, consegnata al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, che potrebbe corroborare tale ipotesi.

"In Vaticano lo dicevano tutti...": Orlandi rincara la dose contro papa Wojtila

Una missiva datata 1993 nella quale l'allora Arcivescovo di Canterbury invitava esplicitamente il cardinale Ugo Poletti, in quegli anni Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, con l'obiettivo di "discutere personalmente la situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza". Si tratta, pertanto, di un episodio avvenuto dieci anni dopo la scomparsa di Emanuela, avvenuto il 22 giugno del 1993, e che potrebbe risultare fondamentale nella ricostruzione di cosa sia accaduto in realtà alla ragazza. La pista Londra, rivela durante l'intervista Pietro Orlandi,"non l'ho mai abbandonata. Ho motivo di credere che Emanuela, aldilà di questa lettera, sia stata portata là". "Sicuramente di questa lettera io non ho abbastanza la certezza che sia autentica, per quanto riguarda le altre cose sto verificando", aggiunge.

Cosa dice la lettera

"Cara Eminenza, sapendo che sarà per qualche giorno qui a Londra, mi sento in dovere di invitarla a farmi visita nei prossimi giorni per discutere personalmente la situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza", si legge nella missiva scritta dall'allora Arcivescovo di Canterbury e indirizzata al Cardinale Ugo Poletti. "Dopo anni di corrispondenza, penso sia giusto discutere di una situazione di tale importanza personalmente", prosegue lo scritto. "Mi faccia sapere se può servirle un traduttore personale o se nel caso la porterà con lei. Attendo la sua risposta nei prossimi giorni", conclude l'arcivescovo.

La vicenda

"È del 1993", precisa Pietro Orlandi,"Poletti già non era più vicario di Roma, era Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore, e questa lettera viene intestata dall'arcivescovo George Carey di Londra proprio a 'Sua Eminenza il Cardinal Poletti Arciprete della Basilica di Santa Maria Maggiore'". Quindi la data e il ruolo sarebbero in effetti congrui.

"Ma la cosa strana è che viene spedita in quel luogo, a Londra, che fa riferimento anche ai cinque fogli, a Clapham Road". I cinque fogli menzionati sono quelli nei quali il cardinale Antonetti contattava i monsignori Giovanni Battista Re (allora sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede) e Jean-Louis Tauran (segretario per i rapporti con gli Stati) per riferire un "resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi", tra cui, esplicitamente si citavano, le "rette vitto e alloggio 176 Clapham Road Londra". Tutti elementi, anche questi che emersero nel 1998, in grado di spingere verso tale ipotesi.

Consegnata la lettera a Alessandro Diddi, la speranza è che finalmente si faccia luce sulla vicenda: "Mi auguro che il Vaticano, da quando ho consegnato questa lettera, abbia ascoltato l’Arcivescovo, perché è ancora vivente", conclude Orlandi. Federico Garau

Emanuela Orlandi e la commissione d'inchiesta: il voto slitta, durata ridotta. Gualtieri nega la piazza al fratello. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2023

Al Senato emendamento di Fratelli d'Italia per ridurre a due anni (massimo 3) la durata delle indagini. Il sindaco Gualtieri nega a Pietro Orlandi la piazza per i 40 anni dalla scomparsa, il prossimo 22 giugno

L'intrigo più lungo della storia repubblicana - 40 anni di depistaggi e misteri  sul mancato ritorno a casa di due quindicenni - e un emendamento brevissimo, telegrafico: soltanto 21 parole, dietro le quali si celano tutte le cautele nate nella maggioranza di centrodestra nell'ultimo mese, da quando Pietro Orlandi ha iniziato a attaccare pesantemente il papa Santo. Quale sarà la durata della commissione parlamentare d'inchiesta sul caso Orlandi-Gregori? La Camera dei deputati il 23 marzo, all'unanimità, aveva fissato in almeno 4 anni l'operatività dell'organismo d'indagine. Non erano ancora arrivate, però, le accuse televisive del fratello di Emanuela che, in un contesto nel quale si parlava di pedofilia, aveva alluso alle «uscite serali di Karol Wojtyla con due monsignori, non certo per benedire le case». Parole che hanno suscitato sdegno e sconcerto ai vertici della Chiesa (qui la replica di papa Francesco all'Angelus) e che, adesso, hanno una prima ricaduta politica: il senatore Costanzo Della Porta, di Fratelli d'Italia, ha presentato un emendamento alla proposta di legge in discussione nella commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama, con l'obiettivo di ridurre a due anni la durata della commissione. 

L'emendamento accorcia-tempi

Un intervento di cesello, semplicissimo. La modifica al testo base già approvato a Montecitorio, qualora la maggioranza decidesse di dare l'ok ( i numeri sono larghi), si realizzerà così: «Al comma 1, sostituire le parole: "per la durata della XIX legislatura" con le seguenti: "per la durata di due anni"». A scanso di levate di scudi dell'opposizione, in ogni caso, il senatore Della Porta ha previsto un piano B, presentando un secondo emendamento pressoché identico con una durata di 3 anni. Come dire: conta il segnale, la commissione deve avere tempi certi, possibilmente non lunghissimi. Il che rimanda alle perplessità espresse dal senatore Matteo Renzi dopo le esternazione di Pietro Orlandi («Io sono stato un Papa boy, il Parlamento non si presti a strumentalizzazioni contro Giovanni Paolo II») e a quelle esplicitate in un gesto silenzioso ed eloquente da un altro elemento del Terzo Polo, Mariastella Gelmini, che nelle ore di polemiche più accese aveva tolto la sua firma alla proposta di legge. La durata dell'organismo di indagine si accorcia, quindi, e contestualmente i tempi della nascita si allungano: il presidente della commissione Alberto Balboni, anche lui FdI, calendarizzerà il voto sui due emendamenti non prima dell'ultima settimana di maggio, per smaltire altri provvedimenti in attesa da tempo, come la riforma delle Province. L'ok definitivo, ammesso non emergano ulteriori prese di distanze, arriverà insomma a giugno, se non dopo l'estate.

Il no dei Cinquestelle

In allerta le opposizioni: «Le notizie secondo le quali nella maggioranza si starebbe pensando di modificare al Senato il testo per dare il via libera alla commissione d'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sono un pessimo segnale per le loro famiglie e per il Paese. È impensabile che i correttivi allunghino l'iter per l'approvazione della commissione al fine di mozzarne la capacità di arrivare a verità e giustizia. Le storie di Emanuela e Mirella hanno minato la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Dare risposte su quanto accaduto è un dovere al quale il Parlamento non deve sottrarsi», ha dichiarato il capogruppo M5S alla Camera, Francesco Silvestri, presentatore del testo ora a Palazzo Madama. 

Pietro Orlandi: Gualtieri non mi ha ricevuto

«Ho il timore che ci sia la volontà di rallentare le cose», è stata invece la reazione di Pietro Orlandi (qui la lettera anonima a lui indirizzata giorni fa in Vaticano), il quale ha reso noto anche un altro fronte aperto nelle scorse settimane con il primo cittadino della capitale: «Il 26 aprile avrei dovuto incontrare il sindaco di Roma Roberto Gualtieri - ha dichiarato a LaPresse -  per organizzare una manifestazione in Campidoglio per i quarant'anni dalla scomparsa di mia sorella Emanuela (avvenuta il 22 giugno 1983, ndr). Poi mi è stato detto che l'appuntamento era stato rinviato, e mi hanno fatto sapere dalla segreteria del sindaco che "per quanto riguarda il quarantennale, il Comune ha deciso di soprassedere in vista del Giubileo", anche se sarà nel 2025. Alla fine, dopo mie richieste, amichevolmente mi hanno spiegato che lo stop era dovuto a quelle dichiarazioni che mi erano state attribuite su Giovanni Paolo II». Chiosa del fratello della "ragazza con la fascetta": «Non ho offeso Wojtyla, l'ho spiegato numerose volte. Le mie parole sono state strumentalizzate. Fino a qualche tempo fa sentivo vicine le istituzioni e ora spero che questa storia non rallenti la ricerca di una verità che io e la mia famiglia aspettiamo da 40 anni».  (fperonaci@rcs.it)

Cittadini che guardano Netflix a bocca aperta. Emanuela Orlandi moneta di scambio di Agca, basta fango su papa Wojtyla: “Va screditato o eliminato fisicamente”. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 10 Maggio 2023

Devo dire di aver provato un tale ribrezzo e sconcerto e istinto di ribellione vedendo frammenti del filmato sulla povera Emanuela Orlandi, da non riuscire a vedere tutto. Lo farò, ma devo placarmi perché avevo capito dai primi accenni e clip dove questa pretesa inchiesta andava a parare: la Orlandi? Una povera adolescente adescata nientemeno che dal Papa polacco. Quello che ha fatto cadere il comunismo? Sì, si vantava di questo ed era un brutto tipo… e seguono testimonianze balbettanti, tutte al condizionale allusivo mormorato, qui lo dico e qui quasi lo nego. E ho pensato: ben scavato, vecchia talpa. Stiamo assistendo alla degradazione come quella del capitano Dreyfuss nel quadrato militare. Oggi siamo nel 2023. Sono passati più di quarant’anni e abbiamo di fronte una platea di cittadini che poco o nulla sanno e che guardano Netflix a bocca aperta, milioni di giovani che non sanno nulla di questa storia e questo stupor della memoria in cui si ficca la banda della Magliana prêt-à-porter, la banca vaticana dello Ior dove il Pci cambiava i dollari di Mosca in lire italiane, e poi lo stupro.

Tutto avviene in televisione e – sorpresa incredibile – il Parlamento se ne fa carico e promuove una Commissione parlamentare d’inchiesta. Bravissimi. È così che si compie la direttiva secondo cui quel papa andava possibilmente ammazzato (per motivi di contesa territoriale) e comunque distrutto nel discredito, arso sul rogo per essere stato lui, l’agente Woytjla ad aver fatto crollare l’impero dell’Est. Quando fu eletto quel Papa, che era stato per anni arcivescovo di Cracovia e un osso durissimo per Mosca, il più longevo e lungimirante (e più crudele capo del Kgb) emise una direttiva per tutti i capi delle “residenture” (stazioni) del Kgb specialmente europee: “Caro compagno, è stato eletto Papa del Vaticano il pericolosissimo e famigerato Karol Wojtyla, nemico dei sistemi socialisti, per cui sarà necessario screditarlo o distruggerlo come immagine pubblica, oppure eliminarlo fisicamente”.

Una direttiva simile fu presa dal Presidium e del Comitato Centrale, firmata anche da Michail Gorbaciov in cui si raccomandava l’uso di misure attive vale a dire prima di tutto discredito, derisione, accuse infamanti atte a distruggere l’immagine, e in caso estremo l’assassinio. Tutto ciò è avvenuto già, la parte che riguarda l’omicidio, ma adesso stiamo assistendo con sadico candore alla “character assassination” dell’uomo che ha abbattuto il regime comunista in Polonia costringendo l’Urss a dare forfait, ridotta allo stremo dissanguata dall’inutile corsa agli armamenti. Come Presidente di una Commissione d’inchiesta, nel 2006 dalla cella del suo carcere in Turchia, Ali Agca, l’attentatore del Papa, mi scrisse una lettera manoscritta: “Se lei, Presidente Guzzanti, mi farà uscire da questo carcere, io le prometto di consegnarle viva Emanuela Orlandi”. Curiosamente, quella lettera non fu recapitata a me ma al quotidiano Repubblica che la pubblicò fotografata e ben leggibile.

Agca usava il rapimento della Orlandi come moneta di scambio per la sua liberazione e lo faceva sia con l’allora Cardinale Ratzinger che con lo stesso Wojtyla. Intanto, arrivò la notizia che l’ostaggio promesso dai generali bulgari era stato effettivamente catturato. E questo semplice e tragico fatto permise al mancato assassino di distruggere tutto quanto aveva confessato fingendosi pazzo, dichiarandosi Gesù Cristo tornato in terra e rendendo giudiziariamente inservibili le sue dettagliate confessioni. Poi l’ha usata come offerta di scambio: la mia libertà in cambio di Emanuela Orlandi. La Orlandi per avere la libertà.

Tutti sapevano che Emanuela Orlandi era stato l’asso nella manica dell’attentatore. Appena arrestato, aveva vuotato il sacco raccontando per filo e per segno, con nomi date e circostanze del suo addestramento per uccidere il Papa e come era fatta la squadra che lo accompagnava: Agca era un killer a pagamento e aveva assassinato da poco un famoso giornalista turco. Mentre era a Rebibbia, due sedicenti giudici militari bulgari erano andati a trovarlo e, come lui stesso raccontò più tardi, gli intimarono di ritrattare tutto sia minacciando i suoi familiari, sia rassicurandolo che presto sarebbe avvenuto un rapimento in Vaticano che avrebbe fatto da merce di scambio. Da quel momento Emanuela Orlandi diventa ostaggio, rendendo molto bene come investimento terroristico. Nella primavera del 1982, un anno dopo l’attentato, il giudice Ferdinando Imposimato indagando sulle Brigate Rosse, scoprì attraverso l’agente bulgaro Ivan Tomov Dontchev, che i bulgari volevano nel gennaio 1981 far saltare in aria sia Lech Walesa, in visita a Roma, che il Papa. Dontchev spiegò di essere stato personalmente in contatto con Ali Agca (il turco che sparò al papa il 13 maggio 1981 in piazza San Pietro) e sostenne che un unico filo univa il caso Moro e l’attentato al Papa, di cui – sottolineò – il sequestro di Emanuela Orlandi fu “l’inevitabile sviluppo”. Di un certo Tomov e del caso Walesa aveva parlato anche Ali Agca, per conto proprio, al giudice Ilario Martella.

Il giudice Priore ricorda che nel 1986, si svolse un incontro fra tre polizie a Parigi per la ricerca della casa ove sarebbe stata Emanuela Orlandi. I servizi francesi non sbagliano. La Orlandi fu prigioniera anche a Parigi. Il giudice Imposimato confermò che Agca ritrattò tutto dopo il rapimento avvenuto il 22 giugno 1983 e fu colpito dal fatto che Agca aveva messo in relazione il rapimento Orlandi con la sigla “Turkesh”, utilizzata dai rapitori di Emanuela Orlandi perché molte delle loro lettere recavano la sigla Turkesh. Il servizio segreto della Germania Est Stasi (il film “Le vite degli altri”) si era certamente occupato della corretta gestione del rapimento Orlandi. E infine l’agente tedesco orientale Günther Bohnsack disse a Imposimato che dopo l’attentato al Papa, Yuri Andropov capo del Kgb, intimò al Ministro dell’Interno della Germania Est, Erich Mielke “fate tutto ciò che è necessario per dimostrare lo zampino della Cia e per distruggere le prove. Tutti i mezzi sono consentiti. Bisogna seminare tracce contro la Cia con disinformazione, aggressione, terrore, sequestri, omicidi”. Abbiamo avuto il sequestro di Emanuela Orlandi, che rappresenta uno di quei fatti misteriosi, ma connessi a questa vicenda e a quella dell’altra ragazza, Mirella Gregori. Emanuela Orlandi aveva la cittadinanza vaticana, invece Mirella Gregori era cittadina italiana. Come mai non se ne parla?

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Estratto dell’articolo di Alessandro D’Amato per open.online il 12 maggio 2023.

Non solo l’inglese torturato e gli errori nell’intestazione. C’è un altro elemento nel caso della presunta lettera dell’arcivescovo di Canterbury su Emanuela Orlandi che ci dà la certezza della falsità della missiva. Ovvero la firma di George Cantuar, al secolo Carey. Che è stata ricavata da un altro documento disponibile in rete. 

E poi apposta sulla missiva scritta in inglese maccheronico e indirizzata al cardinale Ugo Poletti. Il tutto fornisce la certezza che la lettera consegnata da Pietro Orlandi al promotore di giustizia Alessandro Diddi è frutto di un depistaggio. […] 

A spiegare a Open che la firma è un falso è Sara Cordella, grafologa forense, specializzata in grafologia criminologica, iscritta all’albo dei periti del Tribunale di Venezia e docente. L’esperta segnala che in un articolo di Christian Today che risale al 2016 e che parla degli abusi sessuali nella Chiesa d’Inghilterra c’è una firma di Carey come arcivescovo di Canterbury.

Carey scriveva al pubblico ministero che aveva sollevato un’accusa di abusi sessuali nei confronti dell’ex vescovo di Gloucester Peter Ball. «Anche a una prima valutazione “ad occhio” si vede che le due firme sono perfettamente sovrapponibili. E questa è la lezione numero 1 di metodologia grafologica penale: non possono esistere due firme identiche. Se sono uguali, una delle due è un falso». 

«Io lo definirei tecnicamente come un falso per fotomontaggio», assicura la grafologa. Che poi spiega di aver anche notato altro. In un dettaglio che si trova in entrambe le firme è presente quella che in gergo tecnico si chiama “intozzatura”. […] 

Appurato quindi che si tratta di una prova falsa, come del resto anche Diddi aveva subito detto, rimane da capire in che modo questa sia arrivata a Pietro Orlandi e chi ci sia dietro. Perché è evidente che l’intenzione di avvalorare la “pista inglese” e soprattutto la “nota spese” del Vaticano è un modo per depistare e indirizzare eventuali indagini.

Ecco la lettera segreta su Emanuela Orlandi. L’arcivescovo Carey: «È falsa». (Emiliano Fittipaldi e Emanuele Midolo, Domani 10 maggio 2023) «Cara Eminenza, dopo aver saputo che lei sarà qui a Londra per alcuni giorni, mi corre l’obbligo di chiederle di venirmi a trovare nei prossimi giorni per discutere personalmente in merito alla situazione di Emanuela Orlandi di cui sono a conoscenza. Dopo anni di carteggi scritti, credo sia giusto discutere personalmente di una questione così importante. Cordiali saluti». Così scriveva l’ex arcivescovo di Canterbury George Carey al cardinale Ugo Poletti, o almeno così vuole far credere una presunta missiva «confidenziale» datata 6 febbraio 1993 e consegnata da Pietro, fratello della ragazzina scomparsa nel 1983, agli inquirenti vaticani che da qualche mese stanno indagando su uno dei cold case più noti d’Italia.

Domani ha ottenuto il documento di cui Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò hanno annunciato in tv l’esistenza un mese fa, e lo pubblica ora sul quotidiano e sul sito. 

La lettera a Poletti

Il dispaccio firmato da Carey sarebbe stato spedito dall’allora primate della chiesa anglicana (la cui residenza ufficiale è Lambeth Palace, citata nell’intestazione) a un’indirizzo di Londra diventato celebre negli ultimi anni. Quello cioè dell’ostello femminile di proprietà dei padri scalabriniani, inserito in una delle voci contabili di una presunta nota spese firmata nel 1998 dall’allora numero uno dell’Apsa, cardinale Lorenzo Antonetti. Un documento che elenca i soldi spesi dal Vaticano per «l’allontanamento domiciliare» della Orlandi, divulgato da chi vi scrive nel 2017 e subito bollato come «falso e ridicolo» dalla Santa sede.

La missiva di Carey, rivolta a Poletti che al tempo era arciprete della basilica di Santa Maria Maggiore a Roma, si conclude così: «Mi faccia sapere se ha bisogno di un traduttore personale o se ne ne porterà uno con lei. Aspetto una sua risposta nei prossimi giorni». Firmato, a penna: «Cordiali saluti, George Cantuar». «Cantuar» sta Canterbury in latino: gli arcivescovi anglicani firmano così, con una croce anteposta al nome di battesimo.

Fosse genuino, il messaggio sarebbe di interesse notevole, perché di fatto complementare alla storia disegnata dalla lettera di cinque pagine di Antonetti. Quest’ultima si presenta come un «resoconto sommario delle spese» sostenute dal Vaticano, redatto come documento di sintesi «delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi».

La pista inglese

 Il rapporto (che spiega come allo stesso sarebbero stati allegati 197 pagine di fatture e resoconti bancari delle ipotetiche spese) elenca una serie di voci contabili, che portano il lettore a ipotizzare come l’adolescente, dopo essere scomparsa, sia stata in qualche modo rintracciata da uomini del Vaticano. Gli stessi, invece di restituirla alla famiglia, avrebbero – per motivi che la missiva indirizzata agli allora arcivescovi Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran non spiega – nascosta in vita a Londra.

Nella prima pagina delle spese, quelle che vanno dal 1983 al 1985, una voce indica «rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra», e una spesa relativa di otto milioni. Nella capitale inglese esistono tre strade con quel nome, ma nessuna con quel civico. L’estensore (sia davvero il cardinale, sia come molti credono un falsario che si è firmato a suo nome) ha probabilmente sbagliato digitazione. L’indirizzo corretto è infatti Clapham Road, dove al numero 176 dall’inizio degli anni Ottanta c’era (e c’è ancora) l’ostello femminile cattolico. Destinato alle ragazze, studentesse e lavoratrici che volevano (o vogliono) soggiornare a Londra a prezzi contenuti in semplici mini-appartamenti.

La missiva firmata «George Cantuar» consegnata da Pietro Orlandi al promotore di giustizia Alessandro Diddi, che qualche mese fa ha aperto il caso giudiziario in Vaticano per provare a dare rispose alla famiglia dopo quarant’anni di silenzi e reticenze, viene spedita da Carey a Poletti allo stesso indirizzo citato nel documento di Antonetti: Clapham Road 170, che è un altro ingresso del comprensorio.

Il dettaglio, dunque, accrediterebbe la cosiddetta “pista inglese” e la stessa missiva di Antonetti. In cui – come è noto – si lascia intendere sia la partecipazione di Poletti all’affaire Orlandi (una voce ipotizza che 80 milioni siano stati spesi per «l’attività di sua Eminenza Reverendissima cardinale Ugo Poletti»). Sia la circostanza che Emanuela sia rimasta assurdamente nascosta (in cattività?) in Inghilterra fino al luglio del 1997, quando il resoconto indica, in un’ultima nota spesa, un esborso di 21 milioni di lire per «l’attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali».

Dubbi e falsari

Fosse vera la lettera di Carey sarebbe dunque il primo elemento concreto che avvalorerebbe le cinque pagine. Domani, in attesa delle conclusioni delle indagini dei magistrati di Francesco, ha cercato di verificare per quanto possibile l’attendibilità del documento. Che presenta certamente più di un interrogativo. L’inglese in molti passaggi è maccheronico. Il testo non sembra scritto da un madrelingua, ma forse da un italiano che traduce alla lettera.

Anche in questo caso, come nella lettera di Antonetti, la carta non è intestata né timbrata. I riferimenti temporali sono corretti (Carey, che aveva ottimi rapporti con Giovanni Paolo II, era arcivescovo di Canterbury da meno di due anni, Poletti era stato fatto arciprete nel 1991) ma non è chiaro per quale motivo il capo della chiesa anglicana avrebbe dovuto essere partecipe del caso Orlandi che terremotava i cattolici.

Domani ha inoltre mostrato la lettera a Carey in persona, che vive a Londra e ha 87 anni. Il suo segretario, il figlio Andrew, spiega che della faccenda di Emanuela l’ex arcivescovo «non ne sa nulla, e non crede che la questione sia mai stata sottoposta alla sua attenzione. La lettera inoltre non è autentica: è scritta su carta che non reca un’intestazione corretta, contiene errori di sintassi e di grammatica e sarebbe stata ritenuta non conforme ai criteri qualitativi per la corrispondenza di Lambeth Palace».

Invece Carey riconosce la firma in calce come autentica: «La firma sembra genuina». Fosse davvero una patacca, un falsario avrebbe dunque composto il documento, appiccicando la firma dell’ex arcivescovo (su Ebay abbiamo trovato delle cartoline in vendita dove appare un autografo di Carey molto simile) a un testo farlocco mal scritto, per poi spedire la patacca in formato digitale a Pietro Orlandi che lo ha denunciato al Vaticano.

Fonti interne alla Città Santa spiegano che la gendarmeria e i promotori non hanno ancora sentito l’arcivescovo Carey, ma chiariscono che Diddi (e papa Francesco, che è stato messo al corrente) sono «tranquilli: la lettera è un falso sesquipedale».

Fossero confermati i sospetti di un ennesimo depistaggio su caso Orlandi, nessuno per ora riesce a rispondere a una domanda chiave: cui prodest? Chi avrebbe interesse a realizzare una nuova contraffazione (che servirebbe a convalidare la pista inglese già definita una patacca dal Vaticano) e spedirla alla famiglia dopo quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela?

Non sappiamo se Pietro ha svelato, nella lunga testimonianza fatta a Diddi qualche settimana fa, chi gli ha dato la presunta lettera di Carey. Non sappiamo dunque se si tratta di un anonimo oppure di una persona della quale è possibile risalire all’identità e che potrebbe spiegare l’origine del foglio in inglese. Ma è certo che è interesse degli Orlandi e del Vaticano fare chiarezza sull’ennesimo documento che rischia – se falso come afferma Carey – di allontanare la verità sulla sorte della ragazza.

Emanuela Orlandi: le “ rivelazioni” suWojtyla sanno di ennesimo depistaggio Le accuse sono state lanciate da Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa. Valter Vecellio, Sciascianamente, il 15 Aprile 2023 su La Voce di New York. 

Si contravviene una delle regole del giornalismo, quello di auto-citarsi. Epperò… Proprio su La Voce di New York, il 14 gennaio di quest’anno, il punto per quello che riguarda la vicenda di Emanuela Orlandi. La ragazza, fosse viva, avrebbe oggi 55 anni. Ne aveva quindici, quando il 22 giugno del 1983, scompare e sul suo conto di dice di tutto, ma di vero, verificato, provato, si sa pochissimo.

Cittadina vaticana, figlia di un dipendente della Santa Sede, la sua scomparsa è stata messa in relazione ad Alì Agca, il turco che il 13 maggio 1981 a San Pietro cerca di uccidere papa Giovanni Paolo II: liberare lui in cambio del rilascio di lei. Un paio di volte, quand’era detenuto in Italia, chi scrive ha avuto la possibilità di intervistarlo. Una prima volta subito dopo l’incontro, in carcere, con il pontefice che voleva uccidere. Entrambe le volte con il suo italiano gutturale, sillabava: “Emanuela è viva”. Suggestivo, Agca; tutto meno che un imbecille, ma dargli credito è altra cosa.

Un filone investigativo vuole che nella vicenda sia coinvolto Enrico De Pedis, da molti considerato uno dei capi storici della Banda della Magliana. Il coinvolgimento della banda nella scomparsa di Emanuela, disegna, almeno ipoteticamente, un quadro inquietante: la Banda avrebbe cercato di condizionare le politiche del Vaticano, e fa intravedere oscure gestioni di fondi dirottati dallo IOR al tempo del defunto cardinale Paul Marcinkus in favore del sindacato polacco Solidarnosc in funzione antisovietica. Però: il Vaticano, per finanziare il sindacato di Lech Walesa si rivolge a quattro delinquenti romani?

L’auto-citazione. Una sorta di prontuario stilato con il fondamentale aiuto di Pino Nicotri, giornalista autore di un paio di libri sull’ “affaire”. Grazie a Nicotri si possono fissare alcuni punti fermi:

1. Emanuela NON è stata rapita per essere scambiata con Mehmet Ali Ağca, anzi il “rapimento” i magistrati lo vedono come un depistaggio per coprire i reali motivi della scomparsa.

2. Il Vaticano non solo non ha MAI voluto collaborare, ma ha anche mentito e ordinato di mentire. Per esempio, lo ha ordinato al vice capo della sicurezza vaticana ingegner Raul Bonarelli il giorno prima di essere ascoltato come testimone dai magistrati citati. Per questo dirigente della vigilanza vaticana a suo tempo il magistrato ha chiesto uno stralcio per concorso nella scomparsa.

3. Il prefetto Vincenzo Parisi, poi capo della polizia di Stato, ha testimoniato la propria convinzione che la montatura del “rapimento” NON può essere stata tenuta in piedi senza complicità interne al Vaticano.

4. Nelle stesse ore il cui papa Karol Wojtyla lanciava i suoi ripetuti appelli ai “rapitori” perché lasciassero libera la ragazza, monsignor Giovanbattista Re, dirigente di una sezione della Segreteria di Stato, rifiutava l’offerta di monsignor Giovanni Salerno di auscultare, lui che si occupava di finanze del Vaticano, i molti ambienti con i quali aveva contatti, per cercare di capire che fine avesse fatto Emanuela. Ovvero: mentre il Vaticano con la mano destra, cioè con Wojtyla, lanciava appelli buonisti ai “rapitori”, con la mano sinistra, cioè con la Segreteria di Stato, se ne fregava bellamente della sorte della “rapita”. Deve essere stato in ossequio al precetto evangelico “Non sappia la sinistra cosa fa la mano destra“.

5. Cosa straordinaria, ma sulla quale si accanisce significativamente il silenzio di tutti, nessuno chiede ad alta voce come mai il funzionario del parlamento italiano, dottor Gianluigi Marrone, che inviava in Vaticano le rogatorie internazionali dei magistrati italiani desiderosi di interrogare alcuni cardinali, era lo stesso che dal Vaticano, in qualità di suo Giudice Unico, rispondeva “NO!” a quelle sue rogatorie. Cioè a se stesso! Con l’eccezione del parlamentare radicale Maurizio Turco, che ne chiede ufficialmente conto al presidente della Camera dell’epoca Fausto Bertinotti (senza peraltro ottenere una risposta soddisfacente), nessuno se ne stupisce, trova la cosa meritevole di attenzione e spiegazione; neppure una sua segretaria, Natalina Orlandi, ha mai avuto nulla da eccepire su questo straordinario doppio ruolo, pur essendo lei una sorella di Emanuela. Marrone è stato autorizzato, per questa sua doppia mansione il 20 febbraio 1989 (presidenza Nilde Iotti). Continua ad esercitare il doppio lavoro durante le presidenze di Oscar Luigi Scalfaro, Giorgio Napolitano, Irene Pivetti, Luciano Violante e Pier Ferdinando Casini. Va in pensione subito dopo l’inizio della XV legislatura. Alla richiesta di Turco di sapere esattamente quando, gli si risponde che c’è la privacy.

Così non si sa se Bertinotti ha avuto modo e tempo di non revocargli l’autorizzazione della Iotti, tantomeno di sapere di cosa si è occupato alla Camera dei deputati in 18 anni di funzionariato italo-vaticano”.

Questi cinque punti individuati da Nicotri sono una buona base di partenza. C’è poi, da aggiungere, la confidenza di un’amica di scuola che racconta di aver saputo da Emanuela che in uno dei suoi giri in Vaticano una persona molto vicina all’allora pontefice l’aveva infastidita, “e si trattava di un’attenzione sessuale”.

La notizia viene rivelata da Tommaso Nelli, un giornalista free-lance nel suo libro sul caso Orlandi Atto di dolore, prima edizione 2016. Se si considera che Emanuela è stata rapita nel 1983… In tutto questo arco di tempo, lo racconta lo stesso Nenni, la notizia “non è mai stata riportata da alcun organo o mezzo di informazione”, è stato Nenni a trovare quella persona e a raccogliere la sua testimonianza.

Congetture, ipotesi, “rivelazioni”, “supertestimoni” in cerca di visibilità, mitomani…un avvilente circo mediatico. Il Vaticano, su diretto impulso di papa Francesco, riapre il caso: “rileggeranno” tutte le carte e i fascicoli, ascolteranno i testimoni sopravvissuti.

L’affaire in questi giorni si arricchisce un nuovo capitolo da prendere con le proverbiali molle. Un capitolo che contribuisce a creare un polverone che forse non è liquidabile con la semplice deprecabile voglia di protagonismo. Forse va inquadrato in una più vasta manovra, in un progetto di intorbidare acque di suo inquinate, e rendere incredibili e inattendibili anche quei non molti punti fermi finora acquisiti. La cosa che fa ulteriormente pensare è che a questo tipo manovre si prestano anche personaggi che avrebbero al contrario tutto l’interesse a fare il massimo della chiarezza.

Il fratello di Emanuela, Pietro, partecipa a una trasmissione televisiva, Di Martedì, e si dice convinto che “Wojtyla, Ratzinger e papa Francesco siano a conoscenza” dell’indicibile che riguarda la vicenda della sorella. Fin qui…

Nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane durante una sua recente audizione. Nell’audio parla un uomo che si presume essere vicino alla banda della Magliana: “Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell’ambiente carcerario“.

Qui siamo già nel torbido. Sono parole che finora non hanno trovato alcun tipo di riscontro. Pietro Orlandi ci mette del suo, commenta le parole del presunto affiliato alla Banda della Magliana con una pesantissima insinuazione: “Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...”.

La tecnica è quella di chi scaglia il sasso e poi nasconde la mano. Non si dice, ma si lascia intendere; si insinua. Venuti al dunque, quando l’incaricato vaticano, il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, chiede formalmente e seccamente al Pietro Orlandi e al suo avvocato, Laura Sgrò di fornire elementi concreti che suffraghino la pesantissima insinuazione circa il possibile coinvolgimento di Wojtyla, la risposta è un impenetrabile silenzio. Il direttore della sala stampa del Vaticano Matteo Bruni dichiara: “Il Promotore di giustizia Diddi, insieme al professor Gianluca Perone, Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei ripetutamente e pubblicamente richiesto, anche per fornire quegli elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi. L’avvocato Sgrò si è avvalsa del segreto professionale”.

Un collega che è sempre stato molto vicino a Pietro Orlandi, Fabrizio Peronaci del Corriere della Sera, va giù pesante: “Quando ho letto questa dichiarazione, ho stentato a credere che Pietro potesse averla pronunciata”. Peronaci ha scritto un libro a quattro mani con Pietro, Mia sorella Emanuela. Poi si sono allontanati, per diversità di vedute. Secondo Peronaci la rottura è dovuta alla esasperata ricerca di visibilità dello stesso Orlandi, che lo ha portato ad accreditare qualsiasi pista: “...ha scelto la linea diretta dell’insulto non provato al massimo rappresentante della chiesa cattolica”. Ha gioco facile l’Osservatore Romano (l’organo della Santa Sede) che in un suo editoriale scrive: “Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno. Testimonianze almeno di seconda o terza mano? Neanche l’ombra. Solo anonime accuse infamanti”. E ancora: “Una follia. E non lo diciamo perché Karol Wojtyla è santo o perché è stato papa. Anche se questo massacro mediatico intristisce e sgomenta ferendo il cuore di milioni di credenti e non credenti, la diffamazione va denunciata perché è indegno di un Paese civile trattare in questo modo qualunque persona, viva o morta, che sia chierico o laico, papa, metalmeccanico o giovane disoccupato”. Secondo l’Osservatore Romano, “è giusto che tutti rispondano degli eventuali reati, se ne hanno commessi, senza impunità alcuna o privilegi. È sacrosanto che si indaghi a 360 gradi per cercare la verità sulla scomparsa di Emanuela. Ma nessuno merita di essere diffamato in questo modo, senza neanche uno straccio di indizio, sulla base dei ‘si dice’ di qualche sconosciuto personaggio del sottobosco criminale o di qualche squallido anonimo commento propalato in diretta Tv”. Sia consentita una previsione: non se ne verrà a capo di nulla. La scomparsa e presumibile morte di Emanuela Orlandi resterà sempre un mistero; molti di quanti sono a conoscenza di come si sono svolti i fatti, sono morti. E’ possibile che si solleveranno altri polveroni. La vicenda sarà utilizzate nell’ambito di “primarie” in corso da tempo, per il successore di papa Francesco. Dunque altri “clamorosi” capitoli di questa infinita vicenda che ormai si perde nel tempo; e nulla comunque hanno a che fare con la verità.

Valter Vecellio Sciascianamente Nato a Tripoli di Libia, di cui ho vago ricordo e nessun rimpianto, da sempre ho voluto cercare storie e sono stato fortunato: da quarant'an…..

Emanuela Orlandi e la lettera al fratello Pietro. La grafologa: «Scritta da persona autoritaria». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 27 Aprile 2023.

La missiva inviata alla madre della ragazza scomparsa: l'autore è un buon oratore (scrittura flessuosa), ma poco dialogante ("t" acuminate). Nel falso cognome un riferimento all'Opus Dei? 

Pietro Orlandi e la lettera esaminata da una grafologa

L'inchiesta vaticana sul caso Orlandi che, stando alle dichiarazioni del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, va avanti con speditezza.  Una lettera di accuse a Pietro Orlandi per le «vergognose allusioni» da lui rilanciate in tv su Karol Wojtyla, che ha suscitato grande curiosità. La replica spazientita del fratello di Emanuela: «Io devo rispondere a Dio delle mie cattiverie? Beh...» E, da due giorni,  un rovello: chi è il misterioso personaggio, forse un alto prelato, che ha recapitato alla madre di Pietro e di Emanuela (qui il ritratto della signora Maria), tuttora residente nella Città del Vaticano, quella missiva che dà del "bugiardo" al suo unico figlio, da sempre in prima linea nella battaglia per la verità?

La lettera misteriosa

Elementi utili a tracciare il profilo dell'autore della lettera possono venire da un'analisi scientifica dello scritto, che il Corriere ha affidato alla grafologa giudiziaria Monica Manzini, già intervenuta in uno dei gialli collegati al caso della "ragazza con la fascetta" (la scomparsa di Alessia Rosati, luglio 1994). Ebbene, l'esame della grafia di quella paginetta che inizia con l'esclamazione «Caro Pietro, sei un bugiardo e lo sai!» e si chiude con una firma di comodo («Saluti, Luciano Dei»), di spunti ne offre parecchi. Basta scorrere una ad una le notazioni integrative dell'esperta per dedurre che il messaggio è stato quasi certamente scritto da persona volitiva, «di alti ideali», con «una buona oratoria» e propensa a un certo «autoritarismo».  

La pressione sul foglio

E allora eccola, riga dopo riga, l'analisi della grafologa. La premessa di metodo, osservando i colori dello schema, è che il giallo evidenzia i tagli della "t" acuminati, l'azzurro la presenza di lettere più grandi della norma in mezzo alle parole, il verde gli assi letterali oscillanti, il rosso le "t" o le "f" più alte della media, il viola una gestualità morbida e il marrone la tendenza ad arrotondare le "d" in un ovale. Già, ma le caratteristiche dello scritto a che tipo di personalità conducono? Questo è il punto che più interessa: «Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile - spiega la dottoressa Manzini - Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle "t", idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza». 

«Tratti flessuosi? Buon oratore»

Un altro elemento si desume dalla forma a tratti svolazzante di alcune parole: «Lo scrivente - aggiunge la grafologa - deve essere tendenzialmente conciliante, come mostra la gestualità morbida e flessuosa accompagnata da lievi oscillazioni assiali», ma  è anche vero che mister X «non lascia spazio al dialogo e non manca di far valere la sua autorità quando ritiene di avere ragione, come ci dicono alcuni tratti delle lettere rigidi alla base e i tagli delle “t” acuminati». Inoltre - esaminando come scrive - il "fake" Luciano Dei dovrebbe possedere una «buona capacità oratoria, evidenziata dai tratti flessuosi accanto a gesti dinamici e recisi» e in certe circostanze si «lascia sopraffare dalle emozioni e dall’impulsività, come attestano le dimensioni delle lettere irregolari, lo spazio ridotto tra alcune parole e l'ammassamento dei grafemi verso il margine destro». Ultimo dettaglio, gli ovali arrotondati delle "d", che denotano «senso dell’opportunità». 

L'errore nel cognome del Papa Santo

E dunque? A spanne, unendo gli indizi sul carattere tenace, il forte senso del sé e la buona oratoria, la prima ipotesi fatta da Pietro Orlandi, secondo il quale la lettera potrebbe essere stata scritta da qualcuno di casa dentro le Sacre mura, appare confermata. Un religioso stizzito, se non scandalizzato, dalle calunniose accuse di pedofilia al Papa Santo? Tutto lo lascia pensare, se non fosse per la scivolata su come è stato scritto il cognome di Giovanni Paolo II ("Woytila" invece che "Wojtyla"), ma è anche vero che si tratta di un errore comune, spesso frutto di un automatismo, e come tale meno indicativo di quanto possa sembrare. 

Gli indizi nelle frasi-chiave

C'è poi l'altro piano di interpretazione della lettera: quello sui contenuti. La missiva potrebbe essere attribuibile - hanno fanno presente ambienti investigativi che si sono rivolti all'autore di questo articolo - a «persona ben informata all’interno della Santa Sede», e ciò sulla base di alcuni precisi «elementi». Meritano attenzione -  oltre al tono vagamente paternalistico, ulteriore indizio di età matura dello scrivente - soprattutto questi passaggi: «Hai complicato le cose...» (frase rivolta a Pietro Orlandi, da interpretare in tal senso: peccato, le tue dichiarazioni su Wojtyla penalizzano la ricerca della verità);  «I soliti documenti falsi...» (ove quel "soliti" potrebbe leggersi come un «ne abbiamo già viste tante, di denunce infondate...»); «Il Vaticano ti ha concesso un’inchiesta» (leggi «ti abbiamo concesso»); e infine «Il Vaticano è stato fin troppo paziente» (analogamente da decodificare come un «noi siamo stati fin troppo pazienti»). 

Un ecclesiastico vicino di casa?

Sono mere congetture, sia chiaro. Tale identikit potrebbe essere smentito in una frazione di secondo qualora mister X decidesse di uscire allo scoperto, attribuendosi pubblicamente la paternità del foglietto depositato nella cassetta di mamma Maria, dentro una busta con un francobollo, sul quale campeggia la scritta "Padova 2020 / Capitale volontariato". Nella scelta del francobollo (non timbrato) si può leggere forse una comunicazione criptata? Chissà. Alla luce di tali considerazioni, in ogni caso, le ipotesi più accreditate appaiono le seguenti:  

1- la lettera proviene da una personalità che ha un ruolo preciso nell'indagine di recente aperta dalla Santa Sede.  

2 - a scriverla potrebbe essere stato un ecclesiastico (vedi il finto cognome, Dei, “di Dio”) sentito come testimone dal procuratore Diddi, con un'ulteriore possibilità: che quel "Dei", oltre a un'indicazione sul mondo di provenienza, rappresenti un riferimento alquanto esplicito all'Opus Dei, organizzazione più volte chiamata in causa in snodi importanti della vicenda Orlandi nei quasi 40 anni trascorsi dal 22 giugno 1983.  

3 - l’autore, infine, molto semplicemente, potrebbe essere un prelato residente all'interno delle Mura Leonine, magari non distante dalla casa della mamma di Emanuela, che in preda a un moto di rammarico e di sdegno per le «allusioni infamanti» ai danni di Giovanni Paolo II abbia inteso rimproverare con severità Pietro Orlandi, scrivendo guarda caso a sua madre, la cui devozione alle alte gerarchie della Chiesa è sempre stata fuori discussione. 

Giallo più che mai aperto, dunque. A sciogliere i dubbi potrà essere solo il misterioso mittente, facendosi avanti. (fperonaci@rcs.it)

Estratto dell’articolo di Fabrizio Peronaci per roma.corriere.it il 28 aprile 2023.

L'inchiesta vaticana sul caso Orlandi che, stando alle dichiarazioni del promotore di Giustizia Alessandro Diddi, va avanti con speditezza.  Una lettera di accuse a Pietro Orlandi per le «vergognose allusioni» da lui rilanciate in tv su Karol Wojtyla, che ha suscitato grande curiosità. La replica spazientita del fratello di Emanuela: «Io devo rispondere a Dio delle mie cattiverie? Beh...» 

E, da due giorni, un rovello: chi è il misterioso personaggio, forse un alto prelato, che ha recapitato alla madre di Pietro e di Emanuela (qui il ritratto della signora Maria), tuttora residente nella Città del Vaticano, quella missiva che dà del "bugiardo" al suo unico figlio, da sempre in prima linea nella battaglia per la verità? 

Elementi utili a tracciare il profilo dell'autore della lettera possono venire da un'analisi scientifica dello scritto, che il Corriere ha affidato alla grafologa giudiziaria Monica Manzini, già intervenuta in uno dei gialli collegati al caso della "ragazza con la fascetta" (la scomparsa di Alessia Rosati, luglio 1994). Ebbene, l'esame della grafia di quella paginetta che inizia con l'esclamazione «Caro Pietro, sei un bugiardo e lo sai!» e si chiude con una firma di comodo («Saluti, Luciano Dei»), di spunti ne offre parecchi.

[…] E allora eccola, riga dopo riga, l'analisi della grafologa. La premessa di metodo, osservando i colori dello schema, è che il giallo evidenzia i tagli della "t" acuminati, l'azzurro la presenza di lettere più grandi della norma in mezzo alle parole, il verde gli assi letterali oscillanti, il rosso le "t" o le "f" più alte della media, il viola una gestualità morbida e il marrone la tendenza ad arrotondare le "d" in un ovale. 

Già, ma le caratteristiche dello scritto a che tipo di personalità conducono? Questo è il punto che più interessa: «Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile - spiega la dottoressa Manzini - Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle "t", idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza».

[…]  E dunque? A spanne, unendo gli indizi sul carattere tenace, il forte senso del sé e la buona oratoria, la prima ipotesi fatta da Pietro Orlandi, secondo il quale la lettera potrebbe essere stata scritta da qualcuno di casa dentro le Sacre mura, appare confermata. 

Un religioso stizzito, se non scandalizzato, dalle calunniose accuse di pedofilia al Papa Santo? Tutto lo lascia pensare, se non fosse per la scivolata su come è stato scritto il cognome di Giovanni Paolo II ("Woytila" invece che "Wojtyla"), ma è anche vero che si tratta di un errore comune, spesso frutto di un automatismo, e come tale meno indicativo di quanto possa sembrare. 

C'è poi l'altro piano di interpretazione della lettera: quello sui contenuti. La missiva potrebbe essere attribuibile - hanno fanno presente ambienti investigativi che si sono rivolti all'autore di questo articolo - a «persona ben informata all’interno della Santa Sede», e ciò sulla base di alcuni precisi «elementi». 

Meritano attenzione -  oltre al tono vagamente paternalistico, ulteriore indizio di età matura dello scrivente - soprattutto questi passaggi: «Hai complicato le cose...» (frase rivolta a Pietro Orlandi, da interpretare in tal senso: peccato, le tue dichiarazioni su Wojtyla penalizzano la ricerca della verità);  «I soliti documenti falsi...» (ove quel "soliti" potrebbe leggersi come un «ne abbiamo già viste tante, di denunce infondate...»); «Il Vaticano ti ha concesso un’inchiesta» (leggi «ti abbiamo concesso»); e infine «Il Vaticano è stato fin troppo paziente» (analogamente da decodificare come un «noi siamo stati fin troppo pazienti»).  […]

"Hai complicato le cose". Emanuela Orlandi, la lettera trovata dalla madre (“Caro Pietro sei bugiardo) e l’ipotesi Opus Dei. Redazione su Il Riformista il 28 Aprile 2023

Chi ha scritto la lettera su Emanuela Orlandi trovata nella cassetta della posta dalla madre Maria Pezzano e indirizzata al fratello Pietro? Se da una parte l’inchiesta vaticana prosegue spedita (e quella della commissione parlamentare d’inchiesta punta a far luce su eventuali azioni compiute da apparati dello stato e dalla magistratura e se vi siano stati omissioni o depistaggi), dall’altra c’è una lettera inviata alla famiglia della giovane (scomparsa 40 anni fa all’età di 15 anni) dove vengono condannate le “vergognose allusioni” di Pietro Orlandi su Papa Giovanni Paolo II (proclamato santo nel 2014).

Una lettera che il Corriere della Sera ha affidato a una grafologa giudiziaria (Monica Manzini) per avere una analisi scientifica della missiva. Un testo che inizia con “Caro Pietro, se un bugiardo e lo sai!” e si chiude con una firma di comodo (“Saluti, Luciano Dei”). Un messaggio scritto, secondo il quotidiano milanese,  da una persona volitiva, “di alti ideali”, con “una buona oratoria”.

“Dalla grafia non è possibile stabilire con ragionevole certezza sesso ed età, anche se propenderei per una persona adulta di sesso maschile” spiega la dottoressa Manzini che aggiunte: “Quasi certo, invece, è che si tratti di un soggetto portatore di alti ideali, come si evince dai prolungamenti superiori elevati delle “t”, idealità che entrano però in conflitto con una certa pragmaticità, evidenziata dalla pressione esercitata con la penna sul foglio e dalle dimensioni delle lettere della zona centrale, di media grandezza”.

Una missiva rivolta da una “persona ben informata all’interno della Santa Sede”, che utilizza un tono vagamente paternalistico: “Hai complicato le cose…” è una frase rivolta a Pietro Orlandi, e tutta da interpretare.

Sarebbero tre le ipotesi accreditate: la prima è relativa a una lettera che proviene da una personalità che ha un ruolo preciso nell’indagine di recente aperta dalla Santa Sede; la seconda riguarda invece l’autore del testo. A scriverla potrebbe essere stato un ecclesiastico sentito come testimone dal procuratore Diddi, con un’ulteriore possibilità: che quel “Dei”, oltre a un’indicazione sul mondo di provenienza, rappresenti un riferimento alquanto esplicito all’Opus Dei, organizzazione più volte chiamata in causa in snodi importanti della vicenda Orlandi nei quasi 40 anni trascorsi dal 22 giugno 1983; la terza è quella che ipotizza un prelato residente.

Estratto da tg24.sky.it il 28 aprile 2023.

"Una cretinata che hanno fatto". Papa Francesco, a bordo dell’aereo papale per il suo viaggio in Ungheria, non ha usato mezzi termini e non ha nascosto il suo disappunto per le accuse che sono state mosse nei giorni scorsi a Papa Giovanni Paolo II, nell’ambito delle dichiarazioni rilasciate da Pietro Orlandi in occasione della riapertura delle indagini per la scomparsa della sorella, Emanuela Orlandi.

“Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case”, aveva detto poco tempo fa Orlandi, aprendo a tutta una serie di polemiche dentro e fuori il Vaticano. 

Orlandi, durante una puntata della trasmissione Dimartedì, in onda su La 7, aveva fatto sentire un audio che aveva anche consegnato al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, dove a parlare sarebbe stato un uomo vicino alla banda della Magliana. 

[…] Pietro Orlandi ribadiva così in sostanza quanto già detto in precedenza: "Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell'abuso sia stato organizzato.

È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant'anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità […]”

Caso Orlandi, papa Francesco torna sulle accuse a Wojtyla: «Una cretinata». Il comandante Giani: «Insinuazioni gravi». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023 

Nuovo intervento del pontefice sulle calunnie contro Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello di Emanuela Orlandi. Parla anche il capo della Gendarmeria 

«Una cretinata che hanno fatto...» Stavolta, rispetto al tono più severo che tutti hanno avuto modo di notare all'Angelus, papa Francesco si è limitato a un giudizio flash pronunciato durante il volo per Budapest, con la stampa al seguito, dando la sensazione di voler tagliare la corto. «Una cretinata» ha definito le insinuazioni su Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello di Emanuela Orlandi, rispondendo a una inviata polacca che lo aveva appena ringraziato per la difesa della memoria di papa Wojtyla. Si tratta del secondo intervento sullo stesso argomento in neanche due settimane: domenica 16 aprile, durante la recita dell'Angelus, Bergoglio, riferendosi sempre alla voci e all'audio-registrazione di un malavitoso (priva di qualsiasi riscontro) rilanciate in tv da Pietro Orlandi,  aveva scandito con solennità: «Certo di interpretare i sentimenti dei fedeli di tutto il mondo, rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate».

Adesso dunque, liquidando l'accaduto con una sola parola, il papa argentino (pur senza minimizzare) sembra intenzionato ad archiviare la spiacevole faccenda come un incidente del passato. Nei giorni scorsi il fratello della ragazza scomparsa nel 1983, per difendersi da chi lo accusava della pesante allusione pronunciata («Wojtyla usciva con due monsignori la sera, e certo non per benedire le case»), aveva tentato di correggersi sostenendo che la sua non era stata un'accusa ma una constatazione, in quanto la stessa notizia (le uscite per Roma in "abiti civili" del Santo Padre) era già stata data in un suo libro dall'ex segretario personale di Giovanni Paolo II, Stanislao Dziwisz. Peccato che il contesto fosse radicalmente diverso. Lo stesso  cardinale polacco oggi 84enne, ai primi di aprile, all'indomani delle uscite televisive di Pietro che alludevano a condotte pedofile, aveva replicato con severità parlando di «affermazioni criminali» di Orlandi («spero che l'Italia, culla universale del diritto, saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di chi oggi non c'è più») e sollecitato di fatto l'apertura di un'indagine (per diffamazione o altro reato) da parte di Piazzale Clodio.

Ma non basta. Anche Domenico Giani, il comandante della Gendarmeria tirato in ballo per una mai dimostrata "trattativa" con il magistrato Capaldo asseritamente avvenuta nel 2012 e avente ad oggetto (così Pietro ha dichiarato) «la restituzione del corpo di Emanuela», ha espresso tutto il suo rammarico (in un'intervista a Tv2000) per il fatto che si possa solo «dire, ipotizzare o comunque far pensare che un Papa come Giovanni Paolo II» avesse tali abitudini. «Stiamo parlando non solo di un santo ma di un gigante, di uno statista, di un pastore, di un profeta. Per me è stata una sofferenza enorme. Non è pensabile e direi che ho trovato grave anche solo insinuarlo», ha affermato Giani ai microfoni dell'emittente della Cei. Quanto alle presunte uscite la sera, il super-poliziotto operativo nelle Sacre mura ha detto: «Sinceramente mi viene da sorridere. È chiaro che il Vaticano è così piccolo che le uscite sono quelle, non è che ci sono le condotte sotterranee... Quindi mi viene da sorridere pensare che il Papa potesse uscire senza che lo sapessero almeno le persone che dovevano saperlo. Se il Papa esce, chi lo deve sapere lo sa». (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e papa Wojtyla: dalla devozione di 40 anni fa alle accuse recenti. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023

Nell’album fotografico della famiglia Orlandi la gratitudine per il pontefice polacco. Quella volta che Giovanni Paolo II disse a Pietro: «Vuoi diventare banchiere?» Poi, dal 2011, il crescendo di critiche

Il caso Emanuela Orlandi dopo il duro monito di papa Francesco: uno spartiacque, nella vicenda (giudiziaria e mediatica) della "ragazza con la fascetta". All'indomani della replica netta e irritata di Bergoglio - durante  la recita dell'Angelus - alle “accuse offensive e infondate” contro Giovanni Paolo II fatte circolare dal fratello Pietro, nubi pesanti si sono addensate attorno alla ricerca della verità sulla scomparsa della quindicenne cittadina vaticana, avvenuta nel lontanissimo 22 giugno 1983 . La bufera delle ultime ore produrrà contraccolpi sull'inchiesta della Santa Sede aperta lo scorso gennaio? Il Senato si allineerà alla Camera dei deputati, che ha già votato per l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta, oppure subentreranno perplessità, come quelle già rese pubbliche da Matteo Renzi? 

Ira e sconcerto

Di certo "lo schiaffo di Pietro" ha suscitato ira e sgomento nelle sacre stanze. «Mi dicono che la pedofilia era su, molto in alto… E che il papa usciva la sera con due monsignori, certo non per benedire le case…» le parole pronunciate in tv dal fratello di Emanuela, salvo poi precisare che la fonte nel frattempo è morta. Un boomerang anche per molti follower del suo gruppo Fb, di solito compatti nel sostenerlo. Va bene chiedere trasparenza, ma le parole vanno maneggiate con cura... Ne è passato di tempo da quando nell'appartamento degli Orlandi, in piazzetta Sant'Egidio, a ridosso del Palazzo Apostolico, nessuno alzava un cucchiaio fino a che papà Ercole, compunto e severo, non si sedeva a tavola e con un cenno dava il via alla preghiera prima del pasto. La famiglia del messo pontificio morto nel 2004 è sempre stata credente, devota, quasi bigotta. La bufera di questi giorni, quindi, somiglia a una nemesi: l'unico figlio maschio, tenace e indomito per scoprire la fine fatta dalla sorella  (Emanuela era la quarta, le altre tre sono Natalina, Federica e Cristina), a causa dell'eccesso di presenza mediatica e di analisi molto tranchant («Non faremo sconti a nessuno»), rischia egli stesso di indebolire la battaglia contro omertà e reticenze.   

Le foto di famiglia

Ai tempi della scomparsa - in quel terribile 1983  - a casa Orlandi il profilo si teneva basso, nell'assoluto rispetto delle gerarchie: Wojtyla era considerato un papa carismatico e sensibile, quasi venerato. I genitori affidarono le loro speranze di riabbracciare la figlia proprio a lui, Giovanni Paolo II, che il 22 giugno 1983 (forse non un caso) si trovava in Polonia per sostenere la causa di Solidarnosc. Dopo il primo appello del 3 luglio (il famoso "Condivido le ansie e l'angosciosa trepidazione della famiglia Orlandi, la quale è nell'afflizione per la figlia...") lo ringraziarono con le lacrime agli occhi. Seguirono altri sette appelli dalla finestra dell'Angelus, segno della grande partecipazione del pontefice, anche intima, personale, alla tragedia del suo impiegato. L'album di famiglia racconta molto di quella sofferenza. Sono foto intense, insieme dolci e drammatiche. Mamma Maria consolata da Karol, che le accarezza i capelli. Pietro in posa con lui, elegantissimo. Pietro vestito casual - jeans e pullover - che lo fissa negli occhi, cercando in lui la forza di andare avanti. Ancora Pietro con semplice Polo davanti al Santo Padre, che lo indica quasi a volergli assegnare un compito. E ancora: la famiglia Orlandi al completo attorno all'illustre vicino di casa, Wojtyla con i bimbi della parrocchia, Emanuela all'estrema destra, vestita di bianco... 

L'offerta di lavoro

Il Papa santo, al di là del crescendo di critiche degli ultimi dieci anni e delle intemerate delle ultime ore, nella vita di Pietro è stato una figura cruciale, presente nei momenti topici. Fu lui ad assumerlo allo Ior, la banca vaticana, dove  Pietro conobbe Patrizia, sua moglie e madre dei sei figli. L'episodio l'ha raccontato lui stesso nel libro "Mia sorella Emanuela". Era il 24 dicembre 1983, vigilia di Natale. Eccola, la scena clou: «Il papa salì la rampa di scale che porta in casa Orlandi, percorse il corridoio, si affacciò nella cameretta di Emanuela con la bambola dalle gote rosse e arrivò in salotto. A Pietro sembra ieri. “Giovanni Paolo II era in piedi, che ci porgeva i suoi regali: un bassorilievo raffigurante una Madonna e un cesto... Fu in quell’occasione che mi posò una mano sulla spalla e disse: questo giovane vuole diventare banchiere? Vedremo di farlo lavorare allo Ior”...» E Pietro come reagì? Risposta: «Bisbigliai qualche parola di ringraziamento… Poi, al momento degli auguri finali, Wojtyla pronunciò davanti a tutti noi l’altra frase che non dimenticherò mai: cari Orlandi, voi sapete che esistono due tipi di terrorismo, uno nazionale e uno internazionale. La vostra vicenda è un caso di terrorismo internazionale...».

La pista principale

La sintonia con il papa polacco, per il fratello-investigatore, durò almeno fino al 2011, anno in cui mamma Maria partecipò alla cerimonia di beatificazione (il 1° maggio): «Non potevo mancare. Sua Santità ci è stato vicino quand'era in vita e adesso da lassù, da beato, spero possa fare il miracolo, regalarmi la gioia di riabbracciare mia figlia». Quello stesso anno, nel mandare alle stampe il libro, fu lo stesso Pietro a scegliere la frase della quarta di copertina: «Io so chi ha rapito Emanuela quel 22 giugno 1983: le prove sono evidenti, un sistema, un intreccio di poteri… Basta collegare l’attentato al Papa con il sequestro di mia sorella… I mandanti volevano condizionare la volontà di Karol Wojtyla». L'adesione alla pista confidata da Wojtyla nella visita pre-natalizia, di cui di certo doveva aver parlato con suo padre, era dunque piena, meditata. 

Il cambio di rotta

Poi, la linea è mutata. Da quel momento, in coincidenza con la popolarità in crescita, il fratello di Emanuela ha iniziato a rivedere le proprie posizioni sull'accaduto. Possibilista sulla partecipazione al sequestro della banda della Magliana («ha avuto un ruolo come manovalanza»), ma ostile e infastidito da un personaggio come Marco Accetti, il fotografo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto come quello di Emanuela, parlò di apressioni sui genitori (sia su Ercole Orlandi sia su Paolo Gregori, papà di Mirella, l'altra ragazza scomparsa) e delineò un movente non lontano dalla pista internazionale (rapimento con finalità multiple, da un lato indurre Agca a ritrattare le accuse a Est e dall'altro ricattare il capo della Ior Marcinkus per il flusso illegale di finanziamenti in Polonia). 

La popolarità

Man mano che l'attenzione dei media saliva, Pietro ha ritoccato a più riprese la sua versione, dando la sensazione di aver perduto precedenti certezze e di privilegiare un'indagine a 360 gradi, da tenere perennemente aperta. Due le frasi ricorrenti: «Io mia sorella la cerco viva» e «Sono convinto che ogni pista contenga un pezzetto di verità». Intanto, assieme alle interviste, alla collaborazione al film del regista Faenza ("La verità è in cielo", 2016), al confronto con i giornalisti nel ruolo non più di parente ma di collega (al tempo della conduzione di un programma su Sky, anni 2017-18), il fratello della quindicenne scomparsa, di volta in volta, rincarava le accuse al papa polacco. Eccolo, un altro mantra:  «La colpa di Giovanni Paolo II? Aver fatto calare una cappa di silenzio sulla vicenda di Emanuela». 

La trattativa (presunta)

Un presenzialismo forte, di certo motivato da passione sincera e dal desiderio di ottenere giustizia, ma anche frasi avventate, come quelle sulla mai dimostrata "trattativa" (nel 2012) tra magistratura romana e Gendarmeria vaticana «per la restituzione del corpo di Emanuela», gli annunci a ripetizione di essere a conoscenza di eventi inconfessabili «capaci di far crollare duemila anni di storia della Chiesa» o lo slogan scelto lo scorso gennaio per lanciare l'ennesimo sit-in a San Pietro: «Il silenzio li ha resi complici», scritto sopra la foto di ben tre papi, non più soltanto Wojtyla, ma anche Ratzinger e Bergoglio. E adesso è arrivato l'ultimo duplice attacco, giudicato "infamante e calunnioso" dai vertici della Chiesa, con la diffusione dell'audio (registrato nel 2009) di un malavitoso che blatera su Wojtyla e delle voci non provate (di una persona defunta) sul Papa santo a zonzo di notte per Roma. Inevitabile lo sconcerto, in Vaticano e fuori. 

Il senso di colpa

Ma sono proprio le foto dell'album di famiglia, in fondo, a dirci qualcosa in più: la dimestichezza con i pontefici, il fatto di averli incontrati spesso da ragazzino in casa o mentre giocava nei giardini  vaticani con i figli di altri dipendenti della Santa Sede, deve aver pesato su certe condotte sopra le righe di Pietro Orlandi. Un'attenuante?  Anche il quarantennale senso di colpa provato per non aver accompagnato Emanuela alla scuola di musica, quando lei glielo chiese con insistenza, quel maledetto pomeriggio del 22 giugno, potrebbe averi influito nell'approccio. I papi erano lì, tanto vicini, quasi di famiglia, e lui è cresciuto considerandoli come zii importanti e pronti a perdonare, senza cogliere fino in fondo né la straordinarietà del ruolo né la carica simbolica esercitata dal capo della cristianità agli occhi di milioni di credenti. A uno zio si può anche dire una parolaccia. A un papa, meno. E gli sviluppi della vicenda, adesso, restano più che mai incerti, imponderabili. (fperonaci@rcs.it)

Caso Emanuela Orlandi, dopo le parole del fratello Pietro parla Ali Agca: "Qual è la verità". Il Tempo il 13 aprile 2023

Caso Emanuela Orlandi, il mistero si infittisce. Dopo il fratello Pietro, adesso parla anche Ali Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II. Agca chiama in causa gli ultimi tre Papi e chiede esplicitamente al Vaticano di liberare Emanuela e Mirella, l'altra giovane scomparsa a pochi giorni di distanza dalla cittadina vaticana. Pietro Orlandi, fratello di Emanuela Orlandi, è stato ascoltato per più di otto ore in Vaticano da Alessandro Diddi, promotore della Giustizia incaricato da Papa Francesco di fare luce sulla vicenda della giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno del 1983. Un incontro fortemente voluto dallo stesso Pietro che è stato ascoltato come «persona informata dei fatti» e durante il quale sono stati ricostruiti quarant’anni di misteri e di silenzio. Pietro ha potuto «verbalizzare tutte le cose» di cui ha parlato. «Ho parlato della trattativa, dei documenti sul trasferimento di Londra, degli altissimi prelati coinvolti nella pedofilia, dei famosi screenshot». Orlandi ha dichiarato, visibilmente provato, di aver trovato «molta disponibilità, il fatto stesso di avermi detto che l’incarico è arrivato direttamente dal Papa vuol dire qualcosa. Gli è stato detto di non fare sconti a nessuno - aggiunge - e se ci sono delle responsabilità anche in alto quelle devono venire fuori». Sul tavolo del Vaticano il fratello di Emanuela ha lasciato «una nota scritta facendo l’elenco delle persone che andrebbero ascoltate: il Cardinal Re, l’ex comandante della gendarmeria vaticana Giani, Pignatone. L’inchiesta - ha poi ricordato - è partita a gennaio ma da tanto tempo stanno interrogando persone, hanno una bella documentazione. La cosa positiva è che ho visto oggi la volontà a fare chiarezza per quanto è possibile. Un momento importante perché a qualcosa ora questo deve portare. Le cose che ho fatto verbalizzare ora devono per forza avere risposte».

Un incontro accolto positivamente anche da colui che entrò prepotentemente in questa storia, Ali Agca, quando pochi giorni dopo la scomparsa di Emanuela, la sala Stampa Vaticana ricevette la telefonata di un uomo dall’accento anglosassone, ribattezzato dalla stampa l’Americano, che sostenne di avere in ostaggio la ragazza e che l’avrebbe liberata solo dopo la liberazione di colui che aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981. Agca a LaPresse definisce «l’apertura dell’inchiesta sul rapimento di Emanuela Orlandi in Vaticano un atto storico da elogiare, dando ragione a Pietro Orlandi "quando accusa gli tre ultimi Papi di non averla liberata pur essendo tutti e tre in grado di poterlo fare", rinnovando l’appello a Papa Francesco e chiedendo di liberare "immediatamente il Vaticano da questa atroce prigionia e tortura permanente liberando Emanuela e Mirella" Gregori, la giovane scomparsa a pochi giorni di distanza dalla cittadina vaticana. Agca esclude la pista della pedofilia. Per lui si tratta di "accuse terribili e orribili che devono terminare con l’immediata liberazione di Emanuela e Mirella. Altrimenti il povero Giovanni Paolo II, uomo onesto e innocente, sarà spacciato nel mondo come il Santo del satanismo. Non esiste nessun omicidio e nessuno stupro. La giustizia vaticana e la giustizia italiana non devono disturbare nessuno con infamanti accuse di stupro, pedofilia e omicidio".

Estratto da liberoquotidiano.it il 12 aprile 2023.

[…] Ma in questa vicenda a colpire sono state le parole di Pietro Orlandi pronunciate a Di Martedì ai microfoni di Giovanni Floris: "Sono convinto che Wojtyla, Ratzinger e Papa Francesco siano a conoscenza". E nel corso della trasmissione viene fatto ascoltare un audio che lo stesso Pietro Orlandi avrebbe consegnato alle autorità vaticane.

Nell'audio a parlare è un uomo vicino alla banda della Magliana: "Papa Giovanni Paolo II se le portava in Vaticano quelle, era una situazione insostenibile. E così il Segretario di Stato a un cero punto è intervenuto decidendo di toglierle di mezzo. E si è rivolto a persone dell'ambiente carcerario".

Sono tutte parole che ovviamente finora non hanno trovato alcun riscontro. Ma la frase con cui Pietro Orlandi commenta le parole dell'uomo della Magliana sono piuttosto inquietanti: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case...".

Estratto dell’articolo di Stefano Vladovich per “il Giornale” il 20 aprile 2023.

Parola d’ordine: «chiarire». Per il segretario di Stato, cardinale Pietro Parolin, la Santa Sede non vuole altro che la verità sul caso Orlandi. «Lo dobbiamo alla mamma di Emanuela che soffre molto». 

Ieri alla Camera dei Deputati Parolin ha tenuto un incontro con i giornalisti sull’apertura dell’inchiesta della Santa Sede sulla scomparsa della 15enne cittadina vaticana il 22 giugno del 2023 e sulle accuse su Papa Wojtyla, oggi Santo, giunte come una bomba sull’intera vicenda. «Siamo molto sorpresi che non vi sia stata collaborazione - spiega Parolin-, perché questo avevano chiesto. Allora perché adesso tirarsi indietro in maniera così brusca? Non capisco...Il nostro intento è quello di arrivare veramente a chiarire».

Parolin si riferisce alla convocazione in Vaticano del legale della famiglia Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò, che ha scelto di opporre il segreto professionale. […] 

È una vecchia intervista di un giornalista, Alessandro Ambrosini ideatore del blog Notte Criminale, a un personaggio vicino a Renatino de’ Pedis, Marcello Neroni, a scatenare il caso sulla figura di Papa Wojtyla negli anni della scomparsa della Orlandi. L’uomo, oggi ultra ottantenne, nel 2009 racconta delle strane passeggiate fuori dalla cittadella vaticana di Giovanni Paolo II e dell’intervento di due cappellani del carcere: 

«Wojtyla (...) pure insieme se le portava a letto, se le portava, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano». Secondo quello che racconta Neroni, intervenne l’allora segretario di Stato Agostino Casaroli. «Essendo un esperto del carcere, perché faceva il cappellano al riformatorio (Casal Del Marmo ndr), si è rivolto ai cappellani del carcere, uno era calabrese, un certo Luigi, un altro un furbacchione, un certo padre Pietro». 

I due, sempre secondo il ricordo del testaccino, non fanno altro che rivolgersi a de’ Pedis, il «presidente». «Gli hanno detto: sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?». […]

Caso Orlandi, lettera a Pietro trovata da sua madre nella buca delle lettere in Vaticano: «Bugie su Wojtyla, vergognati». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 25 Aprile 2023

Il testo, forse scritto da un monsignore, è stato postato su Fb dal fratello di Emanuela, che replica: «Stupidità». La firma: Luciano Dei ("di Dio")

Una lettera scritta a penna, con grafia adulta, forse di un monsignore. «Caro Pietro, sei un bugiardo!» Parole di critica esplicita rivolte al fratello di Emanuela Orlandi, per le voci su Karol Wojtyla da lui rilanciate nell'ultimo mese in alcune interviste, che hanno provocato sconcerto nelle alte sfere ecclesiastiche e anche la dura reazione di papa Francesco (all'Angelus del 16 aprile). La missiva che lo accusa di aver infangato il Papa Santo, curiosamente, è stata resa nota dallo stesso Pietro Orlandi, che l'ha postata nel suo gruppo Fb (oltre 20 mila iscritti). Si tratta di un solo foglio inserito in una busta bianca, recapitato non a lui ma a sua madre (qui il ritratto della signora), che abita tuttora all'interno del Vaticano: «Caro Pietro - dice il testo - sei un bugiardo e lo sai! Quelle vergognose allusioni nei riguardi di Papa Wojtyla non te le ha riferite nessuno, te le sei inventate te… Ma ti sei screditato da solo!» I due capoversi  successivi evidenziano la conoscenza degli ultimi sviluppi sul caso: «Ho sempre supportato la tua famiglia, ma seguire piste suggerite da mitomani e persone notoriamente inaffidabili ha complicato le cose. Il Vaticano è stato anche troppo paziente. Adesso ti ha concesso la nuova inchiesta, ma su quali basi si svolgerà? Con i soliti documenti falsi sulla lista dei cardinali pedofili che di notte vanno a cercare le ragazzine assieme al Papa? Ti dovresti solo vergognare. Dovrai rispondere a Dio delle tue cattiverie. Saluti». Firmato: Luciano Dei. 

Ora, è la firma un primo elemento di interesse. Dando per scontato che si tratti di un nome fasullo (la busta è priva di mittente), la scelta del cognome-genitivo "Dei" ("di Dio" in latino) potrebbe dimostrare che lo scritto è opera di un religioso, e che l'autore abbia inteso farlo sapere. Un monsignore? Un cardinale? Una delle tante eminenze che da sempre, quando la incontrano a spasso sotto casa, tra la farmacia e i giardini vaticani, salutano con rispetto mamma Maria? Lo stesso Pietro pare credere a questa ipotesi: «Oggi nella cassetta delle poste di mia madre - ha scritto il fratello della "ragazza con la fascetta" scomparsa nel 1983 - è stata lasciata a mano questa lettera, in una busta. La stupidità di chi l’ha lasciata e presumo scritta è che voleva far credere che fosse stata spedita da altre città, quindi fuori dal Vaticano, perché si è anche preoccupato di mettere un francobollo... Ma non c’è nessun timbro…»  

Pista interna, quindi: un prelato ha inteso difendere San Giovanni Paolo II e molto semplicemente, abitando pure lui dentro le sacre mura, per la consegna ha scelto il metodo più agevole (qui le foto private della famiglia Orlandi con Wojtyla) «Peccato - aggiunge Pietro - lascia solo il nome Luciano Dei (probabilmente falso) e nessun contatto... Questa è la conseguenza di chi ha voluto giocare a fare il giornalista», precisa un po' criptico, salvo poi concludere spazientito: «Mi si può offendere come vogliono, non mi interessa, ma leggere "Il Vaticano è stato anche troppo paziente” oppure “Dovrai rispondere a Dio delle tue cattiverie”… Beh». (fperonaci@rcs.it)

Usciva con due monsignori e...”. Pietro Orlandi e la frase choc su Wojtyla. Il fratello di Emanuela Orlandi ha raccontato in tv di un audio di cui sarebbe entrato in possesso: le dichiarazioni contenute su Papa Giovanni Paolo II sono scioccanti. Angela Leucci il 12 Aprile 2023 su Il Giornale.

Spunta il nome di Papa Giovanni Paolo II nel caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. In realtà è un nome che c’è sempre stato, anche se si è trattato di una nota marginale alla vicenda: Wojtyla era infatti pontefice nel giugno 1983 quando si persero le tracce della 15enne, e proprio il papa pronunciò un ormai celebre appello-preghiera durante l’Angelus. Emanuela era tra l’altro cittadina vaticana.

Il nome di Wojtyla viene fatto in un messaggio vocale del quale è entrato in possesso il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. A parlare nell’audio, che ieri è stato consegnato al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi, sarebbe un uomo vicino alla Banda della Magliana, che avrebbe fatto riferimento a presunte abitudini sessuali del pontefice: l’uomo, di cui non viene fatto il nome, avrebbe aggiunto che sarebbe stato chiesto al boss Enrico De Pedis, alias ‘Renatino’, di eliminare le ragazze che sarebbero state portate in Vaticano.

Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case”, ha commentato Pietro Orlandi, ospite alla trasmissione DiMartedì. Orlandi ha dato seguito in realtà a un concetto già enunciato nella puntata del 4 aprile 2023: “Penso che una delle possibilità è che Emanuela possa aver magari anche subito un abuso, ma che quell’abuso sia stato organizzato. È stata portata da qualcuno per creare l'oggetto del ricatto e siccome il Vaticano da quarant’anni fa di tutto per evitare che possa uscire la verità... Certo, se nel '93 si parlava normalmente della pedofilia dei cardinali come se fosse una cosa normale e accettata, uno può pure pensare che la pedofilia sia anche più su di quei cardinali”.

Stando alle parole di Pietro Orlandi, ne avrebbe accennato anche a un vescovo, il quale avrebbe risposto: “Be’, probabilmente…”. Al che Orlandi avrebbe incalzato il prelato: “Forse non ha capito, se parlo di qualcuno più su dei cardinali mi riferisco a Wojtyla”. Al che il presule avrebbe chiosato: “Probabile”.

Emanuela Orlandi scomparve il 22 giugno 1983 dopo una lezione di canto corale. A gennaio 2023, il Vaticano ha aperto un’inchiesta, che pare sia stata fortemente voluta tra l’altro da Papa Francesco. Il prossimo giugno saranno 40 anni che Emanuela manca alla famiglia, la quale ha sempre cercato spasmodicamente la verità. E che oggi può sperare, oltre che nell’indagine vaticana anche nella costituenda Commissione d’inchiesta parlamentare.

Parla l’autore della registrazione che scuote il Vaticano. “Il nastro che ha riaperto il caso Orlandi contiene altri segreti”, intervista ad Alessandro Ambrosini. Nicola Biondo su il Riformista il 14 Aprile 2023

Ci sono opere letterarie che fondono il “basso e l’alto”, lo sterco con la santità. A questo genere di opere, solitamente mal tollerate dalle ricostruzioni ufficiali, va ascritto con certezza quello che nelle redazioni viene definito “il nastro”, ovvero le rivelazioni raccolte da Alessandro Ambrosini sull’ultimo incredibile movente della sparizione di Emanuela Orlandi e il possibile coinvolgimento di Karol Wojtyla che il Riformista ha pubblicato in esclusiva, grazie al blog Notte criminale, nel dicembre scorso.

Due giorni fa “il nastro” è entrato in Vaticano nelle mani di Pietro Orlandi ed è stato ascoltato dal promotore di giustizia vaticano, Alessandro Diddi. Ma la portata delle rivelazioni, tutte da verificare, di Marcello Neroni, un uomo di punta del dispositivo criminale di Renato De Pedis, mente strategica della Banda della Magliana, non si fermano alla pista vaticana e raccontano una storia di confine, quella dei rapporti tra apparati dello Stato e alta criminalità. Ambrosini oggi spiega il backstage di quel “nastro” che può innescare una rivisitazione storica del papato di Wojtyla e che di certo sarà materia di indagine della commissione parlamentare sulla vicenda Orlandi-Gregori.

Quando hai incontrato Neroni immaginavi che ti avrebbe parlato di Wojtyla e della scomparsa di Emanuela Orlandi?

Non era esattamente quello l’argomento principale dell’incontro. Mi aspettavo di parlare di Emanuela Orlandi, sicuramente. È, ed è stato, un link importante sia per la storia d’Italia, sia per la Banda della Magliana stessa. Non mi aspettavo assolutamente di sentire accusare il Papa “del muro di Berlino”, in modo così forte e soprattutto dettagliato nei passaggi antecedenti il rapimento di Emanuela.

L’intervista è del 2009, perché sei andato da lui? E perché solo nel 2022 hai pubblicato alcuni stralci di questa lunga conversazione?

In realtà, con due collaboratori eravamo andati per intervistarlo sulla Banda della Magliana, un’inchiesta che stavo facendo in relazione ai rapporti tra la criminalità romana e il potere economico-politico nella Capitale.

Pietro Orlandi ha fatto ascoltare gli audio che riguardano la sorella Emanuela in Vaticano: sembra impensabile, una trama da serie tv. Non hai pensato che Neroni potesse essere un millantatore?

Certo! L’ho subito pensato. Riascoltando l’audio nella sua interezza (oltre tre ore), capisci che non può essere frutto dell’ego criminale e inizi a cercare riscontri. Poi l’ho fatto sentire a Orlandi che ha impegnato una vita alla ricerca della verità. Non era facile mettere nello stesso articolo l’argomento degli abusi sessuali e la figura di un Papa che “doveva” diventare Santo.

Secondo l’inchiesta del giudice Otello Lupacchini sulla Magliana Neroni ha goduto di protezioni di uomini dello stato. Lo stesso Neroni ne parla nel vostro colloquio, giusto?

Esattamente. I rapporti di Neroni con uomini dello Stato sono stati profondi e di altissimo livello. Nell’audio lui parla di personaggi al centro delle vicende più intricate e oscure degli anni ‘90 e 2000. E non lo fa mai in modo approssimativo, ma con dovizia di particolari.

Neroni ammette di aver parlato di quanto era a conoscenza del rapimento della Orlandi e del movente ad apparati dello stato?

Lo dice chiaramente. “Questa è una verità che non interessa più a nessuno”.

È possibile che Neroni abbia parlato con te per mandare un messaggio e a chi?

Lui sapeva bene di trovarsi davanti a giornalisti ma anche che era stato un uomo delle istituzioni a portarci da lui. Lui non pensava di parlare con il team del mio blog, Notte Criminale, ma che avessimo un ruolo diverso. Che fossimo stati mandati da qualche magistrato o da qualche apparato dei servizi o delle forze dell’ordine. Si capisce perché alle nostre banali domande, lui spaziò su argomenti diversi, con nomi di spessore che al tempo erano sconosciuti ai più. O era troppo pericoloso anche solo nominarli. E non parlo di criminali riconosciuti. Alla fi ne, il messaggio era chiaro: conosco pezzi di storia indicibili, non pestate i miei piedi perché ho le amicizie giuste per creare problemi molto seri. E, ripeto, non parlava solo di malavita.

Il parlamento ha dato il via libera ad una commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa della Orlandi e di Mirella Gregori oltreché dell’omicidio di Simonetta Cesaroni. Tu sei disposto a fornire la tua intervista integralmente e ad essere audito?

Certo. Non ho nessun problema a essere audito, sia dalla Commissione parlamentare, sia dal Vaticano, e mettere a disposizione delle indagini l’audio integrale e completo. La vera domanda è: riusciranno ad ascoltarlo senza dover aprire altri fascicoli d’inchiesta?

Si spieghi meglio.

Il racconto di Neroni cancella i confini del bene e del male, riscrive i rapporti tra apparati dello Stato e la grande criminalità. Il personaggio è minore ma fondamentale. Lui è la fonte che annuncia un attentato che finisce in un report del Ministero dell’Interno, attentato che aveva come obiettivo il primo grande pentito della Magliana Maurizio Abbatino.

Quando e dove sarebbe dovuto avvenire questo attentato?

Alla scuola di polizia di Campobasso nel corso di un interrogatorio con tre giudici che in quel momento indagavano su tre episodi differenti: erano Otello Lupacchini, Guido Salvini e Leonardo Grassi. L’allarme fu lanciato a cavallo tra le stragi di Capaci e Via D’Amelio.

Mi faccia capire. L’uomo che dice di conoscere il movente del rapimento della Orlandi era una fonte delle forze dell’ordine?

Nell’intervista Neroni parla a lungo e diffusamente di Gianni De Gennaro, per esempio. Su momenti precisi e con dettagli mai casuali. Nicola Biondo

Estratto da ansa.it il 14 aprile 2023.

Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno. Testimonianze almeno di seconda o terza mano? Neanche l'ombra. Solo anonime accuse infamanti". Così l'Osservatore Romano, in un editoriale, definisce le "presunte rivelazioni su Papa Wojtyla e il caso Orlandi".

 "Una follia - scrive il quotidiano della Santa Sede -. E non lo diciamo perché Karol Wojtyla è santo o perché è stato papa. Anche se questo massacro mediatico intristisce e sgomenta ferendo il cuore di milioni di credenti e non credenti, la diffamazione va denunciata perché è indegno di un Paese civile trattare in questo modo qualunque persona, viva o morta, che sia chierico o laico, papa, metalmeccanico o giovane disoccupato".

L'articolo dell'Osservatore Romano, a firma del direttore editoriale dei media vaticani Andrea Tornielli, ricorda le "parole che Pietro Orlandi ha accompagnato all'audio attribuito ad un sedicente membro della Banda della Magliana il quale asserisce - anche lui senza prove, indizi, testimonianze, riscontri o circostanze - che Giovanni Paolo II 'pure insieme se le portava in Vaticano quelle', intendendo Emanuela e altre ragazze: per porre fine a questa 'schifezza' il segretario di Stato di allora si sarebbe rivolto alla criminalità organizzata per risolvere il problema".

"Pensate che cosa sarebbe accaduto se qualcuno fosse andato in televisione ad affermare, sulla base di un 'sentito dire' proveniente da una fonte anonima e senza lo straccio di un riscontro o testimonianza anche soltanto di terza mano, che vostro padre o vostro nonno di notte usciva di casa e insieme a qualche 'compagno di merende' andava in giro a molestare ragazze minorenni - sottolinea il giornale vaticano -.

E immaginate che cosa sarebbe successo se il vostro parente, ormai defunto, fosse universalmente conosciuto e da tutti stimato, a motivo di qualche importante ruolo ricoperto. Non avremmo forse letto commenti ed editoriali indignati per il modo inqualificabile con cui è stata lesa la buona fama di questo grande uomo, amato da tanti?".

 […] Secondo l'Osservatore Romano, "è giusto che tutti rispondano degli eventuali reati, se ne hanno commessi, senza impunità alcuna o privilegi. È sacrosanto che si indaghi a 360 gradi per cercare la verità sulla scomparsa di Emanuela. Ma nessuno merita di essere diffamato in questo modo, senza neanche uno straccio di indizio, sulla base dei 'si dice' di qualche sconosciuto personaggio del sottobosco criminale o di qualche squallido anonimo commento propalato in diretta Tv". […]

Dagospia il 14 aprile 2023. DICHIARAZIONE DEL CARDINALE STANISLAO DZIWISZ IN MERITO AD ALCUNE AFFERMAZIONE DEL SIGNOR PIETRO ORLANDI

Negli ultimi giorni alcune avventatissime affermazioni – ma sarebbe più esatto subito dire ignobili insinuazioni – proferite dal signor Pietro Orlandi sul conto del Pontefice San Giovanni Paolo II, in connessione all’amara e penosa vicenda della sorella Emanuela, hanno trovato eco sui social e in taluni media anzitutto italiani.

 È appena il caso di dire che suddette insinuazioni che si vorrebbero all’origine scaturite da inafferrabili ambienti della malavita romana, a cui viene ora assegnata una parvenza di pseudo-presentabilità, sono in realtà accuse farneticanti, false dall’inizio alla fine, irrealistiche, risibili al limite della comicità se non fossero tragiche, anzi esse stesse criminali. Un crimine gigantesco infatti è ciò che è stato fatto a Emanuela e alla sua famiglia, ma criminale è lucrare su di esso con farneticazioni incontrollabili, volte a screditare preventivamente persone e ambienti fino a prova contraria degni della stima universale.

Va da sé che il dolore incomprimibile di una famiglia che da 40 anni non ha notizie su una propria figlia meriti tutto il rispetto, tutta la premura, tutta la vicinanza. Così come non ci si può, in coscienza, non augurare che la verità su questa angosciante vicenda finalmente emerga dal gorgo dei depistaggi, delle mitomanie e degli sciacallaggi.

 Come segretario particolare del Papa Giovanni Paolo II posso testimoniare, senza il timore di smentite, che fin dal primo momento il Santo Padre si è fatto carico della vicenda, ha agito e fatto agire perché essa avesse un felice esito, mai ha incoraggiato azioni di qualsiasi occultamento, sempre ha manifestato affetto, prossimità, aiuto nei modi più diversi alla famiglia di Emanuela.

A questi atteggiamenti io continuo ad attenermi, auspicando correttezza da parte di tutti gli attori e sperando che l’Italia, culla universale del diritto, saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di Chi oggi non c’è più, ma che dall’alto veglia e intercede.

 Dagospia il 14 aprile 2023. DAL PROFILO FACEBOOK DI FABRIZIO PERONACI

Fango su un Papa. Non è questo il modo di cercare la verità. Quando ho letto questa dichiarazione, ampiamente riportata oggi da organi di stampa, ho stentato a credere che Pietro Orlandi potesse averla pronunciata: “Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due Monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case…” Come sapete, ho condiviso un lungo percorso con il fratello di Emanuela, con solidarietà e affetto.

Ho scritto il libro da lui co-firmato, “Mia sorella Emanuela“, animato da passione civile e volontà di contribuire all’accertamento di quanto accaduto, per dare senso e vigore alla mia professione, oltre che per arricchirmi dal punto di vista umano. Da un certo momento in poi, però, sono stato costretto a prendere le distanze da Pietro, giacché mi sono accorto che la sua esasperata ricerca di visibilità lo portava ad accreditare qualsiasi pista, circostanza da lui ammessa con un misto di ingenuità e candore, il che è a mio avviso un grande errore e presenta una seria controindicazione: se si dà credito a tutte le piste di fatto, senza volerlo, si contribuisce a confondere e a depistare. 

È solo seguendo con costanza e capacità analitica la traccia più credibile e fondata su riscontri che, mettendo insieme via via i successivi approfondimenti, si possono a mio avviso compiere passi avanti decisivi. E’ questo il metodo da me seguito da anni, sulla base degli elementi che conoscete. Ma nelle ultime ore è successo qualcosa di piu: Pietro Orlandi, nella sua convulsa e autoreferenziale ricerca della verità su sua sorella, ha scelto la linea diretta dell’insulto non provato al massimo rappresentante della chiesa cattolica.

 In una trasmissione televisiva è giunto a gettare fango su Giovanni Paolo II, accusandolo esplicitamente di essere stato pedofilo. No, questo è un limite che non si sarebbe dovuto scavalcare. Cercare un titolo a effetto facendo strame di valori e principi insieme morali e giuridici non lo ritengo accettabile. Il buon senso, più ancora che il garantismo, dovrebbe impedire di parlare a vanvera, gettando discredito senza prove su una figura che, per quanto controversa, ha segnato la storia di fine Novecento ed è amata da milioni di persone.

Caso Emanuela Orlandi a "Quarto Grado", il fratello Pietro e l'audio su Papa Wojtyla: "Mie parole strumentalizzate". Storia di Redazione Tgcom24 il 14 aprile 2023.

In collegamento con  "Quarto Grado" il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, chiarisce la sua posizione dopo le polemiche per le "parole forti" su Papa Wojtyla: "Ho parlato di questo argomento anche col promotore di giustizia Diddi, le mie parole sono state strumentalizzate per fare titoli di giornali", dice Pietro Orlandi: "Non ho mai accusato Giovanni Paolo II di pedofilia, sono arrivate palle di fango". In merito all' audio di una conversazione intercettata da un affiliato della Banda della Magliana, aggiunge: "Ho ritenuto opportuno riportare l'audio senza i famosi bip al promotore di giustizia, ho chiesto di ascoltarlo solo al fine di poter approfondire meglio". 

Le frasi pronunciate nel corso del programma televisivo "Di Martedì" avevano suscitato la dura reazione dell'arcivescovo di Cracovia Stanislao Dziwisz, storico segretario di Giovanni Paolo II. Secondo il cardinale Dziwisz Pietro Orlandi "ha insinuato che Wojtyla la sera uscisse in incognito dal Vaticano con altri preti e non andasse di certo per benedire delle case".

L'11 aprile scorso, per la prima volta, Pietro Orlandi insieme all'avvocato Laura Sgrò, ha incontrato in Vaticano il promotore di giustizia Alessandro Diddi, che nei mesi scorsi ha riaperto l'inchiesta sulla scomparsa, il 22 giugno del 1983, della quindicenne figlia di un commesso della Prefettura della Casa pontificia. "Dal Vaticano registriamo positivamente la volontà di approfondire tutte le piste a partire dalla nostra memoria depositata, bisogna accantonare polemiche", commenta in collegamento a "Quarto Grado" la legale della famiglia Orlandi.

Caso Orlandi, “Pietro e l'avvocato si rifiutano di fare i nomi”. Dilaga la polemica su Wojtyla. Il Tempo il 15 Aprile 2023

Incontro-lampo dell’avvocato Laura Sgrò, legale scelto da Pietro Orlandi per far luce sul caso della sorella, con il Promotore di Giustizia del Vaticano Alessandro Diddi. «La legale della famiglia Orlandi si è recata in Vaticano dov’era stata convocata in qualità di testimone per riferire in merito alle fonti delle informazioni riguardanti Giovanni Paolo II e più in generale sul caso della ragazza scomparsa. L’avvocato - sottolineano i media vaticani - ha scelto di opporre il segreto professionale e dunque si è rifiutata di riferire da chi lei e Pietro Orlandi abbiano raccolto le voci sulle presunte abitudini di Papa Wojtyla che, secondo quanto raccontato dal fratello di Emanuela durante la trasmissione ‘diMartedì’, ‘la sera se ne usciva in con due suoi amici monsignori polacchi’ e ‘non andava certo a benedire le case’». 

«Parole che Pietro Orlandi ha pronunciato in diretta su La7 la sera dell’11 aprile, dopo essere stato lungamente ascoltato dal Promotore di Giustizia, lasciando così intendere - scrive Vatican news - di voler in qualche modo asseverare il contenuto di un audio nel quale un membro della Banda della Magliana faceva pesanti allusioni sul Pontefice polacco». «Come ha raccontato lo stesso Pietro Orlandi in trasmissione, durante la sua lunga testimonianza, resa l’11 aprile, aveva fatto presente al magistrato inquirente le accuse contenute nell’audio dell’esponente della Banda della Magliana e anche le voci che circolavano in Vaticano sulle presunte abitudini di Giovanni Paolo II. Richiesto di fornire informazioni che consentissero di portare avanti l’indagine riferendo da chi avesse appreso queste informazioni Orlandi non ha indicato nomi. Ci si aspettava dunque che questi li potesse fornire l’avvocato Sgrò, anch’essa convocata sulla base delle sue ripetute richieste al termine dell’audizione di Pietro Orlandi». «Oggi però - osserva Vatican news - il legale, inaspettatamente e sorprendentemente, ha preferito opporre il segreto professionale decidendo così di non collaborare con le indagini dopo che più volte e pubblicamente, negli scorsi mesi, aveva chiesto di poter essere ascoltata». Lo scontro tra Orlandi e il Vaticano ha raggiunto un nuovo apice in tutta la vicenda riguardante Emanuela Orlandi.

Caso Orlandi, sulle accuse a Wojtyla l’avvocata Laura Sgrò convocata in Vaticano si rifiuta di fare nomi. Ester Palma su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

La legale era stata convocata dal promotore di Giustizia vaticano  Alessandro Diddi, come aveva chiesto più volte: ma sabato mattina ha opposto il segreto professionale

Sulle accuse a papa Wojtyla, nell'ambito dell'inchiesta aperta in Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, il fratello Pietro e l’avvocato Laura Sgrò si rifiutano di indicare le loro fonti al Promotore di Giustizia. E' accaduto nel corso del brevissimo incontro di sabato mattina in Vaticano fra la legale della famiglia Orlandi, convocata in qualità di testimone per riferire sulla provenienza delle informazioni su Giovanni Paolo II e più in generale sul caso della ragazza scomparsa, e il Promotore di Giustizia Alessandro Diddi, nel corso del quale l'avvocato Sgrò ha scelto di opporre il segreto professionale alla richiesta di spiegare da chi aveva ricevuto le informazioni sulle presunte attività illecite di Giovanni Paolo II. 

«La legale chiedeva da mesi quest'incontro»

Lo riporta Vatican News, citando una dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni: «Il Promotore di giustizia Diddi, insieme al professor Gianluca Perone, Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei ripetutamente e pubblicamente richiesto, anche per fornire quegli elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi. L’avvocato Sgro si è avvalsa del segreto professionale». 

Laura Sgrò: «False affermazioni, che sia fatta piena luce»

Dichiarazioni contestate dall’avvocato Sgrò che, in una lettera ai vertici della Comunicazione in Vaticano, sottolinea come tale «affermazione non corrisponda al vero», chiedendo che sia «fatta piena luce» sulla questione: «Il mio assistito , signor Pietro Orlandi, è stato ascoltato per ben otto ore l’11 aprile u.s. dal promotore di Giustizia, prof. Alessandro Diddi, al quale ha presentato una corposa memoria corredata da un elenco di ventotto persone, chiedendo motivatamente che siano presto ascoltate. Il signor Pietro inoltre si è reso pienamente disponibile a fornire ogni altro chiarimento a richiesta dello stesso promotore di Giustizia». L’avvocato Sgrò specifica poi in merito ad una «mia personale audizione come persona informata dei fatti» che «essa è evidentemente incompatibile con la mia posizione di avvocato difensore della famiglia Orlandi». Ribadendo, infine, nel rigettare le notizie circolate, che «il segreto professionale è baluardo della verità stessa e attaccarlo significa impedire ad un avvocato di poter apportare il proprio contributo alla verità».

L'audio dell'esponente della banda della Magliana

Spiega ancora Vatican News: «Il Promotore di Giustizia nei giorni scorsi aveva assicurato di voler andare fino in fondo e di indagare ogni pista possibile per cercare la verità su Emanuela, avendo ricevuto per questo un mandato dal Papa e dal segretario di Stato. Come ha raccontato lo stesso Pietro Orlandi in trasmissione, durante la sua lunga testimonianza resa l’11 aprile, aveva fatto presente al magistrato inquirente le accuse contenute nell’audio dell’esponente della Banda della Magliana e anche sulle voci che a suo dire circolavano in Vaticano sulle presunte abitudini di Giovanni Paolo II. Richiesto di fornire informazioni che consentissero di portare avanti l’indagine riferendo da chi avesse appreso queste informazioni Orlandi non ha indicato nomi. Ci aspettava dunque che questi li potesse fornire l’avvocato Sgrò, anch’essa convocata sulla base delle sue ripetute richieste al termine dell’audizione di Pietro Orlandi. Oggi però il legale, inaspettatamente e sorprendentemente, ha preferito opporre il segreto professionale decidendo così di non collaborare con le indagini dopo che più volte e pubblicamente, negli scorsi mesi, aveva chiesto di poter essere ascoltata. Ci si attendeva che lo facesse l’avvocato, che nei mesi scorsi aveva più volte lamentato di non essere stata ancora convocata: ma ha sorprendentemente scelto di opporre il segreto professionale». 

L'agenzia di stampa vaticana cita anche una recente (di gennaio) intervista di Laura Sgrò a Fanpage.it: «Mi aspetto un incontro tempestivo con Diddi, vorrei consegnargli personalmente le chat e altri documenti: non mi aspetto una sua risposta immediata, ma confido che mi convochi quanto prima: perché se io dico che ho delle prove, tu hai il dovere di ascoltarmi». E conclude Vatican News:  Ora che il contatto c’è stato e a convocazione pure, accompagnata alla piena disponibilità di ascoltare, valutare e indagare, la risposta da parte dell’avvocato è stata il silenzio».

Le allusioni senza prove in tv e su Facebook: ecco perché il Papa è intervenuto duramente sul caso Orlandi. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 16 Aprile 2023.

Pietro Orlandi ha riferito di aver saputo da una fonte attendibile che la pedofilia negli anni Ottanta, ai tempi del sequestro di sua sorella, era una prassi consolidata. «Ma chi me l'ha rivelato non è più tra noi» 

Pietro Orlandi con Papa Wojtyla: fu lo stesso Giovanni Paolo II a farlo assumere allo Ior 

Prima le accuse in tv al pontefice più amato, San Giovanni Paolo II, un paio di settimane fa. «La pedofilia? Più su, al massimo livello… Me ne ha parlato un monsignore…». Un’allusione pesantissima, non provata, mentre l’avvocata a fianco a lui, sulla poltroncina televisiva, ammiccava al (presunto) prelato pentito: «Qualcuno che non scappa…». Poi, una settimana dopo, la seconda mossa: convocato in Vaticano martedì 11 aprile dal procuratore Alessandro Diddi, Pietro Orlandi resta sotto interrogatorio per 8 ore e all’uscita, dopo aver presentato una memoria con una lista di 28 testimoni, si dice sereno: «Ho fatto i nomi di chi andrebbe sentito, compresi alcuni cardinali, e ho percepito la volontà di andare avanti». Infine, a stretto giro, nuova intervista, ancora a Di Martedì, su La7. E stavolta il richiamo della telecamera produce disastri: «Mi dicono che il Papa usciva la sera con due monsignori, certo non per benedire le case…».

È tutto qui, in un crescendo che ha provocato sconcerto inaudito all’interno delle Sacre mura, il motivo che ha indotto papa Francesco a occuparsi in prima persona, alla recita dell’Angelus, delle accuse piovute addosso al suo predecessore più amato. Parole nette, pronunciate con voce ferma e il volto tirato: «Rivolgo un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate». Una difesa solenne, in mondovisione, da leggere non solo come un segnale di grande irritazione a Palazzo Apostolico per «il fango» fatto circolare da giorni «senza uno straccio di prova», ma anche come un monito: ora basta, altre calunnie non saranno tollerate. Nel giro di un paio di settimane, insomma, il caso Orlandi (qui tutto quel che sappiamo, per certo, sulla vicenda) ha cambiato natura: dalla ricerca della verità sul triste caso di Emanuela, la figlia del messo pontificio scomparsa il 22 giugno 1983 all’uscita della scuola di musica e finita al centro di un intrigo senza precedenti, a una crociata condotta dal fratello Pietro, che a più riprese ha fatto presente di aver saputo «da fonte attendibile» che la pedofilia in Vaticano negli anni Ottanta, al tempo del sequestro di sua sorella, era prassi, «un vizietto considerato non punibile», al punto che avrebbe coinvolto anche «chi sta più su, ma sopra sopra, e più in alto di tutti c’è una sola persona…».

Inevitabile l’esplosione dello scandalo, amplificato dalla consegna da parte di Orlandi a La7 di un nastro, registrato una quindicina d’anni fa, con la voce di un malavitoso romano che si diceva sicuro, «per sentito dire», di non meglio precisati festini organizzati ai livelli più alti, papa polacco compreso. Fango nel ventilatore, null’altro. Ma che una figura nota come il fratello della «ragazza con la fascetta» arrivasse ad accreditare tour sessuali notturni del pontefice «gigante della storia» alla fine è stata considerata dai vertici ecclesiastici come la classica goccia di troppo.

Il primo a intervenire con vigore è stato, venerdì scorso, il cardinale polacco Stanislao Dziwisz, che di Wojtyla fu segretario personale: «Avventatissime affermazioni, ignobili insinuazioni, accuse farneticanti». Subito dopo, l’Osservatore romano: «Una follia, un massacro mediatico. Nessuno merita di essere diffamato in questo modo. Prove? Nessuna. Indizi? Men che meno». E ancora, intervistato da Famiglia cristiana, il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio di papa Francesco: «Preferirei ignorare tutto questo fango che si commenta da sé. San Giovanni Paolo II si difende benissimo per tutto il bene che ha fatto alla Chiesa e al mondo». Le premesse per l’intervento di Bergoglio, quindi, si sono create nelle ultime 48-72 ore, per effetto delle esternazioni senza freni della coppia Orlandi-Sgrò. E a poco sono servite, in presenza delle registrazioni televisive (e delle accuse scritte nella pagina Fb del fratello di Emanuela), rettifiche, puntualizzazioni, retromarce. 

Quali saranno le conseguenze? L’istituzione della commissione parlamentare bicamerale d’inchiesta sul caso Orlandi, per ora votata solo alla Camera, subirà rallentamenti? Di certo, fanno presente da Oltretevere, l’inchiesta vaticana aperta lo scorso gennaio dopo quasi 40 anni, «un segnale di grande trasparenza voluto personalmente da Francesco», andrà avanti sulla base delle testimonianze già raccolte, ma non si può escludere che «la macchina del fango attivata contro il papa Santo» possa provocare «strascichi». Il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, viene descritto da chi lo conosce come «molto irritato»: di certo il suo animus è cambiato rispetto alla disponibilità con cui martedì scorso ha fatto  accomodare nel suo ufficio il fratello di Emanuela e la sua loquace avvocata. A esasperare gli animi, d’altra parte, è stata proprio l’ultima mossa di Laura Sgrò, che nella giornata di ieri, sabato 15 aprile, convocata d’urgenza dal magistrato vaticano intenzionato a chiarire chi avesse messo in giro la voce di Wojtyla «in libera uscita» serale, alla richiesta di rivelare la fonte ha opposto il segreto professionale. La notizia è finita in tempo reale, come ovvio, su tutti i siti d’informazione, e Pietro Orlandi è saltato su tuonando: «Ma sono impazziti, cos’è questo gioco sporco? Chi si rifiuta di fare i nomi? Ma se gli abbiamo dato una lunga lista!». Un bluff, per la verità: l’unico nome che interessava a Diddi, quello del «propalatore» di fango su Giovanni Paolo II, né lui né la sua avvocata l’hanno fatto. L'elenco dei 28 testimoni da sentire consegnata a Diddi ha infatti un valore meramente indicativo: si tratta del punto di vista del  fratello di Emanuela su come approfondire le varie piste (internazionale, economica, sessuale), che lui considera sullo stesso livello, spostando ciclicamente l'attenzione dall'una all'altra (qui, la recente ipotesi di un passaggio dell'ostaggio in Sardegna, gestito da agenti Gladio). 

In uno scenario tanto teso e con tanta pressione addosso, così, Pietro Orlandi domenica mattina – poche ore prima della reprimenda di Bergoglio all’Angelus - ha tentato l'ultima carta: di mettere una toppa allo scandalo (senza prove) da lui stesso innescato, rivelando qualcosa in più, vale a dire che in realtà la «talpa» è morta. «Mezzo Vaticano diceva delle passeggiate fuori le mura del Papa – ha scritto su Fb - ma chi l’ha detto direttamente a me non è più tra noi: era una bravissima persona di totale attendibilità». Laico, religioso? Mistero. Il fratello furente (per ora) il nominativo lo tiene per sé e, facendo proprio un vizio diffuso nell’Italia di chi lancia il sasso e ritrae la mano, sceglie di prendersela con i mass media: «Mamma mia, mi sto rendendo conto di quanta stampa sia ancora asservita al Vaticano…» (fperonaci@rcs.it)

Caso Orlandi, il Papa tuona. Pietro: "Questo casino che sta succedendo...". Il Tempo il 16 aprile 2023

Dopo le recenti polemiche sulla vicenda di Emanuela Orlandi, Papa Francesco difende Karol Wojtyla rivolgendo "un pensiero grato alla memoria di San Giovanni Paolo II, in questi giorni oggetto di illazioni offensive e infondate". Parole dure, che arrivano in seguito alle dichiarazioni di Pietro Orlandi, il fratello della giovane residente nella Città del Vaticano scomparsa il 22 giugno 1983, che in una trasmissione televisiva ha detto che Wojtyla "la sera usciva con due suoi amici monsignori polacchi, e non andava certo a benedire le case".

"Cosa ho detto su Papa Wojtyla". Pietro Orlandi e le dichiarazioni a Quarto Grado

Orlandi ha avuto 8 ore di colloquio con il Promotore di giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi, riguardo un presunto audio di un componente della banda della Magliana che faceva allusioni sul defunto pontefice. Audio finito nelle mani di Diddi e la cui provenienza ha scatenato clamore mediatico dopo la decisione dell'avvocata di Pietro Orlandi di opporre il segreto professionale. Orlandi ha sottolineato di non voler accusare Giovanni Paolo II e a LaPresse ribadisce, dopo le parole di Bergoglio, di non aver detto in alcun modo che Wojtyla "era un pedofilo".

"Diddi mi ha detto che Parolin e il Papa hanno detto di fare indagini senza fare sconti a nessuno. Io ho solo consegnato tutto il materiale che avevo, compreso quell'audio. Sono loro che devono verificare se quell'audio è vero o no. Delle presunte uscite serali del Papa molte persone me ne hanno parlato, ma la persona principale che me lo ha riferito è morta", spiega Orlandi, "Diddi mi ha detto che avrebbe approfondito sul fatto dell'audio e quell'audio è uscito il 9 dicembre, questo casino che sta succedendo è tutto un pretesto". 

“Su Wojtyla illazioni offensive e infondate”. Il caso Orlandi infiamma il Papa come non mai

La tensione tra il Vaticano e la famiglia Orlandi si alza sempre di più. La legale Laura Sgrò, dopo un articolo apparso sui media vaticani che riferiva che lei e Pietro si erano rifiutati di fare i nomi e quindi di collaborare alle indagini, ha smentito categoricamente. "Io sono tenuta al segreto professionale, non ho mai chiesto di essere sentita, né tanto meno potrei, essendo tenuta al segreto delle fonti per svolgere al meglio la mia attività professionale a favore della famiglia Orlandi", ha detto a LaPresse. Atteggiamento che Diddi ha definito "irritante": "Il segreto professionale è un problema di coscienza, non è un obbligo professionale. Dopo che sono settimane che ci insultano perché non li avevamo ricevuti, adesso che siamo al cuore Pietro Orlandi e il suo legale si tirano indietro". Uno stop che potrebbe ritardare la ricerca della verità, attesa da 40 anni.

Pietro Orlandi e le accuse oscene su Papa Wojtyla: "Chi le ha pronunciate" Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

"Illazioni offensive e infondate". Papa Francesco attacca Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela Orlandi scomparsa nel giugno 1983 dalla Città del Vaticano. L'uomo aveva adombrato un possibile coinvolgimento di Papa Giovanni Paolo II nel caso, suggerendo addirittura delle "notti brave" di Wojtyla a Roma. Accuse di condotte immorali che hanno fatto infuriare Bergoglio, a cui risponde lo stesso Orlandi: "E' giusto che Papa Francesco abbia difeso Wojtyla dalle accuse fatte attraverso un audio reso pubblico lo scorso 9 dicembre. Per questo motivo ho deciso di depositare quell'audio al promotore di giustizia Alessandro Diddi, lo scorso 11 aprile affinché convocasse Marcello Neroni, autore di queste accuse", scrive sul suo profilo Facebook. 

Ecco, dunque, il nome di chi ha pronunciato nella registrazione le accuse contro Giovanni Paolo II: Neroni, oggi 82enne, è ritenuto vicino alla banda della Magliana e legato al boss Renatino de Pedis, come pure ad Aldo De Benedittis, conosciuto negli anni Novanta come il 're dei videopoker'. "Certamente non può spettare a me dire se questo personaggio abbia detto il vero oppure no - prosegue il fratello di Emanuela Orlandi -. Diddi ha accolto questa mia richiesta, insieme alle altre, promettendo che avrebbe scavato a fondo ogni questione, compresa questa".

"Io, tanto meno l'avvocato Sgrò - aggiunge -, abbiamo mai accusato Wojtyla di alcunché come qualcuno vorrebbe far credere. L'unico nostro intento è quello di dare giustizia a mia sorella Emanuela e arrivare alla verità qualunque essa sia". Anche l'avvocato Sgrò si dice disponibile a un nuovo colloquio col magistrato. "Io ieri sono stata chiamata in Vaticano per Emanuela, non per Giovanni Paolo II. Nessuno mi chiesto di Giovanni Paolo II. Non è mai stato nominato dal Promotore durante il nostro brevissimo colloquio. Non risulta nel verbale, non è mai stato oggetto di conversazione. Quando sono uscita ho scoperto che sarei stata reticente su fatti che lo riguardano. Ma come si fa a essere reticenti su qualcosa di cui non si è parlato?". "Non ho mai messo in discussione la santità di Giovanni Paolo II, come legale di Pietro Orlandi abbiamo messo a disposizione degli inquirenti quello che sapevamo - conclude -. Nel rispetto della mia posizione di avvocato, sono disponibile a un colloquio. Abbiamo chiesto chiarezza". 

Nel pomeriggio, è intervenuto sul caso anche Monsignor Georg Ganswein, ospite di Verissimo su Canale 5: "Chiesi a Papa Benedetto di fare un promemoria sul caso di Emanuela Orlandi e mi fu consegnato un appunto in cui non c'era nulla di nuovo - ha spiegato -. In seguito il fratello di Emanuela, Pietro, che anche io avevo incontrato, disse in un'intervista che io ero in possesso di un dossier, ma non è alcun dossier, è un appunto, che diedi a Ratzinger. Su questa vicenda non credo possa emergere qualcosa di nuovo. Ora è stata aperta un'inchiesta in Vaticano e speriamo arrivi a buon fine e si trovi una risposta definitiva". 

Si dice showGiletti, Wojtyla, Emanuela Orlandi e gli pseudo scoop del circo mediatico. Cataldo Intrieri su L'Inchiesta il 17 Aprile 2023.

Scandali, o presunti tali, e casi di cronaca che si intrecciano a cominciare dalla vicenda del cardinale Becciu. La ricostruzione di uno dei legali del processo

Forse non è un caso che nella stessa settimana, e ad opera di due trasmissioni sulla stessa emittente, siano esplosi due pseudo-scoop che coinvolgono due personaggi, tra loro molto diversi, ma simbolici e popolari, come Giovanni Paolo II, l’ultimo Papa santo, e Silvio Berlusconi, il fondatore della destra italiana moderna.

Nessuno dei due è in grado di smentire la violenta campagna diffamatoria di cui è vittima, le accuse non hanno riscontro alcuno, i personaggi che le muovono si affidano ai «si dice» e a confidenze non verificabili, sono rilanciate da una televisione in crisi di ascolti e che dà voce a conduttori spregiudicati e populisti, capaci di mischiare fantasia e realtà con sapienza, senza distinguere la qualità degli interlocutori .

Sulla vicenda Giletti-Baiardo-Berlusconi, da cui emana un forte olezzo di bufala stagionata, vedremo, ma intanto sulla diffamatoria campagna contro il “Papa Santo” qualcosa va detta alla luce della ampia intervista a tutta pagina rilasciata al Corriere della Sera dal Promotore di Giustizia Vaticano Alessandro Diddi.

Il capo della procura della Santa Sede, direttamente nominato dal Pontefice, ha parlato subito dopo il violento attacco portato da Pietro Orlandi, alla presenza del suo legale, nel corso della trasmissione condotta da Giovanni Floris che si è pure complimentato con l’ospite (inutile girarci intorno: le bufale da social resterebbero tali se non ci fossero giornalisti alla affannosa caccia di share, disposti a rilanciarle).

Orlandi con accenti anche volgari («certo Wojtyla non usciva la sera a benedire case») ha riferito dicerie e chiacchiere diffamatorie anche di pregiudicati, il cui ruolo nella vicenda è stato prudentemente sminuito dallo stesso promotore.

Questi è invece rimasto assolutamente silente sulle gravi e infamanti accuse mosse a uno dei giganti, non solo religiosi, del Novecento: ha anzi ribadito di voler andare sino in fondo, con il pieno appoggio del Papa e del suo Segretario di stato.

Solo dopo altri due giorni, è intervenuta una voce ufficiale a protestare e respingere le accuse, quella del direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede, il giornalista Andrea Tornielli.

Ha invocato nella sua intervista il magistrato la parresia, termine biblico che racchiude il senso del «dire il vero» e dunque la necessità di perseguire la chiarezza e la ricerca della verità. Un intento condivisibile che purtroppo il professor Diddi ha trascurato in un’altra clamorosa vicenda (che tocca il caso Orlandi, come vedremo) che egli stesso ha avuto cura di evocare, di cui chi scrive ha una certa conoscenza e su cui tocca fare una riflessione vista l’autorevole citazione del promotore: il processo al cardinale Giovanni Angelo Becciu e altri imputati, di cui si è compiaciuto di sottolineare essere il primo giudizio contro un principe della Chiesa.

Tuttavia questo processo, incentrato sulla compravendita di un palazzo di lusso a Londra, secondo l’accusa oggetto di una manovra prima fraudolenta e poi estortiva per costringere il Vaticano a pagare un’ingente somma al fine di acquisirne la piena legittima proprietà, ha sollevato molti dubbi e rivelato aspetti sconcertanti verso cui non sempre l’inquirente ha mostrato chiarezza e linearità.

È emersa dalle udienze una realtà di duri contrasti interni al Vaticano tra istituzioni, come lo Ior, la banca vaticana e la Segreteria di Stato, i cui ambienti sono stati addirittura oggetto di intercettazioni ambientali disposte dell’autorità giudiziaria.

Ebbene, la parresia è stata dimenticata dal promotore allorché uno dei testi principali dell’accusa, monsignor Perlasca, già responsabile dell’ufficio amministrativo della Segreteria e autore di dure accuse contro Becciu e altri imputati, ha ammesso, incalzato dai difensori, di essere stato imbeccato da due donne, una sua amica, Genoveffa Ciferri, e un ben noto personaggio delle cronache giudiziarie vaticane, Immacolata Chaouqui, sedicente confidente del Papa e da questi nominata in una commissione, Cosea (Pontificia commissione referente di studio e di indirizzo sull’organizzazione della struttura economico-amministrativa), da cui furono sottratti e indirizzati alla stampa documenti riservati.

Per questi, fatti la donna è stata condannata nel noto processo “Vatileaks”, verdetto per cui il Papa si è sempre rifiutato di concedere il perdono.

Il promotore ha depositato una decina di messaggi a lui indirizzati dalla Ciferri, ma ha celato alle difese, disponendone la secretazione peer motivi di riservatezza, altre 166 chat da cui sarebbe possibile ricostruire gli eventuali contatti tra gli uffici inquirenti e le due donne durante le indagini, al fine di verificare se vi fu un tentativo di depistaggio.

Nonostante i reiterati appelli delle difese, Diddi si è rifiutato fino a oggi di depositare i messaggi. Sicché ancora si brancola nel buio.

Come accennato, il processo Becciu «incrocia» la vicenda di Manuela Orlandi, sempre a dire del fratello Pietro e del suo avvocato, che hanno «collegato», ancora una volta rigorosamente senza prove, la nomina dell’attuale presidente del Tribunale Vaticano, Giuseppe Pignatone, alla sua decisione ai tempi in cui guidava la Procura di Roma di archiviare l’indagine sulla scomparsa di Emanuela. Ciò lo renderebbe, secondo loro, «incompatibile». Il dottor Pignatone, va da sé, è l’attuale presidente del collegio chiamato a decidere sul caso Becciu cui fa riferimento nella sua ampia intervista il Promotore.

A suo tempo Linkiesta ha raccontato la vicenda, di fronte a cui è facile avvertire un forte senso di vertigine e confusione oltre che di comprensibile preoccupazione per la sorte di cittadini italiani in una tale particolare temperie processuale.

Un ultimo aspetto: mentre infuriava la polemica, il Papa ha promulgato un ennesimo Motu Proprio con cui a distanza di poco tempo ha modificato l’ordinamento giudiziario dello Stato.

La nuova normativa non solo aumenta i poteri del Promotore, già ampiamente accresciuti da appositi rescritti del Papa, emessi ad hoc per il processo in questione, ma affida la giustizia vaticana nel suo complesso al controllo di soggetti direttamente reclutati nella società civile tra esperti di diritto.

Caso unico negli ordinamenti giudiziari internazionali, la magistratura vaticana da oggi può essere formata esclusivamente da avvocati e professori a tempo definito, liberi di fare la spola tra i loro studi di consulenti privati e le istituzioni vaticane.

Col rischio di un pericoloso cortocircuito tra interessi privati e pubblici doveri che non dovrebbe sfuggire a nessuno, per la regolarità stessa dell’amministrazione giudiziaria di uno Stato ancora così centrale per la storia e gli equilibri del mondo.

*L’autore fa parte del collegio difensivo nel processo contro il Cardinale Becciu e altri otto imputati in corso presso il Tribunale penale vaticano: l’articolo riflette solo le sue personali opinioni

Tombe, ossa, indagini: ecco perché il Vaticano non ha segreti sul caso Orlandi. Nonostante le accuse di omertà, la disponibilità vaticana a fare luce sulla scomparsa di Emanuela non è una novità. I fatti che lo dimostrano. Nico Spuntoni il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Per quasi ventisette anni, a partire dallo storico "se sbaglio mi corrigerete" pronunciato in piazza san Pietro dopo l'elezione, la figura di Giovanni Paolo II è divenuta familiare per milioni di persone e di lui si è parlato quasi quotidianamente sui giornali ed in televisione per le omelie, le enciliche o per uno dei suoi tanti viaggi apostolici. Diciotto anni dopo la sua morte, il nome del Papa polacco è tornato a comparire nelle rassegne stampa e nei servizi al telegiornale. Purtroppo, però, non per onorarne la memoria.

L'audio choc

Di Karol Wojtyła si è parlato moltissimo questa settimana dopo che al programma DiMartedì condotto da Giovanni Floris è stato mandato in onda un audio choc del 2009 - già sentito in altre trasmissioni del canale - in cui un ex membro della banda della Magliana accusava de facto il Papa santo di essere stato un predatore sessuale, tirando in ballo l'ex cardinale segretario di Stato, Agostino Casaroli che avrebbe addirittura commissionato - tramite dei cappellani di un carcere - omicidi ad Enrico De Pedis per coprire la "schifezza" attribuita a Wojtyła. Accuse assurde e deliranti che sono state ricondotte al caso di Emanuela Orlandi, l'adolescente figlia di un un commesso della prefettura della Casa Pontificia e scomparsa misteriosamente a Roma nell'estate del 1983.

L'indagine vaticana

L'audio andato in onda su La7 dovrebbe far parte della memoria portata da Pietro Orlandi, fratello della ragazza, al promotore di giustizia vaticano Alessandro Diddi che a gennaio ha aperto un fascicolo sulla scomparsa e che ha accettato di ascoltare Orlandi martedì scorso. Sempre martedì, il familiare di Emanuela è andato ospite nella trasmissione di Floris ed ha pronunciato parole che hanno creato molte polemiche: "Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case", ha affermato Pietro.

Parole che hanno indignato molti fedeli e che hanno provocato la reazione del segretario storico di Giovanni Paolo II, il cardinale Stanisław Dziwisz che ha definito "accuse farneticanti e criminali" quelle ascoltate nello studio televisivo e si è augurato che "l’Italia saprà con il suo sistema giuridico vigilare sul diritto alla buona fama di chi non c’è più”.

La reazione

Il comunicato del cardinal Dziwisz , a cui è seguito un editoriale dello stesso tenore scritto dal direttore dei media vaticani Andrea Tornielli, ha suscitato la reazione dell'avvocato di Orlandi che in una nota ha parlato di frase estrapolata ed ha contrattaccato sostenendo che l'ex segretario di Giovanni Paolo II - di cui però non si fa il nome esplicitamente - sarebbe stato "contattato negli anni numerose volte dal signor Orlandi" e che si sarebbe "sempre sottratto a un confronto autentico e sincero". Un giudizio che si contrappone a quello che invece Pietro e chi lo assiste hanno riservato all'iniziativa del promotore Diddi: la convocazione in Vaticano del fratello in un colloquio di otto ore è stata definita una svolta storica, rilevando come in passato l'uomo non sarebbe stato ascoltato così approfonditamente.

La collaborazione

Una linea comunicativa che rafforza la tesi più volte sostenuta di una mancata collaborazione da parte del Vaticano nella ricerca della verità sulla sorte della ragazza scomparsa, in Italia, quaranta anni fa. In questi anni, tuttavia, bisogna riconoscere che da Oltretevere ci si è dimostrati piuttosto disponibili di fronte alle richieste che tiravano in ballo nuove piste seppur vertenti solo su anonime segnalazioni o su suggestioni. Nel 2018, ad esempio, in occasione del ritrovamento di ossa umane nella sede della nunziatura apostolica in Italia, la segnalazione era partita proprio dall'interno ed era stata la parte vaticana a chiamare la polizia scientifica e la squadra mobile della questura di Roma. Segreteria di Stato e Gendarmeria vaticana avevano gestito la vicenda al massimo della trasparenza, sebbene la tesi di un collegamento con il caso Orlandi - inspiegabilmente circolata sulle agenzie subito dopo il ritrovamento - non avesse alcun fondamento. E infatti, dopo gli esami degli esperti, si era potuto accertare che le ossa erano risalenti tra il 90 e il 230 dopo Cristo.

Le tombe

Poi era stata la volta dell'anonima segnalazione che indicava nel cimitero del collegio teutonico in Vaticano il luogo di sepoltura di Emanuela. Anche qui, nonostante l'assenza di prove, l'ufficio del promotore di giustizia vaticano aveva acconsentito all'apertura delle tombe del collegio su richiesta dell'avvocato di Orlandi. L'operazione, condotta alla presenza di un perito di parte, aveva svelato l'assenza di qualsiasi resto umano nelle tombe segnalate, quindi anche l'assenza di resti della ragazza.

Nel 2012, quando sui media si parlava molto della sepoltura di Enrico De Pedis, assassinato nel 1990 in via del Pellegrino, nei locali della basilica di Sant'Apollinare e che una telefonata anonima ricevuta nel 2005 dalla redazione del programma Chi l'ha visto collegava alla scomparsa di Emanuela Orlandi, la Santa Sede tramite l'allora direttore della Sala Stampa padre Federico Lombardi fece sapere di non avere alcun problema per l'apertura e lo spostamento della salma. Cosa che in effetti avvenne dopo nulla osta del vicariato di Roma e dell'autorità giudiziaria rivelando che nella cripta c'era solamente il corpo dell'uomo indicato come esponente di spicco della banda della Magliana e non quello della ragazza scomparsa.

Il caso

Sul caso Orlandi resta aperta in Vaticano l'indagine voluta da Francesco a dieci anni dalla sua elezione e aperta a gennaio dal promotore Alessandro Diddi. Quest'ultimo ha accettato di incontrare Pietro Orlandi che ha salutato come "giornata storica" quella del suo colloquio. Tuttavia è difficile far passare il messaggio di un Vaticano che per la prima volta accetta di collaborare per fare luce sulla vicenda: dal 1983, infatti, la linea ufficiale è sempre stata quella di rivendicare la collaborazione e la trasparenza nei confronti degli inquirenti italiani e della famiglia con cui durante tutti e tre gli ultimi pontificati si è cercato di aiutare le indagini. Accreditare questa tesi da parte vaticana significherebbe smentire quanto è stato fatto e detto in questi quaranta anni per respingere l'accusa di custodire segreti sulla vicenda e getterebbe discredito non solo sugli anni di Giovanni Paolo II, ma su tutti e tre gli ultimi pontificati.

(ANSA il 5 aprile 2023) – Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, la ragazza cittadina vaticana scomparsa quaranta anni fa, vedrà il Promotore di Giustizia vaticano Alessandro Diddi "subito dopo Pasqua, è la prima volta che siamo stati convocati", dice all'ANSA l'avvocato Laura Sgrò.

 Pietro Orlandi porterà diverse documentazioni, a partire da quattro fogli di una chat, risalente ai primi anni del pontificato di Papa Francesco, in cui si parla del caso di Emanuela Orlandi.

 Tra gli interlocutori di questa chat ci sarebbe anche il cardinale Santos Abril y Castelló, arciprete emerito della Basilica Papale di Santa Maria Maggiore. "Porteremo anche la documentazione in cui si parla della permanenza di Emanuela in Inghilterra, è una documentazione che va analizzata, anche per capire se è attendibile", spiega l'avvocato.

Pietro Orlandi e il suo avvocato torneranno a chiedere poi che vengano ascoltati alcuni testimoni dell'epoca tra i quali il cardinale Giovanni Battista Re, il card. Leonardo Sandri, il card. Stanislaw Dziwisz, che è stato il segretario storico di Giovanni Paolo II, mons. Georg Gaenswein, segretario di Benedetto XVI e l'ex comandante della Gendarmeria Domenico Giani. 

Estratto dell’articolo di Ferruccio Pinotti per “il Corriere della Sera” l’11 aprile 2023.

«Sul caso Orlandi Papa Francesco e il Segretario di Stato, il Cardinale Pietro Parolin, vogliono che emerga la verità senza riserve». A dirlo in via esclusiva al Corriere è il Promotore di Giustizia della Città del Vaticano, il professor Alessandro Diddi, classe ‘65, affermato penalista e docente di procedura penale.

 Professionista di alto livello, Diddi si è occupato di vicende delicatissime e ha le qualità e i mezzi per cercare a fondo la verità. Oggi (martedì) incontrerà per la prima volta Pietro Orlandi e l’avvocatessa della famiglia, Laura Sgrò. […]

Come pensa di operare e quale mandato ha ricevuto da Papa Francesco?

«Ci sono indubbiamente indagini da svolgere e aspetti da approfondire, anche dando seguito alle istanze più volte formulate dalla famiglia Orlandi. Tuttavia, il profilo che più merita di essere sottolineato è che, sia il Santo Padre che il Cardinale Pietro Parolin, mi hanno concesso massima libertà d’azione per indagare ad ampio raggio senza condizionamenti di sorta e con il fermo invito a non tacere nulla.

Ho il mandato di accertare qualunque aspetto in uno spirito di franchezza, di “parresia” evangelica e tale approccio è ciò che più conta. Questo è l’atteggiamento con il quale stiamo affrontando il caso Orlandi.»

 Quindi possiamo dire che da parte del Pontefice c’è il desiderio forte di arrivare alla verità sulla sorte di Emanuela?

«Sì, il desiderio e la volontà ferrea del Papa e del Segretario di Stato sono di fare chiarezza senza riserve. E nella mia attività – come ho poc’anzi riferito – non ho ricevuto, né subìto, alcun tipo di condizionamento sia negli accertamenti che stiamo conducendo sia in quelli già svolti». […]

Come si articola il suo lavoro?

«Posso dirle che in pochi mesi sono state effettuate verifiche non espletate in 40 anni che mi hanno consentito di analizzare aspetti molto significativi. Gli approfondimenti eseguiti dovranno emergere, perché sono attività di indagine destinate a confluire integralmente nei fascicoli dell’Ufficio e di questo anche le gerarchie vaticane sono pienamente consapevoli.

Su alcuni documenti probatori non dovranno più insinuarsi equivoci, non ci potranno essere ombre sulle quali possa continuare ad addensarsi un alone di mistero. Se non svolgerò le attività di indagine accuratamente - anche se per quelle a cui ho accennato opererò all’interno del Vaticano - sarò sotto gli occhi di tutto il mondo.

 E non voglio assolutamente che si possa pensare che, in qualche modo, abbia preservato qualcuno o coperto qualche situazione. Questo rischio non lo voglio correre, non me lo posso permettere. In Vaticano conoscono tali mie prerogative e ho raccolto ampie garanzie poiché siamo accomunati dagli stessi intenti». […]

Ha potuto effettuare anche audizioni di testi interni al Vaticano?

«Stiamo lavorando anche su questo versante, ma non posso dire di più; abbiamo messo insieme tantissimi elementi, pur se in un tempo relativamente stringente. Sentiremo Pietro Orlandi e acquisiremo le necessarie informazioni testimoniali, ascoltando quanto di inedito ha da riferirci. Ascolteremo tutto e faremo le indagini per gli opportuni riscontri. Ci sono - all’interno e all’esterno del Vaticano - figure ancora reperibili. Anche nell’ambito della pregressa inchiesta romana sono stati fatti accertamenti importanti. Devo tuttavia precisare una cosa...»

[…]

 Lei ha partecipato come avvocato al processo Mafia Capitale: si può affermare che il ruolo della Banda della Magliana è importante nel caso Orlandi?

«Premesso che non posso entrare nello specifico e che sull’argomento ci sono indagini enormi della Procura di Roma, temo che il ruolo della Banda della Magliana nel caso Orlandi sia stato sopravvalutato, sebbene esistano alcune evidenze. La situazione, tuttavia, impone un inquadramento più ampio».

Estratto dell’articolo di Vanessa Ricciardi per editorialedomani.it il 12 aprile 2023.

Nuovi elementi sul caso Emanuela Orlandi, la quindicenne vaticana scomparsa nell’estate 1983, approdano nell’inchiesta avviata dal Vaticano e riaprono la pista che conduce a Londra. Di recente il fratello Pietro Orlandi ha reso noto che esiste una lettera inviata al cardinale Ugo Poletti e, secondo quanto risulta a Domani, l’indirizzo di destinazione è lo stesso che, come vergato su un resoconto di spese «per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi», compare alla voce “vitto e alloggio”: Clapham Road 176.

Nel 1993 l’arcivescovo di Canterbury - ha anticipato il fratello della ragazza scomparsa - ha scritto la missiva in questione: «Ho saputo che lei in questo momento sta a Londra... Riguardo la questione di Emanuela Orlandi forse è il caso che ci incontriamo direttamente».

 Fino a qualche settimana fa il promotore di giustizia vaticana, Alessandro Diddi, non riteneva fosse necessario convocare Pietro Orlandi e l’avvocata Laura Sgrò, che chiedono da anni giustizia per Emanuela. Invece alla fine non è stato così: mercoledì 11 aprile sono stati chiamati per essere ascoltati e hanno depositato il documento, insieme a delle chat tra due assistenti di papa Francesco del 2014 che fanno riferimento alla scomparsa della ragazza. Nessuno di questi documenti finora è stato reso pubblico.

Non è la prima volta che il nome di Poletti viene associato a questa storia, anzi, si lega strettamente alla ricostruzione che vede il coinvolgimento nel rapimento della Banda della Magliana attraverso il boss Enrico “Renatino” De Pedis. La pista con ramificazioni in Vaticano infatti nasce da una telefonata avvenuta nel 1997 a Chi l’ha visto, con il suggerimento di cercare la soluzione del caso andando a guardare «chi è sepolto nella cripta di Sant’Apollinare» e «il favore a Renatino». Così si è scoperto che nel 1990 il cardinale vicario, Ugo Poletti, ha concesso il nulla osta per la sepoltura del boss De Pedis direttamente nella chiesa romana.

Nel 2012, dopo la mobilitazione lanciata dal fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, con petizioni e sit-in contro l‘«indegna sepoltura», la Santa Sede ha dato l’autorizzazione al trasferimento della salma, che è stata cremata.

Il Vaticano dovrà cercare di unire i punti, anche perché nello stesso sommario sulle spese (ritrovato nel 2017 dall’attuale direttore di Domani), si legge che il Vaticano avrebbe versato 80 milioni per «l’attività di sua Eminenza Reverendissima cardinale Ugo Poletti». […]

Sul caso Orlandi il Papa vuole la verità. Il fratello Pietro cinque ore in Vaticano. Il Promotore di Giustizia: "Massima libertà d'azione per indagare". L'avvocato Sgrò: "Abbiamo presentato la memoria della famiglia". Stefano Vladovich l’11 Aprile 2023 su Il Giornale.

Pietro Orlandi cinque ore in Vaticano. Il fratello di Emanuela, figlia di un commesso vaticano scomparsa nel nulla 40 anni fa, viene convocato come testimone dalla magistratura pontificia. «Abbiamo depositato una memoria, credo siano in una fase di approfondimento di questa e della documentazione rilasciata in precedenza» spiega l'avvocato Laura Sgrò.

Un incontro chiesto dalla famiglia Orlandi che non si è mai arresa alla presunta morte della ragazza di 15 anni. Rapita dai «lupi grigi» per ricattare la Santa Sede e liberare l'attentatore di Papa Giovanni Paolo II, Alì Agca, rapita e tenuta in ostaggio dalla Cia, sottratta dal Kgb e dalla Stasi con l'appoggio di terroristi bulgari. Prelevata in una piazza in Campo Marzio all'uscita del Conservatorio, vicino la basilica di Sant'Apollinare dove, otto anni più tardi, verrà sepolto Enrico Renatino de' Pedis, il boss della Magliana ammazzato nel 90. Lo stesso che l'avrebbe portata via il 22 giugno del 1983 su un Bmw intestato al faccendiere Flavio Carboni. Sequestrata, uccisa e fatta sparire dalla stessa banda della Magliana, dopo esser passata nelle mani di monsignor Marcinkus, presidente dello Ior, in una betoniera di Torvaianica assieme al figlio di un pentito di mafia. Viva e vegeta in una villa in Svizzera, dove vivrebbe sedata.

Sul caso Orlandi si è detto tutto e il contrario di tutto tanto da spingere lo stesso Papa Francesco a cercare la verità. È il 9 gennaio scorso quando la magistratura vaticana, incaricata direttamente dal Pontefice, apre ufficialmente le indagini. «Che si faccia chiarezza una volta per tutte - dice Pietro Orlandi - Per me Emanuela non è morta e non mi rassegnerò finché non saranno trovati i resti».

Alessandro Diddi, Promotore di Giustizia della Città del Vaticano, sta valutando i documenti raccolti dal 2005, anno della riapertura delle indagini italiane, sul caso. Una sparizione legata a quella di Mirella Gregori? «Non possiamo fare indagini in Italia - spiega il pm vaticano -, dobbiamo interfacciarci con il Procuratore capo di Roma. Ma i rapporti fra i due Stati sono cordiali e se sarà il caso invieremo le rogatorie per compiere gli approfondimenti necessari. Il Pontefice e il cardinale Parolin vogliono che emerga la verità senza riserve». Migliaia di carte, interrogatori, piste fasulle e indizi interessanti: Diddi avrebbe riunito in un unico fascicolo le informazioni raccolte finora.

È il 1997 quando una cronista de il Messaggero pubblica lo scoop sull'inquietante sepoltura del boss della Magliana accanto a Papi e cardinali. Il nulla osta per la tumulazione lo firma l'allora curatore di Sant'Apollinare Pietro Vergari. In una telefonata a Chi l'ha visto? nel 2005 dicono di cercare Emanuela dentro la tomba di Renatino. Bisognerà aspettare il 2012, però, per aprire il sepolcro. All'interno solo i resti di de' Pedis, che verrà traslato e sepolto altrove.

Nel frattempo Sabrina Minardi, ex amante di de' Pedis, dopo un duplice incidente mortale in cui è coinvolta la figlia, decide di parlare. Le borse di Louis Vuitton piene di soldi scambiate con Marcinkus per finanziare Solidarnosc, il passaggio della ragazzina dall'auto del monsignore e la sua prigionia in uno scantinato di Monteverde. Fino alla morte a Torvaianica. La polizia trova dei riscontri, ma nulla di fatto e il proprietario della betoniera non viene nemmeno interrogato.

Nel 2018 alla Nunziatura Apostolica di via Po vengono trovate ossa, ma risalgono all'epoca romana. Stessa storia nel 2019 quando viene indicato il cimitero teutonico in Vaticano come la tomba di Emanuela. I resti più recenti, però, sono di cent'anni fa.

Caso Emanuela Orlandi, il fratello Pietro ascoltato 8 ore in Vaticano: “Ho fatto nomi di cardinali”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Aprile 2023

Pietro Orlandi è stato ascoltato per più di otto ore in Vaticano. Il fratello di Emanuela Orlandi, scomparsa nel nulla il 22 giugno del 1983 a Roma, a soli 15 anni, è stato ascoltato come persona informata sui fatti nell’ambito di una nuova inchiesta aperta dal Vaticano sul caso. Orlandi ha riferito di aver fatto “anche nomi eccellenti”, di cardinali, che a suo dire dovrebbero essere interrogati. L’audizione era stata sollecitata dallo stesso Orlandi “per rendere proprie dichiarazioni e offrire eventuali informazioni in suo possesso nell’ambito del fascicolo aperto” dal Promotore di Giustizia della Città del Vaticano a gennaio scorso. Ha detto ai giornalisti che questo non sarà l’unico incontro con il Promotore.

C’era grande attesa per il confronto tra Pietro Orlandi, da sempre impegnato nella ricerca della verità sul caso della sorella, e il promotore di Giustizia Vaticano Alessandro Diddi. Orlandi si è detto sereno alla fine dell’incontro. “Abbiamo parlato di tante cose – ha detto all’Ansa – della famosa ‘trattativa Capaldo’, del trasferimento di Emanuela a Londra, di pedofilia, degli screenshot dei messaggi di cui siamo entrati in possesso” con l’avvocato della famiglia, Laura Sgrò. “Finalmente, dopo 40 anni, ho potuto sfogarmi e ho trovato ampia disponibilità a fare chiarezza, a mettere un punto, qualunque sia la responsabilità. Mi hanno ascoltato e hanno accettato tutto quello che avevo da dire, sottolineando che auspicano la massima collaborazione con la Procura di Roma e le altre istituzioni italiane”.

Pietro Orlandi ha detto che tutte le sue dichiarazioni sono state verbalizzate. “Da tre anni chiedevo di essere ascoltato. Questo è un momento importante perché a qualcosa deve portare, dopo le mie dichiarazioni ci devono essere delle risposte. Il fatto stesso che il promotore abbia ricevuto da Papa Francesco e dal Segretario di Stato il compito di fare chiarezza e non fare sconti a nessuno è significativo, se ci sono responsabilità, anche in alto, io non mi tiro indietro. Ho presentato una nota informativa con tutte le persone, e i cardinali, che andrebbero interrogati, che potrebbero aver avuto un ruolo o essere a conoscenza dei fatti. Loro non hanno escluso nessuno”. Dei nomi “eccellenti” che ha fatto, fa parte anche quello del “cardinale Giovanni Battista Re”, decano del Collegio cardinalizio, “che stava sempre a casa nostra”.

Il Promotore di Giustizia, Alessandro Diddi, in un’intervista al Corriere della Sera aveva garantito che la sua indagine sarà “ad ampio raggio e senza condizionamenti di sorta”, confortato “dal desiderio e dalla volontà ferrea del Papa e del Segretario di Stato di fare chiarezza senza riserve” sull’intera vicenda Orlandi. “Tecnicamente, il mio team ed io non possiamo fare indagini in Italia, dobbiamo dunque limitarci ad operare in un fazzoletto di terra di mezzo chilometro quadrato: nell’ambito della mia competenza giudiziaria, godo di un’ampia autonomia, ma per le indagini sul suolo italiano devo necessariamente interfacciarmi con la Procura della Repubblica di Roma e col nuovo procuratore Francesco Lo Voi. In passato, per pregresse attività d’indagine, le relazioni tra le due rispettive Procure sono sempre state cordiali e i risultati proficui. In tale nuova fase, qualora vi saranno gli estremi, valuteremo la possibilità di inviare al Ministro Nordio, attraverso i preposti canali istituzionali, istanze rogatoriali chiedendo all’Autorità Giudiziaria italiana di compiere gli approfondimenti ritenuti necessari così come siamo disposti, nell’ottica della reciproca collaborazione, a eseguire eventuali richieste che la Procura di Roma volesse far pervenire dal Ministero della Giustizia alla Segreteria di Stato. Dovremo confrontarci su molti aspetti e dire loro molte cose, così come loro a noi”.

Quello di Emanuela Orlandi resta uno dei gialli irrisolti più misteriosi e torbidi nella storia italiana. Giallo che ha portato a numerose inchieste e stravolgimenti mediatici che hanno coinvolto il Vaticano, lo Stato italiano, il Banco Ambrosiano, i servizi segreti, la Banda della Magliana e organizzazioni terroristiche internazionali. La vicenda è stata collegata in più casi a quella di Mirella Gregori, scomparsa il 7 maggio 1983, sempre a Roma, e mai più ritrovata. “Premesso che non posso entrare nello specifico e che sull’argomento ci sono indagini enormi della Procura di Roma, temo che il ruolo della Banda della Magliana nel caso Orlandi sia stato sopravvalutato, sebbene esistano alcune evidenze. La situazione, tuttavia, impone un inquadramento più ampio”, aveva commentato il Promotore al Corriere.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Pietro Orlandi e l'audio sconvolgente: "Era la voce di mia sorella Emanuela". Si torna a parlare della sconvolgente audiocassetta in cui sono registrati i lamenti e le suppliche della ragazza. Pietro Orlandi non ha dubbi: "Era la voce di mia sorella". Federico Garau il 5 Aprile 2023 su Il Giornale.

Mentre si attende l'avvio della commissione parlamentare d'inchiesta per fare finalmente luce sul caso di Emanuela Orlandi, continuano ad emergere inquietanti dettagli circa la vicenda della 15enne scomparsa nel giugno del 1983.

Solo pochi giorni fa, Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, ha dichiarato a DiMartedì di ritenere attendibili quei cinque fogli divulgati nel 2017 in cui sarebbe contenuto il rendiconto delle spese affrontate dalla Santa Sede per mantenere la ragazza in un convento di Londra. Ma non finisce qui, perché ora si torna anche a parlare di una misteriosa audiocassetta.

"Emanuela Orlandi è stata portata a Londra". Le rivelazioni di Pietro

Il messaggio scioccante nell'audiocassetta

Nuovamente ospite a DiMartedì, talk su La7, Pietro Orlandi è voluto tornare su un messaggio audio che già nel 2016 aveva condiviso con la trasmissione Chi L'ha Visto. Si tratta di un'audiocassetta che il 17 luglio 1983, poco tempo dopo la scomparsa di Emanuela, i presunti rapitori lasciarono nelle vicinanze del Quirinale. Il contenuto del documento audio è a dir poco inquietante, e ad ascoltarlo interamente fu Ettore Orlandi, il padre di Emanuela.

Nel corso della trasmissione, Giovanni Floris fa riascoltare alcune parti, tralasciando le più strazianti. Nell'audio si sentono dei lamenti e una voce femminile che esclama: "Oh Dio… il sangue! … ma che cos'è… quanto sangue! ahio aaah! Che mi fai… per favore mi lasci dormire adesso!". E, ancora: "Oh Dio, ahio... oh Dio, perché non la smette... perché Dio perché... ".

Tutto fa pensare a una violenza in atto nei confronti della ragazza registrata. La vittima si lamenta, ha il respiro affannoso. Dalla trascrizione emerge più volte anche la parola "basta", pronunciata con voce ovattata, come se la bocca fosse tappata da qualcosa.

Analizzato dalla Digos, il messaggio non fu collegato alla scomparsa di Emanuela. Al padre della ragazza fu spiegato che si trattava di un pezzo registrato da un film porno. Anni dopo, però, Pietro ha trovato la forza di ascoltare a sua volta quell'audio, riconoscendo la voce della sorella.

"Era mia sorella"

"Telefonarono all'Ansa, dissero che avevano lasciato un'altra audiocassetta quattro giorni prima sotto il colonnato di San Pietro, subito prelevata dai funzionari vaticani", racconta Pietro Orlandi. "Ne rilasciarono un'altra nei pressi del Quirinale e subito venne presa in consegna dai funzionari della Digos stavolta. L'ascoltò anche mio padre, che da una frase, quel 'per favore mi lasci dormire adesso', disse: 'A me sembra proprio Emanuela'. Mio padre era sconvolto".

Chi è la ragazza dell'audio? Si trattava davvero di un pezzo estrapolato da un film a luci rosse, come è poi stato detto a Ettore Orlandi, o era Emanuela? Pietro rivela di aver voluto riascoltare l'audiocassetta nel 2016, dopo la chiusura dell'inchiesta. Trovò delle copie Cd in Procura. "Appena ho sentito quella frase, quel 'mi lasci dormire'... per me è la voce di Emanuela", spiega.

In allarme, Pietro cercò allora l'audiocassetta originale. "Sono stato anche all'Archivio di Stato, ho fatto parecchi giri. Ho trovato anche i documenti del Sismi, perché loro analizzarono quell'audio. Dai loro documenti risulta che quelle voci non sono finzione, non è un film porno e le frasi da voce femminile sentite con molta probabilità appartengono ad Emanuela", racconta, "e allora perché a mio padre dissero: 'Stia tranquillo, Emanuela non c'entra nulla?'"

Estratto dell’articolo da repubblica.it il 3 aprile 2023.

"Ho motivo di credere che Emanuela sia passata per Londra”. È questa l'ultima rivelazione di Pietro Orlandi, tornato a parlare della sorella, la cittadina vaticana scomparsa a 15 anni il 22 giugno del 1983, in un'intervista a Giovanni Floris a DiMartedì.

 Pietro Orlandi stavolta fa riferimento ai famosi cinque fogli divulgati nel 2017 dal giornalista Emiliano Fittipaldi. Il documento, spuntato da una cassetta di sicurezza della Prefettura degli Affari Economici, contiene un rendiconto delle spese sostenute dalla Santa Sede per mantenere la ragazza. Il Vaticano ha sempre bollato quelle carte come un clamoroso falso. […]

Pietro Orlandi, lei crede che Emanuela, una volta rapita, sia stata portata a Londra?

"Ciò che c’è scritto in quel documento è vero, ne sono abbastanza convinto. Non è opera di mitomani come hanno voluto far credere appellandosi a dei dettagli (in una lettera ci si riferisce agli arcivescovi con “riverita” anziché “reverendissima”, ndr).

 Quando fu bollato come falso, io ho continuato le mie indagini e sono entrato in possesso di documenti in cui ci sono riscontri che mi dicono che quanto c’è scritto in quei fogli è vero. Alcune persone, in contatto con personalità della Chiesa Anglicana, mi hanno detto delle cose in relazione alla presenza di Emanuela a Londra. […]".

Perché Emanuela sarebbe stata portata a Londra, dopo il rapimento?

"Non potevano certo riconsegnarla alla famiglia, lei avrebbe raccontato quanto le era accaduto. Era coinvolta anche la malavita romana, erano tutti a rischio. Cosa c’era di meglio che sistemarla in un posto “vicino a Dio” ma all’Estero? Forse, era anche un modo per lavarsi la coscienza. Nel 1983 il Vaticano era certo nessuno avrebbe messo il naso in casa propria e nei suoi affari".

 Lei ha anche dichiarato che la pedofilia in quegli anni era un vizio comune all’interno del Vaticano

"Fino a qualche anno fa non era neanche considerato un reato, e i vescovi non erano tenuti a denunciare gli abusi sessuali sui minori. Mediaticamente, non ne parlava nessuno. Qualche anno fa ho incontrato un ex gendarme del Vaticano, mi disse che non appena sparì Emanuela, due giorni dopo, erano andati con la foto di mia sorella da quei tre o quattro cardinali che avevano il “vizietto” con le ragazzine, mi disse. […]

Il caso Orlandi e la pista di Londra. «Emanuela portata in Sardegna la sera in cui sparì. Poi a South Kensington». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 3 Aprile 2023

Un nuovo dossier: «La ragazza da Civitavecchia arrivò a Santa Teresa di Gallura, fuori dai segnali radar. Coinvolti Ior e Sacro Collegio delle Opere Misericordiose». Il mistero di Gladio

Nel giallo di Emanuela Orlandi, la figlia del messo pontificio di papa Wojtyla scomparsa nel lontano 1983, torna in primo piano la pista inglese. Le rivelazioni emerse nelle ultime ore provengono da fonti diverse e, forse non a caso, presentano punti di convergenza. A cominciare dalla destinazione dell'ostaggio: Londra. Di questa traccia e di altro parla Pietro Orlandi al programma DiMartedì su La7, ma da qualche settimana sta circolando anche un altro documento "riservatissimo", pervenuto al Corriere, che descrive i presunti spostamenti della quindicenne, fin dalla sera della scomparsa. 

Il dossier in circolazione

L'autore del dossier - sulla cui attendibilità sono in corso accertamenti - sembra mescolare fatti veri a circostanze non verificate e si ricollega al documento reso noto nel 2017, bollato come falso, contenente la (presunta) nota-spese da 483 milioni di lire stanziati dal Vaticano per tenere in vita Emanuela. La firma è: "un servitore della Repubblica". Nel testo si alternano toni perentori  e l'uso del condizionale. In ogni caso, l'estensore (ammesso sia uno solo) si dimostra ben informato e a conoscenza delle varie piste e della posizione dei principali protagonisti, dai boss della banda della Magliana ai prelati coinvolti negli scandali esplosi all'ombra del Cupolone negli anni Ottanta, fino a Marco Accetti, il fotografo romano oggi 67enne indagato nel 2013 (e poi prosciolto) dopo aver consegnato il flauto riconosciuto da familiari come quello di Emanuela. 

«Emanuela partita dal molo turistico di Civitavecchia»

I possibili nuovi spunti sul giallo della "ragazza con la fascetta" sono sintetizzati nella parte iniziale. Premesso che «l'operazione Orlandi» (così viene definito l'allontanamento da casa della vittima) fu «comminata» dopo contatti non meglio precisati tra "un agente del Sisde e il sig. Ercole", di certo inconsapevole e vittima di pressioni (qui una delle poche interviste concesse dal padre di Emanuela), il documento passa a descrivere quanto sarebbe accaduto. Il "servitore della Repubblica" entra  nel dettaglio fin dal giorno del mancato ritorno a casa: «Emanuela il 22 giugno 1983, alle ore 20, è già a Civitavecchia, dove dal molo turistico viene messa a bordo di un'imbarcazione e portata  in Sardegna, ed esattamente fino alla darsena di Santa Teresa di Gallura. Questo luogo fu scelto di proposito perché in quello stretto si incrociavano i segnali radio dei radiofari italiani e francesi. Questo permetteva, a causa delle tecnologie obsolete dell’epoca, di non essere tracciati, poiché un radar creava interferenze all’altro». 

Il ruolo degli agenti segreti

Quali i soggetti coinvolti e quale la destinazione? «Seguendo le informazioni in mio possesso - prosegue l'estensore del documento - posso affermare con estrema certezza che Emanuela è transitata dalla Sardegna, verso l’estero. Per questo tipo di strategia, tecnica e messa in opera, furono utilizzati agenti dormienti della sezione Gladio o SB, che con le loro conoscenze sia a livello tecnico-operativo che a livello di territorio hanno garantito un passaggio sicuro in una zona comunque attenzionata». E poi? Eccolo, il punto di congiunzione con il dossier di cinque anni fa. In questo caso, però, il tono è molto meno assertivo: «Fino al 2000 Emanuela Orlandi potrebbe essere stata ospite in Inghilterra “sotto protezione“ di una fondazione ecclesiastica... Il potrebbe - si premura di precisare il sedicente "servitore della Repubblica" - è d'obbligo, perché rintracciarlo ufficialmente diventa complicato: secondo la giurisprudenza britannica infatti certe fondazioni non sono obbligate a comunicare informazioni su benefattori o associati...».

«Lo Ior provvide al mantenimento»

Nel successivo capoverso, infine, due indicazioni più precise: «La cosa certa è che tra il 1993 e il 2000  Emanuela è stata ospite in una casa di South Kensington, a Londra, sotto la gestione dello Ior, che ha provveduto al suo mantenimento lontano dagli affetti, con il plauso e l’appoggio del Sacro collegio per le opere misericordiose, che a quel tempo utilizzava come cassa la fondazione Nova». Due annotazioni: rispetto alla pregressa documentazione sul presunto "mantenimento" di Emanuela andato avanti dal 1983 al 1997, "l'assistenza in vita" della ragazza viene quindi spostata in avanti di almeno tre anni; inoltre, il riferimento alla fondazione Nova (anagramma della ditta di cosmetici Avon, codice fatto pronunciare all'ostaggio nella sua ultima telefonata ), rimanda al movente economico del sequestro, lo scontro tra fazioni ecclesiastiche attorno alla gestione delle casse vaticane (all'epoca travolte dal crack del Banco Ambrosiano) e all'invio di forti somme in Polonia, per sostenere il sindacato cattolico Solidarnosc.  

Il fratello: «Ho riscontri su Emanuela a Londra»

Quanto alla versione fornita da Pietro Orlandi a Giovanni Floris, su La7, il rimando alla controversa nota spese è esplicito: «Ciò che c’è scritto in quel documento è vero, ne sono abbastanza convinto. Non è opera di mitomani. Quando fu bollato come falso, io ho continuato le mie indagini e sono entrato in possesso di documenti in cui ci sono riscontri che mi dicono che quanto c’è scritto in quei fogli è vero. Alcune persone, in contatto con personalità della Chiesa Anglicana, mi hanno detto delle cose in relazione alla presenza di Emanuela a Londra». Fonti diverse, insomma, in uno scenario che pare simile: è oltremanica che l'intrigo sembra aver qualche chance di soluzione. «Non l’ho mai detto prima d’ora - ha aggiunto il fratello della scomparsa - Ci sono delle relazioni tra personaggi di alto livello del Vaticano e le istituzioni inglesi sulla questione di mia sorella. Prima di renderli pubblici, alla mercè di tutti, devo trovare un modo per dimostrarne l’autenticità in maniera assoluta, così da proteggerli dalle accuse di chi vorrebbe delegittimarli. Ho fatto errori in passato che non ripeterò. Spero di avere le prove per quando inizierà la commissione parlamentare d'inchiesta». (fperonaci@rcs.it)

Perchè la commissione d'inchiesta si occuperà di entrambe le ragazze sparite nel 1983. Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, perché sono collegate le scomparse delle due ragazze che non si conoscevano. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Marzo 2023

Sono uscite di casa un giorno e non sono mai più tornate. Svanite nel nulla in una Roma 1983 senza lasciare traccia. Ma le loro famiglie non hanno mai smesso di cercarle e di chiedere a gran voce che fosse fatta luce sulle misteriose scomparse di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Le vite delle due sembravano scorrere su binari paralleli. Non si conoscevano, vivevano in zone diverse, una figlia di un messo pontificio e l’altra del titolare di un bar, non sapevano nemmeno dell’esistenza l’una dell’altra. A unirle è stata la stessa sorte, la scomparsa, avvenuta per Emanuela il 22 giugno, dopo aver comunicato alla sorella, nell’ultima telefonata, che le era stato offerto un lavoro per una nota ditta di cosmetici; per Mirella il 7 maggio del 1983, dopo aver detto alla madre di avere appuntamento con un amico. Entrambe avevano 15 anni. Un mistero mai risolto che le ha rese praticamente gemelle, come ricostruito dal Corriere della Sera. E ora la commissione di inchiesta di Camera e Senato indagherà in contemporanea su entrambi i casi.

La richiesta di scambio con Alì Agca

Anche la Procura di Roma sin dall’inizio aprì un fascicolo unico sul caso delle due scomparse. Cosa ha spinto tutti a pensare che dietro le due sparizioni ci fosse la stessa mano? Il Corriere ricostruisce che nei mesi successivi alla scomparsa alle famiglie, al Vaticano e ai giornali arrivò una oscura richiesta di scambio. Emanuela e Mirella sarebbero state liberate a patto che venisse scarcerato Alì Agca, il killer turco condannato all’ergastolo per l’attentato contro Wojtyla compiuto due anni prima (13 maggio 1981). Qui il primo punto di congiunzione: i rapitori sembravano essere gli stessi, apparsi via via sotto mutate sembianze (“Pierluigi” e “Mario”, l’Amerikano, il Fronte Turkesh, il gruppo da Boston, tutti legati – attenzione – dalla conoscenza di dettagli non noti delle ragazze, oltre che da perizie grafiche e dall’esame delle voci), ad abbinare i due casi di scomparsa.

Il comune desiderio di evasione di Emanuela e Mirella

Anche la dinamica della scomparsa è affine, iniziato con un allontanamento volontario, poi diventato sequestro. Perché furono prese di mira proprio loro e usate come mezzo di scambio? Da quanto ricostruito dal Corriere della Sera, ad accomunare le due ragazze anche il desiderio di evasione. Dagli atti archiviati, in un comunicato dei rapitori, ci sarebbe stato scritto che Emanuela aveva fatto arrabbiare il padre pochi giorni prima della scomparsa perché aveva annunciato di voler andare in vacanza con una delle sorelle e una cugina, quell’estate, senza chiedere il permesso. Poi anche le testimonianze delle amiche di Emanuela: “Emanuela mi disse: ‘non mi vedrete per un po’”, disse una. E poi ancora in un altro verbale un’altra testimonianza secondo al quale Emanuela era “molto svogliata” e ai professori che le avevano chiesto cosa volesse fare aveva risposto di “avere intenzione di cercarsi un lavoro”. Su questa voglia di evasione potrebbero aver fatto leva i registi dell’operazione. E lo stesso per Mirella che disse una bugia alla mamma dopo aver risposto al citofono alle 15.15: “Ho appuntamento con Alessandro, quello delle medie”. Questo a dimostrazione che le due ragazze forse avevano avuto contatti con persone che le famiglie non conoscevano.

Le amiche terrorizzate custodi di segreti

Poi c’è il muro di reticenze mai spiegato da parte delle amiche di Emanuela e Mirella. Prima di sparire le amiche delle due diventarono loro malgrado depositarie di segreti che hanno cambiato la loro vita. Emanuela confidò a Raffaella, compagna della scuola di musica di Sant’Apollinare, e che fu l’ultima a vederla, di aver ricevuto una proposta per la ditta Avon, 375 mila lire in un pomeriggio, per distribuire volantini nella Sala Borromini a una sfilata delle Sorelle Fontana. In realtà non c’era nessuna sfilata, forse un codice per i rapitori per trasmettersi informazioni dopo che la ragazza fosse stata rapita. Raffaella, prima e dopo il 22 giugno, fu pedinata, minacciata, fotografata per strada e ne rimase profondamente turbata. I genitori, per proteggerla, la trasferirono in Nord Italia.

Stessa situazione per Sonia, l’amica di Mirella figlia del titolare del bar di via Nomentana, sotto casa Gregori, frequentato da quel gendarme vaticano, Raoul Bonarelli, che venne indagato dalla Procura e poi prosciolto dopo che la mamma di Mirella, in un “faccia a faccia” tenuto nel 1993, non riconobbe in lui l’uomo della sicurezza notato vicino al Papa in visita nel 1985 alla parrocchia di quartiere. Ebbene, fu Sonia a indirizzare le prime ricerche (“Sarà andata a Villa Torlonia a suonare la chitarra”) in senso opposto rispetto al luogo detto da Mirella alla madre (“vado a Porta Pia”). “Pur essendo la sua più cara amica, da quel giorno non si è fatta più vedere, dandoci un grande dolore”, ha raccontato Maria Antonietta, la sorella maggiore. Il Corriere cita un documento riservato dl Sisde tirato in ballo dal giornalista Tommaso Nelli che attribuisce a Sonia una frase riferibile al frequentatore del bar: “Certo, lui ci conosceva, contrariamente a noi che non lo conoscevamo… Come ha preso Mirella, poteva prendere me…”.

I contatti con gli ambienti della chiesa

Entrambe le ragazze avevano legami con ambienti della Chiesa. Emanuela, quarta figlia di un messo pontificio, perché nella sacre mura viveva; Mirella, per la conoscenza, seppure superficiale, di un alto gendarme al servizio del Papa (in seguito beneficiario della cittadinanza vaticana) e anche per la foto al fianco di Wojtyla a lei scattata durante una visita con la scuola in Vaticano, che fu appesa nella bacheca dell’Osservatore Romano e potrebbe aver ispirato i rapitori nella scelta, grazie alla presenza di una “talpa” in redazione.

Sul movente però non c’è mai stata chiarezza. Sin dall’inizio la magistratura italiana imboccò la pista internazionale. L’ ipotesi era che le ragazze fossero usate come merce di scambio per indurre Alì Agca a ritrattare le accuse al mondo dell’Est (Bulgaria, Berlino, Mosca) di essere stato mandante dell’attentato, promettendogli come “ricompensa” una rapida uscita dal carcere. In tal senso Emanuela, cittadina vaticana, sarebbe stata rapita per premere su Wojtyla e la Curia affinché non venisse opposta resistenza a provvedimenti di clemenza verso Agca; Mirella cittadina italiana strappata ai suoi affetti per farne uno strumento di pressione sul Quirinale, titolare del potere di grazia. E secondo quanto ricostruito dal Corriere, in effetti l’attentatore del Papa ritrattò le accuse contro tre funzionari bulgari giusto sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela e Pertini in quei giorni sarebbe stato sul punto di concedere la grazia ad Agca.

Dunque le due potrebbero essere state coinvolte nello stesso intrigo per una concomitanza di circostanze casuali: Emanuela scelta “di ripiego” perché i padri delle ragazze pedinate in precedenza, l’assistente di Giovanni Paolo II Angelo Gugel e il comandante della Gendarmeria Camillo Cibin, presero contromisure; Mirella tirata in ballo per una foto scattata in modo estemporaneo a un’udienza papale, mentre sorride al Santo Padre. Ora tocca ai 40 parlamentari della commissione di inchiesta che ha poteri simili a quelli della magistratura trovare nuovi riscontri e prove per fare luce sull’enigma della scomparsa delle due ragazze.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Emanuela Orlandi, Mirella Gregori e l'indagine parlamentare: ecco perché le due scomparse sono collegate. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023.

La commissione d'inchiesta si occuperà di entrambe le ragazze sparite nel 1983. Le analogie: modalità di sequestro simili, amiche reticenti, un'unica regia criminale, ambienti di Chiesa coinvolti  

Non si conoscevano, frequentavano scuole diverse, non sapevano nulla l'una dell'altra. Fino a che mani ignote - tendendo loro un tranello - le sottrassero alla vita spensierata di quindicenni, alle canzoni di Claudio Baglioni e Renato Zero, alle comitive di amici, e da quel momento (correva l'anno 1983) il duplice giallo della loro scomparsa le ha rese come sorelle. Di più: gemelle accomunate da un atroce destino, evaporate nell'aria di Roma, uscite di casa dopo aver dato un bacio a mamma e mai più rientrate, tanto che i loro nomi e cognomi sono diventati l'emblema delle trame più sordide, dei segreti più inconfessabili... 

Emanuela Orlandi e Mirella Gregori: perché i due misteri ambientati nel lontano 1983 - quando a Roma i bus erano verdi, i taxi gialli e all'Olimpico furoreggiava un certo Paulo Roberto Falcão - sono considerati inscindibili? Adesso che il Senato, dopo il voto all'unanimità della Camera dei deputati, si appresta a dare il via libera alla commissione parlamentare bicamerale d'inchiesta sulla "Vatican connection", la domanda torna d'attualità: per quale motivo anche il Parlamento - dopo la Procura di Roma, che sin dall'inizio aprì un fascicolo unico - ritiene che le vicende della "ragazza con la fascetta" e della coetanea con una vaporosa cascata di capelli corvini vadano trattate congiuntamente? In altre parole: su cosa si basa la certezza che i mancati ritorni a casa delle figlie del messo pontificio e del barista di via Montebello siano maturati nell'ambito dello stesso piano politico-criminale? Le risposte si ottengono analizzando i fatti stratificati in 40 anni, consultando gli atti delle inchieste archiviate (1983-1997 e 2008-2015) e compulsando gli archivi dei giornali che, anche grazie alla tenacia delle famiglie nel chiedere verità, non hanno mai smesso di occuparsene.

La richiesta di "scambio" con Alì Agca

Emanuela Orlandi e Mirella Gregori erano coetanee, questo il dato di partenza. La prima nata a Roma il 14 gennaio 1968 (ma emigrata in Vaticano nel marzo 1983, circostanza, vedremo, non casuale) e la seconda nata sempre a Roma tre mesi prima, il 7 ottobre 1967. Vennero quindi alla luce alla vigilia di avvenimenti epocali, la contestazione studentesca, l'assassinio di Robert Kennedy, l'uomo sulla luna, e anche loro - sotto gli occhi sgomenti di madri, padri, fratelli, sorelle che le stanno ancora aspettando - sono finite nei libri di storia. Scomparvero a 46 giorni di distanza una dall'altra: Mirella il 7 maggio 1983, dopo aver detto alla madre di avere appuntamento con un amico, ed Emanuela il 22 giugno seguente, dopo aver comunicato alla sorella, nell'ultima telefonata, che le era stato offerto un lavoro per una nota ditta di cosmetici. Dopo un silenzio di un paio di settimane, oscure entità fecero pervenire ai mass media, al Vaticano e alle famiglie (prima agli Orlandi, da agosto anche ai Gregori) una richiesta di "scambio" all'apparenza inverosimile: Emanuela e Mirella sarebbero state liberate a patto che venisse scarcerato Alì Agca, il killer turco condannato all'ergastolo per l'attentato contro Wojtyla compiuto due anni prima (13 maggio 1981). Il primo punto di congiunzione, quindi, emerge dalla cronaca: furono gli stessi rapitori, apparsi via via sotto mutate sembianze ("Pierluigi" e "Mario", l'Amerikano, il Fronte Turkesh, il gruppo da Boston, tutti legati - attenzione - dalla conoscenza di dettagli non noti delle ragazze, oltre che da perizie grafiche e dall'esame delle voci), ad abbinare i due casi di scomparsa.

La voglia di evasione e la trappola fatale 

Ma perché - eccoci alla seconda domanda che dovranno porsi i 20 deputati e 20 senatori della Bicamerale - furono prese di mira proprio loro, Emanuela e Mirella, da chi decise di trasformarle in armi di ricatto talmente potenti da condizionare la geopolitica della Guerra Fredda? Per rispondere è necessario analizzare sia la dinamica delle ultime ore - identica: in entrambi i casi un allontanamento volontario, poi diventato sequestro vero e proprio - sia il profilo personale delle quindicenni. C'era stata qualche avvisaglia, per Emanuela?  Dagli atti archiviati emerge un certo desiderio di evasione. Il  padre Ercole, in particolare, pochi giorni prima della scomparsa si era molto arrabbiato («Era rimasto di ghiaccio», secondo quanto poi scritto in un comunicato dai rapitori, evidentemente ben informati) perché sua figlia le aveva annunciato di voler andare in vacanza con una delle sorelle e una cugina, quell'estate, senza chiedere il permesso. Nella stessa direzione altri due elementi: «la confidenza raccolta da una compagna del Convitto nazionale («Emanuela mi disse: non mi vedrete per un po'»), di cui parlò un articolo de L'Unità il 13 luglio 1983, e in tempi più recenti (2008, interrogatorio del pm Giancarlo Capaldo), il verbale di un'altra compagna, seconda la quale Emanuela era «piuttosto svogliata» e ai professori che le avevano chiesto cosa volesse fare aveva risposto di «avere intenzione di cercarsi un lavoro». Tali frasi, naturalmente, non vanno interpretate nel senso di una colpevolizzazione. Esaminate ex post, forniscono semplicemente un contesto e potrebbero spiegare su quale stato d'animo abbiano fatto leva  i registi dell'operazione, così come, nel caso di Mirella, estroversa e vivace, la bugia detta alla madre dopo aver risposto al citofono alle 15.30 («Ho appuntamento con Alessandro, quello delle medie») potrebbe dimostrare pregressi contatti con persone non note alla famiglia.

Il ruolo delle due amiche (terrorizzate) 

Ma c'è di più, ad accomunare le due scomparse: un muro di reticenze mai spiegato. Sia Emanuela sia Mirella, infatti, prima di sparire si confidarono con delle amiche, diventate loro malgrado depositarie di segreti che hanno pesantemente condizionato la loro esistenza. Per la giovane Orlandi si trattò della compagna di scuola di musica a Sant'Apollinare, Raffaella, l'ultima ad averla vista alle 19 in corso Rinascimento. Fu a lei che Emanuela raccontò di aver ricevuto una proposta per la ditta Avon, 375 mila lire in un pomeriggio, per distribuire volantini nella Sala Borromini a una sfilata delle Sorelle Fontana (in realtà non era prevista nessuna manifestazione, evidentemente erano messaggi in codice ideati dai rapitori per dialogare con la controparte, una volta che la scomparsa fosse diventata pubblica). Fatto è che Raffaella, prima e dopo il 22 giugno, fu pedinata, minacciata, fotografata per strada. Restò choccata dall'accaduto e subì un crollo psicofisico dal quale non si è ripresa. I genitori, per proteggerla, la trasferirono in Nord Italia. Cosa poteva aver saputo di tanto sconvolgente? Situazione analoga per Sonia, figlia del titolare del bar di via Nomentana, sotto casa Gregori, frequentato da quel gendarme vaticano, Raoul Bonarelli, che venne indagato dalla Procura e poi prosciolto dopo che la mamma di Mirella, in un "faccia a faccia" tenuto nel 1993, non riconobbe in lui l'uomo della sicurezza notato vicino al Papa in visita nel 1985 alla parrocchia di quartiere. Ebbene, fu Sonia a indirizzare le prime ricerche («Sarà andata a Villa Torlonia a suonare la chitarra») in senso  opposto rispetto al luogo detto da Mirella alla madre («vado a Porta Pia»). «Pur essendo la sua più cara amica, da quel giorno non si è fatta più vedere, dandoci un grande dolore», ha raccontato Maria Antonietta, la sorella maggiore. In tempi recenti, inoltre, il giornalista Tommaso Nelli ha scovato un documento riservato del Sisde che attribuisce a Sonia una frase riferibile al frequentatore del bar: «Certo, lui ci conosceva, contrariamente a noi che non lo conoscevamo... Come ha preso Mirella, poteva prendere me...» Cosa sapeva l'amica Sonia e cosa ha taciuto? Perché si è chiusa nel mutismo?

Lo "schema doppio" della pista internazionale

Scomparse-fotocopia, dunque, di due giovanissime che avevano contatti con ambienti di Chiesa: Emanuela, quarta figlia di un messo pontificio, perché nella sacre mura viveva; Mirella, per la conoscenza, seppure superficiale, di un alto gendarme al servizio del Papa (in seguito beneficiario della cittadinanza vaticana) e anche per la foto al fianco di Wojtyla a lei scattata durante una visita con la scuola in Vaticano, che fu appesa nella bacheca dell'Osservatore Romano e potrebbe aver ispirato i rapitori nella scelta (grazie alla presenza di una "talpa" in redazione). Già, ma il movente? Sin dall'inizio la magistratura italiana imboccò, in forza dei numerosi indizi, la pista internazionale. L'ipotesi era che le ragazze fossero state usate come "merce di scambio" (Emanuela come seconda scelta, dopo il pedinamento di altre coetanee con cittadinanza vaticana) per indurre Alì Agca a ritrattare le accuse al mondo dell'Est (Bulgaria, Berlino, Mosca) di essere stato mandante dell'attentato, promettendogli come "ricompensa" una rapida uscita dal carcere. In tale scenario, la logica sarebbe stata la seguente: Emanuela cittadina vaticana rapita per premere su Wojtyla e la Curia affinché non venisse opposta resistenza a provvedimenti di clemenza verso Agca; Mirella cittadina italiana strappata ai suoi affetti per farne uno strumento di pressione sul Quirinale, titolare del potere di grazia. A sostegno di tale schema, due riscontri non irrilevanti: l'attentatore del Papa, in effetti, ritrattò le accuse contro tre funzionari bulgari giusto sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela (il 28 giugno 1983, come per dire: ok, mi sono fidato e ho rispettati i patti, ma adesso voi mi fate uscire di galera); e da parte sua il presidente Sandro Pertini, nell'autunno 1983, ricevette più volte i genitori di Mirella e fu sul punto (come confermato all'autore di questo articolo da un investigatore dell'epoca) di firmare la grazia ad Agca. Quanto al movente del doppio sequestro, infine, non va esclusa l'esistenza di un ricatto multiplo, attuato su più livelli, al fine di recuperare almeno in parte (qui il resoconto dell'incontro tra l'agente del Sismi Francesco Pazienza e monsignor Celata) i soldi inviati dalle alte sfere ecclesiastiche in Polonia in funzione anticomunista. 

Il telefonista e la lista dei vestiti di Mirella

Riassumendo, le sventurate quindicenni potrebbero essere state inghiottite dallo stesso intrigo per una concomitanza di circostanze casuali: Emanuela scelta "di ripiego" perché i padri delle ragazze pedinate in precedenza, l'assistente di Giovanni Paolo II Angelo Gugel e il comandante della Gendarmeria Camillo Cibin, presero contromisure; Mirella tirata in ballo per una foto scattata in modo estemporaneo a un'udienza papale, mentre sorride al Santo Padre (qui sopra). In ogni caso - è questo il triste dato di realtà - sparirono entrambe in un contesto analogo e mai più tornarono. D'altronde il collegamento tra loro, vittime di un'unica trama, è dimostrato da due ultimi indizi-chiave. Primo: l'allerta ai vertici delle istituzioni sull'azione-Gregori era scattata addirittura prima che Emanuela sparisse, come dimostrano il carteggio Quirinale-famiglia datato 21 giugno 1983, un incontro (mai reso noto) tra la mamma di Mirella e il Papa (evidentemente a conoscenza della posta in gioco) e alcuni criptici messaggi propalati dai servizi segreti sui giornali dell'epoca, con non meglio precisate "richieste di contatto" in relazione a "trattative in corso". Secondo punto: nel settembre 1983 il gioco si fece duro al punto che il telefonista in contatto con l'avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, telefonò al bar dei Gregori e invitò Filippo Mercurio, cognato di Mirella, a prendere nota con precisione degli abiti indossati dalla scomparsa. Eccolo, l'elenco: maglia di marca "Antonia", jeans "Redin" con cintura, maglietta intima di lana, scarpe con il tacco di colore nero lucido marca "Saroyan"... Una lista precisa, perfetta, a dimostrazione che il possesso degli ostaggi era in capo a un solo soggetto.

La verità dell'uomo del flauto

Ci siamo, viaggio quasi concluso. Fin qui i fatti, gli elementi riscontrati. C'è poi un ulteriore livello di approfondimento, che rappresenterà il compito più arduo della Bicamerale d'inchiesta (dotata, giova ricordarlo, di poteri simili a quelli della magistratura). Si tratta di una sfida di natura prettamente investigativa: i 40 parlamentari-inquirenti, infatti, saranno chiamati a trovare nuovi riscontri e prove rispetto a quanto acquisito in passato, con particolare riferimento ai personaggi coinvolti, da Sabrina Minardi, ex amante del boss Enrico De Pedis (la cui testimonianza ha accreditato la presenza sulla scena della banda della Magliana ), a don Pietro Vergari, l'ex rettore di Sant'Apollinare (anch'egli a lungo indagato), fino a quel Marco Accetti  che nel 2013 si autodenunciò, consegnando a Piazzale Clodio un flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela e un corposo memoriale (qui sopra uno stralcio) sul ruolo da lui avuto nell'affaire Orlandi-Gregori, sia come telefonista sia come uomo-esca delle quindicenni.  È anche vero, però, che alla fine il fotografo oggi 67enne, figlio di massone, già condannato per l'omicidio stradale di Josè Garramon, non è stato creduto:  la sua ricostruzione - secondo la quale un gruppo di tonache dissidenti dalla linea ufficiale, agenti dei servizi segreti e uomini della malavita (il cosiddetto "ganglio") ideò il duplice sequestro per condizionare la politica del Papa e recuperare i soldi inghiottiti dallo scandalo Ior-Ambrosiano - è stata ritenuta fantasiosa e non supportata da conferme. Una sorta di "sceneggiatura" studiata a tavolino, secondo l'ex procuratore Giuseppe Pignatone, che nel 2015 ha imposto l'archiviazione. Ma attenzione: come in qualsiasi giallo che si rispetti, il colpo di scena arriva con i titoli di coda. In tempi recenti l'ombra dell'«uomo del flauto» è infatti tornata ad allungarsi sull'intero intrigo, dopo che il consulente fonico della docuserie Vatican girl (Netflix), si è detto "piuttosto sicuro" che Marco Accetti sia stato uno dei telefonisti, e in seguito all'apertura di un'inchiesta parallela, la scorsa estate, sul giallo collegato di Katy Skerl, la 17enne strangolata a Grottaferrata nel gennaio 1984, la cui bara è stata incredibilmente rubata. La fine è nota? Tutt'altro. L'enigma resta aperto.  E la parola, adesso, passa agli onorevoli. (fperonaci@rcs.it)

Caso Orlandi-Gregori, la Camera approva la commissione parlamentare d'inchiesta. Il fratello: «Commosso». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 23 marzo 2023.

Via libera all'unanimità dall'aula di Montecitorio. La nuova indagine sulla scomparsa delle quindicenni Emanuela e Mirella (nel 1983) riaccende speranze di soluzione del doppio giallo

La Camera dei deputati vota il via libera, all'unanimità, alla proposta di legge che istituisce la Commissione parlamentare d'inchiesta  sui casi di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, le due ragazze - la prima cittadina vaticana, figlia del messo pontificio di papa Wojtyla, la seconda italiana, figlia di un barista in zona Termini - scomparse a Roma nel 1983. 

Politici uniti: 245 sì 

Il voto dell’aula di Montecitorio è stato unanime: 245 “sì” su 245 presenti. Ora il testo passa al Senato, per il varo definitivo della Bicamerale che, una volta insediata (la disponibilità finanziaria sarà di 50 mila euro l'anno), avrà poteri penetranti e un orizzonte ampio per lavorare, corrispondente alla durata della legislatura (qui il dibattito in commissione e le funzioni del nuovo organismo). Soddisfatti i politici. «Il Parlamento contribuirà a ridare verità e giustizia a famiglie che non si sono mai arrese» (Paolo Trancassini, FdI); «Noi oggi facciamo una scelta politica di cui ci assumiamo la responsabilità: approfondire una vicenda che per 40 anni attendeva questo momento» (Augusta Montaruli, ancora Fratelli d'Italia): «Si tratta di vicende da riscrivere con rigore. La scomparsa delle due giovani appartiene al ricco bouquet dei fiori neri della Repubblica, ai misteri che hanno alimentato la sfiducia diffusa nelle istituzioni» (Roberto Morassut, Pd); «Troppe anomalie e buchi neri in questi decenni di indagini» (Stefania Ascari, M5S); «La commissione può dare una svolta a una vicenda che ha mortificato l’Italia» (Carlo Calenda, Azione). 

Il senso di colpa di Pietro

«Sento le istituzioni vicine, sono commosso», è stata la reazione di Pietro Orlandi, il fratello costretto a convivere con un senso di colpa, come ha ricordato lui stesso in una intervista tv in cui è tornato con la memoria al 22 giugno 1983, quando Emanuela prima di uscire gli chiese di accompagnarla in moto alla scuola di musica e lui rispose di no, a causa di un altro impegno. Nelle tribune riservate al pubblico, nell'aula della Camera, non c'erano solo i familiari di Emanuela Orlandi (qui sotto la possibile ricostruzione della scomparsa, minuto per minuto) ma anche quelli di Mirella Gregori.

Le piste prevalenti

Due dei grandi gialli lasciati in eredità dal secolo scorso tornano quindi al centro di indagini formali, dopo l’archiviazione dell’inchiesta-bis della Procura di Roma, fortemente voluta dall'allora procuratore Giuseppe Pignatone nel 2015. Ma per quale motivo le quindicenni furono indotte ad allontanarsi da casa con un tranello, il 7 maggio e il 22 giugno 1983? Le piste prevalenti (al di là del movente sessuale, spesso ventilato ma mai suffragato da riscontri) si possono ricondurre a due: quella economica, connessa al dissesto delle casse vaticane (scandalo Ior-Ambrosiano) e all'invio di grossi flussi di danaro dalla Santa Sede al sindacato cattolico polacco Solidarnosc, e quella internazionale, legata alle iniziali richieste di scambio di Emanuela e Mirella con il feritore di Wojtyla, Alì Agca, le cui accuse all’Est come mandante dell’attentato (13 maggio 1981) proprio in quei mesi stavano provocando gravi tensioni nello scacchiere geopolitico mondiale. Un duplice ricatto (nel quale sarebbe entrata in gioco anche la banda della Magliana) poi finito tragicamente, insomma: è questo lo scenario più accreditato sul quale nei prossimi mesi dovranno misurarsi le forze politiche.

L'inchiesta vaticana

Il fratello di Emanuela, nel dirsi molto contento della decisione della Camera, ha invece commentato con scetticismo l'andamento dell'inchiesta aperta dalla Santa Sede lo scorso gennaio: «Quella fiducia che avevo riposto nel Vaticano al momento dell'annuncio - ha detto Pietro Orlandi - sta sfumando: dopo due mesi e mezzo non ci hanno ancora comunicato nulla». «Se si apre un'inchiesta - ha continuato - vuol dire che si ha la volontà di arrivare alla verità e si dovrebbe quanto meno sentire il nostro avvocato, che da anni chiede un incontro perché abbiamo elementi importanti che potrebbero portarci alla verità. Da parte loro dovrebbe essere l'interesse primario chiamarci e chiederci quali sono questi elementi, invece niente: io in questo momento pongo molta più fiducia nella Commissione parlamentare, perché ho visto la volontà di fare le cose perbene e mi auguro si prosegua così». (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi, commissione parlamentare d'inchiesta al via: la legge istitutiva all'esame della Camera. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 20 Marzo 2023.

In aula la discussione sulla Bicamerale (20 deputati e 20 senatori), che  si occuperà anche della scomparsa di Mirella Gregori. Gli interventi dei deputati Buonguerrieri, Morassut, Ascari, Giachetti e Russo

Caso Orlandi-Gregori, commissione parlamentare d'inchiesta al via. Approda alla discussione della Camera la proposta di legge sull'istituzione di un organismo Bicamerale, composto da 20 deputati e 20 senatori, chiamato a indagare sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, la figlia del messo pontificio di papa Giovanni Paolo II mai più tornata a casa dal lontano 22 giugno 1983. L'appuntamento, fissato in un primo momento alle 11 del 20 marzo nell'aula di Montecitorio, è stato poi posticipato di qualche ora, e aggiornato alle ore 15: nelle tribune riservate al pubblico, sia i familiari di Emanuela sia quelli di Mirella Gregori, l'altra quindicenne, sparita il 7 maggio 1983, il cui caso è stato fin dall'inizio legato a quello della "ragazza con la fascetta". Il progetto di legge in discussione è quello votato all'unanimità dalla commissione Affari costituzionali e presentato da Francesco Silvestri (M5S), d'intesa con Roberto Morassut (Pd). 

Doppio intrigo e movente multiplo

È una novità molto attesa, e non solo dai parenti delle due vittime che oggi, se vive, avrebbero 55 anni: l'indagine parlamentare sul cold case che più turba e coinvolge l'opinione dai tempi della I Repubblica si aggiunge all'inchiesta del Vaticano annunciata lo scorso gennaio dal Promotore di giustizia della Santa Sede:  a quasi 40 anni dai fatti, dunque, la classe politica si mostra intenzionata a fare luce sul doppio intrigo di Emanuela e Mirella, fin dall'inizio inquadrato nelle tensioni della Guerra Fredda (a causa della richiesta di "scambio" delle ragazze con Alì Agca, l'attentatore di papa Giovanni Paolo II, giunta pochi giorni dopo la loro scomparsa) e nelle guerre all'ombra del Cupolone causate dal dissesto delle finanze ecclesiastiche (malagestione dello Ior di monsignor Marcinkus e crack del Banco Ambrosiano). 

Quale sarà il campo d'indagine

L'istituenda Commissione bicamerale - che sarà dotata degli stessi penetranti poteri inquirenti dell'autorità giudiziaria - dovrà «ricostruire e analizzare in maniera puntuale la dinamica» delle due scomparse, «verificare ed esaminare il materiale e i dati acquisiti attraverso le inchieste giudiziarie e le inchieste giornalistiche, esaminare e verificare fatti, atti e condotte commissive oppure omissive che possano avere costituito ostacolo o ritardo o avere portato ad allontanarsi dalla ricostruzione veritiera dei fatti, necessaria all'accertamento giurisdizionale delle responsabilità connesse agli eventi, anche promuovendo azioni presso Stati esteri, finalizzate ad ottenere documenti o altri elementi di prova». Infine, un occhio anche a reticenze e depistaggi: «La commissione dovrà verificare, mediante l'analisi degli atti processuali e del materiale investigativo raccolto negli anni, quali criticità e circostanze possano avere ostacolato il sistema giudiziario nell'accertamento dei fatti e delle responsabilità». Determinante, a questo proposito, potrebbe rivelarsi l'analisi degli atti processuali precedenti (le due inchieste della magistratura italiana, 1983-1997 e 2008-2015) assieme, naturalmente, a quanto potrà emergere dall'audizione dei testimoni (vecchi e nuovi) che verranno convocati.

Gli interventi dei deputati in Aula

Il dibattito in aula ha evidenziato empatia verso le famiglie. «Quelle di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori sono due storie in cui le uniche tristi certezze sono la scomparsa di due ragazze e la presenza di padri, madri, famiglie, amici che non si sono mai arresi», ha detto la deputata Alice Buonguerrieri (FdI). Da parte sua Roberto Morassut, del Pd, ha rimarcato che «la storia italiana è piena di casi irrisolti che hanno dato un senso di coscienza interrotta: con questo lavoro vogliamo contribuire anche a trovare una rilettura di un pezzo fondamentale della nostra storia e della Repubblica, senza la quale è impossibile costruire nuove istituzioni più trasparenti e credibili». Per Stefania Ascari, M5S, «la Commissione di inchiesta può chiarire molteplici anomalie avvenute in 40 anni di indagini e fare luce su due aspetti fondamentali: i rapporti tra Stato Vaticano e italiano e gli interventi, non sempre chiari, degli apparati dello Stato italiano nel corso delle indagini». Su una linea analoga si è posto Roberto Giachetti (Iv-Azione): «Questa potrà essere l'occasione per fare in modo che il Vaticano, che non ha mai consentito ai suoi uomini di testimoniare nella vicenda giudiziaria italiana, trovi la possibilità di parlare e raccontare ciò che certamente in quella sede si sa ed è giusto venga condiviso». mentre secondo Paolo Emilio Russo, Forza Italia, c'è finalmente la possibilità «di analizzare quanto accaduto in questi decenni senza la inevitabile emotività. Il compito di accertare la verità giudiziaria spetta sempre alla magistratura, ma oggi ci sono le condizioni per creare un luogo di confronto sereno e costruttivo».

Pietro Orlandi: «Piena fiducia»

Soddisfatti i familiari. «Ho ascoltato interventi lunghi e corposi. Rinnovo la mia fiducia in questa Commissione e mi auguro che possa partire quanto prima: dagli interventi ho percepito la volontà di fare chiarezza e giustizia non solo per Emanuela. Non si possono più accettare passivamente le ingiustizie». Così Pietro Orlandi, il fratello, che ha aggiunto: «Io e il mio avvocato abbiamo cose da dire e abbiamo fatto inutilmente istanza al promotore di giustizia del Vaticano per dirle. Se la Commissione mi ascolterà, mi sentirò libero di dire ciò che penso e ciò di cui sono in possesso. Rispetto alla Commissione di inchiesta sarò disponibile al cento per cento».

Le inchieste giudiziarie collegate

Dopo il voto di Montecitorio, il testo passerà al Senato per il via libera definitivo. La Commissione opererà per l'intera XIX legislatura e, al termine dei lavori, presenterà una relazione sui risultati dell'inchiesta. I 40 membri saranno nominati dai presidenti di Senato e Camera in proporzione al numero dei componenti i gruppi parlamentari e poi, entro dieci giorni, avverrà la convocazione del nuovo organismo politico-investigativo, per la costituzione dell'ufficio di presidenza. Non è escluso che, nel corso delle sedute, faccia riferimento anche ai cold case collegati di Josè Garramon, Katy Skerl e Alessia Rosati. Gli ultimi due, in particolare, sono oggetto di inchieste tuttora aperte (condotte rispettivamente dai pm Erminio Amelio e Alessia Miele) dopo l'acquisizione delle dichiarazioni di Marco Accetti, l'uomo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela e la cui voce corrisponde («con un alto grado di compatibilità», secondo il consulente fonico della docu-serie Vatican girl, Marco Perino) a quella di almeno uno dei telefonisti dell'epoca.

La Procura e le novità su Katy Skerl

Il mistero dell'omicidio di Katy Skerl, la 17enne trovata strangolata nei pressi di Grottaferrata nel gennaio 1984, ha suscitato scalpore la scorsa estate, quando, a conferma delle anticipazioni di Accetti, la tomba della ragazza al Verano è stata trovata vuota: la bara, secondo il fotografo romano oggi 67enne (già condannato per  l'investimento mortale del piccolo Garramon nel dicembre 1983), sarebbe stata rubata per far sparire una prova del collegamento tra i gialli di Katy e di Emanuela: si tratta dell'etichetta della camicia della defunta con su scritto "Frattina", parola misteriosa contenuta in uno dei comunicati di rivendicazione del rapimento Orlandi. Ma non basta. La scorsa estate, pochi giorni dopo il sequestro del fornetto vuoto al Verano (avvenuto a metà luglio) da parte della Squadra Mobile, negli stabilimenti cinematografici di Cinecittà scoppiò un gigantesco incendio che mandò in cenere la scenografia del film di Moretti "Habemus papam", all'interno della quale lo stesso Accetti aveva in precedenza dichiarato che era stata nascosta la camicetta di Katy con la famosa etichetta. Solo un caso? In Procura ne dubitano ed è anche su questo rogo del 1^ agosto 2022, considerato molto sospetto, che il pm Amelio sta indagando, con l'obiettivo di acciuffare quel filo che consenta finalmente di sbrogliare l'intera matassa della Vatican connection.   (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi, le indagini segrete del Vaticano. Il maestro di musica: «Fui interrogato dal comandante Giani». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023

Monsignor Miserachs: «Io convocato dalla Gendarmeria il 4 maggio 2012, c'era anche l'assessore alla Segreteria di Stato». Ecco la prova del cambio di cittadinanza di Emanuela

Il Vaticano oltre dieci anni fa svolse interrogatori sulla sparizione della "ragazza con la fascetta". Nel massimo riserbo. Nello stesso periodo in cui sul giallo era al lavoro la magistratura italiana.  È una nuova testimonianza a fare luce su una questione controversa: l'inchiesta annunciata lo scorso gennaio dal promotore di Giustizia della Santa Sede è o no la prima in assoluto, nelle sacre mura, sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Le autorità ecclesiastiche, negando con decisione di custodire un "dossier" (della cui esistenza è invece convinto il fratello, Pietro) avevano lasciato intendere che sì, mai in passato gli inquirenti oltretevere si erano formalmente occupati della vicenda. E invece adesso è proprio un testimone in tonaca ad affermare il contrario. 

«Papa Ratizinger volle queste indagini»

«Nel 2012 fui chiamato per volere di Benedetto XVI, per parlare di quello che ricordavo del giorno in cui scomparve Emanuela Orlandi. Fu proprio papa Ratizinger a volere queste indagini». L'autore della rivelazione, avvenuta durante il programma "Quarto Grado" (Rete4), è il maestro di canto di Emanuela, monsignor Valentino Miserachs, che fece lezione alla ragazza proprio il 22 giugno 1983,  il giorno del mancato ritorno a casa. Mai sentito dalla Procura di Roma (prima dell'archiviazione decisa nel 2015), il prelato e musicista spagnolo ha raccontato di essere stato convocato il 4 maggio 2012, alle 17, dalla Gendarmeria vaticana. «Era presente il capo della Gendarmeria Domenico Giani, un suo vice e l’assessore alla Segreteria di Stato, Peter Wells». Miserachs, per dare prova della sua affidabilità, ha anche mostrato l’appunto sull'agenda di quel giorno. In Vaticano insistettero soprattutto su una circostanza: se la ragazza avesse chiesto di uscire prima delle 19 oppure no, forse per sapere di più sul suo stato d'animo, alla luce della proposta di "un lavoro Avon" ricevuta prima di arrivare a Sant'Apollinare, che rappresentò la trappola per allontanarla da casa. 

L'interrogatorio del comandante Giani

Valentino Miserachs, parlando davanti alle telecamere, si è soffermato anche sul "clima" respirato nell'interrogatorio di quasi 11 anni fa: «C’era una certa solennità, c’erano il capo della Gendarmeria e l’assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato, Peter Bryan Wells, che rappresentava la parte ecclesiastica del Vaticano. Lui non ha aperto bocca, le domande le conduceva Giani. Ho raccontato quello che potevo sapere, ma non mi hanno detto niente di come si sono sviluppate le indagini. Non so neanche se avessero convocato altre persone, ma penso di sì».

Pietro Orlandi: «Perché il Vaticano smentì?»

La data di convocazione è significativa perché esattamente 9 giorni dopo, il 13 maggio 2012, fu aperta la tomba di Enrico De Pedis nella cripta della basilica di S. Apollinare, che tante polemiche aveva sollevato attorno alla "indegna sepoltura" del boss della Magliana. Sempre in quel periodo, inizio aprile 2012, ai vertici della Procura di Roma si era consumato uno scontro senza precedenti tra il capo, Giuseppe Pignatone, e il suo vice, Giancarlo Capaldo, proprio sulla gestione del caso Orlandi. La reazione di Pietro Orlandi, oggi, non si è fatta attendere. Nel blog ufficiale da lui fondato, oltre a dare notizia dell'intervista al maestro Miserachs, si fa presente che «eppure il Vaticano ha sempre smentito l’esistenza di un fascicolo o di indagini interne sul caso di Emanuela, anche di recente, nel libro del segretario personale di papa Ratzinger, mons. Georg Gänswein, si legge: "Io non ho mai compilato alcunché in relazione al caso Orlandi, per cui questo fantomatico dossier non è stato reso noto unicamente perché non esiste"». Evidentemente, prosegue la nota, «Gänswein si era dimenticato che nel 2019 lui stesso aveva fatto menzione a Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, dell’esistenza del fascicolo, incitandola ad insistere verso la Segreteria di Stato. Oggi scopriamo che invece le indagini furono fatte e che il Vaticano volle sentire proprio uno dei testimoni mai ascoltati dalla procura di Roma». 

Un'altra novità proveniente dall'interno delle Mura leonine riguarda un documento anagrafico reso anch'esso noto dal blog dedicato alla "ragazza con la fascetta", curato da persone di stretta fiducia della famiglia: si tratta dell'atto di  nascita di Emanuela Orlandi, che dimostra come la quindicenne avesse perduto la cittadinanza italiana e fosse stata "naturalizzata" cittadina vaticana non molto tempo prima della scomparsa, precisamente il 31 ottobre 1981. Nello stesso periodo da Rebibbia, dove era rinchiuso Alì Agca, iniziarono a trapelare voci secondo le quali l'attentatore di papa Wojtyla ("visitato" in carcere da due esponenti dei servizi segreti italiani) avrebbe ottenuto "la libertà entro due anni" tramite "il sequestro di due cittadini". Poi, a posteriori, si è visto come è andata: due ragazzine scomparse (Orlandi e la coetanea Mirella Gregori) circa due anni dopo e la concomitanza della richiesta dei rapitori, all'indomani del mancato ritorno a casa, di uno "scambio" tra le quindicenni e il Lupo Grigio. Pura coincidenza o la conferma della pista internazionale, che è stata a lungo la preminente? L'ottenimento della cittadinanza vaticana (necessaria ad attivare il ricatto contro papa Wojtyla, posto sotto pressione perché agevolasse la grazia al detenuto da parte del presidente Pertini) sembra avvalorare tale scenario. Così come il fatto che il conseguente cambio di residenza di Emanuela fu formalizzato nel marzo 1983, poche settimane prima della scomparsa. 

"Chiamato dal Vaticano". Parla il prof che vide per ultimo Emanuela Orlandi. Parla una delle ultime persone ad aver visto Emanuela Orlandi prima della scomparsa: il suo insegnante fu ascoltato in Vaticano nel 2012. Angela Leucci l’11 Marzo 2023 su Il giornale.

Un testimone mai ascoltato dalla procura di Roma sulla scomparsa di Emanuela Orlandi sarebbe invece stato ascoltato dalla Gendarmeria Vaticana. Le ombre sul caso dell’adolescente, cittadina vaticana sparita il 22 giugno 1983, sono tutt’altro che diradate, anche se al momento è stata aperta un’indagine che alimenta le speranze.

Quarto Grado ha raccolto il racconto di Valentino Miserachs, il religioso direttore della cappella musicale Santa Maria Maggiore ed ex insegnante di canto corale di Emanuela. L’uomo non fu ascoltato a suo tempo dalla magistratura, come invece avvenne per suor Dolores, direttrice della scuola oggi non più in vita, che testimoniò come Emanuela avesse chiesto di uscire prima perché aveva un appuntamento. Secondo Miserachs è più probabile che la propria lezione fosse terminata prima, perché, in vista di un imminente concerto, sarebbe iniziata ore prima del solito.

Sono stato interrogato qualche anno fa, c’era ancora Papa Ratzinger, che insistette per approfondire un po’ le indagini. Sono stato convocato nella Gendarmeria del Vaticano”, ha spiegato il religioso, aggiungendo che durante l’incontro ci fosse “una certa solennità”. Ci si chiede quindi se in effetti esista il dossier Orlandi che, nel suo libro, padre Georg Gänswein aveva affermato non esserci, ma al tempo padre Georg stesso aveva suggerito alla legale della famiglia Orlandi Laura Sgrò di richiederlo. “Secondo me le coincidenze non esistono”, ha chiosato Sgrò in collegamento con la trasmissione.

Miserachs sarebbe stato ascoltato 4 maggio 2012 alle 17: dieci giorni più tardi il corpo di Enrico De Pedis, criminale della Banda della Magliana noto come “Renatino”, sarebbe stato ritrovato sepolto nella basilica di Sant’Apollinare. In quel periodo infatti una telefonata anonima portò gli inquirenti sulla tomba di De Pedis, formulando l’ipotesi che Emanuela potesse essere stata seppellita con il boss.

"Il Papa…". La rivelazione nell'audiocassetta sulla Orlandi

Quest’eventualità viene smentita a Quarto Grado dall’addetto alle sepolture Franco De Gese, detto “Franchino il becchino”, che spostò il corpo di De Pedis dal Verano a Sant’Apollinare, aggiungendo il rivestimento di piombo come da legge vaticana. Secondo De Gese, Emanuela lì “non ci sarebbe potuta entrare, il sarcofago era da un posto”, spiegando di aver provveduto in prima persona a svestire e rivestire De Pedis per l’inumazione.

Purtroppo siamo sempre lì, nonostante siano passati 40 anni - ha commentato in collegamento il fratello della scomparsa Pietro Orlandi, riferendosi alla sepoltura di De Pedis - Ricordo benissimo quel periodo, quando avevano alzato delle palizzate intorno alla basilica, alla scuola di Emanuela per fare dei lavori. Purtroppo quello che ho sempre detto, che quel legame - Stato, Chiesa, criminalità - ha occultato e ha continuato a occultare sempre la verità sulla scomparsa di Emanuela. E lì, all’interno di quella basilica, è rappresentato benissimo”. Orlandi ha anche aggiunto che “alcuni studenti all’epoca, prima che succedesse di Emanuela, hanno visto più volte De Pedis nella scuola parlare con suor Dolores”.

Estratto dell’articolo di Andrea Bulleri per “il Messaggero” l’8 marzo 2023.

Una scomparve il 22 giugno, dopo essere uscita da una lezione di musica in piazza Sant'Apollinare. Dell'altra, invece, non si avevano più notizie già dal 7 maggio, da quando era scesa sotto casa in via Nomentana dopo aver risposto al citofono: «Torno tra dieci minuti», le sue ultime parole.

A quarant'anni da quella doppia sparizione che scosse l'Italia del 1983, toccherà a una commissione d'inchiesta provare a fare luce sui casi di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Obiettivo: arrivare a una verità a cui quattro decenni di inchieste, depistaggi, false piste e presunte rivelazioni che hanno tirato in ballo Vaticano, servizi segreti e banda della Magliana, non sono mai riuscite a condurre.

Il primo via libera al nuovo organo, che avrà gli stessi poteri concessi all'autorità giudiziaria, è previsto per oggi in commissione Affari costituzionali. Mentre il 20 marzo la proposta dovrebbe approdare a Montecitorio per ricevere l'ok dell'Aula. Un ok che appare praticamente scontato, visto che sul dossier dopo un rinvio iniziale nelle scorse settimane si è registrata la convergenza di maggioranza e opposizione.

Ieri, non a caso, è stata approvata all'unanimità un emendamento del deputato dem Roberto Morassut, tra i primi (insieme al pentastellato Francesco Silvestri) a impegnarsi coi familiari delle due ragazze all'epoca quindicenni per far sì che il caso, dopo quarant'anni d'inchieste giudiziarie e giornalistica (ultima la docu-serie "Vatican Girl" di Netflix), approdasse finalmente all'attenzione del Parlamento.

[…] Per Morassut il passaggio è tutt'altro che simbolico. «Dove in quattro decenni non è arrivata la giustizia ordinaria, non escludo che possa arrivare il Parlamento». Il cui ruolo, osserva, potrebbe rivelarsi «determinante», «anche per facilitare un rapporto più diretto con le autorità vaticane». […]

Il sacerdote è stato l’ultimo a vedere la ragazza con la fascetta. Emanuela Orlandi e le indagini segrete in Vaticano, parla il maestro di musica: “Mi chiesero cosa sapevo sulla scomparsa”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 12 Marzo 2023

Nel 2012 fui chiamato per volere di Benedetto XVI, per parlare di quello che ricordavo del giorno in cui scomparve Emanuela Orlandi. Fu proprio papa Ratizinger a volere queste indagini”. A parlare è monsignor Valentino Miserachs, il maestro di canto di Emanuela, l’ultimo a vederla prima della sua scomparsa: il 22 giugno 1983 fece lezione di musica come sempre. Quello stesso giorno la ragazza non fece più ritorno a casa. Le rivelazioni del prelato fatte a Quarto Grado aprono a nuovi e inediti scenari: l’inchiesta annunciata lo scorso gennaio dalla magistratura vaticana è o no la prima in assoluto, nelle sacre mura, sulla scomparsa di Emanuela Orlandi?

A ricostruire la faccenda è il Corriere della Sera. Secondo quanto riportato dal maestro di musica oltre dieci anni fa il Vaticano avrebbe dunque svolto interrogatori sulla scomparsa della “ragazza con la fascetta”. Lo fece con massimo riserbo e nello stesso periodo in cui indagava anche la magistratura italiana. Il quotidiano riporta che le autorità ecclesiastiche fin ora hanno negato di custodire un “dossier”, di cui il fratello Pietro è invece convinto dell’esistenza. Sembrava che in passato non fosse stata fatta dunque alcuna indagine formale sulla vicenda. Ma ora le rivelazioni di monsignor Valentino Miserachs aprono a nuovi scenari.

Il maestro di musica ha raccontato di essere stato convocato il 4 maggio 2012 alle 17, dalla Gendarmeria vaticana. “Era presente il capo della Gendarmeria Domenico Giani, un suo vice e l’assessore alla Segreteria di Stato, Peter Wells”, ha detto. Gli fu domandato se la ragazza gli avesse chiesto di finire prima la lezione e come fosse il suo stato d’animo alla luce della proposta di “un lavoro Avon” ricevuta prima di arrivare a Sant’Apollinare, che rappresentò la trappola per allontanarla da casa.

C’era una certa solennità – ha raccontato il prelato in Tv – c’erano il capo della Gendarmeria e l’assessore per gli Affari generali della Segreteria di Stato, Peter Bryan Wells, che rappresentava la parte ecclesiastica del Vaticano. Lui non ha aperto bocca, le domande le conduceva Giani. Ho raccontato quello che potevo sapere, ma non mi hanno detto niente di come si sono sviluppate le indagini. Non so neanche se avessero convocato altre persone, ma penso di sì”. Esattamente 9 giorni dopo quella convocazione in Vaticano nel 2012, il 13 maggio, fu aperta la tomba di Enrico De Pedis nella cripta della basilica di S. Apollinare in mezzo alle polemiche per quella “indegna sepoltura”.

E’ questo anche il periodo di un presunto scontro nella Procura di Roma proprio sulle indagini della scomparsa della ragazza. Pietro Orlandi nel suo blog ha commentato così le nuove rivelazioni: “eppure il Vaticano ha sempre smentito l’esistenza di un fascicolo o di indagini interne sul caso di Emanuela, anche di recente, nel libro del segretario personale di papa Ratzinger, mons. Georg Gänswein, si legge: ‘Io non ho mai compilato alcunché in relazione al caso Orlandi, per cui questo fantomatico dossier non è stato reso noto unicamente perché non esiste’”. Evidentemente, prosegue la nota, “Gänswein si era dimenticato che nel 2019 lui stesso aveva fatto menzione a Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, dell’esistenza del fascicolo, incitandola ad insistere verso la Segreteria di Stato. Oggi scopriamo che invece le indagini furono fatte e che il Vaticano volle sentire proprio uno dei testimoni mai ascoltati dalla procura di Roma”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La ricostruzione (smentita) del mancato scambio e di quel che avvenne. Emanuela Orlandi, la storia della “trattativa tra Vaticano e Procura per restituire il corpo”. Redazione su Il Riformista il 7 Marzo 2023

La scomparsa di Emanuela Orlandi avvenuta a giugno 1983 è un mistero senza fine. A 40 anni dalla sua scomparsa è tornato di attualità con la recente riapertura di un’inchiesta da parte della Santa Sede e le dichiarazioni del fratello, Pietro Orlandi a Di martedì. “Anni fa ci fu una trattativa tra Vaticano e Procura di Roma per la restituzione del corpo di mia sorella…”. Una intricata vicenda, uno scontro, che il Corriere ha ricostruito a partire da quando sarebbe avvenuto.

Qui di seguito la dichiarazione fatta da Pietro Orlandi a Di Martedì: “Uno dei magistrati, Capaldo, pochi anni fa ha avuto un incontro con due rappresentanti dello Stato Vaticano, una serie di incontri, il capitano della gendarmeria vaticana e il suo vice e venivano in rappresentanza dell’entourage di Ratzinger. In quel momento si parlava della sepoltura di De Pediis. Il Vaticano voleva che la magistratura togliesse quel corpo da là dentro (Basilica di Sant’Apollinare, ndr) perché imbarazzava molto la Chiesa. Capaldo in cambio chiese un aiuto per la questione di Emanuela. Alla fine di questi incontri Capaldo chiese, se Emanuela fosse morta, la restituzione del corpo. La risposta non è stata ‘come si permette’ ma ‘va bene, purchè la Procura – e qui c’è stata la corruzione vera e propri – imbastisca una storia verosimile che tolga qualunque responsabilità da parte del Vaticano. Il problema è che non si è fatto sentire nessuno, Capaldo pubblicamente fa una dichiarazione all’Ansa dicendo che “ci sono persone in vaticano che sono a conoscenza di tutto”. È intervenuto il nuovo capo della procura di Roma, Pignatone, che si era appena insediato, si è dissociato da quelle affermazioni, ha tolto l’inchiesta a Capaldo. C’è un’intercettazione di De Pediis che dice ad uno degli indagati, ‘meno male, stia tranquillo monsignore che è arrivato il procuratore nostro’, riferendosi a Pignatone. Ora dov’è Pignatone? Ha già fatto fuori Capaldo, il capo della mobile e ci ha messo i suoi e ha archiviato tutto. Pignatone ha archiviato tutto e papa Francesco appena ha finito il mandato lo ha promosso come presidente del Tribunale Vaticano”.

Secondo quanto riportato dal Corriere, l’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, è intervenuto poche ore dopo le affermazioni televisive di Pietro Orlandi (che nel frattempo non era stato smentito da coloro che aveva chiamato in causa) per chiarire di non aver “mai saputo nulla delle asserite interlocuzioni del dr. Capaldo con ‘emissari’ del Vaticano”, aggiungendo che lo stesso Capaldo, gerarchicamente a lui subordinato, “avrebbe dovuto” informarlo, tanto più che egli stesso gli aveva chiesto di essere tenuto “dettagliatamente” al corrente delle novità. Secondo la ricostruzione del Corriere si tratterebbe di un vecchio scontro riaffiorato nei tempi presenti. Una lite a cui, secondo il Corriere, seguì l’archiviazione del fascicolo Orlandi nel 2015.

Secondo quanto ricostruito dal quotidiano, la lite sarebbe da collocarsi ad aprile 2012. Il 2 alle 17.17, orario di un lancio dell’Ansa dal titolo: “Orlandi: pm Roma, verità su ragazza in Vaticano”. Prima riga: “La verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi sarebbe a conoscenza di personalità del Vaticano…”. L’affermazione veniva attribuita a generiche fonti “inquirenti” e da qui l’idea che almeno un magistrato aveva parlato di certe “omertà” nella santa Sede. Si pensò a Capaldo che, secondo il Corriere, in Tv raccontò, ormai da ex magistrato, di aver avuto un incontro con due alte personalità.

Nello stesso 2 aprile 2012, il secondo lancio Ansa, alle 17,31 proseguiva: “Per gli inquirenti è certo che nella vicenda ebbero un ruolo alcuni esponenti della banda della Magliana, forse già nel rapimento della ragazza, il 22 giugno 1983, ma più probabilmente nella gestione successiva..”. Il giorno seguente Pignatone smentì. Alle 13.20 del 3 aprile 2012 il lancio Ansa dal titolo: “Orlandi: indagine sarà coordinata da procuratore capo Roma”. Prima riga: “Pignatone, indiscrezioni ieri non esprimono posizione ufficio”. Il risultato immediato, più che la conoscenza della fine fatta dalle spoglie di Emanuela, riguardò l’”indegna sepoltura” del boss: dopo poco più di un mese, il 13 maggio 2012, sotto un enorme clamore mediatico, la salma di De Pedis fu traslata da Sant’Apollinare, spostata a Prima Porta e infine cremata per volere della moglie.

Secondo la ricostruzione del Corriere della Sera, da quel momento sarebbe cambiata la linea delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Capaldo avrebbe formalmente continuato a lavorare e svolgere interrogatori, ma in contatto costante con il capo. Accetti fu giudicato “inattendibile”, scartata l’audizione di altri testimoni, sorvolato sulle perizie foniche, e sarebbe stata ritenuta irrilevante una telefonata tra don Vergari e la vedova De Pedis nella quale quest’ultima definiva l’alto magistrato “Pignatone nostro”. E finì a un binario morto. La richiesta di archiviazione vistata da Pignatone poi sarebbe arrivata a maggio 2015, seguita dal rapido accoglimento (ottobre dello stesso anno) del gip Giovanni Giorgianni e dal sigillo della Cassazione nel maggio 2016.

Pietro Orlandi nel salotto di Di Martedì ha riportato alla memoria i fatti dell’epoca rendendo pubblica la storia di quella presunta “trattativa” e la relativa proposta di “scambio”. Capaldo, dopo il suo pensionamento dalla magistratura italiana nel marzo 2017, decise di scrivere un libro sul caso Orlandi; Pignatone, una volta andato in pensione, fu nominato presidente del Tribunale vaticano, di cui diede notizia ufficiale il Bollettino della Santa Sede, fu firmata personalmente da papa Francesco e risale al 3 ottobre 2019. Il prossimo 22 giugno saranno 40 anni dal mancato ritorno a casa di Emanuela Orlandi. Cosa sia successo resta ancora un mistero.

Il caso Orlandi e lo scontro Pignatone-Capaldo: ecco i retroscena della trattativa «per restituire il corpo di Emanuela». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 6 Marzo 2023

Nel 2012 da Piazzale Clodio filtrò una frase («qualcuno in Vaticano sa la verità»), che suscitò l'ira del procuratore. Lo "scambio" (mancato)  tra la rimozione della salma di De Pedis e il recupero dei resti di Emanuela

«Anni fa ci fu una trattativa tra Vaticano e Procura di Roma per la restituzione del corpo di mia sorella...» Sorpresa. Sgomento tra i telespettatori, molti dei quali devono aver pensato: «Ma se qualcuno dice di poter consegnare il cadavere, vuol dire che la ragazza è morta! E come?  Quando? La notizia allora è questa! Non si è mai saputo...» Nel mistero infinito di Emanuela Orlandi, tornato d'attualità con la recente apertura di un'inchiesta da parte della Santa Sede, è stato il fratello della quindicenne scomparsa nel giugno 1983 a mettere in luce un paradosso.  Pietro Orlandi (nella puntata della settimana scorsa di DiMartedì, su La7) ha riferito che «pochi anni fa» l'allora procuratore  aggiunto e titolare delle indagini, Giancarlo Capaldo, incontrò il comandante della Gendarmeria, Domenico Giani, il quale gli avrebbe proposto "uno scambio": la restituzione della salma di Emanuela per ottenere "un aiuto" dalla Procura a togliere i resti del boss della Magliana, Enrico De Pedis, dalla basilica di Sant'Apollinare, liberando così la Chiesa da una fonte di «grande imbarazzo».

Possibile? La fine è nota ma nessuno se ne era accorto? Mentre tutti da decenni si arrovellano sulla sorte toccata alla "ragazza con la fascetta", qualcuno se ne è rimasto acquattato essendo addirittura a conoscenza del luogo in cui sarebbe stato occultato il corpo? Alla luce della gravità (e della rilevanza come notitia criminis) di tali voci, l'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, è intervenuto poche ore dopo le affermazioni televisive di Pietro Orlandi (che nel frattempo non era stato smentito da coloro che aveva chiamato in causa) per chiarire di non aver «mai saputo nulla delle asserite interlocuzioni del dr. Capaldo con "emissari" del Vaticano», aggiungendo che lo stesso Capaldo, gerarchicamente  a lui subordinato, «avrebbe dovuto» informarlo, tanto più che egli stesso gli aveva chiesto di essere tenuto «dettagliatamente» al corrente delle novità. Un vecchio scontro tra toghe è riaffiorato, insomma. Il capo contro il suo vice, che si ritrovò "sollevato" dall'oggi al domani da una delle inchieste più delicate del dopoguerra. Retroscena importanti, oltretutto, perché la pubblica lite precedette l'archiviazione del fascicolo Orlandi nel 2015. Una vicenda che adesso il Corriere è in grado di ricostruire, passo dopo passo. 

Il primo elemento da chiarire è temporale: quando si sarebbe svolta l'opaca e per certi versi incredibile trattativa attorno a due corpi, l'uno da restituire e l'altro da estumulare? Pietro Orlandi, in tv, ha parlato di "pochi anni fa", ma in realtà il redde rationen Pignatone-Capaldo risale a oltre un decennio fa. Lo scontro ai vertici di Piazzale Clodio deflagrò infatti il 2 aprile 2012, in seguito a un servizio dell’Ansa diffuso alle ore 17,17. Titolo: «Orlandi: pm Roma, verità su ragazza in Vaticano». Prima riga: «La verità sulla scomparsa di Emanuela Orlandi sarebbe a conoscenza di personalità del Vaticano…” Una bomba. L’affermazione veniva attribuita a generiche fonti “inquirenti”, ma l’autorevolezza dell’agenzia metteva al riparo da forzature o abbagli: la deduzione immediata di cronisti e osservatori fu che evidentemente almeno un magistrato contattato dall'Ansa si era lasciato andare off the records, dicendosi certo che nella Santa Sede ci fossero state omertà da parte di qualcuno che continuava a tacere dopo 40 anni dai fatti, pur sapendo cosa fosse accaduto alla figlia del messo pontificio. Tutti pensarono a lui: Capaldo. E in effetti in alcune successive esternazioni televisive sarà lui stesso, ormai da ex magistrato (essendo andato nel frattempo in pensione), a confermare di aver avuto un incontro con due alte personalità. 

Le polemica sull'«indegna sepoltura»

Ma non basta. Restando a quel 2 aprile 2012, va segnalato che il secondo lancio Ansa, alle 17,31, aveva dato un ulteriore dispiacere Oltretevere: «Per gli inquirenti è certo che nella vicenda ebbero un ruolo alcuni esponenti della banda della Magliana, forse già nel rapimento della ragazza, il 22 giugno 1983, ma più probabilmente nella gestione successiva...” Malavita e tonache in qualche modo complici, dunque. Un legame reso evidente, proprio in quelle settimane del 2012, dalle manifestazioni organizzate da Pietro Orlandi davanti alla basilica di Sant'Apollinare dove, nel 1990, era stato sepolto, grazie ai buoni uffici del rettore Pietro Vergari e al nulla osta del cardinale vicario Ugo Poletti, il boss della Magliana Enrico De Pedis, detto "Renatino".

La reazione del Procuratore

La tensione 11 anni fa era ai massimi livelli, insomma. Durante i sit-in organizzati dal fratello di Emanuela, la Santa Sede aveva addirittura inviato agenti dei servizi segreti interni, armati di teleobiettivo, per fotografare i presenti. D'altra parte, non era mai successo: per quanto di pista interna si fosse ripetutamente parlato sia per l’attentato a papa Wojtyla  (maggio 1981) sia per il sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori (maggio e giugno 1983), mai si era consumato uno "strappo" di tale rilievo, tale da poter incrinare i rapporti tra Italia e Città del Vaticano. Mai singoli magistrati avevano "spifferato" ai cronisti le loro convinzioni, violando platealmente il segreto istruttorio. E infatti la reazione del capo - rapida come lo è stata quella della settimana scorsa - era arrivata. Il giorno seguente Giuseppe Pignatone aveva rimesso le cose a posto. Alle 13.20 del 3 aprile 2012 era infatti andata in rete una notizia Ansa dal titolo: «Orlandi: indagine sarà coordinata da procuratore capo Roma». Il classico pugno sul tavolo. Prima riga: «Pignatone, indiscrezioni ieri non esprimono posizione ufficio». E ancora, nel testo, concetto rafforzato e ripetuto: «Le dichiarazioni e le valutazioni sul procedimento per la scomparsa della Orlandi attribuite da alcuni organi di informazione ad anonimi inquirenti della Procura di Roma non esprimono la posizione dell'ufficio». Il risultato immediato, più che la conoscenza della fine fatta dalle spoglie di Emanuela, riguardò l'«indegna sepoltura» del boss: dopo poco più di un mese, il 13 maggio 2012, sotto un enorme clamore mediatico, la salma di De Pedis fu traslata da Sant'Apollinare, spostata a Prima Porta e infine cremata per volere della moglie, Carla Di Giovanni.

L'inchiesta verso l'archiviazione 

La svolta, quindi, riguardò solo uno dei due corpi oggetto della sbandierata "trattativa". E soprattutto si realizzò per effetto di uno scontro senza precedenti ai vertici del più importante ufficio giudiziario italiano, su un cold case da sempre caratterizzato da ombre e verità inconfessabili. Il cambio di linea nelle indagini sulla scomparsa di Emanuela, in quel 2012, fu in effetti radicale, anche se Capaldo formalmente continuò a lavorare e svolgere interrogatori, in contatto costante con il capo. La sorte dell'inchiesta-bis Orlandi-Gregori (dopo quella del periodo 1983-1997) era tuttavia segnata. Nel 2013-2014 – liquidato come "inattendibile" il reo confesso Marco Accetti (nonostante l'uomo avesse consegnato il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello della ragazza e dato più prove della sua presenza sulla scena), scartata l'audizione di altri testimoni, sorvolato sulle perizie foniche, ritenuta irrilevante una telefonata tra don Vergari e la vedova De Pedis nella quale quest’ultima definiva l’alto magistrato «Pignatone nostro» (stessa frase ripetuta l'altro giorno da Pietro Orlandi in tv) -  l'inchiesta finì su un binario morto. Esautorato il procuratore aggiunto Capaldo, la richiesta di archiviazione sollecitata e vistata da Pignatone (senza la firma di Capaldo) giunse nel maggio 2015, seguita dal rapido accoglimento (ottobre dello stesso anno) del gip Giovanni Giorgianni e dal sigillo della Cassazione nel maggio 2016. 

Capaldo scrittore, Pignatone in Vaticano 

Finale di partita. Giallo nel cassetto. Riassumendo: 11 anni fa era venuto alla luce il dissidio ai vertici della Procura romana e oggi Pietro Orlandi va oltre: fornisce anche i contenuti di quei colloqui tanto controversi tra Capaldo e il comandante Giani, rendendo pubblica la "trattativa" e la proposta di "scambio". La sua fonte è il magistrato-scrittore? In ogni caso, a indagini archiviate, fu il momento del congedo e dei saluti ai colleghi di Piazzale Clodio. Capaldo, dopo il suo pensionamento dalla magistratura italiana nel marzo 2017, decise di scrivere un libro sul caso Orlandi (restando però cauto, solo nomi di fantasia) e accettò diverse comparsate televisive in cui parlò - tra molte esitazioni - della vecchia e indimenticata (soprattutto da Pietro Orlandi) "trattativa". Da parte sua Pignatone, anche lui nel frattempo giunto all'età della quiescenza, si prese alcuni mesi di pausa ma tornò presto in pista, da magistrato, nello Stato confinante: la sua nomina a presidente del Tribunale vaticano, di cui diede notizia ufficiale il Bollettino della Santa Sede, fu firmata personalmente da papa Francesco e risale al 3 ottobre 2019. Siamo all'oggi, alle nuove polemiche e alle novità che via via continuano ad affiorare. 

L'inchiesta collegata su Katy

L'affaire Orlandi è sempre di attualità, anche perché nel frattempo la Procura di Roma ha aperto un'inchiesta parallela, con il pm Erminio Amelio, sul giallo collegato di Katy Skerl, dopo la scoperta (nell'estate 2022) del furto della bara della 17enne (uccisa a Grottaferrata nel 1984). Al centro delle indagini è tornato lui, "l'uomo del flauto", quel Marco Accetti che si è dimostrato informato non solo sulla Orlandi, sulla Mirella Gregori, sulla Skerl, ma che fu protagonista diretto dei fatti (c'era lui al volante del furgone) nell'investimento mortale del piccolo Josè Garramon nella pineta di Castel Fusano (dicembre 1983). Misteri mai risolti, depistaggi, reticenze. Scontri nelle istituzioni e speranze di giustizia. Va avanti così dal secolo scorso: il prossimo 22 giugno saranno 40 anni dal mancato ritorno a casa di quella ragazzina dal viso pulito e tanti la stanno ancora aspettando. (fperonaci@rcs.it)    

"Il Papa…". La rivelazione nell'audiocassetta sulla Orlandi. Prosegue l'analisi sull'audiocassetta legata alla scomparsa di Emanuela Orlandi: sul lato A c'è un proclama con delle richieste al Vaticano. Angela Leucci il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Continua il giallo sulla audiocassetta che conterrebbe presunte violenze e torture su una donna e che è legata al caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. La giovane cittadina vaticana, scomparve a fine giugno 1983 e il nastro in questione fu recapitato il 17 luglio successivo alla sede Ansa. Tuttavia si sta vagliando l’ipotesi che non sia un originale.

Il lato B della audiocassetta, come detto, contiene frasi pronunciate da una giovane donna che esprime dolore e sofferenza. Ma ci sono delle piccole parti silenziose che il perito della famiglia Orlandi Marco Perino ha definito “pezzi messi lì, come pezzi messi dove si vuole. Ci fanno presumere che siano frasi montate”.

Il lato A è ancor più misterioso, ed è stato fatto ascoltare per la prima volta da Quarto Grado. Si sente la voce di un uomo, con accento straniero, che parla lentamente e pronuncia un proclama di 31 minuti: “Ci troviamo a mutare la considerazione nella giovane età della cittadina Orlandi Emanuela […] Con l’attesa dell’appello precipuo del capo di stato Giovanni Paolo II”. Sul lato A non si evidenzia nessun taglio, ma contiene la richiesta di liberazione di Ali Mehmet Agca, che aveva sparato al papa, ma anche un’altra richiesta: una linea telefonica dedicata con la segreteria di Stato Vaticano, cosa che poi in effetti è arrivata.

Ci si chiede se il lato B della cassetta, a questo punto sia stato duplicato, e quando sia stato registrato il lato A. O se i due lati in realtà non abbiano nulla a che fare tra loro e questo sia solo l’ennesimo depistaggio sul caso. Una futura analisi delle voci contenute nell’audiocassetta potrebbe dire di più, tuttavia non esistono al momento nastri con la voce originale di Emanuela per effettuare un confronto.

Quarto Grado ha ritrovato alcuni documenti molto importanti intanto. Si tratta di una documentazione risalente al 1993, 10 anni dopo la scomparsa di Emanuela, in cui il giudice Adele Rando chiede al Sismi il faldone contenente le indagini sui casi di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Pare ci fossero 4-5 faldoni assemblati dai servizi segreti e conservati nella stanza 202 ma non si trovano più.

Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ha spiegato alla trasmissione che ha trovato una parte della documentazione del Sismi sparsa nei faldoni della procura, ma che al momento è altrettanto fondamentale analizzare il nastro: “Capiremo se qualcuno all’interno degli apparati dello Stato ha manipolato questa cassetta”.

Intanto si apprende dalla legale della famiglia Orlandi Laura Sgrò che la commissione parlamentare sul caso di Emanuela è stata calendarizzata per il voto il 20 marzo 2023.

Caso Emanuela Orlandi, ecco perché il governo ha chiesto di bloccare la commissione parlamentare. VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 28 febbraio 2023

L’esecutivo ha chiesto di sospendere l’esame del disegno di legge istitutivo della bicamerale per «ulteriori approfondimenti». Alla Camera si parla del reale motivo, solo in serata arrivano le specificazioni del presidente della commissione e la garanzia che il provvedimento sarà in aula il 20 marzo

Il governo ha deciso di sospendere i lavori sulla commissione di Inchiesta sul caso Emanuela Orlandi, che si ripromette di indagare sul mistero della sparizione della cittadina vaticana avvenuto nel 1983. A quarant’anni da allora l’esecutivo si preoccupa per l’avvio dei lavori e ha chiesto al presidente della commissione Affari costituzionali, Nazario Pagano, di prendere tempo per l’esame del disegno di legge istitutivo della bicamerale per «ulteriori approfondimenti».

Dietro la scelta raccontano in parlamento ci sarebbe il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, fortemente legato agli ambienti cattolici. Mantovano in passato ha presieduto la fondazione pontificia “Aiuto alla chiesa che soffre”, che si occupa di dare sostegno ai cattolici perseguitati. Un legame di cui non fa mistero, visto che ancora oggi dispensa solidarietà alla sua vecchia associazione con note ufficiali di Palazzo Chigi.

Dopo qualche ora è arrivata la risposta da parte di Palazzo Chigi: «In relazione ad indiscrezioni circolate su alcune testate riguardanti il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Alfredo Mantovano, e un suo presunto ruolo nella sospensione dell’esame del disegno di legge istitutivo della bicamerale per procedere a ulteriori approfondimenti sul caso Orlandi, si sottolinea che queste sono prive di ogni fondamento». Al contrario, prosegue la nota, «il sottosegretario di recente ha incontrato il fratello di Emanuela Orlandi manifestando la piena disponibilità del governo per tutto ciò che può fare piena luce sulla vicenda».

In serata è intervenuto anche Pagano: «Ho posticipato la votazione per una semplice questione tecnica: mancavano i pareri del ministero della Giustizia sugli emendamenti presentati», motivazione non emersa durante la riunione. Riguardo l’esponente di palazzo Chigi «non c'è stata alcuna sollecitazione da parte di esponenti del Governo, men che meno del sottosegretario». I lavori, garantisce, proseguiranno in modo da rispettare i tempi previsti dalla conferenza dei capigruppo per l'approdo in Aula del provvedimento, cioè il 20 marzo. 

IL CASO

In vista dei 40 anni dalla sparizione di Emanuela Orlandi il prossimo 22 giugno, e dopo il dibattuto documentario su Netflix pubblicato nel 2022, il caso mai risolto è tornato al centro dell’attenzione.

Le piste che si sono susseguite nel tempo sono state le più svariate, dal rapimento a opera della Banda della Magliana per ricattare il Vaticano, al legame con una storia di pedofilia che come raccontato da un ex sodale della banda arriverebbe a coinvolgere anche il papa santo Giovanni Paolo II.

A gennaio, per la prima volta in assoluto, il Vaticano ha deciso di aprire un’inchiesta sulla sparizione dell’allora quindicenne. Una decisione che, come molti commentatori hanno notato, è arrivata a pochi giorni dalla morte del papa emerito Benedetto XVI. La famiglia, seguita dall’avvocata Laura Sgrò, aveva presentato un esposto alla procura vaticana nel 2019. Il promotore di giustizia Alessandro Diddi si è mosso a quasi quattro anni da allora, non prima che papa Francesco desse il suo via libera.

L’avvocata, insieme al fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, ha chiesto più volte che anche lo stato italiano agisca in maniera indipendente, per dare forza a un’indagine che, viste le forze ridotte del Vaticano, e dopo tutti questi anni dai fatti, rischierebbe di finire ancora una volta nel nulla.

Le proposte in parlamento sono state presentate dal deputato Pd, Roberto Morassut e dal pentastellato Francesco Silvestri già alla fine dell’anno scorso, per la pubblicazione dei testi ci sono volute settimane, e la commissione Affari Costituzionali ha cominciato a lavorarci da febbraio. Da allora però tutto sembrava procedere, e i parlamentari erano concordi nell’esaminare i fatti insieme al caso di sparizione di un’altra ragazza nel medesimo periodo, Mirella Gregori. Il provvedimento dovrebbe arrivare in Aula per l’approvazione a marzo e oggi sarebbe dovuto partire il voto degli emendamenti.

L’ipotesi che circola in ambienti parlamentari è che dietro la scelta di rinviare ci sia direttamente il Vaticano. Mantovano mantiene ancora forte il legame con gli ambienti pontifici, come dimostra la nota di sabato scorso: «Palazzo Chigi aderisce all’iniziativa della Fondazione pontificia Aiuto alla Chiesa che Soffre volta a commemorare il primo anniversario dell’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa. Le luci della facciata di Palazzo Chigi resteranno spente dalle ore 20:00 della giornata odierna alle ore 1:00 di domani 26 febbraio».

Morassut aveva chiesto spiegazioni sullo stop: «L’iniziativa è sorprendente, perché l'iter era già stato condiviso da tutti i gruppi parlamentari e gli stessi presidenti di Camera e Senato (dunque Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, ndr) avevano assicurato alle famiglie la massima celerità, cosa che effettivamente è avvenuta. Chiediamo all'esecutivo il motivo di questa decisione». Dello stesso tenore l’intervento di Silvestri: «Il governo non si nasconda e spieghi con urgenza quanto sta accedendo. Farlo è un suo dovere». A fine giornata, dopo che sono emerse le perplessità, sono arrivate le rassicurazioni. Il disegno di legge andrà avanti.

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica tra Pisa e Roma e la gavetta giornalistica nella capitale, si specializza in politica, energia e ambiente lavorando per Staffetta Quotidiana, la più antica testata di settore.

Caso Orlandi, Pignatone: «Non ho mai ostacolato le indagini. Capaldo non mi parlò di emissari in Vaticano». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l’1 marzo 2023.

L'ex procuratore di Roma attacca il suo vice (che nel 2015 si dissociò  dalla decisione di archiviare l'inchiesta) e il fratello di Emanuela. Pietro Orlandi: «Ecco come andò la trattativa»

«Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dr. Capaldo o dalle altre colleghe. Non ho mai avocato il procedimento relativo alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Dopo il mio arrivo da procuratore a Roma il dr. Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa della Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti». L'ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, oggi presidente del Tribunale vaticano (con nomina firmata da papa Francesco il 3 ottobre 2019), interviene sulla vicenda della "ragazza con la fascetta" scomparsa nel lontano 1983, polemizzando con l'ex suo vice, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, e con Pietro Orlandi. La materia del contendere, in particolare, è rappresentata da alcuni retroscena resi pubblici più volte dal fratello di Emanuela, da ultimo nella trasmissione "DiMartedì", andata in onda su La7 il 28 febbraio 2023.  

«Con riferimento alle ripetute dichiarazioni del dr. Capaldo e del sig. Pietro Orlandi sulla scomparsa di Emanuela Orlandi - ha spiegato all'Ansa l'ex capo di Piazzale Clodio - ritengo opportuno ribadire quanto già precisato il 13 dicembre 2021, e cioè che non ho mai saputo nulla delle asserite interlocuzioni del dr. Capaldo con "emissari" del Vaticano. Il dr. Capaldo non ha mai detto nulla in proposito, come invece avrebbe dovuto, né alle colleghe titolari (Simona Maisto e Ilaria Calò, ndr) insieme a lui del procedimento, né a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del caso Orlandi». 

La questione è delicata, anche perché Pietro Orlandi nella trasmissione de La7 ha fatto il nome di uno dei due presunti "emissari", l'ex comandante della Gendarmeria Domenico  Giani, e fatto intendere che i vertici vaticani fossero a conoscenza sia della morte di sua sorella sia del luogo dove sarebbe stato occultato il corpo. «Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017) - incalza Pignatone  -  il dr. Capaldo ha riferito in libri e interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo ancora un particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella Basilica di S. Apollinare non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come talvolta si afferma, così da ricollegarla temporalmente alle asserite "trattative". Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e di polemiche».

Cosa potrebbe fare il Promotore di giustizia vaticano - era stato chiesto a Pietro Orlandi, nel corso della trasmissione condotta da Giovanni Floris -  adesso che anche la Santa Sede ha aperto formalmente un'inchiesta? Risposta netta e assertiva del fratello della quindicenne mai più tornata a casa: «Intanto potrebbe ascoltare quei magistrati che si sono occupati dell’inchiesta… Sono successi fatti gravi… Uno dei magistrati, il dottor Capaldo, pochi anni fa avuto un incontro con il rappresentante dello Stato vaticano, anzi, una serie di incontri, c'era il comandante della Gendarmeria... Venivano in rappresentanza di papa Ratzinger... In quel momento si parlava della sepoltura di De Pedis e il Vaticano voleva che la magistratura togliesse De Pedis da Sant’Apollinare perché questo imbarazzava molto la chiesa». Una sorta di trattativa, insomma: «Capaldo ha aggiunto Orlandi - in cambio chiese un aiuto per la questione di Emanuela. Alla fine di questi incontri, chiese: se è morta garantiteci la restituzione del corpo. E la risposta non è stata  "Come si permette!" - ha concluso il fratello oggi 64enne - La risposta è stata: vabbè, purché la Procura  - e qui c’è stata una corruzione vera e propria - imbastisca una storia verosimile che tolga qualsiasi responsabilità al Vaticano». Accuse serie, alle quali, almeno finora, Giancarlo Capaldo non ha inteso replicare.

Le ultime due puntualizzazioni della nota all'Ansa di Pignatone riguardano proprio la questione della "indegna sepoltura" del boss della banda della Magliana e come si arrivò a chiudere il caso. L'attuale presidente del tribunale della Santa Sede ha aggiunto che Capaldo «ha anche disposto e coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant'Apollinare e i successivi scavi nella cripta, che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi». L'ex procuratore di Roma, infine, ha affermato che «la richiesta di archiviazione è stata decisa a maggioranza, al momento della scadenza dei termini delle indagini, tra i colleghi titolari del procedimento. Io ho condiviso e "vistato", quale Capo dell'Ufficio, tale richiesta, mentre il dr Capaldo, che non era d'accordo, ha rifiutato - come era suo diritto - di firmarla e ha quindi chiesto il 27 aprile 2015 che, secondo quanto previsto dalle circolari del Csm in materia, gli venisse revocata l'assegnazione del procedimento. La richiesta di archiviazione, presentata il 5 maggio 2015, è stata accolta dal gip, dopo che i familiari della Orlandi avevano presentato opposizione, il 19 ottobre dello stesso anno, e confermata definitivamente dalla Cassazione il 6 maggio 2016». 

Emanuela Orlandi e l’inchiesta del Vaticano, la madre di Josè Garramon: “Il Papa vuole verità, ma ha troppi nemici”. Fabrizio Peronaci su il Corriere della Sera il 23 febbraio 2023

Il ragazzino uruguaiano fu investito nella pineta di Castel Fusano dall’uomo che si è poi accusato del sequestro Orlandi: «Nel furgone c'era anche una amica e complice». La replica: «È una persecuzione: io semplice testimone» 

Papa Francesco l’ha già ricevuta quattro volte, esprimendole solidarietà e il fermo proposito di aiutarla. Quando ne parla, le si illuminano gli occhi: «Ogni mia speranza è riposta in questo Papa coraggioso e dal cuore grande. Sarei pronta a morire per lui, lo juro, anche se…» Maria Laura Bulanti Garramon, madre di Josè, il ragazzino uruguaiano di 12 anni ucciso nel dicembre 1983 dall’uomo che trent’anni dopo (marzo 2013) si è autoaccusato del sequestro Orlandi, in questi giorni è a Roma per turismo, con il figlio Martin (l’ultimo nato, Josè era il primo) e i nipoti. Parla un buon italiano, inframezzato da frasi in spagnolo. Siamo in un bar di largo Argentina. «Avrei potuto chiedere udienza in Vaticano oppure hablar de nuevo en tv, come qualche anno fa, per sensibilizzare tutti sull’assurda muerte del mio Josè - sorride la donna - ma questa volta ho preferito pensare a loro, ai ragazzi. I giovani hanno bisogno di guardare avanti. Stiamo andando in giro per musei, monumenti... Un dìa anche a Napoli, un dìa a Venezia per il Carnevale. Ma questo non vuole dire che mollo, la mia battaglia per la verità va avanti più forte di prima». 

Un'azione intimidatoria

La recente apertura di un’inchiesta in Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi ha alimentato le attese: Marco Accetti, il fotografo oggi 67enne che investì suo figlio nella pineta di Castel Fusano, è infatti presente in entrambi i casi e ciò potrebbe fornire al Promotore di giustizia della Santa sede nuovi spunti d’indagine. Qualche settimana fa Maria Laura Bulanti (vedova dalla scorsa estate, dopo la morte di suo marito Carlos) aveva rivelato al Corriere un suo convincimento, maturato dopo aver riletto le carte giudiziarie e studiato a fondo il profilo del personaggio. A suo avviso, Marco Accetti quel pomeriggio del 20 dicembre 1983 caricò José all’Eur e lo portò con il furgone Transit in direzione Ostia non autonomamente, ma «su ordine di qualche amico massone di suo padre, che era iscritto alla Loggia mediterranea, oppure di qualche faccendiere o criminale mai identificato». Il tutto con un obiettivo: «spaventare» lei e suo marito, frenare la loro attività di oppositori ai regimi di destra, che li aveva posti nel mirino delle polizie segrete alleate nel piano Condor. «L’intenzione di Accetti non era quella di uccidere. Sono convinta che voleva essere un’azione, come se dice en italiano?, intimidatoria. Però mio figlio era muy intelligente, tentò di fuggire e quel delinquente lo travolse e abbandonò sul ciglio della strada». 

«Accetti non era solo»

Per la prima volta aggiunge anche un dettaglio, la signora Bulanti: «Sono segurissima che Accetti non era da solo, a bordo del furgone, al momento dell’investimento del mio bambino. C’era anche una sua complice, Patrizia. Tanto che addosso ai suoi abiti furono trovate macchie di sangue. Lei ancora oggi dice molte bugie. No comprendo perché non è stata indagata». 

Signora, è un'accusa grave: nel processo l’alibi di Patrizia De Benedetti, ex fidanzata di Accetti, musicista e teatrante, ha retto. Consideri che, giusto qualche giorno fa, lei stessa ha confermato sui social di essere andata in pineta solo 7 ore dopo, in piena notte, per accompagnare l'ex compagno a riprendere il furgone incidentato. 

La risposta di Maria Laura Bulanti è tranchant: «So quel che dico. Non temo querele da questo personaggio e sarei felice di andare in tribunale contro di lei». 

«Io e mio marito contro la dittatura»

Nel ricostruire quella notte maledetta, Maria Laura si emoziona. «Se Accetti avesse dato immediatamente l’allarme, forse, Josè sarebbe vivo…» La donna si ripara dietro gli occhiali da sole. Fa una pausa, ordina un caffè. Poi riprende il filo del discorso: «Io e Carlos eravamo giovani, libertarios, sinceri democratici. Està seguro che i servizi segreti ci tenevano d’occhio, come accadeva al 50% della popolazione che si ribellò alla dittatura. Quando ci trasferimmo a Roma per il suo lavoro, noi aiutavamo i rifugiati dall’Uruguay. Anche mio fratello Bernardo era un tupamaro, un militante rivoluzionario». La pista del movente politico per spiegare il tragico rapimento di Josè, peraltro, è rafforzata dal ruolo di alto funzionario delle Nazioni Unite (presso l’Ifad, agenzia della Fao, in carico a Cuba) ricoperto all’epoca da Carlos Garramon. Il processo davanti alla Corte d'assise ad Accetti si concluse nel 1986 con una condanna mite (2 anni e 2 mesi per omicidio colposo e omissione di soccorso), né sono mai emerse prove su un movente di pedofilia, di predazione sessuale. 

L'amica torturata dalla polizia politica

«Vamos, i nipoti mi aspettano…» Ma, prima di salutare, la signora Bulanti racconta una seconda circostanza che ha sempre tenuto per sé. Un altro fatto completamente inedito: una sua conoscente uruguaiana, all'epoca in rapporto con l’uomo della P2 in Sud America, Umberto Ortolani, poche settimane prima dell’omicidio di Josè fu torturata dalle squadracce del regime e sia lei sia Carlos si spesero a suo favore. «Si chiama Cristina e fu sequestrata nell’autunno del 1983, basta andare a vedere i giornali di quel periodo. Io e mio marito eravamo qui in Italia e ci preoccupammo molto. Telefonavamo in Uruguay e nessuno ne sapeva nulla. Rischiava di diventare una desaparecida. Allora recuerdo che ci muovemmo a livello politico: mio marito contattò un parlamentare dell’allora Partito comunista, per chiedere un intervento sul gobierno di Montevideo. Andammo insieme, io e lui, nel suo ufficio qui vicino, nel centro di Roma. Poi Cristina fu liberata, dopo circa dieci giorni. Era distrutta nel fisico e nella mente…» 

«Il Papa vuole trasparenza su tutto»

Maria Laura si blocca di nuovo. Medita a lungo prima di concludere. «Tengo un dubbio muy grande. Non potrebbe essere stata questa la causa? Io e Carlos fu per questo aiuto a Cristina che diventammo bersaglio di forze oscure, e poi a pagare è stato nostro figlio?» Si tratta di una novità rilevante, mai messa a verbale. Una pista che inquadra la tragedia di Castel Fusano in uno scenario ben diverso da un incidente stradale: una rappresaglia. Sarà esaminata anch’essa nell’ambito dell’inchiesta sul caso Orlandi fortemente voluta da Bergoglio? «Io sono assolutamente segura che papa Francesco si sta impegnando al massimo per fare luce su tutte queste vicende, lui vuole sempre la verità. Però non so se ci riuscirà. È il Papa, ha un potere enorme, ma ha anche tanti nemici. Lui vuole fare il bene, vuole trasparenza su tutto. Forse anche troppo… E poi - conclude con un sorriso amaro la signora Garramon - ha 86 anni, speriamo che il Signore gli dia il tempo…»

La replica: «Calunnie. Io feci arrestare Marco»

La reazione di Patrizia De Benedetti alla signora Garramon non si è fatta attendere. L'ex fidanzata (oggi 66 enne) di Marco Accetti, nonché testimone dei fatti di quella notte (la coppia fu portata in caserma e interrogata dopo essere tornata sul posto per recuperare materiale fotografico lasciato nella boscaglia, assieme al furgone) ha chiesto la rimozione del presente articolo, scagliandosi contro "diffamazioni", "illazioni" e "insinuazioni", e precisato: «Io in realtà io sono stata una SEMPLICE TESTIMONE che nel 1983 parlando con i carabinieri, feci sì che venne identificato come pirata MORTALE della strada dopo appena 12 ore dall’investimento, l’investitore Marco Accetti che fu immediatamente ARRESTATO e in seguito condannato durante un processo in cui io fui ascoltata come TESTIMONE». 

«Ero a chilometri di distanza»

Patrizia De Benedetti, nel contestare la ricostruzione della mamma di José, secondo la quale era anche lei a bordo del furgone, aggiunge: «C'è da premettere che al momento dell’investimento mortale di José Garramon da parte del Marco Accetti, io ero a chilometri di distanza e in compagnia di numerose persone, le quali sono nominate e verificate nei vari verbali; io denunciai - anche senza volerlo - l’Accetti solo perché venni a sapere che il suo furgone era accidentato e ne parlai coi carabinieri. L’inchiesta si concluse con un processo in Corte d’Assise nel 1986 con la condanna del Marco Accetti per “omicidio colposo e omissione di soccorso”. Da mettere in evidenza che nessuno della famiglia Garramon fece ricorso in Appello». 

«Sempre stata antifascista»

Poi, ecco il riepilogo delle novità registrate 30 anni dopo: «Nel 2013, Maria Laura Bulanti Garramon, riuscì a farsi riaprire nuove indagini per una inchiesta nis “contro IGNOTI per sequestro e omicidio volontario” dalla Procura di Roma che però chiese l’archiviazione nel dicembre 2016 confermando che si trattò di “un investimento stradale colposo con omissione di soccorso”. La Bulanti Garramon presentò allora opposizione, ma la Cassazione nel febbraio 2017 confermò.  Non contenta ancora, la Bulanti Garramon nel novembre 2017 fece ricorso alla “Corte Suprema per i diritti dell’uomo” di Strasburgo in Francia, contro la “malagiustizia dell’ITALIA” chiedendo loro nuove successive indagini sulla morte di suo figlio, ma anche qui quella richiesta fu cassata». Insistendo nell'uso di maiuscole, Patrizia De Benedetti così conclude, accusando la mamma di José di essere una “eroina della BUFALE”, promotrice di una "campagna PSICOTICA calunniatrice" e "accusando ME di essere “complice in un assassinio” addirittura col paradosso che sarei stata, nel 1983, sotto gli ordini di alcuni MASSONI DEVIATI che operavano nella “dittatura civile-militare” di DESTRA dell’Uruguay! io metto semplicemente in evidenza che: SONO da sempre una persona con una ETICA filosofica corretta portata al dialogo e ad un confronto CIVILE delle questioni; SONO da sempre di estrema SINISTRA, militante negli anni ’70 e ’80 in gruppi extraparlamentari; SONO da sempre ANTIFASCISTA e ANTIMILITARISTA». 

"Mi fa male là". Le manipolazioni sulla cassetta con la voce di Emanuela Orlandi. Continuano da parte della famiglia le ricerche di Emanuela Orlandi: al vaglio degli esperti un'inquietante audiocassetta con presunte manipolazioni. Angela Leucci il 18 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Continua l’analisi sull’audio recapitato all’Ansa a luglio 1983 e molto probabilmente in relazione con la scomparsa di Emanuela Orlandi. Ci sono al lavoro i periti di parte della famiglia, tra cui il consulente fonico Marco Perino.

Emanuela Orlandi è una giovane cittadina vaticana che scomparve il 22 giugno 1983 in circostanze misteriose. Da allora sono state seguite diverse piste, ma dopo quasi quaranta anni non ci sono certezze di nessun tipo.

Quarto Grado ha ricostruito un’ipotesi su cosa possa essere accaduto al nastro attualmente esistente, che non è l’originale, sulla scorta degli insoliti tagli e click che si trovano sul lato B dell’audiocassetta. A un certo punto si avvertono anche un innesco e un abbassamento di volume, mentre i lamenti di una ragazza che dice “Lasciami” sono ben evidenti. In un pezzo isolato, tra spazi muti, si sente la stessa ragazza affermare: “Mi fa male là”. Cosa c’era in quegli spazi, le voci maschili che si presume siano sparite via via? E se c’erano, perché sono state eliminate, forse qualche voce poteva essere riconosciuta?

Sembrano voci di diverse ragazze”, ha spiegato a Quarto Grado Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, aggiungendo però che esistono nell’audio diverse frasi di senso compiuto che, ancora oggi, a molti anni di distanza, lui è certo appartengano alla sorella. Pietro Orlandi chiede che qualche analista del Sismi, che a suo tempo lavorò all’audiocassetta, si faccia avanti per prestare testimonianza.

Vai più in alto”: Emanuela Orlandi e i segreti della cassetta

Gli esperti si sono concentrati anche su un suono che si sente a un certo punto: potrebbe essere quello di un proiettore o di una cinepresa. Se fosse una cinepresa, significa che qualcuno avrebbe filmato ciò che stava accadendo: a giudicare dai lamenti di dolore si potrebbe ipotizzare quasi uno snuff movie. Tuttavia Perino e gli altri consulenti propendono per la possibilità che il suono sia proprio quello di un proiettore: questo spiegherebbe i rumori di fondo e l’impressione che quella cassetta sia una registrazione di una registrazione. A suo tempo quell’audio fu bollato come opera di un mitomane, che aveva utilizzato dei rumori provenienti da un film porno.

Intanto ci sono delle novità in relazione alla commissione parlamentare sul caso Orlandi. L’avvocato della famiglia Laura Sgrò ha spiegato a Quarto Grado che il 21 febbraio è attesa la discussione, mentre il voto è previsto a marzo. Potrebbe essere un ulteriore importante passo per il raggiungimento della verità.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 febbraio 2023.

Ci sono voluti 40 anni per vedere il Parlamento avviare un percorso di ricerca della verità su uno dei casi più complicati della storia recente (ma neanche tanto) italiana. Adesso pare che qualcosa si stia muovendo. Il 15 febbraio alla Camera, la Commissione affari costituzionali avvierà l’esame, in sede referente, della proposta di legge “volta all’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi”.

 Una vicenda intorno alla quale le supposizioni, le ricostruzioni e anche le linee investigative sono state tantissime. Tuttavia nessuna delle diverse inchieste della procura di Roma ha mai portato a niente. Le attività degli investigatori hanno riguardato i Lupi Grigi, la Banda della Magliana, i servizi segreti esteri, il terrorismo internazionale, la pista sessuale che coinvolgeva alti prelati, i soldi della mafia riciclati nello Ior e infine anche la politica che la Santa Sede avrebbe dovuto tenere con l’Urss. […]

Per questo una commissione d’inchiesta avrebbe, qualora si istituisse, un compito ambizioso. Scoprire ciò che è accaduto a partire dal 22 giugno 1983, quando Emanuela scomparve nel nulla. Dal 15 febbraio si lavorerà attorno a una proposta del capogruppo alla Camera del Movimento 5 Stelle Francesco Silvestri e della deputata di Fratelli d’Italia Sara Kelany. […]

 Pietro, il fratello della vittima, che da anni si batte per ottenere giustizia spiega di essere «felicemente sorpreso, vedo che destra e sinistra si stanno occupando di questo delicato caso senza litigare. È giusto che sia così, la commissione non potrà avere un colore politico. È la nota positiva che ho rilevato in questi giorni. Quella negativa riguarda il Vaticano. […]

Eppure noi da un anno abbiamo comunicato di avere in mano dei documenti importanti (chat Whatsapp tra alti prelati) che vogliamo produrre. Il comportamento dei pm della Santa Sede non mi è del tutto chiaro. Vogliamo verità basta depistaggi». Adesso l’obiettivo e la speranza è che la Commissione venga istituita. A quel punto le famose chat di cui parla Pietro Orlandi potranno essere acquisite dal Parlamento per poter svolgere le indagini.

La scomparsa e "l'Amerikano": "La Orlandi? Cercate Mirella". Mirella Gregori scomparve da Roma, all'età di 15 anni, il 7 maggio del 1983. Il caso fu affiancato, a più riprese, alla vicenda di Emanuela Orlandi. L'appello: "Ci sono intercettazioni che andrebbero approfondite". Rosa Scognamiglio il 10 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 La scomparsa di Mirella Gregori

 Mirella come Emanuela?

 Le nuove indagini sul caso Orlandi

 L'appello: "Bisogna cercare Mirella"

"La Procura di Roma indaghi sulla scomparsa di Mirella Gregori. Ci sono intercettazioni che andrebbero approfondite e testimonianze da rivalutare". È l'appello del giornalista e scrittore Mauro Valentini, che da anni si batte al fianco di Maria Antonietta Gregori, la sorella di Mirella, nel tentativo di far luce sul caso della quindicenne scomparsa da Porta Pia, a Roma, il pomeriggio del 7 maggio 1983. "Dopo 40 anni è giunto il momento di fare chiarezza. La famiglia Gregori merita di conoscere la verità", dice a ilGiornale.it il giornalista d'inchiesta.

"C'è qualcosa di sistematico su quelle sparizioni". Cosa pensa il magistrato del caso Orlandi

La scomparsa di Mirella Gregori

Mirella aveva 15 anni quando scomparve. Attorno alle ore 15 del 7 maggio 1983 la ragazza uscì di casa, un appartamento della palazzina al civico 91 di via Nomentana, a Roma. Un amico, tal "Roberto", spacciandosi per un ex compagno di classe le citofonò convincendola a scendere. La ragazzina raccontò alla madre che avrebbe raggiunto alcuni amici a piazza Porta Pia, rassicurandola che sarebbe rientrata presto: svanì nel nulla.

A tarda sera mamma Vittoria denunciò la scomparsa della figlia alla polizia. Gli agenti "lasciarono intendere che mia sorella si fosse allontanata volontariamente", raccontò alla nostra redazione Maria Antonietta Gregori. Ma l'ipotesi dell'allontanamento volontario sfumò col trascorrere dei giorni. "Mirella non si allontanò da casa di sua iniziativa", spiega Mauro Valentini che sul caso di Mirella Gregori ha scritto un libro-inchiesta, Mirella Gregori-Cronaca di una scomparsa.

Poi aggiunge: "Bisognava cercare Mirella subito e invece, a parte i familiari, nessuno si preoccupò di provare a capire cosa potesse esserle accaduto. Stiamo parlando di una ragazzina perbene, molto legata alla famiglia e senza grilli per la testa. Abitava in via Nomentana, al quartiere Porta Pia, dove c'è sempre stato un gran viavai di persone. È mai possibile che nessuno l'abbia vista quel pomeriggio?".

Quell'estate maledetta delle ragazze scomparse

Mirella come Emanuela?

Per settimane la vicenda di Mirella Gregori passò quasi in sordina sui giornali. Le cose cambiarono quando, il 22 giugno 1983, un'altra 15enne scomparve da piazza Sant'Apollinare, a Roma, in circostanze misteriose: si trattava di Emanuela Orlandi. "Evidentemente qualcuno ritenne che ci fosse una correlazione tra i due casi - spiega il giornalista Valentini - E da quel momento, le storie di Emanuela e Mirella si intrecciarono".

Ad avvalorare l'ipotesi di una possibile correlazione tra la scomparsa di Mirella e il presunto "rapimento" di Emanuela (così come ritiene opportuno definirlo Pietro Orlandi), fu una telefonata ricevuta dalla famiglia Gregori in cui un uomo con l'accento straniero, soprannominato poi "l'Amerikano", dichiarò di avere notizie di Mirella. Questi chiese ai genitori della 15enne di intercedere con l'allora presidente della Repubblica Sandro Pertini per la liberazione di Ali Ağca, il terrorista turco accusato per l'attentato a Papa Wojtyla: in cambio avrebbe fornito notizie della figlia. "L'Amerikano" è il nome della persona che, il 5 luglio del 1983, per la prima volta, telefonò a casa Orlandi promettendo il rilascio di Emanuela, anche in questo caso, in cambio della liberazione di Ağca.

"Fu soltanto allora che la Procura di Roma si interessò anche di Mirella, un caso che finì nelle ultime pagine (circa una ventina o poco più) del doppio fascicolo 'Orlandi-Gregori' - ricorda Valentini - Ma io credo che non vi sia alcuna correlazione tra le due vicende. Del resto nell'ipotesi in cui qualcuno avesse avuto intenzione di 'usare' Mirella come 'esca' per una eventuale trattativa, perché si sarebbe fatto vivo tre mesi dopo la scomparsa?". Diversa è invece la posizione di Maria Antonietta Gregori che non esclude l'ipotesi di una correlazione tra le due ragazze. Circostanza, peraltro, avvalorata dal fatto che il telefonista stranierò riferì alcuni dettagli sui vestiti indossati da Mirella il giorno della scomparsa.

"Lo conoscevo". L'intercettazione unisce Emanuela, Mirella ed Elisa Claps

Le nuove indagini sul caso Orlandi

Il 9 gennaio 2023 la magistratura vaticana ha annunciato la riapertura delle indagini sul caso di Emanuela Orlandi. Nella fattispecie gli inquirenti analizzeranno gli atti delle prime indagini, ovvero quelli relativi al procedimento della Procura di Roma sulle sparizioni di Orlandi e Gregori. Il fascicolo venne archiviato nel 2015 su richiesta dell'allora procuratore capo Giuseppe Pignatone (attualmente presidente del Tribunale Vaticano) e dai sostituti Ilaria Calò e Simona Maisto.

"Sono contento ma al contempo anche un po' preoccupato per la riapertura delle indagini sulla scomparsa di Emanuela - commenta Mauro Valentini - Il dottor Giuseppe Pignatone fu colui che dapprima avocò a sé il caso e poi lo archiviò. Voglio credere e sperare che questa volta l'esito degli accertamenti sarà diverso. Mi auguro vivamente che la vicenda non si concluderà con l'ennesima archiviazione".

"Riesaminare tutte le piste". Il Vaticano riapre il caso Orlandi

L'appello: "Bisogna cercare Mirella"

Così come Pietro Orlandi non ha mai smesso di reclamare giustizia e verità per sua sorella, anche la famiglia Gregori chiede sia fatta chiarezza sulla scomparsa di Mirella. "Ci sono intercettazioni da approfondire e testimonianze da rivalutare - ribadisce con forza Mauro Valentini - È assurdo che non ci sia un fascicolo relativo unicamente alla scomparsa di Mirella Gregori. Stiamo parlando di una cittadina italiana, una ragazza che al tempo aveva appena 15 anni ed era figlia di due persone perbene, umili e lavoratori instancabili".

Poi il giornalista conclude: "Rivolgo un appello alla Procura di Roma affinché indaghi nuovamente, che analizzi gli atti e i documenti dell'epoca perché questa vicenda non merita l'oblio. Non è che Mirella non sia stata trovata, non è mai stata cercata. Dopo 40 anni è il caso che qualcuno, chi sa o può testimoniare qualcosa, si metta la mano sulla coscienza".

"C'è qualcosa di sistematico su quelle sparizioni". Cosa pensa il magistrato del caso Orlandi. In un'intervista, l'ex magistrato del caso Orlandi - Giancarlo Capaldo - dice la sua riguardo la lista che elenca le ragazze minorenni scomparse da Roma a cavallo tra il 1982 e il 1983. Giulia Narisano e Gianluca Zanella il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

L'inchiesta che stai per leggere è tra i vincitori del corso di giornalismo investigativo della Newsroom Academy (https://insideover.ilgiornale.it/courses/corso-di-giornalismo-dinchiesta)

Nell’ambito dell’inchiesta che ilgiornale.it sta portando avanti per fare luce su un’inquietante serie di sparizioni che – nell’estate del 1983, nello stesso periodo in cui sono scomparse Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi – ha visto protagoniste 19 ragazze tutte residenti a Roma e tutte di età compresa tra i 15 e i 18 anni, ci siamo rivolti all’unica persona che, in diverse occasioni pubbliche, ha fatto cenno a questa storia dimenticata: l’ex magistrato Giancarlo Capaldo.

Una storia dimenticata perché in effetti di queste ragazze, i cui nomi compaiono in un documento molto più ampio, che conta le sparizioni di minorenni sul suolo romano a partire dal 1982, non si sa più nulla. Ad oggi non sappiamo se siano state nel frattempo ritrovate o se invece siano realmente svanite nel nulla.

I loro nomi non sono mai balzati agli onori delle cronache, ma restano fissati su quella lista redatta nel settembre del 1983 dalla questura di Roma che, sollecitata dal clamore suscitato in particolare dalla scomparsa della Orlandi, pensò fosse utile ampliare il raggio dell’inchiesta. Peccato che poi, almeno da ciò che siamo riusciti a sapere, il tutto si sia fermato a quella prima iniziativa.

Giancarlo Capaldo, che oggi si dedica alla scrittura di romanzi noir, si è occupato del caso Orlandi dal 2008 al 2015, quando le indagini gli furono tolte dall’allora procuratore capo di Roma e oggi presidente del Tribunale Vaticano Giuseppe Pignatone. Sulla genesi di questa lista, cui più volte ha fatto riferimento nell’ambito di dibattiti pubblici, e che sembra sia stata richiesta dall’allora procuratore della Repubblica di Roma Domenico Sica, non ha saputo darci una risposta chiara: “Non ricordo chi l’abbia acquisita, comunque dagli atti che io ho visto, ossia quelli relativi al processo di Emanuela Orlandi, non si sono svolte indagini su nessuna di queste ragazze. Ma facciamo un passo indietro – aggiunge il dott. Capaldo - Il fenomeno delle persone che scompaiono è endemico nella nostra società: numerose sono le persone che fanno perdere le proprie tracce e numerosi sono anche i motivi delle scomparse; molte persone vengono poi ritrovate, mentre altre svaniscono nel nulla. Quello che io ho cercato di sottolineare in questi ultimi tempi è che non si dà, in linea generale, una grande importanza a questo fenomeno, che dovrebbe essere investigato differentemente e con un altro tipo di attenzione; in particolare, in quel momento storico, mi pare di poter cogliere dai dati che questo [il dato delle persone scomparse, ndr] fosse un fenomeno particolarmente accentuato perché si riferiva molto a ragazze adolescenti o poco più che adolescenti”.

Ed è proprio questo il punto: in un periodo – quello della prima metà degli anni Ottanta – in cui si parlava di organizzazioni dedite alla cosiddetta “tratta delle bianche”, appare quanto meno singolare che non siano stati fatti ulteriori approfondimenti per chiarire la natura delle sparizioni segnalate nel documento. L’ex magistrato del caso Orlandi ci conferma a proposito che non gli risulta nemmeno vi sia stata una delega a qualche magistrato per svolgere indagini a riguardo. E il tutto diventa ancora più inquietante stando a quella che è la sua convinzione:

C’era sicuramente qualcosa di sistematico [dietro queste sparizioni, ndr], cosa fosse credo che non sia mai stato indagato, in quel periodo io non ero in procura, quindi non so di preciso la procura cosa abbia fatto, non mi consta che ci siano stati procedimenti (ma potrebbero esserci stati) che riguardavano queste scomparse. Ricordo che sul piano giornalistico molte di queste scomparse venivano attribuite a una sorta di organizzazioni internazionali coinvolte nella tratta delle bianche, cioè una tratta di ragazzine bianche che venivano rapite e portate in paesi lontani, ad esempio paesi arabi o altri, per poter poi essere quasi vendute e trattate come schiave. Era una delle dicerie e delle soluzioni che si cercò di dare giornalisticamente in quei tempi a questo fenomeno”. Insomma, se quella della “tratta delle bianche” è una leggenda nera, resta il dato di fatto: quell’elenco che pesa come un macigno.

È importante sottolineare che [quello delle scomparse, ndr] è un fenomeno costante nel tempo – sottolinea Capaldo - ma in quel momento storico particolarmente accentuato e che non è stato affrontato processualmente e giudiziariamente, secondo me, in modo adeguato”.

Abbiamo allora domandato a Giancarlo Capaldo se, nell’ambito del lavoro da lui svolto alla procura di Roma riguardante la sparizione di Emanuela Orlandi, si sia mai occupato personalmente di questo filone d’indagine: “Quando mi sono occupato del caso Orlandi è stato all’indomani delle dichiarazioni della Minardi [Sabina Minardi, ex compagna del boss Renato De Pedis, ndr] e della purtroppo criminale pubblicizzazione di queste dichiarazioni, che ha mandato a monte una serie di indagini che potevano essere espletate. Quindi io mi sono occupato delle indagini in quel momento storico, in cui l’attenzione era ovviamente per il caso Orlandi e per quello di Mirella Gregori, due ragazze che sono state sempre un po’ accomunate, al di là della citazione congiunta che fece papa Giovanni Paolo II in uno dei suoi appelli, ma anche nell’immaginario collettivo, e giornalisticamente, perché erano due ragazzine adolescenti, sui 15 anni, tutte e due romane, tutte e due sparite in tempo ravvicinato (7 maggio 1983 la Gregori, 22 giugno 1983 la Orlandi). È chiaro che il collegamento veniva fatto istintivamente, non giudiziariamente e dal punto di vista investigativo, perché sono due vicende che sono state sviluppate poi da giudici diversi, tutte e due in modo approfondito. Sulle altre ragazze [quelle della lista, ndr] Io ho un’idea investigativa che non ho mai potuto controllare e riscontrare perché non ho mai avuto la delega a poter fare un’indagine su questo argomento, perché in procura le indagini si fanno con la delega che il procuratore dà al magistrato di fare le indagini. La delega che ho avuto nel 2008 era per Emanuela Orlandi”.

Un’idea investigativa, dunque, mai battuta. Ma che varrebbe la pena di riprendere in mano ancora oggi: “Secondo me sono indagini che, ovviamente con le difficoltà del caso - perché sono passati circa 40 anni - andrebbero pur sempre fatte per riuscire forse a comprendere meglio quello che è avvenuto anche a Mirella Gregori e Emanuela Orlandi”.

Accogliamo quello che sembra un invito dell’ex magistrato Giancarlo Capaldo. Non ci illudiamo di far luce su due dei principali cold case italiani, ma forse riusciremo a fare qualcosa di buono per delle famiglie che da 40 anni vivono il limbo del silenzio.

Vai più in alto”: Emanuela Orlandi e i segreti della cassetta. L'audiocassetta dei presunti rapitori fatta trovare all'Ansa è oggetto di analisi per gli esperti chiamati dalla famiglia di Emanuela Orlandi: cosa hanno scoperto. Angela Leucci il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

È un “giallo nel giallo”, com’è stato definito a Quarto Grado, quello dell’audiocassetta indirizzata nel 1983 ai famigliari di Emanuela Orlandi. Una prima cassetta era stata posta sotto il colonnato di San Pietro, dove il Papa pronuncia l’Angelus, ma, stando a quanto detto dai presunti rapitori, fu prelevata da funzionari vaticani. Dopo alcuni giorni fu recapitata una seconda cassetta all’Ansa e fu ascoltata dal padre e dello zio di Emanuela.

In Vaticano erano a conoscenza di quel nastro quattro giorni prima degli inquirenti italiani”, ha raccontato Pietro Orlandi in collegamento con la trasmissione.

La famiglia Orlandi ha richiesto la consulenza di esperti per l’analisi di ciò che si crede resti di quella seconda audiocassetta. L’ombra della manipolazione aleggia proprio su questa presunta prova. Tra gli esperti Marco Perino, che a Quarto Grado ha raccontato di aver rilevato un’anomalia, come il suono di un proiettore in sottofondo.

Nella spettrografia dell’audio sono presenti degli spazi vuoti, tra una frase e l’altra di una voce femminile che esprime sofferenza. In più l’opinione pubblica potrebbe essere stata influenzata dalle trascrizioni: la voce femminile non dice infatti “sto svenendo, sto svenendo” ma “vai più in alto, stai più in alto” secondo Perino.

La domanda a questo punto è: se è stato tagliato qualcosa, cosa è stato tagliato? Esistono tre trascrizioni differenti di tre corpi inquirenti: nella prima relazione si parla di tre voci maschili di cui una che parla con intonazione turca, nella seconda solo di voci italiane, mentre nella terza le voci maschili sono completamente assenti. Sono le voci maschili a essere state tagliate perché riconoscibili? “Ti viene il dubbio che le voci sono riconoscibili. È inevitabile”, ha commentato il fratello Pietro.

"La Orlandi è una cosa grave": le chat e i misteri vaticani

Secondo quest’ultimo, la voce che pronuncia due delle frasi udibili è sicuramente di Emanuela, e dalle analisi quella voce è compatibile con quella di una 15enne dell’area romana. E c’è un altro dettaglio non di poco conto: la frase misteriosa trascritta come “vogliamo travel” forse è “vogliamo andare là”, ma è difficile da dire, anche perché non si sa se si tratti di uno dei tanti rumori di fondo.

A questo punto sarebbe fondamentale trovare la prima cassetta, quella consegnata in Vaticano. “Sarebbe miracoloso avere la prima cassetta. Importante avere l’originale o diventa tutto più complesso”, ha chiosato Laura Sgrò, avvocato della famiglia Orlandi, attualmente in attesa di essere ascoltata nell’indagine perché in possesso di chat che consentirebbero di dare una svolta al caso.

Quell'estate maledetta delle ragazze scomparse. Giulia Narisano e Gianluca Zanella il 30 Gennaio 2023 su Il Giornale.

In un documento della questura di Roma del 1983, vengono elencate 177 sparizioni di ragazze minorenni avvenute tra il 1982 e il 1983. Solo nell'estate in cui spariscono Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, sono 19 le ragazze a svanire dalla Capitale

L'inchiesta che stai per leggere è tra i vincitori del corso di giornalismo investigativo della Newsroom Academy (https://insideover.ilgiornale.it/courses/corso-di-giornalismo-dinchiesta)

Mentre le vicende di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori tornano a godere di una nuova eco mediatica, anche grazie all’apertura delle indagini sulla scomparsa della prima da parte del Vaticano, suonano particolarmente interessanti le dichiarazioni rilasciate a più riprese da Giancarlo Capaldo, ex magistrato (e procuratore aggiunto del Tribunale di Roma all’epoca dei fatti) ed emergono nuove concrete ipotesi di indagini su questi e su altri casi di sparizioni verificatisi nello stesso arco temporale.

Parliamo di una serie di scomparse verificatesi tra il 1982 e il 1983. Protagoniste 177 ragazze minorenni, tutte residenti a Roma o negli immediati pressi della Capitale. A fissare nel tempo i nomi di queste giovanissime – tutte tra i 13 e i 18 anni – un documento, di cui IlGiornale.it è entrato in possesso, che risale al settembre 1983. Redatto dalla divisione di Polizia giudiziaria della Questura di Roma, da quel che siamo riusciti a sapere, il documento (che fa parte di un documento più ampio, comprendente anche le sparizioni di minori di sesso maschile) fu consegnato direttamente nelle mani di Domenico Sica che, all’epoca, stava indagando con i giudici istruttori Ferdinando Imposimato e Rosario Priore sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Non conosciamo con esattezza la ragione per cui il documento venne stilato, ma possiamo immaginare che l’interesse mediatico scaturito dalla sparizione della Orlandi e della Gregori abbia imposto agli organi inquirenti un’attività di monitoraggio riguardo la sparizione di altre minori. Sono quelli anni difficili. Il dilagare dell’eroina, l’assenza di telefoni cellulare, la leggenda nera di una tratta delle bianche. Insomma, sembra che a un certo punto gli investigatori abbiano cominciato a preoccuparsi seriamente della sorte di tante, troppe ragazze scomparse.

Ecco la ragione che forse si nasconde dietro la produzione di questo documento: La necessità di capire se ci fosse un collegamento tra una di queste anonime ragazze, alcune già all’epoca rintracciate, altre no, ma nessuna di loro mai finita sotto i riflettori mediatici, e le ben più note Emanuela e Mirella. Eppure, a parte questo documento (che oltre alla lista di nomi presenta in allegato alcune denunce di scomparsa), non si ha notizia di significative attività investigative svolte successivamente.

Giancarlo Capaldo ne è convinto: su quei nomi si poteva e si doveva lavorare. A distanza di 40 anni, lo sta facendo ilGiornale.it. Partendo da quella lista, abbiamo ristretto – per ora – il campo a un periodo di tempo limitato, prendendo in esame le sparizioni di ragazze tra l’aprile e l’agosto del 1983, a cavallo di quella primavera/estate che ha inghiottito nel nulla Emanuela Orlandi e Mirella Gregori (scomparse rispettivamente il 22 giugno e il precedente 7 maggio). Escludendo le giovani rintracciate, resta una rosa di 19 ragazze. Tante, troppo per una sola città.

Il lavoro che si sta portando avanti è lungo e, visto il tempo trascorso, decisamente complesso. Non ci si illude di poter trovare un collegamento con le sparizioni della Orlandi e della Gregori e, in fondo, non è nemmeno questo l’obiettivo ultimo. Quello che ci preme comprendere è se sia vero che in quel periodo, a Roma e in generale nel Centro Italia, fossero attive organizzazioni criminali che, per motivi disparati, puntavano le loro attenzioni su giovani ragazze da rapire (un cenno a qualcosa del genere l’ha recentemente fatto Angelo Izzo, uno dei mostri del Circeo, parlando di fronte ai consulenti della Commissione d’inchiesta che indagava sulla sparizione della giovane Rossella Corazzin e del collegamento tra la morte del medico perugino Francesco Narducci e il c.d. Mostro di Firenze).

Uno scenario torbido, come torbidi sono quegli anni (di piombo, non a caso). Quello che ci auguriamo è di scoprire che tutte queste 19 ragazze siano in realtà tornate ad abbracciare i propri cari dopo la redazione del documento, che il loro allontanamento sia stato volontario. Se malauguratamente dovessimo scoprire il contrario, non ci fermeremo finché non avremo fatto tutto il possibile per fare luce su questa oscura vicenda.

Emanuela Orlandi, inchiesta delle Camere: commissione per accedere agli atti secretati. Claudio Querques su Il Tempo il 29 gennaio 2023

Dopo il Vaticano anche il Parlamento italiano è pronto a istituire una Commissione bicamerale d’inchiesta sul caso Emanuela Orlandi, la quindicenne scomparsa il 22 giugno del 1983. I presidenti di Camera e Senato, Lorenzo Fontana e Ignazio La Russa, dopo aver incontrato parenti e avvocati, si sono detti favorevoli alla proposta presentata dal deputato dem Roberto Morassut. Un via libera bipartisan è arrivato anche dai capigruppo delle principali forze politiche che hanno ricevuto anche i legali della famiglia di Simonetta Cesaroni e Mirella Gregori. Tre casi di cronaca avvolti nel mistero che diventano così, a tutti gli effetti, "casi politici". Il 10 febbraio è previsto un incontro propedeutico al successivo iter parlamentare con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. «Siamo stati ricevuti dai presidenti delle due Camere ed entrambi si sono dimostrati favorevoli e pronti a sostenere la proposta d’inchiesta – conferma l’avvocato Laura Sgrò, che ha partecipato agli incontri insieme a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela - Sia Fontana che La Russa, nel congedarsi, ci hanno detto che ne avrebbero parlato alla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. A questo punto non c’è nessun motivo perché, a quasi 40 anni di distanza da quel rapimento, il Parlamento italiano non conduca una propria indagine per fare chiarezza».

La proposta di inchiesta presentata alla Camera dei deputati ai sensi dell’articolo 82 della Costituzione - estende le indagini anche all’omicidio di Simonetta Cesaroni e alla scomparsa di Mirella Gregori, di cui si persero le tracce nel maggio del 1983. «Stiamo parlando di tre casi rimasti irrisolti che hanno in comune tentativi di depistaggio, deviazioni, errori investigativi, strane relazioni - chiarisce Morassut, primo firmatario della proposta - potremo finalmente avere accesso a carte che sono state finora secretate». La Commissione sarà composta da venti membri e avrà poteri inquirenti. Un’operazione-trasparenza a tutto campo. «Ci consentirà di accedere anche agli archivi e documenti del Sismi (tre faldoni rimasti secretati, ndr) e del Sisde – aggiunge Morassut - Si concluderà con una relazione che trasmetteremo alla Procura». Che maggioranza e opposizione si siano trovate d’accordo e i partiti siano pronti a dare il via libera è un fatto incoraggiante per Pietro Orlandi, il fratello che non ha mai rinunciato a cercare la verità. Una verità che si allontana tutte le volte che la senti vicina. L’apertura di Papa Francesco, la decisione di aprire un’indagine Oltretevere, ha rimesso in moto anche la macchina della giustizia italiana che per due volte si è arenata su una richiesta di archiviazione. Il coinvolgimento nel rapimento della banda della Magliana; il boss Renatino De Pedis tumulato nel basilica di Sant’Apollinare, a due passi dal luogo in cui Emanuela fu vista l’ultima volta; il più recente ritrovamento del suo flauto, gli ultimatum e la linea preferenziale con il cardinale Agostino Casaroli; la pista turca; la crisi dello Ior; monsignor Paul Marcinkus; l’omicidio londinese del banchiere Roberto Calvi; il dissesto del Banco Ambriosiano. Il caso Orlandi è un pezzo di storia italiana.

Per molti una ferita aperta e un mistero mai chiarito, per alcuni un tormentone, una pagina oscura da chiudere per sempre. Che il Parlamento ne certifichi il risvolto politico è però un fatto con pochi precedenti. "Storico", staremmo per dire. Il presidente del Tribunale vaticano, Giuseppe Pignatone, e il promotore di giustizia, Alessandro Diddi, andranno per la loro strada. La Bicamerale ne percorrerà un’altra parallela «Ma un conto è che a chiedere di visionare la documentazione in possesso del Vaticano sia un semplice avvocato, sentendosi rispondere che non esiste, un altro conto è se questa richiesta arriva dal Parlamento italiano», osserva la Sgrò, decisa ad andare fino in fondo. La storia di Emanuela, figlia di Ercole Orlandi, dipendente vaticano, si intreccia in qualche modo con quella di Mirella Gregori. L’accostamento tra le due sul piano investigativo richiederebbe una sottocommissione. Altro discorso per il caso di Simonetta Cesaroni, trovata morta il 7 agosto del 1990 in via Poma. Del caso Orlandi si è tornati a parlare recentemente anche per la gaffe di Fedez, la sua risata decisamente inopportuna. «Mi ha telefonato per chiedermi scusa – minimizza Pietro Orlandi – in questo momento la cosa più importante e che si faccia questa Bicamerale. Si potrà far luce su tanti punti oscuri. Non è una semplice indagine su una ragazza scomparsa ma sui tanti depistaggi di apparati dello Stato e Vaticano. I rappresentanti dei gruppi parlamentari che abbiamo incontrato ci hanno garantito che faranno di tutto per accelerare i tempi – riprende - Abbiano chiesto un incontro al presidente La Russa. Due giorni dopo ce lo ha concesso, e per questo lo ringraziamo. In questa storia – continua il fratello di Emanuela – in tanti hanno tentato di avere un ruolo, persino la Stasi e il Kgb russo per via del Papa polacco. E ora questa decisione di Francesco di riaprire le indagini, a due giorni dal funerale di Papa Ratzinger. Strana coincidenza».

Estratto dell'articolo di Alice Castagneri per lastampa.it il 24 gennaio 2023.

Fedez ride di gusto, ma è solo lui a farlo. La battuta, anche se non è definibile tale, gela tutti. Durante una puntata del podcast Muschio Selvaggio il rapper finisce a parlare del caso - recentemente riaperto - di Emanuela Orlandi, la ragazza scomparsa dal centro di Roma nel 1983. In studio, con lui e Luis Sal, c’è Gianluigi Nuzzi, noto giornalista e conduttore di Quarto Grado.

Durante la chiacchierata i tre fanno riferimento alla serie Netflix Vatican Girl e Fedez, forse pensando di scherzare sullo spoiler sul finale della fiction, se ne esce con una frase totalmente fuori luogo, pessima sotto tutti i punti di vista. «Beh, innanzi tutto possiamo dire. Non l’hanno mai trovata», dice riferendosi alla Orlandi. E poi giù a ridere. L’uscita imbarazza anche l’amico Luis, che resta impietrito esattamente come Nuzzi.

Fedez continua a sghignazzare, mentre il giornalista commenta: «Questo è black humor». Serissimo aggiunge: «Il Black Humor è sideralmente antitetico rispetto a un giornalista». Interviene Luis che rivolgendosi a Nuzzi dice: «Deve mantenere una poker face in questo momento». A quel punto il rapper si ferma e chiede scusa, ma in modo non troppo convinto perché ribadisce: «Mi faceva troppo ridere».

 Che cosa esattamente fa ridere? Una ragazza scomparsa, una famiglia distrutta dal dolore della sua perdita. Eppure a Fedez fa ridere. Sul web nessuno ride, nessuno capisce il perché di quella frase vergognosa. Ma a Fedez faceva ridere, nemmeno ci ha pensato. «Davvero non capisco come e dove possa strappare anche solo un minimo sorriso ‘sta roba», recita un commento. E ancora: «che schifo», «la battuta quale dovrebbe essere?», «un imbecille che non sa fare black humor».

 (...)

Estratto dell’articolo da corriere.it il 26 gennaio 2023.

Dopo essere stato travolto dalle critiche a seguito della risata sfrenata sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ora spunta un altro momento di cattivo gusto durante la diretta di «Muschio Selvaggio», il podcast condotto dall’artista e da Luis Sal. In studio c’è anche il conduttore di Quarto Grado, Gianluigi Nuzzi. I tre stanno criticando il silenzio del Vaticano sul caso di Emanuela. In particolar modo viene commentata dal rapper la frase del papa, ovvero «Emanuela è in cielo». «Forse fa la pilota», chiosa Fedez con una battuta. […]

Estratto dell’articolo di Massimo Gramellini per “il Corriere della Sera” il 26 gennaio 2023.

Chi sarà mai questo Federico Lucia, detto Fedez, che fa una battuta incomprensibile sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e ci ride sopra? Il tribunale dei social, immediatamente autoconvocatosi, lo ha giudicato colpevole di lesa decenza e condannato all’insulto perpetuo. […]

 Invece Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, non si è indignato: ha accettato le scuse del noto influenzatore, limitandosi a dargli dell’immaturo. Tra i giurati da tastiera e il fratello della vittima, sarei più propenso a fidarmi di quest’ultimo, […]

L’adolescenza resta quel periodo barbarico della vita in cui, per reazione all’insicurezza e all’ansia che ti pervadono, ti senti l’ombelico del mondo, non rispetti gli altri e ritieni insignificante il passato. […] Fedez non è cattivo, è semplicemente social: può ridere sulla Orlandi e piangerla un minuto dopo, con il medesimo trasporto e l’assoluta convinzione di essere il primo e l’unico a farlo.

Fedez scherza sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, il fratello Pietro: “Mi è dispiaciuto ma lo perdono”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 25 Gennaio 2023.

La sonora risata di Fedez durante la puntata di “Mucchio selvaggio” sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi ha indignato il popolo del web. E mentre la pioggia di polemiche si abbatte ancora sul rapper, dal fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, giungono parole concilianti: “Sono dispiaciuto ma lo perdono”, ha commentato in un’intervista Repubblica.

Il fatto è avvenuto durante la puntata di “Mucchio Selvaggio” incentrato sulla vicenda della 15 cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 dal centro di Roma. “Innanzitutto, posso dire? Non l’hanno mai trovata”, ha detto Fedez per poi scoppiare a ridere facendo scendere il gelo al tavolo a cui sedeva anche Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado mentre si parlava della serie Netflix “Vatican Girl”. “Questo è black umor che è sideralmente antitetico rispetto a un giornalista”, ha commentato Nuzzi. “Scusami, mi faceva troppo ridere… ma non fa ridere”, ha replicato lo stesso artista. Ma ormai era troppo tardi e la bufera social si è abbattuta su Fedez.

Pietro Orlandi ha spiegato di essere dispiaciuto per l’accaduto ma di non voler fare polemica in merito. “In tanti anni ho dovuto subire comportamenti in malafede e cattivi ben peggiori di una risata non nata per offendere o mancare di rispetto”, ha detto a Repubblica. E spiega: “Non posso certo nascondere che mi è dispiaciuto sentir qualcuno ridere alla frase ‘la stanno ancora cercando’, ma lo perdono. Sono quarant’anni che cerco Emanuela e continuerò a farlo”.

Per il fratello della ragazza scomparsa 40 anni fa si è trattato “di una reazione un po’ immatura, un po’ come quando da ragazzi poteva scappare una risata a un funerale”. Nonostante la spiacevolezza dell’accaduto, Pietro Orlandi ha ringraziato Fedez: “Sono felice che in podcast così seguito ci sia stato il modo per affrontare la vicenda di mia sorella. Quindi, al di là delle risate, lo ringrazio”.

Pietro Orlandi sottolinea che in questo momento in cui i fari si sono riaccesi sulla scomparsa di sua sorella ha ben altre cose a cui pensare della battutaccia di Fedez. “Nei giorni scorsi ho incontrato anche con il presidente della Camera Fontana e devo dire , con quello di oggi al Senato, due incontri molto positivi. C’è la volontà ad accelerare i tempi per l’apertura di una commissione parlamentare d’inchiesta”, ha scritto su Facebook.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

La battuta e il polverone social. Fedez e la battuta (di pessimo gusto) su Emanuela Orlandi: “Non l’hanno mai trovata..”, scatta la polemica social. Elena Del Mastro su Il Riformista il 24 Gennaio 2023

Innanzitutto possiamo dire che non l’hanno mai trovata”. Breve pausa, poi Fedez scoppia a ridere senza riuscire a trattenersi. Non si capisce nemmeno tanto cosa abbia fatto ridere così tanto il rapper, ma il fatto ha subito scatenato la polemica e il polverone social.

L’episodio durante la diretta di “Muschio Selvaggio”, il podcast condotto dall’artista e da Luis Sal. Mentre si parlava della serie Netflix “Vatican Girl” sulla drammatica storia della scomparsa della “ragazza con la fascetta” che all’epoca aveva 15 anni, Fedez ha fatto la battuta infelice: “Innanzitutto possiamo dire che non l’hanno mai trovata”, ha detto il rapper. Poi è scoppiato a ridere forse pensando di scherzare sullo spoiler del finale della fiction, con una frase risultata fuori luogo. Gianluigi Nuzzi, conduttore di Quarto Grado, che era ospite del programma, nell’imbarazzo ha provato a esclamare “questo è black humor”. Ma la risata era partita ed esplodeva irrefrenabile. Fedez ha iniziato a ridere di gusto rimanendo tuttavia l’unico al tavolo a farlo. L’uscita imbarazza anche l’amico Luis, che resta impietrito esattamente come Nuzzi.

La risata di Fedez continuava a riecheggiare e Nuzzi serissimo ha aggiunto: “Il Black Humor è sideralmente antitetico rispetto a un giornalista”. Interviene Luis che rivolgendosi a Nuzzi dice: “Deve mantenere una poker face in questo momento”. A quel punto il rapper si ferma e chiede scusa, ma in modo non troppo convinto perché ribadisce: “Mi faceva troppo ridere”. Un dramma, quello di Emanuela Orlandi, che dura da 40 anni e recentemente tornato sotto i riflettori per la serie tv Netflix e per le recenti rivelazioni. La tragedia di una giovane scomparsa di cui la famiglia ha completamente perso le tracce e per cui non si dà pace. Una storia drammatica che non ha fatto ridere il web che subito si è scatenato con una pioggia di critiche.

Tristezza infinita, perché da ridere non c’è proprio niente”, scrive un utente su Twitter. “Io direi che per Fedez vale la frase che certe volte è meglio tacere e sembrare stupidi”. “mi spiegate perché dovrebbe far ridere? Cioè, mi manca qualche elemento (spero) oppure è stata letteralmente una cosa agghiacciante?”, scrive ancora un altro utente. E ancora: “Fedez, padre di due bellissimi bimbi, come fa a non immedesimarsi nell’infinito dolore che colpisce le famiglie delle persone scomparse a cui manca persino la “possibilità” di piangere su una tomba? Dovrebbe smettere di ridere e chiedere scusa alla famiglia di Emanuela Orlandi”. “Io Fedez lo apprezzavo come cantante, poi ho iniziato ad apprezzarlo come uomo. Fa tante iniziative e attività lodevoli, ha commesso molti errori e ho provato sempre a vedere il suo ‘lato buono’. Ma stavolta è indifendibile”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Emanuela Orlandi, una spy story lunga 40 anni: ecco il ruolo dei servizi segreti, dai primi giorni a oggi. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 27 Gennaio 2023.

La presenza di agenti segreti è una costante dell'intrigo: l'arrivo in casa Orlandi di due 007 poco dopo la scomparsa, l'avvocato pagato dal Sisde, i moduli cifrati sui giornali, i segnali di "allerta"

Emanuela Orlandi e gli “spioni” in casa poche ore dopo la scomparsa, quando i sequestratori non si erano ancora materializzati e si parlava ancora di "scappatella". L’avvocato amico dei servizi segreti imposto alla famiglia. Il padre della ragazza che si dice certo della “manina” delle barbe finte dietro la tragedia che gli è precipitata addosso. Lo 007 troppo calato nella parte, che “brucia” notizie riservate dicendo che l’ostaggio sta per tornare a casa, e poi s’è visto com’è andata a finire...

A due settimane dall’apertura dell’inchiesta del Vaticano, il giallo della “ragazza con la fascetta” (qui i punti certi finora acquisiti) torna ad appassionare l’opinione pubblica come raramente è accaduto in quasi 40 anni. Il promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, sta lavorando nel massimo riserbo, incalzato dalle dichiarazioni di Pietro Orlandi, il fratello, e della sua avvocata, Laura Sgrò, che chiedono di essere convocati. Il legale ha anche reso noti i nomi di alcuni prelati che potrebbero essere sentiti come testimoni (tra gli altri padre Georg Gänswein e il cardinale Giovanni Battista Re), ma non è solo su quel versante che la magistratura vaticana dovrà svolgere accertamenti. Tonache da un lato, 007 dall’altro. L’intrigo Orlandi iniziato quel maledetto 22 giugno 1983 ha sempre oscillato tra questi due poli e non a caso il ruolo degli apparati d'intelligence (compreso il possibile antefatto, il vertice del 25 novembre 1980 tra l’allora collaboratore del Sismi Francesco Pazienza e il braccio destro del cardinale Casaroli, monsignor Pier Luigi Celata) continua ad alimentare dubbi e indiscrezioni. La presenza di agenti segreti d'altronde è stata una costante nel giallo. E allora vediamoli, i principali elementi di riscontro dell'«operazione-Orlandi», come la scomparsa di Emanuela viene definita in ambienti coperti.

Agenti segreti in allerta

1- I primi a presentarsi a casa della quindicenne due giorni dopo il mancato ritorno del 22 giugno furono due agenti del Sisde, Giulio Gangi (morto nel novembre 2022) e Marino Vulpiani (quest’ultimo aspirante medico). «Ho visto un fax nel mio ufficio e siccome conosco Monica, la cugina di Emanuela, sono passato per dare una mano», fu la spiegazione di Gangi. Versione poco credibile che fornisce una prima traccia investigativa: se al Sisde circolavano, già nell'immediatezza del fatto, rapporti riservati sul caso Orlandi, se ne può desumere che qualche ricatto con un movente delicatissimo, a sfondo politico o affaristico,  fosse nell’aria, se non già partito. Va escluso che gli 007 ad alti livelli si mobilitino con tanta prontezza per una fuga da casa adolescenziale o per storie (purtroppo frequenti) di abusi sessuali.

Nome in codice: Leone

2 - Il giorno seguente, 25 giugno 1983, Vulpiani fu sostituito dal «capo» di Gangi, il carabiniere Gianfranco Gramendola in forze anche lui al Sisde, che Pietro Orlandi ricorda così: «Si presentò a casa con Giulio e ci strinse la mano dicendo: d’ora in poi chiamatemi Leone». Nome in codice: un classico nelle operazioni sottotraccia. «Per noi la presenza dei due agenti segreti fu un sollievo, sentivamo di avere attorno gente interessata al nostro dramma, che voleva aiutarci». Certamente fu così, da un lato. Ma dall'altro - ragionando con la logica degli apparati di sicurezza - un obiettivo era raggiunto: la famiglia era "attenzionata", la si poteva controllare e "dirigere". 

L'avvocato "amico"

3 - Ercole Orlandi qualche giorno dopo accettò come avvocato Gennaro Egidio, penalista di fama internazionale con studi a Roma, Milano e New York, molto accreditato in ambienti Sisde. «Non fu una nostra scelta. Ce lo propose Gramendola, che si espresse così: ‘Cari Orlandi, questo avvocato è la mano di Dio'». La prima parcella di Egidio in realtà fu un colpo al cuore. «Ricordo ancora l’espressione di mio padre: ‘Ma scusi, questa cifra non la guadagno neppure in un anno!’ Poi andò a parlare con Gramendola, che ci disse di non preoccuparci. E infatti non arrivò mai più una parcella». Chi pagò? Lo Stato italiano, tramite i fondi del Sisde? Perché?

La difesa dei Gregori

4 - Nell’agosto 1983 Gennaro Egidio assunse anche la difesa della famiglia Gregori (alla quale però le parcelle furono fatte saldare tutte). Perché una sola regia? Evidentemente per tenere i fili delle due scomparse (Mirella Gregori mancava da casa dal 7 maggio). Tale circostanza accredita la sussistenza di una duplice azione "cittadina italiana + cittadina vaticana", per mettere sotto pressione i due Stati (Italia e Santa Sede) nell’ambito del movente internazionale (ottenere che Agca, in cambio della grazia, si rimangiasse le accuse all'Est di essere stato mandante dell'attentato al Papa da lui compiuto il 13 maggio 1981; ritrattazione che in effetti poi avvenne, sei giorni dopo il sequestro di Emanuela).

La promessa mancata

5- Nel settembre 1983 l’agente Gangi comunicò alla famiglia che Emanuela sarebbe «sicuramente» tornata a casa entro due settimane. Sostenne di esserne certissimo, di averlo saputo da fonti qualificate. Aveva orecchiato qualcosa dai suoi superiori? Probabile. Forse ai piani alti del Sisde si sapeva di più (Emanuela viva e al centro di una trattativa segreta, sul punto di essere liberata) di quel che si leggeva sui giornali? 

I comunicati Phoenix-Sisde

6 - Alcuni comunicati che la stampa attribuì ai sequestratori, firmati Phoenix, dai toni particolarmente truculenti («è meglio una confessione oggi che la morte domani...», «un nostro vecchio “amico” ha fatto una brutta fine davanti a un piatto di spaghetti»), furono in realtà ideati e scritti da esponenti del Sisde per spaventare i veri rapitori e indurli a più miti consigli. Questo retroscena fu Gangi a confidarlo a Pietro Orlandi, nella sua lunga frequentazione dei familiari. Qualcuno nei servizi segreti, dunque, sapeva con chi aveva a cha fare? O perlomeno lo immaginava, con alto grado di probabilità? 

L'identikit del telefonista

7 - Vincenzo Parisi, prefetto, all'epoca vicecapo del Sisde, a fine 1983 pose la sua firma su un identikit del telefonista detto «l’Amerikano»: «Straniero, di cultura anglosassone, livello intellettuale e culturale elevatissimo, conoscitore della lingua latina, appartenente (o inserito) nel mondo ecclesiale, formalista, ironico, preciso, freddo, calcolatore...» Un profilo che parve disegnato alla perfezione sulla figura del capo dello Ior, monsignor Marcinkus, in disgrazia per il crack dell’Ambrosiano ma descritto dalla famiglia Orlandi come «persona gentile e disponibile», della quale tutto si poteva dire ma non che potesse essere arrivato a sequestrare la ragazzina che incrociava talvolta nei giardini vaticani. Quel dossier fu una forzatura? Forse il frutto di qualche regolamento di conti? 

I moduli firmati "S.R."

8 - Nei giorni a cavallo della scomparsa di Emanuela (22 giugno 1983) apparvero sui giornali romani ("Messaggero" e "Tempo") dei moduli su una colonna (dal committente mai identificato, chi lo sa se le fatture di pagamento sono ancora rintracciabili...) contenenti non meglio precisate «richieste di contatto» da parte di "S.R." Tale sigla solo in tempi recenti è stata decodificata (con messaggi WhatApp pervenuti all'autore di questo articolo) in “Servizi Repubblica”, per l'appunto il servizio civile interno dell'epoca, il Sisde. Uno dei messaggi diceva: «Attuale andamento trattativa non è aderente raggiungimento scopo delle parti. Quotazione insistentemente da voi richiesta scoraggia nostra volontà reperire altro in quanto nostre fonti attualmente esaurite». 

Lo stato di allerta

9 - Secondo altre recenti informazioni trapelate da fonti coperte,  un agente del Sisde il 7 ottobre 1982 (otto mesi prima della scomparsa) si presentò in casa Orlandi, invitando il padre della ragazza, Ercole, ad andare alla Porta del Perugino per ricevere delle istruzioni, a garanzia propria e della sua famiglia. Negli stessi mesi, lo Sdece, vale a dire i servizi segreti francesi guidati dal marchese Alexandre De Marenches, aveva lanciato un «alert» sul possibile rapimento di cittadini vaticani. 

Le accuse del padre

10 - Ercole Orlandi, in un’intervista a Marco Nese pubblicata sul Corriere della Sera l’11 maggio 2001, testualmente affermò: «Sono sicuro che mia figlia è viva. Io credo che tutta la faccenda sia stata architettata da qualche servizio segreto. Qualcuno che operava qui, nel nostro Paese». Nella frase seguente, il papà di Emanuela stabiliva un collegamento con il "crimine del secolo" di due anni prima, l'attentato (fortunatamente fallito) contro Giovanni Paolo II: «Mi sono convinto che tutto il complotto per uccidere il Papa sia stato concepito in Italia», dichiarò Ercole Orlandi, alludendo al supporto di cui poteva aver beneficiato Agca (è la cosiddetta "pista interna", a lungo seguita dal giudice Rosario Priore). Ebbene, oltre due decenni dopo quelle parole di un uomo ferito (tre anni dopo il papà di Emanuela morirà di crepacuore) risultano suffragate da numerosi riscontri, in base ai quali il sequestro Orlandi-Gregori  fu un'operazione raffinata e crudele, organizzata sulla pelle di due ragazzine, al fine di condizionare le scelte di Karol Wojtyla sia sul piano della politica estera (l'acceso anti-comunismo) sia sulla (dissestata) gestione finanziaria (il crack Ior-Ambrosiano e l'invio di fondi in Polonia). Gli indizi non mancano. Lo scenario, rispetto al passato, pare più nitido. La parola, adesso, alla magistratura vaticana. 

Emanuela Orlandi e la pista dei soldi in Polonia: quell'incontro (segreto) in Vaticano raccontato da Francesco Pazienza.  Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

I retroscena del movente economico: la guerra contro il capo dello Ior Marcinkus, l'opposizione all'invio di fondi a Solidarnosc, i messaggi cifrati dell'ultima telefonata di Emanuela

Novembre 1980: un signore elegantissimo, disinvolto, sicuro di sé si presenta a Palazzo Apostolico tenendo in mano il pass con su scritto: "Segreteria di Stato". Una guardia svizzera lo accompagna, tra saloni affrescati e ampie vetrate, sull'uscio dell'appartamento privato di papa Wojtyla. Altri tempi. Ora Francesco vive a Santa Marta. Una suorina lo ferma. «Lei ha appuntamento con il Santo Padre?» «No, con monsignor Casaroli». «Ma allora ha sbagliato, è dall'altra parte, uscendo dall'ascensore a sinistra...» 

Emanuela Orlandi e un passato che ritorna: quello delle barbe finte in perenne allerta nei palazzi del potere. A due settimane dall'apertura di un'inchiesta in Vaticano sul sequestro (il 22 giugno 1983) della figlia quindicenne del messo pontificio di Giovanni Paolo II, il materiale istruttorio accumulato in tanti anni dalla magistratura italiana, seppure oggetto di due archiviazioni (nel 1997 e nel 2015), torna d'attualità. Non solo: anche le precedenti ricostruzioni utili a chiarire il contesto dell'azione criminale sono all'attenzione di Alessandro Diddi, il Promotore di giustizia della Santa Sede titolare delle indagini. Lavoro ciclopico: compulsare una ad una centinaia di migliaia di carte sarà impossibile. Non si potrà che procedere per sommi capi, confidando anche in un colpo di fortuna, in qualche nuova testimonianza. Il tutto a partire dalla domanda centrale: perché Emanuela fu strappata alla sua vita e ai suoi affetti? 

La pista economica

Premesso che il mancato ritorno a casa della giovane cittadina vaticana vide quasi certamente il concorso di esponenti dei servizi segreti (il padre Ercole ne parlò espressamente, in un'intervista al Corriere) e innescò pressioni su più livelli dentro le sacre mura (qui i punti fermi della vicenda), tra le piste maggiormente accreditate c'è sempre stata quella economico-affaristica: un ricatto attuato sulla pelle di una ragazzina contro Giovanni Paolo II e monsignor Marcinkus, il capo dello Ior all'epoca impegnato nel sostegno del sindacato cattolico Solidarnosc, che aveva finito per prosciugare anche le casse del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. L'obiettivo poteva essere duplice: da un lato l'allontanamento di Marcinkus (esito caldeggiato da influenti settori di Curia) e dall'altro il recupero in tutto o in parte dei soldi versati in Vaticano tramite canali opachi o illeciti (difficilmente la malavita rinuncia al "recupero crediti"). Per meglio inquadrare le tensioni e le possibili rappresaglie innescate dalla "causa polacca", dunque, rieccoci a Palazzo Apostolico... 

Lo 007: «Monsignor Celata mi disse...»

Quel signore convocato da Sua Eminenza Casaroli altri non era che Francesco Pazienza, l'agente del Sismi introdotto come pochi nel mondo politico e finanziario dei primi anni Ottanta (poi finito in carcere e condannato per i depistaggi sulla strage di Bologna). È stato lui stesso, lo 007 con in tasca una laurea (mai usata) in Medicina, a mettere nero su bianco le spericolate manovre all'ombra del Cupolone. Macchina indietro a 42 anni fa, dunque. Roma, uffici del Sismi. «Avevo da poco cominciato la mia esperienza nel servizio militare italiano - ha raccontato Pazienza - quando il direttore Giuseppe Santovito, il 24 novembre 1980, mi affidò una nuova operazione. Il giorno successivo mi sarei dovuto presentare alle 18.30 in Vaticano per incontrare il Segretario di Stato, monsignor Agostino Casaroli, o il suo braccio destro, monsignor Pier Luigi Celata...» Il racconto non è mai stato smentito. Pazienza lo ha inserito nella sua prima autobiografia (Il disubbidiente, 1999) e di recente riproposto ne La versione di Pazienza (2022): «Nello studio di monsignor Celata, capii che dovevo andare dritto al punto e dissi: “Posso chiederle qual è la ragione per la quale ho avuto l’onore di essere qui?“ Il prelato prese la questione alla larga ma, poco a poco, arrivò al nocciolo. E ci arrivò parlando in maniera abbastanza esplicita, senza addentrarsi nei meandri del “curialese”... Il nocciolo aveva un nome e cognome: Paul Marcinkus...  La richiesta di Celata era questa: bisognava fare in modo che il vescovo di Chicago mollasse la presa sullo Ior». Già. A tanti non piaceva "il gorilla", come veniva chiamato il sacerdote-banchiere con il fisico da rugbista, che in precedenza aveva fatto da guardia del corpo a Paolo VI (suo il motto «La Chiesa non si governa con gli Ave Maria»). 

Pazienza in missione a Zurigo

Ma come neutralizzarlo? Chi avrebbe avuto l'ardire di mettersi contro il king maker (dal punto di vista finanziario) della crociata contro il comunismo lanciata dal primo pontefice polacco della storia? Risposta dello "spione": «In realtà c’era un unico sistema - ha scritto Pazienza - trovare un'adeguata documentazione che dimostrasse come le attività della banca vaticana non era erano proprio consone a quelle della Chiesa cattolica. In poche parole, bisognava creare uno scandalo». Il passo successivo fu la costruzione del dossier. «Presso l'avvocato zurighese Peter Duft, il quale era stato consulente del cardinale Vagnozzi e depositario di molti documenti dello stesso - prosegue la ricostruzione dello 007 - ebbi la ventura di rintracciare  delle carte pericolosamente compromettenti per monsignor Marcinkus... Dai documenti e da quanto confermato da varie fonti era emersa l'esistenza in Vaticano di una specie di alleanza operativa tra lo Ior di Marcinkus e il sistema delle consociate estere del Banco Ambrosiano guidato da Roberto Calvi, a sostegno delle iniziative del sindacato polacco Solidarnosc». Bene. Scenario delineato. Il contesto, d'altronde, era noto. 

Il ruolo del cardinal Vagnozzi

La versione è di parte, indubbiamente, ma riscontrabile. Due dei tre protagonisti di quella partita (Calvi va escluso, fu "suicidato" a Londra pochi mesi dopo, nel giugno 1982) sono ancora in vita: Celata ha chiuso la sua carriera ecclesiastica nel 2014 come vicecamerlengo, mentre Pazienza si è ritirato nella sua Lerici a scrivere libri, confidando nelle royaltes. Il Promotore di giustizia li convocherà come testimoni, magari per avere indicazioni su quell'area grigia a  metà strada tra sacrestie e malavita la cui esistenza è stata provata dalla sepoltura del boss De Pedis nella basilica di Sant'Apollinare? La concatenazione Santovito-Pazienza-Celata, in ogni caso, sembra rafforzare il legame tra le sovvenzioni a Solidarnosc e il crack dell'Ambrosiano. Ruolo centrale, nell'opposizione ai finanziamenti a Walesa, lo avrebbe avuto il cardinale Egidio Vagnozzi, il presidente della Prefettura degli Affari economici che due anni prima aveva consegnato a papa Luciani una relazione sul malaffare nello Ior, ma che morì all'improvviso, del tutto inaspettatamente, nel pieno della contesa, il 26 dicembre 1980, e venne rapidamente sostituito da Wojtyla con un cardinale a lui vicino. Fu nell'ambito di tale scontro che, per mano di forze interessate alla materia del contendere (il controllo delle casseforti vaticane), Emanuela Orlandi fu allontanata da casa con un tranello e usata per dare il via al ricatto? 

L'ultima telefonata di Emanuela

Siamo arrivati al punto. La pista economica fin  dall'inizio fu ritenuta plausibile (assieme a quella internazionale, attivata parallelamente, per "frenare" l'anticomunismo di Wojtyla) soprattutto alla luce dalle tensioni che scuotevano i santuari finanziari della Santa Sede. Ma le prove? Esiste un riscontro obiettivo, fattuale, capace di legare lo  scandalo Ior-Ambrosiano alla vicenda Orlandi? Fino al 2013 no. Poi una traccia è affiorata. Ci ha pensato un personaggio controverso come Marco Accetti, l'uomo che si è autoaccusato di aver partecipato al doppio sequestro (anche di Mirella Gregori) per conto di un gruppo di tonache dissidenti, esponenti della massoneria e agenti deviati (il cosiddetto "ganglio"), indagato a lungo e sottoposto a ben 13 interrogatori, a fornire una chiave di lettura della vicenda. Celata e Pazienza? Certo che furono chiamati in causa nelle nostre rivendicazioni, ha messo a verbale il fotografo oggi 67enne. «Basta leggere in controluce i fatti. Peccato che non l'abbiate capito!» La novità è emersa dalla decodificazione dell'ultimo contatto con la famiglia, che nessuno era mai riuscito a spiegare: Emanuela nell'ultima telefonata a casa, alle 19 del 22 giugno 1983, parlò di un'offerta di lavoro che era in dubbio se accettare. In particolare, disse alla sorella Federica di aver ricevuto la proposta di  distribuire volantini e cosmetici della ditta Avon a una sfilata delle Sorelle Fontana presso la Sala Borromini, in cambio di un compenso spropositato: 375 mila lire per un pomeriggio di lavoro. Nessun dubbio che fossero messaggi in codice involontariamente trasmessi dalla ragazza: la proposta era infondata e inverosimile, non c'era nessuna manifestazione della Avon in vista. Ma cosa volevano dire i rapitori e con chi intendevano dialogare? 

La decodificazione

La spiegazione fornita da Accetti (lo stesso personaggio, tra l'altro, che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela) è negli archivi della Procura di Roma e oggi potrebbe tornare utile al procuratore vaticano. «Parlando di Sorelle Fontana e di Sala Borromini la mia fazione intendeva richiamare alla nostra controparte, che avrebbe capito benissimo, quali erano le nostre personalità di riferimento e quale il nostro obiettivo». Un modo per "firmare" l'azione, insomma: «L'atelier delle Sorelle Fontana aveva sede a piazza di Spagna, proprio nel portone a fianco all'istituto San Giuseppe De Merode diretto da monsignor Celata, mentre Pazienza abitava nel centro di Roma, a piazza dell'Orologio, vicinissimo alla Sala Borromini». Fuori di metafora, la «sfilata della Avon» avrebbe evocato «un’azione promossa da monsignor Celata (Sorelle Fontana) e Pazienza (Sala Borromini), nel senso che da questo connubio si otterrà un risultato contro la politica dello Ior». Ricostruzione forzata, fantasiosa? Sta di fatto che i messaggi in codice furono effettivamente fatti pronunciare al telefono all'inconsapevole Emanuela dal misterioso "uomo della Avon" e di spiegazioni alternative, in quasi 4 decenni, non ne sono emerse. Un dubbio, piuttosto, riguarda il ruolo dello 007-faccendiere...  

Pazienza tradisce e passa con Calvi-Marinckus

È l'ultimo step della ricostruzione: vanno rimesse in ordine le date. Tra fine 1980 e inizio 1981, per effetto di quel vertice in Segreteria di Stato mai smentito dalla Santa Sede, l'offensiva contro Marcinkus stava dunque per partire? Così parrebbe, ma... Non poteva mancare il colpo di scena. Un doppiogiochista incallito come Pazienza avrebbe potuto non tradire? E difatti... È lui stesso a raccontarlo: «Acquisita la documentazione a Zurigo, ci ripensai. Di sicuro non volevo partecipare a un complotto contro il papa. Men che meno contro quel papa. La mia fede anticomunista ferveva  come non mai. Così, con una mossa che, ne ero consapevole, avrebbe potuto avere delle conseguenze, decisi di passare dall’altra parte...»  Perfetto per un film di spionaggio, ma questo accadde realmente: l'agente da poco assunto nel Sismi ad personam dal generale pidduista Santovito si trasferì armi e bagagli, in un amen, dalla trincea dei prelati della cosiddetta fazione "massonico-curiale" all'inner circle del papa polacco: «Calvi mi sembrava un degno interlocutore per affrontare la vicenda dei documenti compromettenti su Marcinkus». Il voltafaccia è dell'aprile 1981: «Alla fine i documenti su Marcinkus furono fatti sparire e tutto restò in casa, naturalmente in cambio di un sostanzioso pagamento (si è parlato di 1,2 milioni di dollari, ndr). Devo ammettere - è la conclusione di Pazienza - che in quell'occasione dissi una bugia al mio capo Santovito, gli riferii che in Svizzera non avevo trovato nulla. Ma in quel periodo al Sismi erano tutti impauriti per lo scandalo P2, figurarsi se le angustie di monsignor Celata avrebbero assorbito molto tempo a Santovito...»

La tessera mancante

Viaggio quasi concluso. Non è stato facile districarsi in questa spy story scandita da messinscene, doppi giochi, colpi bassi. Un'incongruenza, però, salta agli occhi: c'è una sfasatura sui tempi. Emanuela Orlandi, infatti, verrà rapita circa due anni dopo, nel giugno 1983, quando Pazienza, lo abbiamo appena visto, era passato da tempo (aprile 1981) sulla sponda opposta. Perché l'indicazione in codice dell'ultima telefonata faceva riferimento a una "alleanza" ormai superata? Gli organizzatori dell'azione Orlandi-Gregori si erano persi un passaggio? Oppure, nel frattempo, il faccendiere-007 si era prodotto in un'altra capriola delle sue? Fin qui la pista economica che, assieme a quella internazionale (l'obiettivo di indurre Agca a ritrattare le sue accuse a Est per salvaguardare il dialogo con Mosca, la famosa Ostpolitik), costituisce il nocciolo delle precedenti indagini della magistratura italiana. Ora la pratica passa Oltretevere: una sfida impegnativa ma anche esaltante, per il procuratore vaticano, chiamato a dimostrare, in nome della trasparenza voluta da papa Francesco, di poter regalare finalmente verità e giustizia su un intrigo che non ha mai smesso di turbare l'opinione pubblica.

"La Orlandi è una cosa grave": le chat e i misteri vaticani. Cosa c'è scritto nelle chat relative al caso di Emanuela Orlandi? Quarto Grado ha provato una possibile ricostruzione, e potrebbe spuntare un dossier.Angela Leucci il 14 Gennaio 2023 su Il Giornale.

C’è grande attesa per sapere se i nuovi elementi restituiranno finalmente verità alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Ieri era l’anniversario della sua nascita e Quarto Grado ha operato una possibile ricostruzione delle chat consegnate al promotore di giustizia, per cui è stata aperta un’inchiesta che il conduttore Gianluigi Nuzzi ha definito un “passo avanti clamoroso”, aggiungendo che “le verità sono nei cassetti”.

I nuovi elementi consistono in una cinquantina di screenshot tratti da chat su WhatsApp avvenute tra la fine del 2013 e l’inizio del 2014 su un presunto dossier Vaticano su Emanuela. Sono stati consegnati al nuovo promotore di giustizia vaticano dal fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, e dal suo avvocato Laura Sgrò a metà del 2021, su consiglio di Papa Francesco. Qui di seguito la ricostruzione: Abril cui si fa riferimento è il cardinale Abril, mentre Giani è Domenico Giani, ex comandante della Gendarmeria Vaticana.

Mi raccomando, dobbiamo fare delle fotocopie di tutti questi documenti di Emanuela”

Papa Francesco ci dice che dobbiamo andare avanti, però poi siamo noi che dobbiamo fare le cose, che facciamo?”

Però a questo punto i tombaroli chi li deve pagare, visto che li dobbiamo pagare di nascosto?”

Abril ci dice che dobbiamo andare avanti, che poi a settembre dobbiamo fare l’inventario delle cose che abbiamo trovato”

Di questa cosa dobbiamo avvisare Giani?”

No, no! Ma che, scherzi? Lascia perdere, la Orlandi è una cosa grave, il Papa è con noi, ci dice di andare avanti”

Devi andare per questa strada, però bisogna risolvere perché questa è una cosa molto grave”

Intanto la famiglia Orlandi ha organizzato per questo pomeriggio un sit in in largo san Giovanni XXIII per chiedere ancora una volta verità. “Io ne ho parlato, da un anno circa ogni tanto ne parlo - ha raccontato Pietro Orlandi a Quarto Grado, riferendosi alle chat - però non ho mai fatto i nomi delle persone perché vorrei verbalizzarli”.

"Quel ‘Sangue in Vaticano’ tra le contraddizioni"

Nel dicembre 2021, Sgrò ha consegnato direttamente al pontefice una missiva che ha ricevuto risposta. “Ero stanca del muro di silenzio che avevo da parte dell’ufficio del promotore di giustizia, per cui, siccome volevo in qualche modo comunicare con il Papa, affidai una riservata personale a una persona a me molto cara, che sapevo che viaggiava con il Papa”, ha spiegato in studio.

Sgrò auspica che siano battute tutte le piste, anche quella sessuale di cui finora si è vociferato ma cui non è mai stato dato credito ufficiale. La presunta pista sessuale darebbe credito alla rivelazione di un’amica di Emanuela che disse che una persona vicina a Papa Giovanni Paolo II ci avrebbe provato con lei. E si dice che in Vaticano qualcuno avesse perso la testa per Emanuela, ma non si sa se si tratti della stessa persona cui fa riferimento l’amica, che naturalmente ha un ricordo lontano della questione, essendo passati quasi 40 anni dalla scomparsa.

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "Ho avviato un processo di revisione in questo Stato perché ho subito una condanna di dieci mesi per non aver usato la prudenza del buon padre di famiglia nel presentare ai giornalisti il monsignore che poi ha rivelato i segreti", "in quello che depositerò nel fascicolo di Emanuela Orlandi si capirà perché ho presentato quei giornalisti".

  Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare ingresso in Vaticano per essere sentita come testimone al processo sui fondi della Segreteria di Stato vaticana. Alla domanda se abbia manipolato monsignor Perlasca, risponde: "Non mi sono mai finta un anziano magistrato, sono sempre stata Francesca Chaouqui con Genevieve Ciferri, è Genevieve Ciferri che non voleva che monsignor Perlasca sapesse che era Francesca Chaouqui quella che stava cercando di fargli partorire la verità.

 A me non interessava la verità processuale perché quel momento lì era il 2020, non esisteva un processo ai danni del cardinale, a me interessava una cosa esclusiva, ovvero che Papa Francesco sapesse la verità e la sapesse dal principale collaboratore del cardinale che lo aveva usato, manovrato, mentito e truffato". "Io non sono alla ricerca di una riabilitazione - perché nel momento in cui Papa Francesco nel 2018 mi ha richiamato e ha saputo come erano andate le cose io in quel momento lì ho già vinto", conclude

(ANSA il 13 Gennaio 2023) - "A me del processo non importa nulla quando sono venuta a conoscenza di questi fatti si parlava di indagini, io non capisco perché la Ciferri possa aver pensato che ci possa essere stata una qualunque forma di interposizione tra me e il tribunale, è tutto assurdo".

 Lo dice Francesca Chaouqui prima di fare il suo ingresso in Vaticano dove oggi sarà sentita come testimone nell'ambito del processo sui fondi della Segreteria di Stato. Alla domanda se ci sono rapporti tra lei e Maria Giovanna Maglie, risponde: "certo che ci sono rapporti con Maria Giovanna Maglie, è una persona che mi è molto vicina, mi ha presentato Geneviève Ciferri ed ha scritto un memoriale per spiegare che cosa Genoveffa Ciferri voleva, cioè Ciferri riteneva che Monsignor Perlasca avesse subito un tentativo di omicidio all'interno della casa Santa Marta". Da parte di chi? "Non lo sappiamo".

Lorenzo Zacchetti per affaritaliani.it il 13 Gennaio 2023.

Il Vaticano nel 2019 si era limitato ad aprire un fascicolo sulla riapertura delle tombe del cimitero Teutonico (dove si sperava di trovare i resti di Emanuela), ma su input di Bergoglio ora il promotore di giustizia vaticana Alessandro Diddi e la Gendarmeria hanno deciso di fare luce su quanto accaduto in quel funesto 22 giugno 1983 e nei quattro decenni successivi, con un'impressionante serie di bugie, depistaggi, omertà e false piste che hanno tirato in ballo ipotesi orrende come la pedofilia e la tortura, nonché le manovre ricattatorie della criminalità organizzata e l'intervento dei servizi segreti, non solo italiani, e di ambienti legati al terrorismo.

 Perché la Chiesa si muove solamente oggi? Perché immediatamente dopo la morte di Ratzinger e la pubblicazione del libro di Padre Georg, nel quale si nega l'esistenza di un dossier su Emanuela in Vaticano? Quante sono le chance di penetrare quel muro di gomma che ammanta l'intera vicenda?

Affaritaliani.it ne parla con Laura Sgrò, avvocata che ben conosce le vicende di San Pietro e dintorni. Lo scorso anno ha pubblicato il libro “Sangue in Vaticano. Le inquietanti verità sulla strage nella Guardia Svizzera” (Rizzoli, 304 pagine, 18 euro), dal 2017 segue la famiglia Orlandi, e durante il caso Vaticanleaks ha difeso la comunicatrice Francesca Immacolata Chaouqui, detta “la papessa”.

 Avvocato Sgrò, cominciamo da un aspetto che non è solo formale, ma anche sostanziale: fino al 12 gennaio non le è arrivata alcuna comunicazione ufficiale da parte del Vaticano sull'apertura dell'inchiesta. Ci sono novità sul punto?

No. So per certo che è stata aperta perchè ciò è stato comunicato alla stampa e anche mercoledì sera la redazione di “Chi l'ha visto?” ne ha avuto conferma dalla sala stampa del Vaticano. A noi però non è arrivata alcuna comunicazione diretta ed è obiettivamente curioso venirlo sapere da voi giornalisti, no?

 Senza dubbio: si allunga la lista delle stranezze di questa vicenda. Come si spiega quest'ultima svolta?

Nel 2019 io non avevo chiesto solamente la riapertura delle tombe del cimitero Teutonico, ma anche l'avvio di un'indagine. Questa richiesta si è persa senza che nessuno ci desse riscontro. Noi ovviamente abbiamo continuato a presentare istanze e richieste ogni volta che si presentava qualche novità. Ad esempio: si ricorda la telefonata della quale parlò Monsignor Viganò, avvenuta la sera stessa del rapimento?

Sì, certo. Era delle famose telefonate da parte del cosiddetto “americano”.

Bene, io chiesi di sentire Viganò e le persone che quella sera stavano con lui in segreteria di Stato, ad esempio il Cardinale Sandri. Zero assoluto anche su questo. Si sono limitati ad aprire e chiudere le tombe e per il resto silenzio: un muro di gomma rispetto a tutto il resto.

 Questo loro atteggiamento mi ha talmente irritato che nel dicembre 2021 ho scritto a Papa Francesco, informandolo del fatto che avevamo elementi nuovi e che ne volevamo parlare con lui. Sua Santità mi ha detto di rivolgermi al promotore di giustizia, ma ancora una volta la risposta è stata il silenzio. Oggi apprendiamo che aprono una loro indagine sulla base delle nostre istanze, spiegando che è un atto dovuto. Certo, ma lo era già nel 2018 e nel 2019!

Beh, nel frattempo è morto Ratzinger...

Non solo, sono successe anche altre cose. Padre Georg si è messo a capo della fronda dei conservatori, in Italia è stato depositato un disegno di legge per una commissione di inchiesta parlamentare sul caso-Orlandi e c'è stata la serie di Netflix “Vatican Girl” che ha indignato l'opinione pubblica di tutto il mondo.

 Lei non ha idea di quanti messaggi di solidarietà e incoraggiamento riceviamo ogni giorno io, Pietro Orlandi e Andrea Purgatori: siamo ormai a centinaia di migliaia. A questo proposito mi faccia dire che il ruolo della stampa in questo è molto prezioso e quindi ringrazio pubblicamente anche lei e affaritaliani.it.

Credo sia il nostro dovere, ma torniamo alla tempistica dell'indagine: non trova curioso che Papa Francesco prenda questa decisione subito dopo la morte di Ratzinger e le anticipazioni sul libro di Padre Georg, nel quale si parla anche di Emanuela? Oltretutto Georg è subito stato convocato a rapporto dal Santo Padre: che legame vede tra questi eventi in rapida successione?

 Mi auguro che si tratti di un cambiamento di rotta, ma che sia vero. Per dimostrarlo servono indagini non solo serie, ma anche immediate. È dalla mia prima denuncia del 2018 che ho indicato i nomi di persone da ascoltare rispetto a taluni fatti. Oggi ho riguardato quella lista: lo sa che ne sono morte quasi la metà? 

In più, ci sono quelli che la Procura di Roma ha iniziato a cercare fin dal 1983 e per i quali il Vaticano si è nascosto dietro le proprie normative: lo Stato italiano durante la prima inchiesta ha fatto ben tre richieste di rogatoria, tutte rispedite al mittente!

C'è una montagna di persone che i magistrati italiani volevano sentire e che sono morte! Questa è la prova del fatto che finora non c'è stata una vera volontà di fare luce sulla vicenda e sfido chiunque a sostenere il contrario. Se le cose sono cambiate davvero, bisogna agire in fretta: parliamo di persone anziane e non c'è tempo da perdere.

 Tra le persone ancora viventi che lei vorrebbe interrogare, da chi comincerebbe?

Dal Cardinale Re, che ha celebrato il funerale di Ratzinger. È il decano del collegio cardinalizio e allora era il sostituto alla segreteria di Stato, una figura molto vicina al Santo Padre. La Procura ha provato a interrogarlo per anni, ma non c'è mai stato verso.

Lei intende sentire anche il Cardinale Bertone, in merito a quali fatti specifici?

Bertone era il segretario di Stato quando è sorto il problema dell'apertura della tomba dove era sepolto De Pedis. Possibile che non sapesse niente? Davanti al casino che si è creato per spostarne la salma, possiamo davvero pensare che non ci sia stato un summit nel quale decidere come muoversi?!

 Non si può prendere in giro l'opinione pubblica: tutto il mondo guardava attonito al fatto che un esponente della Banda della Magliana fosse stato tumulato dentro una basilica e vogliamo far credere che in Vaticano non sia mai discusso di questa vicenda?!

Si è detto che sulla tomba di De Pedis si sia svolta una trattativa: lo Stato se ne sarebbe fatto carico, in cambio di informazioni sulla sorte di Emanuela da parte del Vaticano. È andata davvero così?

Beh, basta leggere il libro di Georg (Nient'altro che la verità - La mia vita al fianco di Benedetto XVI, Piemme, 336 pagine, 20 euro). Ammette che in più occasioni degli emissari del Vaticano andarono in Procura a parlare della tomba di De Pedis con il Dott. Capaldo, il quale a sua volta parla di una “semi-trattativa”. Ma io su questo le voglio raccontare una cosa per me davvero cogente, che mi ha fatto arrabbiare in maniera incredibile.

 La ascolto con piacere.

Quando è venuta fuori questa vicenda della trattativa, sono andata dal Comandante Giani: era uno dei fatti nuovi per i quali chiedevo la riapertura delle indagini. Presento istanze affinché sia sentito Capaldo e dopo due anni scopro che la persona che era andata da Capaldo... era proprio Giani! E ci sono anche delle conferme! Ma di cosa stiamo parlando?! E' una presa in giro! Giani sarebbe dovuto andare a Capaldo a chiedergli chi era andato a parlargli, quando era stato lui...

Torniamo al libro di Padre Georg: vi si legge che non è mai esistito un dossier del Vaticano su Emanuela Orlandi, ma lei ci crede?

Questo Georg lo nega adesso, ma a me aveva detto che c'era! Quando era ancora Prefetto facente funzioni, lo andai a trovare alla Casa Pontificia e alla mia domanda specifica rispose: “Eccome, se c'è un fascicolo riservato! Insista e se lo faccia consegnare dalla segreteria di Stato, io non ho più potere”.

 Immagino che sia su questo argomento che volete interrogarlo?

Certo. Anche se lui minimizza, nel suo stesso libro parla di una fase di indagine sul caso e a me Giani disse che si trattava di un vero e proprio lavoro di intelligence. Almeno si mettessero d'accordo, sulle stupidaggini che dicono!

 Su questo il Vaticano ha potere: sono tutti uomini suoi, che li sentisse! Si deve chiedere al capo della Gendarmeria perché ha fatto cose che non doveva fare, nell'esercizio delle sue funzioni. Nel Vaticano, le sentenze vengono emesse “nel nome di Sua Santità”: ma è questa la giustizia del Papa?! Secondo me si è andati oltre la decenza.

Lei, ormai, è diventata una delle massime esperte delle vicende vaticane...

Ed è per questo che le dico che si sono superati certi limiti. Nessuno ha la pretesa che la giustizia sia infallibile, ma qui siamo oltre ogni confine plausibile. Molto oltre. Mi auguro sinceramente che Papa Francesco voglia fare pulizia, sapendo che la verità costa. Che pagasse il prezzo della verità, qualunque essa sia.

 Il manifesto col quale annunciate il sit-in di sabato 14 gennaio, per i 55 anni di Emanuela, è molto duro anche nei confronti di Bergoglio, accomunato a Wojtyla e Ratzinger per il silenzio definito “complice”. Quindi, sperate che Francesco vi smentisca?

Me lo auguro davvero. Non vedo l'ora che il Papa ci dica che siamo degli idioti e che abbiamo sbagliato tutto. Che mi smentisca e io mi precipiterò a chiedergli scusa, se ho sbagliato a pensare male di lui.

Tra i fatti nuovi, c'è l'ormai famosa chat del 2014 tra due persone “molto vicine a Bergoglio” che pare lasciare ben poco spazio all'interpretazione, posto che sia autentica...

Eh, sì. Ma anche questo è un elemento che fa pensare. Nel momento in cui salta fuori una conversazione che riguarda anche il Santo Padre, se io fossi stato il promotore di giustizia del Vaticano sarei corso a fare un'indagine, a tutela del capo del mio Stato.

 In Vaticano, il potere esecutivo, quello giudiziario e quello legislativo appartengono tutti al Papa, che li esercita mediante delega. Non è una cosa di poco conto: il magistrato è un delegato del Papa, quindi in un caso del genere il suo primo pensiero avrebbe dovuto essere quello di andare a fugare ogni dubbio.

Tuttavia, proprio perché è un delegato, immagino che faccia quello che il Papa gli dice...

Tutte le ipotesi sono valide, però oggettivamente in questa vicenda c'è tutta una serie di cose davvero troppo strane. Io ho una concezione un po' diversa della giustizia: per me è una cosa seria, perché coinvolge la vita delle persone, che hanno tutte diritto alla dignità.

 Tra le cose strane c'è anche il fatto che si sia rifatto vivo Ali Agca, il quale sostiene di sapere tutto della vicenda. Dice che Emanuela non è mai stata stuprata e che si vuole screditare il Vaticano con false accuse di pedofilia. Inoltre, racconta che la ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Wojtyla e affidata alle suore. Lei che cosa pensa di queste dichiarazioni?

Beh, anche prendendole per buone, non mi pare proprio che esentino il Vaticano dalle sue responsabilità. Un Papa mandante di un rapimento non è una vicenda meno grave.

Ali Agca ha anche parlato del presunto legame tra il caso di Emanuela e quello di Mirella Gregori, un'altra ragazzina sparita a Roma nello stesso periodo, come peraltro altre coetanee nel corso dell'anno. Lei su questo che idea si è fatta?

Io penso che i due casi non abbiano alcuna attinenza tra loro. Mirella Gregori merita un'indagine a sé stante. Secondo me non ha giocato a suo favore il fatto di essere collegata a Emanuela, rimanendo così in una sorta di cono d'ombra. Le assicuro che nel fascicolo di Emanuela ci sono ben poche pagine “autonome” che riguardano anche Mirella.

Lo stesso vale per Simonetta Cesaroni, visto che si è parlato anche di una riapertura complessiva dei tre casi?

Questo è proprio un altro caso. Se per un certo periodo Mirella è stata effettivamente legata a Emanuela, Simonetta non ha proprio nulla a che fare con loro. Si è trattato di un omicidio cupo, sul quale la verità è tuttora preclusa sia alla famiglia, sia a tutti coloro che hanno lavorato alle indagini. Il vero punto di contatto tra questi tre casi è che rappresentano altrettanti fallimenti della giustizia italiana. Direi che ne sono l'emblema. Sarà brutto dirlo, ma è così.

Vorrei ricordare anche un'altra ragazza, della quale si parla anche in “Vatican Girl”. Mi riferisco all'amica di Emanuela che le avrebbe confessato di essere stata molestata da una persona “vicina a Wojtyla”: questa è una pista sulla quale ci sono dei riscontri?

Questa pista, di fatto, non è mai stata indagata. Mai, mai. Bisognerebbe farlo. Se ne parla solo sui giornali, ma la magistratura non l'ha mai approfondita. E se ne parla solamente ora, perché nel 1983 era veramente impossibile che si affrontasse di un'ipotesi di pedofilia nel Vaticano. Non si parlava nemmeno di pedofilia in generale, figuriamoci nel Vaticano!

A questo proposito, in Germania prosegue l'indagine su Ratzinger, accusato di non avere fatto abbastanza contro i preti pedofili, e dopo la sua morte si stanno cercando eventuali eredi che ne dovrebbero rispondere. Secondo lei c'è un legame tra la scomparsa del Papa emerito e il riemergere di queste ipotesi di indagine su Emanuela?

Credo che ci siano diverse concause. Secondo me in questo momento persistere con la “politica del silenzio” avrebbe avuto un risvolto ancora più negativo. Tra il trincerarsi dietro il mutismo e provare a fare qualcosa, è giusto seguire la seconda strada. Per il momento il Vaticano ha soltanto manifestato una volontà di chiarezza. Mi auguro che diventi fattuale.

Ho la sensazione che il Vaticano sia tutt'altro che un blocco monolitico. Il fatto che qualcuno vi abbia passato gli screenshot della chat del 2014, ad esempio, fa pensare che tanti conoscano la verità e che si combattano tra loro. Per questo, se non sarà il Papa a farci capire cosa è successo ad Emanuela, il rischio è che lo faccia qualcun altro, con conseguenze ancora più pesanti. E' questo a cui allude parlando di "prezzo della verità", oppure sbaglio?

È proprio così. Le parti in causa si usano, si mandano messaggi, tirano la corda... Io temo che in questo periodo storico la Chiesa rischi di implodere, a meno che non si reindirizzi verso la sua vera natura. Sarebbe un grave danno per i fedeli, che ci credono veramente e considerano la Chiesa come un punto di riferimento. Il momento è delicatissimo, quindi mi auguro che l'intenzione di Francesco sia davvero sincera. In fondo è il Pontefice: se vuole, farà.

Mi perdoni la domanda indiscreta: lei è credente?

Sì.

 E lo rimane pur essendo passata attraverso le brutte esperienze che ci ha spiegato in modo così efficace?

Da qualche tempo, il mio rapporto con Dio è abbastanza conflittuale. Ho visto troppe cose che avrei preferito non vedere. Soprattutto, non avrei voluto vederle nel Vaticano.

 In questo caso si è parlato del coinvolgimento di alcuni poteri davvero temibili: la Chiesa, lo IOR, la 'ndrangheta, la banda della Magliana, il terrorismo internazionale, i servizi segreti italiani e di altri Paesi, come Cia, Kgb e Stasi... Non ha mai avuto paura?

Mah, io sono stata minacciata più volte. Sì, ci sono stati dei momenti nei quali ho avuto paura. Tuttavia, dopo una lunga e attenta riflessione e dopo un confronto aperto sia con mio padre (che ora non c'è più) che con mio marito, mi sono persuasa della necessità di andare avanti.

Una strada del genere non può essere percorsa a metà. Non sarebbe giusto nei confronti delle persone che ti chiedono aiuto. Pietro Orlandi è un caterpillar, una persona straordinaria. Dopo aver detto di sì a lui, in quanto rappresentante della sua solidissima famiglia, bisogna mettere in conto la necessità di camminargli accanto. Io l'ho scelto e quindi cammino.

 Anche nei confronti di Pietro Orlandi ci sono stati tentativi di intimidazione?

Non penso. Certamente però ci sono stati dei gesti di stizza da parte del Vaticano. Ad esempio, quando Pietro ancora lavorava allo IOR, un prelato lo convocò per parlare del sit-in che aveva organizzato. Gli tirò addosso un giornale, urlandogli: “E basta con 'sta storia di tua sorella!”.

 Un'ultima domanda: ma secondo lei che cosa è successo a Emanuela? Qual è la pista più probabile?

Ho una mia idea che preferisco tenere per me, finché non ho le prove. Ciò non toglie, e questo è il grande problema, che ci sono pezzettini di verità in tutte le piste. Un riesame serio di tutta la vicenda prevede importanti tempi, energie, esperienza, risorse e mezzi.

Mi chiedo se la procura Vaticana possa fare tutto questo. Io credo che - se davvero volesse fare luce su ogni cono d’ombra - dovrebbe avvalersi del Concordato e chiedere leale collaborazione e cooperazione alla procura di Roma. Ecco, questo sì che porterebbe se non alla verità, a pezzi certi di questo terribile mosaico.

Caso Orlandi, il pm Tescaroli (che indagò su Calvi e l’Ambrosiano): «La Magliana ebbe un ruolo e Pippo Calò ne sa molto». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2023.

Il Procuratore aggiunto, responsabile della Dda di Firenze: «La riapertura dell’inchiesta in Vaticano va accolta con grande favore. Abbatino e Mancini collegavano il rapimento al recupero dei soldi della mafia nel circuito Ior-Ambrosiano»

È il magistrato che ha indagato più a fondo le pericolose connessioni tra lo Ior, il Banco Ambrosiano, Cosa Nostra e la banda della Magliana; il pm che ha avuto modo di intuire le relazioni pericolose che hanno dato origine alla cosiddetta «pista finanziaria» per il rapimento di Emanuela Orlandi. Ovvero la pista secondo cui il sequestro della cittadina vaticana sarebbe stato deciso dalla mafia per recuperare, tramite un ricatto, l’ingente massa di capitali riciclati nell’Ambrosiano di Roberto Calvi (con i circuiti offshore dello Ior e le società miste come la Cisalpine Bank di Nassau). Per queste ragioni Luca Tescaroli, classe ‘65, oggi alla Procura di Firenze come Procuratore aggiunto incaricato di dirigere e coordinare la Dda (Direzione distrettuale antimafia), è particolarmente sensibile alla apertura delle indagini sul caso Orlandi da parte del Vaticano, tramite il suo Promotore di Giustizia, il professor Alessandro Diddi: un passo certamente voluto da Papa Francesco, che di recente ha risposto a una sollecitazione della avvocatessa della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, invitandola a presentare una nuova richiesta formale in questo senso.

Procuratore Tescaroli, come ha accolto la notizia della apertura delle indagini sul caso orlandi da parte del Vaticano, dopo 4o anni di muro e di silenzi Oltretevere, sin da quando lei indagava sullo Ior/Ambrosiano?

«Provo il massimo rispetto per l’iniziativa del Vaticano anche perché — giova ricordarlo — si tratta comunque di uno stato straniero e quindi l’iniziativa è certamente stata avallata ai più alti livelli. Va accolta quindi positivamente: cercare la verità è un obbligo morale di ordine generale e giuridico, oltre che — in questo caso — un tributo nei confronti della famiglia Orlandi e un ristoro nei confronti dei parenti che tanto hanno sofferto per la loro congiunta e per la mancata emersione dei fatti, nonostante tanti sforzi investigativi. Sebbene siano passati quattro decenni per la ricerca della verità c’è sempre tempo, perché determinati reati sono imprescrittibili e soprattutto perché senza verità non c’è giustizia».

Lei ha scavato molto sulla vicenda Ior-Ambrosiano-mafia-Magliana. Come può essere collocato il rapimento Orlandi?

«L’evento si colloca in un periodo peculiare, quel 22 giugno 1983, che era situato a un anno di distanza dalla morte di Calvi che a Londra — stando a una sentenza ormai passata in giudicato — ha stabilito essere stato ucciso sotto il Ponte dei Frati Neri: si tratta di un’epoca che vedeva un forte attivismo della Banda della Magliana, che aveva intrecciato rapporti con il Vaticano da un lato e con la mafia e la politica dall’altro. La mia inchiesta ha portato alla luce, attraverso riscontri fattuali e l’apporto di numerosi collaboratori di giustizia, i rapporti ibridi tra Calvi, lo Ior, Marcinkus da un lato e con le organizzazioni criminali di tipo mafioso dall’altro. È emerso, con sentenze confermate in Cassazione, che Calvi è stato ucciso e che l’Ambrosiano è stato utilizzato per massicce operazioni di riciclaggio di capitali riconducibili a Cosa Nostra, anche tramite lo Ior. Credo che il caso Orlandi ed i ricatti incrociati vadano collocati in questo contesto».

Quali evidenze empiriche ha avuto modo di incontrare, nel corso del suo lavoro sull’Ambrosiano, in merito al caso Orlandi?

«Le dichiarazioni di giustizia sulla vicenda Calvi-Ambrosiano di figure come Maurizio Abbatino e Antonio Mancini hanno ancorato la scomparsa di Emanuela Orlandi alla pista finanziaria che coinvolse lo Ior nella sparizione di masse importanti di denaro che la criminalità organizzata desiderava recuperare. Anche le dichiarazioni di Sabrina Minardi, la compagna di Enrico De Pedis, pur se non granitiche, vanno in questa direzione».

Ci sono altri riscontri fattuali ?

«Il fatto che il boss della Magliana Enrico De Pedis detto “Renatino”, assassinato nel ‘90, sia stato sepolto nella basilica di Sant’Apollinare contigua alla scuola di musica frequentata da Emanuela è un elemento incontrovertibile, che fa riflettere. Anche l’attentato a Roberto Rosone — il vicepresidente del Banco Ambrosiano che contrastava i rapporti pericolosi di Calvi con la criminalità organizzata — da parte del boss della Magliana Danilo Abbruciati poi rimasto ucciso da una guardia giurata, è anch’esso un dato incontestabile, così come il fatto che chi portò in moto Abbruciati fosse Bruno Nieddu, un uomo della Magliana, poi condannato».

Come lei ricorderà, si parlò del fatto che — essendo poche le famiglie di laici che lavoravano in Vaticano, Emanuela fosse stata scambiata o rapita, per difficoltà tecniche, al posto di Raffaella Gugel, figlia di Angelo, assistente personale di papa Giovanni Paolo II e in precedenza «aiutante di camera» di papa Luciani poi al fianco anche di Benedetto XVI, fino alla pensione. In diverse società a cui era interessato Flavio Carboni figurava tra i soci tale Rita Gugel: identico cognome, molto poco diffuso in Italia, solo nel Trevigiano.

«Sì ricordo l’episodio: quel nome figurava nelle carte dell’inchiesta condotta dal pm Oliviero Drigani di Trieste. Sono profili e spunti che andrebbero approfonditi».

Sono passati 40 anni, chi in ambito criminale potrebbe offrire contributi alla soluzione del caso?

«Certamente Pippo Calò, l’uomo di collegamento tra Cosa Nostra e la Banda della Magliana. Ha 91 anni, è in carcere e se decidesse di collaborare, come è stato chiesto dalla avvocatessa Laura Sgrò, si aprirebbero scenari conoscitivi importanti».

Il rapimento Orlandi si inserisce in un contesto più ampio?

«Si. Queste vicende si collocano in un ampio contesto che vide episodi di grande valenza storica come l’attentato al Papa del 13 maggio ‘81, la repressione in Polonia attuata dal generale Jaruzelski, l’ultima guerra di mafia che in Sicilia portò all’affermazione dei Corleonesi. Le vicende Orlandi e Gregori vanno quindi scavate attenendosi ai fatti, ma senza trascurare un contesto più ampio. Una cosa è certa: il caso Orlandi merita di essere approfondito. Se anche la Procura di Roma riterrà di riaprire l’inchiesta archiviata nel 2016 non compete a me stabilirlo, pur se ritengo che la ricerca della verità sia un dovere morale».

Cosa sappiamo, per certo, sul caso Emanuela Orlandi, in 10 punti. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

La verità storica e giudiziaria acquisita sul caso Orlandi, su cui il Vaticano ha riaperto le indagini: i pedinamenti di altre ragazze, i riscontri sulle due piste principali, il ruolo di Agca e De Pedis, il nesso con il caso Gregori

Dopo l'accelerazione dei giorni scorsi, che ha portato all'apertura di un fascicolo per omicidio e occultamento di cadavere da parte del Promotore di giustizia della Santa Sede, Alessandro Diddi, per la prima volta saranno dunque le autorità ecclesiastiche, con il supporto della Gendarmeria, a tentare di risolvere l'intrigo legato alla scomparsa della «ragazza con la fascetta». Quarant'anni dopo i fatti (la ragazza sparì il 22 giugno 1983) e in un clima di grandi aspettative. 

Qualora la magistratura vaticana riuscisse ad arrivare dove non è giunta quella italiana, infatti, la luce della riconquistata verità e trasparenza su una pagina tanto buia e controversa si rifletterebbe anche sul pontificato di Francesco. Indizi, prove, riscontri: la possibile svolta passa da una rivisitazione delle piste percorse, che saranno scandagliate rivedendo vecchie carte e informative, nonché dall'audizione di nuovi testimoni. Un lavoro enorme, nel quale sarà centrale l'esame delle precedenti inchieste della Procura di Roma (1983-1997 e 2008-2015), da tempo archiviate. Con un obiettivo preliminare: individuare i fatti già emersi e indiscutibili, cristallizzati in verbali giudiziari sulla base di elementi probatori solidi, che possano essere usati  come «base istruttoria» per successivi accertamenti. E allora eccoli, i 10 punti fermi da cui partire.

1 - Azione premeditata

Una prima certezza riguarda la natura del crimine ai danni della sventurata Emanuela Orlandi: si trattò di un allontanamento volontario da casa, in quanto la quindicenne figlia del messo pontificio Ercole, ingenuamente, cadde in un tranello, che però, nel giro di poche ore, diventò un sequestro di persona vero e proprio. Ma attenzione: Emanuela non fu la prima «scelta». Come evidenziato da due verbali d'interrogatorio dell'Arma dell'11 e del 24 luglio 1984, almeno due coetanee residenti in Vaticano, le figlie dell'aiutante da camera di Wojtyla, Angelo Gugel, e del capo della Gendarmeria, Camillo Cibin, furono «attenzionate», pedinate e poi scartate, in quanto i familiari ottennero una sorveglianza speciale (il primo verbale è di Ercole Orlandi, il secondo della diretta interessata, Raffaella Gugel, la quale riferì di essere stata seguita per settimane sul bus e per strada da un uomo «sui 28-30 anni, carnagione scura, tipo nazionalità turca»). Tale antefatto è rafforzato da un "alert" lanciato dal capo dello Sdece (servizi segreti francesi), il marchese Alexander De Marenches, su possibili rapimenti  nelle Sacre mura e sembra accreditare la pista del terrorismo internazionale legata alle tensioni di quel periodo, in piena Guerra Fredda, e ai tentativi di Alì Agca di uscire dal carcere. Va infatti tenuto presente che - due anni prima - l'autore dell'attentato a Wojtyla  (13 maggio 1981) era stato condannato all'ergastolo al termine di un processo-lampo (luglio 1981). E, molto stranamente, non aveva presentato appello. Aveva forse ricevuto qualche rassicurazione? Negli stessi mesi, mentre il Lupo grigio riceveva a Rebibbia la visita di due esponenti dei servizi segreti (uno Sisde, Luigi Bonagura, e l'altro Sismi, Alessandro Petruccelli), iniziarono a circolare voci sulla sua liberazione tramite il "prelevamento" di cittadini vaticani. Un caso? Non basta. La nuova inchiesta dovrà valutare anche un ulteriore elemento significativo e mai approfondito: Emanuela assunse la cittadinanza vaticana solo tre mesi prima di sparire, come attesta un atto anagrafico datato 23 marzo 1983 (protocollo n. 06773). Anche questa una coincidenza? Oppure, al contrario, la famiglia fu indotta dai rapitori, con un sotterfugio, a far «emigrare» la ragazza Oltretevere, per creare le condizioni del ricatto? 

2 - Ricatto ai massimi livelli

Emanuela sparì il 22 giugno di 40 anni fa e la vicenda assunse presto rilievo planetario. A certificare la delicatezza del caso Orlandi e la probabile natura spionistica dell'azione sono quattro circostanze. La prima è che Giovanni Paolo II decise di pronunciare pubblicamente nome e cognome della quindicenne, con voce accorata, durante l'Angelus del 3 luglio 1983, solo 11 giorni dopo la scomparsa, condividendo «le ansie dei familiari» e facendo appello «al senso di umanità di chi ha responsabilità in questo caso». Impossibile che una scelta del genere non fosse stata vagliata in Segreteria di Stato: il Santo Padre non si occupa di «scappatelle». Emanuela doveva essere già diventata lo strumento di un'azione inconfessabile e di un ricatto ai massimi livelli, con il pontefice polacco nella parte della vittima, tanto da essere costretto a piegarsi. Altri elementi eloquenti: la concessione ai rapitori di un codice riservato (il 158) per contattare il Segretario di Stato Agostino Casaroli (procedura anomala, spiegabile solo con ragioni serie, il numero 2 vaticano non parla con chiunque gli telefoni); la presenza in casa Orlandi di due agenti del Sisde (Giulio Gangi, morto di recente, e Gianfranco Gramendola) già 48 ore dopo la scomparsa; la pressione fatta dagli stessi 007 perché il padre nominasse un avvocato vicino ai servizi segreti, Gennaro Egidio, la cui parcella (altro indizio sottovalutato) non fu mai presentata a Ercole Orlandi e saldata in altro modo, mai chiarito.  

3 - Utilizzo dei codici

L'utilizzo di messaggi cifrati è il terzo dato di fatto dal quale la nuova inchiesta non potrà prescindere.  I mandanti del sequestro della giovane cittadina vaticana la fecero avvicinare da un loro «operatore» (in tempi recenti si è ipotizzato fosse Marco Accetti, il fotografo romano oggi67enne a lungo indagato dalla Procura) per proporle di distribuire volantini della ditta di cosmetici «Avon» a una sfilata delle «Sorelle Fontana» presso la «Sala Borromini», in cambio di 375 mila lire per un solo pomeriggio di lavoro. I termini di tale (finta) offerta furono riferiti da Emanuela nella sua ultima telefonata a casa. Che si trattasse di una trappola e di messaggi in codice (non era in programma nessuna sfilata  e il compenso era esorbitante, del tutto inverosimile), concepiti per diventare pubblici dopo la denuncia della famiglia, è fuori discussione. Ma resta da chiarire chi fossero le «entità» in campo: i rapitori di Emanuela (verosimilmente un gruppo di laici criminali, tonache infedeli, massoni e 007 deviati, ribattezzato «il ganglio») con chi intendevano «dialogare» sotto traccia? Chi era la controparte in Vaticano alla quale dettare le condizioni del rilascio dell'ostaggio? Non manca una possibile interpretazione specifica, che conduce a un alto prelato ancora in vita: la parola-chiave «Sorelle Fontana» (la cui sede era in piazza di Spagna) potrebbe infatti essere stata usata per richiamare la figura di monsignor Pierluigi Celata, braccio destro di Casaroli e all'epoca direttore dell'istituto San Giuseppe De Merode, ubicato nella stessa piazza. Altro possibile tassello, la decrittazione del codice «158», numero anagramma di «5-81», mese e anno del crimine in piazza San Pietro: fu usato per stabilire un nesso (sempre a uso riservato) tra caso Orlandi e attentato al Papa e così «firmare» il movente? 

4 - Riscontri sulla pista internazionale

Emanuela scompare il 22 giugno 1983 e Ali Agca, sei giorni dopo, ritratta le accuse lanciate nei mesi precedenti a tre funzionari bulgari (ed estensivamente al Cremlino) di essere stati suoi complici e mandanti nel progetto di uccidere il Papa. L'elemento di riscontro più nitido della pista internazionale è questo: la retromarcia del mancato killer turco, avvenuta il 28 giugno 1983, prima davanti al giudice della pista «rossa» sull'attentato, Ilario Martella, e subito dopo in un scenata delle sue, nel cortile della Questura di Roma. Il ragionamento del Lupo grigio (la cui intelligenza verrà provata da svariate perizie: di certo il farsi passare inaffidabile è stata la sua polizza sulla vita) potrebbe essere stato questo: voi mi avete rassicurato, sequestrando una ragazzina vicina di casa del Sommo Padre che sarà rilasciata in cambio della mia scarcerazione, e io vi ripago rimangiandomi le accuse a Est e salvando gli equilibri della Ostpolitik, tanto cara al cardinale Casaroli. 

Pista rossa polverizzata, dunque. In uno scenario in cui il doppio ricatto "cittadina vaticana" (Orlandi, per indurre la Santa Sede a non opporsi a un provvedimento di clemenza) e "cittadina italiana" (Gregori, per premere sull'allora presidente Pertini,  titolare del provvedimento di grazia) appare più che plausibile. Va ricordato che il processo istruito da Martella contro 4 turchi e 3 bulgari terminerà nel 1986 con un nulla di fatto: tutti assolti. Mosca estranea e giallo dei mandanti (di certo Agca si avvalse di un sostegno logistico e finanziario) mai risolto. A favore della pista internazionale c'è anche il fatto che lo scambio con Emanuela (e in seguito anche con Mirella Gregori) sia stato perseguito dai sequestratori (nei panni cangianti dell'Amerikano, del Fronte Turkesh e infine del gruppo di Boston, vedi punti seguenti) con grande insistenza, in tutti i comunicati, addirittura fino a tutto il 1985. Richieste e messaggi si interruppero dopo la sentenza di assoluzione dei bulgari. Un altro bizzarro sincronismo?

5 - Riscontri sulla pista economica

E veniamo al cosiddetto «movente multiplo». Sia l'analisi degli eventi legati alla politica vaticana dei primi anni Ottanta sia taluni messaggi dei rapitori lasciano emergere uno scenario ancora più complesso, fondato su elementi riscontrabili. I sequestratori, allontanando da casa Emanuela, potrebbero aver innescato un duplice ricatto, con un uso per così dire «multitasking» della quindicenne: da un lato la politica internazionale (ritrattazione di Agca per «salvare» Mosca) e dall'altro la malagestione dei fondi vaticani, all'epoca gestiti dal  presidente dello Ior, Casimir Marcinkus, parte dei quali spediti in Polonia a sostengo del sindacato Solidarnosc. La pressione mirava a estromettere dalla catena di comando l'arcivescovo statunitense, già «sotto botta» per il crack del Banco Ambrosiano, e a recuperare i soldi non sempre puliti (mala romana, mafia) transitati in Vaticano? In questa direzione andrebbero tre elementi, il primo dei quali segnalato all'autore di questo articolo da fonte coperta. Eccoli. Uno: l'uso del codice Avon usato per tirare in ballo, in forma di anagramma, nei negoziati sotterranei, la pontificia fondazione Nova (stesse lettere al contrario), cassaforte vaticana (istituita nel 1960, poi cambiata di nome) coinvolta nella gestione dell'obolo della Chiesa. Due: il rimando al «5-1984» contenuto in un comunicato spedito da Boston nell'ottobre 1983, nel quale si faceva riferimento al «sequestro di altre ragazze», ma in realtà, stando a quanto riferito da Accetti, inserito al fine di "dettare" alla controparte i tempi dell'intesa Italia-Santa Sede sul dissesto dell'Ambrosiano: la transazione da 250 miliardi di lire (sui mille vantati dai creditori) sarà definita proprio nel maggio 1984, con l'accordo di Ginevra, e questo è un fatto. Tre: la coincidenza temporale tra i primi giorni della presunta «scappatella» di Emanuela (accreditata dalle telefonate di «Pierluigi» e «Mario» il 25 e il 28 giugno) e le tensioni all'interno della commissione bilaterale Italia-Vaticano (composta da Agostino Gambino, Pellegrino Capaldo e Renato Dardozzi per la parte vaticana e da Filippo Chiomenti, Mario Cattaneo e Alberto Santa Maria per quella italiana), che avrebbe dovuto chiudere l'intesa sulla vicenda Ior-Ambrosiano il 30 giugno, ma fu costretta a rinviare per dissensi interni. Emanuela fu «trattenuta» allo scopo di esercitare ulteriori pressioni?  

6 - Regia unica Amerikano-Turkesh 

La presenza di un unico soggetto dietro la molteplicità di messaggi è un altro elemento acquisito. Dopo le schermaglie dei primi telefonisti, dal 5 luglio 1983  a gestire la comunicazione con la famiglia e gli organi di stampa è il cosiddetto «Amerikano» (lo stesso che telefona al cardinale Casaroli, e la cui voce somiglia a quella di Marco Accetti); poi, a partire dal 4  agosto, i comunicati sono firmati anche dal «Fronte Turkesh». Una sigla slegata, inseritasi per depistare? No. Erano «entità» oscure di certo legate tra loro, una più aspra nei toni, l'altra più dialogante («falchi» e «colombe» per la stampa). Così come «l'Amerikano» aveva dato prova del possesso della ragazza (o perlomeno di essere in contatto con i veri rapitori) rivelando un fatto specifico («Emanuela era stata in chiesa il 22 aprile 1983», dettaglio che neanche la famiglia ricordava, prova di precedenti pedinamenti), così il «Turkesh» nel «Komunicato 3» inviato all'Ansa il 13 agosto («Punto IV: cena lunedì a casa di...») mostrò di sapere che Emanuela era stata da parenti due sere prima di sparire, circostanza anche questa non nota. Regia unica, dunque. Inoltre, da ottobre, con quattro lettere altrettanto circostanziate spedite al corrispondente a Roma della Cbs, Richard Roth, i rapitori assunsero le sembianze del gruppo di Boston: questioni da rivedere dal punto di vista investigativo, in quanto l'allora giovanissima moglie di Marco Accetti proprio in quel periodo (agosto-dicembre 1983) si trovò nella capitale del Massachussets, dove studiava suo fratello. Ennesima coincidenza?  

7 - Legame con il caso Gregori

Ma la fine di Mirella Gregori, scomparsa a Roma 46 giorni prima, il 7 maggio 1983 dalla sua casa di via Nomentana, perché sarebbe collegata a quella della «ragazza con la fascetta»? Il dubbio di un abbinamento forzato ha spesso aleggiato sull'intrigo, ma  a scrollare ogni dubbio ci sono elementi probatori  forti. Primo punto: una perizia grafologica disposta all'epoca dai magistrati dimostrò che il testo lasciato dai rapitori di Emanuela in un furgone Rai a Castelgandolfo il 4 settembre 1983 era stato scritto dalla stessa mano che pochi giorni dopo, l'8 settembre, inviò una lettera ai Gregori per rivendicare la «detenzione» di Mirella. Secondo: a fine settembre l'Amerikano (voce di Accetti, secondo i periti sentiti dalla docu-serie «Vatican girl», che nei di recente ha riacceso l'interesse sul caso a livello mondiale) telefonò al bar dei Gregori elencando i vestiti indossati da Mirella (compresa la marca della biancheria intima). Terzo: esiste prova inconfutabile - grazie a una lettera timbrata «Quirinale», recapitata alla signora Gregori in data 21 giugno 1983 - che il presidente Pertini si interessò di Mirella prim'ancora che sparisse Emanuela, segno che i ricatti nell'ombra erano già cominciati.

8 - La sepoltura «indegna» del boss

Banda della Magliana e «indegna» sepoltura del boss Enrico De Pedis in una basilica del centro di Roma (a tal proposito fu usato il codice "Aliz-Lazio", qui il servizio del Corriere) vanno a definire il riscontro numero 8. Il legame tra malavita romana e ambienti religiosi è noto e rappresenta un potente elemento di prova di possibili malefatte. Anche questo «link» potrebbe essere riesaminato dagli inquirenti d'Oltretevere nella nuova inchiesta. Tutto partì dalla telefonata al Chi l'ha visto? del luglio 2005, da parte di persona di certo informata. Eccola, riportata senza tagli: «Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della basilica di Sant’Apollinare, e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti. E chiedete al barista di via Montebello, che pure la figlia stava con lei, con l’altra Emanuela… E i genitori di Emanuela sanno tutto. Però siccome siete omertosi, non direte un caz... come al solito!» È una traccia pesante, un ciclone sul doppio giallo, che ha messo gravemente in imbarazzo la Chiesa, in quanto nel 1990 era stato proprio il vicario di Roma, Ugo Poletti, ad autorizzare la sepoltura di De Pedis chiesta dall'allora rettore della basilica, don Pietro Vergari. Confermato anche il coinvolgimento della Gregori. Nel 2012, non a caso, dopo una trattativa con la Procura che nel frattempo aveva aperto l'inchiesta-bis (indagati l'ex amante di «Renatino» Sabrina Minardi, tre malavitosi della vecchia banda, don Vergari e Marco Accetti), il Vaticano riuscirà a sbarazzarsi del macigno-De Pedis, con l'estumulazione della salma del boss, poi fatta cremare dalla moglie Carla (qui il ritratto della signora, morta nel 2020). 

9 - Ruolo della banda della Magliana

La malavita romana «manovalanza» per gestire Emanuela (e anche Mirella) nei giorni successivi alla scomparsa: è questo lo scenario delineato dal procuratore aggiunto Capaldo nei 4 anni in cui fu lasciato indagare (2008-2012, poi il suo capo Pignatone avocò a sé l'inchiesta e la condusse all'archiviazione), fondato sulle dichiarazioni autoaccusatorie di Sabrina Minardi. Donna fragile, per anni cocainomane, al di là delle rivelazioni non dimostrabili («fui incaricata da Renato di portare Emanuela dal Gianicolo al benzinaio in fondo alla strada delle mille curve, dove la consegnai a un uomo in tonaca; Renatino frequentava Marcinkus, il quale violentò Emanuela, che poi fu uccisa e gettata in una betoniera»), l'ex «preferita» del gangster ha rivelato un elemento di rilievo: l'ubicazione della possibile "prigione" dell'ostaggio, in via Pignatelli, a Monteverde Nuovo, dove la polizia effettivamente trovò il cunicolo indicato. La questione resta tuttavia ancora aperta, in quanto tracce di Dna della ragazzina nel pertugio sotto il palazzo non sono state individuate. 

10 - Ruolo dell'uomo del flauto

 Flauto consegnato alla Procura di Roma, confronti tra la sua voce e quella dei telefonisti dell'epoca, verifica su chi potrebbe aver scritto (a Roma) e poi inviato (da Boston) le lettere di rivendicazione che nell'autunno 1983 indussero il presidente Pertini a trattare, riesame della lettura storica del doppio sequestro e dei moventi (multipli) indicati: ritrattazione di Agca, «defenestrazione» di Marcinkus, ma anche alcune nomine ecclesiastiche a favore della propria «fazione» (da lui descritta filo-Casaroli) e ritocchi al codice canonico. Il lavoro più impegnativo del procuratore Diddi (qualora scegliesse di non lasciare nulla di intentato) sarà probabilmente quello sul personaggio più inquietante dell'intrigo, quel Marco Accetti che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari, nonché un lungo memoriale in cui si è autoaccusato del duplice rapimento. I riscontri al racconto finora non sono mancati (dal flauto alla decrittazione dei codici, passando per la voce compatibile, la conoscenza della cabine della Sip da cui partirono le chiamate e per il suo coinvolgimento in almeno altre due oscure vicende, il  caso Garramon e l'omicidio Skerl). Ciò che manca è una piena confessione sui sodali, sui mandanti dell'azione Orlandi-Gregori: chi furono i «capi», coloro che ingaggiarono l'uomo del flauto per lo «sporco lavoro» sulla pelle delle due sfortunate ragazzine? Accetti ha parlato di tonache non in linea con papa Woytila e agenti dei servizi segreti dell'Est, ma senza mai fare nomi. Ora il compito passa alla giustizia vaticana. Riuscirà a spingersi, la Santa Sede, fin dove il «vicino di casa», lo Stato italiano, non ha avuto la capacità o la volontà di arrivare? (fperonaci@rcs.it)

CODICE ORLANDI TOMBE E SEGRETI. Rita Cavallaro su L’Identità l’11 Gennaio 2023

Nomi pesanti, tombaroli e messaggi cifrati. Sono questi i misteri celati nella chat segrete che hanno spinto la Santa Sede ad aprire, per la prima volta dopo 39 anni, un fascicolo sul caso di Emanuela Orlandi, la 15enne svanita nel nulla il 22 giugno 1983. Sul mistero del rapimento della ragazza, cittadina vaticana, in questi decenni si sono susseguite piste che spaziano dalla Banda della Magliana ai soldi dello Ior, si sono aperte e chiuse inchieste alla Procura di Roma, si è cercato nella tomba di Renatino De Pedis, il boss della banda criminale che in quegli anni si era presa Roma. La bara di Renatino, tumulata incredibilmente nella chiesa di Sant’Apollinaire, venne aperta, perché qualcuno giurava che insieme ai suoi resti fosse tumulato il corpo di Emanuela. Invece c’erano solo le ossa del boss. Anche l’apertura di due tombe al cimitero Teutonico, indicato da una gola profonda come il luogo in cui giacevano le spoglie della ragazza, non hanno portato a nulla. Anzi, hanno ancor più alimentato il mistero, perché è venuta alla luce una stanza sotterranea, costruita successivamente in cemento armato, dove custodire qualcosa di segreto. Stranamente all’interno non c’era nulla: è stata trovata vuota.

E alcuni mesi fa la famiglia Orlandi è entrata in possesso di documenti che indicherebbero come in quella stanza siano stati invece occultati i resti di Emanuela. La svolta che ha dato nuova linfa all’inchiesta è arrivata grazie ad alcune persone interne alla Chiesa che hanno consegnato a Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, gli screenshot di una conversazione avvenuta nel 2014 tra due cellulari riservati del Vaticano. In questo scambio di messaggi si parla della ragazza rapita, della stanza sotterranea del cimitero Teutonico, di “tombaroli”, di Papa Francesco e del cardinal Abril, che all’epoca era il presidente della commissione cardinalizia dello Ior. È Pietro a fornire alcuni dettagli di quelle conversazioni sulle quali, al momento, c’è riserbo. “A un certo punto i due scrivono: come paghiamo i tombaroli per quelle cose che abbiamo preso? E poi parlano di documentazioni su Emanuela e dicono che ne era al corrente Papa Francesco e il cardinal Abril”, rivela Pietro Orlandi, che non ha dubbi sul fatto che “il Papa sa cosa è successo a Emanuela”. Bergoglio, d’altronde, subito dopo la sue elezione, aveva detto una strana frase a Pietro, durante un incontro a messa: “Emanuela è in cielo”. Da allora la famiglia Orlandi l’ha cercato per un incontro riservato, voleva la verità, ma il Pontefice non li ha mai ricevuti. E quando i whatsapp sono finiti nelle mani dei familiari della ragazza, Pietro, dietro consiglio del suo legale Laura Sgrò, ha scritto una lettera al Papa, consegnata a mano da una persona fidata nel novembre del 2021. Inaspettatamente, due mesi dopo il Pontefice ha risposto con una missiva, in cui ha precisato che il Vaticano era disponibile a collaborare al caso e ha indicato alla famiglia Orlandi di condividere gli elementi di prova con il tribunale ecclesiastico. Così Pietro e il suo legale avevano depositato subito la documentazione alla cancelleria della Santa Sede, convinti che sarebbero stati convocati per essere ascoltati sulle circostanze che gli hanno permesso di mettere le mani sugli screenshot. Senza contare che nell’istanza sarebbero indicati anche i nomi dei due autori dello scambio di messaggi, ai quali Pietro avrebbe mandato dei whatsapp, visualizzati dai diretti interessati ma rimasti senza risposta. Dalle indiscrezioni emerge che si tratta di due prelati, vicini proprio al Pontefice. I due non sono indagati ma vengono ritenuti persone informate sui fatti. Le loro conversazioni saranno oggetto di approfondimento. Lo scambio di messaggi, infatti, è alquanto fumoso.

Oltre ai tombaroli e alla stanza segreta sotto il Teutonico, ci sono altre frasi che restano criptiche. “Devi andare per questa strada… però bisogna risolvere perché questa è una cosa molto grave… lo dobbiamo dire al Comandante della Gendarmeria? No, no, assolutamente… ma che scherzi, assolutamente no!”. Un rebus, depositato da oltre un anno, durante il quale la Santa Sede ha voluto esaminare con attenzione i documenti. “Valuteremo gli elementi e decideremo se è il caso di aprire un’inchiesta”, aveva rivelato in esclusiva a L’Identità il promotore di giustizia aggiunto del Vaticano, Alessandro Diddi. “Decideremo con serenità e senza pregiudizi”, ci aveva garantito. E negli ultimi cinque mesi gli investigatori vaticani hanno fatto le loro valutazioni sulla base delle nuove risultanze, che sono apparse rilevanti visto che, stavolta, hanno portato, per la prima volta in 39 anni, all’apertura di un’inchiesta della Santa Sede per fare luce sul caso irrisolto della cittadina vaticana. “L’augurio è che stavolta ci sia una volontà concreta e immediata di arrivare alla verità su Emanuela”, ha detto l’avvocato Laura Sgrò, auspicando che “se ci sono responsabilità del Vaticano nella vicenda che vengano fuori”. Non si conoscono i tempi, ma probabilmente l’indagine non avrà risvolti significativi a breve, perché gli investigatori dovranno approfondire gli elementi presentati dalla famiglia Orlandi, delineare le circostanze, ascoltare i testimoni e, tra l’altro, acquisire la mole di atti che si trova negli uffici della Procura di Roma dal 2015, anno di archiviazione dell’inchiesta condotta dall’aggiunto Giancarlo Capaldo, su impulso dell’allora procuratore capo Giuseppe Pignatone. Lo stesso Pignatone, oggi, è il presidente del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano. Un fascicolo corposo, che contiene molti verbali, con le dichiarazioni di personaggi che, negli anni, sono risultati perfino inattendibili. E tante piste da cui ripartire, per capire chi e perché ha preso Emanuela e dove è stato nascosto il suo corpo.

Fabrizio Peronaci per corriere.it il 9 gennaio 2023.

Alla fine la famiglia della "ragazza con la fascetta", che attende verità e giustizia da quel lontano e mai dimenticato 22 giugno 1982, ha vinto una prima battaglia.  Il Vaticano riapre il caso di Emanuela Orlandi.

 La notizia è filtrata in queste ore: a quasi quarant'anni dalla scomparsa, il promotore della giustizia vaticana Alessandro Diddi insieme alla Gendarmeria hanno deciso di riaprire le indagini di una vicenda che ha scosso la Santa Sede e le sue massime istituzioni, in un percorso giudiziario e investigativo che ha sfiorato ipotesi inquietanti di ogni tipo e coinvolto servizi segreti e cancellerie di mezzo mondo.

 L'obiettivo degli inquirenti - da quel che è trapelato - è  scandagliare di nuovo tutti i fascicoli, i documenti, le segnalazioni, le informative, le testimonianze. Un lavoro a 360 gradi per non lasciare nulla di intentato, per provare a chiarire ombre e interrogativi e mettere definitivamente la parola fine al più torbido giallo lasciato in eredità dal secolo scorso.

Stando al piano di lavoro messo a punto all'ufficio del promotore di giustizia si ripartirà dai dati processualmente acquisiti, si seguiranno nuove piste e vecchie indicazioni all'epoca non troppo approfondite: insomma, l'investigazione ripartirà dall'esame di ogni singolo dettaglio a partire da quel pomeriggio del giugno 1983 allorquando la 15enne Emanuela, figlia del messo pontificio Ercole, scomparve nel nulla.

 Si era chiusa alle spalle la porta della sua abitazione alle 16 per andare a lezione di musica in piazza Sant'Apollinare. Nei pressi dell'omonima basilica dove molti anni più tardi si scoprì che vi era seppellito uno dei capi della banda della Magliana, `Renatino´ Enrico De Pedis, secondo diversi testimoni esecutore materiale del sequestro «per conto di alti prelati».

L'iniziativa della magistratura vaticana si muove – secondo quanto ricostruito dall'Adnkronos – nel solco della ricerca della verità e della trasparenza a tutti costi voluta da Papa Francesco, e per quanto riguarda l'affaire Orlandi si inserisce sulla scia dell'attenzione mostrata al caso da altri pontefici, a partire da Giovanni Paolo II (fu il primo, nel suo appello durante l'Angelus del 3 luglio 1983, a ufficializzare l'ipotesi del sequestro). Le nuove indagini su Emanuela potrebbero arrivare a uno squarcio di luce anche sulla vicenda della coetanea Mirella Gregori, scomparsa pure lei quell'anno.

A chiedere a gran voce la riapertura delle indagini erano stati, nei giorni scorsi e andando indietro fino agli ultimi due anni, l'avvocatessa della famiglia Orlandi Laura Sgrò, anche sulla base di una testimonianza del fratello di Emanuela, Pietro, secondo il quale una cartellina gialla con su scritto "Rapporto Emanuela Orlandi" era stata vista dal cosiddetto "Corvo", Paolo Gabriele, l'ex maggiordomo del Papa nel frattempo deceduto, negli uffici del Palazzo Apostolico.

 Nuove rivelazioni, docufiction di successo, piste inedite. Mai come in questi ultimi tempi si sono riaccesi i fari sulla storia della scomparsa della giovanissima Emanuela, fari che si erano spenti nell'ottobre del 2015 allorché il Gip, su richiesta della Procura guidata da Giuseppe Pignatone, archiviò l'inchiesta sulle sparizioni di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, avviata nel 2006 successivamente alle dichiarazioni di Sabrina Minardi.

In tempi recenti, le novità sono state numerose. Intanto, la scorsa estate, il pm romano Erminio Amelio ha aperto una nuova inchiesta sul giallo collegato di Katy Skerl, una 17enne uccisa nel 1984 a Grottaferrata la cui bara - come anticipato con largo anticipo da Marco Accetti, superteste e reo confesso del sequestro Orlandi-Gregori - è stata incredibilmente rubata.

 Poi, qualche settimana fa, la mamma di Josè Garramon, il bambino uruguayano travolto e ucciso nella pineta di Castel Fusano dallo stesso Accetti nel dicembre 1983, ha rivelato di essere convinta che dietro la morte di suo figlio ci fosse una vendetta di forze occulte, nell'ambito del Piano Condor all'epoca promosso dalle polizie segrete dei regimi latinoamericano, in alleanza con la Cia, contro le posizione "progressiste" sue e di suo marito. 

Infine - mentre la famiglia Orlandi continuava a insistere sulla necessità di riaprire le indagini - una serie di inchieste del Corriere.it ha fatto emergere seri indizi mai rivelati sulla partecipazione della banda della Magliana (provata dall'utilizzo del codice "Aliz", che riconduceva a Renato De Pedis), su precedenti pedinamenti di cittadine vaticane e sulle pressioni in ambito ecclesiastico (anch'esse evidenziate da messaggi criptati) per estromettere monsignor Marcinkus (anni dopo condannato per bancarotta) dalla gestione dello Ior.    

Dopo 40 anni di silenzi il Vaticano riapre il caso di Emanuela Orlandi. Salvatore Maria Righi su L'Indipendente il 10 gennaio 2023.

Il dottor Alessandro Diddi, promotore di Giustizia in Vaticano, non ama essere sotto pressione. Fu proprio lui a dirlo a Pietro Orlandi, quando contattò la cancelleria della Santa Sede su indicazione di Papa Francesco per chiedergli un incontro. Correva l’inverno del 2021, la famiglia di Emanuela si era rivolta al Santo Padre per condividere “nuove informazioni” relative al caso che è un buco nero privato, loro, e della coscienza del paese. E Francesco, dopo un paio di mesi, ha risposto consigliando agli Orlandi un incontro appunto con Diddi, che per l’appuntamento e la sollecitazione rispose “ho i miei tempi”. I suoi tempi, evidentemente, sono maturati proprio in questi giorni, vista la notizia che proprio tramite il suo ufficio e la gendarmeria vaticana, sarà riaperto il caso che da decenni è sinonimo di mistero e trama oscura.

Per la precisione, sono proprio 40 anni che Emanuela Orlandi è scomparsa nel nulla di una sera di inizio estate. Era il 15 giugno 1983, aveva appena terminato la lezione di canto, successiva a quella di flauto, all’Accademia di musica in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma. A due passi dal Senato, per dire e per immaginare subito una storia che si è consumata e si è nascosta dietro e dentro ai palazzi romani. Le amiche con cui si è diretta alla fermata dell’autobus per rincasare, erano circa le 19, l’hanno vista per l’ultima volta lì e da lì è iniziata una ricerca che è diventata via via più disperata e complicata, col passare del tempo. 

Di Emanuela non si è più saputo nulla e vani sono stati anche tutti i tentativi di recuperare il corpo, per ridarle almeno la pace della sepoltura: il Vaticano, che ha riaperto il caso annunciando praticamente una nuova inchiesta, è sempre stato il perimetro dentro al quale si è consumata questa vicenda colorata di tinte cupe fin dall’inizio. Papà Orlandi lavorava come commesso dentro alla Santa Sede, all’epoca dei fatti, e viveva con la famiglia in Vaticano: Emanuela era la penultima di cinque figli. Pietro, il fratello che è diventato adulto inseguendo verità e giustizia per sua sorella, e adesso ha una folta chioma di capelli bianchi, sostiene da sempre che in Vaticano chi sa non parla o non può più parlare, perché è passato a migliore vita. Anche per questo, ha colto tutti di sorpresa l’iniziativa della Santa Sede che dopo 40 anni ha annunciato di voler fare quello che non ha mai fatto in tutto questo tempo, nonostante i familiari e l’opinione pubblica, oltre a qualche magistrato, glielo avesse chiesto in tutti i modi. Laura Sgrò, l’avvocato della famiglia Orlandi, non ha nascosto la propria sorpresa di fronte alla notizia proveniente dal Vaticano: “È da un anno che attendevamo di essere ascoltati, non sapevamo niente di questa riapertura del caso, non siamo stati avvisati”. Può darsi che sulla decisione della Santa Sede, arrivata 40 anni dopo i fatti, abbia influito anche la notizia di una Commissione parlamentare di inchiesta che potrebbe essere costituita per accertare, o provare di accertare, cosa sia successo ad Emanuela Orlandi. 

Saranno riesaminati, o esaminati, fascicoli, documenti, segnalazioni e informazioni relative alla scomparsa della ragazzina. Saranno anche rivalutate e risentite le posizioni dei testimoni che si sono allineati e sommati, in una lunga fila, durante tutti questi anni nei quali la vicenda di Emanuela Orlandi è diventata, suo malgrado, la metafora di un Paese a democrazia limitata, per quanto riguarda certi fatti che succedono in certi ambienti e con certi protagonisti. Un buco nero nel quale l’opinione pubblica ha visto finire ingoiata la speranza di accertare i fatti e capire chi c’è davvero dietro ad uno dei casi più intricati della storia repubblicana. Sulle tracce di Emanuela sono stati tirati in ballo tutti. Da Papa Giovanni Paolo II ai Lupi Grigi di Agcà, al Banco Ambrosiano, lo Ior, la Banda della Magliana e i servizi segreti di mezzo mondo. Tra l’altro, un mese prima la scomparsa di Emanuela, proprio a Roma si sono perse le tracce di un’altra ragazzina, Mirella Gregori: era il 7 maggio dello stesso anno, poche settimane prima, e anche il caso di Mirella è stato poi associato agli ambienti del Vaticano per le testimonianze e le ricostruzioni della vicenda. 

Via via che passava il tempo, venivano aperte nuove piste, sempre più fantomatiche e sempre più nebulose. Era iniziato tutto con le telefonate anonime di un presunto “americano”, la voce maschile dal chiaro accento anglosassone che parlava alla famiglia Orlandi del sequestro della figlia e lo legava, come riscatto, con la vicenda di Agcà, l’attentatore del papa che ha sempre associato il Vaticano alla vicenda della ragazzina, ma che è stato ritenuto non affidabile da parte dei magistrati. Di Emanuela Orlandi hanno parlato anche alcuni pentiti della Banda della Magliana e una svolta, una delle tante svolte, sembrava arrivata proprio quando fu scoperto il cadavere di Enrico De Pedis, al secolo Renatino che della Banda era uno dei capi, nei sotterranei della Basilica di Sant’Apollinare, nella sede della scuola di musica frequentata da Emanuela.

Ci sono state anche riesumazioni di resti umani e di ossa, è affiorata una strana stanza di cemento armato sotto al cimitero teutonico, l’ultima segnalazione riguardante il corpo di Emanuela. Gli esami e i riscontri scientifici hanno escluso che si trattasse di ciò che restava della ragazzina sul cui destino si è letto e sentito di tutto, perfino che sia finita in convento all’estero e lì abbia concluso la sua esistenza. 

L’inchiesta vera, quella del tribunale, è stata aperta dopo che nel 2006 Sabrina Minardi, ex donna di De Pedis (e poi moglie del calciatore Bruno Giordano) aveva raccontato di una presunta sepoltura di Emanuela dentro un sacco nero, in una betoniera, sul litorale di Tor Vajanica. Le sue dichiarazioni non hanno mai trovato riscontro, nonostante l’apertura di un fascicolo con sei indagati per omicidio e sequestro, compreso un esponente religioso, Pietro Vergani, ex rettore della Basilica di Sant’Apollinare. Il Gip di Roma ha archiviato tutto nel 2015.

La stessa sorte era toccata, nel 2012, al tentativo di riaprire il caso da parte del procuratore Giancarlo Capaldo. A lui si erano rivolti alcuni esponenti della gendarmeria vaticana per chiedergli la rimozione delle spoglie di De Pedis dalla Basilica, evidentemente fonte di imbarazzo per la Santa Sede, in cambio di informazioni e nomi sul caso Orlandi che però non sono mai arrivati. Il fascicolo di questa vicenda fu avocato dall’allora procuratore capo di Roma, Giuseppe Pignatone, che lo ha tolto a Capaldo e poi lo ha archiviato. Dall’ottobre 2019 lo stesso Pignatone, che ha lasciato la magistratura per raggiunti limiti di età, è presidente del Tribunale del Vaticano. [di Salvatore Maria Righi]

Il Vaticano riapre le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Egidio Lorito su Panorama il 10 Gennaio 2023.

A quasi quarant’anni dalla misteriosa sparizione della studentessa, il Promotore di Giustizia dello Stato Città del Vaticano, Alessandro Diddi, ha riaperto l’inchiesta da tempo su un caso che tocca anche le divisioni interne al mondo della Chiesa

Il prossimo 22 giugno saranno quarant’anni esatti dalla misteriosa scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne figlia di un dipendente del vaticano, di cui si persero le tracce nel pomeriggio del 22 giugno del 1983 dopo aver frequentato la sua lezione di flauto presso l’Accademia di Musica

La versione più accreditata delle ultime notizie certe di Emanuela parla di una sua telefonata verso le 18:45 alla sorella Federica: un rapido avviso del suo ritardo a rincasare a causa del traffico intenso della Capitale, unitamente alla notizia della proposta di lavoro alle dipendenze di una nota industria cosmetica. Dopo la telefonata, la giovane si sarebbe recata con due amiche, Maria Grazia e Raffaella, alla fermata di Corso Rinascimento per salire a bordo di un mezzo pubblico attorno alle 19.30 e qui il mistero si infittì, in quanto mentre le due amiche effettivamente salirono sull’autobus, pare che Emanuela avesse preferito attendere il successivo mezzo. Esiste anche un’altra versione, secondo cui la Orlandi confidò alle amiche di dover attendere una persona che le aveva proposto un lavoro come promoter. Da quel momento e per i successivi quarant’anni nessuno l’avrebbe più incontrata: letteralmente sparita nel nulla, rapita, fuggita, dissolta tra i misteri di un tempo talmente lungo della storia contemporanea, a cavallo tra due Stati, dei quali uno, quello Vaticano, mai riuscito a dare risposte certe né alla famiglia né all’opinione pubblica che mai hanno minimamente abbassato l’attenzione sul caso. Emanuela era nata a Roma il 14 gennaio del 1968 da Ercole Orlandi, commesso della Prefettura della casa pontificia e Maria Pezzano: quando svanì nel nulla, era cittadina dello Stato Città del Vaticano dove abitava assieme ai suoi fratelli Pietro, Natalina, Federica e Maria Cristina, lei penultima figlia. La decisione di riaprire le indagini Negli anni la scomparsa di Emanuela Orlandi è divenuto un caso che ha attraversato numerosi intrighi internazionali: dalle responsabilità di Cosa nostra a quelle de lVaticano, dal coinvolgimento di alti prelati a quello degli esponenti della Banda della Magliana (in particolare di Renato De Pedis), sino all’attentato messo a segno dal turco Ali Agca ai danni di Papa Wojtyla, il 13 maggio del 1981. Gli ultimi scossoni all’inchiesta nel 2019 quando, all’esito di un’ulteriore ispezione di tombe nel cimitero teutonico di Roma a seguito alcune segnalazioni giunte all’autorità inquirente vaticana, quest’ultima aveva chiesto e ottenuto l’archiviazione del corposo fascicolo penale da parte del Giudice unico della Santa sede. Quel decreto di archiviazione venne impugnato dai legali della famiglia Orlandi ed ora il nuovo Promotore dellaGiustizia vaticana, Alessandro Diddi, coordinando la Gendarmeria, proverà a fare luce sull’imponente numero di fascicoli che compongono quarant’anni di indagini. Contattato telefonicamente, Alessandro Diddi -tra l’altro ordinario di procedura penale presso il Dipartimento di scienze aziendali e giuridiche dell’Università della Calabria, nel corso di laurea magistrale in giurisprudenza- si è trincerato dietro l’impossibilità di rilasciare dichiarazioni ufficiali o interviste: era stato Papa Francesco, lo scorso 22 settembre, ad accettare le dimissioni del professor Gian PieroMilano dalla carica di Promotore di Giustizia dello Stato della Città del Vaticano, sostituito -appunto- dal professor Diddi, che a quella data era Promotore di giustizia aggiunto. Da quanto è dato sapere, nell’archivio vaticano sarebbero molti i fascicoli aperti sul caso dall’autorità penale della Santa Sede, frutto di indagini cristallizzate nel corso di questi lunghi anni sia a seguito delle numerose iniziative adottate dalla famiglia Orlandi che d’ufficio da parte della stessa autorità inquirente vaticana. Da ultimo potrà aver pesato anche la pressione dei media che nel tempo non hanno mai allentato la presa sulla vicenda: risale, infatti, allo scorso 14 dicembre l’intervento sul caso del giornalista di La7 Andrea Purgatori che nel corso della puntata speciale della serie “Atlantide” , ospitando il fratello di Emanuela, Pietro, aveva chiamato in causa proprio il neo Promotore di giustizia, reo di un sostanziale immobilismo. C’è da ipotizzare, a questo punto, che proprio Diddi, tirato in ballo in qualità di titolare dell’Ufficio inquirente vaticano, abbia voluto imprimere una decisa virata alle indagini, cercando di verificare la fondatezza delle nuove ipotesi investigative segnalategli, nel frattempo, dai legali della famiglia Orlandi: si tratterebbe di piste investigative mai seguite dagli inquirenti d’Oltretevere, ovvero della rivalutazione di quelle già percorse, ovvero -ancora- di nuovi temi di prova che il legale degli Orlandi, l’avvocato Laura Sgrò, sin dal 2017, aveva posto all’attenzione delle autorità inquirenti vaticane. In magistrato Lupacchini e la Banda della Magliana Chi invece non si è sottratto alle domande di Panorama.it è Otello Lupacchini, procuratore generale emerito, che alle vicende della sparizione di Emanuela Orlandi si è avvicinato nel corso delle indagini sulla Banda della Magliana, inchiesta cui ha legato la parte più importante della propria vita di magistrato: «Evidentemente il Promotore di Giustizia del Vaticano, per disporre improvvisamente la riapertura delle indagini sulla misteriosa vicenda di Emanuela Orlandi, dispone di elementi nuovi e diversi rispetto a quelli già valutati nelle competenti sedi giudiziarie», ha dichiarato senza tentennamenti.

L’impronta di Otello Lupacchini sulla storia della Banda della Magliana fu impressa all’alba del 16 aprile del 1993 quando 500 poliziotti diedero esecuzione alla sua ordinanza mettendo a ferro e fuoco i luoghi storici in cui agiva il clan originario del quartiere a sud della capitale: era il via dell’operazione “Colosseo” , un fascicolo di oltre 500 pagine in cui il giudice istruttore marchigiano vergò nomi, cognomi, date, e omicidi addebitati a sessantanove indagati (55 arrestati quella mattina), mentre altri36 ne avrebbero seguito la sorte nelle settimane successive. La serie di reati contestati andava dall’associazione a delinquere di stampo mafioso a quelli contro il patrimonio, dal traffico internazionale e spaccio di sostanze stupefacenti alla detenzione abusiva di armi, dalla ricettazione, falso e tentativi di omicidi agli omicidi. Dottor Lupacchini, il caso di Emanuela Orlandi riemerge dalle paludi investigative! «Delle due l’una: o il pubblico ministero vaticano è in possesso di elementi connotati dalla novità investigativa assoluta o potrebbe trattarsi di una mostra strategica difronte al montare di una pressione mediatica non più sostenibile, e per poter rispondere che non è vero che il Vaticano sia rimasto inerte rispetto al grido di dolore che si eleva dalla comunità che reclama, dopo quarant’anni suonati, la verità sulla sparizione della giovane studentessa, oggi -se viva- donna di 55 anni». Una riapertura in ogni caso clamorosa…

«L’una o l’altra ipotesi sarebbero comunque temerarie in assenza di quegli elementi assolutamente innovativi lo scenario investigativo, nel caso in cui non riuscissero a spiegare realmente le ragioni per cui si sta muovendo il Promotore». Un atto dovuto, non crede? «Scomodare l’obbligatorietà di un’azione penale dopo ben quarant’anni mi paresemplicemente una “boutade”. Il problema, lo ripeto, si pone in questi termini: o il Promotore di Giustizia dispone di elementi talmente “nuovi” che ovviamente e giustamente non rivela nel rispetto del segreto istruttorio, indispensabile a questo punto, per un espletamento rigoroso dell’indagine, oppure la pressione della stampa nazionale ed internazionale sulla vicenda è talmente forte che il Vaticano, cioè Papa Francesco, non può restare insensibile». Un classico aut aut… «Ovvio, perché due sono gli scenari: o si vuole effettivamente andare alla ricerca della verità, cooperare per una ricerca seria di piste investigative mai esplorate, oppure si vuole mettere sopra la classica pietra tombale sulla vicenda, affermando -dal Vaticanodi aver tentato quanto di competenza». C’è da essere fiduciosi? «Allo stato si tratta di mere ipotesi, destinate a rimanere tali in mancanza di qualsiasi elemento che spieghi le ragioni dell’intervento del Promotore vaticano». Lei pone molto l’accento sulla pressione mediatica montante. «Che per fortuna, mai mancando, ha tenuto desta l’opinione pubblica su questomistero della storia contemporanea italiana».

Emanuela Orlandi, intrigo infinito: le due piste che restano dopo anni di nebbie. Giancarlo de Cataldo su La Repubblica l’11 Gennaio 2023.

Giochi erotici o vendetta del boss: mistero sì, ma non internazionale

L'intrigo internazionale non è mai esistito. Almeno su questo c'è accordo. La "pista" dei Lupi Grigi, terroristi dell'estrema destra turca che avrebbero rapito Emanuela Orlandi per ottenere la liberazione di Ali Agca, non è una cosa seria. Un bel passo avanti, dopo che per decenni mezzo mondo si è fatto menare per il naso dal killer dagli occhi di ghiaccio, fra una visione del Terzo segreto di Fatima e l'annuncio dell'imminente liberazione dell'ostaggio, nel frattempo amorevolmente custodito in qualche sperduto monastero d'Oriente.

Perché è stata rapita Emanuela Orlandi, la pista degli occhiali a goccia. Il Tempo l’11 gennaio 2023

Il Vaticano, che ha deciso di indagare sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ha ora il compito di riesaminare una montagna di documenti e testimonianze raccolte in 40 anni. Cioè da quel 22 giugno del 1983 ad oggi. Sono infatti numerose le inchieste aperte e archiviate su uno dei casi più misteriosi d'Italia. E per fare questo, il Vaticano non è escluso che debba addirittura ripartire da zero, dai primi giorni seguenti alla scomparsa della ragazza di 15 anni, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, e perciò cittadina vaticana.

Sotto la lente d'ingrandimento della nuova inchiesta potrebbero dunque finire anche le prime telefonate di presunti mitomani, così come furono considerati quattro decenni fa. Come quelle che risalgono al 25 giugno, tre giorni dopo la scomparsa nella giovane. Sì, perché in quelle chiamate si parlava di una ragazza che indossava un paio di occhiali a goccia, aveva circa 16 anni e suonava il flauto.

Alla famiglia Orlandi, infatti, arrivò la telefonata da parte di un uomo che sosteneva chiamarsi Pierluigi, che riferì che la sua fidanzata aveva incontrato a Campo de' Fiori due ragazze, una delle quali vendeva cosmetici (il giorno della sparizione a Emanuela era stato proposto un piccolo lavoro di volantinaggio per l'azienda di cosmetici Avon a una sfilata di moda), aveva con sé un flauto e diceva di chiamarsi «Barbara».

Pierluigi affermò inoltre che Barbara, la ragazza che era stata descritta come la possibile Emanuela Orlandi, all'invito di suonare il flauto in pubblico si sarebbe rifiutata a causa della vergogna che provava nell'indossare gli occhiali. Tre ore più tardi sempre tale Pierluigi richiamò la famiglia, aggiungendo che gli occhiali di Barbara erano «a goccia, per correggere l'astigmatismo».

Questa chiamata, all'inizio, si rivelò preziosa per i familiari, che confermarono che Emanuela era astigmatica, si vergognava di portare gli occhiali e suonava il flauto. Il compito del Vaticano, dunque, sarà quello di rivalutare tutte le piste che in 40 anni sono finite in archivio o non sono state all'epoca ritenute attendibili. Tra queste, quindi, anche quella pista degli occhiali a goccia. La riapertura del caso Orlandi, di riflesso, potrebbe riaccendere le luci anche su un altro caso, quello di Mirella Gregori, la ragazza italiana di 15 anni scomparsa il 7 maggio 1983 sempre a Roma, circa 40 giorni prima della scomparsa di Emanuela. «Sono felicissima per la famiglia Orlandi, felice che finalmente il Vaticano abbia preso la decisione di riaprire il caso e magari fare luce sulla vicenda e trovare la verità», ha dichiarato la sorella Maria Antonietta. «Spero che ora la Procura di Roma riaccenda i riflettori anche sulla sparizione di mia sorella». 

La famiglia Orlandi adesso ha fretta. "Un incontro con il pm vaticano Diddi". Il fratello: "Nessuna comunicazione sull'apertura di indagini". Tiziana Paolocci su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

Si brinda alla riapertura delle indagini decisa dal promotore di giustizia vaticana per far luce sul caso di Emanuela Orlandi, ma di fatto non c'è alcun passo formale. O per lo meno non è stato comunicato all'avvocato dei familiari.

«Nonostante il tam tam mediatico, non ho ancora ricevuto alcuna comunicazione formale dal Vaticano - ha spiegato il legale Laura Sgrò - Proprio per questo ho preparato una istanza formale che presenterò in Vaticano in cui chiedo informazioni dettagliate sull'apertura di queste indagini e un incontro con il promotore di giustizia per avere uno scambio quanto prima». Nemmeno Pietro Orlandi, il fratello della giovane sparita nel nulla nel 1983, ha ricevuto alcuna convocazione. «Se questo è avvenuto su impulso di Papa Francesco, ben venga», ha però rilevato l'uomo, instancabile sostenitore del fatto che in Vaticano c'è chi conosce la verità.

«La nuova inchiesta, se fatta veramente con la volontà e l'onestà di fare chiarezza una volta per tutte e dare finalmente giustizia ad Emanuela, potrebbe durare pochissimo - scrive su Facebook -. Non sarebbe necessario fare lunghissime indagini perché la Verità già la conoscono, basta raccontarla. Altrimenti spero mi convochino prima possibile per poter verbalizzare». «Comunque non posso non essere contento e come sempre, voglio vedere il bicchiere mezzo pieno e pensare positivo», aggiunge, dando appuntamento al sit-in convocato per sabato alle 16.30 a Castel Sant'Angelo, «per ricordare Emanuela e che noi non cederemo mai di un passo fino alla verità».

Bisognerà vedere ora quali accertamenti condurranno gli inquirenti vaticani, oltre a riaprire documenti dell'epoca, quali ulteriori verifiche, se soprattutto saranno acquisite nuove testimonianze di «persone informate dei fatti» alla ricerca di nuovi indizi e prove. Ipotizzabili anche rogatorie con l'Italia sugli atti dell'inchiesta della Procura romana, che comunque, va ricordato, fu archiviata nell'ottobre 2015 su richiesta dell'allora procuratore capo Giuseppe Pignatone, attuale presidente del tribunale vaticano. Proprio il predecessore di Pignatone alla procura di Roma, Giancarlo Capaldo, per un certo tempo titolare delle indagini, sottolinea che «finora il Vaticano aveva sempre negato di aver svolto indagini sulla vicenda di Emanuela e di avere competenza e interesse a svolgerne, essendo il fatto accaduto in territorio italiano». «Da parte mia non posso che essere felice di questo interesse del Vaticano» ha detto Capaldo parla d'una «vicenda che ha implicazioni molto profonde», con «delle reazioni di coloro che non vogliono che si trovi la verità». E anche di «una serie numerosa di depistaggi messi in opera anche con consapevolezza al fine di distrarre l'attenzione dagli sforzi dei giudici e della polizia per rintracciare la verità». Sulla vicenda è tornato a parlare ieri anche Alì Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II. «Da 40 anni il Vaticano subisce una gravissima campagna di calunnia di aver stuprato e ucciso Emanuela - dice -. Invece lei non ha mai subito nessuna violenza e fu trattata sempre umanamente. Sono disposto a fare delle rivelazioni con delle prove documentali indiscutibili sia davanti la magistratura vaticana sia davanti una eventuale commissione di inchiesta del parlamento italiano».

PARLA GIANCARLO CAPALDO. L’ex procuratore aggiunto di Roma: «Il Vaticano non ha mai collaborato alle indagini su Emanuela Orlandi».

L’ex magistrato: «Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e sia stata riconsegnata da De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano». Il Dubbio l’11 gennaio 2023

Con il Vaticano «avevamo iniziato un percorso comune che, purtroppo, si è interrotto in modo brusco e poco chiaro. I fatti mi fanno concludere che, nel corso degli anni, il Vaticano non ha mai realmente collaborato con la magistratura italiana nel caso Orlandi». Lo dice a “La Stampa” l’allora procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo, che all'epoca della scomparsa di Emanuela Orlandi si era occupato della indagini. «La mia amarezza più grande è stata quella di essere arrivato a un punto di svolta e non essere riuscito a realizzarla per l’intervento di forze sconosciute, anche se individuabili», aggiunge.

«È passato molto tempo, ma credo che all’interno del Vaticano vi siano ancora persone che conoscono la verità, alcune direttamente e altre indirettamente. E conoscere la verità, con particolari dettagli, per taluni è stato decisivo nella carriera» dice Giancarlo Capaldo. «Credo che sia entrata, con l’ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei. Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e sia stata riconsegnata da De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, la povera Emanuela sia morta», spiega e sottolinea: «Come spesso accade nella vita, la vittima è anche carnefice: questo potrebbe essere accaduto anche al Vaticano».

Il Vaticano ha aperto un’inchiesta a 40 anni dalla scomparsa. Si arriverà alla verità? «Lo spero, ma lo ritengo improbabile. La verità è un concetto astratto, ha tante facce e non tutte presentabili. Alcune possono essere digerite solo dalla Storia. È comunque un segnale forte che il Vaticano, inaspettatamente, sua sponte, apra per la prima volta un’inchiesta sulla scomparsa di Emanuela» conclude Capaldo.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 10 gennaio 2023.

Il Vaticano dopo silenzi, inoperatività e omissioni apre un'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, 15 anni, la figlia di un commesso della prefettura della casa pontificia, sparita il 22 giugno del 1983 dopo aver seguito una lezione di flauto traverso nel complesso della basilica di sant' Apollinare a Roma.

 Saranno sentiti come testimoni diversi cardinali, ex magistrati e dipendenti d'Oltretevere su questo giallo che dura da quarant'anni. La mossa è di certo clamorosa visto che è la prima volta che anche la giustizia di questa piccola monarchia investiga sulla probabile morte della sua cittadina più conosciuta al mondo.

Per decifrare la scelta bisogna tornare a settembre scorso quando Francesco è intervenuto con fermezza nel palazzo di Giustizia del piccolo Stato, accettando le dimissioni dell'allora promotore di Giustizia, l'equivalente del nostro procuratore capo, Gian Piero Milano, e promuovendo il vice, il penalista Alessandro Diddi. Non si è trattato di un mero valzer di nomine ma di un cambio che esprimeva un indirizzo.

Nelle prime settimane Diddi - alla guida diretta dell'autorità inquirente - ha riordinato i fascicoli, trovandone diversi stagnanti in una sorta di purgatorio investigativo. Inchieste che né decollavano né venivano archiviate. Tra queste, le denunce che i familiari, con il difensore Laura Sgrò, presentano dal 2018, rimanendo però inascoltati. A questo punto è intervenuto Francesco che sulla giovane è stato chiaro e inequivocabile: «Fate tutto quello che si può fare per capire quello che è successo a questa povera ragazza. Se ci sono responsabilità, siano accertate».

L'input ha subito un'ulteriore accelerazione dopo alcuni fatti in sequenza: la morte di Benedetto XVI, i rifermenti di monsignor Georg Ganswein, il segretario privato del papa emerito, alla vicenda di Emanuela sui media proprio il giorno dei funerali, la conferma dell'esistenza di uno specifico dossier sull'Orlandi che nei primi mesi del 2012 era sulla scrivania di monsignor Ganswein, come mi raccontava per averlo visto con i suoi occhi Paolo Gabriele, il maggiordomo del Papa emerito e come riportato su queste colonne.

A questo punto c'è da capire come si muoverà Diddi. Innanzitutto, andrà ad approfondire le richieste dei familiari nelle loro denunce a iniziare dalla richiesta di sentire alcuni possibili testimoni. Tra i primi potrebbe esserci anche monsignor Ganswein che viene più volte citato negli esposti della Sgrò e dei parenti di Emanuela. Una lista lunga ma necessariamente incompleta.

 Infatti, diversi di questi soggetti - indicati negli esposti del 2018 e 2019 e successive integrazioni - sono però nel frattempo deceduti, come i cardinali Eduardo Martinez Somalo, Achille Silvestrini e l'ex segretario di Stato Angelo Sodano. Sono invece in vita Tarcisio Bertone e Giovanni Battista Re.

Quest' ultimo, in particolare quando la ragazza sparisce era assessore per gli affari generali della segreteria di Stato, ruolo di rilievo nello scacchiere curiale. Un altro soggetto che dovrebbe essere sentito è il controverso don Pietro Vergari, all'epoca rettore della basilica di sant' Apollinare, già indagato dalla procura di Roma per il sequestro della giovane.

Questo sacerdote è una figura chiave per contestualizzare la presenza della tomba del presunto cassiere della banda della Magliana Renato De Pedis nella cripta della chiesa. De Pedis e Vergari erano amici tanto che fu lui a perorare la sepoltura dell'uomo, assassinato da incensurato, all'allora vicario di Roma, cardinale Ugo Poletti.

 E così De Pedis venne sepolto tra musicisti, devoti cardinali e uomini pii. A Vergari - ad esempio - sarebbe interessante chiedere chi chiamò su un'utenza vaticana il 19 maggio del 2012, in piena inchiesta Orlandi da parte della procura di Roma, apostrofandolo come "eccellenza". È una telefonata inquietante perché questo alto prelato avvisò l'indagato Vergari, assai agitato e preoccupato, addirittura che aveva il telefono sotto controllo.

Eccone uno stralcio:

Vergari (V.): Eccellenza sono don Piero che devo fare. Eccellenza

(E.): No (lo interrompe bruscamente) non si rivolga a me don Piero perché lei stia stia quieto stia tranquillo io gliel'ho detto fin da principio.().

V.: Io sto tranquillissimo perché guardi le dico la verità io quella persona non l'ho mai vista, non l'ho mai conosciuta.

E.:(lo interrompe nuovamente) Sì ma lei stia tranquillo

V.: Sì

E.: Come le ho sempre detto, perché tutte le volte che lei è andato di fuori poi è successo quello che è successo...

V.: Sì

E.: Stia tranquillo adesso!

V.: Sì

E.: Non ha bisogno

V.: Sì e senta, mi chiamano telefonate e io non rispondo a nessuno se mi chiamano i giornalisti che vogliono sapere.

E.: Guardi che il suo telefono è sotto controllo!...

V.: Sì eh.()

E.: Stia in silenzio e basta!.

V.: La ringrazio

E.: Basta che i superiori siano avvertiti.

V.: Sì, sì, sì, lo sanno io immagino questo perché

E.: (interrompe, ha fretta di chiudere la conversazione): Arrivederci!

L'indagine scioglierà davvero il giallo sul possibile ruolo del vaticano o di persone di Chiesa coinvolte in questa vicenda? È ancora presto per dirlo. Bisognerà capire se riemergeranno frammenti di verità e quali saranno: «In tutti questi anni di indagini - mi raccontava l'allora titolare dell'inchiesta italiana, all'epoca il procuratore aggiunto di Roma, Giancarlo Capaldo - ho subito sei, sette tentativi di depistaggio».

 Un circo di depistatori, mestatori, ex agenti dei servizi deviati, faccendieri e bassa manovalanza criminale per creare una cortina fumogena invalicabile tra noi e la verità. Ecco, speriamo di non assistere ad altre manipolazioni. Capire chi sequestrò la ragazza, se venne abusata nella basilica, chi la uccise. E poi, il ruolo della banda della Magliana e i rapporti con lo Ior e, soprattutto, se l'adolescente finì in un'orgia con prelati e innominabili o se il sequestro doveva servire come strumento di ricatto sui forzieri di san Pietro. Ma, soprattutto, la speranza è che mamma Maria, le sorelle, il fratello Pietro, la possano piangere e pregare dopo degna sepoltura.

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” l’11 gennaio 2023.

«Credo che Emanuela sia entrata, con l'ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei. Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e poi riconsegnata da Renato De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, sia morta».

 L'allora procuratore aggiunto di Roma Giancarlo Capaldo ha indagato sulla scomparsa della figlia del commesso della casa Pontificia, andando poi in rotta di collisione con il suo capo Giuseppe Pignatone (oggi presidente del tribunale del Vaticano) quando nell'aprile del 2015 comunicò di voler chiedere l'archiviazione del procedimento.

 Il Vaticano ha aperto un'inchiesta a 40 anni dalla scomparsa. Si arriverà alla verità?

«Lo spero, ma lo ritengo improbabile. La verità è un concetto astratto, ha tante facce e non tutte presentabili. Alcune possono essere digerite solo dalla Storia. È comunque un segnale forte che il Vaticano, inaspettatamente, sua sponte, apra per la prima volta un'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela».

 Lei ha indagato per quattro anni come titolare dell'inchiesta e altri tre dopo che Pignatone aveva avocato il fascicolo, qual è la sua amarezza più grande?

«Ho avuto libertà di indagare solo dal luglio 2008 al marzo 2012. La mia amarezza più grande è stata quella di essere arrivato a un punto di svolta e non essere riuscito a realizzarla per l'intervento di forze sconosciute, anche se individuabili».

Cosa intende dire?

«Sono individuabili per chi vuole capire cosa è accaduto, intelligenti pauca».

 Il procuratore capo Pignatone avocò a sé l'indagine per chiedere e ottenere sino in Cassazione l'archiviazione, contro il suo parere. Lei quali altri approfondimenti avrebbe compiuto?

«Mi sono opposto all'archiviazione, spiegando che dovevano essere espletati ancora molti interrogatori e approfondite le circostanze della scomparsa di numerose altre ragazze».

All'epoca della sua indagine, il Vaticano aveva un altro atteggiamento?

«Vorrei sperare che l'iniziativa del Vaticano oggi non continui a essere coerente con il suo atteggiamento di sempre, tendente a mantenere un profilo basso. A suo tempo avevo intravisto una voglia di cambiamento che poi non si è verificato».

 Lei ha mai chiesto o ottenuto collaborazione da loro?

«Avevamo iniziato un percorso comune che, purtroppo, si è interrotto in modo brusco e poco chiaro. I fatti mi fanno concludere che, nel corso degli anni, il Vaticano non ha mai realmente collaborato con la magistratura italiana nel caso Orlandi».

Monsignor Ganswein dice che ha frainteso la visita dell'allora capo della gendarmeria Domenico Giani e del suo vice Alessandrini in procura. Per lei si era aperto un confronto sul procedimento, una sorta di "trattativa" mentre il segretario privato di Benedetto XVI afferma che la riunione si tenne solo per traslare la salma di De Pedis dalla tomba nella cripta di sant' Apollinare al cimitero di Prima Porta a Roma. Chi ha ragione?

«Non voglio certo entrare in polemica con monsignor Ganswein. Aggiungo solo che, non essendo io dotato di grande fantasia, difficilmente posso aver frainteso la visita dei gendarmi inviati dal Vaticano, soprattutto perché solo successivamente all'incontro hanno sciolto la loro riserva».

 Ci furono altri incontri?

«No, il canale di comunicazione con il Vaticano si interruppe».

 Della sua indagine qual è la più grande amarezza?

«Scoprire che, più spesso di quanto si creda, si ha paura della verità».

 Lei ha interrogato molte volte Marco Accetti, l'uomo che nel 2013 si era autoaccusato dei sequestri di Mirella Gregori e di Emanuela Orlandi. È un mitomane?

«È un personaggio complesso che non può essere liquidato solo come mitomane. Conosce bene l'ambiente vaticano ed ecclesiastico. Non ritengo però che abbia avuto un ruolo nella vicenda Orlandi, se non quello di inserirsi in vario modo, dopo la scomparsa della ragazza, per mitomania o per confondere le acque».

Cos'è accaduto a Emanuela?

«Credo che sia entrata, con l'ingenuità dei suoi quindici anni, in un gioco troppo più grande di lei. Ritengo che sia stata sequestrata a fini di ricatto e sia stata riconsegnata da De Pedis a qualcuno inviato dal Vaticano. Temo che, successivamente, la povera Emanuela sia morta».

 Qualcuno in Vaticano sa la verità o è passato troppo tempo?

«È passato molto tempo, ma credo che all'interno del Vaticano vi siano ancora persone che conoscono la verità, alcune direttamente e altre indirettamente. E conoscere la verità, con particolari dettagli, per taluni è stato decisivo nella carriera».

Il Vaticano è artefice o parte lesa di questa vicenda?

«Come spesso accade nella vita, la vittima è anche carnefice: questo potrebbe essere accaduto anche al Vaticano».

 Qual è il fatto più inquietante accaduto durante la sua inchiesta?

«Sono moltissimi. Per correttezza non è questa la sede per esporli».

 Perché si interruppero gli scavi sotto la basilica di sant' Apollinare?

«Non mi risulta che gli scavi nella cripta siano stati interrotti. Sono stati eseguiti, seguendo una certa logica e sono terminati quando ritenuti ragionevolmente superflui».

Verrà mai fuori la verità?

«Me lo auguro, ma credo che sia molto difficile ancora per molti anni. Spero solo che la famiglia possa ritrovare il corpo della ragazza per raggiungere l'unica pace possibile con la preghiera».

 Chi ha fatto sparire Emanuela ha fatto sparire altre ragazze? Se sì, quali?

«Non avendo trovato i responsabili della scomparsa di Emanuela Orlandi, non posso concludere che siano responsabili anche della scomparsa di altre ragazze. Posso però sottolineare che non mi sembra priva di significato la circostanza che, nel 1983, siano scomparse a Roma decine di ragazze dell'età di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Queste scomparse sono rimaste senza un perché. Come ho detto, mi è sembrato un motivo importante che avrebbe dovuto spingere a non chiudere frettolosamente il dossier delle ragazze scomparse».

Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 12 gennaio 2023.

Una mezza dozzina di cardinali, una pattuglia nutrita tra monsignori e vescovi e un gruppo di appartenenti a forze dell'ordine in Italia e nello Stato Città del Vaticano: se è vero che la nuova inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi partirà dalle istanze rimaste finora senza risposta della famiglia Orlandi inoltrate negli anni alla giustizia vaticana, è facile immaginare che il promotore di Giustizia Alessandro Diddi potrebbe convocare numerosi alti prelati.

 Da quelli vicini a Wojtyla, partendo dal cardinale polacco Stanislao Dziwisz, già segretario personale di Giovanni Paolo II al vescovo Emery Kabongo, già vice di Dziwisz per Wojtyla, ai monsignori Josez Kowalczyk e Tadeusz Rakoczy, «persone molto fidate- si sottolinea nelle denunce - e molto vicine a Giovanni Paolo II».

Ci sono anche porporati che hanno ricevuto incarichi speciali da Ratzinger, come Salvatore De Giorgi e lo spagnolo Julián Herranz Casado - indicati per aver fatto parte della commissione Vatileaks, voluta da Benedetto XVI nel 2012 su ombre e malaffare nei sacri palazzi - per arrivare a Giovanni Battista Re, all'epoca assessore alla segreteria di Stato e considerato oggi la memoria storica vivente di quegli anni. Per finire a monsignor Pierluigi Celata, «all'epoca stretto collaboratore del cardinale Casaroli e padre spirituale e confessore di Marco Accetti, uno degli indagati nell'inchiesta», in Italia.

 La carpetta con questi documenti sul tavolo del magistrato che coordina le nuove indagini è alta quasi una spanna. Un primo elenco di persone da sentire era stato appunto indicato da Pietro Orlandi e dal suo avvocato Laura Sgrò già il 17 aprile 2018. Si trattava di 19 persone a iniziare da chi all'epoca era al potere in curia ma nel frattempo visti tutti gli anni passati senza fare indagini, diverse purtroppo sono morte a iniziare da Benedetto XVI, dal cardinale Eduardo Martinez Somalo (deceduto nel 2021 e all'epoca sostituto del segretario di Stato Sodano, una sorta di ministro dell'interno), allo stesso Sodano fino al cardinale Jean Louis Tauran.

Quest'ultimo doveva essere sentito su un documento di cinque pagine rinvenuto in curia e pubblicato da Emiliano Fittipaldi sulla scomparsa della Orlandi, peccato che il porporato sia anche lui deceduto pochi mesi dopo la presentazione della denuncia come il cardinale Josef Tomko, mancato lo scorso agosto.

Nel documento si chiedeva che venissero sentiti anche i più stretti collaboratori di Ratzinger e che potrebbero essere convocati: da monsignor Georg Ganswein all'ex segretario di Stato, Tarcisio Bertone. Orlandi chiede di sentirli per sapere se erano a conoscenza degli incontri riservati tra chi indagava in Italia sulla scomparsa, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo in primis, e l'allora vertice della gendarmeria del piccolo Stato.

Sul capitolo della presunta «trattativa», tra fine 2011 e inizi 2012 tra procura di Roma e autorità vaticane (smentita da Pignatone, ma rilanciata sempre dal suo vice Capaldo) oltre allo stesso Capaldo, si chiedeva di sentire Paolo Gabriele, maggiordomo di Ratzinger deceduto nel 2020 e ancora Ganswein.

 «Tale trattativa avrebbe avuto un doppio oggetto - si sostiene nella denuncia -. La segreteria di Stato avrebbe, infatti, chiesto a Capaldo che fosse lo Stato italiano a farsi carico dello spostamento della salma di Enrico De Pedis, detto "Renatino", noto esponente della banda della Magliana, che scandalosamente giaceva sepolto nella Chiesa di Sant' Apollinare. Dal canto suo, Capaldo avrebbe chiesto in cambio informazioni utili alla soluzione del caso della Orlandi, includendovi il corpo della ragazza, se deceduta.

La risposta che Capaldo avrebbe ricevuto da un esponente della curia sarebbe stata: «Va bene. () Proprio perché la segreteria di Stato era intenzionata a "chiudere" questa triste vicenda, sarebbe stato redatto un dossier, intitolato "Rapporto Emanuela Orlandi" che è stato visto da più persone sulla scrivania di Ganswein, e avrebbe dovuto essere consegnato a Capaldo. In tale rapporto vi sarebbero stati alcuni nomi di personalità vaticane coinvolte nella vicenda».

Interessante l'argomento che potrebbe approfondire monsignor Giovanni Morandini: «Vicinissimo alla famiglia Orlandi - si legge nel documento - era quasi tutti i giorni a casa di questi ultimi. Riferiì a Ercole Orlandi di aver saputo di un'intesa tra lo Stato italiano (presidenza del Consiglio, ndr) e lo Stato Vaticano per evitare di aprire una falla che difficilmente si sarebbe potuta richiudere».

Negli anni si sono poi aggiunti altri prelati come il sottodecano del collegio cardinalizio, il porporato Leonardo Sandri sulla famosa telefonata che sarebbe arrivata nei giorni del sequestro sull'utenza della sala stampa vaticana. Su questo episodio, Pietro Orlandi chiede con l'avvocato Laura Sgrò di sentire anche monsignor Carlo Maria Viganò, già nunzio a Washington e facente parte dell'area più ostile a papa Francesco. Viganò aveva svelato alcuni presunti retroscena sulle telefonate del cosiddetto «americano» a Casaroli. In particolare, sostenne che sarebbe sparita la trascrizione del colloquio della sera del 22 giugno 1983, ma dalla Santa Sede filtrò la smentita alla sua ricostruzione.

Del resto, negli archivi del Vaticano devono essere custoditi molti documenti assai utili alle indagini. A iniziare da alcun ben evidenziati nella denuncia che oggi il Santo Padre ha chiesto di approfondire. In particolare, tornando ai giorni dopo il sequestro sarebbe utile esaminare documenti e ascoltare nastri mai consegnati all'autorità giudiziaria italiana seppur siano state presentate quattro rogatorie, rimaste senza risposte esaustive.

 In particolare, sono diversi i punti forieri di domande: "la segreteria di Stato ha messo a disposizione una linea telefonica, la numero "158", così come richiesto dai presunti rapitori della ragazza, attiva da luglio a ottobre del 1983, per trattare della sua liberazione direttamente con Casaroli. Le telefonate sono state registrate» e quindi dove sono i nastri?

Ancora: «In data 14 luglio 1983 i presunti rapitori riferivano a Maria Sgrò, madre dell'amica della Orlandi, allora quindicenne, Carla De Blasio, che nella piazza di San Pietro in direzione della finestra dell'Angelus era stato lasciato un nastro, mai recuperato. In data 17 luglio 1983, una voce anonima comunicava all'Ansa che il nastro non era stato trovato in quanto prelevato da due funzionari del Vaticano». Domanda: se la ricostruzione è vera, ci sarebbe da chiedersi se nei sacri palazzi c'è ed è ancora conservato quel nastro?

Grazia Longo per “la Stampa” il 12 gennaio 2023.

Tutte e due quindicenni. Tutte e due more. Tutte e due svanite nel nulla a distanza di 40 giorni l'una dall'altra. Ogni volta che si parla di Emanuela Orlandi si impone all'attenzione un altro caso di scomparsa. Quella di Mirella Gregori, sparita il 7 maggio 1983, dopo aver raccontato alla madre che sarebbe andata a un appuntamento con un amico, Alessandro, a Porta Pia. Ma Alessandro smentì l'appuntamento e Mirella, come Emanuela, non è mai più tornata a casa. Certo, Emanuela era cittadina vaticana e Mirella no.

Ma tra le due sparizioni esiste un collegamento? Secondo l'allora procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, intervistato ieri da La Stampa, sarebbe stato meglio non archiviare i due casi (come volle l'allora procuratore capo Giuseppe Pignatone) perché «nel 1983, sono scomparse a Roma decine di ragazze dell'età di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Queste scomparse sono rimaste senza un perché. Mi è sembrato un motivo importante che avrebbe dovuto spingere a non chiudere frettolosamente il dossier delle ragazze scomparse».

 E ora che il Vaticano ha deciso di riprendere le indagini su Emanuela, Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella, si augura che la procura ordinaria di Roma faccia altrettanto: «Ho dato mandato al mio avvocato di chiedere di riaprire il caso. Non so se c'è un legame tra le due scomparse, dopo 40 anni troppe domande aspettano ancora una risposta e forse questa è la volta buona per scoprire la verità».

Tanto più che nell'83 tra Roma e dintorni sparirono, come ricordava Capaldo, molte ragazze. Secondo Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, «furono più o meno una quindicina, ma molte fecero ritorno a casa perché si trattava di allontanamenti volontari. È un peccato che l'inchiesta sia stata archiviata nel 2015». Lo ribadisce anche la sua avvocata Laura Sgrò, che aggiunge: «La vicenda di Mirella Gregori ha sempre brillato di luce riflessa del caso Orlandi, ma non c'è mai stata un'indagine seria sulla sua scomparsa».

E allora, Emanuela e Mirella sono finite nelle mani di predatori sessuali legati al Vaticano? Un suggestivo possibile intreccio venne fornito dalla mamma di Mirella Gregori. Nel 1985, durante una visita del Papa nella parrocchia romana di San Giuseppe, riconobbe in un agente della Gendarmeria vaticana della scorta un uomo che secondo lei si intratteneva spesso con la figlia nel bar sotto casa. Ma in un secondo momento, circa 7 anni dopo quando ormai era gravemente malata (sarebbe morta nemmeno un anno dopo), durante un confronto all'americana, non riconobbe l'agente della Gendarmeria.

A complicare il quadro hanno contribuito anche intrighi internazionali e l'autodenuncia di un italiano poi bollato come un mitomane. I Lupi grigi, organizzazione di estrema destra turca a cui apparteneva Ali Agca (arrestato per aver cercato di uccidere Papa Wojtyla), rivendicarono il sequestro sia di Emanuela sia di Mirella. In cambio della loro liberazione chiesero anche loro la liberazione di Agca. Una pista poi risultata un bluff.

Come l'autodenuncia di Marco Accetti, fotografo, che nel 2013 si presentò in procura per dichiarare di aver partecipato al rapimento delle due quindicenni per conto di un gruppo di tonache che volevano ricattare Papa Wojtyla. Lo scopo sarebbe stato quello di contrastare la politica fortemente anticomunista del papa polacco, ma poi per una serie di complicazioni (non ultima l'enorme clamore mediatico) le ragazze non tornarono a casa.

 E come non bastassero queste dichiarazioni, a rendere ancora più intricata e inverosimile la situazione si aggiunse la storia di Ketty Skerl, una diciassettenne di origini svedesi rapita e uccisa nei dintorni di Roma, a Grottaferrata, nel 1984. Nel 2015 Accetti si presentò di nuovo in procura per sostenere proprio che la bara della ragazza morta in circostanze misteriose non si trovasse più nel cimitero del Verano.

Skerl, secondo il fotografo, sarebbe stata uccisa su commissione da «una fazione interna ad ambienti vaticani» opposta a quella di cui avrebbe invece fatto parte Accetti e «contraria alla politica anticomunista di Papa Giovanni Paolo II». Ma le sue parole furono ritenute completamente infondate.

Emanuela Orlandi: tombe vuote e depistaggi, i misteri del caso riaperto dal Vaticano. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

La sparizione di Emanuela Orlandi e gli altri episodi irrisolti. Il coinvolgimento della banda della Magliana 

L’ultimo colpo di scena, con milioni di italiani in attesa di notizie, anche terribili — la possibile conferma della morte della ragazzina, dopo il recupero dei suoi resti — risale a tre anni e mezzo fa. 

Luglio 2019. Quella volta le ossa di Emanuela Orlandi, in seguito alla lettera di un anonimo che aveva invitato a scavare «lì dove guarda la statua dell’angelo», erano state cercate in due sepolcri del Cimitero teutonico, in Vaticano, dove dovevano esserci le spoglie delle principesse Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklemburgo, morte da un paio di secoli. 

Non c’erano né loro, le nobildonne, né la minima traccia della «ragazza con la fascetta». 

E quello fu solo l’ultimo passaggio a vuoto: l’anno precedente, nel 2018, la ricerca dei resti era stata fatta in via Po, nel cortile della Nunziatura, dove erano affiorati un paio di scheletri, mentre nel 2017 si era rincorsa l’illusione di averla localizzata in Inghilterra, dopo il ritrovamento di una nota-spese (fasulla) che attestava lo stanziamento di 483 milioni di lire per tenere Emanuela in vita almeno fino al 1997... 

Misteri, depistaggi, reticenze. 

Sono passati ormai 40 anni dal 22 giugno 1983, ma la fine di un'innocente quindicenne (e della coetanea Mirella Gregori, sparita 46 giorni prima) è più che mai d’attualità, come dimostra sia l’inchiesta annunciata dal Vaticano sia la recente richiesta dei partiti d’opposizione (Pd, M5S e Azione) di istituire una commissione parlamentare ad hoc. 

Come per il caso Moro. Come per le stragi di Stato. 

Già, perché la vera cifra della vicenda Orlandi, paradossalmente, più ci si allontana dai fatti più sembra emergere e ricondurre alle storie peggiori dell’Italia delle trame. Le domande centrali, da quell’estate 1983 scandita da comunicati all’apparenza deliranti, in fondo sono rimaste sempre le stesse. Cosa impedisce la verità? 

Tirando il filo da un fatto di cronaca, a quali segreti inconfessabili si potrebbe arrivare? 

E ancora: quale fu il movente dell’azione dei rapitori che, attirandole in un tranello, tolsero ai loro affetti Emanuela e Mirella? 

Terrorismo internazionale nell’ambito della Guerra fredda (con l’obiettivo di far ritrattare Agca dopo le accuse di complicità a Est), ricatto legato al dissesto della casse papali (scandalo Ior-Ambrosiano) oppure torbidi giri sessuali? 

Una risposta in controluce viene dall’analisi delle due inchieste sul caso Orlandi-Gregori. La prima (1983-1997), iniziata all’indomani del mancato ritorno a casa e conclusa ben 14 anni dopo, puntò sugli indizi emersi: le rivendicazioni (con alcune prove di possesso degli ostaggi), la richiesta di «scambio» con Alì Agca, le telefonate in Vaticano di un uomo, forse straniero, ribattezzato l’«Amerikano». 

Il Papa polacco prese sul serio l’accaduto: Giovanni Paolo II rivolse addirittura 8 appelli per le ragazze, mentre il presidente Pertini arrivò a preparare una bozza del provvedimento di grazia per il turco, in un clima di grande tensione, con addosso gli occhi degli 007 dell’Est e dell’Ovest. 

Più si andava avanti, però, più il groviglio diventò inestricabile. 

Il tempo cura le ferite? Non degli Orlandi né dei Gregori, sempre in attesa. E così, dal 2008, con la seconda inchiesta centrata sulla partecipazione della banda della Magliana (grazie alle rivelazioni di Sabrina Minardi), il giallo tornò a decollare. 

L’«indegna» sepoltura del boss De Pedis a Sant’Apollinare, d’altra parte, gettava il sospetto su certe collusioni. Le stesse raccontate da Marco Accetti, l’uomo che nel 2013 ha consegnato il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela e messo a verbale le sue verità sui codici usati dagli ideatori del piano (laici criminali, tonache dissidenti, 007 deviati) per esercitare ricatti e condizionare la politica di Wojtyla. A cominciare dal 158, il numero "passante" per ottenere la linea diretta con la Segreteria di Stato (anagramma di 5-81, mese e anno dell'attentato al Papa di due anni prima), per arrivare ad "Aliz" (anagramma incompleto della parola "Lazio"), codice usato per rimandare al calciatore Bruno Giordano, la cui ex moglie Sabrina Minardi, era all'epoca amante del boss della banda della Magliana De Pedis. Misteri, depistaggi, nuove chiavi di lettura. 

La seconda inchiesta, condotta dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, fu archiviata nel 2015 su impulso del procuratore Giuseppe Pignatone, a conclusione di uno scontro senza molti precedenti a Palazzo di Giustizia. Poi, con decreto del 3 ottobre 2019 firmato da papa Francesco, lo stesso Pignatone è stato nominato presidente del Tribunale vaticano. E siamo così tornati dentro le Sacre mura, dove da oggi si riprenderà a indagare.

Tutti i nuovi elementi: perché è stato riaperto il dossier Orlandi. La serie "Vatican Girl", l'audio sulla Banda della Magliana, Ali Agca e il caso Gregori: i fattori che hanno spinto il Vaticano ad aprire il nuovo fascicolo. Massimo Balsamo il 10 Gennaio 2023 su Il Giornale

Il Vaticano riapre il caso Emanuela Orlandi. Il promotore di giustizia Alessandro Diddi è pronto ad avviare nuove indagini sulla scomparsa della giovane, avvenuta nel giugno del 1983. L’apertura del fascicolo è da collegare alla serie di istanze presentate in passato da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela: spetterà alla magistratura vaticana analizzare atti e documenti relativi alle vecchie indagini, così da non lasciare nulla di intentato. Ma sul caso della Orlandi sono spuntati anche nuovi elementi, aggiornamenti che hanno rinvigorito la necessità di riaprire il dossier a quarant’anni di distanza dalla scomparsa.

I nuovi elementi sul caso Emanuela Orlandi

Nel corso degli ultimi anni si sono moltiplicate piste, appelli e teorie, senza dimenticare l’uscita della docuserie "Vatican Girl". Il prodotto targato Netflix ha avuto importante dal punto di vista mediatico: tante le testimonianze raccolte, una ricostruzione accurata e in grado di riscuotere grande attenzione. Ma non solo: gli autori della docuserie hanno raccolto una testimonianza inedita di un’amica di Emanuela. A lei la giovane scomparsa avrebbe rivelato un segreto scottante: una persona vicina al Papa l’avrebbe infastidita dal punto di vista sessuale.

Tra le varie teorie sul caso Orlandi, quella del coinvolgimento della Banda della Magliana, la celebre organizzazione mafiosa della Capitale. A proposito di “Vatican Girl”, è stata sentita anche l’ex compagna di Renatino De Pedis – Sabrina Minardi – che ha sempre ammesso il coinvolgimento del sodalizio criminale. Ma c’è qualcosa in più, ovvero l’audio reso noto da Alessandro Ambrosini e relativo alla confessione di una persona vicina al De Pedis. Nell’intercettazione si fa riferimento ai motivi della sparizione della cittadina vaticana e a un uomo vicino al Papa, con tanto di riferimenti sessuali.

Un altro elemento nuovo sulla scomparsa della Orlandi è la lettera firmata da Ali Agca e inviata a Pietro Orlandi. Rivelazioni da prendere con le molle, quelle dell’attentatore di Papa Wojtyla, ma piuttosto roventi: il rapimento di Emanuele sarebbe stato un fatto tutto interno al Vaticano. La giovane, sin dal 22 giugno 1983, sarebbe stata presa in consegna da alcune suore e “avrebbe compreso l’importanza del suo ruolo, accettandolo serenamente”.

E ancora, il caso di Mirella Gregori, sparita un mese prima della Orlandi. Nella lettera sopra citata, anche Agca ha parlato di lei, sostenendo la tesi di un rapimento deciso dal governo vaticano ed eseguito da uomini del Servizio segreto vaticano. Ma c’è un altro fattore da tenere presente: una cara amica della Orlandi e la sorella della Gregori hanno ricevuto un plico con scritta la stessa frase. "Non cantino le due belle more per non apparire come la baronessa e come il ventuno di gennaio martirio di Sant’Agnese con biondi capelli nella vigna del Signore".

Il fratello: "La verità c'è e alcune persone la conoscono". Emanuela Orlandi, il Vaticano riapre il caso: De Pedis, Alì Agca e i messaggi Whatsapp, i dettagli chiave della nuova inchiesta. Redazione su Il Riformista il 9 Gennaio 2023

La magistratura del Vaticano riapre il caso sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. Dopo il clamore mediatico degli ultimi eventi di cronaca, dall’audio di un soldale dell’ex boss della Banda della Magliana Renato De Pedis alla lettera dell’attentatore del papa Alì Agca, passando per la serie tv “Vatican girl” su Netflix, a quasi quarant’anni dalla scomparsa, il promotore della giustizia vaticana Alessandro Diddi insieme alla Gendarmeria hanno deciso di riaprire le indagini di una vicenda che ha scosso la Santa Sede e le sue massime istituzioni, in un percorso giudiziario e investigativo che ha sfiorato ipotesi inquietanti di ogni tipo.

Secondo quanto riferisce l’Adnkronos, che ha anticipato la notizia, l’obiettivo degli inquirenti è quello di scandagliare di nuovo tutti i fascicoli, i documenti, le segnalazioni, le informative, le testimonianze. Un lavoro a 360 gradi per non lasciare nulla di intentato, per provare a chiarire ombre e interrogativi di ogni genere, e mettere definitivamente la parola fine anche alle più incredibili illazioni. L’iniziativa della magistratura vaticana sarebbe ufficialmente legata a una serie di istanze presentate in passato da Pietro Orlandi, fratello di Emanuela.

Mi colpisce la riapertura delle indagini, una riapertura improvvisa. Se è su impulso di Papa Francesco, ben venga”. E’ il commento di Pietro Orlandi. “Non so se è una decisione presa dopo la recente proposta di aprire una inchiesta parlamentare – continua – Magari potrebbe nascere una collaborazione tra Stato italiano e Vaticano, mancata per 40 anni. E’ chiaramente una notizia positiva e mi auguro di essere sentito dagli inquirenti”.

Io sono disponibile e spero di essere ascoltato quanto prima” aggiunge, perché ci sono “degli elementi che sono emersi in questi ultimi anni. Ci sono ad esempio dei messaggi whatsapp che mi sono arrivati che parlano di cose che riguardano Emanuela. Mi auguro che sia la volta buona perché nasca una collaborazione” tra la giustizia italiana e quella Vaticana, “e si arrivi a una soluzione” perché “la verità da qualche parte sta, la verità c’è e alcune persone la conoscono”.

Noi ne siamo all’oscuro, lo apprendiamo dagli organi di stampa ma certo è da un anno che attendevamo di essere ascoltati” commenta invece la legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò.

Si ripartirà dall’esame di ogni singolo dettaglio a partire da quel pomeriggio del 22 giugno 1983, quando la ragazza di 15 anni, figlia di un dipendente vaticano, scompare nel nulla. Si era richiusa alle spalle la porta della sua abitazione alle 16 di quel giorno di inizio estate per andare a lezione di musica in piazza Sant’Apollinare. Nei pressi dell’omonima basilica dove molti anni più tardi si scoprì che vi era seppellito uno dei capi della banda della Magliana, ‘Renatino’ Enrico De Pedis, secondo diversi testimoni esecutore materiale del sequestro “per conto di alti prelati”.

Sempre secondo l’Adnkronos, l’iniziativa della magistratura vaticana si muove nel solco della ricerca della verità e della trasparenza a tutti costi voluta da Papa Francesco, e per quanto riguarda l’affaire Orlandi si inserisce sulla scia dell’attenzione mostrata al caso da altri pontefici, a partire da Giovanni Paolo II (fu il primo, nel suo appello durante l’Angelus, a ufficializzare l’ipotesi del sequestro).

L’ultima inchiesta venne archiviata nell’ottobre del 2015 dal Gip, su richiesta della Procura, per mancanza di prove consistenti. Una inchiesta relativa alle sparizioni di Emanuela Orlandi e della coetanea Mirella Gregori, avviata nel 2006 successivamente alle dichiarazioni di Sabrina Minardi e che vedeva sei indagati per concorso in omicidio e sequestro di persona tra gli altri anche monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant’Apollinare dove fino al 2012 era stato sepolto De Pedis. Tre anni più tardi l’ultimo soffio di speranza per i familiari di entrambe le ragazze scomparse nel nulla. Il Vaticano, coerentemente alle indicazioni di trasparenza del Santo Padre, diede il via libera all’analisi del dna su alcune ossa ritrovate durante dei lavori di restauro nella sede della Nunziatura Vaticana di via Po, a Roma. Le indagini, affidate dalla Santa Sede all’Italia, e in particolare alla procura di Roma e alla Polizia scientifica, erano finalizzate a comparare quelle ossa con il codice genetico di Emanuela Orlandi. Nulla di fatto anche lì.

Emanuela Orlandi, dai messaggi in codice la soluzione del giallo: il 158 per telefonare in Vaticano, la Avon, l'ultimatum del 20 luglio. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 6 Gennaio 2023.

Il sequestro della giovane cittadina vaticana (e di Mirella Gregori) fu scandito da comunicazioni cifrate. I rimandi all'attentato a Wojtyla (158 anagramma di 5-81) e alle manovre contro Marcinkus. Spunta un'altra ragazza morta

Emanuela Orlandi e il suo mancato ritorno a casa, quel tragico 22 giugno 1983: fu una "scappatella" finita male, un sequestro di persona dai contorni indecifrabili o una vera e propria "operazione" d'intelligence, da inquadrare nelle trame e nelle tensioni della Guerra Fredda? A quasi 40 anni dalla scomparsa della figlia quindicenne del messo pontificio di Karol Wojtyla (e della coetanea Mirella Gregori), un aiuto fondamentale alla soluzione del giallo (qui tutti i protagonisti) viene dall'esame dei messaggi cifrati diffusi dai rapitori. È una sequenza impressionante di numeri, date, parole-chiave, anagrammi inseriti nelle telefonate e nelle lettere di rivendicazione, alcune delle quali contengono riferimenti nitidi sia al movente sia ai possibili responsabili dell'azione criminale. Un codice è già emerso ed è stato decrittato: il 17 ottobre 1983 (nelle stesse ore in cui il presidente Pertini stava trattando per la concessione della grazia ad Alì Agca, condizione posta per la liberazione delle due quindicenni), all'Ansa arrivò un comunicato nel quale si accusava tale "Aliz" di aver ucciso Emanuela e si chiamava in causa, oltre al capo della P2, Licio Gelli, un calciatore della Lazio, Arcadio Spinozzi. Rimando obliquo e incomprensibile? Neanche troppo. La Lazio (anagramma incompleto di "Aliz") era la squadra di Bruno Giordano, ex marito di Sabrina Minardi, all'epoca amante del boss "Renatino" De Pedis, capo indiscusso di quella banda della Magliana che, un quarto di secolo dopo, verrà tirata in ballo nella seconda inchiesta Orlandi-Gregori (2008-2015). 

Uno scenario spionistico

Occhio ai codici, dunque: fin dall'inizio le allusioni e le comunicazioni sottotraccia furono numerose, tali da conferire alla vicenda un forte  connotato spionistico. Scenario complesso, che dimostra la presenza di una regia occulta capace di ideare un piano raffinato e crudele, suffragato sia dai precedenti pedinamenti di altre ragazze (le figlie dell'assistente papale Angelo Gugel e del comandante della Gendarmeria Camillo Cibin) sia dal cambio di cittadinanza di Emanuela (da italiana a vaticana), formalizzato giusto tre mesi prima di sparire. E allora eccoli, in tutta la loro valenza indiziaria, i principali codici dell'affaire Orlandi-Gregori. Alcuni sono  riportati in informative di polizia giudiziaria a uso interno, altri si ritrovano in un documento secretato dal titolo "I punti-riscontro", chiuso negli armadi di Piazzale Clodio dopo l'archiviazione del 2015 e firmato da Marco Accetti, l'uomo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela. Sono elementi in gran parte inediti, che potrebbero tornare utili nella nuova inchiesta sul giallo collegato di Katy Skerl, la 17enne uccisa a Grottaferrata nel gennaio 1984, tornato d'attualità dopo la scoperta nel 2022 (grazie alle rivelazioni dello stesso Accetti) del furto della bara al cimitero Verano.

Il codice 158 e l'attentato al Papa

È il codice-guida. Si tratta del numero 158 usato per le comunicazioni tra rapitori e Santa Sede, indizio lampante di ricatti in corso. L'antefatto è il seguente: i sequestratori, all'inizio del luglio 1983, ottennero una linea riservata per trattare con il Segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli. Il passepartout concordato con le autorità ecclesiastiche (segno che la pressione venne presa sul serio) fu di tre cifre: 1-5-8. Ebbene, per decenni gli inquirenti hanno cercato un significato a quel numero. Invano. Fino a che nel 2013,  nell'ambito dell'inchiesta del procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo (poi archiviata su impulso del suo capo, Giuseppe Pignatone), una chiave è emersa: il 158 andava letto in quanto anagramma di 5-81, vale a dire mese e anno dell’attentato al papa polacco. I rapitori, allontanando da casa con un tranello Mirella ed Emanuela, avrebbero mandato a dire alle controparti, in Vaticano e fuori: badate, l'azione è collegata all'attentato del 13 maggio 1981 contro Giovanni Paolo II e di conseguenza alla figura di Agca, non a caso indicato come "merce di scambio" fin dalle prime rivendicazioni: scarcerato lui, le ragazze sarebbero state liberate. In tale scenario, ad agire sarebbe stato un manipolo di laici senza scrupoli, 007 deviati e tonache infedeli. Con quale obiettivo primario? Far credere al detenuto Agca che sarebbe uscito presto di galera, inducendolo così a ritrattare le accuse alla Bulgaria (ed estensivamente a Mosca) di complicità nel crimine da lui commesso. Cosa che puntualmente avvenne: Agca demolì la pista rossa, rimangiandosi le precedenti dichiarazioni, il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela.  

L'offerta di lavoro da 375 mila lire

È un altro codice importante, che accredita il "movente multiplo" del doppio sequestro: da un lato la politica internazionale (salvare Mosca dalle "calunnie" di Agca), dall'altro il recupero dei soldi versati in Vaticano per la causa polacca (e inghiottiti dallo scandalo Ior-Ambrosiano). Accadde questo: Emanuela alle 19 del 22 giugno 1983 chiamò a casa e disse alla sorella Federica di aver ricevuto una proposta per distribuire volantini e cosmetici della ditta Avon a una sfilata delle Sorelle Fontana presso la Sala Borromini, in cambio di un compenso spropositato: 375 mila lire per poche ore di lavoro. Nessun dubbio che fosse un messaggio cifrato. I sequestratori confidavano nel fatto che la ragazza avrebbe parlato ai familiari della strana offerta e che, dopo la denuncia alla polizia, quei codici sarebbero diventati di dominio pubblico. Cosa che regolarmente avvenne. In tal modo il "dialogo" occulto con le controparti poteva partire. La spiegazione fornita da Accetti, il fotografo oggi 67enne indagato e poi prosciolto nel 2015, è stata che quei codici rimandavano a monsignor Celata, braccio destro di Casaroli e direttore dell'istituto San Giuseppe De Merode (da lui frequentato al tempo delle scuole medie), situato in piazza di Spagna, a pochi passi dall'atelier delle Sorelle Fontana. L'«uomo del flauto» ha sintetizzato la sua verità in questi termini: «Monsignor Celata era stato incaricato di svolgere azioni tese a ottenere l’allontanamento di Marcinkus dal ruolo di presidente dello Ior. Per  defenestrarlo vi fu la collaborazione del Sismi, allora condotto dal dottor Santovito, con l’ausilio del dottor Francesco Pazienza, la cui abitazione si trovava nei pressi della Sala Borromini». In altri termini, la «sfilata della Avon» avrebbe evocato «un’azione promossa da monsignor Celata (Sorelle Fontana) e Pazienza (Sala Borromini), nel senso che da questo connubio si otterrà un risultato contro la politica dello Ior». Da notare che, nel suo libro di molti anni successivo, Il disubbidiente, Pazienza ha dato dettagliatamente conto dei suoi incontri con Celata.

La Avon e la presunta "cassaforte" vaticana

Il richiamo alla Avon impone un approfondimento. Il (finto) rappresentante della ditta di cosmetici usato come esca dai rapitori fu cercato a lungo, ma invano. L'offerta alla Orlandi, d'altronde, altro non era stata che una messinscena, peraltro costruita in modo credibile. L'«uomo Avon» fu ispirato a venditori reali, attivi in quel periodo nella capitale. Marco Accetti, all'epoca 27enne, ha messo a verbale: «Avon in celtico significa acqua, fiume, che doveva rammentare il Convitto nazionale, l’istituto frequentato da Emanuela, che si trova nei pressi del Tevere. L’industria Avon aveva la sede principale a New York, citta di provenienza dell’avvocato Macioce (figura di spicco nello Ior, ndr), da noi avversato». Di recente, inoltre, è filtrata una chiave ulteriore: il "codice Avon" potrebbe essere stato un rimando - in forma di anagramma - alla Fondazione ecclesiastica pontificia Nova (stesse lettere, lette al contrario), indicata da fonti coperte come una delle "casseforti" vaticane coinvolte nella gestione dell'obolo della Chiesa, nonché nell'invio di fondi (da molti contrastato dentro le Sacre Mura) al sindacato polacco Solidarnosc. 

Il proiettile 357 Magnum "firmato" Sisde

Numeri e codici. Alcune cifre, nella vicenda Orlandi, tornano in modo ossessivo. Non a caso. Si tratta del 3, del 5 e del 7. Abbiamo già visto il compenso (finto) offerto a Emanuela per un pomeriggio di lavoro: 375 mila lire. Ebbene, per quanto possa sembrare romanzesco, cinque mesi dopo gli stessi tre numeri furono messi in circolo da una misteriosa entità, "Phoenix", firmataria di alcuni comunicati di minaccia verso i rapitori. Il 13 novembre 1983, infatti, nel tabernacolo sulla salita di San Sebastianello, nei pressi di piazza di Spagna (sede, ricordiamo, della Maison delle Sorelle Fontana e del San Giuseppe da Merode), nella busta contenente un nuovo messaggio Phoenix fu fatto trovare un proiettile calibro 357 (anagramma di 375) Magnum. Coincidenze? Phoenix, come in seguito rivelato dallo 007 Giulio Gangi (morto il 2 novembre 2022, qui il ritratto), in realtà altro non era che il Sisde (servizi segreti civili) sotto mentite spoglie, impegnato in uno spregiudicato tentativo di "stanare" i sequestratori. Il che conduce a una deduzione: la scelta del calibro del proiettile e del posto in cui farlo ritrovare dimostra che gli inquirenti  avevano ben compreso il significato dei codici  diffusi da chi deteneva Emanuela e Mirella.

Emanuela e la frase sul "terzo liceo"

Avanti. Anche una frase fatta pronunciare alla "ragazza con la fascetta" dai rapitori (e diffusa come prova di possesso dell'ostaggio) quasi certamente conteneva un messaggio cifrato. Nella prima telefonata a casa Orlandi fatta il 5 luglio 1983 dal cosiddetto "Amerikano", infatti, si sente un nastro con il fischio di un treno e la voce di Emanuela che dice: «Prova. Convitto nazionale Vittorio Emanuele secondo. Dovrei fare il terzo liceo quest’anno... scientifico». L'interpretazione di Accetti consegnata alla Procura è stata: «La frase della Orlandi significava: accettate le richieste, in modo che tutto possa terminare entro i primi di settembre, in tempo per l’inizio dell’anno scolastico, altrimenti riferirò fatti compromettenti. Lo spettro da noi agitato era la pedofilia. La telefonata fu fatta dai Parioli. La registrazione con la voce della ragazza fu eseguita dopo il 22 giugno. Il rumore del treno, registrato in precedenza, serviva a depistare gli inquirenti». La pedofilia, lungi dall'essere il movente primario, entrò quindi in gioco come uno spauracchio da agitare sulla testa di tonache viziose, per tenerle sotto schiaffo e frenarne la carriera nella Chiesa? 

L'ultimatum del 20 luglio (data-codice)

Ed eccoci all'ultimatum fissato per lo «scambio» di Emanuela con Agca: fu il 20 luglio 1983, data-codice per eccellenza, come dimostra un intoppo emerso nella prima fase del giallo. In seguito a una comunicazione errata di una precedente rivendicazione, infatti, sui giornali dell'8 luglio era stato indicato un ultimatum di 20 giorni, «pena l'uccisione dell'ostaggio». La vita di Emanuela in bilico fino al 28, dunque? No. Ci pensò l’Amerikano, con un testo trasmesso all’Ansa lo stesso 8 luglio, a chiarire l'equivoco. «Non siamo un’organizzazione rivoluzionaria o terroristica, ci qualifichiamo come persone che hanno interesse alla liberazione di Agca. I termini devono concludersi il 20 luglio e non entro 20 giorni, come pubblicato dagli organi di stampa». La rettifica certifica la volontà, ancora una volta, di «dialogare» con qualcuno nell'ombra. Ma perché proprio quel giorno? In quanto data simbolica, ha messo agli atti l'«uomo del flauto». «Il 20 era il giorno del sanguinoso assalto alla Grande Moschea della Mecca, avvenuto il 20 novembre 1979, e con questo ci riferivamo ad Agca. Ma il 20 luglio era anche la data della condanna di Calvi, che serviva a richiamare l’affaire Ior-Ambrosiano». In effetti il banchiere (poi morto a Londra l'anno seguente, sotto il ponte dei Frati Neri), il 20 luglio 1981 era stato condannato a 4 anni di carcere per reati valutari. L'ultimatum, quindi, sarebbe stato funzionale al già descritto "movente multiplo": da un lato veicolare le esternazioni di Agca, dall'altro tenere sotto pressione i responsabili della malagestione delle finanze vaticane.

La lettera al cardinale Oddi

Siamo al codice numero 7. Se Dan Brown, grazie agli indizi celati nelle opere d’arte, inseguiva il mistero del Santo Graal, nel caso Orlandi-Gregori la ricerca della verità sulla tragedia di due quindicenni passa attraverso la soluzione di una sorta di sciarada, con la caccia al significato nascosto. Un altro messaggio criptato è rappresentato da un articolo pubblicato il 25 giugno 1983 sul quotidiano Il Tempo. Titolo: «Sono un terrorista pentito. Così il turco Agca ha scritto al cardinale Oddi». L'anomalia, nella rilettura ex post, è evidente. Il giornale riportava una lettera inviata dal turco all'alto prelato nel settembre 1982. Perché renderla pubblica dopo 10 mesi? E soprattutto: perché in quel frangente, giusto tre giorni dopo la scomparsa di Emanuela? Era in corso una trattativa sotterranea, forse avviata dagli incontri di Agca in carcere con due esponenti dell'intelligence italiana? Sta di fatto che lui, l'ex Lupo grigio, nutriva forti aspettative di libertà. «Io ancora spero che Vaticano può cambiare suo cattivo pensiero su Alì Agca. Io sono solo pentito terrorista. Ma vedremo che succederà in futuro. Io spero che qualcuno mi risponderà dal Vaticano». Chiosa di Accetti, trent'anni dopo,  davanti al giudice Capaldo: «Quell’articolo lo facemmo pubblicare noi, tramite un nostro referente in redazione, fiancheggiatore della Stasi, che chiamavamo Ecce Homo. Serviva a rassicurare Agca che ci stavamo occupando della sua uscita dal carcere, a fargli credere che il sequestro serviva a premere sulla Santa Sede (tramite il ricatto su Emanuela, cittadina vaticana, ndr) perché sollecitasse la grazia allo Stato italiano (tramite il ricatto su Mirella, italiana, ndr)». In cambio, come già visto, Agca avrebbe dovuto rimangiarsi le accuse di correità ai bulgari. 

Paola Diener, nuovo giallo

L'ultimo codice che qui esaminiamo era contenuto in una lettera di rivendicazione inviata dai rapitori (da Boston) nel novembre 1983: «Comunicheremo esclusivamente al Segretario di Stato il nominativo della cittadina soppressa il 5-10-1983 a causa della reprensibile condotta vaticana. Nuovi abusi e irregolarità di comportamento potranno essere perseguite con la soppressione di cittadine dello Stato italiano e del Vaticano”. Testo oscuro, che oggi ha trovato finalmente una spiegazione in un altro dei tanti verbali dimenticati. Gli estensori del messaggio si riferivano a Paola Diener, 33 anni, figlia del commendatore Joseph, custode responsabile dell’Archivio Segreto vaticano (vedi la pagina dell'Annuario vaticano 1983, qui allegata), che effettivamente era morta quel 5 di ottobre, nell’appartamento al civico 221 di via Gregorio VII, in cui abitava con i genitori. Una vicenda riportata in pochi trafiletti sui giornali e mai collegata in precedenza al caso Orlandi: la giovane era rimasta fulminata nella vasca, per una dispersione di corrente.  «In realtà era un nostro bluff - ha spiegato l'uomo del flauto -. La disgrazia fu da noi usata come minaccia, facendo credere che si fosse trattato di un omicidio. Pensammo di usare la Diener un po' come la Orlandi, per esercitare pressioni, tanto che per un periodo posizionammo delle microspie a casa sua per capire se riferiva ai suoi quanto le avevano chiesto. Ma la sua morte bloccò tutto».

«Il codice firmava un'azione»

Viaggio concluso:  l'enorme mole di messaggi ideati in vista di doppi e tripli giochi sulla pelle di due sventurate ragazzine fa girare la testa. Ma è anche vero che, se un fatto pare incredibile, non si può concludere che non sia avvenuto. «Il codice firmava un’azione, un gesto», ha scritto Accetti nel suo memoriale: «Ogni codice raccontava l’origine di un evento, le nostre intenzioni. L’usarli era una forma di pressione verso l’altra parte. Un modo di dire loro che realtà delicate e riservate diventavano pubbliche, ma momentaneamente sotto scrittura cifrata. E che, se non fossero state corrisposte le nostre richieste, avremmo potuto spiegare pubblicamente quel che il codice occultava, e ciò non era certo loro interesse...» I messaggi criptati come raffinatissima strategia per attuare regolamenti di conti in ambienti religiosi e non. «I codici - ha aggiunto l'uomo del flauto - dovevano essere molti e in forme esasperate, a volte anche gotiche. In tal modo si rendevano inverosimili all’indagine di un eventuale inquirente e alla curiosità di un possibile giornalista, che li avrebbero per l’appunto considerati eccessivi, implausibili...» In quegli anni di guerra aperta tra servizi dell'Est e dell'Ovest, d'altronde, le operazioni coperte funzionavano così. Resta da capire se mai una terza indagine si incaricherà di fare luce sull'intrigo: per ora, in seguito alla recente richiesta presentata dai partiti di opposizione (Pd, M5S e Azione), si profila l'istituzione di una commissione parlamentare d'inchiesta. Una conferma ulteriore, qualora ve ne fosse bisogno, che Emanuela e Mirella sono rimaste nel cuore di molti (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi, Vittorio Feltri: "Se il suo assassino è un prete non si saprà mai". Cristina Agostini su Libero Quotidiano il 04 novembre 2018

Una storia assurda che dura da 35 anni e non è ancora finita. È quella di Emanuela Orlandi, una quindicenne figlia di un dipendente del Vaticano, sparita nel 1983 e non più ricomparsa. Decenni trascorsi senza che si sia scoperto il motivo della morte di questa povera fanciulla. A distanza di tanto tempo passato inutilmente allo scopo di capire cosa sia successo alla ragazza in questione: silenzio da parte delle cosiddette autorità religiose, bocche chiuse, inquirenti incapaci, mistero assoluto. Leggi anche: Vaticano, chiesti i documenti sulla Nunziatura. Emanuela Orlandi, tragico sospetto sul "restauro" Ma come può accadere che una adolescente nata e cresciuta in Vaticano, non nel quartiere di San Lorenzo, sia stata rapita o uccisa (più probabile) in una piccola città teoricamente Santa e poi occultata in maniera tale da essere impossibile recuperarne il corpo? Con tutta la fantasia di cui disponiamo, non siamo in grado di decifrare l' arcano. Qualcuno sospetta che Emanuela sia stata violentata e soppressa da un prete più o meno altolocato. Forse, ciononostante non esiste una prova. Altre ipotesi si possono fare ma nessuna di esse è convalidata. Supposizioni. Ora, a distanza di parecchi lustri, saltano fuori alla Nunziatura Apostolica di via Po le ossa di una donna, che presto saranno esaminate per verificare se siano o no i resti della povera vittima di cui discettiamo. Non resta che attendere. Però qualora si venisse a sapere che lo scheletro è il suo, il giallo non sarebbe comunque risolto. Il recupero di un cadavere non dice chi sia l'eventuale assassino né può costituire la base di partenza per indagini che portino a comprendere cosa sia avvenuto e chi ne sia il responsabile. Questo per dire che Emanuela non avrà in ogni caso giustizia. Chiunque l'abbia ammazzata non sarà preso e processato perché è trascorso troppo tempo dall'epoca del delitto e chi lo ha commesso ha avuto facoltà di nascondere la mano omicida in forma perfetta.  Rimane l' atroce sospetto che la giovane sia stata sacrificata da un prelato, cioè da una persona che viveva e frequentava lo Stato della Chiesa, lasciandosi andare a un istinto sessuale che definire schifoso è poco.  Mi auguro che la presente ricostruzione sia sbagliata, ma non me ne viene in mente una più convincente. In effetti gli uomini, con o senza abito talare, sono purtroppo tutti uguali e capaci di dare il peggio di sé. di Vittorio Feltri

Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, i protagonisti del giallo: capi di Stato, banchieri, gangster e alti prelati. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 25 dicembre 2022.

Il doppio sequestro e i personaggi a vario titolo coinvolti, da Wojtyla ad Agca, Marcinkus e De Pedis, fino a papa Francesco. Un protagonista delle trattative: «Pertini stava per firmare la grazia, la famiglia si oppose»

 Giunti al 40° Natale senza Emanuela, la famiglia Orlandi, diventata suo malgrado una delle più famose d'Italia, ripone ora le sue residue speranze di verità e giustizia nell'istituzione della commissione parlamentare d'inchiesta proposta  nei giorni scorsi da alcuni deputati e senatori di opposizione. Analogo il sentimento di Antonietta Gregori, la sorella di Mirella, l'altra quindicenne sparita nel 1983 e diventata "gemella", pur senza averla mai conosciuta, della "ragazza con la fascetta". Due inchieste lunghissime (la prima 1983-1997, la seconda 2008-2015), una dozzina di sospettati mai arrivati in giudizio, decine di piste percorse invano, omertà e depistaggi reiterati, decine di migliaia di atti stipati negli armadi blindati dalla Procura dopo l'ultima archiviazione. Il giallo Orlandi-Gregori si caratterizza per i grandi numeri, ma anche per le connessioni a vicende cruciali del secolo scorso, sul finire della Guerra Fredda,  chiamando in causa a vario titolo personaggi finiti nei libri di storia. Ecco quindi la galleria affollata da uomini di Chiesa, esponenti politici, giudici, gangster, 007 e banchieri che, ognuno per  la propria parte, contribuiscono a gettare squarci di luce sull'affaire Orlandi-Gregori.

Karol Wojtyla, il primo appello

Prima l’attentato in piazza San Pietro, poi il ricatto di natura politico-terroristica ai suoi danni. È il Papa polacco, il 3 luglio 1983, solo 11 giorni dopo la scomparsa, a ufficializzare il giallo di Emanuela Orlandi, dando alla vicenda una dimensione planetaria e alla pubblica opinione la sensazione che sia successo qualcosa di molto grave dentro le sacre mura. Giovanni Paolo II lancia il suo appello alla fine della preghiera dell’Angelus, con toni accorati. Frasi lungamente meditate, cesellate: “Desidero esprimere la viva partecipazione con cui sono vicino alla famiglia Orlandi, la quale è nell’afflizione per la figlia Emanuela di quindici anni, che da mercoledì 22 giugno non ha fatto ritorno a casa. Condivido le ansie e l’angosciosa trepidazione dei genitori, non perdendo la speranza nel senso di umanità di chi abbia responsabilità in questo caso”. Tanta partecipazione per un fatto di cronaca (ogni anno in Italia scompaiono migliaia di adolescenti) dimostra che qualche ricatto sottotraccia era già partito? Il fatto che la vittima fosse una concittadina del Papa rappresenta un indizio sicuramente centrale. Il giorno della scomparsa, 22 giugno 1983, Papa Wojtyla era in Polonia con la seconda carica della Santa Sede, il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli, per un viaggio trionfale, con prolungati bagni di folla, volto a sostenere la battaglia anticomunista del sindacato cattolico Solidarnosc. La concomitanza tra il rapimento e la missione all'estero di Giovanni Paolo II è stata oggetto di congetture, in cerca del movente: Emanuela fu presa per ricattare il Vaticano e ottenere la restituzione dei soldi per la causa polacca versati allo Ior di monsignor Marcinkus? 

Alì Agca, più furbo che pazzo

È il fantasma che aleggia sul sequestro di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori da quasi quarant’anni. La connessione tra l’attentato contro Giovanni Paolo II portato a termine il 13 maggio 1981 dal terrorista turco Alì Agca e le successive scomparse delle ragazze (22 giugno e 7 maggio 1983) fu ritenuta scontata dagli inquirenti della prima inchiesta (1983-1997) in quanto, fin dall’inizio, i rapitori, dopo aver dato prova di aver avuto contatto con gli ostaggi, chiesero lo “scambio” tra le quindicenni e il turco. In seguito Agca, condannato all’ergastolo già nel luglio 1981, si è prodotto in una serie infinita di esternazioni, giravolte e colpi di scena che ne hanno minato la credibilità: sul caso Orlandi, l’attentatore del Papa ha prodotto 107 versioni diverse, qualcuno si è preso la briga di contarle una a una. Ma va anche detto che tale atteggiamento ondivago e all’apparenza delirante potrebbe in realtà essere stato il frutto di una raffinata strategia: fingersi pazzo per tranquillizzare i soggetti (mai scoperti) che lo aiutarono ad arrivare in Piazza San Pietro. Che l’azione contro Wojtyla non sia stata un gesto solitario, d’altra parte, fu ritenuto certo dal giudice Severino Santiapichi che, dopo aver condannato in primo grado Agca all’ergastolo, sollecitò l’apertura immediata di una seconda inchiesta (quella poi istruita da Ilario Martella) per individuare i mandanti dell’attentato. La finta pazzia, insomma, come “polizza sulla vita” per il turco, che in tal modo (apparendo inaffidabile) ha evitato il rischio di essere eliminato fisicamente, per evitare che parlasse sul serio. Oggi Agca vive in Turchia con la moglie italiana e si fa talvolta vivo con nuove esternazioni (qui la lettera anticipata di recente da Ferruccio Pinotti sul Corriere) 

Agostino Casaroli, il "dialogante" con l'Est

Il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli è stato spesso chiamato in causa nella vicenda di Emanuela Orlandi, perché i sequestratori scelsero lui come interlocutore delle telefonate in Vaticano. In un brandello di conversazione registrata, si sente una suora che con tono concitato passa la telefonata all’alto prelato (era il luglio 1984) e lui inizia a parlare con un misterioso personaggio, prima che la linea cada. In quanto fautore di una linea più morbida verso il mondo dell’Est (la cosiddetta Ostpolitik), Agostino Casaroli, stando al memoriale depositato in Procura nel 2013 da Marco Accetti, sarebbe stato il punto di riferimento del cosiddetto “ganglio”, un gruppo di potere coperto composto da laici ed ecclesiastici sospettato di aver allontanato di casa sia la Orlandi sia la Gregori, per indurre Agca a ritrattare le accuse alla Bulgaria in cambio di una sollecita uscita dal carcere.

Monsignor Celata, il braccio destro

Stretto collaboratore del cardinale Casaroli, monsignor Celata fu direttore del San Giuseppe De Merode, in piazza di Spagna, scuola esclusiva frequentata negli anni delle medie da Marco Accetti, il fotografo romano che nel 2013 si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori. Secondo lo stesso Accetti, il nome dato a uno dei telefonisti della prima ora a casa Orlandi, “Pierluigi“, appunto, fu scelto dei rapitori proprio per far capire alla controparte che si faceva riferimento a monsignor Celata, non per condotte specifiche ma per la sua appartenenza alla fazione vaticana avversa alla linea fortemente anticomunista di Giovanni Paolo II. Un modo per "firmare" l'azione, insomma. 

Domenico Sica, magistrato super esperto  

Magistrato esperto in terrorismo, già Alto commissario per la lotta alla mafia, Domenico Sica detto "Mimmo" assunse la direzione delle indagini sul caso Orlandi nel pieno della torrida estate 1983, quando l’intreccio di comunicati sulla scomparsa delle due ragazze (da agosto i rapitori cominciarono a citare nei comunicati anche Mirella Gregori) diventò inestricabile. I soggetti che in qualche modo diedero prova di essere stati perlomeno in contatto con chi aveva il possesso delle quindicenni furono nell’ordine: tal “Pierluigi”, tale “Mario”, il cosiddetto “Amerikano”, il Fronte Turkesh e il misterioso “postino” che (proveniente forse da Roma) inviò quattro lettere da Boston. Domenico Sica gestì la delicatissima fase d’indagini del settembre-ottobre 1983 che, sotto l’incalzare delle richieste di “scambio” tra l’attentatore e le ragazze, coinvolse anche il presidente Sandro Pertini, tirato in ballo come titolare del potere di grazia. 

L’Amerikano, il mister X

È il personaggio del mistero nel doppio giallo Gregori-Orlandi. Principale telefonista, interlocutore del cardinale Casaroli attraverso il codice riservato 158 (poi spiegato da Marco Accetti coma anagramma di 5-81, mese e anno dell’attentato al Papa), il cosiddetto “Amerikano” ha fatto letteralmente impazzire generazioni di investigatori, oltreché volare la fantasia di osservatori, giornalisti, criminologi, giallisti. Chi era l’uomo dall’inflessione anglosassone (reale o mimata), che si fece vivo per la prima volta il 5 luglio 1983, ponendo sul tavolo la richiesta di “scambio” tra Emanuela e Agca? Secondo un dossier firmato Sisde, il mister X altro non era che monsignor Marcinkus. Tanti hanno anche ipotizzato che potesse trattarsi di uno straniero dell’area mediorientale, con una buona conoscenza dell’inglese. In tempi recenti la voce di Marco Accetti è parsa corrispondere, anche a detta dei due periti fonici sentiti dalla docu-serie “Vatican girl” di Netflix.

Gennaro Egidio, l'avvocato tuttofare

Avvocato di fama, vicino ai servizi segreti, già difensore del marito della baronessa Rothschild scomparsa in circostanze misteriose nel 1980, Gennaro Egidio è stato una figura centrale della prima inchiesta Orlandi-Gregori (1983-1997). Il noto legale fu di fatto imposto alla famiglia Orlandi da esponenti del Sisde, che nei primi giorni si presentarono a casa di Emanuela per collaborare alle indagini; successivamente, non appena i rapitori aggiunsero Mirella nelle richieste, Egidio assunse la difesa dei Gregori. Gli Orlandi non pagarono mai la parcella, i Gregori sì, sobbarcandosi oneri enormi, fatto che ha provocato grande dispiacere, in tempi recenti, alla sorella Maria Antonietta, che non lo sapeva. Egidio monopolizzò il rapporto tra le famiglie, i giornali e gli inquirenti. La sua voce è agli atti in molte delle telefonate dell’ “Amerikano”, con il quale arrivò a instaurare un rapporto di quasi confidenza. 

Giulio Gangi, lo 007 "stoppato" dai capi

Fu il primo agente segreto, giovanissimo 007 del Sisde, a entrare in casa di Emanuela un paio di giorni dopo la scomparsa: Giulio Gangi, morto il 2 novembre 2022 in fondo a una vita duramente segnata dalla sua partecipazione all'inchiesta Orlandi, fu l'investigatore che maggiormente lavorò sulla pista della Avon, nata dall'ultima telefonata a casa della ragazza, il 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di aver ricevuto una proposta di lavoro da un rappresentante della nota ditta di cosmetici, che si pensò fosse arrivato a bordo della Bmw verde notata da un poliziotto e un vigile urbano. Gangi si mise sulle tracce del fantomatico "adescatore" della Avon (ruolo però di copertura) e perlustrò tutte le officine di Roma, arrivando a individuare  una vettura di quella marca con un vetro rotto, come se una persona all'interno avesse tentato disperatamente di aprire lo sportello e fuggire. Da questo indizio lo 007 arrivò a un residence in zona Aurelia, dove figurava tra gli ospiti una giovane donna bellissima, che lui tentò di interrogare in relazione al sequestro Orlandi ma ricevette un diniego sdegnato. Tornato in ufficio, Gangi fu duramente redarguito dal suo capo. «Doveva essere l'amante di qualche pezzo grosso», raccontò in seguito. Altra vicenda controversa, il suo annuncio alla famiglia Orlandi, nel settembre 1983, che la ragazza «sarà liberata entro una quindicina di giorni». Doveva averlo sentito dire al Sisde. Era la dimostrazione che una trattativa era effettivamente in corso? Gangi finirà per essere esiliato dai servizi d'intelligence e in tempi recenti, prima della morte causata da problemi cardiaci, aveva proposto all'autore di questo articolo di  «svolgere un sopralluogo»  nella pineta di Castel Fusano sulla morte di Josè Garramon, uno dei gialli collegati (il 12enne uruguayano fu travolto e ucciso dal furgone guidato da Marco Accetti, superteste e reo confesso del caso Orlandi, nel dicembre 1983).

Monsignor Marcinkus, "il gorilla"

L’arcivescovo statunitense, stretto collaboratore di Papa Giovanni Paolo II, all’epoca capo della banca vaticana (Ior), si trovò al centro della bufera provocata dal crack dell’Ambrosiano. Fisico imponente, ex guardia del corpo dei pontefici (per questo soprannominato "Il gorilla"),  uomo dai modi spicci, fama di donnaiolo, Paul Casimir Marcinkus è stato persino indicato come possibile telefonista del caso Orlandi, il cosiddetto “Amerikano”. Fu un rapporto del Sisde dei primi anni Novanta a disegnare il profilo di un ecclesiastico, colto, conoscitore del latino e sottile analista dei meccanismi giuridici, da molti ritenuto corrispondente alla figura del presidente dello Ior. Emanuela Orlandi e i suoi parenti avevano con monsignor Marcinkus una certa familiarità, in quanto lo incontravano spesso sotto casa o nei giardini vaticani. «Una persona gentile», ha detto in passato Pietro Orlandi, che proprio allo Ior fu assunto da papa Wojtyla, in segno di attenzione e come forma di “ risarcimento“ nei confronti della famiglia Orlandi, dopo la scomparsa di Emanuela. 

Enrico De Pedis, boss (anche troppo) benvoluto

Il capo della banda della Magliana Enrico de Pedis detto “Renatino” è entrato nella vicenda Orlandi molto tempo dopo la sua dipartita (fu assassinato vicino Campo de’ fiori il 2 febbraio 1990), in seguito a due fatti. Il primo fu la scoperta dell’ “indegna sepoltura“ a lui riservata, vale a dire il trattamento di favore post mortem di tumularlo all’interno della basilica di Sant’Apollinare, nel centro di Roma, curiosamente confinante con la scuola di musica nella quale si recò Emanuela il giorno in cui sparì. «Se volete risolvere il caso Orlandi, andato a vedere chi è sepolto a Santa Apollinare e il favore fatto al cardinal Poletti», fu la dichiarazione di un malavitoso della banda della Magliana, rilasciata nel 2005. In seguito l’ex amante di “Renatino”, Sabrina Minardi, mise a verbale nell’ambito dell’inchiesta riaperta nel 2008 di aver partecipato al sequestro di Emanuela, accompagnando (su ordine del boss) la ragazza dalla cima del Gianicolo al benzinaio in fondo alla “strada delle mille curve”. 

Sabrina Minardi, la donna del boss

Giovanissima moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano, poi amante del boss della banda della Magliana “Renatino“ De Pedis, Sabrina Minardi, in fondo a un percorso travagliato di vita (prostituzione, droga) nel 2008 è uscita allo scoperto raccontando la sua verità sul sequestro Orlandi. Secondo la sua versione, in parte credibile e in parte vanificata da incongruenze, De Pedis qualche tempo dopo la scomparsa le chiese di portare Emanuela dal bar in cima al Gianicolo al benzinaio in fondo alla “strada delle mille curve“, per consegnarla a un monsignore, da lei descritto in tonaca, "con i bottoncini davanti", e con un cappello a falde larghe sulla testa. La stessa Minardi, più volte posta a verbale nell’inchiesta Capaldo, ha indicato un appartamento in zona Monteverde (via Pignatelli) come covo dove sarebbe stata nascosta la ragazza. Quanto al movente, ha affermato di aver sentito dire che il ricatto innescato dal rapimento Orlandi era finalizzato a recuperare i soldi versati dalla malavita in Vaticano. 

Arcadio Spinozzi, la Lazio, i codici

Il giocatore della Lazio Arcadio Spinozzi, compagno di squadra dei più famosi Manfredonia, D'Amico e Giordano, fu coinvolto inopinatamente nella vicenda Orlandi in seguito a un comunicato dei rapitori inviato all’Ansa il 17 ottobre 1983. «Perché non interrogare giocatore calcistico di Lazio Spinozzi? È stato lui a darci Emanuela e a fornirci primo rifugio». Cosa c’entrava il calciatore? Nulla, naturalmente. Spinozzi  nel leggere il suo nome associato al giallo di cui parlava tutta Italia, il giocatore si arrabbiò moltissimo. Il messaggio dei rapitori di Emanuela e Mirella, in realtà, era quasi certamente una sorta di "firma": il richiamo a un misterioso "Aliz" colpevole di aver ucciso Emanuela ("Suo corpo forse non lo trovate più, è Aliz è stato orrendo") andrebbe letto con un riferimento alla parola "Lazio" (anagramma quasi completo), squadra all'epoca di Spinozzi ma anche di Bruno Giordano, ex marito di Sabrina Minardi, in seguito amante di "Renatino" De Pedis, capo della banda della Magliana implicata nell'operazione-Orlandi, appunto. 

Ugo Poletti e "l'indegna sepoltura"

L’alta personalità ecclesiastica, all’epoca cardinale vicario, è stata chiamata in causa nell’intrigo Orlandi-Gregori per  una decisione molto controversa e fonte di polemiche: fu il cardinale Ugo Poletti, nel 1990, a concedere il nullaosta alla tumulazione di Enrico De Pedis nella cripta di Santa Apollinare. Nel 2012, in seguito alle accese polemiche sull’ “indegna sepoltura” (il fratello Pietro Orlandi organizzò una manifestazione con un enorme striscione: «Nessuno Stato né tantomeno la Chiesa possono giustificare la criminalità»), il Vaticano diede l’assenso alla traslazione della salma. La moglie Carla Di Giovanni decise di procedere alla cremazione, anche per non trovarsi in futuro in situazioni di analoga tensione. 

Sandro Pertini e la trattativa saltata

L’allora presidente della Repubblica, convinto fautore della linea della fermezza nel sequestro Moro, fu coinvolto nel caso Orlandi in quanto titolare del potere di grazia, che si ipotizzò di concedere ad Ali Agca per consentire il rientro delle quindicenni. Secondo recenti rivelazioni, Sandro Pertini, per quanto in linea teorica contrario, fu sul punto di firmare il provvedimento di clemenza a favore dell’attentatore nell’autunno 1983, negli stessi giorni in cui, in un’intervista all’Ansa (pubblicata il 20 ottobre), lanciò un appello per la liberazione degli ostaggi. «Era già stata convocata la conferenza stampa per dare l’annuncio che la situazione si era sbloccata - racconta al Corriere uno dei protagonisti del negoziato, oggi in pensione - ma all’improvviso accadde che la famiglia Orlandi si oppose alla concessione della grazia al turco. Prima volevano la certezza di avere indietro Emanuela, dicevano che un criminale del genere non poteva essere accontentato. Dal loro punto di vista, si poteva capire. Ma va tenuto presente che, con riferimento ad Agca, la vera vittima che aveva titolo a pronunciarsi era il Santo Padre, non loro. Si creò un intreccio inestricabile. E a  quel punto saltò tutto. Ricordo contatti frenetici, di prima mattina, con l’avvocato, costretto ad annullare in fretta e furia la convocazione dei giornalisti alla Stampa estera». Ma se la grazia fosse stata concessa, le ragazze sarebbero state liberate? Visto con il senno del poi, un tentativo ulteriore fu fatto pochi mesi dopo, nel dicembre 1983, da Giovanni Paolo II, che perdonò e andò a trovare in carcere Agca: gesto interpretato da molti come segnale di dialogo (purtroppo vano, o tardivo) anche verso i sequestratori di Emanuela e Mirella. 

Ilario Martella e la pista "rossa"

Giudice istruttore della pista “rossa” dell’attentato contro Giovanni Paolo II del 13 maggio 1981, Ilario Martella è stato anche titolare delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori dall’85 al 1990. La sua convinzione è che le ragazze siano state allontanate da casa da un gruppo criminale spregiudicato e abilissimo, per ottenere da Agca la ritrattazione delle accuse di complicità nell'attentato da lui lanciate contro la Bulgaria (ed estensivamente Mosca) a partire dal 1982. Il giudice Martella è tuttora convinto della solidità del suo impianto accusatorio contro i tre funzionari bulgari, presunti mandanti e complici del Lupo grigio, nonostante il processo si sia concluso (nel 1986) con un nulla di fatto: gli imputati furono tutti assolti, seppure per insufficienza di prove. 

Giancarlo Capaldo, l'inchiesta-bis

Giancarlo Capaldo ha diretto l’inchiesta Orlandi-Gregori aperta nel 2008 (e archiviata nel 2015) nel ruolo di procuratore aggiunto di Roma. Si è trattato della fase in cui la magistratura indagò sul ruolo avuto dalla banda della Magliana e, a partire dal 2013, sulle dichiarazioni autoaccusatorie di Marco Accetti, che nel 2013 ha consegnato il flauto riconosciuto dei familiari e consegnato in procura un voluminoso dossier. Sei i presunti responsabili dell’operazione Orlandi-Gregori iscritti da Capaldo sul registro degli indagati: Sabrina Minardi, ex amante di De Pedis, Sergio Virtù, ex autista del boss, due esponenti minori della banda della Magliana, lo stesso Marco Accetti e don Pietro Vergari, il rettore della basilica di Sant’Apollinare, amico di “Renatino” De Pedis, dopo averlo conosciuto in carcere, al tempo in cui era cappellano a Regina Coeli. 

Marco Accetti, l'uomo del flauto

Fotografo romano, classe 1955, figlio di un costruttore massone, in gioventù vicino ad ambienti di estrema destra, per un periodo contiguo al Partito radicale, nonché ex studente del San Giuseppe De Merode (l’istituto diretto da monsignor Celata, uomo di fiducia del cardinale Casaroli), Marco Accetti nel 2013 ha fatto irruzione nel caso Orlandi con un gesto clamoroso: fu lui a consegnare (prima a un giornalista Rai, Fiore De Rienzo, e poi in Procura) il flauto traverso con tanto di custodia che venne immediatamente riconosciuto dalla famiglia Orlandi come quello di Emanuela. Accetti si è autoaccusato del rapimento di Emanuela e Mirella pochi giorni dopo le dimissioni di Papa Ratzinger, tempistica a suo dire non casuale, essendo stato appena eletto, con Francesco, “un pontefice non curiale”, più disponibile a rompere con il passato. L’uomo del flauto (la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti) ha riferito di aver fatto parte di un gruppo (il cosiddetto “ganglio”) formato da laici, prelati dissidenti ed esponenti dei servizi segreti, che nei primi anni ‘80 si adoperò per favorire il dialogo con l’Est, contro la politica fortemente anti-comunista di Giovanni Paolo II, per contrastare la malagestione dello Ior e per obiettivi minori, come alcune nomine e ritocchi al codice ecclesiastico. In questa chiave, l’allontanamento da casa di Emanuela e di Mirella Gregori sarebbe servito a indurre Alì Agca, attraverso la richiesta di scambio fatta dai sequestratori, a ritrattare le accuse a Est, nella speranza di uscire di galera, con il risultato quindi di “salvare” il Cremlino. Un piano complesso che trova più di un riscontro fattuale: i precedenti pedinamenti di cittadine vaticane, le nazionalità italiana e vaticana delle ragazze prese in ostaggio, corrispondenti agli Stati coinvolti nel complotto sui quali svolgere pressioni, l’effettiva ritrattazione di Agca all’indomani della scomparsa di Emanuela, il 28 giugno nel cortile della Questura di Roma).

Giuseppe Pignatone, stop e archiviazione

Capo della procura di Roma nella fase finale della seconda inchiesta Orlandi (2008-2015), Giuseppe Pignatone non ha mai creduto agli elementi d’indagine raccolti dal suo vice, Giancarlo Capaldo, con particolare riferimento alla partecipazione della banda della Magliana e, in subordine, al ruolo di adescatore-telefonista del reo confesso Marco Accetti. Un dissenso che ha dato vita a uno scontro senza precedenti ai vertici di Piazzale Clodio: nell’aprile 2012, dopo che erano filtrate “indiscrezioni dei pm” sul fatto che «la verità su Emanuela Orlandi si trova in Vaticano», Pignatone avocò a sé il fascicolo. E nel giro di tre anni, dopo aver derubricato a manifestazioni di “narcisismo e mitomania” le dichiarazioni di Accetti, presentò al gip la richiesta di archiviazione, significativamente firmata dalla pm Simona Maisto e da una collega che mai si era occupata del caso, Ilaria Calò, e non dal principale “motore” delle indagini, Capaldo. Pignatone, andato nel frattempo in pensione, il 3 ottobre 2019 è stato nominato presidente del Tribunale Vaticano da Papa Francesco, carica che ricopre tuttora. 

Pippo Calò e i soldi sporchi

 Esponente di spicco della criminalità organizzata, noto come il “cassiere della mafia” a Roma, Pippo Calò è stato più volte tirato in ballo nella vicenda Orlandi nell’ambito della pista “follow the money”. Uno dei moventi ritenuto più plausibile per spiegare il rapimento della ragazza (nonché di Mirella Gregori) è infatti il tentativo della “mala” di recuperare i soldi versati in Vaticano, attraverso lo Ior di monsignor Marcinkus, per finanziare la causa polacca (Solidarnosc). Il nome di copertura di Calò nei primi anni ‘80 era Mario Aglialoro. Marco Accetti, nell’autoaccusarsi del sequestro, nel 2013 ha dichiarato che il primo telefonista a casa Orlandi fu chiamato “Mario” proprio per mandare segnali in codice alla controparte sulla natura criminale dell’azione e sul movente sotteso. 

Papa Francesco, "Emanuela sta in cielo"

Emanuela sta in cielo”. Sono le parole pronunciate da Papa Francesco, secondo quanto riferito dal fratello della ragazzina scomparsa, in un brevissimo faccia a faccia con i familiari avvenuto pochi giorni dopo la sua elezione, davanti alla chiesetta di Santa Marta, all’interno della Santa Sede. Era la primavera 2013. Il nuovo papa argentino era stato citato nel memoriale presentato nello stesso periodo in Procura da Marco Accetti, secondo il quale la sua decisione di uscire allo scoperto e auto denunciarsi era stata favorita proprio dall’avvento di un pontefice “non curiale” come Bergoglio. Negli anni successivi la famiglia Orlandi si è appellata numerose volte a papa Francesco. Dopo vani tentativi di incontrare personalmente il pontefice, di recente i toni si sono inaspriti. «Mia sorella - ha detto Pietro Orlandi alla presentazione della proposta di commissione parlamentare d'inchiesta di Pd, M5S e Azione - è l’unica cittadina vaticana rapita, eppure nessuno ha mosso un dito. Le anomalie sono tante, i servizi segreti coinvolti di tanti paesi, ma nessuno ha mai approfondito. Spero che la commissione abbia la forza per scavare. Emanuela è stata usata come oggetto di un ricatto che dura da 40 anni, altrimenti il Vaticano non avrebbe accettato di essere macchiato da allora da questi sospetti. Papa Francesco, Ratzinger e il cardinale Avril sanno la verità, ci sono messaggi WhatsApp recenti che lo fanno pensare. Lo Stato italiano è sempre stato succube di quello Vaticano». 

Pietro Orlandi, battaglia infinita

Il fratello maggiore di Emanuela, classe 1959, pensionato dello Ior (fu assunto pochi mesi dopo il sequestro grazie all’impegno diretto di papa Giovanni Paolo II), padre di sei figli, sposato con Patrizia, non ha mai smesso di battersi per conoscere la verità sulla fine di sua sorella. Specialmente a partire dal 2010, Pietro Orlandi ha dato vita a una serie ininterrotta di iniziative (fiaccolate, marce, raccolte di firme in Rete, petizioni al capo dello Stato italiano e al segretario di Stato vaticano, se non direttamente ai pontefici) per ottenere l’accesso ai dossier a suo avviso ancora custoditi in Vaticano e  una piena assunzione di responsabilità sulle “bugie, omertà e reticenze” che hanno caratterizzato la vicenda.

Il caso Orlandi-Gregori e le prove dimenticate: l'amica pedinata, Emanuela emigrata in Vaticano, la trattativa su Agca. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022

La pista del ricatto al Papa secondo atti e verbali inediti. Emanuela fu iscritta all'anagrafe vaticana tre mesi prima della scomparsa. I messaggi in codice sui giornali. I contatti tra la famiglia Gregori e il Quirinale

Nell'estenuante ricerca di un movente per spiegare la scomparsa di Emanuela Orlandi, giallo talmente complesso da indurre nei giorni scorsi Pd, M5S e Azione a proporre alla maggioranza di centrodestra l'istituzione di una Commissione parlamentare d'inchiesta, le oscillazioni tra una pista e l’altra sono state una costante. Nei quasi 40 anni trascorsi da quel maledetto 22 giugno 1983 gli sforzi  investigativi sono stati spesso inquinati da rivelazioni non disinteressate, se non abili depistaggi. Di conseguenza la domanda cruciale è ancora senza risposta: la figlia del messo pontificio di Karol Wojtyla fu rapita nell’ambito di un’azione terroristica legata alla Guerra Fredda, con il probabile supporto di servizi segreti, per un ricatto affaristico-finanziario (derivante dal crack del Banco Ambrosiano e dalle malversazioni allo Ior di monsignor Marcinkus) o per uno squallida faccenda sessuale, che vide protagonisti uomini in tonaca? 

Ebbene, la distanza temporale - paradossalmente - aiuta. Via via che il polverone si va depositando, sprazzi di verità offuscate (su Emanuela come sulla coetanea Mirella Gregori, scomparsa un mese prima) cominciano a delinearsi, grazie a verifiche e conferme. È successo sia per il giallo collegato del delitto di Katy Skerl, riaperto la scorsa estate dopo la scoperta che la bara con il corpo della 17enne uccisa nel 1984 a Grottaferrata era stata effettivamente rubata (circostanza che ha accresciuto la credibilità dell'ex indagato Marco Accetti), sia per il ruolo nel duplice rapimento avuto dalla banda della Magliana, che alcuni indizi (seppure in codice) tiravano in ballo già all'epoca dei fatti.

Quel filo rosso tra attentato e sequestri

Ma dai faldoni dell'inchiesta Orlandi-Gregori stipati nei sotterranei di Piazzale Clodio dopo l'archiviazione del 2015 adesso emerge anche altro: atti e verbali d'interrogatorio dimenticati, utili a chiarire la natura profonda dell'azione politico-criminale attuata sulla pelle delle due ragazzine. Si tratta in particolare di quattro elementi, che sembrano accreditare una volta per tutte la premeditazione  dei sequestri di Mirella e di Emanuela, ideati e preparati con largo anticipo per realizzare un ricatto molto sofisticato contro la Santa Sede. Alla luce dei nuovi riscontri e tenendo presente anche alcuni passaggi della recente lettera di Alì Agca a Pietro Orlandi (anticipata da Ferruccio Pinotti sul Corriere), il  filo che lega le due quindicenni all'attentato di piazza San Pietro (13 maggio 1981) si rivela robusto. Con una premessa da tener presente: il giudice Ilario Martella, tenace fautore della pista rossa sul ferimento di Giovanni Paolo II (Agca braccio armato dei bulgari e quindi della Russia) nonché anche lui titolare, per alcuni anni, dell'inchiesta Orlandi, si è sempre detto convinto che sia la "ragazza con la fascetta" sia Mirella fossero state allontanate da casa per "salvare" il Cremlino e il mondo dell'Est, inducendo l'attentatore a ritrattare le accuse ai bulgari in cambio di una rapida scarcerazione (Agca fu condannato all'ergastolo già nel 1981 ma non presentò ricorso, circostanza che potrebbe avvalorare l'ipotesi di una promessa già ricevuta). E allora eccole, le "prove dimenticate" e le relative carte a sostegno.

Le ragazze pedinate prima di Emanuela

Punto numero 1: i pedinamenti. Emanuela Orlandi non fu la "prima scelta" dei rapitori, ma probabilmente la terza. Almeno altre due sue amiche residenti in Vaticano, le figlie dell'aiutante da camera di Wojtyla, Angelo Gugel, e del capo della Gendarmeria, Camillo Cibin, furono infatti lungamente "attenzionate". E alla fine scartate perché i genitori, più in alto nella gerarchia rispetto al "postino" papale Ercole Orlandi, vennero avvisati e poterono prendere contromisure, facendole scortare dalla gendarmeria. Un "contrattempo" che indusse i sequestratori a "ripiegare" su Emanuela e che mandò su tutte le furie il papà, l'unico a non essere adeguatamente allertato. Eccolo,  il verbale d'interrogatorio di Ercole dell’11 luglio 1984 (ore 19.20), presso il Reparto operativo dei carabinieri di Roma: «Verso agosto-settembre del 1982, prima della scomparsa di mia figlia Emanuela, ho saputo da mia figlia Natalina che una ragazza a nome Raffaella Gugel, pure abitante in Città del Vaticano, era impaurita e non voleva uscire, in quanto si sentiva pedinata. Molto spesso trovava una persona di circa 35 anni pronta a seguirla, a volte sull’autobus, a volte davanti alla scuola, oppure ad attenderla o dietro di lei, seguendola». È una prima traccia: Raffaella si percepiva in pericolo già a fine estate 1982... Attenzione: sono precisamente le settimane in cui, nei faccia a faccia in carcere con il giudice Martella, Agca iniziò ad accusare di aver avuto come complici nell'attentato tre funzionari di Sofia (Antonov, caposcalo della Balkan air, sarà arrestato a novembre). Non basta. L'allarme rapimenti, tra l'altro, era stato lanciato anche dallo Sdece, i servizi segreti francesi. E una situazione analoga la visse la famiglia del comandante Cibin, il quale, secondo il sottoposto Giusto Antonazzi (verbale del 5 luglio 1984), «aveva espresso preoccupazione nei riguardi di moglie e figlia, probabilmente pedinate». 

Raffaella: "Era alto 1.80, carnagione scura" 

Quadro indiziario nitido, insomma: almeno una ragazzina era di certo nel mirino di soggetti male intenzionati. Un ulteriore verbale anch'esso spuntato dalla montagna di atti archiviati, tuttavia, si incarica di spazzare eventuali dubbi  residui su equivoci o malintesi sempre possibili. Ecco, infatti, la trascrizione dell'interrogatorio della diretta interessata, Raffaella Gugel, all'epoca 18enne, il 24 luglio 1984: «Alcuni giorni dopo l’attentato (maggio 1981, ndr), mio padre mi disse di stare attenta perché nella Città del Vaticano erano circolate voci di un rapimento, in cambio del terrorista Agca. In quel periodo io andavo a scuola in corso Vittorio, istituto Gioberti. Alle 8,15 prendevo l’autobus 64 dal capolinea quasi di fronte all’ingresso di Sant’Anna e alla fermata successiva saliva un uomo sui 28-30 anni, con giacca e pantaloni sportivi, che prendeva posto a sedere e mi osservava ripetutamente. Questo si verificava per tre giorni di fila, poi vi era una sosta di un giorno. Durò due o tre settimane. Posso riferire i dati somatici dell'uomo, ma non sono in grado di fornirvi un identikit. Era alto metri 1.80, corporatura snella, carnagione scura, tipo nazionalità turca, capelli scuri ricci, occhi scuri…» La lettura fa correre qualche brivido: era quindi un mediorientale (complice di Agca?) a stare "addosso" alla giovane cittadina vaticana? La discrepanza sull'anno (1981 o 1982?) potrebbe spiegarsi con una sovrapposizione nel ricordo, considerato che il verbale è del 1984. E d'altronde va ricordato che Marco Accetti, l'uomo che nel 2013 consegnerà il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela, ha scritto nel suo memoriale non solo di aver prenotato lui la stanza per Agca alla pensione Isa del quartiere Prati (a telefonare fu un italiano, riferì l'albergatore), ma anche di aver conosciuto alcuni "idealisti turchi"  e di averne ospitato uno a casa, a pranzo, in piazza Sant'Emerenziana, alla presenza dei familiari (mai sentiti sull'argomento). 

L'emigrazione in Vaticano nel marzo 1983

E veniamo al secondo punto. Se ne è parlato poco o niente, ma la relativa prova è nell'estratto anagrafico: Emanuela Orlandi, per motivi finora mai chiariti, assunse la cittadinanza vaticana il 23 marzo 1983, soltanto tre mesi prima della scomparsa, pur avendo vissuto fin da quand'era in fasce dentro le Mura Leonine, nell'appartamento di piazzetta Sant'Egidio con mamma Maria, papà Ercole, il fratello Pietro e le tre sorelle. Un caso? Il relativo atto anagrafico (pratica n. 06773) certifica che la ragazzina nata a Roma il 14 gennaio 1968 fino al giorno prima di "emigrare" nella Città del Vaticano era stata residente in via Nicolo V civico 1 (zona Porta Cavalleggeri). Alla luce di quanto accadde il 22 giugno successivo (e nei mesi seguenti, con l'incredibile intrigo venuto alla luce) il dubbio appare lecito: la famiglia fu in qualche modo indotta dai futuri rapitori, magari con un sotterfugio, a far "emigrare" Oltretevere Emanuela, al fine di creare le condizioni del ricatto? Ricordiamo che la pista del terrorismo internazionale, avvalorata dallo stesso pontefice, si basava su tale scenario: una ragazza vaticana (la Orlandi) "prelevata" per fare pressione sul Papa e strappare un  rapido perdono ad Agca, e una italiana (la Gregori) per  premere sul presidente Pertini, unico titolare del potere di grazia.

Quei messaggi criptati sui quotidiani romani

Terzo tassello: alcuni messaggi in codice, simili tra loro e mai decifrati, che apparvero dalla primavera all'estate 1983 sui principali giornali cittadini, Messaggero e Tempo. È un mistero che aleggia sulla scomparsa delle ragazze e che forse trova oggi, finalmente, un corretto inquadramento. Ricapitoliamo: il 23 marzo 1983 Emanuela diventa cittadina vaticana. Il duplice ricatto può dunque partire? Mirella sparisce dalla casa di via Nomentana il 7 maggio, ma già dal 12 aprile iniziano a uscire sui due quotidiani, in moduli pubblicitari a una colonna, delle comunicazioni sibilline: «Cerchiamo contatto con S.R.», la prima. E a seguire: «Preoccupati chiediamo urgente contatto con S.R.» (il 21, 23 e 25 aprile). E ancora, a scomparsa di Mirella già avvenuta, un testo più articolato (tutti i giorni dal 28 maggio al 2 giugno 1983): «Comunicato per S.R. Attuale andamento trattative non è aderente raggiungimento scopo delle parti. Quotazione da voi insistentemente richiesta scoraggia nostra volontà reperire altro in quanto nostre fonti attualmente esaurite. Chiediamo nuovo immediato contatto». Sembra una sciarada, un'eccellente trovata da film d'azione. Ma invece, purtroppo, era la tragica realtà. Il negoziato deludente era forse riferito a Mirella? A che "fonti" si faceva riferimento? Soldi? Spie? Messaggi identici al primo saranno infine pubblicati, guarda caso, a cavallo del rapimento Orlandi, dal 21 al 23 giugno 1983. Fu la dimostrazione che il ricatto era giunto alle fase 2? E chi era "S.R."? Il burattinaio dell'azione spionistica o la vittima? Un messaggio WhatsApp arrivato in tempi recenti all'autore di questo articolo da fonte coperta dice testualmente: «Riguardo alla sigla S.R., voleva dire Servizi Repubblica, alias Sisde. Fidati. Ciao”.

I contatti dei Gregori con il Quirinale 

E arriviamo così al quarto pilastro che sorregge lo scenario di un doppio sequestro premeditato e politicamente sensibile per la Santa Sede, da considerare alternativo alla pista della predazione sessuale, che non avrebbe avuto bisogno di tante manovre, pedinamenti precedenti, negoziati sottotraccia. Il punto - pensando a Mirella - è il seguente: cosa accadde nei 46 giorni tra il 7 maggio e il 22 giugno 1983, quando Emanuela era ancora una quindicenne felice per lo scudetto della sua amata Roma e lei invece già in balia dei cattivi? Molto. Ma non lo si è mai saputo. Le trattative condotte con il cuore spezzato dai genitori Paolo Gregori e Maria Vittoria Arzenton (entrambi morti da tempo) si svolsero ai massimi livelli. Attraverso contatti diretti con il Papa, non resi pubblici, e con il Quirinale, tramite lettere e incontri personali. Lo stesso Quirinale titolare del potere di grazia per Agca. A fornirne prova è il documento qui pubblicato: una delle lettere che il presidente Sandro Pertini inviò alla mamma di  Mirella con l'intestazione del “Segretariato Generale della Presidenza della Repubblica” reca il timbro del 21 giugno 1983 (quindi prima che Emanuela sparisse, attenzione), in curiosa concomitanza con il ritorno sui quotidiani romani delle “richieste di contatto” a "S.R" dopo un silenzio durato tre settimane. «Le posso assicurare che non ho mancato di dare disposizioni affinché nulla venga lasciato intentato per risolvere positivamente il caso di sua figlia», scrisse il "presidente con la pipa" alla signora. Frase di maniera per consolare un donna distrutta? Forse. Ma l'allusione a un caso da "risolvere" non sembra tanto consona a un "normale" caso di scomparsa (o di "scappatella") di una adolescente, purtroppo frequente. 

Lo "scambio" mancato

Ci siamo, viaggio nelle nuove carte concluso. Il quarto indizio potrebbe quindi dimostrare che le richieste di "scambio" con il killer mancato del Sommo Padre erano in qualche modo sul tavolo già prima del 22 giugno 1983? La concessione (o perlomeno la promessa) della grazia ad Agca per farlo ritrattare - e in tal modo "salvare" l'Est dall'esecrazione planetaria - era già stata ventilata al Quirinale o in ambienti diplomatici? Inciso: non va dimenticato che gli Orlandi non pagarono mai l'avvocato (essendo stati consigliati da elementi del Sisde di farsi rappresentare da Gennaro Egidio) e che effettivamente il Lupo grigio il 28 giugno 1983 si rimangiò le accuse ai bulgari, in una scenata memorabile nel cortile della Questura. Segno che ritenne, sbagliando, di essere stato "accontentato" con il sequestro scattato 6 giorni prima e di poter uscire presto di galera? 

Il movente multiplo

Altra questione, l'ultima, è quella di un ipotetico e non inverosimile movente multiplo: nel periodo di massima esposizione mediatica del giallo (estate 1983) forze occulte e illegali giocarono forse una partita parallela, puntando attraverso il ricatto sulla ragazzina vaticana alla restituzione dei soldi versati per la causa polacca al sindacato Solidarnosc? In altre parole, vi fu un "uso multitasking" delle ragazze una volta che, purtroppo, non furono fatte rientrare a casa? Il perdono dell'attentatore da parte del Papa, arrivato il 27 dicembre 1983 con le storiche immagini dell'incontro a Rebibbia, sotto questa nuova luce potrebbe assumere significati inediti. Giovanni Paolo II abbracciò il turco pochi giorni dopo essere stato in visita a casa di Emanuela e aver confidato a uno stupefatto Ercole Orlandi che «il vostro è un caso di terrorismo internazionale». Cosa c'entravano loro, poveretti? Misteri, domande, inquietudini. Ma anche tracce concrete poco esplorate, in questo giallo che dalla cronaca intercetta la storia e le trame degli anni Ottanta  - l'attentato nel giorno di Fatima dell'81, la morte del banchiere Calvi nell'82 e il colossale scandalo Ior-Ambrosiano risolto nel 1984 con l'accordo di Ginevra - tutti eventi mai fino in fondo chiariti, che ancora oggi tanti vorrebbero decifrare. (fperonaci@rcs.it)

Giacomo Galeazzi per lastampa.it il 16 dicembre 2022.

«Un anno fa ho scritto a Papa Francesco per infrangere il muro di silenzio sulla scomparsa di mia sorella Emanuela Orlandi e mi ha risposto di rivolgermi al promotore di giustizia del Vaticano, Alessandro Diddi che però non ci ha mai ricevuti. Chiediamo di poter essere ascoltati per verbalizzare i nuovi elementi di cui siamo in possesso», spiega alla Stampa.it Pietro Orlandi, fratello della cittadina vaticana scomparsa quasi 40 anni fa. E aggiunge: «Non c’è voglia in Vaticano di raccogliere quanto abbiamo da dire. Ormai non mi meraviglio più di niente. 

Nell’audio del 2009 reso noto adesso ci sono riferimenti diretti a Giovanni Paolo II. Ma non c’è alcun riscontro diretto. Così come per le ipotesi che dal 2010 mi ripete a voce e per mail Ali Agca che sostiene che il rapimento di mia sorella nasce dall’interno del Vaticano. E fa riferimento a suoi colloqui con tre sacerdoti, incluso un padre Lucien dell’Opus Dei che ho provato invano a rintracciare e che l’attentatore di Karol Wojtyla dice di aver incontrato. 

Quanto al ruolo del boss della malavita romana Renatino De Pedis credo che lui personalmente e non la Banda della Magliana possa aver avuto un ruolo di manovalanza in questa vicenda, ma i mandanti sono altri e in Vaticano c’è chi sa e continua a tacere».

«Se qualcuno in Vaticano vuole, Emanuela ritorna a casa domani. Se non è successo qualcosa di straordinario o un attacco cardiaco, Emanuela Orlandi sta benissimo, nessuno le ha fatto male»: ad affermarlo è stato Mehmet Ali Agca, l'attentatore di Papa Giovanni Paolo II, in collegamento con Andrea Purgatori ad Atlantide, su La7. «Occorre fare pressioni sul Vaticano, non c'è altra soluzione», ha aggiunto l'ex Lupo grigio turco, «chiedo a Papa Francesco di concludere questa storia». 

Agca ha rilanciato le sue teorie legate a oscuri legami della vicenda con i segreti di Fatima: «Questa storia del sesso e del banco ambrosiano, dei riti satanici, è una menzogna. C'è una sola verità: Emanuela Orlandi è collegata con il Terzo segreto di Fatima. Un gruppo di persone dentro il Vaticano ha organizzato questo rapimento. Doveva servire soltanto per ottenere la mia liberazione». «Non è stato assolutamente Giovanni Paolo II ad organizzare il rapimento», ha aggiunto Agca, «quando è avvenuto, Karol Wojtyla era in Polonia per salvare il suo Paese dalla tirannia sovietica».

"Emanuela Orlandi era un fatto tutto vaticano ed è stata presa in consegna da alcune suore fin dall'inizio, ha compreso l'importanza del suo ruolo e lo ha accettato serenamente". È uno dei passaggi della lettera inviata da Alì Agca - l'uomo che sparò a Papa Wojtyla - a Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, scomparsa a 15 anni il 7 maggio del 1983. Il rapimento di Emanuela Orlandi e quello di Mirella Gregori, spiega Agca, sono collegati e sono stati ordinati da "Papa Wojtyla in persona" che chiese che le due ragazze "venissero prese": nella lettera Agca scrive che il Pontefice "si servì di qualcuno fidatissimo per eseguire l'operazione in modo da non lasciare alcuna traccia".

I rapimenti "furono decisi dal Governo vaticano ed eseguiti da uomini di entità vicinissimi al Papa". Alì Agca ripercorre proprio quei momenti raccontando a Pietro Orlandi come l'attentato a Wojtyla non avesse "alcun mandante" e come "nessuno mi ha chiesto di uccidere il Papa e nessuno mi ha pagato per farlo". Per Agca "alcuni hanno mentito" con l'obiettivo di "far credere ad un complotto internazionale" e le "'rivelazioni sulla pista bulgara'" sono state "interamente costruite a tavolino dai servizi segreti vaticani e dal Sisde il servizio segreto civile italiano, con la benedizione della CIA di Ronald Reagan, il maggiore alleato di papa Wojtyla nella sua crociata anticomunista". 

"Papa Wojtyla credeva profondamente nel Terzo Segreto di Fatima e credeva anche di essere al centro di questo Mistero, proprio come lo sono io. La missione- racconta Agca- che Dio gli assegnava in questo Mistero era la conversione della Russia onde evitare che i suoi errori si spargessero per il mondo fino a provocarne la catastrofe finale. Ogni azione compiuta da papa Giovanni Paolo II era rivolta a questo preciso scopo e in questo modo va interpretata".

Agca racconta a Pietro Orlandi che "Wojtyla in persona voleva che io accusassi i Servizi segreti bulgari e quindi il KGB sovietico. Il premio per la mia collaborazione, che loro mi offrirono e che io pretendevo, era la liberazione in due anni". Liberazione che poteva essere ottenuta solo a condizione che "il Presidente Sandro Pertini mi concedesse la grazia ed esattamente per questa ragione Emanuela e Mirella vennero rapite". 

Ma per Agca qualcosa andò storto: "Io e Pertini. Pretendevano da me una conversione pubblica al Cristianesimo ma io non potevo farlo e Pertini non era manovrabile. Sapeva tutto, fu minacciato, ma non si piegò, ma nemmeno osò raccontare la verità sul sequestro delle ragazze". La verità di Alì Agca affidata a una lettera, non la prima, come racconta a LaPresse ancora Pietro Orlandi. "Mantiene sempre la stessa linea da quando l'ho incontrato la prima volta a Istanbul nel 2010, appena uscì dal carcere. 

Lui scrisse nel '97 una lettera a mio padre dove parlava di Emanuela. Bisogna capire il movente e le modalità, bisogna avere le prove. Lui racconta le sue verità, racconta di avere dei contatti con un sacerdote dell'Opus Dei", ha raccontato Pietro. Il fratello di Emanuela vuole che vengano riaperte le indagini sul caso perché "sono troppi i punti non chiari. Il Papa, dopo che gli abbiamo scritto a gennaio, ha risposto in maniera riservata di andare presso il tribunale Vaticano. Io ho portato la richiesta per un incontro con i promotori ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Io continuo a provare: è stato il Papa a dirci di andare da lui non vogliono che io verbalizzi perché farei nome e cognome delle persone. La stessa cosa succede invece presso la procura di Roma". 

Una proposta di legge per "l'istituzione di una "Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi" è stata presentata nei giorni scorsi alla Camera dei deputati. Il provvedimento è di iniziativa di Francesco Silvestri (M5s) che già aveva presentato una proposta in tal senso nella scorsa legislatura. 

"Questa mia iniziativa deriva dalla convinzione che, come ha ricordato il fratello di Emanuela, il caso presenta nuovi elementi di indagine che riguardano anche i rapporti tra il Sismi e la procura di Roma - aveva scritto in un post Silvestri motivando la sua iniziativa - Per me è importante sottolineare che questa necessità di giustizia non riguarda solo la famiglia Orlandi e l'Associazione Penelope, ma tutti i cittadini, che devono pretendere delle risposte dallo Stato della Città del Vaticano, soprattutto quando si presentano, come in questo caso, forti ragioni per supporre che ci siano stati tentativi per occultare la verità". 

"La storia di Emanuela Orlandi, come purtroppo altre nel nostro Paese, è una storia torbida, fatta di omissioni, depistaggi e noncuranza per il rispetto dei diritti delle persone. Non possiamo accettare di vivere in un'Italia che ha paura dalla verità", aveva spiegato. 

Nel 2009 Alessandro Ambrosini, ideatore del blog Notte criminale, intervista un malavitoso romano di grande peso, sodale del boss della Banda della Magliana Renatino De Pedis e con molti e importanti agganci in Vaticano. Ora Ambrosini ha pubblicato l'audio. Le rivelazioni sono sconvolgenti, e in linea con quanto ipotizzato dalla docuserie targata Netflix Vatican Girl: dietro il rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori c'è una storia di sesso. Di pedofilia. Di molestie. E l'intervento di Renatino De Pedis per risolvere "la schifezza" che era diventata fu determinante. Tanto che venne poi sepolto nella Basilica di Sant'Apollinaire.

Nella serie ne parla l'amica rimasta nell'ombra per paura per tanti anni: che rivela come Emanuela Orlandi le avesse confidato di essere impaurita per le molestie da lei subite nei giardini vaticani da un alto prelato. Ci ha messo 40 anni a raccontare questa storia l'amica di Emanuela, per dire quanto fosse difficile se non impossibile rivelare a qualcuno quanto stesse accadendo. Nell'audio il sodale di De Pedis racconta di come le due ragazze fossero molestate e avessero subito rapporti sessuali con alti prelati, appunto. Racconta anche di come uomini di Stato sapessero tutto, informati da lui stesso.

E l’ex malavitoso sostiene, come si sente nell'audio: "Quando la cosa era diventata un schifezza il Segretario di Stato (all'epoca Agostino Casaroli, ndr) ha deciso di intervenire". Non direttamente, ma coinvolgendo "i cappellani del carcere di Regina Coeli che portavano whiskey, lettere, tutto quello che serviva, droga, all'interno del carcere. Quando è servito qualcosa a chi si sono rivolti?". E continua: "I cappellani del carcere, uno era calabrese, un altro un furbacchione. Un certo Luigi, un certo padre Pietro, non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto: 'Sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?'. Punto. Il resto sono tutte cazzate". E secondo lui questa era la verità. Ma, dice anche, "con questa verità non ci fate niente". In più, dice ancora parlando di un uomo dei servizi che sarebbe stato a conoscenza di tutto, "Nando a te ti trasferiscono a me mi ammazzano" perché "questo è uno strano Paese, della verità non interessa a nessuno". 

"In Vaticano esiste certamente un dossier segretissimo su Emanuela Orlandi, come dichiara anche Francesca Chaouqui, impiegata nella Cosea, un dossier classificato come segreto di Stato e intoccabile. Lei ha deciso di non svelare ciò che ha letto in quel dossier, perché se lo rivelasse 'non farebbe il bene della Chiesa'... Se il Vaticano fosse innocente avrebbe già consegnato quel documento alla famiglia Orlandi o alle autorità italiane, ma non può farlo perché accuserebbe se stesso". È uno dei passaggi della lettera inviata da Alì Agca, l'uomo che sparò a papa Wojtyla, a Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, scomparsa a 15 anni il 7 maggio del 1983

Da fanpage.it il 15 Dicembre 2022.

È andata in onda ieri sera la puntata di Atlantide su La7, contenente l'intervista del giornalista e conduttore della trasmissione Andrea Purgatori ad Mehmet Ali Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II. Al centro del dialogo il rapimento di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 gennaio del 1983 e da sempre collegata a una trama che porta in Vaticano. 

"Da quarant'anni si ripetono sempre le stesse cose. – ha detto l'ex militante dei Lupi Grigi – Quando non c'è la verità, quando la menzogna continua, può danneggiare sia il Vaticano sia Emanuela Orlandi. Questa storia del sesso e del banco ambrosiano, dei riti satanici, è una menzogna. C'è una sola verità: Emanuela Orlandi è collegata con il Terzo segreto di Fatima. Un gruppo di persone dentro il Vaticano ha organizzato questo rapimento. Doveva servire soltanto per ottenere la mia liberazione".

Poi insiste Ali Agca nel ribadire quello che aveva già scritto alcuni giorni fa in una lettera la fratello di Emanuela, Pietro Orlandi: "Se qualcuno in Vaticano vuole, Emanuela ritorna a casa domani. Se non è successo qualcosa di straordinario o un attacco cardiaco, Emanuela Orlandi sta benissimo, nessuno le ha fatto male". 

Si troverebbe in un convento Emanuela, e avrebbe "accettato serenamente" il suo destino. Nel 2010 l'uomo, scarcerato definitivamente in Turchia da poco più di un mese, incontrò proprio il fratello di Emanuela dicendo che era ancora viva e che sarebbe intervenuto per riportarla a casa.

Al di là dell'attendibilità dell'attentatore di papa Wojtyla, in questi giorni si moltiplicano gli elementi che portano sempre nella stessa direzione per le responsabilità nella scomparsa di Emanuela Orlandi, ma anche di Mirella Gregori, e che porta alle trame interne al Vaticano e alla manovalanza messa a disposizione dal boss della Banda della Magliana Renato De Pedis. Quest'ultimo viene tirato in ballo ancora una volta da un audio inedito reso pubblico due giorni fa.

L’incredibile storia d’amore: “Gli scrivevo lettere in carcere poi lo sposai”. Emanuela Orlandi, parla la moglie italiana di Agca: “Fino a tre anni fa ha avuto rassicurazioni che era viva”. Redazione su Il Riformista il 18 Dicembre 2022.

L’attentato a Giovanni Paolo II nel 1981 compito da Alì Agca, all’epoca 23enne, la colpì profondamente. Elena Rossi aveva solo 14 anni all’epoca ma successivamente a quell’episodio decise di iniziare a scrivere lettere in carcere a quell’attentatore per comprenderne le motivazioni e la personalità. Quell’uomo, anni dopo, sarebbe diventato suo marito, con cui attualmente vive in Turchia. Sposati da 7 anni, con lui condivide un bagaglio di verità e ricordi, tasselli di quei grandi intrighi e misteri che aleggiano intorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori.  “Bisogna riaprire il caso Gregori/Orlandi! Ci sono tante cose ancora da chiarire e responsabili da sentire anche dalla parte italiana! Non vengano separati i due casi, altrimenti si va nel fosso!”, ha scritto su Facebook qualche giorno fa.

Quella tra Elena Rossi e Alì Agca è stata una storia d’amore incredibile. Elena Rossi, che oggi è Elena Hilal Ağca, dopo il matrimonio e la conversione, 55 anni, nata a Ravenna, l’ha raccontata per la prima volta al Corriere della Sera. Da ragazza cattolica rimase molto impressionata dall’attentato al Papa che Wojtyla stesso poi inquadrò nell’ambito della profezia del Terzo Segreto di Fatima. Iniziò così a scrivere lettere in carcere ad Agca. “La cosa durò per qualche anno, poi lasciai perdere”, ha raccontato in una lunga intervista al quotidiano.

Il mio interesse per lui si è riacceso quando venne a Roma sulla tomba di Papa Wojtyla, nel dicembre 2014 – ha raccontato Elena – Cominciai a cercare un suo contatto, lo trovai e gli mandai una mail, specificando che ero quella stessa Elena che gli scriveva in carcere. Lui si ricordava delle mie lettere, così cominciammo a scriverci e a telefonarci. A fine gennaio 2015, venni a Istanbul per la prima volta. Ci innamorammo entrambi e io mi innamorai anche di Istanbul e della Turchia. Lui sognava un po’ l’Italia, ma io compresi fin da subito che la mia dimora definitiva sarebbe stato questo Paese, con lui. Sono convinta che a legarci sia il destino. Un destino che ha trovato compimento nei modi e nei tempi stabiliti. Lui non mi rimprovera di non essere mai andata a trovarlo in carcere, anzi ritiene che se lo avessi fatto, sarebbe stato straziante per entrambi a causa della sua lunga detenzione e rovinoso per il nostro rapporto”.

Racconta del loro rapporto tra qualche gelosia di lui che ritiene un uomo “molto buono, gentile, premuroso, a volte mi sembra che mi veda più come una figlioletta che ha adottato, piuttosto che come una moglie. Il buono è che un matrimonio può finire, ma l’adozione è per sempre!”. L’amore scoppiò subito e dopo qualche mese di convivenza decisero di sposarsi. Alla sua famiglia disse che aveva sposato un turco ma senza specificare che si trattasse di Alì Agca. “Già all’epoca non stavano molto bene, così ho preferito non dire nulla, ma probabilmente l’avrebbero accettato – dice – Adesso un po’mi rammarico di non aver detto loro la verità. Gli amici che ho in Italia sono piuttosto curiosi ed entusiasti, alcuni sono già venuti a conoscerlo e altri verranno. Anche i pochi parenti che mi restano hanno accettato bene la cosa”.

Elena condivide con Agca ogni pensiero e i racconti di un passato che negli ultimi giorni è tornato con prepotenza alla ribalta delle cronache. “Lo conosco da più di sette anni, come tutte le mogli, so cosa passa per la testa di mio marito, raccolgo quotidianamente le sue confidenze e quello che posso affermare in tutta coscienza, è che, Alì, nella lettera di sei pagine inviata a Pietro Orlandi, ha detto la pura verità sull’attentato al Papa e sulla vicenda Orlandi-Gregori – racconta Elena Hilal Ağca – Nella lettera esistono notizie di reato molto gravi e precise che dovrebbero essere prese in esame dalla Procura. Spero esista un magistrato onesto e volenteroso, disposto a farsi carico di questa patata bollente. Ho faticato molto per convincerlo a parlare di cose mai dette prima, decisamente pesanti, che secondo lui metteranno a rischio la nostra sicurezza famigliare. Io non pretendo di salvare il mondo, ma nella dimensione del qui e ora, ritengo che ciascuno di noi abbia il preciso dovere, quando può, di raddrizzare ciò che è storto! O almeno di provarci. E in questa brutta storia di cose storte e false ne esistono davvero tante. Se si corre qualche rischio, pazienza. Certo che Ali é stato manovrato, da uomini del Sisde, dai Servizi vaticani, dalla Cia, e per Cia intendo Gladio, quanto c’é di più pericoloso al mondo, secondo Alì”.

La moglie di Agca racconta che dietro l’attentato al Papa non c’era nessuno e che il marito sarebbe stato strumentalizzato dopo. “I vari soggetti sopracitati si sono scatenati dopo, in quanto pretendevano che Alì accusasse i Servizi bulgari e quindi il Kgb sovietico, in realtà totalmente estranei all’attentato. Il sequestro di Emanuela e di Mirella si collocano esattamente in questo contesto. Alì lo spiega bene nella lettera a Pietro Orlandi”, continua il racconto.

E sulla scomparsa di Emanuela Orlandi dice: “Come ha sempre detto a Pietro Orlandi, Alì ritiene che entrambe le ragazze siano state prese direttamente dal Vaticano; e che siano state collocate in un convento di clausura. Ne è veramente convinto. In quanto a Emanuela, ha avuto rassicurazione, fino a tre anni fa, da parte di un sacerdote, che era viva. Gli hanno mentito? Forse o forse no. In ogni caso, lui ritiene che se dovesse essere venuta a mancare, é stato per cause naturali, ‘perché la Chiesa non uccide il suo gregge’”. Sul caso della scomparsa di Mirella Gregori invece afferma che “la situazione di Mirella é meno chiara”. E spiega: “Da parte italiana il Sisde ‘chiedeva informazioni’; in una telefonata l’Amerikano ne annunciò l’esecuzione imminente. E il prete che ha visto Alì anche in Turchia, gli ha detto che su Mirella ‘non è dato di sapere’. Francamente non lo so. Non abbiamo elementi certi per affermare niente. Tutte le risposte sono in Vaticano”.

Per Pietro Orlandi ha parole di stima: “Ci siamo scambiati alcuni messaggi, e mi sembra una persona veramente esasperata da una lotta infinita e da tante menzogne o mezze verità che gli sono state dette da tutte le parti. Comunque non si arrende, é assolutamente determinato a conoscere la verità sulla sorella e non molla mai. Lo ammiro molto per questo, vorrei aiutarlo di più, ma francamente più di così non posso. Essendo dentro la storia da quasi quarant’ anni, di certo ha intuito molte più cose di tutti noi messi insieme. Dopo tanto tempo, questa criminosa omertà dovrebbe finire, almeno sul versante italiano”.

La moglie italiana di Agca: «Gli scrivevo lettere in cella. Poi l’ho sposato senza dirlo ai miei».  Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2022.

Elena Rossi, 55 anni, due lauree, di Ravenna, ha iniziato a scrivergli in carcere da ragazzina e poi nel 2015 l’ha sposato. Si è convertita all’Islam e vive con lui in Turchia. «Emanuela Orlandi? È ancora viva»

Il suo nome è Elena Rossi ed è nata a Ravenna il 13 luglio 1967. Ha due lauree, una in scienze politiche a Bologna (1993) e una in filosofia, con lode, a Roma Tre (2003). Nel 1981, quando aveva 14 anni, un evento la colpì indelebilmente: l’attentato a Giovanni Paolo II compiuto da un giovane turco, allora 23enne, Alì Agca. Quella ragazza cattolica e credente restò impressionata da quel gesto, drammatico e fin pure mistico, che Wojtyla stesso poi inquadrò nell’ambito della profezia del Terzo Segreto di Fatima. Iniziò allora a scrivere lettere in carcere a quell’attentatore, per comprenderne le motivazioni e la personalità. Da lì, per vie misteriose, nacque un sentimento. Ora quell’uomo, Alì Agca, è suo marito da sette anni e con lui vive in Turchia, a Istanbul. Elena Hilal Ağca (il secondo me lo ha assunto dopo il matrimonio e dopo la conversione), 55 anni, racconta per la prima volta la sua incredibile storia personale al Corriere.

Come ha iniziato a interessarsi della vicenda di colui che sarebbe diventato suo marito?

«Subito dopo l’attentato a Wojtyla, ancora ragazzina. Cominciai a scrivergli lettere in carcere. La cosa durò per qualche anno, poi lasciai perdere».

Da che tipo di famiglia proviene? Che professione svolgevano i suoi genitori?

«Sono figlia unica, i miei avevano un’azienda agricola nel Ravennate, ma li ho persi entrambi qualche anno fa».

Come contattò Agca? Scrivendogli in carcere? Quale fu il suo approccio alla sua persona e lui come rispose al suo interessamento?

«Il mio interesse per lui si è riacceso quando venne a Roma (aveva lasciato l’Italia nel 2000 dopo la grazia concessagli da Ciampi con il placet del Vaticano, ndr) sulla tomba di Papa Wojtyla, nel dicembre 2014. Cominciai a cercare un suo contatto, lo trovai e gli mandai una mail, specificando che ero quella stessa Elena che gli scriveva in carcere. Lui si ricordava delle mie lettere, così cominciammo a scriverci e a telefonarci. A fine gennaio 2015, venni a Istanbul per la prima volta. Ci innamorammo entrambi e io mi innamorai anche di Istanbul e della Turchia. Lui sognava un po’ l’Italia, ma io compresi fin da subito che la mia dimora definitiva sarebbe stato questo Paese, con lui. Sono convinta che a legarci sia il destino. Un destino che ha trovato compimento nei modi e nei tempi stabiliti. Lui non mi rimprovera di non essere mai andata a trovarlo in carcere, anzi ritiene che se lo avessi fatto, sarebbe stato straziante per entrambi a causa della sua lunga detenzione e rovinoso per il nostro rapporto».

Che idea si formò della sua psicologia e della sua persona, incontrandolo?

«È molto buono, gentile, premuroso, a volte mi sembra che mi veda più come una figlioletta che ha adottato, piuttosto che come una moglie. Il buono è che un matrimonio può finire, ma l’adozione è per sempre! L’uomo turco, e lui in particolare, protegge la moglie a 360 gradi, che viene servita e riverita come una regina, talvolta anche un po’ troppo. Nonostante i tanti anni di prigione, è sano fisicamente e mentalmente, salutista, sportivo e molto disciplinato. Io sono tutto l’opposto! È animato da una fede profonda, senza essere integralista o bigotto».

Quando maturò il progetto di una vita insieme?

«Ci siamo incontrati nel gennaio 2015 e sposati nell’ottobre successivo, quindi nel giro di pochi mesi di convivenza abbiamo deciso di sposarci. Così, naturalmente, senza una vera proposta. Il primo giorno di San Valentino che festeggiammo insieme, mi regalò un anello, molto simile a una fede, così gli altri uomini avrebbero saputo che ero impegnata. È un po’ geloso!»

I suoi genitori e i suoi parenti più stretti come presero la decisione di sposare un uomo a dir poco particolare come Ali Agca?

«I miei genitori sapevano che avevo sposato un turco, ma non sapevano che si trattava di Alì Ağca. Già all’epoca non stavano molto bene, così ho preferito non dire nulla, ma probabilmente l’avrebbero accettato. Adesso un po’mi rammarico di non aver detto loro la verità. Gli amici che ho in Italia sono piuttosto curiosi ed entusiasti, alcuni sono già venuti a conoscerlo e altri verranno. Anche i pochi parenti che mi restano hanno accettato bene la cosa. Un caro zio, Riziero, gli ha anche parlato più volte al telefono. Dopo un certo allarme iniziale, hanno imparato a conoscerlo attraverso me».

Contestualmente al matrimonio, lui le chiese di convertirsi all’Islam? Fu una scelta difficile o naturale per te? Chi la formò alla fede del Corano? «Lui non mi ha mai chiesto di convertirmi all’Islam. Alla donna non è richiesto. La scelta è stata mia. Sono sempre stata credente, ma non riconoscendomi più nella Chiesa cattolica e nel Cristianesimo, mi sono interessata per un certo periodo all’Ebraismo, poi mi sono dedicata allo studio del Sacro Corano, già prima di conoscere Alì, e alla mistica Sufi. In Turchia ho fatto la mia Shahada (la testimonianza di fede con cui un musulmano dichiara di credere in un solo e unico Dio, ndr) in seno alla congregazione Sufi di Menzil».

Inizialmente avete vissuto in Georgia? Come mai la scelta di questo paese?

«In Georgia siamo andati solo per il matrimonio, Tbilisi é una sorta di Las Vegas, dove è molto facile sposarsi, senza troppe complicazioni burocratiche» (esibisce il certificato di matrimonio con traduzione giurata).

Ora vivete a Istanbul: come si svolge la vostra vita? State appartati? Avete avuto figli dalla vostra relazione o da altre relazioni?

«Nessuno dei due è mai stato sposato prima e non abbiamo figli, né insieme né separatamente».

Suo marito come provvede economicamente alla vostra vita? Lui si ritiene vicino al governo di Erdogan? Collabora con qualche programma governativo?

«Economicamente stiamo bene, nonostante l’aumento dei prezzi, qui la vita è decisamente meno cara rispetto all’Italia. Abbiamo una villetta di tre piani, sul mare di Marmara, e l’ultima bolletta della luce è stata di 23 euro! Politicamente Alì rimane un “lupo grigio”, un idealista, dunque si colloca sulla destra. Prova rispetto e ammirazione per il presidente Erdoğan: lo ritiene l’unico uomo in grado di garantire stabilità alla Turchia».

Ritiene che Agca sia stato manipolato da qualche servizio segreto per disegni più grandi di lui? E se sì, da chi? Dai servizi bulgari, sovietici; o paradossalmente pensa che il suo gesto isolato sia stato strumentalizzato dai servizi vaticani, dalla Cia, dal Sisde, da altri servizi segreti?

«Lo conosco da più di sette anni, come tutte le mogli, so cosa passa per la testa di mio marito, raccolgo quotidianamente le sue confidenze e quello che posso affermare in tutta coscienza, è che, Alì, nella lettera di sei pagine inviata a Pietro Orlandi, ha detto la pura verità sull’attentato al Papa e sulla vicenda Orlandi-Gregori. Nella lettera esistono notizie di reato molto gravi e precise che dovrebbero essere prese in esame dalla Procura. Spero esista un magistrato onesto e volenteroso, disposto a farsi carico di questa patata bollente. Ho faticato molto per convincerlo a parlare di cose mai dette prima, decisamente pesanti, che secondo lui metteranno a metteranno a rischio la nostra sicurezza famigliare. Io non pretendo di salvare il mondo, ma nella dimensione del qui e ora, ritengo che ciascuno di noi abbia il preciso dovere, quando può, di raddrizzare ciò che è storto! O almeno di provarci. E in questa brutta storia di cose storte e false ne esistono davvero tante. Se si corre qualche rischio, pazienza. Certo che Ali é stato manovrato, da uomini del Sisde, dai Servizi vaticani, dalla Cia, e per Cia intendo Gladio, quanto c’é di più pericoloso al mondo, secondo Alì».

E il suo attentato a Giovanni Paolo II?

«Dietro l’attentato al Papa non c’è nessuno, questo Alì me lo ha sempre detto; lui è stato strumentalizzato dopo. Nonostante i vari occultamenti, l’origine dei soldi che aveva in tasca al momento dell’attentato è dimostrabile. I vari soggetti sopracitati si sono scatenati dopo, in quanto pretendevano che Alì accusasse i Servizi bulgari e quindi il Kgb sovietico, in realtà totalmente estranei all’attentato. Il sequestro di Emanuela e di Mirella si collocano esattamente in questo contesto. Alì lo spiega bene nella lettera a Pietro Orlandi».

Quando parlate della vicenda di Emanuela Orlandi, lui cosa ne pensa, ritiene che sia viva?

«Come ha sempre detto a Pietro Orlandi, Alì ritiene che entrambe le ragazze siano state prese direttamente dal Vaticano; e che siano state collocate in un convento di clausura. Ne è veramente convinto. In quanto a Emanuela, ha avuto rassicurazione, fino a tre anni fa, da parte di un sacerdote, che era viva. Gli hanno mentito? Forse o forse no. In ogni caso, lui ritiene che se dovesse essere venuta a mancare, é stato per cause naturali, “perché la Chiesa non uccide il suo gregge”».

Pensate che Mirella Gregori abbia subito una sorte diversa da quella di Emanuela, ovvero che sia morta?

«La situazione di Mirella é meno chiara, da parte italiana il Sisde “chiedeva informazioni”; in una telefonata l’Amerikano ne annunciò l’esecuzione imminente. E il prete che ha visto Alì anche in Turchia, gli ha detto che su Mirella “non è dato di sapere”. Francamente non lo so. Non abbiamo elementi certi per affermare niente. Tutte le risposte sono in Vaticano».Come valutate la ricostruzione di Netflix nella serie sul caso Orlandi?

«Come ha detto Pietro Orlandi, Wojtyla esce dalla serie Netflix meglio di come era in realtà. Per Alì è molto difficile accusare Wojtyla, lo considera come un fratello spirituale e tende a difenderlo. Proviamo a metterci un momento nei suoi panni: gli ha sparato, lo ha quasi ucciso, poi quella stessa persona é andata a trovarlo in carcere e tra loro si è creata un’intesa spirituale. Il suo atteggiamento, a volte un po’ambivalente, é umanamente comprensibile».

Pietro Orlandi, su sua sorella, sa qualcosa di più di quello che dice?

«Ci siamo scambiati alcuni messaggi, e mi sembra una persona veramente esasperata da una lotta infinita e da tante menzogne o mezze verità che gli sono state dette da tutte le parti. Comunque non si arrende, é assolutamente determinato a conoscere la verità sulla sorella e non molla mai. Lo ammiro molto per questo, vorrei aiutarlo di più, ma francamente più di così non posso. Essendo dentro la storia da quasi quarant’ anni, di certo ha intuito molte più cose di tutti noi messi insieme. Dopo tanto tempo, questa criminosa omertà dovrebbe finire, almeno sul versante italiano».

Potrebbe definire suo marito un uomo dell’intelligence internazionale? Oppure una vittima? Se fosse una storica come descriverebbe lo sua persona?

«Alì ha sicuramente legami stretti con persone legate ai Servizi turchi, ma si tratta di amici, persone singole, non con il MIT (Millî İstihbarat Teşkilâtı, l’organizzazione nazionale turca d’intelligence) come istituzione».

In futuro pensate di tornare in Italia o di restare a Istanbul?

«In Italia non credo proprio, io vorrei restare in Turchia, lui a volte pensa che potrebbe essere bello trasferirsi in un qualche paese straniero, come ad esempio la Tunisia, anche solo per un periodo. Vedremo cosa porta la vita». Lo miglior qualità e il peggior difetto di Agca?

«Per alcune cose, direi che Ali é un tantino “arretrato”, ad esempio ha sempre da ridire sul mio abbigliamento e su quello delle nipoti, tre belle ragazze moderne. Secondo lui dovremmo fare a meno del trucco e dovremmo coprirci di più. Non gradisce molto che io interagisca con altri uomini, ad esempio la mia insegnante di turco è donna e così la mia parrucchiera. Tra le qualità positive, apprezzo tanto la sua simpatia: é divertente, mi fa sempre ridere, e per me questo è fondamentale. Poi c’è il suo spirito di sacrificio, anche eccessivo a volte, per chi ama è veramente pronto a farsi uccidere».

Un indizio che potrebbe aprire ad altre verità. Emanuela Orlandi, dopo gli audio il messaggio in codice dell’83: “È stata uccisa da Aliz, è stato orrendo”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

A quasi 40 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi spuntano nuovi indizi per decifrare quel mistero che, insieme alla scomparsa della sua coetanea Mirella Gregori, è diventato uno dei cold case più agghiaccianti e mai risoldi della storia italiana. Dopo gli audio sotto la lente di ingrandimento arriva un misterioso comunicato, scritto a penna e in stampatello, che arrivò all’Ansa di Milano il 17 ottobre 1983 in cui sembrerebbe che fosse chiamata in causa la banda della Magliana come responsabili di quel sequestro con parole cifrate e fantasiose che oggi, dopo le novità sul caso, sembrerebbero avere un nuovo significato.

Secondo la ricostruzione fatta dal Corriere della Sera, il comunicato citato conterrebbe una rivendicazione del sequestro della figlia del messo pontificio di Wojtyla. Il testo, un misto di parole deliranti e all’apparenza senza senso, fin dalle prime righe tirava in ballo un misterioso personaggio, “Aliz”. Sarebbe stato lui il rapitore assassino della “ragazza con la fascetta”. All’epoca gli investigatori considerarono la lettera inattendibile. Ma quell’indizio rivisto oggi alla luce degli audio recentemente resi noti, l’accresciuta credibilità di Marco Accetti e le dichiarazioni di Sabrina Minardi, sembra trovare una nuova collocazione.

Fin ora la banda della Magliana era stata chiamata in causa per la scomparsa di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori in testimonianze rilevanti ma controverse dalla Minardi (ex amante del boss “Renatino” de Pedis e ex moglie del calciatore Bruno Giordano, e da Marco Accetti, fotografo che nel 2013 consegnò il flauto di Emanuela e un lungo memoriale. Le loro versioni erano in gran parte sovrapponibili ma non sono mai state confermate da altri elementi. In questo contesto si accendono i fari sul comunicato dell’83. La lettera è firmata da una sorta di pentito, tal “Dragan di Slavia”, e sul bordo della seconda facciata appaiono le parole “morte” e “Sergio”. Il comunicato esordisce dicendo che “Aliz”, nome già fatto in una telefonata fatta all’avvocato della famiglia Orlandi, ha ucciso l’ostaggio: “Emanuela era brava ragazza, noi la volevamo salvare, ma voi siete stati cattivi, lei non meritava. Suo corpo forse non lo trovate più, ma è Aliz che è stato orrendo, lui non può essere un Turkesh, noi Turkesh non uccidiamo, noi buoni”.

Poi una domanda che sembrò campata in aria: “Perché non interrogare giocatore calcistico di Lazio Spinozzi? È stato lui a darci Emanuela e a fornirci primo rifugio”. Arcadio Spinozzi, all’epoca terzino biancoceleste, militante in serie A e compagno di squadra dei più famosi D’Amico, Manfredonia, Giordano, niente aveva a che fare con il sequestro Orlandi. Ma, sempre secondo la ricostruzione fatta dal Corriere, Aliz sembrerebbe un anagramma incompleto di “Lazio”, la squadra dell’ex marito della Minardi che poi sarebbe diventata famosa per essere l’amante del boss De Pedis. Secondo la ricostruzione del giornale, “Aliz”, in sostanza, sarebbe stato un sinonimo di “banda della Magliana”.

All’epoca l’Ansa sintetizzò così un altro passo: “Questo Aliz gli avrebbe fatto conoscere Alì Agca pochi giorni prima dell’attentato al Papa e anche ‘colui che chiamate venerabile’ e che Aliz stesso avrebbe fatto scappare…”. Qui il Corriere scrive: “I rapitori della Orlandi tirarono in ballo il Lupo grigio e Licio Gelli, comunicando sotto codice che la banda della Magliana (“Aliz”) aveva avuto contatti con entrambi? Si voleva forse alludere a un supporto logistico della ‘mala’ romana (politicamente di destra) al neonazista Agca nei giorni precedenti l’azione di piazza San Pietro? E analogamente: si intendeva rimarcare un aiuto fornito dalla stessa holding criminale al capo della P2 per farlo evadere dal carcere ginevrino di Champ-Dollon, cosa che in effetti era accaduta il 10 agosto 1983?”.

Sull’ultima facciata della lettera – scrisse l’Ansa – sono stati disegnati alcuni simboli geometrici (tre triangoli incrociati e uno più grande sbarrato) con la scritta ‘Turchia libera’ e ‘Quaranta esercizi per flauto’…”. Sarebbe stata questa la prova concreta che il misterioso “Dragan” aveva avuto un contatto diretto o indiretto con Emanuela perché lo spartito che la ragazza aveva nello zainetto aveva proprio lo stesso titolo. Un tassello che potrebbe aprire ad altri scenari per togliere il velo del mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

«Emanuela Orlandi uccisa da Aliz». Un messaggio in codice del 1983 (mai decifrato) accusò la banda della Magliana. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 15 dicembre 2022.

Ottobre '83, i rapitori all'Ansa: «Aliz è stato orrendo». "Aliz", anagramma incompleto di "Lazio", riporta alla squadra di Bruno Giordano, ex marito della Minardi, poi amante del boss De Pedis. Gli altri indizi su Gelli e il covo di Monteverde

La banda della Magliana fu chiamata in causa con un comunicato che accusava la gang del sequestro di Emanuela Orlandi già pochi mesi dopo la scomparsa della quindicenne, ben prima della confessione di Sabrina Minardi (2008). Un testo cifrato, non  esplicito, contenente messaggi in codice. Che però, riletto oggi, non era poi così difficile da interpretare: sarebbe bastato cogliere il senso di alcune allusioni, notare certi giochi di parole e, molto probabilmente, il giallo Orlandi si sarebbe risolto in fretta, senza diventare un cold case infinito, il più inquietante della storia italiana.

La novità è sorprendente, un po' come la lettera rubata di Edgar Allan Poe: era lì sotto gli occhi di tutti, ma nessuno l'ha mai notata. 

A quasi 40 anni dalla sparizione della "ragazza con la fascetta", dalle migliaia di atti custoditi negli armadi blindati della procura di Roma (dopo l'archiviazione del 2015) spunta un documento che ha tutta l'aria di essere risolutivo. Si tratta di un comunicato di rivendicazione del sequestro della figlia del messo pontificio di Wojtyla che i rapitori inviarono all'Ansa di Milano il 17 ottobre 1983. Il testo, all'apparenza bislacco e inverosimile, fin dalle prime righe tirava in ballo un misterioso personaggio: "Aliz". L'accusa era esplicita: il rapitore-assassino era lui. Vero, falso? Un depistaggio privo di fondamento? Gli investigatori considerarono la lettera inattendibile, anche a causa dello stile ridondante, ma i recenti sviluppi - a cominciare dall'accresciuta credibilità di Marco Accetti (dopo la scoperta della tomba vuota di Katy Skerl per il furto della bara, da lui preannunciato con largo anticipo) - sembrano dire il contrario. In quelle due paginette, in realtà, sarebbero indicati sia gli esecutori sia qualche mandante del crimine portato a termine contro due ragazzine innocenti: la banda della Magliana, appunto. 

Le due confessioni-denuncia

Una premessa è necessario per inquadrare la novità. Fino ad oggi, "Renatino" De Pedis e i suoi sodali della gang affaristico-criminale più potente di Roma erano entrati nel mistero di Emanuela e della coetanea Mirella Gregori (sparite rispettivamente il 22 giugno e il 7 maggio 1983) non sulla base di riscontri collocati all'epoca dei fatti, bensì grazie a due testimonianze rilevanti ma controverse, giunte con grande ritardo, oltre un quarto di secolo dopo: la prima persona a fare il nome del boss testaccino  fu nel 2008 la sua ex amante, Sabrina Minardi (nonché ex moglie del calciatore Bruno Giordano), e la seconda Marco Accetti, il fotografo oggi 67enne che nel 2013, oltre al flauto riconosciuto dalla famiglia Orlandi, consegnò ai magistrati un voluminoso memoriale. Due versioni dettagliate e in gran parte sovrapponibili (qui la ricostruzione minuto per minuto della scomparsa di Emanuela, qui  quella speculare su Mirella), ma non confortate (sinora) da ulteriori elementi. 

Le pressioni sul Quirinale

Ebbene, quel riscontro che mancava adesso c'è. Vediamola, dunque, la prova "resuscitata", collocandola nel contesto in cui emerse. Siamo a metà ottobre 1983, in una fase di altissima tensione politico-istituzionale attorno al caso Orlandi-Gregori, e nel pieno delle trattative, che coinvolgono il Quirinale, per la concessione della grazia ad Agca, il turco che ha sparato al Papa due anni prima. Il provvedimento di clemenza è stato richiesto per tutta l'estate dal  cosiddetto "Amerikano" (il telefonista la cui voce corrisponde a quella di Accetti) e dal Fronte Turkesh, misteriosa organizzazione che, nei comunicati spediti a partire da agosto, ha dato prova di conoscere dettagli inediti su Emanuela Orlandi (alcuni nei sulla schiena, il fastidio per il latte, la sua presenza in una certa chiesa il 22 aprile precedente, fatto noto solo alla famiglia, il che dimostra precedenti pedinamenti, ecc). L'ipotesi è che i sequestratori - per accrescere la propria capacità di intimidazione - si siano "duplicati" a uso mediatico in due fronti, ribattezzati dalla stampa "falchi" (il primo) e "colombe" (il secondo).   

Il comunicato Turkesh 

È in questo contesto, quindi, che il 17 ottobre 1983 si fa nuovamente vivo il Fronte Turkesh. Una giornata al cardiopalma: in mattinata l’avvocato Gennaro Egidio (legale di entrambe le famiglie) è stato convocato al Quirinale, dove il segretario generale, Antonio Maccanico, lo ha informato che il presidente Pertini non ha ritenuto opportuno rendere noto il concordato appello ai rapitori di Mirella e di Emanuela (lo farà il 20 dello stesso mese). Attorno alle 14, però, nel clima già teso si innesta una notizia freschissima: alla sede Ansa di Milano è appena arrivato il quinto messaggio del Turkesh, una busta "espresso" imbucata a Bari.  La lettera è firmata da una sorta di pentito, tal "Dragan di Slavia", e sul bordo della seconda facciata appaiono le parole "morte" e "Sergio". La prima deduzione, a posteriori, riguarda il nome di battesimo: una trentina d'anni dopo, infatti, nell'ambito  dell'inchiesta 2008-2015  sarà iscritto sul registro degli indagati  proprio un certo Sergio, di cognome Virtù, autista di De Pedis, accusandolo di aver partecipato all'operazione Orlandi assieme ad altri due compici  della Magliana, alla Minardi, allo stesso Accetti e al prete amico di "Renatino", don Pietro Vergari. E vediamo ora cosa c'era scritto nel comunicato: 33 righe in stampatello, solo all'apparenza sconclusionate e deliranti.

Il calciatore Spinozzi

Dragan esordisce annunciando che "Aliz", nome già fatto in una telefonata giunta a inizio settembre all'avvocato Egidio, ha ucciso l’ostaggio: «Emanuela era brava ragazza, noi la volevamo salvare, ma voi siete stati cattivi, lei non meritava. Suo corpo forse non lo trovate più, ma è Aliz che è stato orrendo, lui non può essere un Turkesh, noi Turkesh non uccidiamo, noi buoni». A seguire, il presunto Dragan rivela di essere in partenza per la Tunisia o l’Algeria con Mirella per associarsi a tal “Uhrush" e rivolge una domanda del tutto campata in aria: «Perché non interrogare giocatore calcistico di Lazio Spinozzi? È stato lui a darci Emanuela e a fornirci primo rifugio”. Cosa c’entra il calciatore? Nulla, naturalmente. Arcadio Spinozzi, all'epoca roccioso terzino biancoceleste, militante in serie A e compagno di squadra dei più famosi D'Amico, Manfredonia, Giordano, niente aveva a che fare con il sequestro Orlandi, poveretto. Nel leggere il suo nome associato al giallo di cui parlava tutta Italia, il giocatore trasecolò, si arrabbiò moltissimo. Ma chiamarlo in causa, con il senno del poi, ripensando al successivo coinvolgimento di Sergio Virtù, un senso poteva averlo...

I rimandi alla "mala" romana

Avanti, non è il solo elemento nuovo. Le indagini di un quarto di secolo dopo porteranno infatti alla scoperta di un appartamento a Monteverde Nuovo, in via Pignatelli, di proprietà di una donna legata ad ambienti criminali, munito di un cunicolo segreto che gli stessi inquirenti non escluderanno possa essere stato il "carcere" di Emanuela. Nel rivedere gli atti della prima inchiesta (1983-1997), inoltre, i magistrati scoveranno altri rimandi a milieu malavitosi sfuggiti ai colleghi: il gergo “sporco”, marcatamente romanesco, del secondo telefonista, “Mario” (la cui voce somiglia moltissimo a quella di Accetti), interpretabile come un tentativo di dare una connotazione locale al rapimento Orlandi; l'allarme (mai fino in fondo chiarito) di un testimone che nell'estate 1983 riferì  di aver visto due giovani mentre lanciavano una 127 rossa nel Tevere (guarda caso “all’altezza del ponte della Magliana”); e infine l'evocazione, in un'altra telefonata alla famiglia, di un ristorante del litorale frequentato da malacarne (“Pippo l’Abruzzese”, a Torvaianica). I riferimenti alla storica gang, insomma, non erano mancati, nella prima fase del duplice giallo. 

Come una sciarada: da Aliz a De Pedis

Siamo così giunti al punto, all'indizio numero 1 in forma di codice. Cosa aveva scritto "Dragan" nel comunicato Turkesh che tolse il sonno  all'incolpevole Spinozzi? Che il responsabile del sequestro e dell'omicidio Orlandi era un certo "Aliz". Nome stranissimo. Cosa avrebbe potuto voler dire? Le quattro lettere rimandavano forse a un' "entità" nascosta, con la quale dialogare sotterraneamente? Già: una "verità" occultata ma latente? Negli anni del terrorismo e della Guerra Fredda, d'altronde, le operazioni spionistiche, a metà strada tra apparati criminali e servizi deviati, funzionavano così. E allora? Allora eccola, la soluzione possibile: pensando anche al codice 158 (stessi numeri di 5-81, mese e anno dell'attentato al Papa) scelto dall'Amerikano per telefonare in Vaticano, la chiave, molto semplicemente, potrebbe consistere nell'utilizzo di anagrammi. In questo caso "Aliz" per richiamare (con un anagramma quasi completo) la parola “Lazio”, vale a dire la squadra di Spinozzi ma anche di Bruno Giordano, ex marito della donna, Sabrina Minardi, diventata in seguito famosa per la sua relazione con "Renatino" e per i regali di valigie Vuitton stracariche di banconote... Tale scenario è stato ritenuto plausibile da più investigatori, ma soltanto dopo le confessioni-choc della donna del boss. E invece c'era anche prima, seppure sotterraneamente. "Aliz", in sostanza, sarebbe stato un sinonimo di "banda della Magliana". E Spinozzi usato per mandare a dire: «Badate, noi sappiamo chi è il colpevole, in questa storia c'entra De Pedis, l'amante della Minardi...» 

Il covo chiamato "rifugio"

Analisi quasi terminata. Il viaggio nel messaggio-sciarada più ambiguo e contorto della storia criminale italiana è vicino alla conclusione. Restano da analizzare altri 4 tasselli rimasti anch'essi indecifrati per quasi 40 anni. Il primo riguarda la frase successiva a quella in cui è citato "Aliz", con la quale il mittente ricorda che era stato Spinozzi "a fornirci primo rifugio”. A cosa si voleva alludere? Grazie alla decodificazione ex post, pensando a quanto emerso nel 2008 grazie alla Minardi sul covo di via Pignatelli (passato al setaccio, ma senza trovare il dna della Orlandi), anche questa tessera troverebbe una collocazione.  La concatenazione è da brividi: nel 1983, dunque, si era parlato del "rifugio-carcere" della quindicenne senza però rendersene conto? 

Alì Agca e il Venerabile

Il quadro si rafforza leggendo le righe mancanti, così sintetizzate dall'Ansa di quel 17 ottobre: «Questo Aliz gli avrebbe fatto conoscere Alì Agca pochi giorni prima dell'attentato al Papa e anche "colui che chiamate venerabile" e che Aliz stesso avrebbe fatto scappare...» Due novità anche queste: i rapitori della Orlandi tirarono in ballo il Lupo grigio e Licio Gelli, comunicando sotto codice che la banda della Magliana ("Aliz") aveva avuto contatti con entrambi? Si voleva forse alludere a un supporto logistico della "mala" romana (politicamente di destra)  al neonazista Agca nei giorni precedenti l'azione di piazza San Pietro? E analogamente: si intendeva rimarcare un aiuto fornito dalla stessa holding criminale al capo della P2 per farlo evadere dal carcere ginevrino di Champ-Dollon, cosa che in effetti era accaduta il 10 agosto 1983? Quante domande. Ma anche quante strane coincidenze e tracce che si aprono. Ultimo dubbio: non sarà che l'intero intreccio, un "sistema" di potere ai margini della legalità e dell'eversione, finì in una rivendicazione sul sequestro Orlandi per dare un'indicazione criptata dei mandanti?

La prova finale

«Sull'ultima facciata della lettera - scrisse l'Ansa - sono stati disegnati alcuni simboli geometrici (tre triangoli incrociati e uno più grande sbarrato) con la scritta "Turchia libera" e "Quaranta esercizi per flauto"...». Prova concreta - quest'ultima - del contatto, diretto o indiretto, avuto da "Dragan" con Emanuela Orlandi, dal momento che lo spartito nello zainetto, scomparso assieme alla quindicenne, aveva proprio quel titolo. Ricapitoliamo. Il “Komunicato V” del 17 ottobre 1983 - interpretato usando le nuove chiavi - diventa davvero un passepartout per fare luce sul mistero della "ragazza con la fascetta" e sui gialli collegati, ma al tempo stesso porta con sé una verità amara e temuta dai familiari: Emanuela e Mirella sono morte ormai da tempo, per mano o con la complicità della gang che a quei tempi furoreggiava su Roma, incaricata di "un lavoro sporco" da mandanti cinici, abilissimi nella pratica del depistaggio, tuttora sconosciuti. (fperonaci@rcs.it)

Estratto da repubblica.it il 14 dicembre 2022.

È il 2019 quando Alessandro Ambrosini, un passato da estrema destra, diventato cronista di nera e ideatore del blog Notte criminale, intervista un malavitoso romano di grande peso, sodale del boss della Banda della Magliana Renatino De Pedis e con molti e importanti agganci in Vaticano. 

Solo di recente, 14 anni più tardi, Ambrosini ha pubblicato l'audio, ripreso poi dal Riformista. Le rivelazioni sono sconvolgenti, e in linea con quanto adombrato dalla docuserie targata Netflix Vatican Girl: dietro il rapimento di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori c'è una storia di sesso. Di pedofilia. Di molestie. E l'intervento di Renatino De Pedis per risolvere "la schifezza" che era diventata fu determinante. Tanto che venne poi sepolto nella Basilica di Sant'Apollinaire. […]

La gola profonda di Ambrosini nell'audio racconta di come le due ragazze fossero molestate e avessero subito rapporti sessuali con alti prelati, appunto. Racconta anche di come uomini di Stato sapessero tutto, informati da lui stesso. E dice, come si sente nell'audio: "Quando la cosa era diventata un schifezza il Segretario di Stato (all'epoca Agostino Casaroli, ndr) ha deciso di intervenire". Non direttamente, ma coinvolgendo "i cappellani del carcere di Regina Coeli che portavano whiskey, lettere, tutto quello che serviva, droga, all'interno del carcere. Quando è servito qualcosa a chi si sono rivolti?" 

E continua: "I cappellani del carcere, uno era calabrese, un altro un furbacchione. Un certo Luigi, un certo padre Pietro, non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto: 'Sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?'. Punto. Il resto sono tutte cazzate". 

E secondo lui questa era la verità. Ma, dice anche, "con questa verità non ci fate niente". In più, dice ancora parlando di un uomo dei servizi che sarebbe stato a conoscenza di tutto, "Nando a te ti trasferiscono a me mi ammazzano" perché "questo è uno strano Paese, della verità non interessa a nessuno".

E infine De Pedis, a cui, secondo gola profonda, sarebbe stato appaltato il rapimento delle due adolescenti, Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, "è sepolto lì (a Sant'Apollinaire) per grazia ricevuta".

Caso Orlandi, Agca scrive al fratello di Emanuela: «Fu presa in consegna dalle suore, lei accettò il suo destino». Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022

Il turco che attentò nell’81 alla vita di Wojtyla colloca il rapimento della cittadina vaticana e di Mirella Gregori nell’ampio scenario della Guerra Fredda: «Fu una decisione del Vaticano, volevano fare pressioni sul governo italiano». Il fratello Pietro: «Alcune indicazioni sono plausibili e vanno approfondite»

Alì Ağca , l’uomo che sparò a papa Wojtyla, propone una sua nuova versione sulla sparizione di Emanuela Orlandi, inviando un ampio documento — che il Corriere ha potuto visionare — direttamente a Pietro Orlandi, il fratello della ragazza scomparsa. Il caso di Emanuela, cittadina vaticana rapita il 22 giugno 1983, è tornato in questo periodo di attualità a seguito del successo internazionale della serie The Vatican Girl prodotta da Netflix. Ağca, oggi 64enne, ormai libero e senza carichi penali pendenti — risiede a Istanbul con la moglie, l’italiana Elena Rossi, classe ’67, due lauree, originaria di Ravenna, sposata nel 2015 — ha contattato il fratello di Emanuela attraverso una lunga lettera, la cui autenticità è stata confermata al Corriere dallo stesso Orlandi. Il quale dice di ritenerla almeno in parte «attendibile» nei contenuti e «degna di ulteriori verifiche». Va tra l’altro detto che Pietro Orlandi già nel 2010 si recò a Istanbul per incontrare Ağca (un incontro segreto, di cui si seppe solo tempo dopo).

L’attentato al Papa

Cosa sostiene Ağca? Nella prima parte della lettera, il turco parte dalla vicenda dell’attentato del 1981, che lo vide protagonista. Con una ricostruzione che intende tornare alle «origini» e che naturalmente risulta spiazzante: «(L’attentato) non aveva alcun mandante — scrive —, nessuno mi ha chiesto di uccidere il Papa e nessuno mi ha pagato per farlo. In Piazza San Pietro ero solo e ho sparato due colpi. Quelle che erano le mie motivazioni di allora — afferma —, sono indicate chiaramente nella lettera che scrissi nel 1979 in occasione della visita di papa Wojtyla in Turchia». Il riferimento è a una lettera che lo stesso Ağca inviò il 27 novembre 1979 (due anni prima dell’attentato del 1981), al giornale turco Milliyet in cui egli stesso, sostanzialmente, minacciava che avrebbe colpito Giovanni Paolo II se il pontefice — definito «il Capo dei crociati — avesse fatto visita alla Turchia». Ağca ribadisce dunque che «la “pista bulgara” é una completa invenzione, (...) interamente costruita a tavolino dai servizi segreti vaticani e dal Sisde, il servizio segreto civile italiano, con la benedizione della Cia di Ronald Reagan, il maggiore alleato di papa Wojtyla».

Il Terzo Segreto di Fatima

Dopo questa lunga premessa, Agca viene al nodo del rapimento Orlandi, collegato — a suo dire — a quello di Mirella Gregori. «Papa Wojtyla credeva profondamente nel Terzo Segreto di Fatima e credeva anche nella missione che Dio gli assegnava, ovvero la conversione della Russia — sostiene —. (Dopo l’attentato) Wojtyla in persona voleva che io accusassi i Servizi segreti bulgari e quindi il Kgb sovietico. Il premio per la mia collaborazione, che loro mi offrirono e che io pretendevo, era la liberazione in due anni. Io potevo essere liberato tuttavia solo a condizione che il presidente Sandro Pertini mi concedesse la grazia ed esattamente per questa ragione Emanuela e Mirella vennero rapite». Pertini, però, sottolinea Agca, «non era manovrabile». Per cui — conclude (riprendendo una tesi già riferita in un’intervista a Sette nel 2019) — «i rapimenti di Emanuela e di Gregori furono decisi dal Governo vaticano ed eseguiti da uomini del Servizio segreto vaticano vicinissimi al Papa. La trattativa pubblica era ovviamente una sceneggiata ben orchestrata da pochi alti prelati operanti all’interno dei servizi vaticani».

«Presa in consegna»

«Emanuela Orlandi era un fatto tutto vaticano — conclude Ağca — ed é stata presa in consegna da alcune suore fin dall’inizio, ha compreso l’importanza del suo ruolo e lo ha accettato serenamente. So di lei soprattutto grazie a un Padre spagnolo che mi ha visitato in Italia e anche qui a Istanbul. Un uomo, un religioso, animato da una fede autentica, che conosce i misteri del mondo e che non mente».

Il fratello: «Tutte le ipotesi aperte»

Tesi controverse, discutibili, quelle di Ağca, naturalmente. Pietro Orlandi conferma al Corriere ad ogni modo di aver ricevuto il documento. E racconta: «Nel 2010 l’ho incontrato a Istanbul e una parte di quell’incontro, 27 minuti, l’ho registrata per farla sentire a mia madre — racconta il fratello di Emanuela —. Ci sono aspetti della sua ricostruzione che possono avere un senso e una loro logica, ovvero il fatto che il rapimento di Emanuela vada collocato nell’ambito di un momento molto complesso della Guerra Fredda. Comunque, in un modo o nell’altro, io sono convinto che si tratti di una vicenda strettamente vaticana. Può essere vero che Ağca sia stato usato e manipolato da forze più grandi di lui per compiere un attentato al Papa la cui responsabilità sarebbe stata poi addossata, in via diretta o indiretta, all’Unione Sovietica». Orlandi non si sente comunque di escludere altre piste: «Mi devo attenere alle evidenze concrete che possono emergere, non escludendo alcun filone d’indagine — ripete —. La pista dei giochi erotici non va anch’essa esclusa. Ağca mi ha parlato di un certo padre Lucien, colombiano dell’Opus Dei, incontrato anche 3 anni fa in Turchia. Agca mi ha detto: a Villa Tevere qualcuno ti può aiutare, ma io all’epoca non sapevo nemmeno cosa fosse, che si trattasse della sede centrale dell’Opus. Forse c’è un legame tra le varie piste».

La richiesta di una Commissione d‘inchiesta

Intanto una proposta di legge per «l’istituzione di una «Commissione parlamentare di inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi» è stata presentata alla Camera dei deputati. Il provvedimento è di iniziativa di Francesco Silvestri (M5s) che già aveva presentato una proposta in tal senso nella scorsa legislatura. «Questa mia iniziativa deriva dalla convinzione che, come ha ricordato il fratello di Emanuela, il caso presenta nuovi elementi di indagine che riguardano anche i rapporti tra il Sismi e la procura di Roma — aveva scritto in un post Silvestri motivando la sua iniziativa —. Per me è importante sottolineare che questa necessità di giustizia non riguarda solo la famiglia Orlandi e l’Associazione Penelope, ma tutti i cittadini, che devono pretendere delle risposte dallo Stato della Città del Vaticano».

L'attentatore di Giovanni Paolo II: "La Chiesa Cattolica uccide solo se costretta". “Il rapimento di Emanuela Orlandi, la grazia di Pertini e il ricatto di papa Wojtyla”, la lettera di Ali Ağca al fratello Pietro. Redazione su Il Riformista il 13 Dicembre 2022

I rapimenti di Emanuela (Orlandi) e di (Mirella) Gregori furono decisi dal Governo vaticano ed eseguiti da uomini del Servizio segreto vaticano vicinissimi al Papa. La trattativa pubblica era ovviamente una sceneggiata ben orchestrata da pochi alti prelati operanti all’interno dei servizi vaticani”. E’ quanto emerge in una lettera inviata da Mehmet Ali Ağca, l’attentatore di papa Giovanni Paolo II nel 1981, a Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, sparita il 22 giugno 1983 all’età di 15 anni.

Una lettera ritenuta “in parte” attendibile da Pietro Orlandi e pubblicata dal Corriere della Sera. Secondo Ağca, che oggi ha 64 anni e vive in Turchia con la moglie italiana, Emanuela “era un fatto tutto vaticano ed è stata presa in consegna da alcune suore fin dall’inizio”. La 15enne “ha compreso l’importanza del suo ruolo e lo ha accettato serenamente. So di lei soprattutto grazie a un padre spagnolo che mi ha visitato in Italia e anche qui a Istanbul. Un uomo, un religioso, animato da una fede autentica, che conosce i misteri del mondo e che non mente”.

LA GUERRA FREDDA E IL “RICATTO” DEL PAPA – Ağca ha già incontrato Pietro Orlandi nel 2010 durante una riunione segreta emersa anni dopo. Nella lettera spiega anche quale fosse il coinvolgimento del Vaticano nel rapimento di Emanuela: “Papa Wojtyla credeva profondamente nel Terzo Segreto di Fatima e credeva anche nella missione che Dio gli assegnava, ovvero la conversione della Russia”. Poi aggiunge che dopo l’attentato, “Wojtyla in persona voleva che io accusassi i Servizi segreti bulgari e quindi il Kgb sovietico. Il premio per la mia collaborazione, che loro mi offrirono e che io pretendevo, era la liberazione in due anni. Io potevo essere liberato tuttavia solo a condizione che il presidente Sandro Pertini mi concedesse la grazia ed esattamente per questa ragione Emanuela e Mirella vennero rapite“. Pertini, però, sottolinea Agca, “non era manovrabile”.

Per Ağca la pista bulgare “è una completa invenzione, interamente costruita a tavolino dai servizi segreti vaticani e dal Sisde, il servizio segreto civile italiano, con la benedizione della Cia di Ronald Reagan, il maggiore alleato di papa Wojtyla”. L’attentatore del pontefice ha ribadito che all’epoca agì da solo senza alcuna regia alle spalle.

LA PISTA SESSUALE – Secondo Ağca, la pista sessuale, emersa in un audio pubblicato la scorsa settimana dal Riformista in cui emergeva anche il coinvolgimento del boss della Banda della Magliana Renato de Pedis, è da escludere: “La Chiesa Cattolica uccide solo se costretta, come nel caso di Roberto Calvi, ma non ragazzine innocenti e nemmeno le sporca, come invece state facendo voi con la ‘pista sessuale’, un’assurdità grottesca“.

L’agenzia LaPresse – dopo aver visionato la lettera – aggiunge che “il Fronte Anticristiano Turkesh non è mai esistito, sigla fasulla dietro cui si celava il SISDE (Servizio per le Informazioni e la Sicurezza Democratica) e a questo proposito ritengo opportuno richiamare l’attenzione sul primo comunicato dei Turkesh del 4 agosto 1983: ‘Mirella Gregori? Vogliamo informazioni’“, si legge nella lettera. “Il Sisde chiedeva informazioni. Erano evidentemente anche loro allo scuro della sorte di Mirella e questo ci fa capire, al di là di ogni ragionevole dubbio, che a prendere Mirella erano stati uomini di Wojtyla! Poi il Papa rispose ai Turkesh/Sisde nominando anche Mirella Gregori il 28 agosto 1983 e così la messinscena proseguì spedita a beneficio dell’opinione pubblica e soprattutto di Pertini”.

In Vaticano esiste certamente un dossier segretissimo su Emanuela Orlandi, come dichiara anche Francesca Chaouqui, impiegata nella Cosea, un dossier classificato come segreto di Stato e intoccabile. Lei ha deciso di non svelare ciò che ha letto in quel dossier, perchè se lo rivelasse ‘non farebbe il bene della Chiesa’… Se il Vaticano fosse innocente avrebbe già consegnato quel documento alla famiglia Orlandi o alle autorità italiane, ma non può farlo perché accuserebbe se stesso”. Si legge in un altro passaggio della lettera.

Per Pietro Orlandi, raggiunto da LaPresse, è necessario riaprire le indagini perché “sono troppi i punti non chiari. Il Papa, dopo che gli abbiamo scritto a gennaio, ha risposto in maniera riservata di andare presso il tribunale Vaticano. Io ho portato la richiesta per un incontro con i promotori ma non abbiamo mai ricevuto risposta. Io continuo a provare: è stato il Papa a dirci di andare da lui, non vogliono che io verbalizzi perché farei nome e cognome delle persone. La stessa cosa succede invece presso la procura di Roma”.

Non è la prima lettera che ricevo da Alì Ağca e mantiene sempre la stessa linea da quando l’ho incontrato la prima volta a Istanbul nel 2010, appena uscì dal carcere. Lui scrisse nel ’97 una lettera a mio padre dove parlava di Emanuela. Bisogna capire il movente e le modalità, bisogna avere le prove. Lui racconta le sue verità, racconta di avere dei contatti con un sacerdote dell’Opus Dei”, ha concluso. Poi, al Corriere.it, lo stesso Pietro Orlandi ha aggiunto: “Sono sue verità e non posso dire, non avendo riscontri o prove, se sono attendibili o inattendibili. Ci sono aspetti della sua ricostruzione che possono avere un senso e una loro logica, ovvero il fatto che il rapimento di Emanuela vada collocato nell’ambito di un momento molto complesso della Guerra Fredda. Comunque, in un modo o nell’altro, io sono convinto che si tratti di una vicenda strettamente vaticana”.

Ma, rispetto alla versione di Ağca, fa sapere di non escludere anche altre piste: “Mi devo attenere alle evidenze concrete che possono emergere, non escludendo alcun filone d’indagine. La pista dei giochi erotici non va anch’essa esclusa“.

Il nastro segreto. Audio su Emanuela Orlandi, parla Lupacchini: “Chi parla è legato ai servizi, riemerge pista degli abusi”. Nicola Biondo su Il Riformista il 13 Dicembre 2022

«Conosco bene questa voce, è quella di un signore che potremmo chiamare Lucio Domizio Enobarbo: mi scuserà se maschero la sua reale identità dietro quella di un personaggio dell’Impero romano. Una sorta di spia “alla francese”, costui: un individuo compromesso con la Banda della Magliana con la vocazione del delatore. Dunque trait d’union fra il sodalizio delinquentesco e i Servizi». Otello Lupacchini è il giudice italiano che conosce meglio d’ogni altro la mafia romana e i suoi mille tentacoli perché li ha arrestati tutti: “operazione Colosseo”, così venne chiamata la retata che portò la Banda della Magliana dietro le sbarre e poi a processo.

Quando venerdì scorso il Riformista ha pubblicato brani di una lunga intervista nella quale un esponente della banda, già socio del boss Renato De Pedis, svelava l’ultima incredibile trama sul movente della sparizione di Emanuela Orlandi, il giudice aveva già identificato l’autore e ha chiesto del tempo per valutare l’attendibilità di ciò che si affermava.

L’ultima incredibile versione che arriva dagli interna corporis della Banda sostiene che la scomparsa della giovane adolescente romana andrebbe ricondotta a un sexgate che si sarebbe consumato nelle stanze di Papa Wojtyla. Ecco il movente per il quale De Pedis, su richiesta del vertice del governo Vaticano di allora (il nome che viene fatto è quello del cardinale Agostino Casaroli) avrebbe rapito Emanuela Orlandi per mettere fine “ad una situazione insostenibile”.

Sostiene ancora l’ex-sodale del boss che di tutto questo lui stesso avrebbe informato i piani alti degli apparati di sicurezza italiani senza alcun risultato perché “è una verità che non interessa a nessuno”.

Giudice Lupacchini, che ne pensa? Cosa è credibile e cosa non torna in questa storia che il giornalista Alessandro Ambrosini ha raccolto nel 2009 e rivelato solo pochi giorni fa?

Partiamo da chi parla e scegliamo ovviamente di celare il suo vero nome: chiamiamolo Lucio Domizio Enobarbo. È una spia alla francese come lo definiva Maurizio Abbatino, boss della Magliana e poi collaboratore di giustizia.

Ovvero?

Lucio Domizio era una sorta di passe-partout: faceva soldi con De Pedis e Carminati e poi andava a raccontare tutto ai servizi e ad alti dirigenti della Polizia. Tutto questo per lucrare impunità.

Se oggi lei dovesse indagare sulla vicenda da dove partirebbe?

Cercare conferme a quanto si afferma è impossibile, né gli apparati né ovviamente il Vaticano ci sarebbero di aiuto. Io partirei da quelle testimonianze che affermano che la Orlandi subì molestie da alti prelati. Una di queste testimonianze si sostiene provenga da un vecchia amica della stessa Orlandi. Per riaprire le indagini bisognerebbe partire da testimonianze come quella che le ho accennato, solo così sarebbe possibile capire se la storia narrata da Lucio Domizio abbia un senso.

Quale credibilità può avere il “magliaro”?

Le racconto un fatto: si dice che fosse proprio Lucio Domizio ad aver avvertito di un progetto di attentato nei confronti miei e dei colleghi Guido Salvini e Leonardo Grassi di Bologna, attentato che sarebbe dovuto avvenire a Campobasso dove ci recavamo ad ascoltare Maurizio Abbatino per raccoglierne le confessioni. Stabilire se avesse riferito un fatto “vero” fu impossibile: per tanto fortunate quanto rocabolesche e incredibili circostanze, Abbatino fu trasferito in fretta e furia da Campobasso, prima che il paventato evento potesse realizzarsi… ma questa è un’altra storia.

Cosa vuole intendere?

L’Enobarbo rilascia questo racconto nel 2009, bisogna partire da questo dato e capire quale fosse il suo scopo. È convinto che ciò che dirà sarà subito reso pubblico ma ciò non avviene perché l’autore dell’intervista, Alessandro Ambrosini, prova a cercare riscontri che in quel momento non trova.

Proviamo a sondare allora il contesto, cosa avveniva nel 2009?

La sua testimonianza si sarebbe inserita prepotentemente nelle indagini di quel periodo che vedevano l’ex amante di De Pedis, Sabrina Minardi, e altri, raccontare del coinvolgimento del cardinale Paul Marcinkus nel rapimento.

La pista del ricatto al Vaticano per ottenere indietro enormi cifre finite a S.Pietro che appartenevano alla Magliana?

Può darsi. La Minardi aveva anche riferito cose palesemente false. La testimonianza forse aveva lo scopo di far deflagrare le indagini e spostare l’attenzione. Ho conosciuto bene il personaggio per poter dire che è uno che agisce con metodi di intelligence. Bisogna sciogliere l’ambiguità della persona che per le sue capacità mimetiche era di certo in grado di percepire notizie più o meno attendibili.

Lui dice che avrebbe raccontato tutto a uomini dei servizi. Dovrebbe essercene traccia di questo contatto, non crede?

Il problema è dove trovarla questa traccia. Per quanto immagino che ci deve essere un bel fascicolo ai Servizi su di lui.

Da dove partirebbe lei per provare a sciogliere questo enigma?

Un possibile riscontro sembra provenire da una testimonianza, se non sbaglio coeva a quella di Lucio, circa le molestie alla Orlandi. Chi testimonia è ancora vivo? La sua versione è credibile? S’intreccia ad altre testimonianze? Mi chiedo anche se in quello stesso periodo, il 2009, vi fu chi accennò a responsabilità di Karol Wojtyla, così da escludere che Enobarbo attinga a fonti aperte o anche di intelligence. Magari con l’intenzione di fornire una pista senza apparire direttamente.

Lucio Domizio Enobarbo, come lo chiama Lei, sembra che voglia fare intendere che la sorte della Orlandi era segnata, concorda?

Dobbiamo chiederci qual era l’obiettivo del sequestro: far scomparire chi poteva raccontare una verità scomoda, e cosa poteva raccontare la Orlandi, oppure ricattare il Vaticano, metterlo sotto pressione, e per cosa.

Nelle trattative iniziali, confuse e strane quanto vuole, nessuno chiede le prove d’esistenza in vita della rapita? Questa prova per esempio nel sequestro Grazioli, proprio i sequestratori della Magliana la diedero. E di certo in quel rapimento non c’erano di mezzo Stati Esteri, il Papato e i misteri degli anni di piombo dell’alta finanza. Parlare di De Pedis è come evocare i demoni nascosti del Potere.

Impossibile da scandagliare fino in fondo?

C’è un’opacità di fondo non penetrabile. Il mistero diventa spesso ricatto, ecco il motivo di tanti silenzi. Il nostro presente è frutto di quel passato. Nicola Biondo

Mistero Vatican Girl, il direttore della fotografia: "Così è nata la serie su Emanuela Orlandi". Ad un mese dall'uscita su Netflix, "Vatican Girl - La scomparsa di Emanuela Orlandi" resta una delle serie tv più viste della piattaforma. Abbiamo raggiunto il direttore alla fotografia Stefano Ferrari, che ci racconta uno dei veri obiettivi del progetto. Davide Bartoccini il 13 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Interviste di questo genere, per norma giornalistica, andrebbero poste sempre prima, non dopo l’uscita di una produzione. Tanto più perché viviamo l’epoca del pericolo spoiler. Ma trattandosi di un mistero italiano - forse tra i maggiori misteri italiani che sono rimasti irrisolti - è sempre il momento, sia prima o sia dopo, di toccare l’argomento e approfondire le ragioni che hanno portato alla produzione di “Vatican Girl - La scomparsa di Emanuela Orlandi”. Miniserie che ha giù riscosso un successo di portata mondiale, ad un mese dal lancio in contemporanea in ben 160 nazioni, resta nella top ten delle serie tv più viste sulla piattaforma Netflix. Per questa ragione, abbiamo raggiunto a New York Stefano Ferrari, giovane e promettente direttore alla fotografia romano, che ci racconta il fine ultimo di un prodotto ponderato e ben confezionato.

Il mistero della scomparsa di Emanuela, una ragazza di 15 anni rapita a Roma il 22 giugno di un lontanissimo 1983. Noi due non eravamo ancora nati, perché ne stiamo ancora parlando?

"Perché la scomparsa di Emanuela Orlandi è ancora un mistero, appunto. E perché è ora che il mondo, non solo l’Italia, sia messo al corrente di questa sparizione: un caso irrisolto dove si intrecciano a più livelli intrighi politici, segreti indicibili e omissioni di una monarchia millenaria, quella del Vaticano, servizi segreti che s’incontrano e scontrano in una terra di mezzo come soltanto l’Italia poteva essere tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, tra Anni di piombo e Guerra fredda. Senza dimenticare la criminalità organizzata...".

Una casa di produzione straniera che torna ad interessarsi di un mistero italiano iniziato 39 anni fa dunque.. non era già stato detto tutto?

"Sì, e no. Alla base della scelta di girare una nuova serie sul caso Orlandi, c’è una missione e una piccola grande svolta nella struggente ricerca della verità. Ma sopratutto, c’è la ferma volontà di riaccendere i riflettori sul caso portandolo al di fuori dei confini italiani (…) Perché vedi, la scomparsa di Emanuela Orlandi, pur trovando collegamenti sufficienti ad essere prove concrete che coinvolgono i servizi segreti italiani, il Kgb, la Cia, la banda della Magliana, il Vaticano e il suo Ior (Istituzione finanziaria pubblica della Città del Vaticano, ndr) è uno mistero molto italiano. Al di fuori dell’Italia - dove comunque molti, sopratutto nelle nuove generazioni, non sanno “tutto” quel che c’è da sapere - nessuno ne sa niente. Ed è molto grave, perché il Vaticano è uno Stato che proietta la sua potenza in tutto il mondo."

Davvero vuoi dirmi che a New York, neanche nei salotti intellettuali che abbiamo idealizzato attraverso gli articoli di Tom Wolfe e i film di Woody Allen.. nessuno conosceva questa storia?

"Assolutamente. A New York come a Londra né la gente comune né i ceti che possiamo concepire come più “colti” o semplicemente più informati conoscevano questa storia. Ho organizzato una visione privata per amici e colleghi qui a Ny; registi, scrittori, addirittura professori appassionati non avevano mai sentito parlare della scomparsa di Emanuela Orlandi e dell’intrigo che potrebbe celarvisi dietro. “Come è possibile che non sapessi nulla si una storia del genere?”, era l’eco alla fine della proiezione. Mentre del caso di Madalein McCann (la bambina inglese scomparsa il 3 maggio del 2007 a Plaia de Luz in Portogallo, ndr), per fare un esempio, tutti sono al corrente, anche noi italiani sappiamo. È qui la differenza. E qui uno degli obiettivi del progetto secondo me: “Portare il caso di Emanuela oltre l’Italia”. Anche se.."

Anche se?

"Anche se il caso Orlandi - non facciamo spoiler ma è necessario dirlo - è un caso che inizia fuori le mura del Vaticano ma ci ha riportato all’interno delle mura del Vaticano nel suo ipotetico epilogo. Dopo aver attraversato i labirinti claustrofobici di una Roma oscura e impenetrabile, si fa tetramente ritorno in quel regno dorato dove nessuno pensava potesse accadere mai nulla di male. Dove forse qualcosa alla fine può essere accaduto. La storia, la ricerca, le nuove testimonianze inedite che sono state raccolte da Chiara Messineo smontano in parte l’idea che ci eravamo fatti. La Famiglia Orlandi compresa. Il fratello di Emanuela, Pietro, protagonista di questa miniserie, e il giornalista investigativo Andrea Purgatori, compresi."

Un direttore alla fotografia romano in una produzione britannica girata a Roma, è un caso?

"Avevo già lavorato con Mark Lewis nella produzione “Don't F**k With Cats: Hunting an Internet Killer”, una serie tetra, lugubre e mortifera. Deve avermi coinvolto di nuovo per questo, oltre a sapere che in quella città ero nato e cresciuto, e potevo dare una visione delle cose convincente a due livelli. Ossia, per due tipi di audience."

Indendi chi era già al corrente del caso, e chi entrava in contatto con la storia per la prima volta?

"Esattamente. Appena ci siamo messi a lavoro mi sono detto "Devo guardare al progetto con gli occhi di un italiano che conosce già ogni dettaglio della storia e catturare la sua attenzione.. se catturo loro, catturerò di riflesso l’audience composta da chi non sapeva nulla di questa vicenda”. Questo era l’obiettivo principale. Il secondo era quello di ricreare una certa atmosfera: l’atmosfera di quegli anni."

Oggi i documentari sono diversi da quelli visti in passato, anche da quelli incentrati sul caso Orlandi, a cosa vi siete ispirati?

"Ho chiesto a Mark se era possibile “Cercare di non investire tutti gli sforzi nella sola ricerca e nel confezionamento di fatti e testimonianze che erano già noti.. ma di esplorare un certo tipo di atmosfera. Per concedere un’immersione completa allo spettatore. Dipingendo Roma come un labirinto dove si può davvero sparire nel nulla. Cercando di portare lo spettatore in un viaggio che inizia nel Vaticano - “un luogo dove nessuno ti poteva toccare” - per dipingere Roma come un luogo dove tutto, in un istante, poteva essere “messo in pericolo”; si trattasse di un terrorista turco che tira fuori una pistola automatica e attenta alla vita del Papa; o di una ragazza, o due ragazze, che in 5 minuti possono sparire nel nulla, per sempre. Ci siamo ispirati ad un stile di trasposizione che definirei Fincheriano."

Come Zodiac?

"Come Zodiac.. e alla struttura del giallo alla Dan Brown. Anche se questo - purtroppo - non è il frutto della fantasia di un romanzo. Stiamo parlando di eventi veri. E la struttura della trama è molto più articolata della struttura di un’opera di fantasia. La realtà spesso è più cruenta e sinistra della finzione."

Siamo nell’epoca dello spoiler ma anche dei commenti degli hater, avete ricevuto critiche?

"Sì, leggendo su Twitter, o sui social in generale ho notato come le poche critiche si siano concentrate sull’ampio spazio concesso alla figura di Matteo Accetti. Ma più dell’identità e del collegamento con i fatti - che comunque viene periziato da esperti - ci interessava tratteggiare un certo tipo figura: ossia l’uomo che ha preso parte attivamente al rapimento. Perché le persone, quali che siano i mandanti e le ragioni, non scompaiono nel nulla; e se vengono rapite, vengono rapite e custodite da qualcuno che sceglie nascondigli, tempi, riscatti e modo di comunicare con la famiglia. Accetti, De Petis, la sua ex amante Sabrina Minardi. Sono figure che ci aiutano a capire il mondo sotterrano di Roma e della Roma collegata al Vaticano.."

Perché esisterebbe anche un mondo sotterraneo in Vaticano? Un altro “mondo di mezzo”?

"Qui negli States lo chiamiamo “The roman underworld”, da non confondere con la mitologia o con le antiche origini etrusche, con la Roma sotterranea delle catacombe che costellano il sottosuolo come un mondo di mezzo. Ma come uno strato sedimentato di segreti, omissioni, fatti taciuti e occultamenti. In America si sta risvegliando un certo interessamento nei confronti del Vaticano che è comunque sempre stato scosso da piccoli scandali. Un interessamento che si è risvegliato soprattutto dopo lo scandalo dei cosiddetti VatiLeaks. Sapevi che la maggior parte delle proprietà immobiliari di New York appartengono al Vaticano? Il concetto espresso dal giornalista Emiliano Fittipaldi nella serie è una sintesi adeguata delle preoccupazioni di una città stato che “Non vuole si sappia quel che accade all’interno”."

Beh, il Vaticano è pur sempre uno Stato sovrano seppure nel cuore di Roma, la capitale di uno Stato sovrano che agirebbe nello stesso modo.. non trovi?

"Certo. Il Vaticano però è visto troppo spesso solo e unicamente come ente religioso e centro della Cristianità. Meno spesso come un ente politico con i suoi interessi e con il suo capo di Stato: il Papa. Al tempo Giovanni Paolo II, oggi beatificato, poteva essere al corrente di alcune informazioni rivelate solo in seguito da documenti ancora al centro dell’inchiesta. Che tu sia cattolico o meno, non puoi non riconoscere l’importanza oserei dire “universale” e il peso a livello internazionale dello Stato Vaticano. Questa Potenza e le sue “costole”, è stata scossa, al pari di altre potenze, da diversi scandali.. basta pensare al caso Spotlight."

Dobbiamo considerarlo come un attacco sofisticato al Vaticano?

"Assolutamente no. Dal punto di vista documentaristico noi vorremmo e dovremmo essere riusciti a risultare “super partes”. Motivo per cui molte teorie e molte informazioni che circolano ma non possono essere confermate, sono state completamente omesse. Non è leale muovere una congettura senza una prova solida in tuo sostegno. Tanto più perché sei in guardato in tutto il mondo."

Avete avuto contatti o diffide dalla Santa Sede?

"Nessuna diffida. Ma anche nessuna partecipazione o risposta. La produzione ha provato sia in maniera ufficiale che non ufficiale a contattare lo Stato del Vaticano per domandare se volessero essere parte attiva della serie. Non abbiamo ricevuto risposta. Solo un messaggio istituzionale, ricevuto molto tempo dopo la comunicazione, di cordoglio per l’accaduto e la speranza che si possa fare luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi."

Una risposta deludente?

Una risposta. Il nostro obiettivo, condiviso da Pietro Orlandi e sostenuto dall’esperienza di Andrea Purgatori, è sempre stato motivato dallo stesso desiderio: portare il caso Orlandi oltre i confini nazionali e sensibilizzare il mondo dalla vicenda che ha visto scomparire una giovane innocente e afflitto una famiglia priva di colpe. La speranza è quella di creare una sorta di pressione mediatica e spronare chiunque sappia qualcosa a parlare. A trovare il coraggio necessario come quello trovato dalla vecchia amica di Emanuela che ha rilasciato una testimonianza importante quanto inedita. Solo così, che venga trattato dalla tasca, da un vecchio magazzino, da una cassaforte o dai ricordi, si potrà entrare in possesso di un tassello decisivo per condurre gli investigatori alla verità.

Chi è il principale nemico della verità in questa storia?

"Il tempo. Il tempo è nemico della verità, e alleato di colui che la nasconde. Come ha detto Purgatori: “Ognuna delle teorie ha un granello di verità”. Ne servono ancora."

Finisce in questo punto la chiacchierata con Ferrari. Forse davvero chi possiede altri di questi granelli potrebbe consegnarli. Adesso è il momento di parlare, se si attende ancora troppo tempo, potrebbe essere troppo tardi. Anche se sono passati 39 anni, il caso non è chiuso. Lo sarà solo ed esclusivamente nel momento in cui sapremo quale è stato il destino di Emanuela e la sua famiglia, come ripete da una vita Pietro Orlandi, potrà posare un fiore sulla sua tomba. Se davvero è “in cielo” come ha asserito Papa Francesco. Sono notizie delle scorse settimane, ad esempio, la morte - naturale - di Giulio Gangi, agente Sisde che partecipò alla prima fase delle indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi prima di essere epurato; pare avesse fissato un appuntamento con un giornalista del Corriere della Sera che purtroppo non potrà essere portata a termine; come l’intenzione di Carlo Calenda - scosso proprio dalla visione della miniserie - di "chiedere al Ministro degli Esteri di attivarsi” per riportare l’attenzione sul caso Orlandi. Il tempo è nemico della verità, la sensibilizazzione alleata della ricerca. Lo abbia detto. Il caso Orlandi può aver l'effetto di una bomba, e come fossimo in una versione non conforme di Tenet di Nolan, nell'epicentro troviamo Pietro Orlandi, avvocati come Laura Sgrò e giornalisti come Emiliano Fittipaldi e Andrea Purgatori. Attori secondari quanto protagonisti di una storia tragica quanto vera, che si sono avvicinati più degli altri alla risoluzione del mistero. Sbattendo e risbattendo su di un muro di gomma che il giornalista conosce bene. Affacciarsi oltre il muro potrebbe equivalere a scoprire non solo chi ha messo la bomba, ma chi ha azionato il detonatore. Forse è tempo di renderlo possibile.

Da roma.repubblica.it il 9 dicembre 2022.

L'obiettivo secondo Marco Accetti, l'uomo che si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, era far sedere al tavolo delle trattative Santa Sede e Stato Italiano al fine di liberare il terrorista Mehmet Ali Agca che aveva attentato alla vita di Giovanni Paolo II, il 13 maggio 1981. 

Per esercitare questa doppia pressione era necessario sequestrare una cittadina vaticana, Orlandi (22 giugno 1983) appunto e una italiana, Gregori (7 maggio 1983). Entrambe le ragazze sarebbero state rapite anche grazie all'intervento, secondo Accetti, di Enrico De Pedis, uno dei boss della Banda della Magliana. 

Accetti, è necessario sottolinearlo, non è mai stato considerato attendibile dagli inquirenti. Lo stesso Pietro Orlandi dubita delle sue affermazioni. Secondo diversi investigatori l'uomo è a conoscenza di alcune piccole parti di verità.  

Ad ogni modo in un interrogatorio reso in procura meno di 10 anni fa spiega che  "a noi serviva una ragazza "vaticana" (Emanuela, figlia del messo pontificio, ndr) e una italiana (Mirella, appunto, ndr)". "Quindi cercammo una ragazza italiana, che non conoscesse la Orlandi né frequentasse lo stesso ambiente, per evitare che si pensasse che tra le ragazze si potesse essere verificata una collusione. Ma per dare un senso di unità tra le due persone la cercammo con le stesse caratteristiche fisiche e la stessa età. Tra molte ragazze individuate scegliemmo la Gregori per l'aspetto finanziario del padre e la temperatura caratteriale della stessa". 

"Una persona vicina all'imprenditore De Pedis si occupò autonomamente di soddisfare i bisogni economici del signor Gregori". A quanto pare l'uomo si era indebitato per aprire il locale. Ma non è mai emerso il fatto che si fosse indebitato con De Pedis.

"Noi non avremmo voluto che le due storie, Orlandi e Gregori, potessero assomigliarsi - spiega Accetti - per cui l'una "scappa" per una storia d'amore (Gregori) e l'altra deve aiutare il padre ricattato (Orlandi)". 

In pratica Mirella ed Emanuela, secondo la tesi di Accetti, sarebbero state convinte a restare fuori casa qualche giorno per "aiutare" i loro papà dal momento in cui entrambi erano in difficoltà: uno, Paolo Gregori, per i debiti del bar, e l'altro, Ercole Orlandi, per il presunto errore del messo pontifico nel controllare gli accessi alle messe del Papa, a causa del quale Agca si sarebbe avvicinato troppo a Wojtyla nella parrocchia di San Tommaso d'Aquino, solo tre giorni prima dell'attentato del 13 maggio 1981. In entrambi i sequestri sarebbero intervenuti De Pedis e la sua banda.

Il rebus di sangue e segreti. Scomparsa Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, sex-gate nelle stanze di Papa Wojtyla: l’audio inedito dell’ex-socio del boss De Pedis. Nicola Biondo su Il Riformista il 9 Dicembre 2022

Come fossimo al cinema anche qui andrebbe posta una dicitura, “vietato ai deboli di cuore e alle persone facilmente impressionabili”. Perché la finestra che stiamo per aprire va oltre l’immaginazione, è una folle sceneggiatura.

Il plot è quello della scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, le due adolescenti svanite nel nulla a poche settimane di distanza l’una dall’altra nella tarda primavera del 1983. L’ultima incredibile verità viene fuori da alcuni nastri, parte di una lunga intervista, in cui è incisa la voce di un malavitoso romano di spicco, socio in affari del boss della Banda della Magliana Renato De Pedis che in Vaticano aveva (eufemismo) non pochi appigli.

Secondo C.U. – le iniziali sono di fantasia, il Riformista conosce la sua vera identità- le due ragazze frequentavano gli appartamenti più riservati del Vaticano dove avrebbero subito molestie e rapporti sessuali con alti prelati. E’ per questo che dovevano scomparire. Ad avere avuto l’incarico sarebbe stato proprio De Pedis.

Quando la cosa era diventata una schifezza il Segretario di Stato Casaroli ha deciso di intervenire”, questa è l’esatta trascrizione di uno dei passaggi più importanti di una intervista datata 2009 in cui l’ex-socio di De Pedis rivela il movente della doppia sparizione.

Con questa verità non ci fate niente” lascia inciso il malavitoso all’autore dell’intervista Alessandro Ambrosini. E c’è un particolare ancora più agghiacciante, importanti uomini di Stato sapevano tutto, informati dallo stesso sodale del boss.

Nando [nome di un’esponente dei Servizi che sarebbe stato a conoscenza di tutti i particolari] a te ti trasferiscono, a me m’ammazzano”, dice raccontando di un incontro avuto con esponenti degli apparati di sicurezza e aggiunge chiosando, “questo è uno strano Paese, la verità non interessa a nessuno”.

Criminali comuni o terroristi? Se questa fin dall’inizio del mistero è stata la domanda- chi ha rapito Mirella ed Emanuela– la questione vera è sempre stata il movente: perché? Per quale motivo due adolescenti dovevano essere rapite, perché nelle trattative intercorse sono entrati emissari del Vaticano, perché Papa Wojtyla pochi giorni dopo fece un appello per la Orlandi, caso non raro ma unico nella storia del papato?

E perché mai nel corso di queste “trattative” non è mai stata chiesta una prova dell’esistenza in vita delle ragazze rapite?

Oggi questi nastri, testimonianza parziale di oltre quattro ore di intervista proveniente dagli interna corporis del vertice della Magliana, svelano il più incredibile dei moventi: le due ragazze sarebbero state fatte scomparire perché testimoni e protagoniste di un sexgate nelle stanze più riservate del Vaticano, in quel momento abitate da Papa Wojtyla che non sarebbe stato – sempre secondo il “magliaro” C.U. – all’oscuro della vicenda.

Ecco il passaggio preciso del nastro che il Riformista ha potuto ascoltare privo di censure: “Quando la cosa era diventata una schifezza il segretario di Stato [vicario del Papa Agostino Casaroli n.d.r.] ha deciso di intervenire”. “Non direttamente, sempre secondo la testimonianza, ma coinvolgendo “i cappellani del carcere di Regina Coeli”. I nomi  di battesimo di questi prelati sono rivelati in chiaro dall’ex-socio di De Pedis e quindi facilmente identificabili. Il Riformista, in accordo con Ambrosini, ha deciso di coprire particolari della vita privata del Pontefice polacco rivelati dall’ex della Magliana: particolari irriferibili ma sempre legati alla sparizione delle due adolescenti.

L’intervento, ossia il rapimento delle due adolescenti, sarebbe stato appaltato proprio a De Pedis. Ecco perché il boss ucciso nel 1990 sarebbe stato seppellito in una famosa basilica.

De Pedis è sepolto lì per grazia ricevuta”, dice l’ex-socio. Fu una telefonata alla trasmissione “Chi l’ha visto?” a consentire l’apertura della tomba di De Pedis, accanto a cardinali e nobili, alla chiesa di Sant’Apollinare nel cuore di Roma. Sabrina Minardi, amante e sodale del boss, certificò che quella nobile tumulazione  era dovuta al rapimento della Orlandi, un favore fatto al Vaticano su richiesta di un altro potente cardinale, Marcinkus, il deus ex-machina delle “sante finanze” Vaticane, legatissimo al Papa polacco. La Minardi, che C.U. non tiene in grande considerazione, interrogata a lungo si è prodotta in una serie di bugie che declassifica la sua testimonianza a poco più di una mezza calunnia.

I nastri

Era il 2008 quando l’ex socio di De Pedis incontra Alessandro Ambrosini rivelando la sua verità sull’intrigo vaticano. Rifiuta di essere ripreso ma la sua voce viene comunque registrata. Ambrosini, una vita spericolata tra il Veneto e la Sicilia, ex-attivista di peso nell’estrema destra e conoscitore dei codici che dai NAR sfociano in Mafia Capitale, diventa cronista di nera e gestisce un blog “Notte criminale” vera bibbia underground per i cultori della materia. Cosa lo ha spinto a tenere inedita per 14 anni questa storia lo spiega al Riformista e in un lungo video pubblicato sul suo sito.

Dal 2009 è cambiato molto nella comprensione di questa vicenda. Le ultime acquisizioni confermano il contesto che mi è stato raccontato. Non ultima la testimonianza di una amica della Orlandi che ha rivelato le confidenze ricevute direttamente da lei: era stata molestata all’interno del Vaticano”. Ambrosini sostiene anche di averne parlato con Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela che con la sua instancabile attività non ha mai smesso di cercare la verità: “Mi ha ringraziato”, dice Ambrosini. La scelta di non rivelare il nome dell’autore di queste sconvolgenti rivelazioni ha un motivo molto semplice: tutelare il teste, oggi in libertà, e permettere, se ci saranno, possibili indagini. La caratura del personaggio è senza dubbio di “livello”, certamente attendibile quando parla di De Pedis, attendibile quando parla dei suoi rapporti con apparati dello Stato. Tutto il resto sarà materia di indagine.

Il contesto

L’ipotesi che la Orlandi avesse subito molestie all’interno del Vaticano è stata adombrata da più parti, inchieste giornalistiche ma anche da qualche investigatore. Se poi questo fu uno dei tanti motivi che mise sotto ricatto il Vaticano da parte della Magliana ma anche di altri ambienti è troppo presto per dirlo. Di certo è che quelli furono gli anni di piombo della finanza in cui lo IOR vaticano e banchieri di mafia, Sindona e Calvi su tutti, trattavano affari miliardari e contribuivano a scrivere interi capitoli della storia della guerra fredda con i finanziamenti in chiave anti-comunista in Polonia e Sud America. Soldi macchiati di sangue: perché erano della mafia siciliana e della Magliana e chiunque si metteva in testa di svelare la trama affaristica -giornalisti, investigatori, banchieri- diventava un bersaglio da abbattere.

E’ in questo contesto che avvengono i rapimenti di Orlandi e Gregori sui quali il silenzio del Vaticano si perpetua, da Wojtyla a Papa Francesco. E chissà se il Vaticano di fronte a queste sconvolgenti rivelazioni sceglierà ancora una volta la politica della rimozione e dei silenzi, più volte denunciata da Pietro Orlandi, o si aprirà una pagina nuova di questo infinito rebus di sangue e segreti

L’audio editato e pubblicato da Alessandro Ambrosini su “Notte criminale”

PRIMO NASTRO

C.U: De Pedis è sepolto lì per grazia ricevuta, ma no per quello che dice quella pazza della Minardi.

AMBROSINI: Ma quanti soldi gli ha dato De Pedis per farsi…

C.U.: Ma lei sa chi era Casaroli lei? Quello veniva al riformatorio e ci portava la sigarette. Era pure… INCOMPRENSIBILE… il papa Wojtyla…

AMBROSINI: No ma andiamo…

AUDIO

C.U.: Chi gli ha salvato le chiappe è Casaroli. Casaroli non è intervenuto direttamente, ha fatto intervenire gli ex cappellani di Regina Coeli che portavano whisky, lettere, tutto quello che serviva, droga, all’interno del carcere. Quando è servito qualcosa a chi si sono rivolti?

AMBROSINI: Allora, però… facciamo.

C.U.: Wojtyla… AUDIO CENSURATO… pure insieme se le portava a letto, se le portava, non so dove se le portava, all’interno del Vaticano. Quando è diventata una cosa che ormai era diventata una schifezza, il segretario di Stato ha deciso di intervenire. Ma non dicendo a Wojtyla ‘ora le tolgo da mezzo’. Si è rivolto a chi? Lui essendo esperto del carcere perché faceva il cappellano al riformatorio, si è rivolto ai cappellani del carcere.

I cappellani del carcere uno era calabrese, un altro un furbacchione. Un certo Luigi, un certo padre Pietro, non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto ‘sta succedendo questo, ci puoi dare una mano?’. Punto. Il resto so tutte cazzate.

SECONDO NASTRO

C.U.: Ma le cose vere non si possono pubblicare. ADUIO CENSURATO… Il comandante dello… che era compare subalterno del generale del Sismi. Mi hanno portato a pranzo a Fiuggi, hanno tentato di… ‘dicci come stanno le cose’. Ho detto ‘senti Nando’ – si chiamava Nando – ‘che te dico? Se sapete la verità che ci fate? Non ci fate niente. Quella è morta, come la provi una cosa del genere, ti citano pure i danni.

AMBROSINI: Quello sicuramente…

C.U.: Io quando parlai con Nando a Fiuggi dissi ‘Nando non hai capito. A te ti trasferiscono, a me m’ammazzano, lascia perdere’. Purtroppo l’Italia è un paese strano.

Nicola Biondo

Da leggo.it il 5 dicembre 2022.

Il caso di Emanuela Orlandi potrebbe essere riaperto a distanza di quasi 40 anni grazie a un audio. Una registrazione di circa due minuti che risale al 2009 e che potrebbe aggiungere nuovi e decisivi dettagli sulla scomparsa della giovane ragazza avvenuta il 22 giugno del 1983. 

Dell'esistenza di questa registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico si sapeva già, scrive Il Giornale. L'autore di questa registrazione è Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale.

Chi parla è invece è rimasto anonimo, ma si pensa che si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana. L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni.

L'audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it ha avuto modo di ascoltarlo in anteprima. L'ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si lascia andare senza freni e, relativamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi, punta il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome. L'autore della registrazione, Alessandro Ambrosini, si è detto disposto a rivelare l'identità della fonte qualora fosse l'autorità giudiziaria a chiederglielo.

Da repubblica.it il 7 Dicembre 2022.

"Enrico De Pedis noi lo chiamavamo imprenditore". Nel rapimento di Emanuela Orlandi l'ex boss della Banda della Magliana, ebbe un ruolo di primo piano. E avrebbe nascosto la quindicenne cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983 a Roma, "prima a Villa Lante al Gianicolo e poi dopo qualche giorno in un camper vicino a Villa Streicht". 

A sostenerlo, in un verbale finora rimasto inedito, il controverso fotografo Marco Accetti che da tempo afferma di aver avuto un ruolo fondamentale in uno dei misteri più celebri d'Italia. E non solo. Accetti dice di essere stato protagonista anche della sparizione di Mirella Gregori sempre nello stesso anno.

Sentito più volte tra la primavera e l'estate del 2013 in Procura, Accetti definisce De Pedis "imprenditore". "Le due scomparse sono state organizzate nel tempo - viene spiegato nei verbali - selezionando le ragazze, facendole avvicinare da coetanee per conquistarne la fiducia". 

Il fotografo, si sottolinea nei verbali, poi "racconta nel dettaglio l'organizzazione della messinscena della sparizione delle ragazze e delle operazioni preliminari in cui erano coinvolte numerose persone, specialmente ragazze di cui si rifiuta di fare il nome coinvolgendo in quella di Emanuela Orlandi anche Enrico De Pedis che lui dice "noi chiamavamo l'imprenditore" e prelati qualificabili come officiali maggiori di seconda classe dei quali lo stesso non intende fare i nomi". [...]

Un altro tassello inedito dunque nel lungo mistero della cittadina vaticana a pochi mesi dal quarantennale della scomparsa. Negli ultimi giorni inoltre si è parlato di un audio shock che sta per essere svelato in cui un socio di De Pedis farebbe nomi e cognomi di persone coinvolte nel caso. E che potrebbero lambire il Vaticano. Tutto materiale che potrebbe controllare e approfondire in una commissione d'inchiesta parlamentare che pare possa essere presto istituita.

Emanuela Orlandi, spunta l'audio rubato: nomi e cognomi, si riapre il caso? Libero Quotidiano il 05 dicembre 2022.

Un audio potrebbe riaprire, dopo 40 anni, il caso di Emanuela Orlandi. Si tratta di una registrazione di circa due minuti che risale al 2009 e che potrebbe aggiungere nuovi e decisivi dettagli sulla scomparsa della giovane ragazza avvenuta in Vaticano il 22 giugno del 1983. Rivela Il Giornale che dell'esistenza di questo audio, registrato durante una conversazione in un luogo pubblico, si sapeva già da tempo. L'autore è Alessandro Ambrosini, fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale. La persona che parla è per ora anonimo ma si crede che possa trattarsi di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana.

L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare del caso di Emanuela Orlandi con i magistrati romani, fa delle puntualizzazioni.  

Nei prossimi giorni l'audio rubato sarà pubblicato dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it lo ha ascoltato in anteprima. L'ex socio di De Pedis, che non sa di essere registrato, parla apertamente della scomparsa di Emanuela Orlandi e in particolare di una persona, con tanto di nome e cognome. Alessandro Ambrosini ha detto di essere pronto a rivelare l'identità della persona che parla se l'autorità giudiziaria glielo chiedesse.

Emanuela Orlandi e la banda della Magliana. «Così il boss De Pedis partecipò al sequestro». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 6 Dicembre 2022.

Il verbale (inedito) di Marco Accetti sul prelevamento della ragazza davanti al Senato: "De Pedis le mostrò un tascapane con la lettera A di Avon... Poi se ne andò in moto".

Il sequestro di Emanuela Orlandi e la banda della Magliana. In queste ore in cui, grazie alle anticipazioni del blog “Notte criminale”, si è creata una certa attesa sui contenuti di un audio registrato nel 2009 – conversazione “rubata” e non ancora resa nota, nella quale un ex esponente della gang accuserebbe alti prelati – torna in primo piano il ruolo avuto nella vicenda dal boss Enrico De Pedis. Fu l’ex amante Sabrina Minardi, nell’inchiesta aperta nel 2008 dal procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, la prima a puntare il dito contro “Renatino”, mettendo a verbale di aver accompagnato in macchina “la ragazzina” ai piedi del Gianicolo, dopo aver percorso la “strada delle mille curve”, proprio su richiesta di De Pedis. Era l'estate 1983. La Minardi aggiunse di aver consegnato Emanuela nella piazzola di un benzinaio a un monsignore giunto su una berlina nera che indossava «una tonaca con i bottoncini davanti», e di aver sentito da “Renatino” che il rapimento era stato organizzato per riavere indietro i soldi consegnati al Vaticano attraverso lo Ior di Marcinkus. 

Minuto per minuto. Ebbene, questa “verità” (duramente contestata dalla Santa Sede) era nota. Ma negli atti giudiziari non c’è soltanto lei, la femme fatale. Anche un altro indagato dell’inchiesta di Capaldo (chiusa nel 2015 con l’archiviazione voluta dal suo superiore, il procuratore Pignatone) ha attribuito a De Pedis un ruolo operativo molto importante. Marco Accetti, l’uomo che nel 2013 consegnò il flauto riconosciuto dalla famiglia come quello di Emanuela e la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti, ha infatti chiamato in causa molte volte “Renatino” nel suo memoriale di autoaccusa, che contiene una ricostruzione minuto per minuto del sequestro di Emanuela davanti al Senato. Si tratta di un documento inedito, tuttora custodito in Procura, che oggi assume interesse anche alla luce della credibilità che si è guadagnata lo stesso Accetti la scorsa estate, allorché il pm Erminio Amelio ha disposto l’apertura della tomba di Katy Skerl (una 17enne assassinata nel 1984, delitto collegato al caso Orlandi) e verificato che effettivamente la bara era stata rubata, così come era stato rivelato con largo anticipo dall’ “uomo del flauto” (peraltro coinvolto anche nella morte di Josè Garramon, qui la recente intervista del Corriere alla mamma del piccolo). Eccolo dunque, il boss De Pedis in azione il 22 giugno 1983, così come descritto da Marco Accetti. Va premesso che il fotografo oggi 67enne si è autoaccusato del sequestro, affermando di essere stato ingaggiato da un gruppo di religiosi (il cosiddetto “ganglio”) interessati da un lato a contrastare la linea fortemente anti-comunista di papa Wojtyla e dall’altro a chiudere con un accordo la partita finanziaria (disastrosa per il Vaticano) legata al crak del Banco Ambrosiano. Il memoriale, prima di illustrare la scena all’uscita dalla scuola di musica di Sant’Apollinare, inquadra il coinvolgimento di “Renatino” nei tragici fatti di quei primi anni Ottanta.

Antefatto: la morte di Calvi. «Dopo la morte del Presidente dell’Ambrosiano Calvi – scrive Accetti nel documento secretato dalla Procura - venne meno la compattezza di quell’ insieme di persone che a lui prestava fondi da destinare a Solidarnosc, e fu quindi agevole convincere il signor De Pedis a collaborare con noi. L’interesse del sig. De Pedis sarebbe stato quello di recuperare quanto prestato al Dott. Calvi, ma a questa operazione si sarebbe opposto Mons. Marcinkus. Questo si fece presente all’imprenditore, che era necessaria la rimozione del Monsignore o la sconfitta della sua linea politica…» Emanuela, in questo scenario, sarebbe stata presa in ostaggio con un movente “multiplo”, nell’ambito delle tensioni sui finanziamenti alla Polonia e la malagestione delle finanze della Santa Sede. Da questo momento Accetti nomina De Pedis con un certo timore reverenziale, definendolo “l’imprenditore”. Ed ecco cosa sarebbe accaduto alla sventurata Emanuela nel pomeriggio del 22 giugno 1983, in due fasi: prima della lezione di musica, attorno alle 16.30, e dopo, dalle 19… 

L’amica complice del Convitto.  «La partecipazione dell’imprenditore – scrive Accetti - fu compartimentata da ogni ambiente che lo stesso fosse uso frequentare. Gli chiedemmo di usare un numero esiguo di persone a lui vicine… Avevamo già avvicinato la Orlandi ed eravamo d’accordo… Sarebbe dovuta pervenire dal Palazzo di Giustizia, cosa che sorprendentemente non fece, imbattendosi nella compagna dell’Istituto Convitto Nazionale, che stazionava in Corso Rinascimento, la quale la corresse indirizzandola a percorrere l’interno di piazza Navona per poi riprendere Corso Rinascimento dalla parte opposta». Il gruppo di rapitori, quindi, era riuscito a conquistarsi la fiducia di un’amica di scuola? Cosi pare… «La Orlandi si fermò alcuni metri prima del punto prefissato giorni prima per l’appuntamento, al centro della strada che mette in comunicazione Corso Rinascimento con piazza Navona (corsia Agonale, ndr). La Bmw, parcheggiata in doppia fila nel tratto che va dal Senato a Corso Vittorio Emanuele II, e nel vedere la ragazza avanza e sterzando a sinistra va ad accostarsi contromano e in doppia fila al centro della suddetta stradina. Questa manovra, con un’autovettura inconsueta e dal colore sgargiante (verde tundra, secondo le successive testimonianze, ndr), serviva ad attirare l’attenzione di quanti stazionavano innanzi al Senato. La nostra intenzione era che si potesse produrre un identikit al fine di far credere che il sequestro fosse opera della criminalità romana...» 

L’incontro e le foto. Il presunto contatto De Pedis-ostaggio è così descritto: «L’imprenditore scende dalla macchina, indirizzandosi verso il marciapiede, e contestualmente la ragazza avanza sul marciapiede verso di lui, ed entrambi simulano un incontro su appuntamento. L’imprenditore le mostra, estraendo dall’interno di un tascapane alcuni prodotti cosmetici avvolti nella loro confezione. Il tascapane azzurro doveva ricordare l’aeronautica italiana, in quanto alcuni membri della stessa collaboravano con la parte a noi avversa. La “A” posta sul tascapane, oltre a ricordare per l’appunto l’Aeronautica, doveva rammentare la società Avon…»

E lui, Accetti? Si posiziona così sulla scena, affermando di essersi vestito e acconciato in modo da somigliare a “Renatino”… «Io ero già posizionato nei pressi di un vestigio – piedritto dello Stadio di Domiziano, e al momento del suddetto incontro fuoriuscii e, simulando di fotografare la ragazza tedesca con la quale ero arrivato, ripresi in realtà la Orlandi e l’imprenditore. Io e la ragazza tedesca eravamo vestiti in guisa di turisti, ma io, sotto un leggero giubbotto, recavo gli stessi abiti indossati dall’imprenditore, ed anche sotto un leggero cappellino a visiera riportavo i capelli con lo stesso taglio e pettinatura del signor De Pedis. Questo per sostituirmi rapidamente a lui nella eventuale necessità che la sua persona potesse essere stata individuata ed in pericolo. Nella stessa misura precauzionale, un motociclista era posizionato circa 50 metri nella direzione di Corso Vittorio Emanuele II e si sarebbe azionato per prelevare l’imprenditore in caso di estrema necessità…». Scattate le foto, Emanuela si dirige verso il complesso di Sant’Apollinare… «Al termine del breve colloquio la ragazza si indirizzò verso la scuola ed anche l’imprenditore percorse la stessa direzione, andandosi a parcheggiare innanzi all’altra piccola strada che collega piazza Navona e la via che conduce verso Palazzo di Giustizia. Consegno il rullino non interamente utilizzato all’imprenditore, che sale a bordo della moto, condotta da colui che in caso di necessità estrema lo avrebbe dovuto prelevare e si allontana…»

Sono quasi le 17: prima fase conclusa. «La Orlandi entrò nella scuola e tutti noi ci allontanammo». La ricostruzione si sposta ora alle 19, ora in cui Emanuela, finite le lezioni di flauto e canto corale, fa l’ultima telefonata a casa, quella in cui racconta di aver ricevuto una proposta di lavoro (da 375 mila lire in un pomeriggio) per la Avon. Accetti insiste nel far notare che quel pomeriggio i genitori di Emanuela non erano a casa (effettivamente si trovavano a Fiumicino, da parenti) non per caso… «Nell’abitazione della Orlandi – prosegue il memoriale - non doveva trovarsi alcun membro della famiglia, ma ci arrivò la segnalazione della ragazza dell’Associazione Cattolica (una seconda amica-complice, ndr) la quale ci avvertiva dell’imprevista presenza nella casa di una delle sorelle. L’assenza dei genitori avrebbe dovuto significare che il padre Ercole aveva accettato la nostra proposta, e non si faceva trovare nell’abitazione per non dover opporre il diniego ad Emanuela quando costei, telefonando, avrebbe fatto presente della sua possibile collaborazione con la Avon. Riuscimmo a comunicare alla Orlandi tramite una compagna di scuola di musica, già in rapporto con noi, di dire alla sorella, che avrebbe risposto al telefono i codici "Avon" e "375"». 

I messaggi in codice della telefonata. «Il progetto originale, prevedeva che in casa non vi fosse nessuno e la Emanuela dopo la telefonata avrebbe dovuto comunicare alle compagne che essendo i genitori assenti chiedeva consiglio alle stesse riguardo l’accettare o meno la proposta di lavoro. Per cui i codici sarebbero stati comunicati alle compagne attraverso il racconto dell’incontro con l’uomo Avon. La Orlandi avrebbe dovuto dire alle ragazze di aver già conosciuto nel passato l’uomo Avon presso un defilèe delle Sorelle Fontana tenutosi nella Sala Borromini. E che l’incontro avuto con lui nelle ore precedenti era concordato con appuntamento. La cifra di 375000 lire, che per la sua esagerazione doveva generare un senso di allarme e improbabilità, era, anagrammandola, la data della prima apparizione della Madonna di Fatima: 13-5-1917…» 

Entra in gioco il Sismi. I codici, in questo scenario, servivano agli organizzatori del sequestro per "dialogare" sottotraccia con ambienti ecclesiali. Così come lo sarà il 158, codice imposto dai rapitori per le telefonate riservate in Vaticano, e poi spiegato come anagramma di 5-81, data e mese dell’attentato di due anni prima al papa… «Il codice "Sorelle Fontana" della telefonata significava l’abitazione di Mons. Celata posta un portone prima della sede dell’atelier, presso il Collegio San Giuseppe Istituto De Merode (in piazza di Spagna, lo stesso in cui Accetti frequentò le scuole medie, ndr). Questo Monsignore era stato incaricato, con altri, di svolgere alcune iniziative tese ad ottenere l’allontanamento di Mons. Marcinkus dal compito che svolgeva come presidente dell’Istituto Opere di Religione. Tra tali iniziative intraprese vi fu anche quella di ottenere tale risultato attraverso una collaborazione con il Servizio d’Informazione della Sicurezza Militare (Sismi), condotto dall’allora Dott. Santovito, con l’ausilio del Dott. Francesco Pazienza. "Sala Borromini" significava l’abitazione del Dott. Pazienza posta nell’immediata vicinanza di piazza dell’Orologio, laddove si diceva che costui incontrasse persone vicine al signor De Pedis. Per cui il codice composito significava: una sfilata – azione di Mons. Celata con il Dott. Pazienza, nel senso che da questo connubio si otterrà un risultato contro la politica dell’Istituto Opere di Religione…» Passati in rassegna i codici, rieccoci alla scena del 22 giugno… 

All’uscita dalla scuola di musica. «L’appuntamento – continua il memoriale - era per le ore 7 pomeridiane nuovamente di fronte al Senato e ci sarebbe dovuto essere l’imprenditore, ma sapevamo a priori della presenza a quell’ora a piazza Navona del commissario Stella, del primo distretto, che ben conosceva il volto del signor De Pedis, per averlo visto, questo a noi risultava ma con beneficio d’inventario, in tempi precedenti a colloquio con l’allora dirigente dello stesso distretto, vicequestore Dott. Pompò. Per cui a prendere la Orlandi si avvicina la sua compagna d’istituto del Convitto (la famosa ragazza con i capelli ricci notata in zona ma mai individuata, ndr), che nel primo incontro del pomeriggio tra la Orlandi e l’imprenditore, doveva mantenersi distante per non vedere in viso l’imprenditore, in quanto sarebbe stata una ulteriore testimone contro il signor De Pedis ed al tempo stesso, nel caso in futuro avesse preso conoscenza della reale identità di quella persona, avrebbe potuto temere per la propria incolumità in quanto testimone. La Orlandi e la compagna si avviano, attraversando Corso Rinascimento, in direzione Corso Vittorio Emanuele II, e si fermano all’imboccatura di una stretta via che immette in piazza Navona (corsia Agonale, ndr). E da questa ne esce una Mercedes, non ricordo se blu scura o nera, con targa posticcia riconducente allo Stato Città del Vaticano...» 

Il prelevamento. Suspence. E’ questo, secondo l'autore del memoriale, il momento del prelievo: «Le ragazze salgono a bordo nel sedile posteriore e la macchina si avvia molto lentamente, sfilando innanzi al Senato, con la Orlandi ben visibile al finestrino posteriore, nella speranza che possa essere notata, dal personale che ivi stazionavano. L’autovettura arriva davanti a Porta Sant’Anna, le due ragazze scendono. La Orlandi entra all’interno e la ragazza del Convitto la aspetta all’esterno della stessa porta…» Da questo momento Accetti spiega che  Emanuela sarebbe rientrata per qualche minuto in Vaticano, per farsi vedere da qualcuno, e poi, sempre sotto la “scorta” dei suoi rapitori, sarebbe stata condotta in una casa religiosa, Villa Lante della Rovere, ai piedi del Gianicolo, dove avrebbe trascorso la prima notte… 

L'intoppo sullo Ior, Emanuela trattenuta. «L’indomani – così si conclude questa parte del memoriale - pur essendo già in possesso della copia della denuncia, ci giunse notizia che la Commissione Bilaterale, voluta dal Segretario di Stato Card. Casaroli e composta anche da personalità appartenenti alla Repubblica Italiana per indagare sulle gravi discrasie economiche verificatesi all’interno dell’Istituto Opere di religione (Ior), non avrebbe consegnato, così come da impegno preso, il proprio parere il 30 giugno 1983. E non si conoscevano le reali motivazioni di tale rinvio. A tal’uopo si decise di trattenere la ragazza, la cui “scomparsa” si poteva “gestire” anche in rapporto a tale possibile necessità…”». Siamo tornati, quindi, al movente "multiplo”… Un sequestro ideato come temporaneo, da far durare pochi giorni e nato come un allontanamento volontario da casa (è indubbio che la ragazza cadde ingenuamente in un tranello), con il precipitare degli eventi crebbe di mese in mese, allarmando l'opinione pubblica mondiale, e si trasformò nell'intrigo più torbido e inquietante di fine Novecento. E questo è un fatto. Le altre verità dell’uomo del flauto, figlio di massone, cresciuto in ambienti di chiesa, frequentatore di estremisti di destra e di ambienti del partito radicale (forse a scopo di copertura), sono contenute negli altri capitoli del memoriale. In tutto 103 mila battute alle quali aggiungere 4 allegati, per un totale di oltre 60 cartelle, tuttora blindate negli armadi di Piazzale Clodio. (fperonaci@rcs.it)

"Contenuto sconvolgente". Emanuela Orlandi, spunta audio segreto di un ex sodale di De Pedis: “Dettagli che possono cambiare tutto”. Riccardo Annibali su Il Riformista il 5 Dicembre 2022

Una registrazione avvenuta all’insaputa di chi stava parlando e forse proprio per questo una vera e propria confessione con nomi e cognomi fatta da un sodale di Enrico De Pedis (boss della Banda della Magliana) che lancia accuse pesantissime verso il Vaticano. Il racconto catturato da un microfono clandestino da Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d’inchiesta Notte Criminale, potrebbe spalancare una porta nel caso di Emanuela Orlandi, scomparsa quasi 40 anni fa, che ha ritrovato nuovo interesse dopo la chiaccheratissima docu-serie firmata Netflix Vatican girl .

Dell’esistenza di questo nastro alcuni erano già a conoscenza, si tratta di una registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico. Ambrosini ha tenuto il suo interlocutore anonimo, ciò che si conosce invece sono i suoi contatti giovanili: si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana, il ‘Dandy‘ delle trasposizioni film e tv. L’uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di ‘Renatino’, che dall’anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni che però ad oggi ancora non si conoscono.

Il contenuto dell’audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni sul blog, ma il Giornale ha avuto modo di “ascoltarlo in anteprima” e sul loro sito si legge: “Possiamo affermare che, sebbene le affermazioni registrate in questo audio siano da prendere con le pinze, il contenuto delle stesse è sconvolgente”. L’ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si sarebbe quindi lasciato andare senza freni con rivelazioni sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, puntando il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome.

Servizi segreti, la crisi del Banco ambrosiano, sulle ragioni di questa sparizione sono state fatte migliaia di ipotesi. Solo dopo che la vicenda è finita sugli schermi di milioni di persone, in un momento in cui si vocifera della possibilità di istituire una Commissione d’inchiesta parlamentare, la registrazione avvenuta nel 2009 (a distanza di 14 anni) sta per essere resa pubblica da Ambrosini che – riporta il Giornale – promette di fare chiarezza in un video che verrà girato contestualmente alla pubblicazione dell’audio. Quali saranno le reazioni di fronte ad accuse pesantissime anche se tutte da dimostrare, ma che se si rivelassero fondate, genererebbero un terremoto di proporzioni catastrofiche all’interno del Vaticano? Riccardo Annibali

Quell'audio choc su Emanuela Orlandi: perché può cambiare tutto. Gianluca Zanella il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In una registrazione del 2009 un sodale di Enrico De Pedis lancia accuse pesantissime verso il Vaticano. L'autore di queste accuse è per ora anonimo, ma qualcuno potrebbe chiedergli conto di queste affermazioni

Da quando la docu-serie Vatican girl è sbarcata su Netflix, un rinnovato interesse si è acceso attorno alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Un interesse in realtà mai sopito, perché - a distanza di quasi 40 anni [Emanuela scompare da casa il 22 giugno del 1983, ndr] - quello della giovane cittadina vaticana è entrato nell'Olimpo dei misteri d'Italia.

Servizi segreti di mezzo mondo, la crisi del Banco ambrosiano, ritorsioni legate a motivazioni indicibili. Sulle ragioni di questa sparizione è stato detto di tutto e di più, ma la verità è che, in tanti anni, tutte le piste si sono risolte in un nulla di fatto. Eppure, in un momento in cui la vicenda è finita sugli schermi di milioni di persone, in un momento in cui si vocifera della possibilità di istituire una Commissione d'inchiesta parlamentare, qualcosa sembra tornare a muoversi. Ed ecco che riaffiora un audio. Una registrazione di circa due minuti che risale al 2009.

Dell'esistenza di questa intervista si sapeva già, ma erano in pochi ad averla ascoltata. Chiamarla intervista è inappropriato, si tratta di una registrazione effettuata di nascosto durante una conversazione in un luogo pubblico. L'autore di questa registrazione è Alessandro Ambrosini, il fondatore del blog d'inchiesta Notte Criminale. Chi parla è invece è rimasto anonimo, ma sappiamo che si tratta di un vecchio sodale di Enrico De Pedis, uno dei capi storici della banda della Magliana. L'uomo, riferendosi alle dichiarazioni di Sabrina Minardi, ex compagna di Renatino, che dall'anno precedente aveva iniziato a parlare con i magistrati romani relativamente al caso Orlandi, si sente in dovere di fare alcune precisazioni.

L'audio rubato sarà pubblicato nei prossimi giorni dall'autore della registrazione sul suo blog, ma IlGiornale.it ha avuto modo di ascoltarlo in anteprima. Senza fare troppe anticipazioni [torneremo a scriverne più approfonditamente dopo la pubblicazione, ndr] possiamo affermare che, sebbene le affermazioni registrate in questo audio siano da prendere con le pinze, il contenuto delle stesse è sconvolgente.

L'ex socio di De Pedis, inconsapevole di essere registrato, si lascia andare senza freni e, relativamente alla scomparsa di Emanuela Orlandi, punta il dito verso una persona in particolare, facendone nome e cognome. Lo ripetiamo, sull'attendibilità della fonte non abbiamo la possibilità di mettere la mano sul fuoco, ma l'autore della registrazione, Alessandro Ambrosini, si è detto disposto a rivelarne l'identità qualora fosse l'autorità giudiziaria a chiederglielo.

Sul perché solamente a distanza di 14 anni abbia deciso di rendere pubblica questa registrazione, Ambrosini promette di fare chiarezza in un video che verrà girato contestualmente alla pubblicazione dell'audio. Non ci resta a questo punto che attendere, curiosi di sapere quali saranno le reazioni di fronte ad accuse pesantissime che, ovviamente, sono tutte da dimostrare, ma che se si rivelassero fondate, genererebbero un terremoto di proporzioni catastrofiche all'interno del Vaticano.

Emanuela Orlandi e il caso Garramon. La madre di Josè: «Mio figlio vittima del Piano Condor». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera l’1 Dicembre 2022

Per la prima volta la mamma del bambino ucciso nella pineta di Castel Fusano nel 1983 indica la pista politica: «Marco Accetti pedina della massoneria. Mio figlio scelto per ritorsione contro me e mio marito»

È uno dei gialli collegati alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Una tragedia ambientata nella pineta di Castel Fusano, pochi mesi dopo la sparizione della «ragazza con la fascetta». Erano le 19 del 20 dicembre 1983 quando Josè Garramon, 12 anni, nazionalità uruguayana, figlio di un funzionario delle Nazioni Unite (morto lo scorso luglio), fu travolto e ucciso da un furgone Ford Transit, nella pineta tra Roma e il mare. L'uomo al volante, Marco Accetti, non spiegherà mai perché era lì. Trent'anni dopo, all'indomani dell'elezione di papa Francesco (2013), si autoaccuserà di aver partecipato al sequestro Orlandi (qui la ricostruzione completa). E adesso, per la prima volta, la mamma di quel bambino bellissimo, Maria Laura Bulanti in Garramon, getta un faro di luce inedita sulla vicenda e, di conseguenza, sui misteri collegati.  

Dica, signora. 

«La verità è che hanno chiesto a questo Marco Accetti di spaventarci, ma la situazione, da perfetto idiota qual è, gli è sfuggita di mano. Se penso a come è finita, con la morte di mio figlio, mi sale una rabbia... Non mi rassegnerò mai...» Sono parole pesanti, inedite. La madre di Josè non è mai stata tanto netta nell'indicare come movente della tragedia che l'ha colpita la pista politica, legata alle tensioni innescate sullo scacchiere geopolitico dell'epoca dai regimi latinoamericani degli anni Settanta. Una pista che integra quella a sfondo sessuale (l'adescamento di minori da parte dell'investitore, all'epoca 28enne) e potrebbe rivelarsi risolutiva anche per chiarire definitivamente il caso Orlandi.

Signora, spieghi meglio. Da chi sarebbe stato ingaggiato Marco Accetti, l'uomo che provocò la morte di Josè? 

«Va fatta una premessa. Il 1983 è stato un periodo terribile nel nostro Paese, l'Uruguay. C'era il Piano Condor, l'alleanza delle polizie segrete delle dittature del Centro e Sud America contro tutti gli oppositori. Io e mio marito Carlos eravamo convintamente democratici, denunciavamo i crimini, ci schieravamo con le vittime perseguitate, gli scomparsi... » 

E dunque, signora? 

«Hanno chiesto a questo Accetti di spaventarci ma, come prevedibile, dato che era un vero idiota e al tempo stesso depravato, invece di limitarsi a metterci paura la situazione gli è sfuggita di mano. E ha finito per uccidere il mio bambino. Perché Jose era estremamente intelligente e quando ha visto il pericolo è scappato».

Lei dice «hanno chiesto» a Marco Accetti... A chi si riferisce in particolare?  

«Alla P2, che è stata protagonista dell'horror. Alla famiglia Ortolani, a Licio Gelli... Accetti era un deficiente nelle mani di suo padre, che faceva parte della massoneria, e dei suoi amici. Mio marito era un giovane promettente nella sua carriera (Carlos lavorava a Roma all'Ifad, agenzia Onu per i progetti agricoli, ndr) ed era molto sensibile, impegnato contro le ingiustizie. Noi ci eravamo trasferiti in Italia negli anni '80, ma tenevamo i contatti con il nostro Paese. Eravamo chiaramente di sinistra, contro i dittatori. Questa la spiegazione. Ho sempre avuto il sospetto che la P2 abbia giocato un ruolo importante e che Accetti sia stato usato come pedina»

La signora si ferma qui. «La mia speranza resta sempre quella di arrivare alla verità. Ci sono molti dettagli da approfondire di cui vorrei parlare a lungo», conclude. 

Sono dichiarazioni per certi versi sconvolgenti, che tratteggiano uno scenario nuovo, fondato su non pochi elementi di riscontro. Al di là dell’ipotesi mai dimostrata di un'aggressione sessuale da parte di Accetti, infatti, la fine del dodicenne uruguayano è sempre rimasta oscura. Primo punto: non si è chiarito come Josè fosse finito nella pineta. Quel pomeriggio del 20 dicembre 1983, meno di un'ora prima, il ragazzino era all'Eur, dal barbiere. Fu l'uomo che lo investì (e 30 anni dopo consegnerà il flauto riconosciuto dagli Orlandi come quello di Emanuela) a caricarlo con una scusa e portarlo a Castel Fusano, venti chilometri più giù, verso il mare? La Procura di Roma, pur avendo alla fine prosciolto Accetti sul caso Orlandi, ne è sempre stata convinta. Il mortale investimento, tra l'altro, avvenne a poca distanza dalla casa di un esponente della banda della Magliana. Seconda domanda: perché prendere di mira il ragazzino con i capelli a caschetto? La madre della giovanissima vittima adesso, per la prima volta, parla espressamente di una possibile azione di ritorsione rivolta al marito e a lei «per spaventarci». Un altro dato obiettivo è rappresentato dal fatto che il padre di Marco Accetti, Aldo, fosse effettivamente massone, iscritto alla Loggia mediterranea. I promotori dell'operazione Condor, il coordinamento segreto tra le intelligence delle dittature militari di Argentina, Bolivia, Brasile, Cile, Paraguay e Uruguay, favorito dalla Cia, avevano "sponde" a Roma e tra queste anche Accetti senior?

Carlos Garramon, inoltre, al processo in Corte d'assise si costituì parte civile, sostenendo l'ipotesi iniziale di omicidio volontario (poi derubricato in colposo, aggravato dall'omissione di soccorso), né va sottovalutato quanto Maria Laura Bulanti qualche anno fa ha raccontato davanti alle telecamere Rai. «A Montevideo avevamo la casa confinante con la villa di Licio Gelli - ha detto - e spesso capitava che José scavalcasse la recinzione per andare a giocare nel giardino vicino, con un amichetto. Una volta lo vidi tornare e gli chiesi perché lo faceva e lui mi rispose: sto cercando il tesoro di Gelli... Mi arrabbiai moltissimo, dissi a mio figlio di non farlo più, perché era pericoloso». 

Un "gioco" davvero strano, per un bambino: evidentemente Josè aveva sentito parlare delle famigerate liste del Venerabile in casa, dai suoi genitori convinti democratici e nemici della massoneria. «È un episodio che ho raccontato perché è vero - conferma adesso la donna - noi chiaramente davamo fastidio». Gli indizi che rafforzano il legame del giallo Garramon con il caso Orlandi (e di conseguenza anche con quelli di Mirella Gregori e Katy Skerl), insomma, non mancano. Accetti, le cui frequentazioni di ambienti di destra sono dimostrate, uscendo allo scoperto nel 2013 e dichiarando in Procura di essere stato ingaggiato da un "ganglio" filo comunista, a difesa del dialogo Est-Ovest, compì in realtà un depistaggio? La sua autodenuncia come rapitore della Orlandi (supportata da numerosi indizi) all'indomani dell'elezione di un pontefice non curiale come Bergoglio era finalizzata ad accreditare una matrice dell'azione opposta a quella reale, di marca filo-occidentale? Anche la convinta solidarietà di papa Francesco alla signora Garramon, già ricevuta due volte in udienza privata in Vaticano, alla luce delle novità emerse potrebbe acquisire ulteriore significato. (fperonaci@rcs.it)

Emanuela Orlandi e il giallo di Alessia Rosati, scomparsa nel 1994. L’amica: «Aveva una relazione con “il Bugia”». Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 29 Novembre 2022

Nuovi testimoni nell’inchiesta riaperta dalla Procura sulla scomparsa della giovane di Montesacro. La pista dell’estrema sinistra: «Forse si trasferì in Sud America»

C’è una testimonianza che racconta molto sulla scomparsa di Alessia Rosati, la 21enne romana uscita di casa, in via Val di Non, a Montesacro, il 23 luglio 1994, dicendo ai genitori che andava ad assistere all’esame di un’amica e mai più tornata. Uno dei tanti cold case romani senza apparente soluzione, sul quale però dal 2017 la Procura di Roma, nella persona della pm Alessia Miele, è tornata a indagare. Tra gli obiettivi della nuova inchiesta c’è anche la verifica del possibile coinvolgimento di Marco Accetti , l’uomo che si è autoaccusato del sequestro di Emanuela Orlandi (qui la ricostruzione completa) e che nel 2015, all’indomani dell’archiviazione del fascicolo sulla «ragazza con la fascetta», pubblicò una serie di post nel suo blog (uno dal titolo «L’altra Emanuela»), sostenendo di aver conosciuto Alessia e di sapere con certezza che fu «allontanata da casa» allo scopo di «fare pressioni contro elementi del Sisde», all’epoca coinvolti nel maxi-scandalo sui fondi neri.

L’ultima novità è in una deposizione a Piazzale Clodio: la stessa amica che la studentessa di Lettere di Montesacro incontrò prima di dissolversi nel nulla, ha fornito alla Procura numerose indicazioni, nell’ambito della nuova inchiesta, per fare luce sul mistero. E ha indicato anche personaggi precisi. Nel mirino soprattutto gli ambienti dell’estrema sinistra: «Io e Alessia eravamo accomunate da una grande passione per la lettura e la cultura - ha detto - e spesso ho frequentato insieme a lei centri sociali tipo Forte Prenestino e Villaggio Globale. Parlavamo anche di politica, passione più di Alessia, che era attiva in Autonomia Operaia e frequentava le cosiddette Aulette blu all’università La Sapienza...» Rapporti più precisi? Eccone due, mai emersi: «Sicuramente Alessia aveva avuto una relazione sentimentale con tale Bugia, che frequentava gli stessi centri sociali ed era politicamente molto attivo. Ha avuto una storia anche con uno dei componenti della banda Ak47, che spesso suonava al centro sociale di v ia Val Padana». Altra domanda: droghe? «Sicuramente canne. In un’occasione Alessia mi riferì di aver assunto qualcosa di più forte...» Fatti strani o indizi precedenti la scomparsa? «Suo padre mi disse di aver ricevuto una telefonata da un soggetto che gli riferì che Alessia picchiava e faceva picchiare...» Un fatto inedito, che si aggiunge alla telefonata choc arrivata a suo tempo dalla famiglia, da uno sconosciuto secondo il quale la ragazza stava «malissimo».

Ebbene, alcune delle novità sono di non poco conto. Intanto il presunto ruolo della giovane scomparsa in raid o pestaggi, forse legati a una militanza particolarmente vibrante, collocabile in un’area intermedia tra passione politica e illegalità. E poi spuntano possibili testimoni ben informati. In un successivo passaggio della sua deposizione, al momento di ricostruire la mattina della scomparsa e le successive ricerche, la stessa amica ha rivelato: «Ricordo di aver cercato Alessia in via dei Volsci, dove c’era Radio Onda Rossa, e forse anche alle Aulette blu. In un’occasione, sempre dopo la scomparsa, incontrai Il Bugia al centro sociale Brancaleone, gli chiesi se sapesse qualcosa di Alessia ma lui con fare vago si allontanò senza neanche rispondermi». Un’ulteriore possibile pista mai venuta alla luce e ora finita agli atti riguarda la possibile destinazione della scomparsa: «Non posso escludere che Alessia possa aver deciso di allontanarsi da casa senza dire nulla ai genitori per trasferirsi in Sud America, che catturava molto il suo interesse visto che era stata la patria di importanti esponenti politici». Sono dichiarazioni che aprono scenari finora rimasti sottotraccia. La 21enne di Montesacro volatilizzata - e ancora viva - sulle tracce di Che Guevara o Simon Bolivar? Altra domanda: Il Bugia è stato già individuato dalla Procura? Se ascoltato come testimone, potrebbe fornire elementi utili? Ancora: la stessa amica sa forse di più? Va ricordato che, all’epoca della prima inchiesta, fu accusata di «dichiarazioni mendaci a pubblico ufficiale», in quanto non raccontò che il 23 luglio verso mezzogiorno fu lei ad accompagnare Alessia a casa in via Val di Non (notate da un vicino), probabilmente per prendere qualche oggetto.

Nuove piste e tanti approfondimenti, insomma, per una scomparsa tornata d’attualità, così come l’omicidio di Katy Skerl (gennaio 1984), anch’esso collegato al caso Orlandi dopo la sorprendente scoperta, lo scorso luglio, che la bara della ragazza è stata trafugata, probabilmente da finti addetti del cimitero Verano. In tempi recenti, sull’enigma Rosati, è arrivato anche il contributo di una grafologa giudiziaria del tribunale di Roma, Monica Manzini, secondo la quale la lettera che Alessia inviò all’amica subito dopo essere sparita «non fu scritta sotto minaccia», in quanto mancano evidenze come «segni di incertezza o tremori» e piuttosto, al contrario, la grafia evidenza «desiderio di indipendenza e di bruciare le tappe». Verso dove? Una morte ormai messa nel conto dalla famiglia, considerato l’enorme lasso di tempo trascorso senza neppure una telefonata, oppure un’incredibile seconda vita da qualche parte nel mondo?

Giugno 1983, movente multiplo per il sequestro di Emanuela Orlandi, finita nel buco nero dei misteri vaticani. Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 19 Novembre 2022.

La figlia quindicenne del messo pontificio un giorno d’estate di quasi 40 anni fa sparì nel nulla. Fu usata per ricatti su più livelli? La docu-serie “Vatican girl” racconta la sequenza di “corvi”, depistaggi e bugie. E un dolore che non è passato

La telecamera in casa Orlandi, dentro il Vaticano, nel palazzo dove vive ancora mamma Maria, si sofferma sui dettagli. Fuori campo la voce di Pietro: «Questa è la cameretta di Emanuela, è rimasta la stessa...». Le pareti foderate di legno chiaro, il letto con la sovraccoperta gialla, le bambole su una mensola, l’enciclopedia che oggi non usa più nessuno... La memoria gioca brutti scherzi, in questo giallo infinito: la sfasatura temporale, il passato-sempre-presente tolgono il fiato. «O ti fai una corazza o non sopravvivi», dice Natalina. Sono entrambi oltre i sessanta, l’unico fratello e la sorella maggiore della sequestrata più famosa del mondo. Hanno una candida chioma bianca e lo sguardo velato di nostalgia. Tutta la vita a cercarla. Un incubo. Credevi di vivere nel posto più sicuro della Terra, sotto la protezione di guardie svizzere e gendarmi, e invece...

Un giorno caldissimo

Sono passati quasi 40 anni da quel caldissimo giugno 1983, ma l’incredulità è immutata: come è stato possibile? Perché proprio a noi? Indagini a vuoto, depistaggi e un forte turbamento dell’opinione pubblica sono stati la costante di un caso che ha trasformato Emanuela Orlandi, un’incolpevole ragazzina di 15 anni, nell’emblema degli intrighi più sordidi. Un giallo al quale in queste settimane anche Netflix sta regalando una platea planetaria, grazie alla docu-serie “Vatican girl”, firmata dal regista Mark Lewis. La ricostruzione in 4 parti, legate dal filo tenuto dal conduttore, il giornalista de La7 Andrea Purgatori, muove proprio dal senso di paura e di intimità violata. Poi si srotolano le domande. Quale la mente criminale e quale il movente? Terrorismo internazionale nell’ambito delle tensioni della Guerra fredda, ricatto economico legato al dissesto della casse papali, torbidi giri sessuali?

Il senso di colpa di Pietro

Era il 22 giugno 1983. Emanuela uscì attorno alle 16.30, dopo aver chiesto al fratello di accompagnarla alla scuola di musica. «Avevo un impegno e le dissi di no. Lei mi mandò a quel paese e sbatté la porta. Mi dispiace tantissimo...». Pietro e il suo senso di colpa. Forse c’è anche questo, alla base della sua irriducibile battaglia per la verità. Dopo la lezione di flauto nel complesso di Sant’Apollinare, vicino piazza Navona, Emanuela telefonò a casa e disse di aver ricevuto una proposta di lavoro, distribuire volantini durante una sfilata (poi rivelatasi inesistente) delle Sorelle Fontana per conto di una ditta di cosmetici, la Avon. «Mi pagano 375 mila lire per un solo pomeriggio», disse la ragazza. Tanto, troppo. Era un primo segnale di messaggi in codice, lasciati sottotraccia. «Aspetta, parla con mamma», le consigliò l’altra sorella, Federica. Ma “Manu”, studentessa di seconda liceo scientifico al Convitto nazionale, rimandata a settembre in latino e francese, tifosissima della Roma fresca vincitrice dello scudetto (nei manifesti non si vede, ma la fascetta tra i capelli è gialla e rossa), a cena non tornò. A Pietro sembra ieri: «Alle 9 e mezza è salito il panico: era un orario fuori dalla normalità di casa Orlandi. Io e mio cugino iniziammo subito le ricerche in moto. Girammo tutta la notte. Ero talmente stanco che mi addormentai sul sellino di dietro».

Il Papa all’Angelus

Le concomitanze sono fondamentali, nella Vatican connection. La mattina seguente papà Ercole, messo pontificio con accesso alle stanze papali, presenta denuncia al I distretto di polizia. Nelle stesse ore Karol Wojtyla rientra dalla Polonia, dove è stato acclamato da folle osannanti per la sua lotta contro il comunismo al fianco del sindacato Solidarnosc, e viene informato non appena tocca terra a Fiumicino. È un altro indizio. La questione è seria: non si disturba Sua Santità per una scappatella. Le prime indagini puntano sui reclutatori di hostess per la Avon e sulla Bmw verde sulla quale è stata vista salire, davanti al Senato, una ragazza somigliante a Emanuela. Al telefono si fanno vivi due giovani dalla parlata romanesca, “Pierluigi” e “Mario”, che danno prova di un contatto. Ma è dal 3 luglio 1983, quando Giovanni Paolo II lancia il primo appello all’Angelus, che il caso deflagra.

La proposta di scambio

Tempo 48 ore e l’Amerikano, così ribattezzato per l’inflessione straniera, chiama gli Orlandi e detta le condizioni: Emanuela sarà liberata in cambio della scarcerazione di Ali Agca, già condannato all’ergastolo per l’attentato del 13 maggio 1981 e, da mesi, grande accusatore del mondo sovietico, indicato come mandante. Il salto di qualità è da brividi. La vita di una ragazzina viene usata nei rapporti di forza sullo scacchiere geopolitico mondiale. Titoli in prima pagina. Barbe finte dell’Est e dell’Ovest in allerta, perché Agca riporta al “crimine del secolo” (come lo definirà il giudice Rosario Priore) e la figura di Wojtyla conduce dritti al cuore della Guerra fredda. La Segreteria di Stato concede ai rapitori un codice, il “158”.

Spunta Mirella: gialli collegati

Il giallo raddoppia. Da agosto un fantomatico “Fronte Turkesh” invia comunicati che dimostrano la conoscenza di dettagli autentici su Emanuela e inserisce nella trattativa anche Mirella Gregori, un’altra quindicenne sparita a maggio. La linea non muta: liberate Agca. Richiesta che a settembre diventa ossessiva, con il ritorno dell’Amerikano, la lettura al telefono (a Filippo, il cognato) della lista degli abiti indossati da Mirella e la conferma (con una perizia grafologica) che almeno due lettere sui casi Orlandi (quella trovata in un furgone Rai a Castel Gandolfo) e Gregori (quella spedita a casa) sono scritte dalla stessa mano. Gialli collegati, dunque. Una misteriosa entità di rara intelligenza politico-criminale, ragionano gli inquirenti, potrebbe aver scelto le due ragazze in base alla nazionalità (una vaticana, per sensibilizzare il Papa, l’altra italiana, per premere sul Quirinale, titolare del potere di grazia), allo scopo di illudere l’ex Lupo grigio, facendogli balenare la scarcerazione, e indurlo così a rimangiarsi le accuse ai bulgari (ed estensivamente a Mosca).

Il gendarme in Procura

Più il tempo passa, però, più l’intrigo si complica. Per quanto la ritrattazione del turco effettivamente arrivi, il 28 giugno 1983, sei giorni dopo la scomparsa di Emanuela, e sembri confermare tale scenario, la pista internazionale vacilla allorché il processo iniziato nel 1984 contro i tre funzionari di Sofia si chiude con altrettante assoluzioni. Avanti, spuntano nuove tracce. La mamma di Mirella a fine 1985 riconosce in un gendarme alle spalle del Papa (venuto in visita alla sua parrocchia) l’uomo notato nel bar sotto casa, in via Nomentana. La Procura impiega però otto anni a organizzare il faccia a faccia e alla fine la donna, impaurita e malata, non lo riconosce. Siamo nel 1993. La prima inchiesta è di fatto conclusa.

L’indegna sepoltura

Il salto in avanti ci porta al 2008. Da qualche tempo si è tornati a parlare del fatto che a Sant’Apollinare, ultimo luogo in cui fu vista Emanuela, dal 1990 è seppellito, grazie al nulla osta del cardinale Poletti, il boss Enrico De Pedis, detto Renatino. Perché tanto onore al capo della banda della Magliana? C’entra anche lui? Cherchez la femme. Che puntuale arriva. L’ex amante Sabrina Minardi, per quanto cocainomane e imprecisa in taluni passaggi, convince la Procura che il suo racconto è fondato: Renatino nell’estate dell’83 le chiese il favore di “consegnare” una certa ragazza a un monsignore ai piedi del Gianicolo, lei andò all’appuntamento, fece salire in macchina una giovane che riconobbe come la Orlandi e la spinse tra le braccia di un prelato «con il cappello a falde larghe». L’inchiesta si riapre. La donna indica anche il covo dove sarebbe stata tenuta la quindicenne (a Monteverde, in via Pignatelli) e il presunto movente: il sequestro sarebbe servito a De Pedis per recuperare i soldi della malavita versati in Vaticano, mai rientrati e finiti a sovvenzionare la causa polacca. Follow the money, insomma.

L’uomo del flauto

La pista finanziaria pare prevalere su quella internazionale. Arriviamo al 2013. Nuova concomitanza: papa Ratzinger si dimette a marzo e due settimane dopo un ambiguo personaggio, tal Marco Accetti, classe 1955, figlio di massone (il papà Aldo è iscritto alla Loggia mediterranea), cresciuto in scuole cattoliche di prim’ordine, un passato oscillante tra ambienti di estrema destra e frequentazioni (forse di copertura) del Partito radicale, consegna un flauto traverso, subito riconosciuto dalla famiglia Orlandi. L’uomo, premesso di confidare nel “vento nuovo” portato da un Papa “non curiale” come Francesco, si autoaccusa dei sequestri di Emanuela e di Mirella, nell’ambito di un piano ordito a suo dire da tonache “rosse”, vicine al cardinale Casaroli. Non fa però i nomi dei complici. Gli obiettivi principali, oltre alla ritrattazione di Agca, sarebbero stati la chiusura del contenzioso Ior-Ambrosiano (poi avvenuta con l’accordo di Ginevra nel 1984), la cacciata di Marcinkus dalla banca vaticana e un potere di influenza su alcune nomine ecclesiastiche.

Il movente multiplo

Le sventurate quindicenni, in tale quadro, sarebbero state per così dire “multitasking”: vittime di un ricatto multiplo, attuato su più fronti, compresa, alla bisogna, qualche ritorsione contro tonache dedite a perversioni sessuali. Per provare il proprio coinvolgimento, Accetti esibisce il flauto, invita ad ascoltare la sua voce (molto simile a quella di “Mario” e compatibile, secondo i consulenti sentiti da “Vatican girl”, con quella del telefonista in azione dal settembre 1983), chiarisce il significato di numerosi codici (a partire dal “158”, da leggersi come anagramma di “5-81”, mese e anno dell’attentato al Papa) e ricorda che la sua giovanissima moglie, nell’autunno 1983, si trovava a Boston, città dalla quale partirono alcuni comunicati riconosciuti dagli inquirenti come autentici.

L’archiviazione

Svolta vicina? Macché. Nel 2015 anche l’inchiesta-bis si arena. Il procuratore Giuseppe Pignatone, sulla base di una perizia che giudica Accetti affetto da “sindrome narcisistica”, avoca a sé il caso (estromettendo dalle indagini il suo vice, Giancarlo Capaldo) e ottiene l’archiviazione, suggellata nel 2016 dalla Cassazione. Game over. Pignatone tre anni dopo, il 3 ottobre 2019, sarà nominato da papa Bergoglio presidente del Tribunale vaticano.

La pista inglese

Qualsiasi novità successiva avverrà al di fuori di un perimetro investigativo ufficiale: dalla pista innescata nel 2017 dal ritrovamento di una finta nota-spese vaticana da 483 milioni di lire stanziati per tenere in vita l’ostaggio in Inghilterra fino al 1997 (documento fasullo, ma forse diffuso per indicare il trasferimento della ragazza all’estero) al racconto di un’amica sulle molestie subite da Emanuela da parte di un alto prelato, le nuove tracce resteranno sul piano mediatico. Compresa la caccia alle ossa ambientata nel 2018 in via Po, nel cortile della Nunziatura, e poi, l’anno seguente, in due tombe del Cimitero teutonico, nella Città del Vaticano, dopo che un anonimo aveva invitato a scavare “lì dove guarda la statua dell’angelo”. Siamo alle solite: corvi in agguato e macabri depistaggi. L’unica certezza, conclude la docu-serie, è che «tutte le piste portano in Vaticano» e che «prima o poi la verità verrà fuori». Forse. Chissà quando.

Emanuela Orlandi e il giallo del bambino investito in pineta: morto Carlos Garramon, il padre di Josè. di Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 12 Novembre 2022.

Il funzionario delle Nazioni Unite nel 1983 si costituì parte civile nel processo contro l’investitore, Marco Accetti, che in seguito si è autoaccusato dei sequestri Orlandi-Gregori. Chi portò a Castel Fusano il piccolo?

Per quasi 40 anni ha vissuto il suo dolore in maniera riservata, all’altro capo del mondo, senza apparire. Ha preferito che fosse sua moglie Maria Laura, nota in Italia per le apparizioni televisive di qualche anno fa, a battersi con vigore nella ricerca della verità, pur senza farle mai mancare il suo sostegno. Ma alla fine Carlos Juan Garramon, 76 anni, ha perso la sua lunga battaglia personale: il padre di Josè, il 12enne travolto e ucciso a fine 1983 nella pineta di Castel Fusano, è morto in Uruguay al termine di una lunga malattia, lo scorso 13 luglio a Montevideo, e la notizia è trapelata solo negli ultimi giorni. L’ex alto funzionario dell’Ifad, l’agenzia delle Nazioni Unite specializzata in progetti agricoli, fu protagonista come parte civile del processo per l’omicidio stradale del suo ragazzo più piccolo, avvenuto nel periodo in cui la famiglia si era trasferita a Roma. Un episodio tuttora avvolto nel mistero.

Era la sera del 20 dicembre 1983, pochi mesi dopo la scomparsa della quindicenne Emanuela Orlandi (qui la ricostruzione completa) e della coetanea Mirella Gregori, quando Josè fu trovato morto nella pineta tra Roma e Ostia. Ad accorgersi del corpo sul ciglio della strada fu un autista di bus. Poche ore dopo, l’uomo al volante del furgone Ford Transit che aveva investito Josè fu arrestato: si trattava di Marco Accetti, all’epoca 28enne, figlio di Aldo (massone della Loggia mediterranea), fresco sposa di una ventenne dalla quale si era già separato, arrestato l’anno precedente per il possesso di una pistola e citato per nome e cognome nella famosa lista degli estremisti neri redatta da Valerio Verbano. Sarà lo stesso Accetti (poi condannato a 2 anni e 2 mesi per omicidio colposo e omissione di soccorso di Garramon) ad autoaccusarsi 30 anni dopo, nel 2013, del sequestro Orlandi-Gregori. E ancora Accetti, nel 2015, a riferire che la bara di Katy Skerl (17enne uccisa nel gennaio 1984 a Grottaferrata) era stata trafugata dal cimitero Verano: una circostanza anticipata dal Corriere con un sopralluogo sul posto (qui il video) e poi riscontrata dalla Procura di Roma nel luglio 2022, allorché la tomba è stata aperta e trovata vuota.

Carlos Garramon, ai tempi del processo in Corte d’assise (1984-1986) nel quale gli avvocati di Accetti riuscirono a far derubricare l’accusa da omicidio volontario a colposo, evidenziò il suo punto di vista a più riprese, soprattutto sul punto cruciale: come ci era finito Josè in un posto tanto sperduto, se non a bordo del furgone di Accetti, visto che neanche un’ora prima era all’Eur, a quasi 20 chilometri di distanza? «È mio desiderio ribadirle - scrisse Carlo Garramon al presidente della Corte, Umberto Feliciangeli - che mio figlio non ha mai causato problemi di condotta durante i suoi brevi anni di vita. Mia moglie e io non abbiamo mai avuto da lui una bugia e siamo sempre stati tenuti al corrente, con scrupolosa precisione, dei suoi impegni, delle persone con cui usciva. Fu proprio questo suo carattere che ci ha posto in allarme, il giorno della sua scomparsa, inducendoci a iniziare una disperata ricerca dopo meno di un’ora dall’orario di chiusura del negozio del barbiere dove si era recato. Confido che la sua alta capacità professionale, per il bene di questa società e allo scopo di alleviare il nostro dolore, saprà trovare la ragione che spieghi una così grande e immeritata ingiustizia».

Desiderio vano, purtroppo. Al di là della condanna dell’investitore a una pena esigua (e della scomparsa di alcuni verbali di interrogatorio dal fascicolo, come denunciato dalla famiglia), la ricostruzione dell’accaduto non è mai stata soddisfacente. Marco Accetti disse di non aver visto nulla a causa del buio e di non essersi neanche accorto di aver travolto una persona («Pensai a dei sassi lanciati contro il parabrezza»). Solo dopo essere sceso e aver constatato i danni al Ford Transit, aggiunse, avvistai il corpo del piccolo.

Oggi Maria Laura Bulanti (più volte ricevuta da papa Francesco) conferma le accuse che nel 2015 portarono a una temporanea e improduttiva riapertura delle indagini (un ex poliziotto della Squadra mobile ha anche ipotizzato un ruolo della banda della Magliana) e si limita a dichiarare: «Accetti era un depravato. La situazione gli è sfuggita di mano e ha finito per ucciderlo, perché Josè era estremamente intelligente e quando ha visto il pericolo è scappato. A metà febbraio sarò in Italia con un figlio e due miei nipoti - annuncia la donna al Corriere - e avremo modo di parlarne e di approfondire. Io non mollo, voglio tutta la verità sul mio sventurato e meraviglioso bambino». 

Fabrizio Peronaci per corriere.it l’11 novembre 2022.

Quel taglio delle «t» così lungo e netto? Indice di aggressività, ma anche fragilità. Il margine sinistro crescente? Bisogno di evasione. E la tendenza a scrivere fino al margine destro, quasi a voler «sconfinare» con la penna oltre il foglio? Desiderio di indipendenza, di bruciare le tappe. L’assenza di segni di incertezza o tremori, inoltre, porta a escludere uno stato di costrizione... 

La grafologia giunge in soccorso di uno dei tanti cold case romani in attesa di soluzione: quello sulla scomparsa della 21enne Alessia Rosati, abitante a Montesacro, mai più ritrovata dopo che uscì di casa in via Val di Non il 23 luglio 1994, dicendo ai genitori che andava ad assistere agli esami di maturità di Claudia, un’amica. L’inchiesta è stata riaperta nel 2019 dalla Procura di Roma (pm Alessia Miele), dopo che erano emersi collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi in seguito ad alcune dichiarazione del superteste indagato, Marco Accetti (qui la ricostruzione completa). E oggi emergono due novità. 

La prima è un retroscena: la stessa amica durante le prime indagini fu accusata di dichiarazioni mendaci rese a pubblico ufficiale, in quanto non riferì di aver accompagnato a casa Alessia quella stessa mattina, prima di sparire, per pochi minuti, quasi certamente per prendere qualcosa in vista della fuga. Alcuni vicini videro le ragazze insieme, smentendo Claudia. La seconda novità è rappresentata dagli spunti psicologici e comportamentali forniti da una approfondita consulenza grafologica sulla lettera d’addio della giovane studentessa di Lettere. Quale lo stato d’animo di Alessia al momento di scriverla? 

Alessia, la lettera con l'errore e gli altri indizi

È stata Monica Manzini, grafologa giudiziaria del tribunale di Roma, a realizzare un’analisi minuziosa (trasposta in un libro romanzato, «Le ali della verità», di recente pubblicazione), dell’unico vero elemento a forte valenza probatoria in possesso degli inquirenti impegnati nel caso Rosati: la lettera che Alessia inviò all’amica Claudia (forse in seguito a un accordo tra loro) era di certo autentica e verosimilmente fu imbucata nell’imminenza della scomparsa (arrivò a Claudia il 26 luglio). Nella missiva la ragazza annunciava la sua decisione di partire improvvisamente, con «un ragazzo che è stato molto importante per me», per andarsene «x l’Europa » senza sapere «quando tornerò». 

Finora i genitori Antonio e Anna Rosati (lui all’epoca vigile urbano, lei operaia alla Regione Lazio) avevano pensato che si fosse trattato di una sorta di Sos scritto sotto costrizione, in quanto il testo conteneva un riferimento temporale errato che solo loro avrebbero compreso: Alessia collocava nel lunedì successivo la partenza per il «paese di m...» (in Umbria) dove sarebbe dovuta andare in villeggiatura con la famiglia, quando il giorno esatto era il sabato (giorni in cui sparì). I rapitori o chi per loro l’avevano obbligata a «depistare» e insieme tranquillizzare tutti scrivendo del viaggio in Europa e lei, per mandare un disperato messaggio in bottiglia, aveva inserito un dettaglio palesemente errato che avrebbe posto in allerta la famiglia? Un’ipotesi verosimile, che però adesso vacilla.

Secondo il lavoro di Monica Manzini (che si è occupata tra le altre cose dello scontrino-gate del sindaco Marino, analizzando le ricevute dei ristoranti frequentati dall’ex sindaco di Roma) non esiste infatti «nessun elemento oggettivo che avvalori l’allontanamento volontario oppure il fatto che la lettera sia stata scritta sotto minaccia». Mancano infatti i classici «segni di terrore/paura» come «tremori, stentatezza o angolosità improvvise» nella grafia. 

Dalla paginetta in corsivo con un paio di cancellature, tuttavia, alcuni aspetti di «fragilità emotiva» emergono con chiarezza. Vediamoli: i principali sono una componente di «ansia», manifestata dagli accavallamenti delle lettere (vedi le parole «incontrato» o «ragazzo», alla quarta riga) e il «bisogno di evasione/fuga/indipendenza», espresso, spiega la grafologa, dal margine sinistro decrescente e dalla «precipitazione del tracciato verso destra» (contro il margine estremo del foglio). Ravvisabile inoltre anche una certa dose di «agitazione/aggressività», come mostrano le «irregolarità assiali» delle lettere, alcune delle quali più alte delle altre (vedi «viaggiare», in fondo al testo) e il taglio «forte e reciso» delle lettere «t».

Conclusione? «Alessia Rosati nello scrivere quel testo non era terrorizzata, e questo porta a escludere che si trovasse sotto minaccia, ma al tempo stesso manifestava delle evidenti fragilità emotive e psicologiche, come se stesse per lanciarsi in una impresa al di sopra delle proprie possibilità». La grafologa conclude: «L’allontanamento volontario va scartato, nonostante la ragazza esprimesse un desiderio di autonomia. Allo stesso tempo bisogna anche escludere che le ultime parole scritte da Alessia contenessero un messaggio in codice ai genitori, perché sarebbe stato più logico inviare la lettera direttamente a loro. Quindi, si può anche ragionevolmente ipotizzare un nuovo scenario: la ragazza potrebbe aver voluto far credere alle persone da cui stava scappando che andava fuori dall’Italia, per mettersi al riparo da pericoli». 

Il trait d’union tra il giallo di Alessia Rosati e quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori, scomparse nel 1983, è rappresentato da Marco Accetti, oggi 67enne, un fotografo romano con precedenti penali che nel 2013 si autoaccusò del sequestro delle due quindicenni.

È stato lui, nel 2015, a parlare per primo del giallo Rosati, riferendo di aver conosciuto Alessia, di averla ospitata a dormire a casa sua (abitava nella stessa zona) e di sapere con certezza che fu portata via da ambienti dei servizi segreti, nell’ambito delle tensioni esplose nel Sisde nel 1994, all’indomani dell’esplosione dello scandalo dei fondi neri (una cinquantina di miliardi di lire spariti). Sette anni fa non fu preso sul serio, l’uomo che consegnò il flauto riconosciuto dai familiari di Emanuela (e la cui voce corrisponde a quella di almeno un paio di telefonisti del 1983), tanto che sia lui sia gli altri indagati (Sabrina Minardi, don Pietro Vergari e tre ex banda della Magliana) vennero prosciolti dalla Procura al momento dell’archiviazione. Ma di recente la posizione dell’«uomo del flauto» è mutata, in relazione a un altro cold case tornato d’attualità, il delitto della 17 enne Katy Skerl avvenuto a Grottaferrata nel gennaio 1984. 

Accetti, infatti, aveva dichiarato ai giudici che la bara della ragazza era stata rubata, portata via dal cimitero Verano, e nel luglio 2022 tale circostanza è stata effettivamente riscontrata. Dietro la lapide, non c’era nulla. Adesso, grazie alla grafologia, anche il giallo Rosati torna quindi in discussione. Tanto più che , a differenza del caso Orlandi-Gregori, un’inchiesta formalmente aperta esiste. La prossima mossa tocca alla Procura.

Nel cold case entra la grafologa dello 'scontrino-gate' di Ignazio Marino. Scomparsa Alessia Rosati, nuova pista: il ruolo di Marco Accetti e le analogie col caso Emanuela Orlandi. Riccardo Annibali su Il Riformista l’11 Novembre 2022

Alessia Rosati, una ragazza romana di 21 anni, il 23 luglio del 1994 uscì di casa in via Val di Non dicendo ai genitori che andava ad assistere agli esami di maturità di Claudia, una sua amica, ma non fece più ritorno. In uno dei tanti cold case italiani arriva in soccorso la grafologa giudiziaria del tribunale di Roma Monica Manzini. L’inchiesta è stata riaperta nel 2019 dalla pm Alessia Miele della Procura di Roma, dopo che erano emersi collegamenti con il caso di Emanuela Orlandi in seguito ad alcune dichiarazione del superteste indagato, Marco Accetti.

Oggi emergono due novità. La prima è che la stessa amica durante le prime indagini fu accusata di dichiarazioni mendaci rese a pubblico ufficiale, in quanto non riferì di aver accompagnato a casa Alessia quella stessa mattina, prima di sparire. Alcuni vicini di casa videro infatti le ragazze insieme, smentendo la prima testimonianza di Claudia. La seconda novità è emersa dopo un’approfondita consulenza grafologica sulla lettera d’addio della giovane studentessa di Lettere, eseguita dalla dottoressa Manzini.

Il taglio delle ‘t’ così lungo e netto? Indice di aggressività e fragilità. Il margine sinistro crescente? Bisogno di evasione. E la tendenza a scrivere fino al margine destro a voler ‘sconfinare’ con la penna oltre il foglio? Desiderio di indipendenza, di bruciare le tappe. Ma l’assenza di segni di incertezza o tremori porta a escludere uno stato di costrizione.

L’analisi grafologica di Manzini è stata trasposta nel romanzo ‘Le ali della verità’ pubblicato di recente. E parte dall’esame dell’unico vero elemento a forte valenza probatoria in possesso degli inquirenti impegnati nel caso Rosati: la lettera che Alessia inviò all’amica Claudia. Missiva verosimilmente imbucata nell’imminenza della scomparsa, infatti arrivò a Claudia il 26 luglio, tre giorni dopo la sparizione di Alessia. La ragazza annunciava la sua decisione di partire improvvisamente, con “un ragazzo che è stato molto importante per me”, per andarsene “x l’Europa” senza sapere “quando tornerò”.

I genitori Antonio e Anna, all’epoca lui vigile urbano e lei dipendente della Regione, hanno sempre pensato che si fosse trattato di una sorta di ultimo messaggio scritto sotto minaccia perché il testo conteneva un riferimento temporale errato che solo loro avrebbero compreso. Ovvero Alessia collocava nel lunedì successivo la partenza per il paese in Umbria dove sarebbe dovuta andare in villeggiatura con la famiglia, quando il giorno esatto era invece il sabato, il giorno della sua scomparsa. L’ipotesi verosimile quindi che qualcuno l’avesse obbligata a “depistare”, adesso vacilla.

Manzini, che si è occupata tra le altre cose dello caso dello scontrino del sindaco Marino, sostiene che non esiste “nessun elemento oggettivo che avvalori l’allontanamento volontario oppure il fatto che la lettera sia stata scritta sotto minaccia”. A mancare nella grafia sono i “segni di terrore/paura” come “tremori, stentatezza o angolosità improvvise”. Emergono “con chiarezza” tuttavia alcuni aspetti di “fragilità emotiva”.

Ansia” manifestata dagli accavallamenti delle lettere e il “bisogno di evasione/fuga/indipendenza”, espresso, spiega la grafologa, “dal margine sinistro decrescente e dalla precipitazione del tracciato verso destra”. Non trascurabile anche una “agitazione/aggressività nel taglio “forte e reciso” delle lettere ‘t’.

La conclusione di Manzini è quindi che “Alessia Rosati nello scrivere quel testo non era terrorizzata, e questo porta a escludere che si trovasse sotto minaccia, ma al tempo stesso manifestava delle evidenti fragilità emotive e psicologiche, come se stesse per lanciarsi in una impresa al di sopra delle proprie possibilità, – e conclude – “l’allontanamento volontario va scartato, nonostante la ragazza esprimesse un desiderio di autonomia. Allo stesso tempo bisogna anche escludere che le ultime parole scritte da Alessia contenessero un messaggio in codice ai genitori, perché sarebbe stato più logico inviare la lettera direttamente a loro. Quindi, si può anche ragionevolmente ipotizzare un nuovo scenario: la ragazza potrebbe aver voluto far credere alle persone da cui stava scappando che andava fuori dall’Italia, per mettersi al riparo da pericoli”.

Il fil rouge tra il cold case di Alessia Rosati con quelli di Emanuela Orlandi e di Mirella Gregori (scomparse però 11 anni prima, nel 1983) è rappresentato da Marco Accetti, oggi 67enne. Romano, fotografo, con precedenti penali, che nel 2013 si autoaccusò del sequestro delle due quindicenni. È stato lui, nel 2015, a parlare per primo del giallo Rosati, riferendo di aver conosciuto Alessia, di averla ospitata a dormire a casa sua e di sapere con certezza che fu portata via da ambienti dei servizi segreti nell’ambito delle tensioni esplose nel Sisde nel 1994, all’indomani dello scandalo dei fondi neri.

Accetti sette anni fa riconsegnò il flauto ai familiari di Emanuela (che riconobbero lo strumento), e la sua voce venne accertata come corrispondente a quella di almeno un paio di telefonisti del 1983, tanto che sia lui sia gli altri indagati (Sabrina Minardi, don Pietro Vergari e tre ex banda della Magliana) vennero prosciolti dalla Procura al momento dell’archiviazione.

Ora la posizione di Accetti è mutata in relazione a un altro cold case tornato d’attualità: il delitto della 17enne Katy Skerl avvenuto a Grottaferrata nel gennaio 1984. Accetti aveva dichiarato ai giudici che la bara della ragazza era stata rubata, portata via dal cimitero Verano, e nel luglio 2022 tale circostanza è stata effettivamente riscontrata. Dietro la lapide, non c’era nulla. Dopo l’indagine grafologica anche il giallo Rosati torna in discussione. Ora la palla passa alla Procura.

«Vatican Girl», il caso Emanuela Orlandi tra racconto e inchiesta. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022 

Il documentario si sofferma non poco sul ruolo del Vaticano

Sarebbe interessante calcolare quante ore la tv ha dedicato al caso di Emanuela Orlandi (più il film di Roberto Faenza, La verità sta in cielo), una ragazzina di 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, rapita il 22 giugno del 1983 e mai più ritrovata. Certo, la storia è drammatica e l’oscurità che l’avvolge angoscia non poco, ancora oggi. Le ipotesi si sprecano: dal Kgb al movimento nazionalista turco dei Lupi grigi di cui faceva parte l’attentatore di Papa Giovanni Paolo II, Ali Agca, alle presunte «attenzioni» dell’allora potente presidente dello Ior Paul Marcinkus. Secondo l’ex giudice Ferdinando Imposimato, Emanuela vivrebbe in Turchia, felice con il suo compagno che è anche uno dei suoi sequestratori. Secondo altri inquirenti, il sequestro sarebbe avvenuto per esercitare pressioni sul Vaticano, cui la Banda della Magliana aveva prestato una grossa somma di denaro da destinare al sindacato polacco Solidarnosc. Su Netflix è da poco approdata una docu-serie destinata a far discutere: Vatican Girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi.

In quattro puntate, l’autore e regista Mark Lewis mescola racconto e inchiesta, secondo un tratto che la piattaforma da tempo sperimenta anche rispetto a casi di cronaca più recenti. Attraverso la voce delle sorelle e del fratello di Emanuela, di testimoni inquietanti (è il caso di Sabrina Minardi, ex compagna del calciatore Bruno Giordano e del boss della Magliana, Renatino De Pedis), di filmati d’epoca si tenta di mettere assieme i pezzi di un puzzle esiziale. Sulla base di alcune rivelazioni contenute nei cosiddetti VatiLeaks, il documentario si sofferma non poco sul ruolo del Vaticano, tanto che Carlo Calenda, dopo aver visto la serie, ha chiesto che il ministro degli Esteri «pretenda» dal Vaticano la verità sul caso di Emanuela. L’impressione è che coloro che cercano il «mistero» ovunque non vadano necessariamente in fondo alle cose.

Il giusto addio a Emanuela. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 4 Novembre 2022

 Mentre imperversano i commenti sulla docuserie Vatican Girl di Netflix, che a 39 anni dalla scomparsa, racconta la vicenda di Emanuela Orlandi, in libreria abbiamo trovato Addio Emanuela. La vera storia del caso Orlandi. Il sequestro, i depistaggi, la soluzione (Piemme, 2022, 208 pagine, 18,90 euro) di Maria Giovanna Maglie. Il libro è di gran lunga superiore al documentario in streaming, pur non avendo nulla da invidiare allo storytelling che appassiona gli spettatori. A ben vedere (anzi, leggere), la struttura della contro-indagine della grande giornalista ricalca in modo efficace quella di una serie tv, con dei riepiloghi (assolutamente necessari) che danno il ritmo e indicano la strada. Come un riassunto delle puntate precedenti, visualizzato nella memoria del lettore. Proprio quando il resoconto dei fatti giunge a una svolta o aggiunge elementi dirimenti c’è la bussola del riepilogo a non far smarrire chi legge. Sì, perché quello che è uno dei misteri più intricati della storia italiana è ancora oggi senza una soluzione ufficiale. Anche se, come scrive la Maglie, “la verità sul terribile caso Orlandi è più dura di quanto si pensasse, ed era già da tempo sotto i nostri occhi”.

La soluzione data dalla ricostruzione della giornalista, che analizza tutti gli elementi, scarta a ragion veduta tutti i depistaggi e le piste sbagliate, mette sotto nuova luce (mettendo finalmente a fuoco) nomi e fatti prima marginali, è terribile. Ma è plausibile, credibile. Alla fine del libro la chiave offerta appare la più logica, nella sua terribile evidenza. D’altronde, l’ultimo (per ora) Papa a confrontarsi con il caso Orlandi, Francesco, ha messo un sigillo incontrovertibile: “Emanuela sta in cielo”. Ma il punto non è se Emanuela sia ancora viva, ma come è morta e dove è sepolta.

La vicenda è nota: la quindicenne cittadina del Vaticano sequestrata nel giugno 1983 non è stata mai ritrovata ed è al centro di una serie di vicende che vanno ben oltre la sua scomparsa. In tutti questi anni sono state seguite piste di ogni genere, spiega la Maglie. “Dal terrorismo internazionale, con il coinvolgimento dell’attentatore di Giovanni Paolo II Alì Agca, a festini pedofili finiti male, dal legame con il crack del Banco Ambrosiano di Calvi alla Banda della Magliana. Per la maggior parte, ricostruzioni fantasiose, talvolta diffuse ad arte per confondere inquirenti e un’opinione pubblica già inquietata dai silenzi del Vaticano, da sospetti su alti prelati, tombe vuote e sepolture inattese, un nastro che registra agghiaccianti torture sessuali”. Con il ritmo e il thrilling di una mystery story dove però purtroppo è tutto vero, l’autrice racconta fatti controversi e spesso gravissimi, con responsabilità evidenti e imperdonabili, sullo sfondo della Guerra fredda. In una spirale in cui troviamo i finanziamenti del Vaticano a Solidarnosc in Polonia, i soldi persi dalla Banda della Magliana, gli intrallazzi di Marcinkus (è lui l’Amerikano delle telefonate alla famiglia Orlandi?), la nota delle spese per la vita segreta a Londra di Emanuela e per la sua morte altrettanto segreta, forse avvenuta in Vaticano. A tutti questi dubbi il libro dà una risposta.

Emanuela Orlandi, morto Giulio Gangi, l’agente Sisde che partecipò alle prime indagini (e poi fu epurato). Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 3 Novembre 2022

L’ex 007 morto in casa, all’Infernetto. Nel 1983 si presentò dagli Orlandi, offrendo un aiuto per trovare la ragazza scomparsa. Stava per incontrare un cronista del «Corriere»

All’epoca in cui finì sui giornali, nel giugno 1983, aveva 23 anni. Un agente del Sisde con ottime coperture politiche, che pareva destinato a una luminosa carriera. Fu lui, tre giorni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, a presentarsi a casa della figlia del messo pontificio di Karol Wojtyla, all’interno della Città del Vaticano, offrendo un aiuto. Lui a svolgere i primi accertamenti sul giallo, impegnandosi anche nelle ricerche. E ancora lui, una decina d’anni dopo, a essere messo ai margini del servizio segreto civile per indagini «inopportune». La mattina del 2 novembre 2022, in circostanze non ancora completamente chiare, Giulio Gangi, 63 anni, è stato trovato morto nella sua abitazione al quartiere Infernetto, steso sul suo letto. era spirato da non molto e i disperati tentativi di salvarlo sono risultati vani.

A dare l’allarme è stato un amico discografico, Luigi Piergiovanni, che ospitava «l’uomo dei misteri» del caso Orlandi (qui la ricostruzione completa) in una sua dependance, da quando Gangi aveva perduto l’anziana madre, con la quale aveva vissuto fino alla fine, in una villetta poco distante. «A scoprire il corpo è stata mia moglie, allertata da un amico con il quale Giulio faceva spesso colazione in un bar poco distante, preoccupato perché non rispondeva al telefono - ha raccontato Piergiovanni - La porta era chiusa dall’interno. Era sul letto, agonizzante. Abbiamo chiamato un’ambulanza, i medici hanno tentato di rianimarlo. È stato portato all’ospedale Grassi e deve essere morto durante il tragitto, a ucciderlo forse è stato un ictus». Sarà l’autopsia a chiarire le cause del decesso. Gangi soffriva di periodiche depressioni, era ipocondriaco. «Le disavventure lavorative lo avevano profondamente segnato», ha aggiunto l’amico e padrone di casa, che lo conosceva fin da ragazzo. In tempi recenti, comunque, l’ex 007 sembrava essersi ripreso, aveva smesso di assumere farmaci. Tanto che, in un momento di ritrovata vitalità, giusto lunedì scorso aveva preso appuntamento con un giornalista del Corriere per svolgere «un sopralluogo» e approfondire alcuni aspetti relativi al giallo di Emanuela, che gli era rimasto nel cuore da sempre. «Il giorno prima che decidi di passare chiamami dalle 13.30 in poi, così mi organizzo. Il sopralluogo lo facciamo alle 11.30 poi a magna’ in un posto vicino. Un abbraccio!» Questo il suo ultimo messaggio. «Ok, settimana prossima. Vada per pizza e birretta», era stata la risposta del cronista.

La carriera dell’ex 007 del Sisde si interruppe presto, a metà anni ‘90 - al tempo della cosiddetta trattativa Stato-mafia - quando Gangi fu trasferito d’ufficio dalle fumose stanze delle barbe finte al ministero dell’Economia. «La mia personale epurazione fu causata da un’operazione di Stato, legata a fatti di mafia, ancora più delicata della questione Orlandi», era solito dire, restando sul vago.

All’indomani del 22 giugno 1983, giorno in cui Emanuela sparì, Gangi si presentò a casa in Vaticano, chiedendo di parlare con il papà, il messo pontificio Ercole, non solo in veste di 007 ma anche di amico di Monica Meneguzzi, cugina della scomparsa, conosciuta l’estate precedente a Torano, in provincia di Rieti. La ricostruzione dei tanti guai che gli causò l’intrigo Orlandi, Gangi (che era anche un grande appassionato di cinema, nonché regista indipendente) l’affidò a un’intervista-sfogo concessa al Corriere nel 2014, quando l’inchiesta non era stata ancora archiviata dalla Procura di Roma. «Feci l’errore, e umanamente mi pesa doverlo dire, di appassionarmi per aiutare una famiglia disperata. Una scomparsa così anomala era meritevole d’attenzione, strano fosse una scappatella...» Fu lui a imboccare la pista della Avon, lasciata intravedere dall’ultima telefonata a casa della quindicenne. «Pietro Orlandi mi raccontò dell’uomo della Bmw che aveva proposto alla sorella di pubblicizzare dei prodotti in una sfilata. Contattai una coordinatrice Avon, la quale mi assicurò che non avevano rappresentanti maschi né rapporti con le sorelle Fontana».

Il rapitore che tese un tranello a Emanuela, evidentemente, confidava nel fatto che la ragazza ne avrebbe parlato a casa (e la famiglia alla stampa): il vero obiettivo, dunque, era mandare messaggi in codice alla controparte, in vista del ricatto da attivare tramite il sequestro di una concittadina del Papa. «Alla casa di moda, appresi che altre ragazze si erano rivolte all’atelier perché un uomo sulla trentina le aveva fermate per strada con una proposta simile a quella usata per adescare la Orlandi», aggiunse l’agente, che a quel puntò tentò il colpo grosso. «Mi misi in cerca della Bmw verde tundra segnalata dal poliziotto davanti al Senato e ne trovai una simile. In un’officina mi spiegarono che una donna aveva portato l’auto di un amico con un vetro rotto. Mi disse che albergava al residence Mallia, dove andai e alla reception chiesi della donna. Questa si presentò con un vestitino leggerissimo, trasparente».

Era Sabrina Minardi, l’amante del boss «Renatino» De Pedis che dal 2008 ha innescato la pista della banda della Magliana, poi seguita nel 2013 dall’autodenuncia di Marco Accetti? «Ma no, la Minardi all’epoca aveva poco più di vent’anni. Questa era sulla trentina, bionda, sexy, voce decisa, quasi rauca. Le mostrai il tesserino, ma fu molto arrogante: “A lei non dico niente!”… Fatto è che, tornato in ufficio, il capo mi sollevò letteralmente da terra, la signora doveva avere contatti diretti: prese il numero della targa e in pochi minuti riuscì a farsi sentire. Pensai che fosse l’amante di qualche pezzo grosso, uno dei nostri papaveri...»

Parola di 007 (scomodo). Cacciato, non per caso...

«Puoi praticare tutte le “teorie” del mondo, ma se non hai accanto la fortuna è tutto inutile», è stato l’ultimo post pubblicato il 1° novembre 2022 sul suo profilo Fb da Giulio Gangi, investigatore e aspirante cineasta, persona inquieta e sensibile. Una constatazione amara, scritta di getto, forse in preda alla disperazione, di certo pensando a quella ragazza con la fascetta tra i capelli la cui fine l’aveva tanto turbato. Di lei, Emanuela, aveva parlato fino al giorno prima anche con l’amico cronista. Ripromettendosi, forse, di rivelare qualcosa di inedito. 

Caso Orlandi, la vita spericolata dell’ex agente Gangi e la sua ultima pista: «Indaghiamo in pineta, dove è morto Garramon».  Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 4 Novembre 2022.

Carriera, contatti altolocati e inciampi dell’ex 007 del Sisde. Lo scambio di messaggi con il cronista del Corriere: «La Orlandi presa per ragioni occulte» «La chiave è nell’investimento del piccolo Josè» 

Il giorno dopo la scoperta del corpo senza vita di Giulio Gangi, l’ex agente segreto del caso Orlandi (qui la ricostruzione del giallo), che passava le sue giornate ciondolando tra l’edicola di Flavia e «La casa del tramezzino», spesso da solo, l’immancabile sigaretta tra le dita, all’Infernetto e a Casal Palocco non si parla che di lui. «Come è possibile che sia morto proprio adesso che si era ripreso? Giulio di periodi brutti ne aveva avuti, con le sue dipendenze e la tendenza a deprimersi, era stato anche ricoverato per mesi, in cura psicologica, ma ora stava bene. Sì, proprio bene», ripete con convinzione una carissima amica giornalista (in Rai) dell’ex agente del Sisde, quasi a voler esorcizzare l’accaduto. «Era sensibile, ironico, divertente...»

Tra ricordi e nostalgia

«Ricordo quella volta - racconta sorridendo Luigi Piergiovanni, l’amico di una vita che lo ospitava nella dependance della sua villa, dove Gangi è morto la mattina del 2 novembre - che mi citofonò dicendo: Apri? Ti presento Claudio... Claudio chi? E lui: Baglioni... Ed era vero!» Era il periodo pre-barbe finte, primissimi anni Ottanta: un giovanissimo Giulio Gangi, grazie alle sue conoscenze altolocate in politica (ambienti del Partito repubblicano, il sottosegretario Olcese, Mauro Dutto), nel mondo del cinema (il produttore Cristaldi) e in tv (Enzo Trapani, Antonello Falqui ), era più che mai in carriera: quel che toccava diventava oro. A vent’anni assistente di due o tre parlamentari, di casa a Palazzo Chigi e alla Camera dei deputati, nonché responsabile delle Relazioni esterne della Li bero Venturi, la prestigiosa “scuderia” di grandi cantanti italiani. Naturale, con quelle regole d’ingaggio, che gli si offrisse un posto nell’intelligence. Nei ruggenti anni “da bere” funzionava così. E a soli 22 anni Giulio si ritrovò al Sisde. E il 25 giugno 1983, quando si affacciò in casa Orlandi, dentro il Vaticano, proponendosi di dare una mano, senza poterlo immaginare firmò la sua condanna a una vita molto complicata.

Le gaffe al Sisde

Da quei giorni l’agente segreto con simpatie anche nell’estrema destra - sulla cui morte in queste ore si attende il responso dell’autopsia, i medici dell’ambulanza hanno ipotizzato un ictus - cominciò una corsa pazza sulle montagne russe, che spesso l’ha fatto deragliare. Le inchieste importanti, Orlandi, la mafia, la famosa area grigia tra Stato e crimine, ma anche le «lavate di capo» dei superiori per il carattere esuberante, incline a fare di testa sua. Gli allontanamenti e i ritorni. Quella visita al residence Mellia, sull’Aurelia, in cerca della donna della Bmw verde sulla quale era stata vista salire Emanuela, che si rivelò una tremenda gaffe («era l’amante di qualche pezzo grosso»)... L’altra uscita fuori luogo con la famiglia Orlandi nel settembre 1983, allorché si disse certo che Emanuela stava per tornare («Sarà a casa entro il mese»). Fino alla «cacciata» dal servizio segreto civile, nel 1993, sotto forma di trasferimento al ministero dell’Economia. Le cadute. La depressione. L’alcol. Gli amori finiti (Sabrina, Romina). Le macchine di lusso sognate (per un breve periodo girò in Porsche) e i soldi che non bastavano.

Il legame con la mamma

Lo 007 Gangi non si era mai sposato. Fino al 2017 aveva vissuto con l’anziana madre, alla quale era legatissimo. Me ne aveva parlato spesso: «È un grande impegno. Non posso lasciarla sola, non è autosufficiente». Dopo la morte, aveva venduto la villetta (sempre in zona Infernetto) e si era ritrovato in disarmo, disorientato, ospite nella dependance dell’amico in via Ventrella. Alti (pochi) e bassi (numerosi, era senza patente perché sorpreso ubriaco al volante). Ma il pensiero - non c’era niente da fare - tornava sempre lì, al caso Orlandi che aveva sognato di risolvere e invece era diventato un boomerang...

L’ultima investigazione

«Ciao Fabrì, quando capiti dalle mie parti ci facciano un giro dove è stato ritrovato il corpicino di quel ragazzino dal viso di cerbiatto...», è il messaggio inviato al sottoscritto il 18 ottobre 2022. Il primo di una lunga serie, fino all’ultimo, due giorni prima che morisse. Che Giulio si riferisse a Josè Garramon, il 12enne travolto e ucciso nella pineta di Castel Fusano il 21 dicembre 1983, lo vedremo tra un attimo. «Come no - avevo risposto - intanto se passi in centro a Roma prendiamo un caffè». «No. Sono ancora in convalescenza. Poi ti dirò». «Ok, guarisci presto!» E lui: «Un abbraccio!» Evidente che era in ripresa fisica e di umore, l’ex agente segreto andato da anni in pensione anticipata per motivi di salute. Tanto che era stato lui a rifarsi vivo 24 ore dopo: «Vatti a vedere le mie indagini in cui cito le Sorelle Fontana, così ottieni una visione più ampia sulla mie convinzioni». Argomento noto, legato alla telefonata di Emanuela a casa prima di sparire, il 22 giugno 1983, in cui la ragazza comunica che le è stato proposto un lavoro promozionale (per 375 mila lire) a una sfilata della nota casa di moda.

Da Orlandi a Garramon

Era stato Gangi, all’epoca, parlando con la responsabile delle Sorelle Fontana, a scoprire qualcosa di importante, che ora mi aveva ribadito: «Nella capitale si aggira un individuo che adesca giovani ragazze, per scopi occulti, con un’offerta appetibile...» Ok, vai avanti: «Inoltre, va rammentato che nella telefonata di “Mario” (accento romano) alla famiglia l’uomo si preoccupa dei dettagli che riguardano l’adescamento della minore. In buona sostanza, i soggetti da ricercare appartengono alla romanità». Stava facendo un collegamento, Gangi, tra il telefonista che aveva chiamato il 28 giugno 1983 (il secondo, dopo «Pierluigi» e prima del cosiddetto Amerikano) e la sua «romanità». Ora, dalla voce, quel telefonista pare proprio Marco Accetti, romano, «l’uomo del flauto» consegnato alla famiglia nel 2013 (e poi inspiegabilmente distrutto durante gli accertamenti tecnici della Procura) nonché l’investitore del povero Josè pochi mesi dopo il rapimento Orlandi. Un legame che Gangi ora intendeva approfondire...

Il «sopralluogo» e poi una pizza

Nuovo messaggio: «All’epoca indagai da solo fino all’appello di Giovanni Paolo II (3 luglio 1983, ndr), poi con la successiva telefonata dell’Americano (5 luglio) sono entrati in campo tutti, Centri Operativi Sisde, Carabinieri, Polizia, e buonanotte ai suonatori...» Era un battitore libero, lo 007 rimasto «attaccato» per 40 anni alla sua prima, clamorosa indagine. E questo voleva tornare a fare adesso, a 63 anni, andando a cercare nuovi indizi nelle pieghe dei gialli Orlandi-Garramon e dall’analisi della condotta dell’equivoco uomo del flauto, di certo presente sulla scena di quai tragici fatti.

Ore 8.39 di lunedì 31 ottobre 2022, una vibrazione nel taschino del giubbotto. È un «bip» del mio telefonino: «Quando decidi di passare da me, fammi sapere il giorno prima, dalle 13.30 in poi, sul mio cell. Così mi organizzo. Il sopralluogo lo facciamo verso le 11.30 poi a magna’ in un posto vicino. Un abbraccio!» «Ok. Fantastico. Birretta e pizza…!». E lui: «Ahahaha». «Bene, facciamo settimana prox», il mio saluto. Non ne abbiamo avuto il tempo. L’agente segreto Gangi Giulio, lo 007 dell’Infernetto, se ne è andato prima, il 2 novembre 2022, la mattina del Giorno dei morti. 

Da “la Repubblica” l'1 novembre 2022.

Tre faldoni top secret del Sismi, i servizi segreti militari, su Emanuela Orlandi e Mirella Gregori spariti nel nulla. Documenti acquisiti dalla procura ma mai consegnati negli atti d'indagine alla famiglia della 15enne scomparsa il 22 giugno del 1983. « Il funzionario del Sismi - si legge nell'atto evidenzia che dall'acclusa documentazione possono essere rilevati dati relativi a talune intelligence estere collegate».

Quattro pagine. Due decreti e molte novità. Intanto si è scoperto che il Sismi aveva indagato su Emanuela e Mirella. Il Sismi oggi non esiste più, sostituito dal 2007 dall'Aise, l'Agenzia informazioni e sicurezza esterna. Quel materiale, invece, esiste ancora anche se non si trova, come spiega Pietro Orlandi. Tre faldoni acquisiti l'undici ottobre del 1993 nella sede dell'Intelligence dal giudice istruttore Adele Rando. Magistrato impegnato a risolvere uno dei più grandi misteri della storia italiana e del Vaticano.

La genesi di questa vicenda porta, però, la data del 16 settembre del 1993. È il giorno in cui il giudice istruttore Rosario Priore, che indaga sui mandanti dell'attentato a Papa Wojtya da parte di Ali Aca, decide di acquisire del materiale nella sede dei servizi militari. Ciò che scoprono i carabinieri di via In Selci è rilevante. Nel senso che il materiale è notevole. 

Si contano in tutto 18 faldoni. Tre riguardano le due adolescenti. Gli investigatori annotano per due faldoni il cognome " Orlandi". Per un altro " Orlandi - Gregori". Tutto il resto riguarda la vicenda di Giovanni Paolo II.

Gli investigatori decidono, però, di non portare via i documenti e di prendere in consegna un'intera stanza all'interno della sede del Sismi: «La documentazione sopra allegata - si legge nel decreto - viene custodita presso i locali della 1° Divisione del Sismi, piano 2°, nella stanza numero 212 a disposizione del magistrato. Si fa presente che sulla finestra e sulla porta d'ingresso viene apposta come sigillo una carta intestata del reparto operativo dei carabinieri». 

Dopodiché i militari dell'Arma riferiscono al pm di una richiesta che gli rivolge un alto funzionario del Sismi: « si evidenzia che ( dai faldoni acquisiti, ndr) possono essere rilevati dati concernenti persone, strutture ed attività che, per ovvie esigenze funzionali del Servizio, rivestono carattere di riservatezza e devono pertanto essere considerati soggetti al vincolo della vietata divulgazione (...) in particolare per quanto riguarda i rapporti con taluni servizi esteri collegati ». Passa meno di un mese.

Probabilmente Priore avvisa la collega Rando sul fatto che il Sismi ha documenti rilevanti su Orlandi e Gregori. Il magistrato non ci pensa due volte e scrive l'11 ottobre ' 93: « Dispone la consegna immediata da parte del direttore del Sismi della documentazione » . Adesso la famiglia di Emanuela vuole leggere queste carte

Vatican Girl riaccende i riflettori su Emanuela Orlandi. Il fratello: «Il Vaticano non vuole indagare». La docu-serie Netflix su una delle più misteriose pagine della nostra cronaca. Parla Pietro Orlandi: «Non smetteremo mai di cercare la verità». Marco Grieco su La Repubblica il 20 Ottobre 2022

Quello intorno a Emanuela Orlandi, la giovane cittadina vaticana scomparsa il 22 giugno 1983, è un silenzio che grava da 39 anni. E che, a partire dal 20 ottobre, anche la piattaforma di streaming Netflix illumina con una docu-serie di quattro puntate dal respiro internazionale. “Vatican girl: la scomparsa di Emanuela Orlandi”, già dal titolo suggerisce la volontà di fare di una delle pagine irrisolte della cronaca italiana una storia collettiva, anche grazie alla copertura che il colosso dello streaming mondiale offre, e che gli ha permesso di lanciarla in 160 paesi. Per questo motivo, è stata prevista una versione totalmente in lingua inglese e una mista, con parti originali in italiano e sottotitolate.

Dopo il successo di serie true crime come “The Keepers”, che racconta la misteriosa morte di suor Cathy Cesnik, l’insegnante di letteratura inglese scomparsa presso la Archbishop Kenough High School di Baltimora nel 1969 e ritrovata morta due mesi dopo, ancora una volta Netflix pesca nelle pagine più irrisolte della cronaca nera, dove la ricerca della verità si scontra col muro di gomma delle gerarchie cattoliche. Stavolta lo fa affidandosi a Mark Lewis, il talentuoso regista britannico vincitore di un Emmy per la docu-serie “Don’t F**k With Cats: Hunting an Internet Killer”. E basterebbe solo questo per distanziare “Vatican girl” dalle serie di successo che pescano nell’immaginario collettivo italiano come SanPa e Wanna, rispettivamente su San Patrignano e Wanna Marchi.

Nella scomparsa di Emanuela Orlandi, lo spacciato politico e sociale italiano si intreccia con l’intenzione di allargare le maglie della cronaca: «Forse per gli italiani che guarderanno la docu-serie molte cose torneranno. Ma per chi nel mondo non conosce la storia di Emanuela, sarà fondamentale» spiega Pietro Orlandi, fratello di Emanuela e indefesso ricercatore della verità su sua sorella: «Si tratta di un documentario cronologico, che percorre tappa per tappa le fasi della scomparsa di Emanuela all’ombra del Vaticano. Per me è come rivivere tutto ancora oggi. Perché la scomparsa di Emanuela è stata per noi una dilatazione del tempo, dove il passato è ancora un presente» spiega.

In 39 anni di ricerca e inquietudine, la famiglia Orlandi ha compreso che c’è un silenzio che può fare ancora rumore. Pietro ne è convinto, mentre beve un caffè a due passi da Porta Sant’Anna, uno degli accessi di città del Vaticano prospiciente la chiesa parrocchiale che ha frequentato anche sua sorella. È proprio lì che, nel 2013, papa Francesco pronunciò quelle parole che riaccesero speranze e allargarono il mistero sulla scomparsa di una ragazza che aveva sempre vissuto il Vaticano come casa sua: «Emanuela è in cielo» disse Francesco ai familiari. Per Pietro quelle parole furono un lampo nel buio: «Dopo gli anni di silenzio di Ratzinger, soltanto sentire il nome di Emanuela pronunciato da un Papa è stata una cosa forte. Pensammo subito che Francesco sarebbe stato disponibile al dialogo. Invece abbiamo poi trovato un muro più alto di prima».

Ancora oggi il nome di Emanuela è tabù in Vaticano, e questo la dice lunga sul peso che la scomparsa di una ragazza ha avuto nel rapporto col mondo circostante: «Noi ci sentivamo i bambini più fortunati del mondo: i Giardini Vaticani erano il nostro giardino di casa. Erano gli anni Settanta e io non vedevo l’ora di varcare quel cancello per trovare la calma. Nei primi giorni dalla scomparsa di Emanuela, la realtà circostante era svanita. Solo il Vaticano era il nostro punto certo».

Ma da nido sicuro per la famiglia Orlandi, il Vaticano diventa con gli anni un luogo di sospetti. In “Vatican girl” questo prende la forma di un filo rosso, lungo cui il nome stesso di Emanuela diventa coordinata e toponimo di un luogo parallelo, finora ignoto anche a Pietro stesso: «Con la chiusura del caso nel 1997, la realtà si fa sempre più pesante intorno a me, sono stato più volte redarguito e mi è stato chiesto di non continuare a indagare. Ma il nostro interesse resta sempre lo stesso: arrivare alla verità».

È in nome della verità che Pietro scrive a papa Francesco, ma senza avere risposte, fino a quella lettera privata scritta di pugno dal Papa e consegnata privatamente, brevi manu: «Ha scritto frasi di circostanza, ha espresso vicinanza e preghiera. Eppure non ci ha mai concesso un incontro privato, nonostante ne avessimo fatto più volte richiesta, anche tramite il suo segretario monsignor Fabián Pedacchio - segretario particolare di papa Francesco dal 2014 al 2019, ndr -. Lo abbiamo chiesto anche tramite il segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin. Ma non ci è mai stato concesso». È un Vaticano fatto di porte che si aprono all’esterno e di altre che si chiudono dentro quello raccontato da “Vatican girl”, che secondo Pietro traccia con coerenza la doppia linea della Santa sede sulla faccenda: «Noi abbiamo sempre chiesto riservatezza, ma è stata una scelta del Vaticano dare un’eco mediatica ai passi fatti sul caso di mia sorella. Come quella creata dalla Sala stampa vaticana nel 2019, quando sono state scavate due tombe nel cimitero teutonico». Era il 2019 e, dietro segnalazione anonima, il Vaticano ha scoperchiato due tombe appartenute a due aristocratiche dell’Ottocento, sepolte nello Stato vaticano. Non è stata rinvenuta traccia di Emanuela, ma neppure delle due principesse che sarebbero state lì tumulate. Anzi, la scoperta fortuita di una stanza sotterranea in cemento armato al di sotto delle due tombe, di certo non coeva, ha accresciuto il mistero su quello che era inizialmente apparso come un buco nell’acqua: «Sono state analizzate le ossa rinvenute in un ossario prospiciente: nessuna traccia di Emanuela, malgrado alcuni resti umano siano stati datati persino agli anni Cinquanta» spiega Orlandi.

Ancora oggi Pietro esprime inquietudine di chi non smette di cercare nei gesti. Traccia con ampie falcate il perimetro del Passetto, sbuca a Borgo Pio animata dal vociare dei turisti e dallo svolazzare delle talari nere: «Non mi darò pace fino a quando non saprò qualcosa di più su mia sorella». Pietro sa che, con l’uscita di “Vatican girl”, dovrà anche arginare l’eco di mitomani e 007 improvvisati, come già è accaduto in passato: «Non appena la storia di mia sorella varca i confini dell’Italia, si fanno avanti investigatori alla giornata o semplici curiosi desiderosi di aiutarci. Una volta un gruppo di canadesi mi propose di usare le arti marziali per entrare in Vaticano e parlare direttamente col papa. A volte fanno sorridere, ma ho per tutti un senso di compassione per la vicinanza che dimostrano. Se queste cose non le vivi, è dura immedesimarsi».

E così il rumore mediatico diviene l’altra faccia di un’indagine che per la famiglia Orlandi è una ricerca di resti e di ossa: «Eppure, fino a quando non ne avrò la certezza, per me Emanuela può essere ancora viva!» esclama Pietro. È il paradosso di uno Stato che vive reiterando la venerazione dei resti di un apostolo in un luogo di ritrovamento di duemila anni, ma che non riesce a trovare quelli di una ragazzina risucchiata nel nulla quarant’anni fa. In quel luogo più santo, che tanto Pietro quanto Emanuela pensavano li avesse tenuti al sicuro per sempre, ma che si è poi svelato un altro mondo oltre l’immaginario. Il mondo continua a scorrere qua fuori ma lì, oltre quegli accessi picchettati giorno e notte dalle guardie svizzere, tutto sembra cristallizzarsi nel marmo freddo. Come la storia di Emanuela Orlandi, “Vatican girl” per sempre.

 "La 'Vatican girl'? Mia sorella Emanuela. Quelle attenzioni da un prelato...". Al via la miniserie "Vatican girl" dedicata alla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro a ilGiornale.it: "Era agitata qualche giorno prima del rapimento. Fu avvicinata da un prete". Rosa Scognamiglio su Il Giornale il 21 Ottobre 2022.

È online su piattaforma streaming “Vatican Girl”, la nuova docuserie targata Netflix dedicata alla vicenda di Emanuela Orlandi, la 15enne che scomparve a Roma il 22 giugno 1983. Una storia misteriosa, e dai risvolti inattesi, che ha catalizzato l’attenzione del regista inglese Mark Lewis - già autore di “Giù le mani dai gatti” - al punto da farne un racconto a puntate.

Il filo conduttore del documentario è la presunta correlazione tra il rapimento della ragazza e alcune dinamiche interne al Vaticano. "Emanuela raccontò a un’amica di aver ricevuto attenzioni da un prelato", racconta alla nostra redazione Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, che ha partecipato al cortometraggio.

Pietro Orlandi, cosa racconta "Vatican girl"?

"Racconta l’intera vicenda del rapimento di Emanuela da un punto di vista cronologico, mettendo cioè in successione tutte le varie piste investigative che si sono susseguite nel corso di questi lunghi 39 anni".

Come ha reagito quando le hanno proposto la docuserie?

"Il progetto è nato tre anni fa, prima della pandemia. Ne sono rimasto sorpreso, ma anche molto contento perché è un modo per far conoscere la storia di Emanuela fuori dai confini dell’Italia. Il documentario sarà trasmesso in 160 Paesi del mondo".

Qual è il filo conduttore della storia?

"Come suggerisce il titolo della docuserie, tutto ruota attorno al possibile intreccio tra la scomparsa di mia sorella e il Vaticano".

Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."

Nel documentario interverrà, per la prima volta, anche un’amica Emanuela. In che rapporti erano?

"Anzitutto tengo a precisare che è una persona molta pacata e discreta. Peraltro non è mai stata sentita dagli inquirenti perché non è a conoscenza di fatti né in possesso di informazioni. Lei era una ex compagna di scuola di mia sorella, non faceva parte della comitiva del Sant’Anna. Tuttavia erano rimaste in contatto. Tant’è che si sono viste pochi giorni prima del rapimento".

Le ha raccontato qualcosa riguardo a quell’incontro?

"Sì. Come lei stessa racconterà nella docuserie, aveva notato che Emanuela era agitata e sovrappensiero. Quando le ha chiesto quali preoccupazioni avesse, mia sorella le avrebbe detto di aver ricevuto attenzioni da un prelato".

Nello specifico cosa avrebbe detto sua sorella all'amica?

"Che un prete 'vicino al Papa' l’aveva avvicinata nei pressi dei giardini vaticani. ‘C’ha provato’, sarebbero state le sue parole".

Secondo lei, cosa intendeva dire Emanuela con quella espressione?

"Difficile a dirsi. Quella frase potrebbe voler dire tutto o nulla sulla tipologia di approccio da parte di questo prelato. Per certo è l’ennesima conferma che, in un modo o nell’altro, in questa storia c’entra il Vaticano. Il resto sono solo mistificazioni".

"Emanuela rapita da lui". Spunta l'identikit: cosa faceva alla Orlandi

A cosa si riferisce?

"Ai vari tentativi di depistaggio che sono stati attuati nel corso degli anni allo scopo di far deviare le indagini sulle altre piste investigative".

Del tipo?

"Quando si parla ad esempio del venditore di prodotti cosmetici che avrebbe fermato Emanuela all’uscita da scuola per proporle un lavoro. Mi sembra abbastanza palese che sia stato un tentativo di indirizzare le indagini su una pista alternativa a quella del Vaticano. Tant’è che all’inizio gli investigatori avevano ipotizzato che il rapimento fosse opera di un malintenzionato. Quello che oggi definiremmo ‘un predatore’, per intenderci".

Questa estate la vicenda di Emanuela è stata accostata a quella di Katy Skerl. Ci sono dei punti di contatto tra le due storie?

"A parer mio, no. Se non che la scomparsa di Katy Skerl è avvenuta quattro mesi dopo il rapimento di Emanuela. Ma loro due neanche si conoscevano né frequentavano gli stessi luoghi. Sono due storie diverse".

Però anche nel caso della Skerl si è parlato del fotografo Marco Fassoni Accetti (nel 2013 dichiarò di conoscere i dettagli del rapimento di Emanuela).

"Accetti dice tante cose ma non è credibile, almeno per quanto riguarda la vicenda di mia sorella".

Perché?

"In tredici interrogatori non è mai stato in grado di fornire delle prove a sostegno delle sue dichiarazioni. A me, e alla nostra famiglia, interessa conoscere solo la verità su quello che è successo a Emanuela".

In tal senso, la docuserie potrebbe essere d’aiuto?

"L’intento è proprio quello di alzare l’attenzione sulla scomparsa di Emanuela. Spero vivamente che questo documentario possa spingere la ricerca della verità sulla storia di mia sorella. Una cosa è certa: noi non ci arrendiamo".

Fabrizio Accatino per “la Stampa” il 17 ottobre 2022.

«Abbiamo provato a intervistare qualche rappresentante del Vaticano ma nessuno ha accettato. È come se su Emanuela sia stata scelta per sempre la strada del silenzio. Eppure credo che saranno in tanti tra quelle mura a vedere la serie, e siamo sicuri che la apprezzeranno molto». In questo Paese di molti misteri ma nessun segreto (il copyright è di Kissinger), il caso Orlandi non sarà più soltanto una faccenda di casa nostra. Ora se n'è interessata Netflix (International, non Italia), che sul tema ha commissionato alla casa di produzione Raw una docu-serie originale.

Presentata a Roma negli scorsi giorni per il «Mia» (il Mercato Internazionale Audiovisivo), articolata in quattro episodi, Vatican Girl. The Disappearance of Emanuela Orlandi sarà disponibile in tutto il mondo a partire da giovedì. Nell'attesa, in molti Paesi del Nord e Sud America è già in trend sui social network.

«Questo fatto così doloroso credo meritasse l'attenzione di un pubblico globale - racconta Mark Lewis, regista, sceneggiatore e produttore -. Fuori dall'Italia l'informazione l'ha coperto poco, almeno fino al clamoroso episodio del 2019, quando per cercare il corpo di Emanuela gli investigatori hanno scoperchiato due tombe del cimitero Teutonico in Vaticano, trovandole vuote. In questa vicenda s' intrecciano tantissime piste, dalla cospirazione ecclesiastica alle spie bulgare, dai terroristi turchi alla banda della Magliana fino al Kgb. È una storia vera, eppure sembra un thriller politico scritto da Robert Ludlum, Thomas Harris o Dan Brown».

La serie riavvolge il nastro della narrazione ripartendo da zero, esaminando con estremo rigore tutti i tasselli del puzzle investigativo. Un'operazione non nuova per Raw, che con Netflix si è specializzata nel proporre alle platee di tutto il mondo casi locali di cronaca nera. «Abbiamo scavato in tonnellate di documenti d'archivio, foto, articoli di giornale», rivela la produttrice Chiara Messineo, italiana da tempo residente a Londra.

«Credevamo che la famiglia Orlandi non avesse altro, finché un giorno Pietro - l'eroico fratello che da quarant' anni non ha mai smesso di cercare la verità - si è presentato a noi con una borsa di plastica arancione. Dentro c'erano tantissime fotografie e filmini di famiglia mai mostrati prima, con Emanuela a tutte le età. Siamo rimasti a bocca aperta. Li abbiamo portati a Londra per lavorarli, sentendoci addosso una responsabilità enorme, visto il loro valore».

Tenuta insieme dalla voce in inglese di Andrea Purgatori, Vatican Girl contribuisce a dipanare la matassa con testimonianze nuove, a volte esplosive. Come quelle di Marco Fassoni Accetti (il sedicente Amerikano, il telefonista del rapimento), del capo degli investigatori dell'epoca, di chi sa ma ha preferito parlare mantenendo l'anonimato. Oltre all'incredibile racconto a volto scoperto di Sabrina Minardi, al tempo amante del boss della Banda della Magliana Enrico Depedis, che ha ricostruito nel dettaglio il rapimento di Emanuela.

Il fatto che la ragazza non fosse una cittadina italiana si è rivelato un ostacolo per le ricerche. «Il Vaticano è lo stato più piccolo del mondo - spiega Messineo -. Il numero di civili che ci vivono è ridottissimo, meno di duecento. La maggior parte di loro appartengono a famiglie che lavorano per la Santa Sede da generazioni, come gli Orlandi. Il padre Ercole era messo all'anticamera papale, tra i vari incarichi consegnava la posta del mattino a Papa Wojtyia. Lui è morto qualche tempo fa, i figli se ne sono andati, ma a 92 anni la mamma di Emanuela vive ancora in quello stesso appartamento, dove l'abbiamo incontrata».

Nell'approccio visivo, Vatican Girl è molto più cinema che tv. Dopo la visione, allo spettatore resta incollata addosso la Roma lugubre e mortifera pennellata da Stefano Ferrari, il direttore della fotografia. «Ha fatto un lavoro incredibile - si entusiasma il regista -. Prima di iniziare ci siamo incontrati e abbiamo concordato le referenze estetiche, in particolare thriller come Il caso Spotlight e Seven».

Andrea Purgatori per il “Corriere della Sera” il 12 ottobre 2022.  

Trentanove anni dopo, il mistero che avvolge la fine di Emanuela Orlandi inquieta e stordisce come fosse trascorso un giorno.

Stordisce una famiglia e inquieta per i possibili risvolti finanziari, criminali, sessuali che la attraversano. Perché questa non è solo la storia drammatica della scomparsa di una ragazza di quindici anni, ma molto di più. E per come si cerchi di scomporlo e ricostruirlo, il mistero che la contiene conduce sempre nello stesso luogo, impenetrabile. Il Vaticano. 

Con una costante, che da qualsiasi punto di vista la si voglia affrontare e raccontare è ormai evidente che per arrivare in fondo (possibilmente a ritrovarla, viva o morta come dice con ostinazione e amore suo fratello Pietro Orlandi), è necessario mettere nel conto che questo tempo trascorso nasconde una doppia verità. La prima riguarda il suo destino. La seconda il ricatto imbastito su di lei, viva o morta appunto, per estorcere al Vaticano del denaro. Una montagna di denaro.

Trovare il filo che congiunge queste due verità sta diventando sempre più difficile. Dal pomeriggio del 22 giugno 1983, quando Emanuela uscì dalla scuola di musica dietro Piazza Navona e svanì nel nulla, gran parte delle persone direttamente o indirettamente coinvolte in questa storia sono morte: preti, monsignori, cardinali, criminali, finanzieri.

Anche un Papa: Giovanni Paolo II, poi diventato santo. Ma il tempo in qualche caso aiuta. 

Perché un'amica di Emanuela ha deciso per la prima volta di rivelare un segreto di cui lei la mise al corrente e lo ha fatto in Vatican girl, minuziosa docuserie scritta e diretta da Mark Lewis (prodotta da Chiara Messineo con Tom Barry e Dimitri Doganis per Raw) in esclusiva su Netflix dal 20 ottobre. Ebbene, quel segreto ruota intorno all'interesse sessuale di un altissimo prelato, che si manifestò con un approccio all'interno delle Mura vaticane e turbò moltissimo Emanuela proprio alla vigilia della sua scomparsa. È davvero questa la spiegazione del mistero? Una sporca storia di pedofilia?

La docuserie racconta i due tempi in questo giallo. Il primo, che ha a che fare con ciò che accadde il giorno in cui Emanuela non rientrò a casa. 

Si fece convincere a salire in macchina da qualcuno che le aveva promesso un lavoro, come sostengono alcuni testimoni? E il secondo tempo. Che coinvolge il Vaticano, il Papa che si appellò dalla finestra del suo appartamento a «coloro i quali» erano responsabili della sua scomparsa (cosa sapeva, cosa gli avevano detto?) e la Terra Sommersa.

Non quella di mezzo di mafia Capitale ma molto più profonda e violenta, in cui la legge era dettata dalla criminalità organizzata, da quella Banda della Magliana che Enrico «Renatino» De Pedis aveva in parte trasformato in una sorta di service a disposizione dei poteri occulti, in grado di ricattare, uccidere e sequestrare. Ed è certamente questa - il legame tra la Terra Sommersa e i traffici dello Ior, la banca del Vaticano allora guidata dallo spregiudicato monsignor Paul Marcinkus - una delle piste principali che si intrecciano con questa storia senza fine.

Perché se quello di Emanuela non fu un rapimento su commissione di un potente pedofilo annidato all'interno del Vaticano, di sicuro la sua scomparsa fu usata come strumento di ricatto da chi (un'organizzazione mafiosa?) pretendeva dallo Ior la restituzione di una montagna di denaro che invece di essere riciclato era sparito nel crac da 1.200 miliardi di lire del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (poi «suicidato» a Londra sotto il Ponte dei Frati Neri), di cui monsignor Marcinkus era corresponsabile. Un ricatto senza mai fornire la prova in vita di Emanuela, ma talmente inconfessabile da costringere il Vaticano a trattare. E così fu.

Con una coda di altri ricatti incrociati, documenti falsificati, intrecci internazionali (il killer mancato del papa Ali Agca, la Polonia di Solidarnosc cara a Giovanni Paolo II), e un silenzio lungo quasi quarant' anni e tre pontificati che ha devastato una famiglia che da lì dove tutto è cominciato attende ancora risposte.

Caso Orlandi, lettera di Andreotti: la richiesta di aiuto di Don Vergari per il boss della Magliana. Chiara Nava il 12/08/2022 su Notizie.it.

Sono emersi scambi epistolari tra Giulio Andreotti e Don Vergari. Il rettore della Basilica di Sant’Apollinare chiese aiuto per il presunto boss. 

Sono emerse delle lettere nascoste in cui Giulio Andreotti e Don Vergari comunicavano. Il rettore della Basilica di Sant’Apollinare chiese al capo del governo aiuto per il presunto boss della Banda della Magliana.

Sono emersi scambi epistolari tra Giulio Andreotti e Don Vergari, che mostrano i movimenti di Andreotti, a fine anni ’80, per la famiglia De Pedis, ovvero l’uomo indicato da pentiti e poliziotti come boss della Banda della Magliana, anche se non è mai stato condannato. Nel 1989 il rettore della Basilica di Sant’Apollinare, Don Vergari, ha scritto al capo del governo italiano per chiedergli un favore per il fratello di Enrico De Pedis, alias Renatino, ovvero Marco De Pedis.

“La sera del 18 agosto sono intervenuti nel ristorante per un controllo gli agenti di polizia, stilando un verbale, perché Jean e Taddeo, avevano il certificato di robusta e sana costituzione fisica fatto nella Caritas e secondo gli agenti non era sufficiente. Marco De Pedis, proprietario del locale, avrà dei problemi per questo” si legge. “La pratica è presso il commissariato di Trastevere. Non mi sembra giusto infierire e far avere dei dispiaceri a Marco De Pedis” ha scritto ancora Don Vergari ad Andreotti, come riportato da La Repubblica.

Il sacerdote è stato indagato nel 2021 per la scomparsa della 15enne Emanuela Orlandi, ma l’accusa è stata archiviata.

La risposta di Andreotti

Il 9 ottobre 1989 è arrivata la risposta di Andreotti. “Le assicuro che me ne interesserò nei limiti del possibile” ha scritto. Repubblica ha riportato che a novembre Claudio Vitalone, sottosegretario di stato per gli affari esteri, ha scritto a Carlo Zaccaria, segretario particolare del premier, per informarlo di aver contattato gli organi di polizia che però avevano già trasmesso il verbale, rendendo impossibile qualsiasi intervento.

I rapporti tra Don Vergari e Andreotti erano così buoni da scambiarsi lettere per aiutare il fratello del boss mafioso Renatino. Un elemento che era già emerso durante le indagini sul caso Orlandi, negli interrogatori di Sabrina Minardi, amante del boss, che non venne mai creduta.

Caso Orlandi, la lettera segreta di Andreotti. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 12 agosto 2022.  

Così l'allora presidente del Consiglio si prodigò dopo la richiesta di monsignor Vergari per aiutare il fratello del capo della banda della Magliana, Renatino De Pedis finito poi nell'inchiesta sul rapimento della ragazza. I carteggi vennero sequestrati al prelato indagato per la 15enne sparita e poi scagionato

Giulio Andreotti si interessò in prima persona della famiglia De Pedis, la famiglia dello storico boss della Banda della Magliana. All'epoca, era il 1989, il leader della Dc era il primo ministro. Non si tirò indietro quando Don Piero Vergari, l'allora rettore della Basilica di Sant'Apollinare, gli chiese di intervenire a favore del fratello di "Renatino".

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 12 agosto 2022.

Giulio Andreotti si interessò in prima persona della famiglia De Pedis, la famiglia dello storico boss della Banda della Magliana. All'epoca, era il 1989, il leader della Dc era il primo ministro. Non si tirò indietro quando Don Vergari, l'allora rettore della Basilica di Sant' Apollinare, gli chiese di intervenire a favore del fratello di "Renatino".

Quel " Renatino" che poi venne tumulato proprio nella Basilica con attestati da " buon cristiano" decantati proprio da Don Vergari. Sacerdote che nel 2012 finì indagato, poi l'accusa venne archiviata, per il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi. Un'inchiesta, quella sul rapimento della 15enne figlia di un messo pontificio, che vedeva in alcuni componenti della Banda della Magliana gli esecutori materiali del sequestro.

Lo scambio Vergari - Andreotti è scritto nero su bianco nelle lettere di cui Repubblica è in possesso.

Missive che portano il bollo della presidenza del Consiglio dei ministri. È il 29 agosto del 1989 quando il monsignore scrive al premier: « Mi rivolgo a lei ( Andreotti, ndr) perché possa intervenire nella maniera idonea a risolvermi questo problema. In questo frattempo di agosto ho pregato un mio bravo amico di Trastevere, Marco De Pedis ( fratello di " Renatino", ndr), proprietario del ristorante Popi Popi, perché potesse far fare un pò di lavoro a due» persone, si tratta di due polacchi ospiti a Sant' Apollinare. «Marco mi ha voluto accontentare, ma lo faceva per me e per don Enrico che insieme avevamo benedetto il matrimonio di suo fratello ( Renatino, ndr)».

La lettera prosegue con la richiesta di un favore. «La sera del 18 agosto sono intervenuti nel ristorante per un controllo gli agenti di polizia, stilando un verbale, perché Jean e Taddeo, avevano il certificato di robusta e sana costituzione fisica fatto nella Caritas e secondo gli agenti non era sufficiente. Marco De Pedis, proprietario del locale, avrà dei problemi per questo. La pratica è presso il commissariato di Trastevere. Non mi sembra giusto infierire e far avere dei dispiaceri a Marco De Pedis. La ringrazio per quanto farà in proposito». La risposta del presidente del Consiglio arriva il 9 ottobre 1989.

«Caro Monsignore, ho ricevuto la sua lettera nella quale mi parla del caso del sig. De Pedis. Le assicuro che me ne interesserò nei limiti del possibile». Andreotti sarà di parola. Anche se « il 21 novembre successivo ( 1989, ndr) il sottosegretario di stato per gli affari esteri, Claudio Vitalone, scrive a Carlo Zaccaria, segretario particolare del premier, informandolo di aver contattato gli organi di polizia che però avevano già trasmesso il relativo verbale rendendo impossibile ogni intervento». 

Insomma Don Vergari aveva ottimi rapporti con il leader della Dc. Il monsignore li aveva anche con " Renatino", tanto da chiedere un intervento per il fratello del boss ad un primo ministro. Inoltre De Pedis aveva un appartamento con la moglie, alla fine degli anni Ottanta, le cui finestre erano accanto a quelle dell'ufficio di Andreotti nel centro storico di Roma. Durante l'indagine sulla scomparsa dell'Orlandi, Sabrina Minardi amante del criminale, disse più volte che il boss e il politico si conoscevano e si frequentavano.

Quasi tutta la deposizione della Minardi venne però considerata dai magistrati non veritiera. Eppure qualche cosa forse torna. Per Maurizio Abbatino esponente di spicco della Magliana «la Minardi mischia il vero e il falso». 

La donna sentita dai pm nel 2008 disse: « Io andai anche a cena a casa di Andreotti, con Renato. - aveva raccontato la donna alla squadra mobile - Ovviamente davanti a me non parlavano due volte ci sono andata Renato ricercato La macchina della scorta sotto casa di Andreotti della polizia Renato ricercato, siamo andati su eh accoglienza al massimo». In un'intervista Andreotti disse: «io non l'ho conosciuto». E poi alla domanda come mai un criminale è stato sepolto in una Basilica? Replico così: « L'unica spiegazione e che fosse un benefattore della chiesa. Ecco, magari non era proprio un benefattore per tutti. Ma per Sant' Apollinare sì».

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” l'11 agosto 2022.  

«Sul caso Orlandi ora dovrebbe dire la sua il Vaticano». A parlare è Maurizio Abbatino, fondatore della Banda della Magliana assieme a Franco Giuseppucci. Memoria storica della criminalità capitolina in Romanzo Criminale è il Freddo adesso dice la sua sui fatti di quegli anni. Il racconto parte dalla fine della Banda: «La frattura tra le due anime che la componevano fu insanabile».

Da un lato i «testaccini» guidati da Renatino De Pedis, dall'altro i «maglianesi» alla cui testa c'era proprio Abbatino. La contesa deflagra il 27 aprile del 1982, quando Danilo Abbruciati si presenta a Milano per uccidere il vice presidente del Banco Ambrosiano, Roberto Rosone. A morire, però, sarà Abbruciati, ucciso da una guardia giurata. Abbatino e i suoi non erano stati informati del blitz. Un insulto per i «maglianesi», a quel punto pronti a fare la guerra agli ex amici «testaccini». 

La Banda, insomma, era ai titoli di coda. Destinata a dissolversi con il suo carico di misteri insoluti. «Loro (i «testaccini», ndr) custodivano una serie di segreti che non condividevano con noi», spiega Abbatino. L'ex boss da anni ha scelto la strada della collaborazione con la giustizia, anche se oggi non gode più della protezione da parte dello Stato.

Uno dei segreti dei "testaccini" riguarda il rapimento di Emanuela Orlandi?

«Non ho informazioni di prima mano su questo. Quello che è a mia diretta conoscenza riguarda i rapporti che De Pedis coltivava con il Vaticano. Erano rapporti solidi, di primo livello. Li aveva ereditati da Franco Giuseppucci (assassinato il 13 settembre 1980, ndr). Sul caso Orlandi ora dovrebbe parlare il Vaticano».

Sta dicendo che eravate in contatto con la Santa Sede?

«Quando la Banda era unita, a fine anni Settanta, organizzammo l'evasione di un ragazzo dal carcere minorile di Casal del Marmo. In realtà ne evasero tre, tra cui Giuseppe Mastini (Johnny lo Zingaro, ndr). Ad ogni modo avevamo potuto contare su un aiuto interno. Quello di Agostino Casaroli futuro segretario di Stato in Vaticano». 

Come venne organizzata la fuga?

«La organizzai io in prima persona. Giuseppucci mi mise in contatto con un sacerdote che prestava servizio dentro il penitenziario. Casaroli appunto. Lui mi fece entrare per parlare con il giovane che doveva evadere. Poi, mi pare, il giorno successivo ci fu la fuga a cui si aggiunsero gli altri due minorenni». 

Poi cosa accadde?

«Anni dopo morì Giuseppucci e quel pacchetto di conoscenze finì a De Pedis. Casaroli tra la fine degli anni '70 e tutti gli anni '80 fu un uomo potentissimo in Vaticano» 

Ci furono altri favori di cui benficiò la Banda?

«De Pedis, sempre su interessamento di Casaroli, venne trasferito in un'ala meno dura di Rebibbia. Comunque già nel 1982 i rapporti tra noi erano deteriorati. Noi stavamo studiando un piano per ucciderli. Oltre al caso di Abbrucciati i "testaccini" non ci avevano detto di essere in rapporti con Cosa Nostra per il rifornimento della droga. Noi (quelli della Magliana, ndr) avevamo scelto la camorra di Cutolo». 

Proprio in quel periodo venne rapita Emanuela Orlandi. Per Sabrina Minardi, allora amante di De Pedis, l'esecutore materiale fu Renatino. Mente?

«Secondo me non del tutto. O meglio mischia cose vere e cose false. Furono, comunque, anni folli». 

A cosa si riferisce?

«Durante la detenzione succedeva di tutto. C'era un dirigente medico di Rebibbia che scriveva tutte le cartelle cliniche false per farci ricoverare - detenere nel reparto infermiera. Era un reparto più confortevole rispetto alla detenzione ordinaria, ma si trovavano solo detenuti importanti che non avevano nessun problema fisico. Mi ricordo che ci trovai Mehmet Ali Aca e in quel reparto c'erano tutti tranne quelli in cui ne avevano bisogno».

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica - Edizione Roma” il 10 agosto 2022.

«Enrico Nicoletti disse che era preoccupato per "quella ragazza" che era seppellita nella costruzione di Torvaianica, "quella ragazza che seppellirono alle nostre spalle", anche se "dovrebbero buttare giù la casa per trovarla"». Sono le parole di Raffaello Fanelli, uomo di fiducia di Enrico Nicoletti, l'ex cassiere della Banda della Magliana. 

Fanelli a ottobre del 2008 racconta agli investigatori la sua verità. Non era stato l'unico, però, a riferire agli agenti della squadra mobile che il corpo della 15enne era stato seppellito a Torvaianica. La prima a citare la cittadina sul litorale sud romano era stata Sabrina Minardi, l'amante di De Pedis nei prima anni Ottanta. La donna interrogata dai pm a giugno del 2008, rivelò che Emanuela sarebbe stata uccisa e il suo corpo, rinchiuso dentro un sacco, gettato in una betoniera.

Tuttavia Minardi non riuscì mai ad indicare con precisione il cantiere in cui, secondo la sua versione, venne fatto sparire il cadavere della figlia del messo pontificio. 

Ad ogni modo la polizia, a settembre del 2008, si recò nel carcere di Napoli Poggioreale, dove era detenuto Fanelli. 

Questo sono alcuni passaggi delle sommarie informazioni: «Poco prima o subito dopo l'omicidio di Renatino De Pedis, all'interno dell'autosalone Tuscolano - raccontò Fanelli - Enrico Nicoletti in mia presenza parlò con suo figlio Toni di una verifica che la Guardia di Finanza stava facendo a una sua società di costruzione, penso si chiamasse Vuma. (...) Nicoletti disse a suo figlio che era preoccupato non per la verifica della Finanza, ma per "quella ragazza" che era seppellita nella costruzione di Torvaianica. Nicoletti disse che si trattava di "quella ragazza che seppellirono alle nostre spalle", intendendo che qualcuno lo fece senza dirgli nulla prima. Comunque, per tranquillizzare il figlio, disse: "Dovrebbero buttare giù la casa per trovarla". Da quello che ho potuto apprendere Emanuela Orlandi morì subito dopo il sequestro per un "incidente" e per questo la Banda della Magliana la seppellì nella costruzione».

L'inchiesta è stata poi archiviata nel 2015. Una richiesta di archiviazione che aveva suscitato una contrapposizione in procura. Da una parte l'allora procuratore capo Pignatone che riteneva legittimo terminare l'indagine che andava avanti da diversi anni. Dall'altro il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo che insisteva per proseguire l'inchiesta.

"Emanuela Orlandi l'ho rapita io": la confessione shock dell'uomo di fiducia del boss della Magliana. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 6 agosto 2022.

Per il sequestro Marco Sarnataro venne ripagato da Enrico De Pedis, capo della sanguinaria banda, con una Suzuki 1100. Pedinò per alcuni giorni la giovane e poi ebbe il via libera per "prelevarla". La rivelazione nell'interrogatorio del padre.

Il figlio aveva rapito Emanuela Orlandi. Marco Sarnataro, morto nel 2007 a 46 anni, faceva parte del commando che, per conto della Banda della Magliana, aveva prelevato la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Salvatore Sarnataro, classe 1940, padre del sequestratore, con diversi precedenti penali alle spalle, lo aveva confermato alla squadra mobile.

Giuseppe Scarpa per “la Repubbilca - Edizione Roma” il 9 agosto 2022.

«L'ho fatto per soldi». Le parole sono di Sergio Virtù. Non uno qualsiasi nella mala romana. Autista e guardaspalle di Enrico De Pedis, boss della Banda della Magliana. È lui l'uomo indicato da tre diversi testimoni come uno dei protagonisti del rapimento di Emanuela Orlandi. A tutto ciò si aggiunge l'intercettazione tra Virtù e la sua fidanzata dell'epoca. 

È il 20 dicembre del 2009. L'uomo di fiducia di De Pedis capisce di essere in quel momento indagato dai pm. La compagna è spaventata lo chiama al cellulare. Teme che lo possano arrestare. Ecco i principali passaggi della loro conversazione: «Di notte - le dice la donna - ti ho mandato un messaggio, visto che abbiamo parlato, io ancora stavo sveglia, non riuscivo a dormire. Ho guardato internet, questa cosa che mi hai detto tu. Questa Olanda, Olinda». «Orlandi, Orlandi», replica Virtù. «C'è qualcosa di concreto per... » , chiede la compagna. «.......(silenzio, sospira) Bè quando ci vediamo a voce te lo dico. Mo l'hai capito perché cambio sempre i numeri (del cellulare, ndr)?».

La conversazione prosegue: «Ti assicuro una cosa - sottolinea la compagna - io ti voglio bene. A me non interessa quello che è successo nel tuo passato, nel tuo presente e che succederà nel tuo futuro, questa cosa non...». «Sì per carità purtroppo quando ero giovane - ammette Virtù - stavo in un ambiente un po’ particolare eravamo tutti scapestrati. Però mica che mi pento di quello che ho fatto. Non me pento, te dico la verità, l'ho fatto per soldi e non me ne frega niente de quello che ho fatto». 

Poco dopo l'intercettazione Virtù viene interrogato dalla squadra mobile. Gli agenti gli chiedono conto di quelle parole. Di quel discorso sui soldi, sull'Orlandi, sul fatto che avrebbe raccontato alla sua compagna, in privato, e non al telefonino, tutto quello che sapeva sul caso della 15enne scomparsa il 22 giugno del 1983. Questo è ciò che risponde alla polizia e che gli investigatori sintetizzano così: «Nega di essere lui l'uomo che si sente nella telefonata, nonostante fosse a lui riconducibile l'utenza intercettata». Dopodiché non compare agli atti dell'inchiesta una comparazione della sua voce con quello dell'uomo che parla al cellulare con la donna.

Caso chiuso. Come l'inchiesta nel complesso, di fatto poi archiviata nel 2015, nonostante all'interno della procura - tra procuratore capo e aggiunto - ci fossero opinioni differenti. Radicalmente diverse. Un'indagine che Pietro Orlandi e il suo avvocato Laura Sgrò vorrebbero, adesso, che venisse riaperta. 

Ma ecco come Sergio Virtù entra nell'indagine. La prima a parlarne è Sabrina Minardi, amante di De Pedis tra il 1982 e il 1984. La Minardi, in una testimonianza resa il 4 giugno 2008 alla polizia, racconta l'episodio in cui lei, dopo il rapimento dell'Orlandi è incaricata di portare la ragazza in Vaticano. Questa la sintesi dell'interrogatorio: «Minardi si recò insieme a De Pedis al Gianicolo, nei pressi dell'omonimo bar, dove vennero raggiunti da tale Sergio (Virtù. Minardi lo riconoscerà in una foto che le verrà mostrata, ndr) a bordo di un'auto Bmw che recava con sé la ragazza (Orlandi, ndr)».

Dopo la Minardi è la volta di Salvatore Sarnataro, padre di Marco morto nel 2007. Sarnataro senior, il primo ottobre 2008, racconta agli investigatori che il figlio gli confessò il rapimento dell'Orlandi su ordine di De Pedis. 

Secondo Sarnataro, il figlio con due complici sequestrò Emanuela, la caricò su un Bmw e poi la consegnò a Virtù ai laghetti dell'Eur. Infine il pedinamento. Un'amica di Emanuela, Gabriella, i primi di settembre del 2008, riconosce in un album fotografico che gli viene mostrato dalla polizia (18 foto) Sergio Virtù come l'uomo che toccò il braccio della 15enne dicendo " eccola", pochi giorni prima del rapimento.

GIUSEPPE SCARPA per la Repubblica - Roma il 6 Agosto 2022.   

Il figlio aveva rapito Emanuela Orlandi. Marco Sarnataro, morto nel 2007 a 46 anni, faceva parte del commando che per conto della Banda della Magliana aveva prelevato la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Salvatore Sarnataro, classe 1940, padre del sequestratore, con diversi precedenti penali alle spalle, lo aveva confermato alla squadra mobile. I poliziotti lo avevano sentito come testimone. Gli agenti l'avevano ascoltato dopo che due amici della 15enne rapita avevano riconosciuto senza ombra di dubbio nel figlio Marco (tra numerose foto che gli vennero mostrate) quel giovane che li seguiva da tempo in modo ossessivo salvo poi svanire nel nulla proprio dopo il sequestro.

Sarnataro rappresentava la bassa manovalanza criminale della "Banda" e niente più. Per il rapimento venne ripagato da Enrico De Pedis, il boss, con una Suzuki 1100. Ecco il verbale, inedito, reso nell'ottobre del 2008, durante un'inchiesta della procura di Roma che stava dando i suoi frutti e che forse è stata archiviata troppo frettolosamente come hanno sempre sostenuto i familiari di Emanuela.

«Dopo aver lungamente riflettuto ho deciso di riferire alle signorie vostre - spiega Salvatore Sarnataro ad ottobre del 2008 - quanto appreso da mio figlio Marco alcuni anni fa in relazione alla vicenda di Emanuela Orlandi. Poco tempo dopo il sequestro, ricordo che eravamo Regina Coeli, sia io che mio figlio ( accusati per spaccio e detenzione di armi, ndr). Quest' ultimo durante l'ora d'aria mi confessò di aver partecipato al sequestro dell'Orlandi nei termini seguenti: mi disse che per diversi giorni, sia lui che "Ciletto" (Angelo Cassani, ndr) e "Giggetto" (Gianfranco Cerboni, ndr), pedinarono Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il "Presidente" (il boss della Banda della Magliana, ndr). Mio figlio mi disse che dopo averla pedinata per alcuni giorni, ebbero da De Pedis l'ordine di prelevarla.

Marco mi riferì che l'avevano fatta salire su una Bmw berlina a piazza Risorgimento ad una fermata dell'autobus. La ragazza salì sulla macchina senza problemi. Almeno questo mi raccontò Marco. Mio figlio mi disse che erano stati sempre loro a prelevare la ragazzina non mi specificò se erano tutti e tre. Di certo c'era Marco e uno tra "Giggetto" e "Ciletto", però potevano essere anche tutti e tre perché Marco usò l'espressione "l'abbiamo presa". Quindi la condussero al laghetto dell'Eur dove li stava aspettando Sergio, che era l'autista e uomo di fiducia di De Pedis. Stando al racconto di Marco, sia la ragazza che l'autovettura vennero prese in consegna da Sergio. Venni a sapere poi che mio figlio, per questa cortesia, ebbe in regalo una moto Suzuki 1100. Non mi ricordo se Marco mi disse chi gli avesse dato la moto, se Raffaele Pernasetti (esponente di spicco della Banda della Magliana, ndr), oppure un'altra persona. Io non so davvero perché Marco decise di raccontarmi del suo ruolo nel sequestro dell'Orlandi, io compresi subito che stava passando un periodo di paura».

"Emanuela rapita da lui". Spunta l'identikit: cosa faceva alla Orlandi. Due amici di Emanuela riconobbero il presunto rapitore della ragazza: "Le toccò il braccio mentre camminava. Disse 'eccola, è lei'". Rosa Scognamiglio il 7 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Prima di essere rapita, il 22 giugno 1983, Emanuela Orlandi sarebbe stata pedinata per giorni. Due amici della 15enne, Angelo R. e Paola G., riconobbero in una foto segnaletica il presunto sequestratore. Si trattava di tal Marco Sarnataro, uno degli scagnozzi di Enrico De Pedis, il boss del Magliana. Sarnataro confessò al padre, Salvatore, di aver rapito Emanuela per ordine di Renatino. La confessione fu messa a verbale il 24 settembre del 2008. Ma con l'archiviazione dell'inchiesta, nel 2015, la pista che legava la malavita capitolina alla misteriosa scomparsa della figlia del messo vaticano sfumò rapidamente.

"Ho rapito io Emanuela Orlandi": la confessione choc

I verbali degli amici di Emanuela

La chiave di volta del "giallo" potrebbe essere nei verbali di Angelo e Paola che, il 22 settembre del 2008, furono sentiti in qualità di testimoni dagli agenti della Mobile coordinati da Vittorio Rizzi. I due ragazzi indicarono, tra le 18 fotografie di pregiudicati mostrategli dagli investigatori, proprio Marco Sarnataro. Stando a quanto scrive la Repubblica, Angelo avrebbero ricordato due episodi in particolare. Uno, confermato anche da Paola, è a dir poco rabbrividente. "Il 19 o 20 giugno 1983" la comitiva di amici, tra cui vi era anche Emanuela, venne affiancata da un'auto "in via dei Corridori". A bordo della vettura ci sarebbero stati due giovani; quello al lato del conducente si sarebbe sporto dal finestrino e toccando il braccio della 15enne avrebbe esclamato: "Eccola, è lei".

Pietro Orlandi: "Emanuela? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..."

La rivelazione

Due giorni dopo aver messo nero su bianco le dichiarazioni dei ragazzi, gli agenti della Mobile interrogarono Salvatore Sarnataro, il padre del presunto rapitore, morto all'età di 46 anni nel 2007. Dopo aver indugiato, chiedendo "48 ore per riflettere", Sarnataro decise di raccontare quanto gli avrebbe riferito il figlio durante l'ora d'aria a Regina Coeli (erano entrambi detenuti per spaccio e detenzione illegale di armi ndr). "Mio figlio rapì Orlandi su richiesta di De Pedis. - spiegò agli inquirenti -Mi confessò di aver partecipato al sequestro dell'Orlandi nei termini seguenti: mi disse che per diversi giorni, sia lui che 'Ciletto' (Angelo Cassani, ndr) e 'Giggetto' (Gianfranco Cerboni, ndr), pedinarono Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il 'Presidente' (il boss della Banda della Magliana, ndr)".

Il pedinamento

Ad avvalorare il racconto di Sarnataro è il verbale di Angelo che racconta in modo dettagliato e preciso del pedinamento. "Il giorno prima della sua scomparsa ( Emanuela, ndr) c'eravamo dati appuntamento davanti al Vaticano, in via di Porta Angelica, per andare a fare una passeggiata, insieme a noi c'erano altri amici. - spiegò l'amico della 15enne - Da Porta Angelica ci siamo diretti verso via Ottaviano, poi verso viale Giulio Cesare in quanto volevamo andare in una sala giochi. Fin da Porta Angelica ci siamo accorti che un ragazzo di 22 - 23 anni, ci seguiva. Ho avuto l'impressione che si trattasse di un pedinamento: noi camminavamo piano e lui, pur mantenendosi a distanza, adeguava il suo passo al nostro. In viale Giulio Cesare siamo entrati nella sala giochi, ci siamo intrattenuti dieci minuti. Quando siamo usciti il soggetto era fermo davanti alla sala giochi e, non appena abbiamo preso la strada del ritorno verso il Vaticano, lui ha preso a seguirci fino a Porta Sant' Anna. Ricordo che notai che appena Emanuela entrò all'interno del Vaticano, la persona che ci seguiva si dileguò".

Emanuela Orlandi, la svolta-choc: in un documento il nome del rapitore. Libero Quotidiano il 06 agosto 2022.

Il rapitore di Emanuela Orlandi ha un nome e un volto: quello di Marco Sarnataro che, per conto della Banda della Magliana, sequestrò la figlia del messo pontificio il 22 giugno del 1983. Lo rivela Repubblica che ha trovato l'interrogatorio del padre dell'uomo, Salvatore Sarnataro, datato ottobre 2008 (un anno dopo la morte di Marco). Ora a distanza di quasi 15 anni, quel documento spunta fuori da chissà quale cassetto regalando alla cronaca dettagli preziosi. Il verbale, inedito, fa parte dell'inchiesta della procura di Roma che stava dando i suoi frutti sul sequestro e che forse è stata archiviata troppo frettolosamente come hanno sempre sostenuto i familiari di Emanuela. 

Dal documento pubblicato su Repubblica risulta che Marco Sarnataro venne ripagato da Enrico De Pedis, boss della banda, con una Suzuki 1100. Sarnataro pedinò per alcuni giorni la giovane e poi ebbe il via libera per "prelevarla". La "confessione" di Marco Sarnataro al padre avvenne durante l'ora d'aria a Regina Coeli (entrambi erano detenuti per spaccio e detenzione di armi): gli disse che per diversi giorni, sia lui che "Ciletto" (Angelo Cassani) e "Giggetto" (Gianfranco Cerboni), pedinarono Emanuela Orlandi per le vie di Roma su ordine di Renato De Pedis, da loro chiamato il "Presidente". "Mio figlio mi disse che dopo averla pedinata per alcuni giorni, ebbero da De Pedis l'ordine di prelevarla. Marco", si legge nel verbale d'interrogatorio, "mi riferì che l'avevano fatta salire su una Bmw berlina a piazza Risorgimento ad una fermata dell'autobus. La ragazza salì sulla macchina senza problemi. Almeno questo mi raccontò Marco. Mio figlio mi disse che erano stati sempre loro a prelevare la ragazzina non mi specificò se erano tutti e tre. Quindi la condussero al laghetto dell'Eur dove li stava aspettando Sergio, che era l'autista e uomo di fiducia di De Pedis. Stando al racconto di Marco, sia la ragazza che l'autovettura vennero prese in consegna da Sergio. Venni a sapere poi che mio figlio, per questa cortesia, ebbe in regalo una moto Suzuki 1100". "Io non so davvero perché Marco decise di raccontarmi del suo ruolo nel sequestro dell'Orlandi", conclude Salavatore Sarnataro, "io compresi subito che stava passando un periodo di grande paura".

L'uomo nero. I delitti e i segreti di Marco Accetti: dalla morte del piccolo Josè al caso Orlandi. Giacomo Galanti, Giuseppe Scarpa. La Repubblica il 28 Luglio 2022.  

Il fotografo ha avuto un ruolo in almeno sei casi di cronaca nera della Roma degli anni '80. Oggi è la chiave per il caso di Katty Skerl.

Chi è davvero il fotografo 66enne Marco Fassoni Accetti? L'uomo che il 27 marzo 2013 si è autoaccusato dei sequestri di Mirella Gregori ed Emanuela Orlandi del 7 maggio e 22 giugno del 1983. Il fotografo che incrocia 6 casi, tra rapimenti e omicidi di ragazzi giovanissimi, all'interno di una lotta intestina in Vaticano. Un modo, secondo Accetti, per lanciarsi messaggi tra due gruppi in feroce lotta, uno che si stringeva attorno a Papa Wojtya e che voleva una politica intransigente contro l'Urss e un altro che, con il blocco comunista, spingeva per una linea meno rigida.

Emanuela Orlandi, la tomba vuota di Katy Skerl e un’etichetta («Frattina») riaprono il giallo. di Fabrizio Peronaci su Il Corriere della Sera il 21 Luglio 2022.

Ispezione nel cimitero Verano: la bara della 17enne uccisa nel 1984 è sparita. Era stato il testimone del caso Orlandi a parlare del furto della cassa e della camicia indossata dalla defunta. Forse recuperata una maniglia d’ottone

Una tomba vuota e un indizio lugubre e sorprendente, che potrebbe contribuire a svelare il mistero Orlandi: l’etichetta applicata sulla camicetta bianca con la quale fu sepolta una ragazza, uccisa alcuni mesi dopo la scomparsa di Emanuela.

A quasi 40 anni di distanza, il giallo della figlia quindicenne del messo pontificio di papa Wojtyla torna d’attualità per gli sviluppi di un altro cold case. La conferma, che ammanta di un velo macabro la vicenda, è arrivata nei giorni scorsi: la tomba di Katy Skerl, la diciassettenne trovata strangolata a Grottaferrata il 21 gennaio 1984, come si sospettava da tempo è vuota. La lapide posta nel Riquadro 115, n° 84 , Fila 2 del Verano, cimitero monumentale di Roma, è stata smurata e la cassa di legno è sparita. Un fatto senza precedenti nella lunga sequenza di delitti e misteri della Roma più nera. Se di furto si è trattato, le indagini ora dovranno accertare anche la probabile complicità di qualche addetto cimiteriale con la banda di criminali necrofori. In ogni caso, anche i gialli di Emanuela Orlandi e della coetanea Mirella Gregori (entrambe sparite nel 1983, la prima il 22 giugno e la seconda il 7 maggio) sembrano riaprirsi.

È stata la Squadra Mobile, su ordine della Procura di Roma, a effettuare il sopralluogo nel settore dov’è sepolta Katy, studentessa di liceo artistico, appassionata di politica (era iscritta alla Fgci), figlia di un regista svedese noto per alcuni film erotici di successo. L’ordine del magistrato era chiaro: togliere la lastra e vedere se la cassa da morto c’era oppure no. Gli investigatori così hanno fatto e, aperto il fornetto, non credevano ai loro occhi: loculo vuoto. La bara era sparita, chissà da quanto tempo. Non è stato confermato, ma pare che all’interno sia stata recuperata una maniglia d’ottone. Sul lato destro c’erano segni di effrazione e di intonacatura, come se qualcuno in precedenza avesse smurato la lapide, salvo poi ricollocarla al suo posto. La tomba è stata recintata da nastri bianchi e rossi e al marmo è stato attaccato un foglio intestato Questura di Roma con su scritto: «Sottoposto a sequestro penale». Di certo l’inchiesta della Procura (procedimento penale n. 94215) è stata aperta di recente, in base a una rivisitazione degli indizi.

Lo stato del sepolcro di Katy al Verano, in effetti, rappresentava da tempo un punto sospeso, uno dei misteri collaterali del giallo della “ragazza con la fascetta”. Nel 2013 fu il fotografo romano e reo confesso del caso Orlandi - quel Marco Accetti che consegnò il flauto, subito riconosciuto dai familiari come quello della loro congiunta - a dichiarare che l’omicidio Skerl andava inquadrato nello stesso contesto. La diciassettenne, a suo dire, era stata uccisa dalla fazione opposta a quella che aveva rapito Emanuela Orlandi: un terribile gioco di ricatti sulla pelle di ragazzine, legati alle forti tensioni di quegli anni all’ombra del Vaticano (scandalo Ior, attentato al Papa, nomine controverse).

A suggello delle sue affermazioni, Accetti ((nel frattempo indagato per sequestro di persona e occultamento di cadavere) mise a verbale che la tomba era vuota, in quanto la bara era stata portata via con l’obiettivo di eliminare una prova del collegamento con la sparizione di Emanuela. Quale? La camicetta bianca indossata dalla defunta, e in particolare l’etichetta «Frattina 1982» applicata sul collo. Si trattava di una parola «non casuale», aveva specificato il supertestimone: in uno dei comunicati di rivendicazione del sequestro Orlandi, giunto nell’estate del 1983, effettivamente appariva, assieme ad altre tracce in codice, la parola «Frattina», mai decrittata dagli inquirenti.

Le rivelazioni di Marco Accetti, oggi 67enne, finirono agli atti dell’inchiesta Orlandi nel periodo in cui fu indagato (2013-2015), e ad esse non fu dato seguito dall’allora procuratore Giuseppe Pignatone, il quale chiese e ottenne dal gip l’archiviazione del fascicolo e il proscioglimento dello stesso fotografo e degli altri cinque indagati (dal sacerdote Pietro Vergari a Sabrina Minardi, ex amante del boss “Renatino” De Pedis). Il titolare delle indagini fin dal 2008, il procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo, si pronunciò in senso opposto e dovette rinunciare all’inchiesta. Sulla questione-tomba fu anche depositato in Procura un esposto, da parte dell’avvocato Giovanni Luigi Guazzotti, allora difensore di Accetti.

Adesso, a quanto pare, l’orientamento a Piazzale Clodio è mutato. Una novità che potrebbe gettare luce sull’intera filiera della Vatican connection ((il fotografo ha dimostrato di sapere molto anche sulla scomparsa della 21enne Alessia Rosati, nel 1994)) e che, di certo, pone due domande inquietanti. Dove è finita la bara con il corpo della povera Katy? Chi sono i macabri mestatori che si sono intrufolati al Verano? 

Fabrizio Peronaci per roma.corriere.it il 23 luglio 2022.  

«Una ragazza con funzioni di spia entrò nell’obitorio ...» «Il corpo della Skerl era stato appena deposto...» «La cassa da morto uscì da un cancello controllato, beffando la vigilanza...» È un viaggio macabro e ai confini dell’incredibile quello intrapreso dalla Procura di Roma per fare luce sull’ultimo mistero della Vatican connection: perché la bara di Katy Skerl, la 17enne uccisa nel 1984, è stata rubata?

L’inchiesta giudiziaria per sottrazione di cadavere ha portato la Squadra Mobile al cimitero Verano dove, nel sopralluogo tenuto il 13 luglio, si è avuta l’inquietante conferma: il loculo, così come da «imbeccata» del superteste del caso Orlandi, era vuoto. La cassa di legno è sparita. Dentro, c’era solo una maniglia d’ottone, dettaglio peraltro di cui lo stesso personaggio aveva già parlato. La famiglia di Katy è caduta dalle nuvole: «Non ce l’aspettavamo, è stato un duro colpo», ha detto una cugina. E adesso, per gli investigatori, si profila la sfida più difficile: mettere ordine nell’intrigo, studiare le connessioni con altri misteri, capire perché i resti di una vittima di omicidio, quasi 40 anni dopo, possano ancora «scottare». 

La catena è da brividi. Katy Skerl, studentessa del liceo artistico di via Giulio Romano, abitante con la mamma (separata) e il fratello a Montesacro, quel 21 gennaio di 38 anni fa, un sabato, aveva appuntamento alle 19 con un’amica sulla Tuscolana, per andare a sciare insieme a Campo Felice il giorno dopo. Ma non arrivò. Fu trovata strangolata la domenica mattina ai margini di una vigna a Grottaferrata. Un maniaco? Un’oscura vendetta? Omicidio dimenticato fino al 2015, quando Marco Accetti, il fotografo che due anni prima si era autodenunciato del sequestro di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori (scomparse nel 1983), iniziò a parlare anche del giallo Skerl.

È da qui che si deve partire: il personaggio-chiave degli ultimi sviluppi è lui. Fondamentale la cronologia. Nella primavera 2015, dopo 13 interrogatori, gli investigatori concludono che Accetti non abbia fornito elementi di autoaccusa sufficienti: la consegna del flauto riconosciuto dai familiari come quello di Emanuela (compresa una specifica abrasione a un angolo della custodia), la quasi identità tra la sua voce e quella del telefonista soprannominato «l’Amerikano» e la conoscenza di molti dettagli non bastano a considerarlo attendibile. L’allora procuratore Giuseppe Pignatone chiede al gip l’archiviazione. E allora lui che fa? Si «vendica» rendendo pubblici i retroscena del delitto di Grottaferrata. Una sfida per dire: altro che mitomane, state a sentire, così imparate a non credermi sulla Orlandi...

Così nasce l’affaire Skerl. L’indicazione del «cenotafio vuoto» al riquadro 115 fu Accetti a pubblicarla nel suo blog, addirittura l’8 settembre 2015. Ci sono voluti quasi sette anni a scoperchiare quella tomba (ulteriore indice della delicatezza del caso) e adesso, verificato che la bara è stata rubata davvero, torna inevitabilmente alla ribalta l’intero racconto.

La versione dell’«uomo del flauto» (famiglia agiata, infanzia in scuole cattoliche, papà massone, spiccato anticlericalismo) è che Katy sia stata uccisa per una forma di ritorsione della fazione opposta a quella in cui lui fu ingaggiato per compiere il sequestro Orlandi-Gregori (e attivare i conseguenti ricatti all’ombra della Santa Sede, nel periodo dello scandalo Ior e dei veleni seguiti all’attentato al Papa del 1981). Scenario all’apparenza inverosimile, ma una circostanza (scoperta dal Corriere) potrebbe consolidarlo: compagna di classe di Katy al liceo era la figlia di uno dei funzionari bulgari accusati di essere stati complici di Ali Agca.. Le ragazzine si frequentarono anche a casa, di pomeriggio. Katy fu scelta come «bersaglio» per questo?

Chiariti gli antefatti, arriviamo al racconto-choc dell’equivoco personaggio: «Della mia intenzione di presentarmi in Procura (cosa poi avvenuta solo nel 2013, ndr) resi partecipi nell’aprile 2005, dopo la morte di Wojtyla, alcuni sodali con cui condivisi le responsabilità per i fatti degli anni ‘80. Seppi che alcuni di costoro - ricostruisce Accetti - temevano che io potessi fare i nomi dei responsabili dell’omicidio di Catherine Skerl , per cui si adoperarono a sottrarre uno degli elementi che poteva legare il caso della ragazza a quello delle Orlandi- Gregori». I regolamenti di conti, pare di capire, erano alimentati da un timore: finire in galera, visto che il reato di omicidio non si prescrive.

Marco Accetti mostra di sapere molto della sventurata Katy. «Quando la Skerl fu vestita per essere deposta nella bara, era presente una ragazza che, spacciandosi per parente, insistette per assistere alla preparazione del feretro. Costei ravvisò un certo elemento indosso alla Catherine, e tale dettaglio fu usato in un comunicato del 1984, ed attribuito alla Orlandi».

Siamo al passaggio-chiave. In successive rivelazioni l’ex indagato chiarirà che il «dettaglio» altro non era che l’etichetta della camicetta bianca indossata dalla defunta con su scritto «Frattina 1982», dicitura che si ritrova in un comunicato del 22 novembre 1984 di rivendicazione del sequestro Orlandi, a firma «Turkesh», contenente sette particolari (alcuni astrusi, altri no) elencati dai rapitori per dimostrare alla famiglia il possesso di Emanuela. Una sciarada: «È così che all’epoca funzionavano le operazioni coperte: utilizzando dei codici», ha sempre replicato lui, che sulle mancate verifiche fece presentare un esposto a Piazzale Clodio dal suo avvocato.

Ed eccoci al furto della bara di Katy. È mattino presto, al Verano... «Per impossessarsi di tale elemento (la camicetta, ndr) alcune persone organizzarono nel 2005 una fittizia squadra di addetti ai lavori cimiteriali - rievoca Accetti - e, simulando un lavoro di riesumazione, smurarono il fornetto e lo richiusero dopo aver prelevato la bara». Scena giudicata inverosimile. Almeno fino all’altro giorno... 

«Tali persone caricarono la cassa su un carro funebre ed uscirono da uno dei cancelli vigilati, come se si trattasse di un’operazione di traslazione. Lasciarono all’interno della tomba una maniglia che svitarono alla stessa cassa. Tale maniglia raffigurava un angelo. Il significato di tale azione era una sorta di codice. Tra i motivi del trafugamento, vi era anche l’intenzione di esercitare alcune pressioni...» Tornano, i ricatti sulla pelle di giovani vittime inconsapevoli e delle loro famiglie. È di certo questa la parte più complessa dell’inchiesta in corso: ricostruire contesto e movente dei fatti.

La conclusione di Accetti, nel post-imbeccata pubblicato nel settembre 2015 sul suo blog, puntava a chiamarsi fuori... «Se poi veramente dovesse risultare la violazione e il trafugamento della salma, non si pensi possa essere opera del sottoscritto. Le mura ed i cancelli del cimitero monumentale e storico del Verano sono alquanto alti, impensabile farne travalicare una bara notte tempo. Inoltre tale azione necessitava in qualunque modo della partecipazione di più persone...»

Già, che sia entrata in azione una gang - per le modalità dell’azione - è fuor di dubbio. E di conseguenza una domanda va aggiunta alle altre: Accetti copre qualcuno? Poi c’è da chiedersi: perché nel 2013 è uscito allo scoperto auto-accusandosi del rapimento di Emanuela, e preoccupandosi molto di essere creduto? Il fotografo oggi 66enne è stato mandato avanti da qualche misterioso «referente», allocato magari in ambienti altolocati? 

L’obiettivo (ferma restando la sua presenza in alcuni passaggi delle vicende) è stato forse favorire un ultimo depistaggio sul movente dell’azione-Orlandi, consegnando alla storia una verità diversa da quella reale? L’uomo del flauto, detta in altri termini, «fa comodo» a qualcuno? I misteri restano e fanno girare la testa, in questa lugubre saga noir. Ma paradossalmente quel loculo buio e vuoto al riquadro 115 del Verano potrebbe regalare inattesi spiragli di luce.

L.d'a. e Giu.Sca. per “la Repubblica - Edizione Roma” il 22 luglio 2022.

Dodici donne uccise in dieci anni. La Capitale al centro di una macabra sequenza di femminicidi. Casi eccellenti, morti meno note. Come unica costante Roma, le sue ombre e i poteri che ne regolano il passo. 

Per Otello Lupacchini, il giudice che istruì il maxi-processo alla Banda della Magliana, è possibile collegare tutti quei drammi. Al punto da poter immaginare l'esistenza di una regia unica, di una sola mano, dietro l'orrore. 

Da Emanuela Orlandi, scomparsa, a Simonetta Cesaroni, uccisa in via Poma, ci sarebbero diversi punti in comune sulle disgrazie dell'Urbe. Così almeno ipotizza Lupacchini, magistrato in pensione che sul tema ha scritto anche un libro con il giornalista Max Parisi. Il titolo è eloquente: Dodici donne, un solo assassino. 

I nomi? Sono quelli di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori. Poi Rosa Martucci, Augusta Confaloni, Bruna Vettese, Tea Stroppa, Lucia Rosa, Fernanda Durante, Katty Skerl, Cinzia Travaglia, Marcella Gianitti, Giuditta Pennino e Simonetta Cesaroni, quelle assassinate.

«Tra tutti questi casi ci sono profonde analogie, questo si può dire con tranquillità», afferma la toga in congedo. 

Dottor Lupacchini, quali similitudini ha individuato?

«Ce ne sono diverse. l cadaveri sono stati spesso trovati denudati, completamente svestiti. O comunque si faceva notare la mancanza di certi indumenti. Poi ci sono la modalità con cui si sono consumati gli omicidi e le caratteristiche fisiche delle vittime. Elementi che, durante un'attività d'indagine, avrebbero dovuto portare gli investigatori ad ipotizzare una stessa tendenza criminosa». 

Veniamo al caso di Emanuela Orlandi. che ne pensa?

«La similitudine, in questo caso, riguarda la modalità con cui è stata approcciata. A Emanuela Orlandi è stata fatta un'offerta per lavorare per l'Avon (che poi si era rivelata una scusa, ndr). Tutte le ragazze sono state approcciate con strane richieste o offerte di lavoro che poi non si sono rivelate vere». 

Insomma, sta dicendo che in quegli anni c'era un serial killer a Roma che non è mai stato preso?

«Probabilmente sì, ma le mie ovviamente sono solo ipotesi. Di certo si sarebbero dovute fare indagini più approfondite dal momento che non c'è mai stato alcun arresto per questi 12 casi». 

C'è una specificità romana in questa catena di assassini e sparizioni, oppure episodi del genere si sarebbero potuti verificare anche altrove?

«Tutto ciò poteva accadere anche altrove. Eppure tutto si è verificato a Roma, tra il 1982 e il 1990, in un periodo storico ben definito e senza mai un colpevole». 

Caso Emanuela Orlandi, il fratello: “Siamo a una svolta. Io e il legale abbiamo elementi in mano”. Valentina Mericio il 22/06/2022 su Notizie.it. 

Sono passati esattamente 39 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi. Il fratello Pietro ha lanciato un appello a quanti sono a conoscenza del fatto. 

A 39 anni esatti di distanza, il caso Emanuela Orlandi potrebbe essere arrivato ad una svolta decisiva. Lo ha fatto sapere il fratello Pietro. L’uomo, sentito da Adnkronos, ha spiegato che lui e l’avvocato sono in possesso di elementi chiave sulla vicenda: “Però ci serve la collaborazione di persone anche che lavorano in Vaticano…”, ha precisato.

Emanuela Orlandi, il fratello lancia un appello. Sul Vaticano: “Non vuole ascoltarci”

L’uomo ha proseguito spiegando a tale proposito che ha provato a mettersi in contatto con persone ritenute a conoscenza del fatto come il Cardinal Abril: “Uno di questi elementi consiste in alcuni messaggi Whatsapp tra due persone vicine a Papa Francesco su telefoni riservati della Santa Sede che parlano di movimenti legati a questa vicenda, di documentazioni su Emanuela, e dicono che ne era al corrente Papa Francesco e il cardinal Abril, che all’epoca era il presidente della commissione cardinalizia dello Ior”.

Quest’ultimo – ha precisato – nonostante i diversi tentativi di contattarlo, non ha risposto: “Gli ho scritto un sacco di messaggi, ma non risponde”.

Pietro Orlandi sostiene di non avere ancora spento la speranza e che anzi, nonostante la disillusione non si è arreso: “Questa volta potrebbe essere quella giusta.

Io la speranza la ho da sempre, ogni volta l’illusione si è trasformata in disillusione ma io non demordo, perché non c’è nessun potere che possa fermare la verità, anche se resta una sola persona a volerla e a pretenderla. E siccome in questo momento qui ce ne sono tante di persone, questo mi fa un immenso piacere e mi da speranza perché moltissime di queste nemmeno la conoscevano Emanuela.

E dopo 39 anni, sono tutte qua”.

Emanuela Orlandi, neanche papa Francesco infrange il muro di gomma del Vaticano: la Santa Sede non riceve i familiari della ragazza. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 9 Giugno 2022.  

Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché "venga fatta luce sul caso", niente si è mosso. L'ufficio del promotore di giustizia dopo la lettera di Bergoglio, non ha dato risposta. Eppure, ciò che la famiglia vuole comunicare, potrebbe rappresentare una svolta in merito alla scomparsa della ragazza, avvenuta 39 anni fa.

Pietro Orlandi ha nuove importanti rivelazioni sul caso di Emanuela. Il Papa, informato sull'accaduto, ha risposto positivamente all'appello in una missiva inviata lo scorso febbraio all'avvocato Laura Sgrò, che rappresenta la famiglia della 15enne sparita 39 anni fa.

Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché "venga fatta luce sul caso", niente si è mosso in Vaticano. L'ufficio del promotore di giustizia a cui è stato chiesto di fissare un incontro da parte della legale, dopo la lettera di Bergoglio, non ha ad oggi dato alcuna risposta.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 9 giugno 2022.

Pietro Orlandi ha nuove importanti rivelazioni sul caso di Emanuela. Il Papa, informato sull'accaduto, ha risposto positivamente all'appello in una missiva inviata lo scorso febbraio all'avvocato Laura Sgrò, che rappresenta la famiglia della 15enne sparita 39 anni fa. Nonostante l'interesse del Pontefice, affinché «venga fatta luce sul caso» , niente si è mosso in Vaticano. 

L'ufficio del promotore di giustizia a cui è stato chiesto di fissare un incontro da parte della legale, dopo la lettera di Bergoglio, non ha ad oggi dato alcuna risposta. Eppure, ciò che la famiglia vuole comunicare, potrebbe rappresentare una svolta in merito alla scomparsa della ragazza, avvenuta ormai 39 anni fa, il 22 giugno del 1983.

Si riapre, perciò, il caso della 15enne svanita nel nulla. Le nuove rivelazioni in possesso del fratello ruotano attorno al cimitero Teutonico. Proprio qui vennero aperte due tombe a luglio del 2019 da parte dei pm della Santa Sede, nonostante la famiglia ne avesse indicato solo una. 

Il sepolcro suggerito dalla fonte di Pietro era vuoto. Tuttavia al suo interno la tomba conteneva una sorta di camera segreta, un ampio vano sotterraneo di 4 metri per 3,70 di recente costruzione. 

Ma quando l'avvocata Sgrò, dopo la scoperta, chiese informazioni sulla storia di quella stanza, non ricevette alcuna risposta dagli inquirenti del Vaticano. Nel frattempo le indagini dei pm della Santa Sede, si rivolsero ad un ossario alle spalle della tomba indicata dai parenti di Emanuela. Un'operazione di " distrazione di massa", per gli Orlandi, che servì a distogliere l'interesse proprio su quel sepolcro vuoto su cui insiste il fratello della 15enne scomparsa.

Ebbene la fonte degli Orlandi continua a parlare. Le sue rivelazioni puntano sempre quella tomba nel cimitero Teutonico che avrebbe custodito i resti, o qualche oggetto di Emanuela, fino a poco tempo prima dell'apertura dell'11 luglio del 2019. Adesso quei resti si troverebbero da un'altra parte. «Faccio seguito alla lettera del 28 novembre del 2021 - scrive Papa Francesco - con la quale ella informava circa l'attività di indagine svolta su Emanuela e su alcuni nuovi elementi in suo possesso, mai emersi, che potrebbero permettere di accertare la verità.

Il comune interesse di voler fare luce sul caso ha orientato da sempre la nostra azione e pertanto - sottolinea Bergoglio - sarebbe opportuno che tali elementi siano condivisi con il tribunale dello Stato Vaticano ». Laura Sgrò ha chiesto un incontro. Ma pare che anche il Pontefice si scontri contro il muro di gomma della Santa Sede, ad oggi la legale non è stata ancora ricevuta.

Anticipazione da “Oggi” il 29 dicembre 2021. In un’intervista a OGGI, in edicola domani, l’ex pm Giancarlo Capaldo conferma: «Ho incontrato due persone a cui ho proposto una collaborazione per trovare una verità che, a parole, cercavamo noi magistrati romani e, sempre a parole, sembrava interessare anche al Vaticano. L’impressione è che la loro disponibilità fosse autentica. In che cosa potesse poi consistere il loro aiuto non lo abbiamo potuto verificare, perché i rapporti di fatto si sono interrotti e non c’è stata più la possibilità di lavorare». Secondo indiscrezioni, scrive OGGI, i due emissari sarebbero l’ex comandante della Gendarmeria Domenico Giani e il suo vice Costanzo Alessandrini. 

Su OGGI Capaldo risponde anche al suo ex capo Giuseppe Pignatone che in una lettera al Corriere lo ha duramente criticato per non avergli mai riferito nulla: «Non posso che prendere le distanze dalle osservazioni del dottor Pignatone, posso solo dire che dal mio punto di vista sono errate, sono molto parziali e non ricostruiscono correttamente quel che è successo».

Ma sapremo mai la verità su Emanuela Orlandi? «Dovrebbe esserci ancora qualcuno che sa come sono andate le cose. Il problema è che la verità interessa a parole. Nei fatti ho potuto riscontrare che, famiglia a parte, non c’è un grande interesse a scoprire questa verità».

"Emanuela Orlandi? In Vaticano sanno. Lo ammisero, ma poi..." Rosa Scognamiglio il 19 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Il fratello di Emanuela Orlandi, Pietro, rivela a ilGiornale.it i dettagli di una trattativa tra l'ex procuratore di Roma e il Vaticano: "Emissari della Santa Sede si resero disponibili a collaborare".

Sono passati quasi 39 anni dalla scomparsa di Emanuela Orlandi, la 15enne romana di cui si sono perse le tracce dal lontano pomeriggio del 22 giugno 1983. Tra ipotesi, supposizioni e indagini ad ampio raggio, il caso continua a essere tra i più intricati e controversi della cronaca degli ultimi 50 anni.

Le recenti rivelazioni dell'ex procuratore di Roma Giancarlo Capaldo hanno aperto nuovi scenari sulla misteriosa vicenda. "Due 'alte cariche' della Santa Sede si resero disponibili a mettere a disposizione ogni conoscenza e indicazione per farci avere 'i resti' di Emanuela", conferma alla nostra redazione Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela.

Sviste, segreti e silenzi Quel macabro mistero che avvolge il Vaticano

Pietro, lo scrittore Tommaso Nelli ha raccontato che nei diari di scuola di Emanuela figurerebbe il numero telefonico di una persona, tal "Federica", mai identificata. Può confermarlo?

"Si, era in un'agendina".

Di chi si tratta?

"Non saprei, probabilmente un'amica o una compagna di scuola. Chiaramente è impossibile che conoscessi tutte le amicizie di mia sorella".

Accanto al nome compare un'annotazione: "Indovina chi è". Secondo lei, cosa significa?

"Non credo sia un dettaglio rilevante. Bisogna tenere conto che all'epoca Emanuela aveva 15 anni , era poco più che una bambina. Forse - ma è solo un'ipotesi - era qualcuno che le piaceva e ci scherzava su con un'amichetta. Chissà. In ogni caso, nulla di importante".

Esclude che possa entrarci qualcosa con la scomparsa?

"Sì, direi proprio di sì. Così come escludo, in generale, che dei ragazzini - parlo di amici e compagni di scuola di Emanuela - possano entrarci qualcosa con il rapimento di mia sorella".

"Emanuela? Qualcuno sa tutto Una frase sibillina del Papa..."

Di recente è emerso un altro retroscena. Pare che nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger, verosimilmente due "alti prelati", avrebbero dato la disponibilità del Vaticano a far ritrovare "i resti" di Emanuela. Lo conferma?

"Assolutamente sì. Anzi fu prospettata una sorta di trattativa".

Che genere di trattativa?

"Il Vaticano chiese alla Procura di Roma 'un aiuto' per spostare le spoglie di Enrico 'Renatino' De Pedis (ex boss della Banda della Magliana, ndr) dalla Basilica di Sant'Apollinare, dov'era stato sepolto, perché ovviamente creava imbarazzo alla Chiesa. Giancarlo Capaldo, all'epoca procuratore e titolare dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela, propose una contropartita".

Cioè?

"Il dottor Capaldo chiese in cambio che fossero restituiti 'i resti' di Emanuela alla nostra famiglia".

E quale fu la risposta?

"Ci furono due colloqui tra Capaldo e due emissari della Santa Sede. Durante il primo incontro dissero che 'gli avrebbero fatto sapere' dopo essersi confrontati con altre persone 'più in alto nella gerarchia'. In quello successivo confermarono che il Vaticano era disponibile a mettere a disposizione ogni conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione".

Lasciarono intendere che avrebbero collaborato o il consenso fu esplicito?

"'Va bene', fu la loro risposta".

"Un ricatto, ora qualcuno parla". L'ipotesi sulla Orlandi

E per quale motivo la trattativa sarebbe sfumata?

"Dopo poco il dottor Giuseppe Pignatone venne nominato capo della procura e chiese l'archiviazione del fascicolo riguardante la scomparsa di mia sorella, che Capaldo rifiutò di firmare. E poi, nel giro di pochi mesi, Papa Ratzinger si dimise".

Quali sono stati i risvolti successivi?

"Lo scorso dicembre, il dottor Capaldo è stato sentito in Procura nell'ambito di un fascicolo aperto a modello 45, quindi senza indagati né ipotesi di reato, dopo che il Consiglio Superiore della Magistratura aveva chiesto informazioni ai magistrati sull'esposto presentato dall'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, sui colloqui intercorsi tra il i magistrati della Procura e il Vaticano".

Cosa è emerso? Ma soprattutto, chi sarebbero i "due emissari" coinvolti nella trattativa?

"Due 'alte cariche' della Santa Fede. Quello che ritengo importante però, al di là delle persone coinvolte, è che per la prima volta il Vaticano abbia ammesso di avere informazioni sulla scomparsa di Emanuela. Lì dentro sanno bene cosa è successo".

Nel corso degli anni sono state formulate molteplici ipotesi sulla scomparsa di Emanuela. A oggi, quale pista scarterebbe?

"Quella dell'allontanamento volontario. Le altre, per una ragione o per un'altra, sono tutte plausibili".

Allora ribaltiamo la domanda: Qual è l'ipotesi più attendibile?

"Emanuela è stata oggetto di un ricatto, qualcosa di grosso. Altrimenti non si spiega perché dopo tutto questo tempo la verità non sia ancora saltata fuori".

Un ricatto tra chi e per cosa poi?

"Per certo non c'entrano i soldi. Un affare, forse uno scambio, in cui sono coinvolti uomini di potere. Quello di mia sorella è stato un rapimento organizzato, su questo non c'è ombra di dubbio".

"È dove guarda l'angelo" La lettera che fa riaprire il caso Emanuela Orlandi

Cosa glielo fa pensare?

"Tante cose. Sin da quella famosa telefonata dopo il rapimento - intendo la prima - in cui Emanuela raccontava di essere una 'ragazza di 15 anni iscritta alla scuola di musica eccetera'. La sensazione è che si trattasse di una registrazione, magari un'intervista che le avevano fatto nei giorni antecedenti alla scomparsa. E poi c'è quella frase di Papa Giovanni Paolo II che non scorderò più: 'Esistono casi di terrorismo internazionale', furono le sue testuali parole quando venne a trovarci per gli auguri di Natale".

Anche il nome dell'ex boss della Banda della Magliana, Enrico "Renatino" De Pedis, torna sempre in questa storia. Secondo lei, perché?

"Penso che abbia avuto un ruolo secondario nella vicenda. Nel senso che è stato impiegato per un lavoro di 'manovalanza', mettiamola così. Ma c'erano - ci sono - poteri ben più consolidati e personalità ricattabili che c'entrano con il rapimento di Emanuela".

Sono 39 anni che si batte per la verità. Dove trova la forza?

"La forza la trovo nell'ingiustizia che Emanuela ha subito e ancora subisce. Lo dico da 39 anni: finché non mi daranno prova del contrario continuerò a inseguire la verità e cercare mia sorella da viva. Emanuela era ed è registrata all'anagrafe come 'cittadina vaticana vivente'".

Rosa Scognamiglio. Nata a Napoli nel 1985 e cresciuta a Portici, città di mare e papaveri rossi alle pendici del Vesuvio. Ho conseguito la laurea in Lingue e Letterature Straniere nel 2009 e dal 2010 sono giornalista pubblicista. Otto anni fa, mi sono trasferita in Lombardia dove vivo tutt'oggi. Ho pubblicato due romanzi e un racconto illustrato per bambini. Nell'estate del 2019, sono approdata alla redazione de IlGiornale.it, quasi per caso. Ho due grandi amori: i Nirvana e il caffè. E un chiodo fisso...La pizza! Di "rosa" ho solo il nome, il resto è storia di cronaca nera.

Fabrizio Peronaci per corriere.it il 16 dicembre 2021. «Quello sventurato bambino nella pineta non ci finì per caso. Un esponente della banda della Magliana cercava ragazzi di vita. Sull’argomento consegnai al dottor Capaldo una nota di sette pagine...». Giallo di Emanuela Orlandi e misteri collegati: all’indomani delle dichiarazioni televisive dell’ex procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo su una trattativa con il Vaticano per individuare il luogo della sepoltura della ragazzina scomparsa nel giugno 1983, parla anche un ex poliziotto della Squadra Mobile a conoscenza di alcuni passaggi dell’inchiesta aperta dalla Procura di Roma nel 2008 e archiviata nel 2015. È l’ex ispettore Pasquale Viglione, da tempo in pensione, a rispolverare dalla memoria un episodio che confermerebbe i legami tra il caso della «ragazza con la fascetta» e la morte di Josè Garramon, 12 anni, figlio di un funzionario uruguayano della Fao, travolto e ucciso nella pineta di Castel Porziano nel dicembre 1983 da quel Marco Accetti, fotografo romano oggi 66enne, poi indagato nel 2013 (dopo aver consegnato il flauto riconosciuto dalla famiglia) e successivamente prosciolto. Il racconto dell’ex ispettore (all’epoca capo della Mobile era Vittorio Rizzi, attuale vicecapo della polizia) si riferisce al 2008, fase investigativa «caldissima» per le rivelazioni di Sabrina Minardi sul coinvolgimento nell’affaire Orlandi del suo ex amante Renatino De Pedis. «Un pomeriggio - ricorda Pasquale Viglione - mi trovavo insieme ad un collega nell’anticamera dell’ufficio di Capaldo che, insieme alla pm Maisto, stava interrogando la Minardi. Ad un certo punto sento il nome ‘Scimone’… Poco dopo, finito l’interrogatorio, dico al magistrato: Dottore, ho sentito che parlava di Scimone. Risposta: Questo glielo ha suggerito lei...».

Ricapitolando: il titolare delle indagini sta torchiando l’amante del boss, il poliziotto da fuori la porta sente pronunciare il nome di Peppe Scimone, luogotenente di De Pedis con fama di perversioni sessuali, lo stesso poliziotto si illude che la pista da lui lungamente battuta sia stata finalmente presa in considerazione ma resta deluso. «A me sono cascate le braccia… - è la prosecuzione del racconto che Viglione ha pubblicato nel gruppo Fb di Pietro Orlandi, il fratello - Su Scimone avevo già redatto una annotazione di sette pagine che lui (Capaldo, ndr) evidentemente non aveva letto. Abitava nei pressi di via Po (episodio in cui De Pedis scaglia un bicchiere di vino contro il muro) e una sera aveva inviato il suo factotum a procurargli un ‘ragazzo di vita’ alla stazione Termini. È agli atti. Inoltre, aggiungo che la famiglia era proprietaria di una villa a Castel Porziano, che lui usava spessissimo. Questa villa, è distante circa 800 metri dal luogo ove fu investito il piccolo José Garramon, rapito mezz’ora prima all’Eur… Mi fermo qui…»

Al di là dell’allusione finale - forse preannuncio di nuove rivelazioni - quanto raccontato dall’ex investigatore della Squadra Mobile riporta l’attenzione sulla mai chiarita fine di Josè Garramon, per il quale Accetti fu condannato a due anni e due mesi di carcere per omicidio colposo e omissione di soccorso (l’ipotesi iniziale di omicidio volontario cadde durante il processo). Secondo Viglione, Capaldo non diede credito all’ipotetico legame Scimone-Garramon (e quindi Accetti-banda della Magliana), al punto che gli rinfacciò di avere imbeccato lui Sabrina Minardi durante precedenti interrogatori, ma resta il fatto che come e perché il bambino si sia trovato in quella pineta alle sette di sera del 20 dicembre 1983 non è mai stato chiarito. Il procuratore aggiunto è sempre stato convinto che sia stato Marco Accetti a caricare Josè sul suo furgone Ford Transit bianco, neanche un’ora prima, all’uscita di un salone da barbiere all’Eur, e che poi il piccolo sia riuscito a fuggire dal veicolo e lo stesso «uomo del flauto», inseguendolo, lo abbia travolto. Adesso, però, il combinato disposto delle nuove rivelazioni apre uno scenario ulteriore e mai emerso: il reclutamento di minori a fini sessuali, in ambienti criminali e non solo.

Emanuela Orlandi, la trattativa segreta. "Ce l'hanno chiesto gli emissari del Papa. Dall'ex magistrato bomba sul Vaticano. Libero Quotidiano il 12 dicembre 2021. Questa sera, domenica 12 dicembre, nella puntata di Atlantide in onda su La7 l'ex procuratore Giancarlo Capaldo, nel 2012 titolare dell'inchiesta su Emanuela Orlandi , in una intervista rivela che nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger diedero la "disponibilità del Vaticano a far ritrovare alla famiglia Orlandi il corpo della quindicenne Emanuela, svanita nel nulla nel 1983, in cambio di un aiuto da parte della magistratura italiana a liberare la Chiesa dall'imbarazzo che aveva creato la scoperta della tomba del boss della Banda della Magliana, Enrico «Renatino» De Pedis, nella basilica di Sant' Apollinare (lo stesso complesso da cui era scomparsa Emanuela)", scrive il Corriere della Sera.

Capaldo è pronto a svelare i nomi dei due emissari e rivela che furono testimoni altre persone e che di quei colloqui esisterebbe anche una registrazione. Una svolta clamorosa che potrebbe portare alla riapertura delle indagini, visto che l'avvocatessa della famiglia Orlandi ha chiesto formalmente alla magistratura vaticana e al Csm di ascoltare Capaldo. "Chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante", spiega Capaldo. "Gli emissari presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione", rivela ai microfoni di Atlantide condotto da Andrea Purgatori.

"Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà. Se fossi convocato nell'ambito di un'attività giudiziaria seria direi chi sono queste persone, se erano presenti altri oltre a me e a queste due persone e se il colloquio è stato registrato. A queste tre domande io risponderò soltanto a chi ha il titolo per chiedermelo". Parole che provocano la reazione di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela: "Sono contento di questa posizione che ha preso il dottor Capaldo dopo tanti anni, sono convinto che farà i passi giusti nelle sedi opportune e sono convinto che farà i nomi di queste persone perché così ci sarà finalmente qualcuno a fare giustizia per Emanuela".

Emanuela Orlandi: «Così il Vaticano promise di rivelare dov’era il corpo». Andrea Purgatori su Il Corriere della Sera il 12 dicembre 2021. L’ex magistrato Capaldo e le nuove rivelazioni sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi: «La trattativa su De Pedis. I due emissari della Santa Sede chiedevano che la Procura riesumasse il boss». Nella primavera del 2012 due emissari di Papa Ratzinger, verosimilmente due alti prelati, diedero la disponibilità del Vaticano a far ritrovare alla famiglia Orlandi il corpo della quindicenne Emanuela, svanita nel nulla nel 1983, in cambio di un aiuto da parte della magistratura italiana a liberare la Chiesa dall’imbarazzo che aveva creato la scoperta della tomba del boss della Banda della Magliana, Enrico «Renatino» De Pedis, nella basilica di Sant’Apollinare (lo stesso complesso da cui era scomparsa Emanuela). Fu l’inizio di una trattativa che inspiegabilmente si arenò, mentre la Procura di Roma decideva l’archiviazione del caso che tra oscuri ricatti aveva coinvolto il segretario di Stato, cardinale Agostino Casaroli, la Banca Vaticana guidata dal discusso monsignor Paul Marcinkus, ed esponenti della potente organizzazione criminale della capitale.

Due incontri

Lo rivela nella puntata di Atlantide in onda stasera su La7 l’ex procuratore Giancarlo Capaldo, all’epoca titolare dell’inchiesta, in una intervista esclusiva alla presenza di Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, e dell’avvocatessa della famiglia, Laura Sgrò. Non solo, Capaldo è pronto a svelare i nomi dei due emissari se verrà interrogato dalla magistratura vaticana o italiana. E in modo indiretto ma inequivocabile racconta che di quell’inizio di trattativa, avviata su richiesta del Vaticano con due incontri negli uffici della Procura, furono testimoni «altre persone» e di quei colloqui esisterebbe addirittura una registrazione. Insomma, a 38 anni dalla scomparsa della ragazza, ecco una svolta clamorosa che potrebbe portare alla riapertura delle indagini, visto che l’avvocatessa Sgrò ha chiesto formalmente alla magistratura vaticana e al Csm di ascoltare Capaldo.

Il boss della Magliana

Tutto comincia nel 2012, sotto il papato di Benedetto XVI, cioè Joseph Ratzinger, con una segnalazione anonima che fa scoprire nella basilica di Sant’Apollinare, a due passi da Piazza Navona, una tomba in cui è sepolto «Renatino» De Pedis, carismatico boss della Banda della Magliana che aveva trasformato l’organizzazione in un «service» a disposizione dei poteri oscuri della politica, della finanza e della Chiesa e nel 1990 era stato ucciso da un killer in una stradina di Campo de’ Fiori. «A quel punto — racconta Capaldo, che in quella fase è “reggente” della Procura — chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante» che getta discredito sulla Chiesa. Ed è allora che Capaldo spiega ai due emissari che anche la famiglia Orlandi ha diritto a ritrovare una sua pace , anche se passando dal dolore per la conferma della morte di Emanuela, cioè dal ritrovamento dei resti della ragazza.

Nuova inchiesta

Gli emissari, continua Capaldo, «presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione». Ma ad un passo dalla possibile soluzione del giallo di Emanuela, accadono due eventi: «Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall’altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà». Ma chi erano i due emissari del Papa? Capaldo su questo è rigido ma va oltre: «Se fossi convocato nell’ambito di un’attività giudiziaria seria direi chi sono queste persone, se erano presenti altri oltre a me e a queste due persone e se il colloquio è stato registrato. A queste tre domande io risponderò soltanto a chi ha il titolo per chiedermelo».

Le mosse della famiglia

Rivelazioni e parole pesantissime a cui Pietro Orlandi, fratello di Emanuela, risponde così: «Sono contento di questa posizione che ha preso il dottor Capaldo dopo tanti anni, sono convinto che farà i passi giusti nelle sedi opportune e sono convinto che farà i nomi di queste persone perché così ci sarà finalmente qualcuno a fare giustizia per Emanuela». E per spingere in tempi brevi anche magistratura vaticana e italiana a fare i «passi giusti» l’avvocatessa Sgro’ ha presentato una richiesta di interrogatorio di Capaldo al Promotore di Giustizia vaticano e al Consiglio superiore della magistratura una «Richiesta di accertamenti sulla condotta dei magistrati della Procura di Roma sul caso Emanuela Orlandi». Per la cronaca (e la storia) dopo quei due incontri la trattativa si arenò, la tomba di De Pedis fu aperta e i resti rimossi, il procuratore capo Pignatone avocò l’inchiesta su Emanuela e la archiviò. Subito dopo essere andato in pensione, papa Francesco lo ha nominato Presidente del Tribunale della Città del Vaticano.

Gianluigi Nuzzi per "la Stampa" il 13 dicembre 2021. L'ex procuratore reggente di Roma Giancarlo Capaldo, coordinatore dell'inchiesta sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, ha stilato la lista di monsignori, ufficiali e militari dei carabinieri, cancellieri che a vario titolo, chi come protagonista, chi come testimone, avrebbero partecipato alla trattativa da lui condotta con il Vaticano per ritrovare i resti della giovane sparita nel 1983 e mai più ritrovata. Un confronto avviato nel novembre del 2011, quando un ufficiale dell'Arma avrebbe portato nell'ufficio di Capaldo al primo piano a piazzale Clodio la richiesta d'Oltretevere di aprire un dialogo riservato e che si sarebbe poi sviluppato con almeno tre incontri - due in procura e uno nella biblioteca apostolica nello stato città del Vaticano. Interlocutori due monsignori che pur di chiudere l'inchiesta avrebbero agevolato in ogni modo il ritrovamento del corpo di Emanuela, chiedendo al contempo di traslare la salma del presunto cassiere della banda della Magliana Renatino De Pedis, ucciso a Roma il 2 febbraio 1990, da incensurato, e sepolto nella cripta della basilica di sant' Apollinare. Una trattativa che - qualora confermata - avrebbe del clamoroso. Infatti, a che titolo gli alti prelati esercitavano pressioni su un'indagine svolta da uno stato estero? Ed è vero che avrebbero potuto offrire indicazioni utili al ritrovamento della Orlandi? Capaldo già lo scorso 17 novembre, in occasione della presentazione del suo romanzo "La ragazza scomparsa" sul caso alla libreria Libraccio di via Nazionale a Roma, aveva confermato l'esistenza della trattativa, mostrandosi poi pronto a svelare i nomi di chi vi partecipò durante la puntata del programma Quartogrado dello scorso 26 novembre. Il primo a ipotizzare un clamoroso dietro le quinte era stato nel 2016 il regista Roberto Faenza nel documentario "La verità sta in cielo". Da parte sua però Capaldo aveva preferito rimanere in silenzio, senza mai né confermare né smentire queste ricostruzioni. Fino appunto a un mese fa quando ha deciso di uscire allo scoperto dicendosi pronto a raccontare tutto. Una posizione che non è sfuggita all'avvocatessa Laura Sgrò, che da tempo tutela gli interessi dei familiari di Emanuela Orlandi. La penalista ha quindi reiterato alla giustizia vaticana l'istanza di sentire Capaldo come aveva già formalizzato nel 2017 dopo che nei primi due capitoli del mio saggio "Peccato Originale" avevo approfondito temi, dati e interlocutori di questi incontri senza ricevere alcuna smentita. La Sgrò ha presentato anche istanza alla prima commissione del Csm affinché ascolti l'ex magistrato per chiarire con quali crismi sono avvenuti questi incontri, se sono stati verbalizzati e se vi sono le registrazioni dei colloqui come ha lasciato intuire lo stesso Capaldo, intervenuto domenica sera nella trasmissione Atlantide di Andrea Purgatori. Dall'identikit che siamo in grado di ricostruire, i due prelati chiamati in causa da Capaldo sarebbero personaggi all'epoca di rilievo della curia con papa Benedetto XVI. Il primo appartenente alla segreteria di Stato con al vertice il cardinale Tarcisio Bertone, il secondo in organigramma in altro dicastero ma in dialogo diretto con monsignor Georg Ganswein, all'epoca segretario particolare di Joseph Ratzinger. I due avrebbero dialogato con il procuratore reggente chiedendo di spostare la salma di De Pedis al cimitero Verano, togliendola dalla cripta della basilica che proprio la Orlandi frequentava per seguire le lezioni di flauto traverso all'istituto "Ludovico da Vittoria". Si tratta ora di trovare conferme alle parole di Capaldo per capire se trattativa c'è stata e qual è stata la sua genesi visto che poi sarebbe finita nel nulla. Di certo qualche mese dopo il nuovo procuratore Pignatone, il 14 maggio 2012, dopo aver assunto la guida delle indagini scelse una mossa ad alto impatto mediatico, incaricando l'antropologo forense Cristina Cattaneo e la polizia scientifica di ispezionare la chiesa e analizzare tutte le ossa conservate sotto la basilica alla ricerca di quelle di Emanuela. Per settimane ai telegiornali scorrevano i servizi su quest' attività ciclopica che si sviluppava su 58.188 reperti ritrovati sia nell'ossario sia nella grotta dei Martiri sotto il pavimento della cripta. All'appello sembra che manchino però 100-110 scheletri che dovrebbero essere lì custoditi e che, invece non si trovano. Mistero. Ancora, proprio in quei giorni l'allora rettore della basilica Pietro Vergari viene indagato per sequestro di persona e conseguente morte di Emanuela e intercettato. Il 19 maggio trapela la notizia sui giornali e lui preso dall'agitazione chiama un'utenza in Vaticano. Al suo interlocutore si rivolge con il titolo di «eccellenza» e quest' ultimo prima lo esorta a stare calmo e non fare errori come in passato («Perché tutte le volte che lei è andato di fuori poi è successo quello che è successo. Stia tranquillo adesso!») e poi letteralmente gli dice: «Guardi che il suo telefono è sotto controllo». Insomma misteri rimasti insoluti ma non determinanti per Pignatone che nel 2015 chiese e ottenne la chiusura dell'inchiesta. Capaldo si oppose e non firmò la domanda che venne accolta e confermata anche dalla Cassazione, lasciando l'assoluto mistero sul destino di questa povera ragazza e sui parenti che ancora oggi non sanno dove piangerla.

Scontro tra magistrati su Emanuela Orlandi. Botta e risposta tra Capaldo e Pignatone. Il Tempo il 13 dicembre 2021. Scontro tra magistrati sul giallo di Emanuela Orlandi. Scintille a Roma sulla giustizia dopo i sospetti dell'ex procuratore reggente di Roma Giancarlo Capaldo, coordinatore dell’inchiesta sulla scomparsa della ragazza figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia che all'epoca, nel 1983, aveva 15 anni, nei confronti di chi gli ha succeduto nel fascicolo.   

Per Capaldo l'intricata vicenda stava per arrivare a risultati concreti, ma poi si sono verificate due cose. "Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà" dice il magistrato in una intervista al Corriere della sera.  

Attacco che provoca la reazione sdegnata di Pignatone che scrive al giornale. "Il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con «emissari» del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del «caso Orlandi»".

Nella lettera di Pignatone al direttore del Corriere, Luciano Fontana, si legge inoltre: "Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti; egli ha anche coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant'Apollinare e i successivi scavi nella cripta che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi. Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dottor Capaldo o dalle altre colleghe".

Lettera di Giuseppe Pignatone al "Corriere della Sera" il 13 dicembre 2021. Caro direttore, con riferimento all'articolo di Andrea Purgatori sulla scomparsa di Emanuela Orlandi pubblicato sul Corriere della Sera di ieri, ritengo opportuno precisare quanto segue: il dottor Capaldo non ha mai detto nulla, come invece avrebbe dovuto, delle sue asserite interlocuzioni con «emissari» del Vaticano alle colleghe titolari, insieme a lui, del procedimento. Nulla in proposito egli ha mai detto neanche a me, che pure, dopo avere assunto l'incarico di Procuratore della Repubblica (19 marzo 2012), gli avevo chiesto di essere informato dettagliatamente del «caso Orlandi». Dopo il mio arrivo a Roma il dottor Capaldo ha continuato per oltre tre anni a dirigere le indagini sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, sentendo personalmente testimoni e indagati, disponendo intercettazioni e attività di polizia giudiziaria e nominando consulenti; egli ha anche coordinato, intervenendo sul posto, le attività per la rimozione della salma di Enrico De Pedis dalla tomba nella Basilica di Sant' Apollinare e i successivi scavi nella cripta che hanno portato al rinvenimento di alcuni scheletri e di numerosissimi frammenti ossei non riconducibili però alla Orlandi. Io non ho mai ostacolato in alcun modo nessuna attività di indagine disposta dal dottor Capaldo o dalle altre colleghe. Non ho mai avocato il procedimento relativo alla scomparsa di Emanuela Orlandi. La richiesta di archiviazione è stata decisa a maggioranza tra i colleghi titolari del procedimento. Io ho condiviso e «vistato», quale Capo dell'Ufficio, tale richiesta, mentre il dottor Capaldo, che non era d'accordo, ha rifiutato - come era suo diritto - di firmarla. La richiesta, presentata il 5 maggio 2015, è stata accolta dal gip, dopo che i familiari della Orlandi avevano presentato opposizione, il 19 ottobre dello stesso anno e confermata definitivamente dalla Cassazione il 6 maggio 2016. Solo dopo essere andato in pensione (23 marzo 2017), il dottor Capaldo ha riferito in libri e interviste delle sue asserite interlocuzioni con emissari del Vaticano. Aggiungo infine un ultimo particolare: la circostanza della sepoltura di De Pedis nella basilica non fu scoperta nel 2012 grazie ad un anonimo, come si afferma nell'articolo così da ricollegarla temporalmente alle asserite «trattative». Essa, infatti, era nota fin dal 1997 ed era stata oggetto di articoli di stampa e di polemiche.

Estratto dell'articolo di Andrea Purgatori per il “Corriere della Sera” il 13 dicembre 2021. […] Tutto comincia nel 2012, sotto il papato di Benedetto XVI, cioè Joseph Ratzinger, con una segnalazione anonima che fa scoprire nella basilica di Sant' Apollinare, a due passi da Piazza Navona, una tomba in cui è sepolto «Renatino» De Pedis, carismatico boss della Banda della Magliana che aveva trasformato l'organizzazione in un «service» a disposizione dei poteri oscuri della politica, della finanza e della Chiesa e nel 1990 era stato ucciso da un killer in una stradina di Campo de' Fiori. «A quel punto - racconta Capaldo, che in quella fase è "reggente" della Procura - chiedono di conferire con me due personaggi del Vaticano, importanti in quel momento, per chiedere la riesumazione del corpo di De Pedis ed eliminare dalla basilica un cadavere troppo ingombrante» che getta discredito sulla Chiesa. Ed è allora che Capaldo spiega ai due emissari che anche la famiglia Orlandi ha diritto a ritrovare una sua pace, anche se passando dal dolore per la conferma della morte di Emanuela, cioè dal ritrovamento dei resti della ragazza. Gli emissari, continua Capaldo, «presero atto del mio punto di vista e si riservarono di sentire alcune persone più in alto nella gerarchia e di darmi una risposta. La risposta avvenne qualche settimana dopo e fu positiva. La disponibilità era quella di mettere a disposizione ogni loro conoscenza e indicazione per arrivare a questa conclusione». Ma ad un passo dalla possibile soluzione del giallo di Emanuela, accadono due eventi: «Io termino la mia reggenza perché a capo della Procura viene nominato Giuseppe Pignatone e dall'altra parte in Vaticano si iniziano una serie di grandi manovre o di scontri sotterranei, come è costume probabilmente in quel contesto, intorno a Papa Ratzinger. E sappiamo poi che Papa Ratzinger da lì a un anno neppure si dimetterà». […]

Dagospia il 28 giugno 2021. Da “Radio Cusano Campus”. Sono passati 38 anni da quel 22 giugno 1983 in cui Emanuela Orlandi scomparve nel nulla. Ma la famiglia non molla e non considera chiusa la vicenda delle tombe al cimitero teutonico. Lo ha annunciato a “Crimini e Criminologia” su Cusano Italia TV l'avvocato Laura Sgrò. Il legale della famiglia Orlandi, al microfono di Fabio Camillacci ha affermato: “La storia delle tombe al cimitero teutonico del Vaticano per noi non è ancora chiusa dopo aver fatto analizzare a spese della famiglia Orlandi tutte le ossa trovate nell'ossario delle due tombe risultate vuote. Tra quelle ossa non c'è traccia di Emanuela ma non sono nemmeno ossa molto datate come dicevano in Vaticano, alcune risalgono al 1950. Ma soprattutto, perché quelle tombe erano vuote senza le nobili riportate sulle lapidi? Perchè la tomba dell'angelo era vuota? Sono risultate molto pulite entrambe le tombe, nonostante a noi continuino ad arrivarci segnalazioni, anonime e non, di quella posizione, cioè che Emanuela fu sepolta lì nella tomba dell'angelo. Sotto quelle tombe c'è pure una stanza completamente vuota: perché fu costruita se non c'è niente? Ho chiesto le planimetrie ma non mi sono state date. Vi garantisco che molte persone sono venute a trovarmi nel mio studio, facendo racconti dettagliati indicando luoghi e personaggi ben precisi però poi dicono, 'ma non dica che ve l'ho detto'. Il mio appello pertanto è questo: chi ci vuole dare una mano deve avere il coraggio di farlo fino in fondo mettendoci nome, cognome e faccia. Ma alla luce di tutte queste segnalazioni le dico che quella tomba non è stata indicata per caso. E proprio per questo, stiamo continuando a verificare quello che ci dicono molti testimoni, quindi ribadisco; per noi la vicenda del cimitero teutonico non è chiusa. Inoltre, mi auguro che presto Papa Francesco rispetto a questa vicenda dica qualcosa e visto che è un pontefice di grande accoglienza, deve convocare presto Pietro Orlandi che sta chiedendo da tempo di essere ricevuto. La collaborazione annunciata e sbandierata dal Vaticano, per me non c'è stata e non c'è”. Poi sul mistero e i tanti depistaggi, l'avvocato Sgrò ha aggiunto: “La scomparsa di Emanuela Orlandi è un unicum nella storia del crimine d'Italia; visto che la sua vicenda è stata messa in contatto nelle indagini con i più grossi buchi neri che hanno riguardato Repubblica italiana e Città del Vaticano. Dall'attentato al Papa, alla Banda della Magliana, passando per l'omicidio Calvi; ma la lista dei misteri è lunga. Quindi uno dei più grossi buchi neri della nostra storia, senza dimenticare che Emanuela Orlandi rimane l'unica cittadina vaticana svanita nel nulla. Dopo 38 anni restiamo convinti che Emanuela sia stata vittima di un ricatto: che sia stata presa da qualcuno per un motivo ben preciso. Un ricatto che ha coinvolto personaggi apicali della Chiesa e che su tutto questo ci ha fatto una fortuna e a oggi senza dubbio ci sono ancora persone che si avvantaggiano di questa storia. Niente a che vedere però con l'attentato a Giovanni Paolo II e Ali Agca: ecco quello è stato il più grande depistaggio per sviare le indagini da ben altro. Compreso il famoso appello dello stesso Wojtyla durante l'Angelus. Non a caso Giovanni Paolo II non era un pontefice che improvvisava: è stato anche un grande politico e un grande capo di Stato che ha cambiato la comunicazione della Chiesa. Quindi cercò il contatto con i rapitori di Emanuela Orlandi perché evidentemente la vicenda lo interessava molto da vicino; solo perché Emanuela era una cittadina vaticana o per altro? Sarebbe interessante saperlo. Il movente del rapimento e del ricatto pertanto vanno cercati all'interno del Vaticano. Aggiungo, che a mio avviso un ruolo determinante in tutta questa storia lo ebbe Enrico De Pedis della Banda della Magliana; quindi credo alle dichiarazioni fatte dall'ex compagna del boss, Sabrina Minardi cioè che fu De Pedis a rapire Emanuela e a farla sparire. Poi una volta che i verbali dell'interrogatorio furono resi pubblici dalla stampa, Sabrina Minardi cambiò versione, evidentemente a tutela di se stessa. Un'indagine bruciata volutamente da qualcuno. E voglio precisare che il gruppo dei testaccini di De Pedis era quello che in quel periodo storico aveva rapporti col Vaticano, rapporti di natura economica con lo Ior, la banca vaticana, e aveva conoscenze importanti all'interno delle mura leonine, tipo il cardinal Poletti”. 

Anticipazione da “Oggi” il 25 marzo 2021. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, ha ritracciato l’attrice, allora 14enne, che nel 1983 recitò nei panni di Emanuela Orlandi in un film diretto da Gianni Crea, prodotto da due faccendieri turchi, Ugur Terzioglu e Vedat Sakir, a loro volta in stretto contatto con Bekir Celenk, indagato in Italia per traffico di droga e armi, imputato chiave nel processo per l’attentato a Papa Wojtyla. Un film all’epoca sequestrato e ora scomparso. «Io ero una ragazzina, con me Crea era gentilissimo, ma non mi considerava un interlocutore. Parlava però con mia mamma, che mi accompagnava sul set. Le diceva che il giallo della Orlandi era un intrigo internazionale, mafioso e politico, e che lui girava quel film affinché se ne parlasse», racconta Ombretta Piccioli, che poi fu attrice di fotoromanzi e oggi gestisce un bar a Figline Valdarno. «Alla prima molto affollata il regista si lamentò con mia madre perché il film era bello, ma temeva che lo sequestrassero». Il film infatti venne fatto sparire. «Se ricordo bene aveva un finale aperto, ma lasciava intendere che Emanuela, dopo tanta paura, veniva finalmente liberata», racconta la Piccioli che all’epoca, per mesi, fu controllata a vista dai genitori: temeva che rapissero anche lei come Emanuela Orlandi.

Anticipazione da “Oggi” il 25 febbraio 2021. Su OGGI in edicola da domani, un documentato articolo fa emergere il mistero della sparizione di un film su Emanuela Orlandi girato in Turchia tre mesi dopo la scomparsa della ragazza e mai passato al visto della censura. Il regista Gianni Crea disse di averne riportato in Italia due copie: non si hanno notizie di quella di cui Gennaro Egidio, il legale della famiglia Orlandi, ottenne il sequestro immediato. Rubata quella custodita negli uffici della casa cinematografica Gaumont. Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, dice a OGGI: «La soluzione di uno dei due misteri ci porterà a capire e risolvere entrambi. Ne sono convinto». OGGI rivela che i Carabinieri del Reparto Operativo di Roma inoltrarono un rapporto giudiziario riservatissimo al Sostituto Procuratore Domenico Sica, titolare delle indagini. Nel rapporto rivelano che i produttori sarebbero due trafficanti turchi, Ugur Terzioglu e Vedat Sakir, residenti a Roma e Milano, che sono a loro volta in stretto contatto con Bekir Celenk, indagato in Italia per traffico di droga e armi, imputato chiave nel processo per l’attentato a Papa Wojtyla, accusato da Agca di aver fatto l’intermediario per i servizi segreti bulgari nell’organizzare l’assassinio del Pontefice. Siamo nel 1983. Meno di due anni dopo Celenk morirà in carcere per un infarto. E i Carabinieri avanzano il sospetto che Terzioglu, in quanto legato a Celenk, possa conoscere notizie sulla scomparsa della ragazza. Come dire, quel film su Emanuela potrebbero averlo girato i complici dei rapitori o addirittura gli stessi rapitori.

Da radiocusanocampus.it il 22 giugno 2020. Sono passati 37 anni da quel 22 giugno 1983 in cui Emanuela Orlandi scomparve nel nulla. Oggi dalle 18 alle 20, la 15enne cittadina vaticana sarà ricordata con un sit-in in piazza Sant'Apollinare a Roma, il luogo dove di fatto fu vista per l'ultima volta. In occasione del triste anniversario, a Radio Cusano Tv Italia, canale 264 del digitale terrestre, Pietro Orlandi ha ripercorso le tappe più dolorose della lunga vicenda. Il fratello della Orlandi intervenuto alla trasmissione “Crimini e Criminologia” curata e condotta da Fabio Camillacci, ha ricordato il momento più brutto, cioè quando ci fu l'illusione di aver finalmente ritrovato Emanuela: “Di momenti di illusione di aver ritrovato Emanuela viva ce ne sono stati tanti in questi 37 anni. Però, quello in cui noi eravamo veramente convinti di andare a riprendere mia sorella risale al 1993, cioè 10 anni dopo la scomparsa. Quella volta io, mia madre e mio padre ci recammo in Lussemburgo perchè da segnalazioni attendibili e da foto che ci erano arrivate, sembrava che Emanuela fosse tenuta all'interno di un convento di suore di clausura. Quindi partimmo non con l'intenzione di andare a verificare ma di andare finalmente a riabbracciare Emanuela. Con noi c'era tutto il gruppo di inquirenti che indagava sulla scomparsa di mia sorella, tra cui: il giudice Adele Rando e il capo della squadra mobile di Roma Nicola Cavaliere. Furono proprio loro a portarci presso la questura di Lussemburgo. Gli stessi magistrati erano convinti che stavolta era fatta, che avevamo tutti insieme ritrovato Emanuela e noi ovviamente eravamo al settimo cielo per la gioia al punto che mentre mia madre era nella stanza dove c'era questa suora che avrebbe dovuto essere Emanuela, io insieme al dottor Cavaliere mi misi al telefono con tutti i giornalisti italiani dicendo loro "preparatevi che torniamo in Italia con mia sorella". Questo per dire che non avevamo dubbi, quella volta eravamo veramente convinti di averla ritrovata. E invece appena mia madre tornò dall'incontro capii subito dalla sua faccia disperata che quella suora purtroppo non era Emanuela. Vi assicuro - ha concluso Pietro Orlandi a Radio Cusano Tv Italia - che per tutti noi quella volta ci fece molto più male del giorno in cui Emanuela scomparve, perchè in una frazione di secondo passammo dalla gioia più grande alla disperazione totale. Comunque, non molliamo nemmeno dopo 37 anni perchè restiamo convinti che prima o poi arriveremo alla verità sulla scomparsa di mia sorella, nella speranza che il Vaticano finalmente accetti di sentirmi”.

Pietro Orlandi: "Mia sorella Emanuela? Quella frase sibillina del Papa..." Pietro Orlandi, parla dei 37 lunghi anni dalla scomparsa della sorella Emanuela: "Non ci fermeremo finché non sarà fatta giustizia". Rosa Scognamiglio, Lunedì 22/06/2020 su Il Giornale. Sono passati trentasette anni dal rapimento di Emanuela Orlandi, la 15enne sparita da Roma il 22 giugno 1983 in circostanze mai chiarite e avvolte in un macabro mistero. “Sembra sia successo ieri, come se il tempo si fosse fermato”, dice Pietro Orlandi, fratello della ragazza, a IlGiornale.it. Pietro, insieme alla mamma Maria e alle altre 3 sorelle, non ha mai smesso di cercare Emanuela, neanche per un solo giorno da quel doloroso mercoledì sera di inizio estate. “Io non riesco a vederla come una cosa lontana, - spiega - anche perché ci sono state, e ci sono ancora, sempre segnalazioni su presunti avvistamenti di Emanuela. Questi 37 anni non sono stati di attesa passiva ma di ricerca, indagini e inchieste. Non ci siamo mai fermati, non possiamo farlo finché non salterà fuori la verità”. Tante, quasi innumerevoli, le piste seguite dagli inquirenti per la risoluzione del caso: da un malaffare che coinvolgerebbe il Vaticano e la Banda della Magliana alla pedofilia. Ma nonostante gli sviluppi della vicenda avvalorino l'idea di un rapimento mirato, la narrazione dei media resta saldamente ancorata all'intreccio di una macabra scomparsa.

Emanuela: una scomparsa o un rapimento?

“Una persona sparisce se c'è una magia. Nel caso di Emanuela si tratta di un rapimento per rivendicazione, non so di che genere, ma è così. In questa vicenda ci sono delle persone che hanno grosse responsabilità. Ed è per questo motivo che, ne sono convinto, il silenzio si stia protraendo per tutti questi lunghi anni. Qui, se vengono fuori dei nomi, salta il banco. C'è tanta omertà e ingiustizia. Sono certo che il Vaticano, in qualunque modo sia coinvolto, sappia qualcosa”.

Cosa ti fa credere fermamente che il Vaticano c'entri con il rapimento?

“Il 3 luglio 1983, poco più che una settimana dopo la scomparsa, il Papa rivolse un appello ai rapitori di Emanuela durante l'udienza domenicale coi fedeli in San Pietro. C'era scritto persino nel consuetudinario bollettino emesso dalla Santa Sede per l'Angelus: 'rapimento Orlandi'. Era la prima volta che se ne parlava in modo così esplicito. E poi, a quello, ne seguirono altri 5 di appelli da parte del Pontefice. Perché? Ma c'è un'altra cosa che ritengo rilevante. In prossimità del Natale, Giovanni Paolo II venne a casa nostra per un augurio. Non dimenticherò mai una frase che pronunciò: 'Esistono casi di terrorismo nazionale e altri di terrorismo internazionale, Emanuela è il secondo'. Un Papa non fa un'affermazione del genere se non sa bene di cosa sta parlando”.

Sono state tante le piste al vaglio degli inquirenti in questi anni. Qual è, secondo te, la più attendibile. Insomma, quando hai avuto la sensazione di essere vicino alla verità?

“Quella dell'attentatore del Papa, il terrorista turco Mehmet Ali Ağca, è sicuramente una valida ipotesi. E credo che se la magistratura abbia seguito quella la pista per lungo tempo, un motivo ci sarà. Il terrorismo di cui aveva accennato Papa Giovanni Paolo II esisteva già. Poi, c'è quella legata alla Banda della Magliana e, quindi, della questione legata che tira in ballo lo Ior. Non mi stupirei se Emanuela fosse finita al centro di un grosso ricatto, un malaffare”.

Ma perché proprio Emanuela?

“Nel 1983 i cittadini vaticani erano pochissimi ed Emanuela era tra quelli. Una cosa che sfugge, quando si parla di questa vicenda è proprio questa: lei era una cittadina vaticana, non aveva una semplice residenza nella Città del Vaticano. Era una ragazza giovane, figlia di un commesso della Prefettura e della casa pontificia. Ci sono elementi a sufficienza per poter credere che la scelta non sia stata casuale”.

E allora, per quale motivo quella pista è stata abbandonata?

“In realtà, è accaduto con tutte le indagini riguardanti il caso. Senza mai giungere a conclusioni certe, senza mai avere conferme né del fatto che fosse viva o morta, tutte le piste sono state poi abbandonate. Alcune, come quella del fascicolo custodito in Vaticano, con 194 pagine di allegati in cui si faceva esplicito riferimento ai costi per 'l'allontamento della cittadina Emanuela Orlandi', in una pensione a Londra dal 1983 al 1997, non è stata ma approfondita”.

Parli del Dossier in cui sarebbero stati spesi dal Vaticano oltre 483 milioni di lire per il suo allontanamento?

“Sì, esattamente. Hanno disbrigato la faccenda alla svelta aggrappandosi a dei cavilli. Solo perché il documento non è firmato, allora, non può essere ritenuto attendibile? Si tratta di un dossier uscito dalla Santa Sede non da chissà dove. Non gli hanno dato l'importanza che meritava. Per questo motivo, sono sempre più convinto che il Vaticano c'entri qualcosa in questa storia”.

Ci sono stati degli anni in cui l'attenzione dei media sulla vicenda è calata. Cosa è accaduto durante quel silenzio?

“Le segnalazioni ci sono sempre arrivate e noi le abbiamo sempre verificate tutte. Abbiamo cercato Emanuela ovunque. Subito dopo il matrimonio, ad esempio, sono partito per Lucerna (Svizzera) perché pensavamo - speravamo - di trovarla lì. Ci giunse anche una segnalazione da Parigi, una fonte molto attendibile e vicina ai Lupi Grigi. Dissero che Emanuela si trovava in un appartamento nella capitale francese ma, quando i carabinieri fecero il blitz, era già vuoto. E sono certo che avesse un fondamento quella testimonianza. In una telefonata successiva, gli stessi confermarono di averla spostata prima del nostro arrivo. Sapevano come eravamo vestiti, dove avevamo svoltato con l'auto e tanti altri dettagli che non possono essere considerati irrilevanti”.

Lo scorso luglio sono stati ispezionati due loculi nel Cimitero Teutonico. “Cercate dove indica l'angelo”, recita un messaggio anonimo che vi è stato recapitato. Ma cosa indica davvero l'angelo di cui si parla nella missiva se poi le tombe erano vuote?

“L'angelo indica non la tomba ma la piastrella antistante. Lì, davanti al marmo, c'è una botola a cui si accede alla ormai famosa stanza vuota dove sono stati rivenuti 26 sacchi di ossa. Il Vaticano ha lasciato intendere che c'era solo una via di accesso a quella sorta di bunker, solo scavando nella terra lo si sarebbe raggiunto. Ma noi, dall'interno della camera sotterranea, ci siamo accorti che in realtà sia accede anche da una botola “dove indica l'angelo”. E non servono grossi sforzi per aprirla, ci sono quattro perni da tirare via. Se c'era qualcosa da eliminare da quel luogo, lo hanno fatto agevolmente”.

Perché mai? Cosa intendi dire?

“Che chi sa cosa è accaduto a mia sorella è ancora vivo o c'è ancora qualcuno da proteggere. Io non so in che misura il Vaticano siano coinvolto nella vicenda. Ma tra le mura della Santa Sede sanno qualcosa, ne sono convinto. Quando vado a casa di mia madre, che vive ancora tra le mura Leonine, i prelati si allontano se mi vedono. Come se avessero paura che io sia Pietro Orlandi. Ma noi continueremo a cercare Emanuela e, soprattutto, ad inseguire la verità. Finché non sarà fatta giustizia, non ci fermeremo”.

Forse ti sembrerà una domanda in opportuna. Credi che Emanuela sia ancora viva?

"La speranza non si è mai sopita. Credo che mia sorella potrebbe essere ancora viva. Dopotutto, non ci sono prove del contrario. A volte, penso che viva in qualche paese lontano e abbia rimosso il passato. Basta poco per plagiare la mente di una ragazzina di 15 anni...".

Tutte le tappe delle indagini ​sul caso di Emanuela Orlandi. Emanuela scomparve il 22 giugno del 1983. Il giorno dopo sono iniziate le ricerche ma, ancora oggi, gli inquirenti non sono riusciti a far luce sul caso. Le tappe delle indagini. Francesca Bernasconi, Venerdì 01/05/2020 su Il Giornale. Era il 22 giugno del 1983 quando Emanuela Orlandi, che all'epoca aveva 15 anni e viveva con la famiglia in Vaticano, scomparve. Quel pomeriggio era andata a lezione di musica e non aveva più fatto ritorno a casa. Le indagini su uno dei casi irrisolti più misteriosi della storia italiana iniziarono il giorno dopo ma, ancora oggi, gli inquirenti non sono arrivati a una soluzione. Le ipotesi intorno alla vicenda vanno dalla pedofilia, al coinvolgimento della Banda della Magliana, fino al collegamento con l'attentato a Papa Giovanni Paolo II. Una svolta nelle indagini sulla scomparsa si ebbe nel luglio 2005, quando nel corso del programma Chi l'ha visto? arrivò una telefonata anonima, che invitava a controllare la tomba nella basilica di Sant'Apollinare: il defunto è Enrico De Pedis, uno dei boss della Banda della Magliana, ucciso nel 1990. Da qui inizia la pista relativa all'organizzazione criminale, sostenuta dalle rivelazioni di Sabrina Minardi, che per qualche anno era stata amante di De Pedis: fu lei a rivelare che Emanuela era stata uccisa e il suo corpo, chiuso in un sacco, era stato gettato in una betoniera a Torvaianica. A quel punto, i magistrati procedono per sequestro di persona e omicidio volontario. Nel maggio 2012 viene aperta anche la tomba di De Pedis, ma non emerge nulla di rilevante sul caso Orlandi. In quegli anni, si delineano altre ipotesi: una lega la scomparsa di Emanuela a trame internazionali, mentre l'altra a Alì Agca, l'attentatore di Giovanni Paolo II. Nel 2014, l'ex membro dei Lupi Grigi si presenta sulla tomba di Wojtyla e la famiglia chiede che venga interrogato, ma i magistrati respingono la richiesta definendo Agca un "soggetto inattendibile", dato che aveva reso già varie dichiarazioni sul caso. Così, la procura chiede l'archiviazione dato che "da tutte le piste seguite e maturate sulla base di dichiarazioni di collaboratori di giustizia e di numerosi testimoni, di risultanze di inchieste giornalistiche e anche di spunti offerti da scritti anonimi e fonti fiduciarie, non sono emersi elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati". La richiesta è stata accolta dal gip e confermata dalla Cassazione. Ma nell'ottobre del 2018, durante alcuni lavori di ristrutturazione di un locale annesso alla Nunziatura Apostolica, vennero trovati dei frammenti di ossa umane, ma le analisi rivelarono che i resti si riferivano all'epoca romana. Nel marzo del 2019, il legale della famiglia chiese al Vaticano informazioni su una tomba del cimitero Teutonico, interno alla Santa Sede, dopo una lettera anonima che suggeriva di controllare la tomba "indicata dall'angelo". La Segreteria vaticana autorizza l'apertura di un'inchiesta e, nel luglio 2019, dispone l'apertura di due tombe. All'interno di esse, però, non vengono trovati resti. Alcune ossa vengono trovate nei sotterranei, ma le analisi stabiliscono che si tratta di resti precedenti al periodo in cui è scomparsa Emanuela.

Ieri, il giudice unico del tribunale vaticano ha deciso di archiviare le indagini relative alla presunta sepoltura della Orlandi nel cimitero Teutonico, lasciando però la possibilità alla famiglia di svolgere ulteriori analisi sulle ossa trovate nei sotterranei.

Alessia Marani per “il Messaggero” l'11 maggio 2020. A Renatino era rimasta sempre fedele. Carla Di Giovanni, 70 anni, la vedova del boss della Magliana Enrico De Pedis, è morta nella clinica Ars Medica dopo una lunga malattia. Le era stato asportato un rene, stava male da tempo. Era lei che aveva ottenuto che la salma del marito, freddato in scooter in via del Pellegrino a Campo de' Fiori il 2 febbraio del 90, fosse seppellita nella cripta della basilica di Sant'Apollinare su intercessione di monsignor Pietro Vergari, il quale attestò in una lettera che De Pedis, in vita, era stato un «benefattore». Renatino ha riposato in pace nella basilica davanti alla quale venne vista per l'ultima volta in vita Emanuela Orlandi fino al luglio del 97 quando Il Messaggero parlò per la prima volta della sepoltura eccellente riservata al malavitoso romano, entrato nell'immaginario collettivo come il Dandi di Romanzo Criminale. Solo nel 2012, però, i resti del boss furono traslati al cimitero di Prima Porta. La cacciata di Renatino da Sant'Apollinare, non era mai andata giù a Carletta, pensionata dell'istituto case popolari, l'ex Iacp per il quale aveva lavorato anche il padre. Per lei Enrico non era affatto un criminale, «il mio Enrico morì da incensurato», ripeteva. Quando venne tolto dalla scena criminale, Renatino aveva 36 anni e ancora non aveva avuto il tempo di incassare condanne definitive. A differenza del Dandi romanzato, amava mantenere una posizione piuttosto defilata, lasciando il lavoro sporco ad altri. Con Carla si erano conosciuti da ragazzi, trasteverino lui, testaccina lei. Il loro matrimonio fu una grande festa. Era il 25 giugno del 1988. A preparare il banchetto di nozze era stato l'amico Giuseppe De Tomasi, detto Sergione che fu a lungo il proprietario del ristorante San Michele, inquilino a prezzi stracciati proprio dello Iacp. Il ristorante venne poi ceduto a Luciano De Pedis, fratello di Renatino, a cui il Campidoglio lo ha tolto per morosità due anni fa. Carla ha continuato a farsi chiamare la «signora De Pedis». Del coinvolgimento dell'ex marito nella vicenda del sequestro Orlandi ne parlava come di un «grande falso». E di quel tradimento con Sabrina Minardi poi sposa del calciatore Bruno Giordano, non ne voleva sentire ragioni: «Al massimo saranno usciti un paio di sere». Sulla sua pagina Facebook Carla aveva ancora la foto della casa di San Lorenzo in Lucina che aveva diviso con il suo Renatino.

Giuseppe Scarpa per “il Messaggero” il 12 maggio 2020. «Mio marito era una brava persona». Ha sempre recitato una parte Carla Di Giovanni. E a quel copione è rimasta fedele sino all'ultimo. Non un ripensamento, nemmeno poco prima di morire. Ma dietro le quinte, la signora De Pedis, moglie di Renatino, pezzo da novanta della banda della Magliana, ha raccontato sprazzi di verità. Lo ha fatto con persone di cui poteva fidarsi, non sapeva certo di essere intercettata nell'ultima inchiesta, poi archiviata, sulla scomparsa di Emanuela Orlandi. E così emerge un'altra Di Giovanni. Astuta, calcolatrice, consapevole di chi era stato il marito e di cosa bisognava dire ai pm per non ingenerare sospetti. Una delle conversazioni più interessanti porta la data del 15 dicembre del 2009. Dall'altra parte della cornetta un certo Monsignore Vergari ex rettore della Basilica di Sant'Apollinare, la chiesa in cui venne tumulato, in una cripta, De Pedis. Ecco la premessa che precede l'intercettazione scritta dagli inquirenti: «la conversazione tra Di Giovanni e Vergari è interessante perché i due si accordano su quanto dire in procura». Ed è questo il consiglio spassionato che la signora De Pedis fornisce al prete, «l'hai conosciuto (Renato De Pedis, ndr) dopo che è successo tutto (il caso Orlandi, ndr)». Insomma suggerisce al sacerdote la linea da tenere di fronte al magistrato. Meglio non ricondurre l'amicizia con il boss al 1983, quando la ragazza 15enne venne sequestrata. Ma c'è di più. Vergari, che non può negare il rapporto con il boss, spiega alla moglie di Renatino cosa vorrebbe dire agli inquirenti: «le cose stanno così, quando io l'ho conosciuto là (a Regina Coeli dove il sacerdote era cappellano), che ci incontravamo quasi tutti i sabati, qualche volta mi chiedeva di dire ai genitori qualche cosa, allora io quando uscivo da Regina Coeli passavo al Popi Popi (ristorante dei De Pedis, ndr), gli dicevo quello che gli dovevo dire e continuavo la strada». «La Di Giovanni quasi inorridita - si legge nelle carte - esclama: questo secondo me è meglio non dirlo». Inoltre don Vergari, sempre al cellulare con la moglie di Renatino, compie una gaffe che gli investigatori notano subito, «si parla di una ragazza morta», poi si corregge «sparita 10 anni prima» dell'uccisione nel 1990 di De Pedis. Insomma un quadro inquietante confermato anche da altre conversazioni spiate dalle forze dell'ordine. C'è un passaggio chiaro in cui Di Giovanni cerca di fare un riassunto delle amicizie criminali di Renatino, ne parla con il suo avvocato ma un nome proprio non riesce a ricordalo e allora afferma: «Ma quanti killer aveva mio marito?». Fino a qui gli sprazzi di verità intercettati. Perché poi in procura, di fronte ai pm, Di Giovanni indossava di nuovo la maschera. E raccontava la sua versione sul marito. Si trattava di un uomo che con le opere buone si era guadagnato una cripta in una chiesa del 780 d.C.: «Quando mio marito venne ucciso chiesi a Don Piero (Vergari) se era possibile far seppellire Renato a Sant'Apollinare. Lui mi disse che era possibile, nelle chiese extraterritoriali, per quelle persone che in vita avevano fatto opere di carità. Quanto alla beneficenza mio marito periodicamente versava del denaro ai poveri, contribuiva al mantenimento dei seminaristi e io mi ero impegnata a fornire di fiori gli altari della chiesa». Infine i pm, nel novembre del 2009, avevano cercato di stimolare la memoria della donna. Insomma Di Giovanni si ricordava dove era De Pedis nel giugno del 1983, quando venne rapita Emanuela Orlandi? «Convivevo saltuariamente con Renato. Mi sembra di ricordare che nei mesi di giugno e di luglio e forse di maggio avevamo affittato un villino a Fregene. Si trattava di un piccolo villino composto da due stanze e un giardino. Mi sembra di ricordare che si trovasse in via Porto Venere o qualcosa del genere. Non ho altro da aggiungere».

Roma: trent'anni fa l'esecuzione di Renatino, boss della Magliana poi sepolto nella basilica dei papi. Era il 2 febbraio del 1990 quando in una affollata via del Pellegrino, davanti al numero 65, Enrico De Pedis venne freddato da un colpo di pistola sparato da uno dei suoi, uno a cui aveva negato la stecca dei suoi guadagni. Federica Angeli l'01 febbraio 2020 su La Repubblica. La sua forza criminale ha cavalcato generazioni di batterie della mala romana. E ancora oggi, a trent'anni dalla sua morte, il padre fondatore della spietata associazione a delinquere che tenne sotto scacco Roma con omicidi, sequestri e spaccio di droga, come uno spettro, ciclicamente viene evocato per "dar lustro" a banditi della Capitale protagonisti di malefatte, quasi a voler esaltare lo spessore della notizia: "era il braccio destro di De Pedis" o "ai tempi della Banda fece parte della batteria di Renatino". Che poi il suo nome era Enrico, ma ormai è rimasto Renatino. Vezzeggiativo che non nuoce alla caratura del personaggio che non è mai stato sfiorato dall'onta di una condanna per mafia, imputazione con cui finì alla sbarra ma da cui fu assolto in Cassazione. Era il 2 febbraio del 1990 quando in una affollata via del Pellegrino, davanti al numero 65, Enrico De Pedis venne freddato da un colpo di pistola sparato da uno dei suoi, uno a cui aveva negato la stecca dei suoi guadagni "perché io ho una cosa che voi non avrete mai: questa" ammoniva il resto della banda picchiando con l'indice la sua testa. E in effetti quell'elegante e curato boss, vestito di tutto punto, diventato il Dandy nella serie Romanzo Criminale, quanto a intellighenzia criminale aveva una marcia in più rispetto alla Banda. Fu il primo a capire, ed è per questo che mollò tutti e proseguì da solo, che invece di bruciarsi i soldi in cocaina e gioco d'azzardo (non fumava, non usava droghe e non beveva) conveniva reinvestirli nel mattone, in business a lungo termine che gli avrebbero garantito tonnellate di banconote. E a quella deve aver pensato quando riuscì ad ottenere il placet del Vaticano per una sepoltura nella centralissima e prestigiosa basilica di Sant'Apollinare. "La sua mania di grandezza lo faceva sentire superiore a tutti gli altri. Solo uno come lui poteva pensare di guadagnarsi il paradiso con una sepoltura degna di un Papa", disse di lui Antonio Mancini, uno dei due pentiti della Magliana. Monsignor Piero Vergari giustificò quella sepoltura ricordando il De Pedis benefattore, quello che agli indigenti che frequentavano quella basilica regalò denaro a fiumi. Il suo sarcofago e il suo soprannome incastonato tra zaffiri nel 2013 lasciarono la cripta di Sant'Apollinare per sbarcare al cimitero di Prima Porta. Questo solo dopo la polemica nata a seguito della riapertura della tomba perché sospettata di contenere, oltre al suo, anche lo scheletro della povera Emanuela Orlandi. Nulla venne ritrovato della giovane scomparsa e nulla confermò intrecci che la ex donna del Dandy, Sabrina Minardi, aveva raccontato sul coinvolgimento di Renatino in quel rapimento. Così il trasteverino a capo della fazione testaccina della Banda, a parte finire in un campo santo senza la sacralità della chiesa, ne uscì pulito anche dalla vicenda Orlandi e quel mistero giace sepolto chissà dove. Mentre lui e il suo nome, a 30 anni precisi dalla sua morte, entrano ancora prepotenti negli scenari malavitosi di protagonisti dell'attualità come Carminati o Diabolik.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 4 febbraio 2020. Erano le 13 del 2 febbraio di trenta anni fa. Via del Pellegrino, proprio dietro Campo de' Fiori. La solita folla: chi comprava le rose, chi la pizza più buona di Roma. Renatino De Pedis era appena uscito da una gioielleria e si stava allontanando a bordo del suo scooter 50. Lo conoscevano tutti in quella zona, il capo della banda della Magliana. Sembrava un signore elegante, azzimato, 36 anni, uno di quelli che non si sporcavano le mani, perché ad agire erano i suoi uomini. Quella mattina, però, per lui era suonata la campana a morto. Stava cercando di tagliare i ponti con il passato, Enrico De Pedis, detto Renatino. E quella moto di grossa cilindrata arrivata senza preoccuparsi del rumore, forse un po' se l'aspettava: due, tre colpi, una raffica di proiettili. Non c'è scampo per il boss dei mille misteri. Sbanda con il suo motorino e finisce a faccia in giù. Ci vorrà parecchio tempo prima di scoprire che a bordo della moto c'erano Marcello Colafigli, detto Marcellone, seduto sul sedile posteriore. E alla guida, Antonio D'Inzillo, il giovanissimo neofascista, deceduto diversi anni fa per una epatite fulminante, mentre aveva trovato rifugio in Sud Africa. De Pedis era nato il 5 maggio del 1954 a Trastevere. Non beveva, non si drogava, non sperperava il denaro. Nella stessa zone risiede ancora oggi il resto della sua famiglia: i fratelli gestiscono dei ristoranti molto conosciuti. Il terreno di conquista, però, era Testaccio, dove era cresciuto e dove lo legava una profonda amicizia con Raffaele Pernasetti, er Palletta (oggi cuoco). Gestiva il racket, le rapine e gli scippi anche nel centro storico della città, ed era finito in carcere la prima volta a soli venti anni. Nel 77 la seconda, insieme con Zanzarone, al secolo Alessandro D'Ortenzi. E fu un bene per lui quell'arresto, perché è riuscito a evitare l'incriminazione per il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, preso in ostaggio e ucciso, che, però, aveva portato nelle casse della banda due miliardi di lire di riscatto. Il bottino necessario ad aprire la porta alla conquista della città. È bastato un attimo al Dandy per arrivare ai vertici del crimine romano. Grazie anche alla morte violenta dei concorrenti, Franco Giuseppucci e Daniele Abbruciati. Renatino sapeva entrare nei consessi giusti: dalla politica ai salotti buoni. Ed è durante quella scalata che potrebbe aver commesso un errore, almeno secondo la verità raccontata su di lui molti anni dopo da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano e amante di De Pedis per tantissimo tempo: la gestione operativa del sequestro di Emanuela Orlandi, la figlia sedicenne di un messo pontificio mai ritornata a casa. A convincerlo ad organizzare il rapimento sarebbe stato l'allora capo dello Ior, monsignor Marcinkus. La fine della ragazza, secondo Minardi, sarebbe stata terribile e il corpo sarebbe finito in una betoniera sul litorale romano. Accuse che non hanno mai trovato un vero riscontro. Anni dopo, per le insistenze della donna che ancora oggi è fedele alla sua memoria, Carla Di Giovanni, sposata con un matrimonio sfarzoso nell'88, la bara del boss della Magliana è stata tumulata all'interno della Basilica di sant'Apollinare con dei diamanti intarsiati nel legno. A firmare il nullaosta per la sepoltura in quel luogo sacro tra nobili e prelati, è stato il cardinale Ugo Poletti in persona, all'epoca presidente della Cei e vicario della diocesi di Roma. «Era un benefattore», aveva giustificato la decisione don Vergari, il rettore della chiesa. Ma si è sempre sospettato che, dietro la decisione, ci fosse un ricatto al Vaticano. Solo dopo molti anni e molte indagini anche nel luogo sacro, la bara è stata spostata a Prima Porta, in seguito i resti sono stati cremati e dispersi in mare.

Renatino De Pedis fu ucciso 30 anni fa. Crimini, amori e amicizie (in tonaca). Pubblicato domenica, 02 febbraio 2020 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. Il capo della banda della Magliana venne assassinato il 2 febbraio 1990 a Campo de ‘ Fiori. Il caso Orlandi e «l’indegna sepoltura» a Sant’Apollinare. I bancarellari attorno alla statua di Giordano Bruno stavano cominciando a riporre le cassette di frutta e verdura, il forno all’angolo continuava a sfornare la pizza più buona di Roma e la sora Cesira, uscita dal macellaio, se ne stava tornando a casa dalle parti di piazza del Pallaro, quando un colpo di pistola, il rombo di una moto, grida, imprecazioni e fuggifuggi richiamarono l’attenzione di tutti verso via del Pellegrino. «L’hanno accoppato! Girate alla larga! Chiamate la polizia!» Erano le 13 del 2 febbraio 1990, un venerdì. Esattamente trent’anni fa. La saga criminale e poi giudiziaria (post mortem) e poi cinematografica di Enrico De Pedis detto Renatino, il boss più celebrato della lunga storia nera di Roma, comincia così. Dalla scena del suo omicidio: «a bocca sotto» sui sampietrini, a due passi da Campo de’ Fiori, freddato da due killer su una potente motocicletta, mentre lui era a bordo di una Vespa 50. Tentò di scampare al fuoco, il «Presidente», come ossequiosamente veniva chiamato nel mondo della «mala» capitolina, anche se aveva solo 35 anni: percorse ancora 40-50 metri in sella, a zig-zag, prima di schiantarsi contro una Renault rossa e crollare. Fine di partita. Sogni di gloria tramontati per sempre. Il rientro in società dalla porta principale, attraverso le amicizie altolocate nel mondo degli affari e all’ombra di qualche sacrestia, non gli riuscì. Renatino De Pedis fu ucciso come un banditello qualsiasi, grazie alla soffiata di una mezzacalza del crimine soprannominata «Giuda», perché aveva smesso di dividere con gli ex compari i proventi di una giovinezza vissuta pericolosamente. E, da quel momento, in una società come quella italiana a corto di punti di riferimento, ormai prossima allo sbriciolamento della I Repubblica sotto un diluvio di mazzette, iniziò la celebrazione del «mito». Di colui che è passato alla storia come il capo della banda della Magliana, ma che in realtà non è che ci avesse messo mai piede, tra quei palazzoni di periferia pieni di povera gente, infestati da zanzare e topi negli scantinati...Renatino era nato il 15 maggio 1954 a Trastevere, dove ancora oggi i fratelli sono noti come gestori di ristoranti, e i suoi movimenti si limitavano al vicino rione Testaccio, per la fraterna amicizia con Raffaele Pernasetti, detto «era Palletta» (oggi cuoco), e alla Roma del centro storico, scavalcato il Tevere passando da ponte Garibaldi o da ponte Sisto. Rapine, scippi, racket ai commercianti: gli esordi da sbarbatello nel crimine capitolino gli costarono il primo arresto a soli vent’anni, seguito da un secondo nel 1977, per un colpo commesso al fianco di Alessandro D’Ortenzi, detto «Zanzarone». Fu un gran colpo di fortuna, in realtà. Trovandosi in galera, infatti, Renatino non fu coinvolto dal punto di vista giudiziario nella prima vera azione della «bandaccia», appena nata dalla fusione di diverse «batterie» di rapinatori: il rapimento del duca Massimiliano Grazioli Lante della Rovere, che fu preso il 7 novembre 1977 e che (nonostante l’uccisione dell’ostaggio) fruttò due miliardi di riscatto, primo tesoro da cui partire per la conquista e il controllo della città. Le tappe successive della carriera di Renatino sono note: anche grazie al suo stile curato, sempre elegante, pettinato, azzimato, De Pedis salì rapidamente ai vertici del crimine romano (anche per la morte violenta dei suoi diretti concorrenti, Franco Giuseppucci detto «er Negro» e Daniele Abbruciati, tra gli altri), facendo leva più sullo spirito imprenditoriale (investimenti in attività pulite come imprese, locali o ristoranti) e sulla frequentazione dei salotti giusti che sulla violenza e il crepitio delle armi. Con qualche passo falso, però. Almeno stando alle rivelazioni a scoppio ritardato (anni Duemila) della sua amante Sabrina Minardi (in seguito moglie del calciatore Bruno Giordano) fu proprio De Pedis nel 1983 a garantire la «gestione operativa» del sequestro di Emanuela Orlandi, la quindicenne figlia di un messo pontificio mai più tornata a casa, per conto di un pezzo da Novanta delle gerarchie ecclesiastiche dell’epoca come il capo dello Ior, monsignor Marcinkus. E sempre lui a sopprimere la ragazzina impastando il corpo in una betoniera sul litorale romano, assieme a quello di un ragazzino (Salvatore Nicitra) che in verità non era ancora stato rapito. Accuse mai fino in fondo dimostrate, comunque. Come quelle relative alle entrature finanziarie e politiche ai massimi livelli di Renatino, che sarebbe stato di casa persino dal divo Giulio. «E poi le cene da Andreotti - ebbe ancora a dichiarare la Minardi - Renato ricercato... Accoglienza al massimo... siamo andati su... eh... C’era pure la signora... la moglie... Una donnetta caruccia... Ovviamente davanti non parlavamo di niente...» Di certo, la donna che ancora adesso ne custodisce con orgoglio la memoria è un’altra: fu con Carla Di Giovanni, conosciuta da ragazzino a Testaccio e oggi pensionata dell’istituto case popolari di Roma, che De Pedis si decise a compiere il gran passo e a unirsi in matrimonio il 25 giugno 1988, a 34 anni, in una cerimonia fastosa e memorabile. La vita privata: da leader. Abitavano, lui e «Carletta», coma la chiamano tuttora i malacarne amici di Trastevere, in un delizioso appartamento sopra piazza San Lorenzo in Lucina, roba da 20 mila euro al metro quadrato, a volerlo acquistare oggi. Pasteggiavano a champagne. Lui talvolta l’accompagnava nelle vicine boutique dell’alta moda. E anche il suo armadio traboccava di modelli griffati. E la morte: altrettanto sfarzosa. Dopo quel 2 febbraio di sangue in via del Pellegrino e un funerale di lusso (come raccontato di recente al Corriere dall’impresario delle pompe funebri), Renatino riposò in un cimitero ordinario, per comuni mortali, come il Verano, neanche due mesi. Poi, in seguito alle pressioni della vedova, evidentemente stimata in ambienti clericali, a favore del defunto scattò una raccomandazione altolocata. Fu infatti il cardinale Ugo Poletti in persona, all’epoca presidente della Cei e vicario della diocesi di Roma, a firmare il nulla osta della Santa Sede alla tumulazione della salma di Renatino nella basilica di Sant’Apollinare, luogo controverso, tra l’altro, perché proprio nell’attigua scuola di musica era stata vista per l’ultima volta Emanuela Orlandi prima di svanire nel nulla. Anche qui, gli sviluppi sono noti. E relativamente recenti: nel 2012, sull’onda delle polemiche sull’«indegna sepoltura», legate anche alle proteste della famiglia Orlandi, i resti del fu «Presidente» della mala romana sono stati spostati altrove. A Prima Porta, in un primo momento. E poi cremati e dispersi in mare, per volere della vedova, che ancora oggi vive quella «cacciata» dalla basilica come un affronto e illustra il proprio profilo sui Social con la foto del loro attichetto nel centro storico di Roma, dirimpetto allo studio di Giulio Andreotti, eletto a simbolo dei tempi ruggenti e felici.

I ricordi di “Franchino”  il becchino: «La bara di De Pedis? Stupenda, un capolavoro». Pubblicato domenica, 20 ottobre 2019 su Corriere.it da Fabrizio Peronaci. L’impresario e i boss: «Per Renatino una cassa baccellata intarsiata a mano. Paradisi? Un amico. Giuseppucci? Un signore» «Noi rovinati dalla bare cinesi vendute a 100 euro». C’era 40 anni fa, in prima linea sul fronte dei morti ammazzati. E lo è ancora oggi, anche se i delitti sono molto diminuiti. Tutti i giorni alle prese con faccende macabre e alquanto repellenti, come vestire una salma, spingere a forza un braccio dentro una cassa se il defunto era obeso, spiegare a una donna fresca di vedovanza che «con tutto il rispetto, signo’, la buonanima se l’è cercata, fare l’amore in quel modo, a una certa età, ti porta dritto al Creatore...». Però lui, «Franchino er cassamortaro», come lo chiamano a Trastevere, al secolo Franco De Gese, 71 anni ottimamente portati, il sorriso non lo perde mai. Elegante come un figurino, lo scambieresti per un direttore di banca o per un funzionario del vicino ministero dell’Istruzione, se non fosse che se ne sta lì da mattina a sera, impettito e di ottimo umore, in attesa di clienti davanti all’impresa funebre affacciata su piazza San Cosimato. Qualcuno, vedendolo, fa il gesto delle corna e si tocca, e lui non gradisce per niente... «Sì, di str... che quando passano davanti al negozio si mettono la mano in tasca ce ne sono ancora. Per fortuna sempre meno... Il nostro è un servizio serio».

Lei iniziò quando il lavoro non mancava. La «mala» qui attorno si ammazzava che era un piacere.

«Alcuni erano amici veri, come Giorgio Paradisi...»

Detto «Er Capece», uno dei fondatori della banda della Magliana, coinvolto nel sequestro del duca Grazioli, attivo nel settore rapine e spaccio di droga.

«E che vuol dire? Uno mica lo sa, da ragazzino, come si diventa poi! Io so’ nato a Campo de’ Fiori, dove i miei c’avevano un banco, e dove negli anni ‘60 altro che Trastevere, la polizia nun entrava proprio. Sa qual era la tecnica? Per mandare indietro una Volante, ai Cappellari, ‘na donna stese una neonata sull’asfalto, davanti alle ruote. ‘Se avete coraggio venite avanti!’strillava».

Paradisi, dicevamo.

«Con me si comportava da brava persona, corretto, gentile. Gli so’ stato vicino fino all’ultimo. Il tumore lo faceva entrare e uscire dal carcere e l’unico che andava a trovarlo a Villa Tiberia ero io».

Gente verace.

«Un pezzo di Roma, umanità vera. Gente che sbagliava, certo. Ma quando ti chiamano per un funerale, mica chiedi la fedina penale. All’inizio facevo il commesso nei negozi, in via Giubbonari. Nel ramo entrai grazie a un cognato, un Chiericoni...»

Onorate pompe funebri.

«Sì, quelle di una volta, Zega, Scifoni... Professionisti veri. Non come oggi, che su Internet ti rifilano bare cinesi a 100 euro, ma quando si solleva la cassa il fondo si stacca e il morto finisce sul pavimento della chiesa. È già successo tre o quattro volte...»

Cose dell’altro mondo.

«Appunto. Qui a Trastevere ne ho viste di tutti colori. Mi misi in proprio a inizio anni Ottanta, periodo di fuoco...»

In tempo per seppellire Franco «er Negro», detto anche «Fornaretto» per il suo primo impiego da panettiere?

Franco Giuseppucci, detto «er Negro»Franchino l’impresario guarda 30 metri più giù, in direzione dell’edicola, all’imbocco di via Dandolo. Lo stesero a pistolettate, al volante della sua R5, davanti all’ingresso laterale del Regina Margherita. Che tempi... «No, fu ammazzato nel settembre 1980, poco prima. Il funerale glielo fece la ditta Olimpica. Io arrivai l’anno dopo, al posto di un negozio di fotografia. Comunque lo conoscevo bene, Giuseppucci: un signore, persona educata, bella presenza, bel sorriso. Ripeto, io parlo dell’impressione che dava all’esterno».

Un po’ come il boss, Enrico De Pedis. Sempre acchittato, inserito in ambienti ecclesiastici, finanziari...

«Ah, già, anche lui un signore. Mai sentito una parolaccia sulla bocca di Renatino. E chi se lo scorda il funerale? Febbraio 1990: vennero da me gli amici. ‘Franchi, nun bada’ a spese’. Io allora ordinai una cassa modello extralusso, stupenda. Il top: una baccellata di mogano intarsiata a mano, con le colonnine sui fianchi, le zampe di leone e il coperchio decorato a conchiglie. Un capolavoro! A San Lorenzo in Lucina, durante la messa, faceva un figurone. Vedesse quante guardie che c’erano...»

Prima destinazione Verano, giusto?

«Certo, uno dei riquadri a destra, dopo l’ingresso in auto. Poi, mesi dopo, non di notte, come fu insinuato, ma alla luce del giorno, in totale regolarità, fui chiamato per il trasferimento nella basilica di Sant’Apollinare. Quante str... avete scritto, voi giornalisti! Che la famiglia aveva versato tre miliardi, che io avevo preso chissà cosa...»

Invece?

«Il giusto: mi pare tre milioni e mezzo di lire. Ci occupammo di tutto: estumulazione, assistenza sanitaria, decreto per l’estero e anche del rivestimento in piombo, imposto dal Vaticano. Infilammo la prima cassa in una più grande, pesantissima. Portarla nella cripta fu uno sforzo immane, a momenti 8 persone non bastavano».

Lavoro sprecato. Nel 2012 la Santa Sede diede l’ok allo spostamento della salma, per far tacere le polemiche, e Renatino finì cremato...

«Non me ne occupai io. La moglie si rivolse ad altri».

All’epoca, durante i lavori a Sant’Apollinare, si disse che il corpo di De Pedis era integro, perfettamente conservato.

«E lo credo. Lavoro preciso, a regola d’arte. E tenuta stagna perfetta, con la doppia cassa piombata».

Solo delinquenti, nella sua carriera?

«Negli anni ‘80 ci fu anche il periodo dei morti ammazzati sul Tevere, all’altezza della Magliana. Noi andavamo e ci toccava aspetta’ l’ok del magistrato, dopo l’autopsia...»

Ma l’eterno riposo a gente perbene?

Renato Salvatori«Ovvio, tantissimi. Quante volte so’ stato a piazza del Popolo, alla chiesa degli Artisti! Fu io ad andare a prendere a Fiumicino Gian Maria Volontè, che era morto in Grecia, e Sylva Koscina, alla Quisisana, disfatta da un tumore, poverina. Delle esequie di Renato Salvatori, quello di ‘Poveri ma belli’, si occupò l’ex compagna francese, fu lei a pagarmi...»

Nostalgia del «vespillone» di una volta? Il vecchio agente della mortuaria che controllava la sepoltura e, per esser sicuro del trapasso, girava con uno spillone e dava una puncicata al piede...

Franchino «er cassamortaro» si fa serio. «Mi stia a sentire. Al di là dei pochi imbecilli che ancora si grattano, noi facciamo un mestiere importante. Invece a Roma il settore è diventato uno schifo: da un lato c’è l’Ama, che spilla tasse a non finire. Duecento euro per aprire un loculo e vedere se c’è spazio per un’urna: 5 minuti di lavoro in tutto. Oltre duemila euro per aggiungere una salma in tombe già piene. Settecento per le cremazioni. Sembra un ministero: il sabato niente inumazioni e durante la settimana alle 16 spaccate chiudono, obbligando i familiari che arrivano anche con 5 minuti di ritardo ad attese dolorose».

Le pompe funebri non sono più quella di una volta. Gli Zega, gli Scifoni, eccetera...

«Purtroppo è così. Oggi a Roma operano 700 agenzie, un’enormità. Alcune si appropriano dei cognomi storici, non essendo eredi. Ci sono cause in corso. Altro esempio: tu chiami un ragazzo pe’ fa’ ‘na spallata, come diciamo in gergo, quello si presenta in chiesa, porta fuori la bara e dopo tre volte si monta la testa, compra una scrivania, attacca il telefono e apre un’agenzia».

No, così non va.

«Certo che no. Diceva Foscolo: All’ombra de’ cipressi e dentro l’urne...»

Franchino, ci risparmi «I sepolcri»!

«La saluto. A presto. In senso buono, eh?»

La lettera di Ali Agca: Emanuela Orlandi  è viva e sta bene  Ecco dove forse è sepolta. Pubblicato giovedì, 25 luglio 2019 da Corriere.it. «Emanuela Orlandi è viva e sta bene da 36 anni». «Non fu mai sequestrata nel senso classico del termine», ma «fu vittima di un intrigo internazionale per motivi religiosi-politici collegati anche con il Terzo Segreto di Fatima»: un intrigo della cui organizzazione «il governo vaticano non è responsabile», mentre è «la Cia» che dovrebbe «rivelare i suoi documenti segreti» in proposito. A sostenere tutto questo è Ali Agca, che in una lettera aperta alla stampa internazionale torna sul caso della ragazza scomparsa il 22 giugno 1983, all’età di 15 anni. Recentemente il caso Orlandi è tornato sui giornali per l’apertura lo scorso 11 luglio di due tombe nel Cimitero Teutonico di via della Sagrestia, all’interno del Vaticano e a poca distanza da San Pietro. Una segnalazione anonima le indicava, infatti, come luogo di sepoltura della giovane scomparsa nel 1983. Le due tombe sono state trovate «vuote» e ora i genetisti sono al lavoro sui resti trovati in due ossari in un’area attigua al luogo di sepoltura ottocentesco di due principesse, Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg.

La famiglia Orlandi al Papa: «Santità, ci dia accesso al fascicolo segreto su di lei». Pubblicato martedì, 19 novembre 2019 su Corriere.it da Laura Sgrò, avvocata della famiglia. L’appello della famiglia della ragazza scomparsa il 22 giugno 1983: «Viva o morta, deve tornare a casa». «Santità, Lei certamente segue con sguardo misericordioso la tragedia di Emanuela Orlandi, scomparsa il 22 giugno 1983, e di cui nulla è dato sapere alla madre e ai suoi fratelli, caricandoli di un dolore che non trova pace. Il padre di Emanuela, Ercole, se n’è andato senza sapere; la madre Maria, anziana e malata, si aggrappa alla vita perché aspetta ancora la sua amata figlia. Viva o morta, Emanuela deve tornare a casa. La famiglia mi ha incaricata di sostenere legalmente la loro ricerca della verità e per questo Le chiedo un atto di carità e di giustizia sovrana, non avendo trovato nei livelli ordinari la necessaria e aperta collaborazione che si auspicava. Testimonianze recenti e investigazioni difensive hanno fornito la certezza dell’esistenza di un fascicolo segreto sul sequestro di Emanuela, che riferiscono di attività precise e strutturate volte a ricostruire quanto è accaduto. Vi è documentazione su Emanuela, custodita nell’archivio segreto dalla Segreteria di Stato e mai condivisa. L’accesso della famiglia a questi documenti mi viene ripetutamente negato da anni. Il silenzio ha prima avvolto la mia richiesta e poi l’ha inghiottita. Mi sono decisa, allora, a questo passo pubblico, spinta anche dall’immagine possente rappresentata da Sua Santità in una Sua recente omelia: il Cristo che consola la vedova di Naim che ha perso il figlio adolescente e le dice: «Donna, non piangere!». Ho ritrovato nelle Sue parole Maria Pezzano Orlandi: «Il Signore fu preso da grande compassione» vedendo quella madre sola, distrutta dal dolore. Compassione e giustizia. Questa tragedia le esige. Eppure uomini di alte responsabilità mi hanno lasciato intendere fosse meglio fermarmi, in qualche modo consegnandomi, come cattolica, alla necessità di evitare scandali. Ma sono fermamente convinta che vi sono momenti in cui l’esigenza di Verità è così forte che nulla può fermarla. Pertanto è una questione di amore, di giustizia e di diritto chiedere a Sua Santità di intervenire.  

Santità, Lei di recente, non temendo la storia, con animo sereno e fiducioso ha autorizzato l’apertura degli Archivi Vaticani per il Pontificato di Pio XII, che, come Lei stesso ha detto, «si trovò a condurre la Barca di Pietro in un momento fra i più tristi e bui del secolo Ventesimo». Anche la scomparsa di Emanuela rappresenta un momento triste e buio del secolo scorso. Adesso, però, sono le Sue mani ferme e misericordiose a guidare la Barca di Pietro. La conduca verso quella Verità che, come ci ha insegnato Nostro Signore, rende liberi». Laura Sgrò è avvocata della famiglia Orlandi.

Caso Orlandi, l’ex nunzio Viganò: ci sono documenti in Vaticano. Pubblicato venerdì, 01 novembre 2019 su Corriere.it. La Santa Sede potrebbe conservare dei documenti sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, come il testo della telefonata che arrivò in Vaticano la sera stessa. Ci sono poi ecclesiastici che in quegli anni rivestivano posti chiave e che dunque potrebbero rivelare più di quanto fino ad oggi sia stato fatto. A parlare del caso Orlandi è per la prima volta l’ex Nunzio Carlo Maria Viganò, già salito alle cronache per i suoi attacchi a Papa Francesco. Il racconto di quelle prime ore dalla scomparsa di Emanuela Orlandi è affidato ad Aldo Maria Valli, ex vaticanista della Rai e oggi autore di un blog con posizioni spesso critiche rispetto al pontefice.Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela che da oltre 36 anni cerca la verità, rilancia sul suo account Facebook l’intervista con queste parole: «Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome». Il racconto di Viganò fornisce nomi e cognomi, luoghi e anche alcune valutazioni personali. Come quella che il cosiddetto «americano», la persona che telefonava in Vaticano per aprire una trattativa con l’allora Segretario di Stato, il cardinale Agostino Casaroli, potesse essere in realtà un maltese. Secondo la ricostruzione di Vigano’, la stessa sera della scomparsa di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, intorno alle 20, nemmeno due ore dopo che la ragazza era stata vista uscire dalla scuola di musica a Sant’Apollinare, uno sconosciuto chiamò il Vaticano e chiese di parlare con Casaroli che però era in viaggio, in Polonia, con Giovanni Paolo II. La telefonata arrivò poi alla sala stampa vaticana. «Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita. Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata». Quel testo, secondo Viganò, «deve essere nell’archivio della segreteria di Stato e non so se fu mai dato agli inquirenti italiani». Poi Viganò cita alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati su una presunta trattativa riservata che il cardinale Casaroli avrebbe condotto con coloro che sostenevano di avere nelle loro mani la giovane Emanuela. «Su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia», rivela Viganò che aveva già rivelato questi fatti alla famiglia Orlandi già nella primavera del 2018, fa sapere Laura Sgrò, l’avvocato di Pietro Orlandi. Quei racconti furono riferiti alle autorità vaticane, garantendo a Viganò, come aveva chiesto, l’anonimato. «Chiesi di fare delle verifiche sulle persone presenti in Segreteria di Stato quella sera del 22 giugno 1983 ma quella richiesta non ebbe alcun seguito». Per l’avvocato «sarebbe stato, infatti, chiaro, accertata l’esistenza di quella chiamata alla sala stampa vaticana a pochissime ore dalla sparizione di Emanuela, che l’interlocutore dei rapitori non erano gli Orlandi ma la Santa Sede. Non mi risulta sia stata fatta la verifica richiesta. Confido nella coscienza - conclude Sgrò - di chi era presente in quelle ore». Le circostanze sul caso di Emanuela Orlandi, rivelate oggi dall’ex Nunzio Carlo Maria Viganò, erano già state riferite alla famiglia della giovane scomparsa. Lo fa sapere Laura Sgrò, l’avvocato di Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela. E’ stato chiesto dall’avvocato alle autorità vaticane, già dal 2018, di sentire le persone presenti la sera in cui arrivò la prima telefonata in Vaticano. Ma finora non ci sono state risposte. «Monsignor Viganò - dice Laura Sgrò - mi aveva riferito, quale legale della famiglia Orlandi e nell’ambito delle indagini difensive che stavo svolgendo, le stesse cose oggi pubblicate dal dottor Valli nella primavera del 2018, chiedendomi, come fanno in molti, di mantenere l’anonimato. Oggi Sua Eccellenza Viganò mi ha autorizzato a riferire di quell’incontro. Condivisi poco tempo dopo le informazioni che mi diede, ma non la fonte, in una riunione con le autorità vaticane, chiedendo loro di fare delle verifiche sulle persone presenti in Segreteria di Stato quella sera del 22 giugno 1983. Quella mia richiesta verbale non ebbe alcun seguito, nonostante avessi rappresentato che verificare l’esistenza di quella telefonata avrebbe indirizzato le indagini». Per l’avvocato della famiglia Orlandi «sarebbe stato, infatti, chiaro, accertata l’esistenza di quella chiamata alla sala stampa vaticana a pochissime ore dalla sparizione di Emanuela, che l’interlocutore dei rapitori non erano gli Orlandi ma la Santa Sede. Non mi risulta sia stata fatta la verifica richiesta. Confido nella coscienza - conclude Sgrò - di chi era presente in quelle ore».

Orlandi, Viganò: "Il testo della prima telefonata sulla scomparsa è negli archivi". L'ex nunzio negli Stati Uniti cita documenti del Vaticano e indica alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati. Il fratello di Emanuela: "Ora la fonte ha un nome e un cognome". La Repubblica l'1 novembre 2019. L'ex Nunzio in Usa, monsignor Carlo Maria Viganò, parla per la prima volta del caso di Emanuela Orlandi. In una intervista al sito di Aldo Maria Valli, ex vaticanista Rai, oggi su posizioni critiche nei confronti del pontefice, mons. Viganò parla di una prima telefonata giunta in Vaticano dopo la sparizione della giovane. "Il testo di quella telefonata", dice Viganò, "deve essere nell'archivio della segreteria di Stato e non so se fu mai dato agli inquirenti italiani. Mi meraviglierei che non fosse stato fatto". Viganò, salito già alle cronache per la sua contrapposizione al pontificato di Bergoglio, cita poi  alcuni ecclesiastici che potrebbero essere informati sulla presunta trattativa riservata che il cardinale Agostino Casaroli avrebbe condotto con coloro che sostenevano, nelle telefonate al Vaticano, di avere nelle loro mani la giovane Emanuela. "Su questo punto potrebbe sapere qualcosa monsignor Pier Luigi Celata, che era il suo segretario di fiducia", rivela Viganò. Nel suo articolo Valli osserva: "Che cosa, davvero, può finalmente condurre a Emanuela? Le piste percorse sono innumerevoli, ma forse non si è prestata ancora la dovuta attenzione, in modo analitico, ai primissimi momenti successivi alla scomparsa. Parliamo della sera di quel 22 giugno del 1983 e ci riferiamo, in particolare, a quanto avvenne in Vaticano, negli uffici della segreteria di Stato, centro nevralgico della Santa Sede". Viganò, tra le altre cose, racconta a Valli: "Ricevetti anch’io alcune telefonate da quello che i media chiamarono “l’americano”. Le telefonate erano in italiano, ma dalla pronuncia di quell’uomo capii che non si trattava di un americano; piuttosto di qualcuno che aveva inflessioni proprie dei maltesi. L’interlocutore si limitava a chiedere di voler parlare unicamente con il cardinale Casaroli e fu quello il motivo per cui a un certo punto fu creata una linea riservata. Da parte nostra fu fatto tutto il possibile per far sì che questo interlocutore potesse parlare con Casaroli". Pietro Orlandi, fratello della ragazza scomparsa che da sempre si batte per scoprire cosa accadde a Emanuela ha commentato: "Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome".

Emanuela Orlandi e quella telefonata in Vaticano due ore dopo il rapimento. La rivelazione di monsignor Viganò. Libero Quotidiano l'1 Novembre 2019. La famiglia di Emanuela Orlandi presenterà un'istanza formale all'autorità giudiziaria vaticana affinché sia fatta una verifica sulla telefonata arrivata alla Sala stampa Vaticana la sera della scomparsa della quindicenne cittadina vaticana e svelata da monsignor Carlo Maria Viganò in un’intervista al vaticanista Aldo Maria Valli. "Quella telefonata sarebbe la prima telefonata in assoluto sul rapimento. E sarebbe stata fatta due ore dopo la scomparsa, alle 21 precisamente, mentre Emanuela è stata vista per l’ultima volta alle 19" del 22 giugno del 1983.   "Quella che fino a poco tempo fa potevamo indicare solo come fonte ora ha nome e cognome", scrive su Facebook Pietro. Orlandi, fratello di Emanuela che rilanciando l'intervista di Viganò che all'epoca lavorava nella segreteria di Stato Vaticana. "Quella sera mi trovavo in ufficio in segreteria di Stato alla terza loggia insieme con monsignor Sandri, mentre il sostituto era assente", racconta. "Erano circa le 20, o forse più tardi, quando ricevetti una telefonata da padre Romeo Panciroli, allora direttore della sala stampa vaticana, il quale mi annunciò che era giunta, appunto alla sala stampa, una telefonata anonima che annunciava che Emanuela Orlandi era stata rapita - continua Viganò - Padre Panciroli mi disse che mi avrebbe inviato immediatamente via fax un testo con il contenuto della telefonata". In quel testo, spiega, "si affermava che Emanuela Orlandi era detenuta da loro e che la sua liberazione era collegata a una richiesta, il cui adempimento non necessariamente dipendeva dalla volontà della Santa Sede. Si trattava di un messaggio formulato in termini precisi e ben costruito. Esso è indubbiamente reperibile nell'archivio della segreteria di Stato". L'arcivescovo Achille Silvestrini (futuro cardinale, morto il 29 agosto scorso, ndr) "esse il testo e commentò che secondo lui si trattava dello scherzo di pessimo gusto di qualche squilibrato". "Mi venne in mente che il contenuto della telefonata anonima presentava una strana coincidenza con un'altra vicenda. Poco tempo prima era giunta in segreteria di Stato una lettera, firmata da un sedicente rifugiato di un paese dell'Est Europa, il quale diceva di trovarsi in un campo profughi in Friuli e chiedeva asilo politico in Vaticano. Alla lettera allegava una sua fotografia formato tessera e un certificato della sua iscrizione al medesimo istituto di musica sacra frequentato da Emanuela Orlandi". Continua: "Non mi fu dato sapere quali iniziative abbia preso nell'immediato monsignor Silvestrini, ma non ho dubbi che ne informò il sostituto e il cardinale segretario di Stato Agostino Casaroli e anche papa Giovanni Paolo II", racconta ancora mons. Viganò. Le reazioni furono di viva "preoccupazione e di grande impegno per fare il possibile per salvare Emanuela". 

Da Radio Cusano Campus il 12 luglio 2019. Il magistrato Giancarlo Capaldo, noto per i processi sulla banda della Magliana, sul terrorismo nero e sui crimini contro l’umanità delle dittature sudamericane, è intervenuto ai microfoni della trasmissione “L’Italia s’è desta” condotta dal direttore Gianluca Fabi, Matteo Torrioli e Daniel Moretti su Radio Cusano Campus, emittente dell’Università Niccolò Cusano. Sui legami tra politica e terrorismo nero. “Bisogna porsi da due prospettive –ha affermato Capaldo-. Dalla prospettiva dell’attività mentre veniva svolta, si coglievano strani legami tra alcuni personaggi della criminalità e alcuni personaggi politici. Però questi legami venivano, non si sa se intenzionalmente o meno, sottovalutati dalla polizia giudiziaria. Quindi si procedeva per camere stagne. Nella prospettiva più storica, sembra molto evidente come il terrorismo nero sia stato strumentalizzato da alcune parti della politica e come vi siano collegamenti tra terrorismo nero e criminalità organizzata”. Riguardo la Banda della Magliana e il caso di Emanuela Orlandi. “Alcuni della Banda della Magliana sanno cosa è accaduto –ha dichiarato Capaldo-. Nel momento in cui è avvenuto il caso della Orlandi, nel 1983, la Banda della Magliana era molto forte, sostanzialmente la struttura criminale maggiore che esisteva a Roma. Le dichiarazioni di Sabrina Minardi però non hanno portato alla luce le responsabilità della banda nella vicenda Orlandi, bensì le responsabilità di De Pedis. Questo significa che la banda della Magliana come tale agiva in modo molto disordinato e si è autodistrutta da sola. Ritengo che le dichiarazioni di Minardi che chiamano in causa la Banda della Magliana per il caso Orlandi abbiano un cuore di verità, quindi che vi sia stata una partecipazione di De Pedis e di alcuni altri personaggi indicati dalla Minardi nella vicenda Orlandi. Questa è la mia valutazione che però non è stata seguita ufficialmente dalla Procura di Roma che ha archiviato il caso. L’archiviazione è sintomo che non c’erano sufficienti elementi per andare avanti, non è sintomo di innocenza”. Sulla mafia a Roma. “A Roma esistono certamente organizzazioni mafiose, ogni organizzazione mafiosa ha una sua ambasciata nella capitale. Esistono organizzazioni riferibili a Cosa Nostra, Ndrangheta, Camorra e altre organizzazioni mafiose estere. E’ una realtà sottovalutata. Sotto il profilo dell’organizzazione criminale romana, oggi con più difficoltà si può rinvenire un’organizzazione con caratteristiche mafiose come ai tempi della banda della Magliana. Oggi le organizzazioni criminali, pur essendo molto pericolose, mi pare non riescono per autorevolezza ad imporsi come sistema. Il sistema criminale attualmente a Roma è di carattere mafioso, ma è molto più ampio culturalmente rispetto alla banda della Magliana. La banda della Magliana non solo era un sistema, ma aveva un linguaggio proprio. Il linguaggio usato dalla banda, che nasceva da Trastevere e Testaccio, era particolarissimo, utilizzava un pensiero di quartiere che faceva molta presa. Quando ho interrogato molti di questi esponenti della banda, il linguaggio aveva un’efficacia espressiva inusitata. I libri e il film sulla Banda della Magliana riportano quel tipo di linguaggio, però dal mio punto di vista la Banda della Magliana di eroico non ha nulla. Sono persone spesso devastate sul piano umano, devastate dalla vita. Pensare ad un’elaborazione culturale avente come matrice la Banda della Magliana è un grave errore”. Sull’operazione Condor. “Questa storia riguarda ben 7 Paesi sudamericane, coinvolge 23 vittime italiane, ma in realtà abbiamo toccato migliaia di vittime. E’ un processo dalle fortissime emozioni umane e personali, soprattutto è un processo che ha consentito di ricostruire alcune vicende storiche. L’importanza di questo processo non è solo aver riconosciuto vicende e responsabilità. Il processo italiano ha avuto un’importanza fondamentale anche per il Sud America, perché grazie al processo italiano la magistratura sudamericana ha rivisto la propria storia”.

Da La Repubblica il 2 luglio 2019. L'Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano ha disposto l'apertura di due tombe nel cimitero Teutonico nell'ambito della nuova inchiesta aperta sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazza di 15 anni figlia di un commesso della Prefettura della casa pontificia scomparsa misteriosamente a Roma il 22 giugno 1983. "La decisione - spiega Alessandro Gisotti, direttore della sala stampa vaticana - si inserisce nell'ambito di uno dei fascicoli aperti a seguito di una denuncia della famiglia di Emanuela Orlandi che, come noto, nei mesi scorsi ha, tra l'altro, segnalato il possibile occultamento del suo cadavere nel piccolo cimitero ubicato all'interno del territorio dello Stato Vaticano". Era stata la legale della famiglia Orlandi, Laura Sgrò, l'estate scorsa, ad aver ricevuto una lettera con allegata la foto della tomba in oggetto, con un messaggio anonimo: “Cercate dove indica l'angelo”. Il riferimento è alla statua di un angelo che regge in mano un foglio riportante la scritta “Requiescat in pace”, “riposa in pace”. Secondo alcune ricostruzioni da anni diverse persone depongono dei fiori presso quella stessa tomba, perché si dice che vi sia seppellita Emanuela. Le operazioni di apertura delle due tombe si svolgeranno il prossimo 11 luglio, alla presenza dei legali delle parti, oltre che dei familiari di Emanuela Orlandi e dei parenti delle persone seppellite nelle tombe interessate. Il portavoce vaticano ha spiegato che ci sarà l'ausilio tecnico del professor Giovanni Arcudi, del Comandante della Gendarmeria Vaticana, Domenico Giani, e di personale della Gendarmeria. "Il provvedimento giudiziario prevede una complessa organizzazione di uomini e mezzi", spiega Gisotti, in quanto "sono coinvolti operai della Fabbrica di San Pietro e personale del Cos, il Centro Operativo di Sicurezza della Gendarmeria Vaticana, per le operazioni di demolizione e ripristino delle lastre lapidee e per la documentazione delle operazioni". "Vorrei veramente ringraziare il Segretario di Stato Vaticano, il cardinale Pietro Parolin, sicuramente da parte sua c'è stato tanto coraggio nell'apertura di questa indagine e nella decisione di aprire le tombe. E anche il comandante Giani vorrei ringraziare, ho capito che c'è la volontà di fare chiarezza", ha detto all'Ansa il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi. "Siamo molto contenti di questa notizia che apprendo da lei", ha commentato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi raggiunta telefonicamente dall'AGI riguardo alla decisione del Vaticano. "Sono appena uscita da una udienza e non sapevo nulla", ha continuato Sgrò che aggiunge: "Attendo di avere un colloquio immediato con le autorità vaticane per apprendere altre informazioni. Un sincero e sentito ringraziamento per il Segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin per questo atto coraggioso", ha poi concluso.

Gian Guido Vecchi per il “Corriere della sera” il 12 luglio 2019. L'ultima falsa pista è l' immagine di due sepolcri vuoti, premessa dell' ennesimo «giallo» che si aggiunge a trentasei anni di depistaggi, inquinatori di pozzi e mitomani intorno al caso di Emanuela Orlandi, scomparsa a quindici anni il 22 giugno 1983. Nel cimitero teutonico del Vaticano sono iniziate alle 8.15 di ieri le operazioni per aprire la «Tomba dell'Angelo» della principessa Sophie von Hohenlohe e per sicurezza, accanto, la tomba della principessa Carlotta Federica di Meclemburgo. Il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, aveva raccontato di aver ricevuto un messaggio anonimo, «cercate dove indica l'angelo», parlato di «segnalazioni interne al Vaticano dal 2017», e chiesto alla Santa Sede di aprire la tomba. Il Segretario di Stato vaticano, Pietro Parolin, aveva dato via libera all' istanza del legale della famiglia, l' avvocatessa Laura Sgrò. Una preghiera, silenzio teso scandito da frese e punteruoli, quindici uomini al lavoro e tre ore più tardi la sorpresa: le tombe sono vuote. «L' accurata ispezione» sulla prima tomba «ha riportato alla luce un ampio vano sotterraneo di circa 4 metri per 3,70, completamente vuoto» e anche nella seconda «non sono stati rinvenuti resti umani», fa sapere il portavoce vaticano Alessandro Gisotti. «I familiari delle due principesse sono stati informati dell' esito delle ricerche», spiega. «È incredibile», mormora il fratello di Emanuela quando esce dal cimitero. Un misto di «sollievo» e stupore, dice: «Non c' era nulla, nulla, neanche le principesse. Ma lo spazio interno al sepolcro, in cemento, certo non era di duecento anni fa. Si dovrà andare avanti, finché non troverò Emanuela è mio dovere cercare la verità». Pietro Orlandi dice di sperare «in una collaborazione onesta del Vaticano che, facendo aprire le tombe, aveva ammesso la possibilità di una responsabilità interna». I magistrati vaticani, presenti ieri, non hanno potuto vedere la lettera di cui ha parlato Orlandi. In Vaticano, per la verità, si avvertiva dall' inizio grande scetticismo: ma respingere la richiesta della famiglia avrebbe scatenato accuse di voler «coprire». Meglio far controllare, come per le ossa ritrovate a ottobre sotto Villa Giorgina, sede della nunziatura apostolica in Italia: altre settimane di «giallo», salvo poi verificare che i resti erano di un secolo fa. Resta da stabilire perché i sepolcri, di metà Ottocento, siano vuoti. In passato, si dice, ci sono state traslazioni. La famiglia Orlandi chiede documenti e spiegazioni. I responsabili del cimitero non ne sapevano nulla. La Santa Sede, comunque, fa sapere: «Per un ulteriore approfondimento, sono in corso verifiche documentali sugli interventi strutturali avvenuti nell' area del Campo Santo teutonico in due fasi, a fine Ottocento e tra gli anni Sessanta e Settanta».

Fabrizio Caccia per il “Corriere della sera” il 12 luglio 2019. «Che storia pazzesca, devo chiamare subito mio figlio Hubertus, mi voglio informare, ora sono dal parrucchiere, davvero non si trova più la principessa Sofia von Hohenlohe, le sue ossa sono sparite dal cimitero teutonico di Roma? E pure quelle della principessa Carlotta? Ma no, incredibile...». Ira von Fürstenberg è all'estero, sta promuovendo il suo libro, appena uscito per HarperCollins, «Ira: the Life and Times of a Princess», vita e avventure di una principessa. Figlia del principe Tassilo Fürstenberg e di Clara Agnelli, sorella di Gianni, la celebre attrice, fotografata in carriera da Helmut Newton e Cecil Beaton, sposò in prime nozze, nel 1955, lo spagnolo Alfonso di Hohenlohe-Langenburg, da cui ebbe, appunto, Hubertus, oggi 60 anni, sciatore olimpico in rappresentanza del Messico, cantante e fotografo. «Voglio chiedere a Hubertus se siamo parenti della principessa Sofia von Hohenlohe, a lume di naso io credo di sì, anche se discendiamo da un altro ramo», continua Ira al telefono. Il conte Hubertus von Hohenlohe si è appena sposato a Vaduz con la storica compagna di vita, la bolognese Simona Gandolfi, cugina di Alberto Tomba e figlia dell' ex presidente della Virtus basket. «Sì, sicuramente sono parenti alla lontana - dice l' avvocato Fabrizio Nucera Giampaolo, presidente di "Croce Reale", grande esperto di dinastie e famiglie reali in Europa -. L' ultimo discendente diretto della principessa Sofia si chiama però Massimiliano, oggi ha 47 anni e vive in Germania. Cercherò di contattarlo per avvisarlo degli ultimi eventi, anche se la notizia ormai ha fatto il giro del mondo». «Sono stata in passato a visitare due-tre volte il cimitero teutonico in Vaticano - racconta Ira von Fürstenberg -. Ma non mi sono mai fermata davanti alla tomba dell' Angelo, la tomba di Sofia. Io andavo a trovare la principessa Windisch, a lei portavo sempre un fiore...». Ma dove saranno le due principesse sparite? «Carlotta Federica di Meclemburgo - dice l' avvocato Nucera - non ha più discendenti diretti, l' ultimo morì suicida nel 1918. Se le tombe son vuote, esisterà in Vaticano qualche documento privato in cui si chiarisce il mistero. Di sicuro, i poveri resti sia di Sofia che di Carlotta, secondo gli atti ufficiali che abbiamo potuto consultare, non sono mai stati traslati dal Campo Santo teutonico. Perciò, magari sono state spostate da qualche altra parte durante dei lavori di ristrutturazione, ma le ossa devono essere ancora lì».

Franca Giansoldati per “il Messaggero” il 12 luglio 2019. Un altro clamoroso buco nell'acqua. Quando ieri mattina gli operai hanno sollevato la pesante pietra marmorea dal sepolcro sormontato da un angelo e, successivamente, anche la massiccia copertura della tomba accanto, mostrando ai presenti che all'interno non vi erano i resti supposti della povera Emanuela Orlandi, alle autorità vaticane è parso subito chiaro che qualcuno si era divertito a prendere di nuovo in giro la famiglia della povera ragazzina scomparsa 36 anni fa. L'autorizzazione ad aprire i due sepolcri era stata disposta dal Tribunale Vaticano a seguito di un esposto presentato dalla famiglia Orlandi. Il fratello Pietro aveva ricevuto una lettera anonima da lui ritenuta assolutamente attendibile, secondo la quale dentro la tomba dell'angelo, nell'antichissimo cimitero teutonico, c'era la possibilità di ritrovare finalmente i resti di Emanuela. La Segreteria di Stato aveva accolto l'istanza della famiglia con una certa cautela anche perché ai magistrati vaticani, in tutti questi mesi, non è mai stata data la possibilità di prendere visione della lettera e dell'immagine acclusa, al fine di svolgere le indagini di prassi per verificare l'attendibilità della fonte. Pietro Orlandi si è sempre rifiutato categoricamente di consegnare sia ai magistrati che in Segreteria di Stato la lettera. Ne ha però parlato a lungo in diverse interviste rilasciate in questi mesi, sottolineandone la consistenza. Sia lui che l'avvocato Laura Sgrò assicuravano che la fonte era indubbiamente degna di fede, così come le indicazioni circostanziate che forniva sulla possibile tumulazione di Emanuela all'interno del piccolo Stato pontificio. Quando il cardinale Pietro Parolin ha dato il via libera all'apertura delle tombe, superando molte perplessità per l'incomprensibile resistenza della famiglia Orlandi a non mostrare a nessuno le missive, Pietro ha commentato: «Finalmente un segnale concreto dal Vaticano. Sicuramente è un atto molto forte, coraggioso del Segretario di Stato che ringrazio pubblicamente perché ci vuole coraggio a mettersi finalmente in discussione e pensare che davvero Emanuela possa essere sepolta in casa loro». Adesso suscita sconcerto e persino un certo dispiacere nel vedere che per l'ennesima volta il dolore della signora Maria Orlandi - straziante e terribile - si è rinnovato e amplificato davanti a notizie palesemente false che potevano essere verificate prima. Esattamente come quando erano stati ritrovati dei resti umani nella sede della nunziatura, senza tenere conto che Villa Giorgina è stata edificata su un cimitero di epoca romana. Quanto al fatto che non siano stati ritrovati nelle tombe i resti delle due principesse tedesche (sepolte oltre due secoli fa) non desta alcuna sorpresa. Sembra che siano state rimosse almeno un secolo fa, cosa che verrà resa nota attraverso i documenti di archivio conservati dalla Confraternita tedesca che gestisce da oltre almeno sei secoli il piccolo cimitero teutonico, un camposanto quasi fiabesco cinto da alte mura, a ridosso della basilica di San Pietro e dell'Aula Nervi.

Emanuela Orlandi, nella tomba del mistero: la stanza scoperta sotto alla lapide in Vaticano. Repubblica Tv l'11 luglio 2019. Un nuovo misterioso capitolo nella misteriosa storia di Emanuela Orlandi. Nel Cimitero teutonico in Vaticano sono state aperte le due tombe attorno alle quali aleggiava il sospetto che potessero essere collegate alla sparizione della giovane. L'esito è stato sorprendente: sotto alle lapidi non è stato trovato alcun corpo, nemmeno quello delle due nobili delle quali lì era indicata la sepoltura. l'accurata Nella tomba della principessa Sophie von Hohenlohe c'era un ampio vano sotterraneo di circa 4 metri per 3,70, completamente vuoto. E vuota era anche la tomba-sarcofago della principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo. "I familiari delle due principesse sono stati informati dell'esito delle ricerche", ha reso noto la Santa Sede. Alle ispezioni ha assistito Pietro Orlandi, fratello di Emanuela.

Emanuela Orlandi, forse trovati i resti delle principesse al Cimitero Teutonico in Vaticano. Pubblicato sabato, 13 luglio 2019 da Gian Guido Vecchi su Corriere.it. Se l’indicazione della «Tomba dell’angelo» si è dimostrata l’ennesima falsa pista sul caso della scomparsa di Emanuela Orlandi, anche il presunto «giallo» dei sepolcri vuoti delle due principesse nel Cimitero Teutonico del Vaticano potrebbe avere presto una spiegazione, la più prevedibile: la traslazione dei resti in un ossario vicino. Gli accertamenti «di carattere documentale e logistico» già annunciati dalla Santa Sede hanno portato a verificare che «tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso sono stati effettuati lavori di ampliamento, come risulta agli atti del pontificio Collegio Teutonico», fa sapere il portavoce vaticano Alessandro Gisotti: «In quel periodo i lavori hanno interessato l’intera aerea cimiteriale e l’edificio del Collegio Teutonico». Così, per verificare la possibilità che «le spoglie delle due Principesse siano state traslate in altro luogo idoneo del Campo Santo», gli operai specializzati del Vaticano - i famosi «sanpietrini» - hanno controllato negli «ambienti attigui alle tombe» e trovato due ossari collocati sotto la pavimentazione di un’aerea all’interno del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola». Gli ossari sono stati subito sigillati «per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell’ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie». Si tratta insomma di stabilire, come a questo punto appare probabile, se i resti delle principesse siano stati traslati nell’ossario. Pietro Orlandi, il fratello della ragazza scomparsa a quindici anni il 22 giugno 1983, aveva raccontato di aver ricevuto la scorsa estate un messaggio anonimo, «cercate dove indica l’angelo», parlato di «segnalazioni interne al Vaticano dal 2017», e chiesto alla Santa Sede di aprire la tomba. L’altro giorno i sepolcri sono stati aperti ed erano vuoti: sia quello della principessa Sophie von Hohenlohe sia, accanto, la tomba della principessa Carlotta Federica di Mecklemburgo. Trovati gli ossari, ora la magistratura vaticana - ovvero «l’ufficio del Promotore di Giustizia» - ha disposto che l’esame dei reperti «avvenga alla presenza dei periti dell’Ufficio e di quelli nominati dalla famiglia Orlandi, nonché del personale specializzato del Corpo della Gendarmeria e delle stesse maestranze già impiegate»: si procederà sabato 20 luglio alle 9.

Caso Orlandi, trovate ossa in una botola nel Cimitero Teutonico: saranno esaminate. L'apertura di una delle due tombe (risultate vuote) nel Cimitero Teutonico lo scorso 11 luglio. Dopo l'apertura delle tombe delle due principesse, risultate vuote. Il portavoce vaticano: "Individuati due ossari sotto il pavimento del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola". Il legale della famiglia di Emanuela: "Bene che continuino le ricerche". La Repubblica il 13 luglio 2019. Due ossari sono stati ritrovati nel Cimitero Teutonico del Vaticano durante scavi nelle due tombe aperte per cercarvi i resti di Emanuela Orlandi. Lo rende noto il direttore "ad interim" della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti. Dopo l'apertura lo scorso 11 aprile delle tombe delle due principesse dove si diceva che potesse essere sepolta Emanuela Orlandi, risultate vuote, si sono svolti, come era stato annunciato, "accertamenti sia di carattere documentale che di carattere logistico, dai quali è emerso che, come risulta agli atti del Pontificio Collegio Teutonico, tra gli anni '60, '70 del secolo scorso sono stati effettuati lavori di ampliamento del Collegio stesso. In quel periodo i lavori hanno interessato l'intera aerea cimiteriale e l'edificio del Collegio Teutonico". Quindi, "è pertanto possibile che le spoglie delle due principesse siano state traslate in altro luogo idoneo del Campo Santo. Sono state quindi svolte con le maestranze competenti le conseguenti verifiche per constatare la situazione degli ambienti attigui alle tombe. Tali ispezioni hanno portato alla individuazione di due ossari collocati sotto la pavimentazione di un'area all'interno del Pontificio Collegio Teutonico, chiusi da una botola. Tali ossari sono stati immediatamente sigillati per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell'ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie". L'Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, nelle persone del Promotore Gian Piero Milano e del suo Aggiunto Alessandro Diddi, ha dunque disposto, con apposito provvedimento, che tali operazioni avvengano alla presenza dei periti dell'Ufficio e di quelli nominati dalla Famiglia Orlandi, nonché del personale specializzato del Corpo della Gendarmeria e delle stesse maestranze già impiegate. E si procederà sabato 20 luglio, alle 9 di mattina. "Non sappiamo cosa faranno esattamente sabato prossimo ma che ci sia un approfondimento in questo momento fa piacere. Nostro interesse è collaborare attivamente con la magistratura vaticana per capire come mai quelle due tombe fossero vuote. Se lo capiamo insieme è meglio", così l'avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgrò.

Caso Orlandi, ora spuntano due ossari da esaminare. Il Vaticano ha rinvenuto due ossari che potrebbero contenere i resti delle due principesse, che sarebbero dovute essere sepolte nel cimitero teutonico. Continuano le ricerche sul caso di Emanuela Orlandi. Giuseppe Aloisi, Domenica 14/07/2019, su Il Giornale. Il Vaticano ha individuato due ossari, che verranno analizzati anche in relazione al caso di Emanuele Orlandi. È già nota la data in cui il materiale verrà sottoposto agli esami: il prossimo 20 di luglio. Non è affatto detto, però, che c'entrino qualcosa con la ragazza scomparsa ormai quasi quarant'anni fa. Stiamo assistendo a un'accelerazione sulla possibile risoluzione del mistero che tiene banco dal giugno del 1983: la Santa Sede, come abbiamo raccontato ad aprile, ha aperto un'inchiesta interna, ma qualche giorno fa sono state anche aperte due tombe nel Cimitero Teutonico. Ricorderete di come la famiglia di Emanuela Orlandi avesse ricevuto una missiva che suggeriva di "cercare dove guarda l'angelo". Si era supposto che questa operazione, quella di aprire i sacrari posizionati nella direzione indicata dalla statua raffigurante la creatura celeste, potesse essere utile all'individuazione di qualcosa, magari dei resti, ma l'esito, che è stato un po' inaspettato, ha addirittura reso più fitto l'enigma, almeno sul piano narrativo: le due strutture funerarie sono risultate vuote. Poi ieri, come si legge sull'Ansa, dalla Santa Sede hanno fatto di sapere aver dato vita ad"accertamenti sia di carattere documentale che di carattere logistico". Gli ossari, quindi, sono spuntati per via di questi approfondimenti. Ma per ora non si conoscono troppi dettagli. Si tratta solo di attendere la prossima settimana. Il sospetto è che possano contenere le ossa delle due principesse. Le stesse ossa che sarebbero dovute essere all'interno dei tumuli. Alessandro Gisotti, che è il direttore ad interim della Sala Stampa, ha comunicato quanto segue, com'è stato riportato anche dalla Lapresse: "Tali ossari sono stati immediatamente sigillati per il successivo esame e repertazione dei materiali ossei ivi giacenti, sempre nell'ambito e con le modalità richieste dalle attività istruttorie". L'avvocato dei parenti della Orlandi, dal canto suo, ha manifestato soddisfazione relativa al fatto "che le ricerce proseguano". Questa seconda apertura potrebbe contribuire a chiarire il posizionamento dei resti delle principesse Carlotta Federica di Mecklemburgo e Sophie von Hohenlohe. Bisognerà vedere, poi, se esiste o no un collegamento con la vicenda di Emanuela Orlandi.

Caso Manuela Orlandi, nel Cimitero Teutonico di Roma «trovate migliaia di ossa». Pubblicato sabato, 20 luglio 2019 da Ester Palma su Corriere.it. Se davvero Emanuela Orlandi è stata sepolta nel Cimitero Teutonico di via della Sagrestia, all’interno del Vaticano e a poca distanza da San Pietro, ci vorrà molto più tempo del previsto per scoprirlo: «Non ci aspettavamo di trovare così tante ossa. Oggi ne sono state ritrovate migliaia, dunque si ipotizza la presenza di decine di persone. Sono state ritrovate ossa piccole e grandi e soprattutto ossa craniche che sono riconducibili a soggetti adulti e non adulti». Lo ha detto il genetista della famiglia Orlandi, Giorgio Portera, all’uscita dal cimitero Teutonico. Come spesso accade durante le ristrutturazioni dei cimiteri, le ossa delle vecchie sepolture finiscono negli ossari comuni, le cosiddette terresante . E i due ritrovati nel camposanto della comunità tedesca sorto oltre sei secoli fa nell’area dell’antico Circo di Nerone, dove migliaia di cristiani subirono il martirio, probabilmente non fanno eccezione. 

La prima ricognizione sui resti si sono concluse intorno alle 15 di sabato, all’interno del cimitero. «Secondo quanto disposto dall’Ufficio del Promotore di Giustizia del Tribunale dello Stato della Città del Vaticano, le operazioni peritali proseguiranno sabato 27 luglio, alle 9, con un’approfondita analisi morfologica dei reperti contenuti negli ossari», spiega il direttore «ad interim» della Sala Stampa della Santa Sede Alessandro Gisotti: «Il professor Giovanni Arcudi e il suo staff, alla presenza del perito di fiducia nominato dalla Famiglia Orlandi, hanno portato alla luce i resti presenti negli ossari, che sono stati sottoposti ad una prima valutazione». «Aspettiamo e vediamo cosa succede, finché non abbiamo i risultati delle ossa...», ha commentato Federica Orlandi, sorella di Emanuela, molto provata dalla mattinata al Cimitero. E ha aggiunto: «Sono esperienze molto forti, perché qui potrebbero esserci le ossa di mia sorella. Però non ci pensiamo fino a che non abbiamo i risultati. E continueremo a cercare la verità». Aggiunge l’avvocato della famiglia, Laura Sgrò: «Il lavoro per capire la datazione di queste ossa proseguirà sabato prossimo. Richiederemo la documentazione perché è imprescindibile capire le attività che si sono svolte nel cimitero Teutonico e come queste ossa sono finite lì. Le due botole aperte la settimana scorsa sono profonde un metro e cinque. Uno spazio pieno di ossa, di cui sono stati riempiti i sacchi. I lavori continueranno la settimana prossima per capire una prima datazione di queste ossa». Fra le ossa ritrovate dovrebbero con ogni probabilità esserci quelle delle due principesse tedesche dell’Ottocento le cui tombe sono state ritrovate vuote e in cui secondo la segnalazione anonima ricevuta dagli Orlandi sarebbero stati nascosti i resti di Emanuela. Le tombe appartenevano a Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg, ex moglie, nonché cugina, del principe ereditario di Danimarca Cristiano Federico. I due si sposarono nel giugno 1806, ebbero un figlio, Federico, poi a sua volte divenuto re. Ma il matrimonio durò solo 4 anni, il divorzio fu chiesto dal marito dopo aver scoperto la relazione di lei con un musicista. La principessa, dopo vari peregrinaggi per l’Europa finì a Roma, dove si convertì al cattolicesimo e morì nel 1840, a 56 anni.

Franca Giansoldati per “il Messaggero”  il 21 luglio 2019. Ci sono voluti ben 24 sacchi per contenere tutti quei resti. Una montagna di ossa che verrà analizzata, datata, misurata. Crani, tibie, omeri, fino agli ossicini più piccoli, recuperati con una certa fatica all'interno dei due ossari dissigillati ieri mattina nel piccolo cimitero teutonico. Un'operazione si è subito rivelata più laboriosa del previsto e che, proprio per questo è durata fino alle tre del pomeriggio, mettendo a dura prova il gruppo di persone che assistevano alle varie fasi.

I TESTIMONI. C'erano alcuni membri della famiglia di Emanuela Orlandi, il loro avvocato, il perito di parte chiamato per una prima analisi sui resti, il professor Giovanni Arcudi e il suo staff, i sampietrini gli operai addetti all'apertura degli ossari alcuni monsignori, le guardie svizzere e i responsabili dell'antichissimo cimitero che, dall'epoca dei Lanzichenecchi, ospita le sepolture dei tedeschi di alto lignaggio, cavalieri, principi, conti, principesse. Completavano il gruppo i magistrati vaticani che, la scorsa settimana, avevano disposto l'apertura delle tombe delle due principesse tedesche - Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburgo - dentro le quali una indicazione anonima arrivata a Pietro Orlandi indicava la presenza certa dei resti di Emanuela, l'adolescente scomparsa nel nulla nel 1983. Trovando i sepolcri vuoti i magistrati hanno deciso di procedere ad ispezionare i due ossari vicini, per fugare ogni dubbio e aiutare gli Orlandi a trovare risposte ad uno dei misteri più intricati mai accaduti in epoca moderna in Vaticano.

LE OPERAZIONI. Il caldo implacabile non ha di certo aiutato gli addetti. Cinque di loro, con caschi, mascherine e guanti, si sono dovuti calare dentro un loculo profondo diversi metri e procedere alla raccolta, senza trascurare nemmeno un frammento o un piccolo ossicino. Tutto è stato numerato e inserito nei sacchi che, man mano si riempivano, venivano portati in superficie. I resti per come sono stati osservati velocemente - ad una prima perizia superficiale - non sembrano quelli di uno scheletro di epoca recente. Ma nessuno, naturalmente, vuole sbilanciarsi con giudizi affrettati, preferendo proseguire in modo scientifico e con cautela per fugare ogni dubbio. Così, la prossima settimana, sabato 27 luglio sempre alle ore 9, le analisi proseguiranno «per un'approfondita analisi morfologica dei reperti». Difficile dire a quante persone quella montagna di ossa siano appartenute, forse qualche centinaio, chissà. Tenendo presente che in quell'area sotterranea si è all'interno del perimetro della necropoli romana nessuno si è stupito. Insomma, l'ennesimo rebus da risolvere.

LE DICHIARAZIONI. «La settimana scorsa sono state aperte due botole, poi sigillate, e riaperte» ha detto il legale della famiglia Orlandi, Laura Sgro'. «Sono profonde. Uno spazio pieno di ossa, di cui sono stati riempiti i sacchi. I lavori continueranno la settimana prossima per capire una prima datazione». Le autorità della Santa Sede ripetono come un mantra che non si tratta di un giallo nemmeno l'assenza dei corpi delle due principesse, vissute due secoli fa, visto che le loro tombe subirono una ristrutturazione negli anni 60 e i loro resti probabilmente furono traslati altrove. In ogni caso la perizia sui reperti dei due ossari dovrà rispondere a domande ancora aperte. «Con questa nuova attività peritale - dopo le operazioni dell'11 luglio scorso - si evidenzia la disponibilità della Santa Sede nei confronti della famiglia Orlandi ad accogliere la richiesta di verifiche pur sulla base di una mera segnalazione anonima» ha commentato il portavoce Alessandro Gisotti. In curia sono convinti che là sotto ci siano solo ossa antiche e non quelle della piccola Emanuela. Non si avvalorano misteri. Tuttavia una inquietante telefonata da parte del capo della Gendarmeria a diversi monsignori di curia ha sollevato interrogativi visto che il responsabile della sicurezza del Papa avrebbe chiesto di non parlare con nessuno. Una specie di censura ai curiali. Perchè?

Caso Orlandi, nelle botole del Cimitero Teutonico migliaia di ossa. Il genetista: "Il caso resta aperto". L'avvocato di famiglia: "Ora dobbiamo datarle". La Repubblica il 20 luglio 2019. Migliaia di ossa all'interno del Cimitero Teutonico, nella Città del Vaticano. Il genetista della famiglia Orlandi, Giorgio Portera, all'uscita dal sepolcreto dove si stanno cercando i resti di Emanuela Orlandi ha rivelato: "Non ci aspettavamo di trovare così tante ossa. Oggi ne sono state recuperate migliaia, dunque si ipotizza la presenza di decine di persone. Sono ossa piccole e grandi, soprattutto ossa craniche che sono riconducibili a soggetti adulti e più giovani". Si riapre la possibilità di trovare novità su un caso che affonda le sue radici nel 1983: il 23 giugno la quindicenne Emanuela, figlia di un dipendente del Vaticano e residente nella città santa, sparì mentre stava raggiungendo una scuola di musica. Da allora, non è mai stata trovata. Il genetista Portera aggiunge: "Ora bisognerà datare le ossa e capire se sono reperti di qualche decina di anni o di centinaia di anni fa. Il caso è ancora assolutamente aperto. Lo stato di conservazione cambia a seconda della fossa in cui sono state custodite in queste decine o centinaia di anni, ma solo un accertamento strumentale riuscirà a dare una smentita o una conferma. Certo, non ci aspettavamo un numero così enorme di ossa perché più sono e più è complicato l'accertamento". L'avvocato Laura Sgrò, legale della famiglia Orlandi, ha aggiunto: "La settimana scorsa sono state aperte due botole, profonde un metro e mezzo, quindi sono state sigillate e riaperte questa mattina. Le ossa prelevate vengono messe dentro grandi sacchi". Ancora: "I lavori continueranno la settimana prossima per comprendere una prima datazione". Federica Orlandi, sorella di Emanuela, all'uscita dal Cimitero Teutonico con tono provato ha detto: "Sono esperienze molto forti, noi continuiamo a cercare la verità".

Emanuela Orlandi, Vaticano: nessun osso successivo al 1800 nel cimitero Teutonico. Pubblicato domenica, 28 luglio 2019 da Corriere.it. «Nel corso degli accertamenti di antropologia forense, il Prof. Arcudi non ha riscontrato alcuna struttura ossea che risalga ad epoca successiva alla fine del 1800». Così una nota della sala stampa vaticana sulle verifiche negli ossari del Cimitero Teutonico, disposte alla ricerca del corpo di Emanuela Orlandi. Il consulente di parte della famiglia Orlandi ha chiesto «accertamenti di laboratorio su circa 70 reperti ossei; il Prof. Arcudi e la sua equipe non hanno avallato la richiesta perché le medesime strutture ossee hanno caratteri di datazione molto antichi».

Fra le ossa ritrovate dovrebbero con ogni probabilità esserci quelle delle due principesse tedesche dell’Ottocento le cui tombe sono state ritrovate vuote e in cui secondo la segnalazione anonima ricevuta dagli Orlandi sarebbero stati nascosti i resti di Emanuela. Le tombe appartenevano a Sophie von Hohenlohe e Carlotta Federica di Mecklenburg, ex moglie, nonché cugina, del principe ereditario di Danimarca Cristiano Federico. I due si sposarono nel giugno 1806, ebbero un figlio, Federico, poi a sua volte divenuto re. Ma il matrimonio durò solo 4 anni, il divorzio fu chiesto dal marito dopo aver scoperto la relazione di lei con un musicista. La principessa, dopo vari peregrinaggi per l’Europa finì a Roma, dove si convertì al cattolicesimo e morì nel 1840, a 56 anni.

Famiglia Orlandi: "Aprite quella tomba nel cimitero teutonico". Il Vaticano: "Studieremo la richiesta". La famiglia ha ricevuto una lettera in cui si dice che sarebbero custodite in un loculo le risposte alla fine della ragazza, scrive il 4 marzo 2019 La Repubblica. È arrivata in Vaticano una settimana fa l’istanza della famiglia Orlandi nella quale si chiedono una serie di informazioni su una tomba all’interno del cimitero teutonico Vaticano, quello dove da anni diverse persone oltre ai famigliari si recano per pregare nel ricordo di Emanuela. Appoggiato a una parete del cimitero c'è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino "Requiescat in pace", "Riposa in pace", come scrive oggi "Il Corriere della Sera". Sarebbero custodite li, secondo una lettera ricevuta dal legale della famiglia Orlandi Laura Sgrò, le risposte al mistero di Emanuela Orlandi, la quindicenne sparita nel nulla del 1983. Per questo il legale ha scritto al segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, chiedendo, oltre all’apertura del loculo, anche una serie di informazioni su quel sepolcro. La segnalazione è arrivata all'avvocato con una fotografia, ricevuta l'estate scorsa: nell'immagine c'è una statua di un angelo su una tomba e la segnalazione diceva: "Cercate dove indica l'angelo".  Continua l'avvocato Sgrò: "Certe cose bisogna chiarirle per escluderle. Sono andata a verificare le condizioni della tomba, ho fatto tutti gli accertamenti che era possibile fare, ora dobbiamo attendere le autorizzazioni. L'angelo e la lastra della tomba sono chiaramente elementi di due periodi storici differenti". La risposta del Vaticano è immediata. "Posso confermare che la lettera della famiglia di Emanuela Orlandi è stata ricevuta dal cardinale Pietro Parolin e che verranno ora studiate le richieste rivolte nella lettera". Lo ha affermato il direttore "ad interim" della Sala Stampa della Santa Sede, Alessandro Gisotti. Ma gli Orlandi chiedono anche una serie di audizioni delle persone coinvolte e ancora in vita: il cardinale Giovanni Battista Re, il cardinale Eduardo Martinez Somalo e il cardinale Angelo Sodano. La procura di Roma, più volte a partire del 1994, aveva provato a sentirli con rogatoria ma senza riuscirci. La lista degli interrogatori non finisce qui: Sgróò auspica anche l’audizione delle persone coinvolte nell’indagine che portava alla Banda della Magliana e, in particolare, oltre al pm che se ne occupó, Giancarlo Capaldo, anche di monsignor Pietro Vergari e del cardinale Tarcisio Bertone, all’epoca dell’inchiesta segretario di Stato. 

Emanuela Orlandi, adesso i familiari chiedono di aprire una tomba. Caso Orlandi, la famiglia ha chiesto al Vaticano di verificare, e in caso aprire, una tomba del cimitero tedesco della Santa Sede. L'ennesima traccia sul mistero, scrive Giuseppe Aloisi, Lunedì 4/03/2019 su Il Giornale. Le ossa ritrovate nel sottosuolo della nunziatura apostolica avevano fatto pensare alla risoluzione del caso di Emanuela Orlandi, ma quella vicenda si è rivelata essere non correlata alla storia della ragazza scomparsa, in maniera misteriosa, nel 1983. Eravamo alla fine del 2018. Adesso, però, i familiari della giovane hanno domandato al Vaticano di seguire un'ulteriore pista. E sullo sfondo c'è una lettera che potrebbe addirittura indicare il luogo di sepoltura della Orlandi. La tomba in questione, quella che la famiglia di Emanuela vorrebbe vedere aperta, si trova nel cimitero tedesco interno alla Santa Sede. A dare la notizia della richiesta, tra gli altri, pure il Corriere della Sera. Ma perché proprio questo spazio, quello in cui sono sepolti i teutonici? La famiglia Orlandi, per mezzo del legale che la assiste, è venuta in possesso di una missiva che quantomeno consiglia di dare un occhio proprio a quella struttura. Poi c'è quella mezza conferma arrivata nel corso del tempo: sul giornale citato si legge come sia stato "verificato che alcune persone erano state informate della possibilità che i resti di Emanuela Orlandi fossero stati nascosti nel cimitero teutonico". Gli Orlandi, insomma, non sono disposti alla resa e cercano l'interlocuzione di chi, magari meglio di altri, potrebbe aiutare a fare luce, cioè del segretario di Stato Parolin, che adesso dovrebbe procedere, da primo ministro, ad aprire uno spiraglio intorno a quest'ennesima e possibile traccia. Perché - potrebbero chiedersi i familiari di Emanuela - delle persone, in memoria di Emanuela, sono solite deporre dei fiori proprio accanto a quella struttura funeraria? Questo, del resto, è quanto accadrebbe all'interno del cimitero tedesco del Vaticano. Nello specifico, nei pressi del loculo che la Santa Sede, presto, potrebbe essere obbligata a riaprire. Dalle parti di piazza San Pietro, intanto, hanno già commentato la novità, sottolineando la disponibilità proveniente dalle istituzioni ecclesiastiche: "Posso confermare - ha fatto sapere poco fa Alessandro Gisotti, che è il direttore ad interim della Sala Stampa - che la lettera della famiglia di Emanuela Orlandi è stata ricevuta dal Cardinale Pietro Parolin e che verranno ora studiate le richieste rivolte nella lettera". Sarebbe la direzione indicata tramite le dita dell'architettura angelica presente in quel cimitero a costituire un indizio sul posizionamento del luogo di sepoltura attenzionato.

Emanuela Orlandi, "aprite la tomba nel cimitero tedesco". La lettera-bomba in Vaticano, scrive il 4 Marzo 2019 Libero Quotidiano. Si torna a parlare del caso Emanuela Orlandi, la quindicenne scomparsa nel nulla dal Vaticano nel lontano giugno del 1983. Il Corriere oggi riporta la notizia dell’ultimo mistero riferito ad alcune segnalazioni arrivate alla famiglia mesi fa e che rimandano a un’antica tomba ubicata in un cimitero teutonico dello Stato Vaticano. Si pensa, infatti, che all’interno possano esserci i resti della giovane. La famiglia Orlandi ha chiesto al cardinale Pietro Parolin e al promotore di giustizia vaticano di poter conoscere tutti i dettagli sulla storia della tomba effettuando una ricerca accurata negli archivi. Inoltre, in caso di risultati poco trasparenti o soddisfacenti, si è detta pronta ad ottenere anche l’apertura del loculo. La scorsa estate, il legale della famiglia Laura Sgro ha ricevuto la foto della tomba in questione insieme a una lettera su cui c’era scritto "Cercate quell’angelo". Un’indicazione piuttosto allusiva, perché sulla tomba del cimitero c’è proprio la statua di un angelo che tiene in mano la scritta "Riposa in pace". Per terra, invece, un epigramma funebre dedicato alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe, divenuto arcivescovo nel 1857. Il mistero si infittisce perché è stato scoperto che quel loculo è stato aperto in passato e che la data della scritta tenuta dall'angelo è diversa rispetto a quella della lastra in basso. Ma, soprattutto, "Si è verificato che alcune persone erano state informate della possibilità che i resti di Emanuela Orlandi fossero stati nascosti nel cimitero teutonico", ha dichiarato l’avvocato Sgro.

Emanuela Orlandi, ecco la vera storia della tomba in Vaticano. Le prime segnalazioni sul sepolcro in cui sarebbero stati sepolti i resti della ragazzina sono arrivate a L'Espresso due anni fa. Fonti vicine a Vatileaks raccontarono che «alcuni dipendenti laici andavano a pregare su una lapide senza nome nel Cimitero teutonico». Un documento apocrifo segnalava spese nel 1997 «per il trasferimento con disbrigo pratiche finali», scrive Emiliano Fittipaldi il 4 marzo 2019 su L'Espresso. Le prime segnalazioni sull'esistenza di un tomba senza nome dentro le mura del Vaticano in cui sarebbero stati sepolti i resti di Emanuela Orlandi risalgono all'estate di due anni fa. Chi scrive stava indagando sulla ragazzina scomparsa nel giugno del 1983, e nelle ricerche si era imbattuto in un documento apocrifo (che si presentava come un «resoconto delle spese sostenute dallo stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi») che raccontava una storia inedita: Emanuela, una volta rapita da soggetti esterni, sarebbe stata “recuperata” da uomini del Vaticano e poi nascosta – per motivi oscuri - per 14 anni fuori dai confini italiani. Le tracce portavano a Londra. Il documento, che proveniva da una cassaforte interna alla prefettura degli Affari economici della Santa sede, si concludeva con l'elenco delle spese che andavano dal 1993 al luglio del 1997. L'ultima voce segnalava un costo di 21 milioni di lire per l'«Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con disbrigo pratiche finali». Se nessuna prova ha permesso di confermare se la vicenda sintetizzata dal resoconto fosse vera o l'ennesimo tentativo di depistaggio (come chiarì subito il Vaticano) sul destino infelice dell'adolescente, nel libro “Impostori” scrissi pure che fonti interne avevano evidenziato l'esistenza «di una tomba nel Cimitero teutonico interno alla Santa Sede». Un sepolcro «senza nome» dove la Orlandi sarebbe stata sepolta dopo il decesso. Una tomba con un angelo, su cui andavano a pregare alcuni prelati e «dipendenti vaticani». Lucio Angel Vallejo Balda, l'ex segretario della prefettura economica e della Cosea, la commissione che doveva indagare sugli enti economici vaticani, mi disse che anche un suo collaboratore stretto, Nicola Maio, era solito andarci a pregare. «Nicola è un uomo buono. Ma il cimitero è territorio vaticano: se scrivi della tomba, la portano via. Non rischiano», ragionò. Vallejo Balda e Maio, oltre a Francesca Immacolata Chaoqui, sono stati imputati per divulgazione di notizie riservate nel processo Vatileaks II. Se Balda e la Chaoqui furono condannati e i due giornalisti coinvolti prescritti, Maio fu assolto. La famiglia Orlandi, e l'avvocato Laura Sgrò, conoscono dunque la vicenda della tomba da almeno un anno e mezzo: gli Impostori uscì a settembre del 2017. Secondo il Corriere della Sera, nuove segnalazioni sulla tomba sono arrivate pochi mesi fa. Così la famiglia della Orlandi e la Sgrò hanno chiesto al Vaticano di conoscere e approfondire la storia del sepolcro senza nome. E - ci fossero ulteriori dubbi - di analizzare quello che vi è all'interno. Il segretario di Stato Pietro Parolin ha detto che valuterà la domanda della famiglia. Fonti vaticane dicono a “L'Espresso” però che potrebbe essere l'ennesima pista falsa. O che, pure fossero state lì, le osa della ragazza «sarebbero state levate da un pezzo». Il rischio, per gli Orlandi che cercano la verità da 35 anni, è che si ripeta quello accaduto nel 2012 (quando venne aperto il tumulo del boss della Banda della Magliana Enrico De Pedis, dove un anonimo ipotizzò potessero essere nascosto il corpo di Emanuela). O di rivivere quanto successo poche settimane, quando alcuni mucchietti di ossa trovati sotto la nunziatura apostolica in Italia a via Po, a Roma, furono collegati alla sparizione della ragazzina. Salvo scoprire – dopo le analisi scientifiche – che appartenevano a un uomo vissuto secoli prima. 

Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per l'allontanamento di Emanuela Orlandi”. Un documento choc esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su L'Espresso. Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l’obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. “Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati,” aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po’ tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. “Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia.” Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C’erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un’altra sezione del dicastero della Curia romana che “più da vicino”, come spiega il sito del Vaticano, “coadiuva il Sommo Pontefice nell’esercizio della sua suprema missione”. Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997.

La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l’autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, “come da richiesta”. Leggo il testo della prima pagina tutto d’un fiato. “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),”, è il titolo. “La prefettura dell’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell’allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. “La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. “Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell’impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. “L’attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. “Il documento non include l’attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al Commando 1, in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata. “I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate.” La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. "Era importante pubblicare questo documento perché se fosse vero aprirebbe squarci impensabili. Se fosse falso sarebbe sconvolgente, perché vorrebbe dire che è stato costruito ad arte per seminare sconcerto e per un ricatto". Così il giornalista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi parla del dossier sui 483 milioni di lire che il Vaticano avrebbe speso tra il 1983 e il 1997 tenere lontano dall'Italia Emanuela Orlandi. Un dossier pubblicato nel suo libro Gli impostori (Feltrinelli). "Qualsiasi documento può essere falso, ma questo era in una cassaforte del Vaticano - spiega Fittipaldi - Io ho faticato molto per averlo e ora la Santa Sede ci deve delle spiegazioni”. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L’elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana”. La Orlandi, nell’ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C’era un’altra spesa per la “preparazione all’attività investigativa estera” costata altre 450.000 lire, uno “spostamento” da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le “rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra”. Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l’indirizzo: a quello giusto c’è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell’arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d’Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l’“indagine formale in collaborazione con Roma” (23 milioni) e con la misteriosa “attività di indagine riservata extra ‘Commando 1’, direzione diretta Cardinale Casaroli”, per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all’inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela nel periodo “febbraio 1985-febbraio 1988”. Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la “attività investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in “ginecologia”. Si parla di “un secondo” e di “un terzo trasferimento”, di decine di milioni di lire per “rette omnicomprensive” di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all’ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo “allontanamento domiciliare” si riferisce stavolta al periodo “aprile 1993-luglio 1997”. Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con “il dettaglio mensile e annuale in allegato 22”) e ad altre “spese sanitarie forfettarie”, figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: “Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000”. La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. “Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28.” Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate.

In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto “interno” alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura? Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte “sgradevoli”? È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per “l’allontanamento domiciliare” della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è “presentata in triplice copia”, come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontifice commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l’esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un’attività investigativa propria, sia in Italia sia all’estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico “Commando1” guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo “spostamento” la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra. Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni “rette vitto e alloggio” elencate in un report che ha come titolo “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi” e per il suo “allontanamento domiciliare”? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyła, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, “presso la sede l. 21”, una “trasferta” da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all’inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie – come segnala ancora l'estensore dello scritto – per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla “dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology” dello stesso nosocomio un'unica “attività economica a rimborso” di cui il capo dell’Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i “dettagli in allegato 28”? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela). La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' “attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali”. Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la “pratica” di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa? A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare «un dossier custodito in Vaticano». Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento». Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: «Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso». Anche il cardinale Re interviene, assicurando che «la Segreteria di Stato» di cui nel 1997 lui era sostituto «non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull “allontanamento domiciliare” di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: «Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone». Clic. La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Maurizio Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell’ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell’immobile e s’era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell’ufficio esisteva “un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda”, custodito inizialmente “in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore”; aggiunge che “dopo il furto, l’archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo”. Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte “portarono via soldi e delle monete, dall’armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell’archivio riservato… alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero”. Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal “Banchiere di Dio”, Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore – insieme a Licio Gelli – della loggia massonica deviata P2. “Cosa c’era nel plico?” chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. “Documenti di dieci, vent’anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore,” risponde il prelato. “Nel riordinare i fogli dopo l’effrazione, vidi che gli atti contenuti nell’archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato,” ma a fatti che il monsignore definisce “sgradevoli”. “Sgradevoli,” ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l’effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un’accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell’ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L’avvocatessa calabrese – che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione – è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l’effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti “sgradevoli”, la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: “Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C’è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un’eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese ‘politiche’ di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarność. C’è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C’è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta”...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.

Emanuela Orlandi, il Vaticano avvia le indagini sulla tomba al cimitero teutonico. Pubblicato mercoledì, 10 aprile 2019 da Corriere.it. Nuova svolta sul caso Orlandi. Dopo la denuncia dei familiari anticipata dal Corriere, il Vaticano ha deciso di aprire un’indagine interna sulla antica tomba al cimitero teutonico dove si sospetta possano essere sepolti i resti della giovane scomparsa nel 1983. A rendere nota l’indagine è l’avvocato della famiglia Orlandi, Laura Sgro, dicendo chela Segreteria di Stato ha «autorizzato l’apertura di indagini» e specificando che gli accertamenti sarebbero legati alle verifiche su una tomba del cimitero teutonico. Pietro Orlandi sarà interrogato nell’ambito della nuova indagine avviata dal promotore di Giustizia Emanuele Milano sulla possibilità che Emanuela sia sepolta in una tomba nel cimitero teutonico. Le verifiche sono state avviate dalla gendarmeria guidata da Domenico Giani che nei giorni scorsi ha incontrato l’avvocatessa Laura Sgrò. Un’istanza presentata il mese scorso chiedeva l’apertura della tomba dopo aver ricevuto una lettera che forniva alcune indicazioni e aver svolto indagini difensive proprio per esplorare questa possibilità. La famiglia ha ottenuto conferma da svariate fonti che però non ha rivelato alla gendarmeria, anche se alcuni elementi erano emersi durante il processo Watileaks e dunque anche sulla base di quei verbali saranno svolti i nuovi controlli. La tomba si trova all’interno del cimitero. Appoggiata a una parete c’è la statua di un angelo che tiene un foglio con la scritta in latino «Requiescat in pace», «Riposi in pace». Per terra una lastra con una scritta funeraria dedicata alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX. L’estate scorsa una lettera con allegata la foto della tomba è stata recapitata all’avvocatessa Laura Sgrò che assiste la famiglia Orlandi: «Cercate dove indica l’angelo». Pietro Orlandi e l’avvocato hanno incontrato nei mesi scorsi il segretario di Stato Parolin. La conferma arriva dallo stesso fratello di Emanuela che poi aggiunge: «Per la prima volta, dopo 35 anni di mancata collaborazione abbiamo la sensazione che qualcosa possa finalmente muoversi».

Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2019. L' inchiesta è stata avviata due settimane fa e, come sottolinea Pietro Orlandi, «finalmente uno spiraglio si apre». Perché 35 anni dopo la scomparsa di Emanuela Orlandi, avvenuta il 22 giugno del 1983, il promotore di giustizia Vaticano ha aperto un fascicolo e delegato verifiche alla Gendarmeria guidata da Domenico Giani. Merito della tenacia della famiglia e dell'avvocatessa Laura Sgrò che ormai da due anni presenta istanze alla segreteria di Stato chiedendo di «conoscere tutti i documenti custoditi presso la Santa Sede che riguardino il rapimento della ragazza». E due mesi fa - al termine delle indagini difensive - ha depositato richiesta formale di apertura di una tomba, all' interno del cimitero Teutonico, dove potrebbero essere i resti della giovane. L'indicazione le era arrivata tramite lettera e si faceva riferimento alla statua che si trova sopra la lapide dedicata alla principessa Sofia e al principe Gustavo von Hohenlohe che nel 1857 fu nominato arcivescovo da papa Pio IX: «Cercate dove indica l'angelo» che in mano ha un foglio con la scritta "Requiescat in pace", riposa in pace. Per questo sono state poi rintracciate alcune persone che erano a conoscenza della vicenda e che adesso potrebbero essere chiamate a testimoniare. In questi mesi sia Pietro Orlandi sia il legale hanno avuto incontri con il segretario di Stato Pietro Parolin che aveva promesso di voler dare seguite alle domande di aiuto della famiglia. Per questo nelle scorse settimane, dopo la decisione del promotore di procedere, l'avvocatessa Sgrò ha avuto uno scambio di lettere e poi un incontro riservato proprio con Giani. Il primo ad essere interrogato sarà il fratello di Emanuela, poi potrebbero essere convocate le persone che in questi anni hanno avuto la possibilità di consultare documenti riservati che riguardano proprio la sparizione della ragazza. In particolare nel 2015, nell'ambito dell' inchiesta Vatileaks, si parlò di un dossier che riguardava il «caso Orlandi» e alcuni testimoni accreditarono la possibilità che fosse stato custodito all' interno della segreteria di Stato. In quel carteggio sarebbero state annotate le spese sostenute in questi anni dal Vaticano. Nell'istanza inviata a Giani, Sgrò evidenzia che «mai gli inquirenti Vaticani hanno raccolto la deposizione di Pietro Orlandi, che è la memoria storica dei fatti relativi alla scomparsa della povera Emanuela e non è tenuto ad alcun segreto professionale. Pietro potrà riferire molteplici circostanze e indicare nomi di cui è venuto personalmente a conoscenza nel corso degli anni». Chiede poi di convocare l' ex procuratore aggiunto di Roma «Giancarlo Capaldo, che sarebbe stato coinvolto in una presunta trattativa con alcuni alti prelati e tale trattativa, in una certa fase, avrebbe avuto a oggetto la restituzione del corpo di Emanuela Orlandi. Il dottor Capaldo potrebbe avere avuto anche notizie su un eventuale luogo di sepoltura». L'ultimo punto sottolineato riguarda la possibilità che «altri spunti investigativi potrebbero emergere dalle audizioni dei signori Cardinali Giovanni Battista Re; Eduardo Martínez Somalo; Angelo Sodano; Tarcisio Bertone e di Monsignor Pietro Vergari». Soltanto al termine di queste verifiche si deciderà se chiedere alle autorità tedesche l'eventuale apertura della tomba. Un passo che - su questo la richiesta della famiglia è stata esplicita - dovrà prevedere la presenza di un consulente degli Orlandi che possa partecipare agli adempimenti e in questo modo seguire anche gli eventuali rilievi che dovessero essere disposti dal promotore di giustizia.

A cosa può portare l'inchiesta del Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi? Pubblicato giovedì, 11 aprile 2019 da Il Foglio. "Dopo 35 anni il Vaticano finalmente indaga ufficialmente sulla scomparsa di mia sorella. Speriamo che sia arrivato finalmente il momento per giungere alla verità e dare giustizia a Emanuela”. Pietro Orlandi annuncia che la Segreteria di stato della Santa Sede ha ordinato un’inchiesta interna per tentare di far luce sulla scomparsa di sua sorella, avvenuta nel giugno del 1983. A chiedere l’apertura di un’indagine era stata (più volte) la famiglia, che solo poche settimane fa aveva indicato una tomba del Cimitero teutonico come possibile sepolcro di Emanuela Orlandi. A insospettire, in particolare, vi è il fatto che da anni fiori freschi siano posati sulla tomba e che una lettera recapitata diversi mesi fa indichi proprio quello come il luogo di sepoltura: “Cercate dove indica l’angelo”. Sembra la trama di un romanzo di Dan Brown, invece è la realtà. Va detto che in più di trent’anni di mistero sono state diverse le segnalazioni, da chi indicava la ragazza viva e ricoverata a Londra, a chi fin dall’inizio parlò di una fine terribile. Il tutto condito da telefonate anonime, lettere cifrate, depistaggi e documenti falsi infilati nelle tasche di qualche giornalista. L’anno scorso la speranza di fare luce sul caso si ebbe allorché sotto al pavimento della nunziatura italiana furono ritrovati due scheletri. All’inizio si disse che erano di due donne –  e i giornali titolarono sul “mistero Orlandi” –  poi i riscontri scientifici stabilirono che si trattava di resti dei primi secoli dopo Cristo. Appartenenti a due uomini.

"STAVOLTA SENTO CHE LA VERITA' E’ VICINA”. Da Radio Cusano Campus il 12 aprile 2019. Il Vaticano ha deciso di aprire un'indagine interna per far luce sul giallo Emanuela Orlandi, la ragazza romana di 15 anni scomparsa il 22 giugno 1983. La Segreteria di Stato infatti dopo quasi 36 anni ha autorizzato per la prima volta l'apertura di indagini specificando che gli accertamenti sono legati alle verifiche su una misteriosa tomba al cimitero teutonico. Il caso è stato approfondito su Radio Cusano Campus a “La Storia Oscura”. Al microfono di Fabio Camillacci, Pietro Orlandi, il fratello di Emanuela, ha affermato: “Io mi auguro che stavolta ci sia la volontà di fare chiarezza. Forse qualcosa si muove anche grazie alla nostra insistenza legale, grazie all'avvocato Laura Sgrò che non è un avvocato qualunque ma è uno dei pochi avvocati che hanno il patrocinio presso la Santa Sede e ha avuto un ruolo importante nell'inchiesta "Vatileaks". Forse -ha precisato Pietro Orlandi- si sono resi conto che è inutile continuare a negare, a non collaborare, anche se il comportamento che hanno avuto in passato non potrò mai cancellarlo. Noi questa collaborazione la chiediamo da tanti anni, l'apertura di un'inchiesta interna al Vaticano la chiediamo da molti anni. Io mi auguro che ora ci sia la volontà e soprattutto l'onestà di portare avanti le cose. E mi auguro che se anche non si trovasse nulla in quella tomba al cimitero teutonico una volta aperta, non si fermino lì, per capire il perché di quelle segnalazioni che ci sono arrivate: non segnalazioni anonime ma interne al Vaticano e che ci hanno indirizzato su quella tomba. Questa pertanto è già una cosa da chiarire. Ma io spero e penso che le indagini saranno ad ampio raggio, perché noi nell'istanza che abbiamo presentato non abbiamo chiesto solo l'apertura di quella tomba ma abbiamo chiesto anche una serie di indagini legate alle incongruenze che ci sono state in tutti questi anni. E mi riferisco anche alle inchieste fatte dalla magistratura italiana. Situazioni strane che non sono mai state approfondite e che in qualche modo hanno coinvolto la Santa Sede; come ad esempio la famosa trattativa portata avanti dal magistrato Giancarlo Capaldo all'interno del Vaticano qualche anno fa. Non credo che l'indagine interna al Vaticano sia stata finalmente aperta per volere di Papa Francesco perché con lui il muro di gomma si è alzato più di prima. Se poi il Pontefice possa aver avuto un cambiamento negli ultimi giorni, questo non lo so. Io finché non vedo il corpo di mia sorella, sento il dovere di cercarla viva, però come sensazione mia, da fratello, sento che c'è qualcosa in più questa volta in merito a quella tomba nel cimitero teutonico vaticano rispetto alle segnalazioni del passato. Ripeto, perché le segnalazioni che abbiamo ricevuto nell'ultimo anno e mezzo, sono tutte interne alla Santa Sede; e non possono non essere arrivate anche ai vertici del Vaticano. Altrimenti -ha concluso Pietro Orlandi- l'autorizzazione all'apertura di un'indagine interna non sarebbe partita dal Segretato di Stato Pietro Parolin. Altrimenti il Tribunale vaticano e la Gerdarmeria non si sarebbero mossi. Lo stesso cardinal Tarcisio Bertone si è detto disponibile a essere ascoltato dalla magistratura vaticana per far luce sulla scomparsa di Emanuela Orlandi”.

35 anni di depistaggi: è la fine del mistero Orlandi? Intorno alla sparizione di Emanuela, il 22 giugno 1983, di confusione ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni, scrive Paolo Delgado l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". A Roma si dice “caciara”. Vuol dire confusione, trambusto, chiasso assordante. Intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, di caciara ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni. Un polverone fittissimo, una sagra dei depistaggi, delle rivelazioni clamorose ma traballanti e sempre prive di conferme, delle ricostruzioni ardite basate però su sabbie mobili. Nel corso dei decenni nel “caso Orlandi” c’è passato di tutto: l’attentato al papa Giovanni Paolo del 1981 e l’attentatore Ali Agca, i Lupi grigi turchi e i servizi segreti dell’est, la banda della Magliana e il Banco ambrosiano di Roberto Calvi l’appeso, fior di cardinali tra cui l’allora assessore agli Affari generali della segreteria di Stato vaticana Re e l’immancabile Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Dire pezzi da 90 è ancora poco. Anche se la sparizione di quella ragazzina quindicenne ha tenuto banco per decenni sulle prime pagine dei giornali e in decine di programmi tv la realtà è che se ne sa pochissimo e quel poco che si dà spesso per acquisito è invece incerto. C’è stato davvero un sequestro, un rapimento finalizzato a chissà quale scopo? Nulla lo prova. Esiste davvero una connessione tra la scomparsa della cittadina vaticana, figlia di un funzionario della Santa Sede, che quella sera stava tornando a casa dalla lezione di musica a un passo dal Senato col suo flauto in borsa e quella di Mirella Gregori, figlia di un barista, scesa in strada per parlare con un mai individuato “amico” meno di due mesi prima e mai più ricomparsa? Impossibile dirlo. E’ un’ipotesi ma frutto forse solo della suggestione. Le due ragazze avevano la stessa età, sono svanite misteriosamente nell’arco di poche settimane, alcune telefonate dei presunti rapitori avevano collegato i due casi, ma erano impostori. Troppo poco per dirsi sicuri del nesso. La sera di quel 22 giugno Emanuela aspettava l’autobus con due amiche in Corso Rinascimento, di fronte palazzo Madama. Però all’ultimo momento scelse di non salire: «Troppo affollato, aspetto il prossimo». Con la testa la ragazza quella sera stava altrove. Uno sconosciuto la aveva abbordata, le aveva proposto un lavoretto ben remunerato, pubblicizzare cosmetici durante una sfilata delle Sorelle Fontana. Era tentata, ne aveva già parlato al telefono con la sorella che l’aveva però sconsigliata, poi con le amiche, altrettanto contrarie e sospettose. Avevano ragione loro. La ditta di cosmetici in questione di quell’offerta non sapeva niente. In compenso da quelle parti girava da un pezzo un tipo furbo che rimorchiava ragazze e ragazzine con quella promessa a fare da esca. Nei giorni successivi, quando la notizia corredata da foto era già sui principali quotidiani della capitale arrivano due telefonate, un ragazzo, “Pierluigi” e un uomo, “Mario”: il primo fornisce elementi credibili. Raccontano in telefonate distinte di aver visto la ragazza insieme a un’amica. “Mario” assicura che Emanuela se n’è andata volontariamente ma col progetto di tornare per il matrimonio della sorella. Nessuno li individua. Nessuno li trova. Il caso esplode il 3 luglio, quando è il papa in persona a parlarne rivolgendosi ai rapitori, durante l’Angelus. La giostra inizia a girare vorticosamente solo in quel momento. Arrivano a raffica telefonate con richieste di scambio tra la ragazza e Alì Agca, il ‘ lupo grigio’ che aveva sparato al papa. A chiamare è per 16 volte un uomo con marcato accento anglosassone, ma si fa sentire, meno spesso, anche un mediorientale. Fanno ritrovare nastri con una voce disperata che chiede aiuto. Ma non è Emanuela: è la registrazione di un film. Ancora nel novembre 1984 i Lupi grigi insistono e assicurano di avere nelle loro mani entrambe le ragazze. L’affare monta, inevitabilmente si intreccia con le ombre addensate su Marcinkus, rinvia allo scandalo del banco Ambrosiano e all’uccisione di Roberto Calvi. Ma sono fantasie. Le telefonate dei Lupi grigi sono in realtà orchestrate dalla Stasi tedesca e servono a confondere le acque per stornare dai servizi segreti i sospetti di aver organizzato l’attentato al papa. Di elementi che autorizzino a ipotizzare qualche collegamento tra la bambina romana e il banchiere impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra non ce ne sono. Nel XXI secolo Emanuela Orlandi torna al centro delle cronache grazie a una telefonata, anche questa anonima, che arriva al programma di Raitre Chi l’ha visto?. Suggerisce di «andare a vedere chi è sepolto nella basicilica di sant’Apollinare a Roma e allude a un “favore” fatto da Enrico De Pedis, “Renatino” uno dei capi della Banda della Magliana ucciso nel 1990, al cardinal Poletti. Che a Sant’Apollinare sia sepolto tra santi e papi proprio lui, il temuto Renatino, lo sanno tutti e quando, sette anni dopo, la tomba verrà aperta saranno ritrovati solo i resti del bandito. Nel frattempo però si è scatena- ta una corsa in massa alla rivelazione. Antonio Mancini, “Accattone”, altro bandito della Magliana, ricorda di aver riconosciuto nel “Mario” che aveva telefonato subito dopo la scomparsa un bandito detto “Rufetto”, sodale appunto di Renatino. Ancora qualche anno e “Accattone” precisa: a rapire la ragazza era stata la banda, per farsi restituire dallo Ior i soldi investiti dai criminaloni attraverso l’Ambrosiano. A chiamare in causa Renatino era stata anche una sua ex amante, Sabrina Minardi, ex moglie di un calciatore della Lazio, Bruno Giordano. La donna è palesemente un po’ sbroccata. Confonde le date e squaderna ricostruzioni inverosimili ma dà anche indicazioni reali. E’ lei a far scoprire l’immensa grotta sotterranea a cui si accede dall’appartamento di una sua amica, Daniela Mobili, nella quale sarebbe stata tenuta segregata Emanuela prima di essere uccisa dallo stesso Renatino. E la Bmw sulla quale, secondo l’improbabile teste, l’autista di Renatino, “Sergio”, avrebbe caricato la ragazza, portata al Gianicolo già drogata dalla governante della Mobili. Ma non parla solo la Magliana. Si affaccia il lupo grigio in persona, Alì Agca: rapimento per conto del vaticano, anzi no corregge cinque anni dopo, a opera della Cia. Comunque «è viva e tornerà». Si affaccia padre Anorth, esorcista principe del Vaticano: Emanuela è morta nel corso di un festino a base di droga e sesso. Conferma due anni dopo il pentito di mafia Calcara, a cui un non meglio precisato boss avrebbe rivelato che la ragazza era finita male nel corso di un festino e le spoglie erano state occultate in Vaticano. Di sfuggita spunta un agente del Sismi: «È viva, sedata in un manicomio in Inghilterra». Impossibile dire quante di queste rivelazioni, mai supportate da elementi concreti, arrivino da mitomani, quante rispondano a logiche che con il caso Orlandi in sé non hanno nulla a che vedere, come il depistaggio organizzato negli anni ‘ 80 dalla Ddr, e quanto invece la confusione avesse il preciso obiettivo di rendere impossibile orizzontarsi, coprendo così i veri responsabili del fattaccio. Forse l’elemento più inquietante, proprio per la sua distanza dall’affaire internazionale che è stato ipotizzato e raccontato per decenni, arrivò dall’avvocato della famiglia Orlandi Gennaro Egidio che raccontò a Pino Nicotri, il giornalista che più e meglio di tutti si è occupato del caso: «I motivi della scomparsa ella ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Il rapimento, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no. La verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Ma non per questo meno amara». Peccato che l’avvocato sia morto prima di poter spiegare le sue sibilline parole, anche se l’avvocato sospettava il coinvolgimento di una parente di Emanuela. Ma se tra una settimana l’esame del dna dovesse dire che le ossa ritrovate nella Nunziatura di via Po sono quelle della quindicenne scomparsa 35 anni fa il coinvolgimento di qualche pezzo grosso del Vaticano diventerebbe di fatto certo, e la “caciara” di questi decenni si rivelerebbe tutt’altro che casuale.

Servizi, Ior e Mafia: il caso Orlandi è il “complotto perfetto”. Il mistero della ragazza scomparsa nel 1983 forse vicino alla soluzione. Lunedì i risultati del dna sulle ossa trovate in Nunziatura, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". Per capire se quelle ossa sono davvero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, bisognerà ancora attendere i tempi tecnici necessari alle perizie. Dicono dai sette ai dieci giorni. Ma qualcuno sostiene che dieci giorni siano un tempo abbastanza inspiegabile, per avere degli esiti che normalmente si hanno nella metà del tempo. Ma di “congetture”, in questo pezzo, ne metteremo già tante, quindi questa ce la risparmiamo. Una cosa però già si sa. Anzi, due. Le ossa, che sarebbero state trovate in due punti diversi dello stesso ambiente, un appartamento in ristrutturazione all’interno di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica a Roma, appartengono a due corpi. Almeno uno di questi è una donna, conclusione a cui si può arrivare grazie ad una prima, sommaria, analisi del bacino. E secondo indiscrezioni, sarebbero ossa di corpi non ancora adulti. Non ci sarà ancora la conferma definitiva, quindi, ma ce n’è abbastanza per lasciarsi suggestionare dall’ipotesi che sì, quelle ossa potrebbero essere di Emanuela e Mirella. O di una delle due. E questo anche escludendo quello che sembra sia un equivoco delle ultime ore, riguardante Don Pietro Vergari, il sacerdote indagato in passato per la vicenda Orlandi, per essere stato colui che si fece promotore della sepoltura in Sant’Apollinare di Renatino De Pedis, uno dei capi della banda della Magliana. Ai tempi, indagando sul legame fra la criminalità romana e la scomparsa di Emanuela, saltò fuori il suo nome, ma la posizione del sacerdote venne poi archiviata. La figura di Don Vergari, nelle ore immediatamente successive al ritrovamento delle ossa a Villa Giorgina è stata nuovamente rievocata, perché si diceva avesse lavorato proprio alla Nunziatura Apostolica, anche se in un periodo successivo alla scomparsa di Emanuela. Tuttavia, dopo alcune ricerche, sembrerebbe che in realtà il sacerdote abbia prestato la sua opera pastorale presso la Penitenzeria Apostolica, allora guidata dall’arcivescovo francescano Gianfranco Girotti, e non alla Nunziatura. E sarebbe stato proprio lavorando a Regina Coeli che Don Vergari avrebbe conosciuto De Pedis. Chiarito questo aspetto, rimane la domanda iniziale: se fossero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, quelle ossa? Intanto sarebbe interessante capire da quanto tempo si trovavano a Villa Giorgina. Da sempre? Oppure solo da poco? Sono state ritrovate casualmente oppure qualcuno ha voluto che fossero trovate? E nel caso della seconda ipotesi, chi e perché ha voluto farle trovare, proprio ora e proprio in un immobile di proprietà del Vaticano? Prima di tutto va fatta una considerazione: tutti i personaggi di grosso calibro, coinvolti da inchieste e indagini, nella scomparsa di Emanuela Orlandi, sono morti. E’ morto il cardinale Marcinkus, deus ex machina dello Ior. E’ morto, e sappiamo come, anche Roberto Calvi. E’ morto e sepolto, come già detto, anche Renatino De Pedis. E visto che nello storytelling di questa vicenda non ci siamo fatti mancare neppure la mafia, sono morti anche entrambi i dominus mafiosi del tempo, cioè Riina e Provenzano. Chiunque potesse sapere qualcosa, sulla scorta di ciò su cui si è indagato, è già passato a miglior vita. A parte Pippo Calò, il cassiere della mafia, che sta al 41 bis e che vorrebbe incontrare la famiglia Orlandi. Una richiesta fin qui negata dalle Istituzioni. Insomma, chiunque potesse sapere qualcosa o è morto o non è a piede libero. Ma ne siamo certi? Se invece qualcuno che sa e può dimostrare di sapere, calcasse ancora liberamente questa terra? E se magari, questo qualcuno, per motivi da scoprire, avesse fatto sapere a qualcun altro in Vaticano della sua esistenza, chiedendo qualcosa? Visto che abbiamo tirato in ballo la mafia, facciamo un esempio mafioso: quando si chiede il pizzo ad un negoziante, lo si fa all’inizio con le buone, in maniera anche conciliante. Poi, se il commerciante non si piega al racket, si passa alle minacce. E prima di mettere bombe al negozio, si lascia davanti alla saracinesca una bottiglia con dentro della benzina. Intimidazione. E se queste ossa fossero una bottiglia piena di benzina, lasciate su una delle tante porte del Vaticano? Se fossero un’intimidazione? Congetture e suggestioni, che oggi lasciano il tempo che trovano. Ma che magari, fra dieci giorni, avranno una sostanza e soprattutto una prospettiva diversa.

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano). La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso, scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio".

C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero ( e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati.

E c’è la "bandaccia" naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio "l’Accattone" Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di ‘ Renatino’ De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente.

C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande.

Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente.

Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte.

A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’’ Americano’ che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca, scrive Pino Nicotri il 29 giugno 2018 su "Blitz Quotidiano”. Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca alla sirena Pietro. Ammettiamo per un attimo che l’ennesimo asserito colpo di scena del mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non sia la solita panna montata con clamore, ma inesorabilmente sempre destinata a sgonfiarsi. Ammettiamo cioè che davvero, come “rivela” Pietro Orlandi con soli 35 anni di ritardo, ma tacendo anche questa volta la fonte della nuova “notizia”, il Vaticano abbia nascosto la telefonata che ne annunciava l’avvenuto rapimento la sera stessa della scomparsa di Emanuela, cioè del 22 giugno 1983. Vedremo che l’eventuale averla nascosta è stato del tutto ininfluente, ma intanto ci sono comunque da fare varie considerazioni:

 1) – la telefonata in questione, se davvero è stata fatta, è più facile che sia opera depistatrice di chi ha sequestrato ed eliminato Emanuela per i purtroppo usuali motivi da cronaca nera anziché opera dei fantomatici rapitori intenzionati a ricattare papa Wojtyla per motivi politici o malavitosi. I motivi politici si voleva fossero la volontà di ottenere la liberazione del terrorista turco Alì Mehmet Agca, condannato all’ergastolo per avere sparato a Wojtyla nell’81 oppure la volontà ammorbidire l’impegno anticomunista di quel Papa. I motivi malavitosi si vuole consistessero nella volontà di ottenere la restituzione di soldi a dire di alcuni prestati per le varie attività anticomuniste del pontefice polacco, motivi ipotizzati quando ormai era chiaro che la pista “politica”, quale che essa fosse, era una bufala. Motivi TUTTI che comunque, chiacchiere a parte, non sono mai stati dimostrati. Stando a quanto dice Pietro Orlandi, la persona che avrebbe telefonato la sera del 22 giugno 1983 ha chiesto di parlare col papa. Ma come poteva ignorare che il papa anziché in Vaticano era nella natia Polonia la temibile organizzazione che si vuol fare credere abbia rapito Emanuela?  E’ infatti lo stesso Pietro Orlandi il primo a sostenere che, politica o malavitosa, si tratta di comunque un'organizzazione composta da spezzoni di servizi segreti vari, banca vaticana IOR, mafia, malavita romana, ecc.  La ha scritto in un suo libro e lo ha detto a Vanity Fair nel maggio 2011, lo ha infine ripetuto di recente a Micromega.  Un’organizzazione dunque che sicuramente, specie la banca IOR che è del Vaticano e ha la sede DENTRO il Vaticano, sapeva che Wojtyla NON era “in casa” bensì ancora in Polonia, dove si era recato soprattutto per sostenere la lotta anticomunista e antisovietica del sindacato Solidarnosc. Una motivazione, quella del viaggio, talmente politica ed eversiva per il regime comunista polacco, e per l’Unione Sovietica dalla quale la Polonia dipendeva mani e piedi, più che sufficiente per mettere Wojtyla sotto la lente di ingrandimento di vari servizi segreti, non solo italiani, e sapere passo passo dove fosse e cosa stesse facendo. E’ quindi assolutamente impossibile che i “rapitori” e il loro telefonista di questa ennesima “rivelazione” appartenessero alla fantomatica “organizzazione” temibile e tentacolare di cui parla con insistenza l’Orlandi.

 2) – Guarda caso, si tratta di un copione identico a quello messo in piedi l’anno successivo, 1984, da Mario Squillaro, lo zio di Stefania Bini, che dopo avere sequestrato e ucciso la giovane nipote ha sostenuto coi genitori che gli aveva telefonato qualcuno per dire che la ragazza era stata rapita. Anche lei da un gruppo di turchi che volevano una bella cifra per il riscatto.

3) – E sempre guarda caso, si tratta dello stesso depistaggio tentato da Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi, che dopo averla uccisa accecata dalla gelosia si è inventata che era stata rapita.

4) – Ad accompagnare Wojtyla nel viaggio in Polonia, compresa l’andata e il ritorno in aereo, c’era il suo amico polacco Jacek Palkiewicz, che il caso vuole fosse anche mio amico perché viveva in Veneto e lo avevo conosciuto per motivi di lavoro. Come ho scritto anche in libri, Jacek mi ha sempre ESCLUSO che nel viaggio di ritorno Wojtyla avesse avuto motivi di preoccupazione diversi dal temere eventuali complicazioni con le autorità polacche riguardo il decollo per il rientro a Roma: nessuna telefonata clamorosa dal Vaticano o da altrove riguardo “rapimenti” e affini, ma solo gioia per la riuscita del viaggio e la mancanza di pretesti di qualunque tipo da parte dei polacchi.

5) – E’ incredibile che qualunque affermazione snocciolata da Pietro Orlandi venga sempre immediatamente accolta come oro colato. E sì che di bidoni e di “verità” fasulle ne ha avvalorate ormai troppe. Vediamone in dettaglio alcune:

a – le rivelazioni e le promesse di Agca.

b – La pista di Luigi Gastrini alias il falso “007 Lupo Solitario”.

c – La pista del pentito della mafia Vincenzo Calcara.

d – La pista del fotografo romano Marco Fassoni Accetti, diventato famoso per avere “confessato” ai magistrati di avere organizzato lui il rapimento di Emanuela, della quale ha esibito agli Orlandi, che gli hanno creduto, un flauto che sosteneva essere quello della ragazza.

e – Le orge con uccisione finale di Emanuela ipotizzate da don Amorth, il famoso esorcista della Chiesa. Che ha riportato la pista delle orge in un suo libro, pubblicato dopo averne consegnato le bozze a Pietro Orlandi, che non ha avuto nulla di ridire; la stralunata pista delle tomba di Enrico De Pedis con dentro la “soluzione del mistero”, pista della quale era convinta anche la sorella Natalina Orlandi.

f – La pista della “supertestimone” Sabrina Minardi asserita “amante decennale di De Pedis” quando lei stessa ha ammesso che si sono frequentati per appena due anni, per giunta mente lei svolgeva la professione di prostituta d’alto bordo. A definire mitomane Sabrina Minardi, comunque smentita dalle indagini, è stata la sua stessa sorella Cinzia.

g –  Tralasciamo il fatto che De Pedis viene sempre automaticamente definito – a mo’ di riflesso pavloviano – “boss della banda della Magliana” quando invece è stato sempre assolto in tutti i gradi di giudizio perfino dall’accusa di esserne stato un semplice membro o gregario. Tant’è che quando nel febbraio ’90 venne ucciso era in regolare possesso di patente e passaporto. Tralasciamo.

Quello che però colpisce è l’astio verso la sua vedova, Carla di Giovanni, alla quale anche di recente Pietro Orlandi sulla rivista Micromega, ripetendo quando già detto a Vanity Fair 6 anni fa, ha attribuito dichiarazioni gravi per sostenere di fatto una combutta della donna col procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. Le parole riportate non con precisione assoluta da Pietro Orlandi sono estrapolate – e tenute fuori contesto – dall’intercettazione di una telefonata della vedova a don Piero Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare, che all’epoca di quella telefonata aveva ricevuto un avviso di garanzia per poter analizzare l’archivio del suo computer riguardo la faccenda “tomba di De Pedis/scomparsa di Emanuela Orlandi”. Che il telefono di don Vergari fosse sotto controllo era ovvio e ben noto anche ai diretti interessati. Che non per questo hanno rinunciato a sfoghi personali contro l’assurdità dell’inchiesta sulla tomba – inchiesta già condotta e archiviata nel 1997 – e contro il prolungarsi dell’intera inchiesta sul “rapimento” basata sulle farneticazioni autoaccusatorie del fotografo Marco Fassoni Accetti, finite con l’accusa di calunnia e autocalunnia. Da notare che l’infinito tiro a segno su De Pedis e sulla sua tomba ha procurato alla vedova anni certo non di divertimento, ma di dolore intenso.  Un po’ di humana pietas non guasterebbe. Specie da parte di chi si proclama cattolicissimo e nella Santa Sede ci ha lavorato e abitato una vita e tutt’oggi continua ad abitare nelle sue case. La vedova De Pedis in particolare era furiosa, comprensibilmente, perché chiedeva inutilmente ormai da anni al sostituto procuratore Giancarlo Capaldo di controllare il contenuto della bara del marito in modo da porre fine alle chiacchiere e poterne trasferire altrove la salma evitando il sospetto di una traslazione per nascondere chissà quale il contenuto. Ovvio lo sfogo liberatorio quando ha saputo dagli avvocati che Pigantone avrebbe ordinato a breve a Capaldo l’ispezione della bara, come in effetti poi avvenuto.

6) – Strano che Pietro Orlandi prenda per oro colato le “rivelazioni” più strampalate e rifugga invece ostinatamente da altre, per l’esattezza da tutte quelle che possono contraddire la vulgata del “rapimento” e riportare la scomparsa di Emanuela nel purtroppo solito alveo delle scomparse di minorenni. A partire da quanto affermato dallo stesso avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, compresi i suoi sospetti sull’amico “misterioso” della zia Anna Orlandi;

7) – Anche ammesso che la telefonata “rivelata” da Pietro Orlandi pochi giorni fa sia stata fatta e che il Vaticano l’abbia nascosta, di cosa si lamentano Pietro e gli altri fan del “rapimento”? Forse che la pista fatta imboccare alle indagini non è stata proprio quella del rapimento?  La pista del rapimento è stata fatta imboccare grazie ai vari e imprudenti pubblici appelli di Wojtyla, ben otto a partire da quello del 3 luglio, grazie alle insistenze degli stessi Orlandi e grazie all’informativa alquanto sballata dell’allora Sisde fornita al magistrato Margherita Gerunda, che stava indagando su ipotesi più normali e realistiche e che per questo venne sostituita dopo poche settimane.

POST SCRIPTUM. Non è la prima volta che Pietro Orlandi riporta “rivelazioni” altrui evitando però di fare i nomi delle fonti. E’ già avvenuto almeno due volte ai danni di don Vergari per metterlo in cattiva luce.

– Ecco cosa ha dichiarato nel 2012, evitando come sempre di fare i nomi: “Che a Sant’Apollinare ci fossero giri strani e gravitasse un pezzo di malavita romana, non solo De Pedis con cui don Vergari era in confidenza, è purtroppo qualcosa di risaputo. Le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari”. Peccato però che i verbali delle deposizioni testimoniali di suor Dolores, il suo permettere che gli alunni del Da Victoria cantassero nel coro di S. Apollinare e gli atti giudiziari tutti smentiscano in blocco le affermazioni di Orlandi compresa la possibilità che le “rivelazioni” in questione, anche a volere ammettere che siano state davvero fatte, possano essere vere.

– A “Chi l’ha visto?” sempre Pietro Orlandi ha sostenuto che in Vaticano gli avevano detto che nelle stanze sotterranee della basilica di S. Apollinare “avveniva di tutto e di più”, con chiara allusione quanto meno a orge. Peccato che anche le fonti di queste affermazioni, ammesso che siano mai state fatte, siano rimaste anonime…Possiamo fermarci qui. Con una sola annotazione finale: che direbbe Pietro Orlandi se la stampa riportasse come oro colato le malignità che in Vaticano non risparmiano neppure lui e la sua famiglia? A partire dal fatto che coi primi stipendi pagatigli dallo IOR lui si è comprato una Maserati, acquisto ammesso e confermato.

Emanuela Orlandi, la sorella Federica a "Chi l'ha visto?": spunta la pista del filmino a luci rosse, scrive il 29 Novembre 2018 Libero Quotidiano. Mentre si va affievolendo il clamore del ritrovamento di alcune ossa nel sottoscala di un edificio di proprietà della Santa Sede, il caso di Emanuela Orlandi riprende quota dopo che la sorella della ragazza scomparsa nel 1983 ha raccontato a Chi l'Ha Visto di Federica Sciarelli un episodio risalente a pochi giorni prima della sparizione di Emanuela. Federica Orlandi ha raccontato di una conversazione telefonica in cui la sorella le diceva che "le avrebbero dato un compenso di 300mila lire. Io le ho detto che era impossibile che le dessero quella cifra e così è finita la telefonata. Emanuela mi disse che questa persona avrebbe aspettato fuori dalla scuola di musica per sapere se avrebbe accettato il lavoretto da fare il sabato successivo. Nessuno poteva immaginare cosa poteva esserci dietro. Qualche giorno prima io ero sull'autobus e fui avvicinata da un uomo di nome Felix. Mi fermò chiedendomi se mi interessava fare la comparsa nel film Ultimi giorni di Pompei. Mi avrebbero pagato 100mila lire al giorno, ma io non accettai. Mi disse anche che mi avrebbe richiamato a casa, ma non lo fece", sono le parole di Federica.

Felix è lo stesso uomo di cui parla Alfredo nel messaggio di addio scritto prima di impiccarsi al cancello di una villa: "Sono uno studente universitario, mi sono presentato a un appuntamento per prendere materiale pubblicitario per un'offerta di lavoro. In un salottino hanno offerto a me e ad altre ragazze un aperitivo. Nel bicchiere c'era qualcosa che ha spinto le ragazze a spogliarsi e noi uomini, invitate da loro, a fare l'amore. Non mi sono accorto che ci stavano fotografando". Poco dopo, le immagini sono apparse su un giornale pornografico e il 29enne non ha retto.

Caso Orlandi-Gregori. La sorella di Mirella Gregori: “Basta con depistaggi. Sento che mia sorella è ancora viva”, scrive il 30 novembre 2018 secolo-trentino.com. La storia della scomparsa di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori è una triste vicenda (insoluta) di cronaca nera che nel corso degli ultimi decenni ha ciclicamente catalizzato l’attenzione mediatica attraverso i suoi sviluppi. Maria Antonietta Gregori, sorella di Mirella, è intervenuta ai microfoni di Radio Cusano Campus all’interno del programma radiofonico “La Storia Oscura”, commentando i risultati delle analisi effettuate sulle ossa umane ritrovate in una depandance della Nunziatura Apostolica a Roma. Gli esami hanno evidenziato che le ossa sarebbero riconducibili ad un uomo e sarebbero ben più antiche del 1964. Maria Antonietta Gregori durante l’intervista ha dichiarato: “La notizia del ritrovamento delle ossa la appresi da alcuni giornalisti che mi scrissero dei messaggi sul cellulare. Purtroppo le notizie che potrebbero riguardare mia sorella le apprendiamo sempre da altre persone e mai dagli inquirenti. Mi ha stupito molto anche il fatto dell’immediato abbinamento di quei resti con Mirella ed Emanuela Orlandi. Mi sono chiesta, perché? Chi ha detto questo? Come hanno fatto a tirare fuori i nomi di Mirella ed Emanuela? Per quale motivo? Comunque, noi aspettiamo sempre l’esito definitivo delle analisi sulle ossa visto che lo stesso professor Arcudi consulente del Vaticano continua a usare il condizionale in merito ai primi accertamenti. Solo l’esame del dna può darci delle certezze. E comunque noi faremo effettuare altre analisi in parallelo dalla nostra genetista Marina Baldi.” Proseguendo nel suo intervento la sorella di Mirella Gregori ha rincarato. “Vogliamo che le cose siano fatte bene, alla luce del sole, senza altri depistaggi o insabbiamenti. Come famiglie coinvolte abbiamo bisogno di pace dopo 35 anni, non è possibile andare avanti così. Io in tutti questi anni ho sempre pensato e sperato che mia sorella fosse ancora viva, non so dove si trovi ma dentro di me sento che è viva; però, se quelle ossa dovessero essere di Mirella, allora dopo tanta sofferenza metteremmo la parola fine a questa terribile storia che dura da 35 anni e soprattutto finalmente si aprirebbe un’indagine per arrivare alla verità.” Infine concludendo l’intervento Maria Antonietta Gregori ha voluto commentare il recente operato del Vaticano e della Procura nei confronti di questo triste caso insoluto aggiungendo: “La cosa che mi fa ben sperare è l’apertura nuova del Vaticano e della Procura nei confronti del caso della scomparsa di mia sorella e di quella di Emanuela Orlandi. Visto che in passato indagini vere e proprie sulla scomparsa di Mirella non sono mai state fatte, a causa, lo ripeto, di depistaggi, insabbiamenti e false piste. Speriamo si possa arrivare presto alla verità”. 

Emanuela Orlandi, Vittorio Feltri il 2 Novembre 2018 su Libero Quotidiano: "Se il suo assassino è un prete non si saprà mai". Una storia assurda che dura da 35 anni e non è ancora finita. È quella di Emanuela Orlandi, una quindicenne figlia di un dipendente del Vaticano, sparita nel 1983 e non più ricomparsa. Decenni trascorsi senza che si sia scoperto il motivo della morte di questa povera fanciulla. A distanza di tanto tempo passato inutilmente allo scopo di capire cosa sia successo alla ragazza in questione: silenzio da parte delle cosiddette autorità religiose, bocche chiuse, inquirenti incapaci, mistero assoluto. Ma come può accadere che una adolescente nata e cresciuta in Vaticano, non nel quartiere di San Lorenzo, sia stata rapita o uccisa (più probabile) in una piccola città teoricamente Santa e poi occultata in maniera tale da essere impossibile recuperarne il corpo? Con tutta la fantasia di cui disponiamo, non siamo in grado di decifrare l'arcano. Qualcuno sospetta che Emanuela sia stata violentata e soppressa da un prete più o meno altolocato. Forse, ciononostante non esiste una prova. Altre ipotesi si possono fare ma nessuna di esse è convalidata. Supposizioni. Ora, a distanza di parecchi lustri, saltano fuori alla Nunziatura Apostolica di via Po le ossa di una donna, che presto saranno esaminate per verificare se siano o no i resti della povera vittima di cui discettiamo. Non resta che attendere. Però qualora si venisse a sapere che lo scheletro è il suo, il giallo non sarebbe comunque risolto. Il recupero di un cadavere non dice chi sia l'eventuale assassino né può costituire la base di partenza per indagini che portino a comprendere cosa sia avvenuto e chi ne sia il responsabile. Questo per dire che Emanuela non avrà in ogni caso giustizia. Chiunque l'abbia ammazzata non sarà preso e processato perché è trascorso troppo tempo dall'epoca del delitto e chi lo ha commesso ha avuto facoltà di nascondere la mano omicida in forma perfetta. Rimane l'atroce sospetto che la giovane sia stata sacrificata da un prelato, cioè da una persona che viveva e frequentava lo Stato della Chiesa, lasciandosi andare a un istinto sessuale che definire schifoso è poco. Mi auguro che la presente ricostruzione sia sbagliata, ma non me ne viene in mente una più convincente. In effetti gli uomini, con o senza abito talare, sono purtroppo tutti uguali e capaci di dare il peggio di sé. Vittorio Feltri

Emanuela Orlandi e l’uomo dell’Avon, la sorella Federica: “Anch’io avvicinata da un personaggio ambiguo”. Si riapre la pista sessuale per il delitto Orlandi. A Chi l’ha visto? un’intervista in cui la sorella Federica racconta di essere stata avvicinata da Felix, personaggio noto negli anni ’80 a Roma, perché solito reclutare con l’inganno ragazzi e ragazze per l’industria del porno. È lo stesso che propose a Emanuela la vendita dei prodotti Avon prima che sparisse? Scrive il 29 novembre 2018 Angela Marino su Fanpage. Si torna sulla pista sessuale per la scomparsa di Emanuela Orlandi. Dopo che i medici legali hanno stabilito che non sono della studentessa sparita a Roma, 35 anni fa, le ossa ritrovate nei sotterranei della Nunziatura apostolica di Roma, Chi l'ha visto? ha proposto un servizio in cui si batte la pista del ‘sequestro a scopo di libidine'. Si tratta della prima ipotesi di reato per cui indagava l'allora pubblico ministero, Margherita Gerunda, il magistrato che decise di ritirarsi quando il caso venne fagocitato dalle teorie del complotto in Vaticano.

Felix e l'uomo dell'Avon sono la stessa persona? Al centro dell'inchiesta dell'epoca l'uomo che avvicinò Emanuela con un'offerta di lavoro prima che sparisse. "Le avrebbero dato un compenso di 300mila lire – dice la sorella Federica Orlandi, l'ultima ad aver parlato a telefono Emanuela, all'inviata di Chi l'ha visto? – Io le ho detto che era impossibile che le dessero quella cifra e così è finita la telefonata. Emanuela mi disse che questa persona avrebbe aspettato fuori dalla scuola di musica per sapere se avrebbe accettato il lavoretto da fare il sabato successivo (avrebbe dovuto vendere prodotti Avon a una sfilata, ndr.). Nessuno poteva immaginare cosa poteva esserci dietro. Qualche giorno prima io ero sull'autobus e fui avvicinata da un uomo di nome Felix. Mi fermò chiedendomi se mi interessava fare la comparsa nel film ‘Ultimi giorni di Pompei'. Mi avrebbero pagato 100mila lire al giorno, ma io non accettai. Mi disse anche che mi avrebbe richiamato a casa, ma non lo fece", conclude la sorella di Emanuela.

Nella storia un'altra vittima. Felix era lo stesso che fece quella strana proposta a Emanuela? Era l'uomo dell'Avon? A distanza di 35 anni sembra impossibile saperlo, tuttavia è probabilmente lo stesso Felix che compare in un'altra oscura vicenda romana, quella del suicidio di uno studente di nome Alfredo. Il ragazzo si è impiccato al cancello di una villa dopo che alcuni scatti privati che lo ritraevano mentre aveva rapporti con delle donne, erano finiti su una rivista porno. "Sono uno studente universitario – scriveva nel biglietto suicida – mi sono presentato a un appuntamento per prendere materiale pubblicitario per un'offerta di lavoro. In un salottino hanno offerto a me e ad altre ragazze un aperitivo. Nel bicchiere c'era qualcosa che ha spinto le ragazze a spogliarsi e noi uomini, invitati da loro, a fare l'amore. Non mi sono accorto che ci stavano fotografando". Una proposta di lavoro, droghe e un incontro finito in tragedia: è questa la vera storia di Emanuela Orlandi?

Il mistero irrisolto della scomparsa di Emanuela Orlandi. La sera del 22 giugno 1983, una ragazza di 15 anni spariva nel nulla dando vita a uno dei misteri più oscuri della storia italiana, ancora oggi irrisolto, scrive TPI il 30 Novembre 2018. Emanuela Orlandi scomparsa. Aveva 15 anni quando scomparve e aveva appena terminato il secondo anno del liceo. La sera del 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi finì la sua lezione di flauto presso la scuola di musica Tommaso Ludovico da Victoria in piazza Sant’Apollinare, nel centro di Roma, e chiamò sua sorella per dirle che le era stato proposto un lavoro come promotrice di prodotti cosmetici. Fu l’ultima volta che la sua famiglia sentì la sua voce. Il mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi negli anni ha visto le indagini seguire numerose piste. Alcune di queste hanno coinvolto lo Stato Vaticano, l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano, Mehmet Ali Ağca (il criminale turco responsabile dell’attentato del 1981 a Giovanni Paolo II), il governo italiano e i servizi segreti di diversi paesi. Il caso inoltre si è intrecciato a quella di un’altra ragazza romana, Mirella Gregori, anche lei quindicenne, che scomparve il 7 maggio 1983. Secondo una delle ricostruzioni dei fatti, dopo quella chiamata, Emanuela incontrò un’amica e le raccontò della proposta appena ricevuta, confidandole che prima di tornare a casa sarebbe rimasta ad aspettare l’uomo che le aveva offerto il lavoro. Un vigile urbano disse di averla vista salire su una Bmw. Da allora si persero le sue tracce. Emanuela era cittadina dello Stato Vaticano ed era figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia. Inizialmente si pensò a un tipico caso di ribellione adolescenziale e allontanamento volontario dalla famiglia, ma il caso Orlandi diventò presto uno dei più oscuri misteri della storia d’Italia. Nel corso delle indagini sono state seguite numerose piste che hanno coinvolto lo Stato Vaticano, l’Istituto per le Opere di Religione (Ior), la Banda della Magliana, il Banco Ambrosiano, il governo italiano e i servizi segreti di diversi paesi. Il suo caso si è intrecciato a quella di un’altra ragazza romana, Mirella Gregori, anche lei quindicenne, che scomparve il 7 maggio 1983. Il 23 giugno il padre sporse denuncia ai carabinieri e i giornali diffusero la notizia della scomparsa. Iniziarono ad arrivare subito delle telefonate, principalmente di sciacalli e mitomani. In seguito però si aprirono diverse piste. Per molti anni non ci sono state novità, fino al luglio del 2005, quando una telefonata anonima alla trasmissione televisiva Chi l’ha visto riaccese l’interesse su una vicenda ormai considerata irrisolvibile. “… Per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare e del favore che Renatino fece al cardinal Poletti, all’epoca”, disse una voce maschile anonima. Con “Renatino” si riferiva a uno dei capi della Banda della Magliana, Enrico de Pedis. Successivamente si scoprì che in quella tomba – che fu aperta il 14 maggio del 2012 – furono ritrovati i resti di de Pedis ma non della Orlandi. Secondo il fratello Pietro Orlandi, il sequestro è un “proseguimento dell’attentato a Giovanni Paolo II, avvenuto il 31 maggio 1981”, da parte di Mehmet Ali Ağca, un criminale turco responsabile di aver sparato due colpi di pistola contro il Papa. Secondo l’avvocato Nicoletta Piergentili Piromallo, uno dei legali della famiglia Orlandi, Ali Ağca “da tempo continua a ripetere che sa dove è Emanuela Orlandi. Anche solo per fugare dubbi e interrogativi l’ex lupo grigio va ascoltato dalla magistratura italiana che da anni indaga sulla scomparsa della ragazza”. “…stiamo parlando di una inchiesta che va avanti ormai da quasi 32 anni. È evidente che c’è la volontà da parte di qualcuno di non arrivare alla verità: il Vaticano ha ostacolato le indagini senza rispondere alle varie rogatorie e impedendo l’acquisizione di alcune telefonate”, ha detto Pietro Orlandi nel febbraio del 2015, in occasione di una manifestazione davanti al palazzo di Giustizia a Roma con cui si ricordava il caso di Emanuela. Nonostante gli appelli della famiglia, il Vaticano non è mai intervenuto ufficialmente sul caso. Il 5 maggio del 2015 il capo della Procura della Repubblica di Roma, il Giudice Giuseppe Pignatone, ha chiesto l’archiviazione del caso, ritenendo che ormai non possano emergere nuovi elementi sulla vicenda. La famiglia di Orlandi ha lanciato una petizione per impedire l’archiviazione del caso di Emanuela Orlandi e i legali che se ne occupano hanno presentato ricorso, chiedendo di approfondire alcune piste. Finora alcuni esponenti della curia romana, che secondo gli avvocati della famiglia Orlandi potrebbero avere informazioni sul caso, non sono mai stati interrogati. La Procura ha inoltre chiesto l’archiviazione anche per il caso di Mirella Gregori. Alcuni mesi fa, il giornalista dell’Espresso Emiliano Fittipaldi ha pubblicato lunedì 18 settembre 2017 un documento, ricevuto da una fonte interna al Vaticano, che riapre il mistero dietro la scomparsa di Emanuela Orlandi, figlia di un commesso della Casa Pontificia e cittadina dello Stato Vaticano svanita nel nulla la sera del 22 giugno 1983 quando aveva 15 anni. Il caso della sparizione di Orlandi è al centro di un nuovo libro-inchiesta del giornalista intitolato Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Fittipaldi, che ha già pubblicato una serie di inchieste sulla Santa Sede, non è in grado di provare l’autenticità del documento. Il suo formato sembra compatibile con quello di altre carte ricevute dal giornalista in passato, il suo contenuto è dettagliato e verosimile. Tuttavia, il documento non è protocollato (reca al suo interno una dicitura per cui la mancata protocollatura sarebbe stata esplicitamente richiesta) né sembra rispondere concretamente a numerosi interrogativi, ma il suo contenuto, qualora si trattasse di un documento realmente autentico, conterrebbe rivelazioni davvero incredibili. Il documento sembra mostrare infatti che nel periodo compreso tra il 1983 e il 1997 il Vaticano spese circa 483 milioni di lire per svolgere indagini sulla vicenda di Emanuela Orlandi, per effettuare il trasferimento di una persona nel Regno Unito, per pagare un alloggio in un ostello femminile di Londra e per una serie di visite mediche, alcune di tipo ginecologico. Si tratta di una scoperta molto importante perché il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto già condiviso con i giudici italiani che hanno condotto le indagini in questi ultimi trentaquattro anni. Ma vediamo in cosa consiste esattamente il documento. Si tratta di una lettera di cinque pagine datata marzo 1998 e firmata dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell’Apsa (l’Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica). Risulta indirizzata ai monsignori Giovanni Battista Re, all’epoca sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato del Vaticano, e Jean-Louis Tauran, a capo della sezione “Rapporti con gli stati” che coadiuva il pontefice. La lettera è intitolata “Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio 1968)” e dal suo testo si evince che avrebbe dovuto essere accompagnata da circa 200 pagine di fatture e ricevute che attesterebbero le spese compiute dal Vaticano per la giovane scomparsa, relative al periodo 1983-1997. Tuttavia queste fatture non erano contenute nel fascicolo consegnato a Fittipaldi. Qui sotto l’originale della lettera in possesso del giornalista:

La prima voce di spesa contenuta nel documento riguarda il pagamento di una “fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana” per 450mila lire. Nella sua ultima telefonata prima di sparire, Emanuela aveva detto alla sorella che le era stato proposto un lavoro come promotrice di prodotti cosmetici mentre si trovava a una sfilata delle stiliste Fontana.

C’è poi una spesa analoga anche per la preparazione di attività investigativa estera e uno “spostamento” per il Regno Unito, costato 4 milioni di lire. La rendicontazione prosegue con il pagamento delle rette di vitto e alloggio presso un ostello della gioventù per ragazze presso un istituto religioso di Londra.

Nella seconda e nella terza pagina, la nota racconta inoltre i costi sostenuti per l’“allontanamento domiciliare” di Emanuela tra febbraio 1985 e febbraio 1988. La lista prosegue con una serie di viaggi a Londra di esponenti della Curia, ma contiene anche una voce che recita “attività investigativa relativa al depistaggio”, spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in ginecologia. Vengono poi citati altri due trasferimenti e relative rette di vitto e alloggio.

Una nuova voce che recita “allontanamento domiciliare” si riferisce invece al periodo tra aprile 1993 e luglio 1997. L’elenco si conclude con la spesa per “attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali”, come a significare che la pratica è considerata chiusa.

Indizi che lascerebbero pensare che Emanuela Orlandi non sarebbe stata rapita o uccisa, ma che il Vaticano la avrebbe allontanata da Roma e tenuta nascosta a Londra. Ciò che non è assolutamente chiaro è quale possa essere la ragione per cui ciò sarebbe potuto avvenire, ed è uno dei punti deboli del documento diffuso. Già altre fonti, prima del giornalista Fittipaldi, in occasione del processo denominato “Vatileaks” avevano parlato di un dossier del Vaticano sul caso Emanuela Orlandi, il cui contenuto era ancora sconosciuto. Tra queste, anche la famiglia Orlandi, che a giugno 2017 ha chiesto di riaprire il caso e incontrare il segretario di Stato Parolin per sapere in che modo la Santa Sede aveva seguito la vicenda. Dopo la sua pubblicazione, la Santa Sede ha definito “falso e ridicolo” il documento e l’ex sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato del Vaticano, Giovanni Battista Re, ha negato di aver mai ricevuto una rendicontazione delle spese relativa al caso Emanuela Orlandi. Secondo Fittipaldi, se anche il documento non dovesse essere autentico, testimonierebbe una spaccatura all’interno della Curia. Potrebbe, in particolare, essere stato costruito appositamente dopo il furto di marzo 2014 in un armadio blindato dell’ufficio della Prefettura degli Affari economici del Vaticano, per poi essere consegnato dai ladri insieme ad altri documenti veritieri.

Emanuela Orlandi e il doppio mistero delle ossa. I resti di donna, appena scoperti sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano, ricordano la scomparsa degli scheletri nella cripta di Sant'Apollinare, nel 2012. Quando si scavò e..., scrive Gianluigi Nuzzi il 18 novembre 2018 su "Panorama". Ossa che riaffiorano all’improvviso e ossa che spariscono misteriosamente, forse per sempre. L’incredibile vicenda dei resti di donna rivenuti il 30 ottobre sotto i pavimenti della Nunziatura del Vaticano in via Po, a Roma, riapre il caso di Emanuela Orlandi, la figlia di un messo pontificio e residente in Vaticano che sparì il 22 giugno 1983 dopo una lezione di flauto traverso all’istituto Ludovico da Victoria, nel complesso immobiliare della basilica di Sant’Apollinare. Con tre domande rimaste per 35 anni senza risposta: chi ha sequestrato Emanuela? Chi e perché l’ha uccisa? E chi ha manomesso ogni indagine aperta in tutti questi anni? L’inchiesta è sempre stata soffocata non solo da silenzi omertosi, ma anche da autentici depistaggi, portati avanti da una variegata compagnia di giro tra mitomani, vecchi arnesi dei servizi segreti, calunniatori, depistatori professionisti. E proprio sulle ossa pende ancora uno degli interrogativi più emblematici di tutta la vicenda: dove sono finiti i 100-110 scheletri che si dovevano trovare proprio in quei sotterranei, ma che sono misteriosamente spariti? Per capirne qualcosa di più, e per scoprirlo, bisogna tornare al 2012: quando si decise di cercare i resti di Emanuela sotto la basilica di Sant’Apollinare, ritenendo che Enrico De Pedis, detto «Renatino», cioè il presunto cassiere della banda della Magliana ucciso da incensurato e amico di ferro del rettore di Sant’Apollinare, fosse non solo sepolto proprio lì sotto, ma anche tra i sequestratori della ragazza che frequentava la stessa chiesa. Siamo così nel maggio del 2012, quando gli agenti della polizia scientifica, armati di torce e guanti, scendono nei sotterranei di Sant’Apollinare. L’eco dei canti delle celebrazioni dalle navate in basilica dei numerari dell’Opus Dei, si fa via via più lontano: è appena percettibile quando i poliziotti scendono gli scalini che portano agli sterminati sotterranei. Gli inquirenti devono individuare rapidamente l’ossario segreto, per cercare il classico ago nel pagliaio: le ossa della povera Emanuela tra cunicoli, stanze murate e pozzi senza fondo. Insomma, un lavoro certosino. Si scopre che ossa e frammenti sono raccolti in casse di zinco accatastate lontano da occhi indiscreti: dietro pareti murate, in fondo a cunicoli e persino calate in pozzi neri. L’attività degli agenti dura settimane ma si rivela, almeno apparentemente, proficua: nel corridoio che porta alla stanza con la tomba mausoleo di De Pedis, e sotto la cripta, denominata «Grotta dei Martiri», spuntano decine di ossa. In particolare, vengono ritrovate 89 cassette e un sacco nero con resti umani murati nel locale di fronte alla tomba di De Pedis, altre 240 nel pozzo sotto la pavimentazione della cripta. In tutto, sono 409 le cassette che finiscono sui tavoli del laboratorio improvvisato sotto la basilica, dove gli agenti in tuta bianca lavorano fianco a fianco con la squadra della dottoressa Cristina Cattaneo, forse l’esperta più accreditata per datare corpi, ossa, estrarre Dna, e che ha seguito importanti storie di cronaca, come l’omicidio di Yara Gambirasio. Ma forse mai un caso così complicato. Per individuare le casse di zinco, la polizia batte palmo a palmo tutta la basilica, partendo dai sottotetti, scoprendo locali nemmeno mappati nelle cartine catastali, per passare alle stanze che ospitano gli organi, sino a sgabuzzini ricavati vicino alle aule, come quello ispezionato vicino all’attuale aula 201: la coincidenza è interessante, perché la stanza si trova a pochi metri dal quarto piano del palazzo adiacente: proprio la vecchia sede dell’istituto Ludovico da Victoria, la scuola di musica dove Emanuela nel 1983 andava a lezione. Per farsi aiutare in questo labirinto, la polizia interroga alcuni dipendenti e gli architetti che avevano seguito i lavori di ristrutturazione, dopo che nel 2002 erano stati progettate opere di risanamento dei sotterranei di Sant’Apollinare. Gli scavi, affidati con gara d’appalto alla ditta Castelli Re, erano partiti nel 2003. Tra i testimoni viene sentito Mario Pontesilli, dipendente della società Icar 99, la ditta incaricata inizialmente di recuperare le casse di zinco, e di raccogliere le ossa e i frammenti.  In tutto, vengono così recuperate 52.188 ossa, da passare al vaglio del Dna per verificare se ci siano anche quelle di Emanuela Orlandi. Una gran parte sono ossa frammentate, imbrattate di terriccio e riposte in 349 casse di zinco, altre invece si presentano pulite e con residui molli, ritrovate in altre 44 casse e corrispondenti agli scheletri di 35 individui, mentre in 16 altre casse ancora si trovano ossa fratturate e inglobate in concrezioni biancastre. Eppure è un lavoro incompleto, tale da determinare le «profonde riserve» della dottoressa Cattaneo, ben evidenziate nella sua consulenza consegnata agli inquirenti. Nella richiesta di archiviazione della Procura di Roma per l’indagine sull’omicidio di Emanuela, si legge che quelle riserve sono dovute «alla mancanza, stando alle testimonianze raccolte e in particolare quella di Matias T., di 100-110 scheletri appartenenti al gruppo ossa pulite».  In pratica, c’è il sospetto se non la certezza che «un cospicuo numero di scheletri» così prosegue il documento «sia stato rimosso in tempi diversi e comunque collocato in cassette poi non riposte in Sant’Apollinare».  Di fronte a questa situazione, però, la Procura decide di non approfondire. Perché? «Occorre evidenziare come proprio la descrizione fatta nella consulenza della tipologia di ossa e di conservazione degli scheletri appartenenti a questo gruppo, rinvenuti in cassette che contenevano anche parti di vestiti e targhette, lascia ipotizzare che anche quelli eventualmente mancanti appartengano a tale tipologia e che siano pertanto datate». La Procura però non è poi davvero così convinta che quei resti non vadano analizzati. Tanto che, almeno in una prima fase, cerca di informarsi se «nel corso dei lavori di risanamento vi fosse stato l’invio di cassette di zinco presso qualche altra struttura ma tale circostanza è stata esclusa». A questo punto, ci si trova in un vicolo cieco. E l’amara conclusione del documento firmato dal procuratore Giuseppe Pignatone è questa: «Non si è potuto ulteriormente approfondire tale eventualità, stanti anche obiettive difficoltà legate a una eventuale ricerca in altri ambienti ecclesiastici, con la quasi certezza di un esito negativo». Insomma, di quegli scheletri non sappiamo niente di più, e mai sapremo la verità. Alcuni operai giurano che c’erano, che li avevano visti; nessuno però si espone, nessuno sa dove siano finiti. Senza alcuna indicazione, provare a cercarli ora sarebbe un’attività dall’esito certamente negativo. Eppure 110 scheletri non sono pochi e l’amarezza nel team che andò a ispezionare la basilica ancora oggi è presente: «Fu un lavoro svolto con grande attenzione» afferma una nostra fonte, che partecipò all’attività «ma rimasto incompleto. Del resto, queste ossa non si possono cercare senza saper dove e a chi bussare». A meno che non saltino fuori un giorno, come è accaduto proprio in via Po, dove gli operai che stavano sistemando la cantina del custode della Nunziatura, sollevando le mattonelle e scavando per poche decine di centimetri hanno ritrovato quella tomba clandestina, conosciuta ora in tutto il mondo.  (Articolo pubblicato nel n° 47 di Panorama in edicola dall'8 novembre 2018)

Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste seguite che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su "Panorama". Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi e le teorie più o meno fantasiose che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti (di cui deve essere ancora provata l'attendibilità) alla base di un libro del giornalista dell'Espresso Emiliano Fittipaldi che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.

22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.

23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.

25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.

5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L'Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.

1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura di Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.

2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.

2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apoliinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.

2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato. 

2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.

Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".

Pino Nicotri, "Emanuela Orlandi. La verità". Una messinscena durata venticinque anni, scrive Valeria Merlini il 5 giugno 2012 su "Panorama". La riapertura del caso di Emanuela Orlandi, con l’indagine a carico di Don Piero Vergari, sembra gettare nuove ombre su un’inchiesta tutt’altro che chiusa. Pino Nicotri fa il punto della situazione dopo le scottanti notizie di questi ultimi giorni e si riaprono le pagine del suo libro "Emanuela Orlandi. La verità " (Dalai editore). Nel caso di Emanuela Orlandi ci sono stati vari elementi che fanno capire che si tratta di una brutta storia, come tutti la conosciamo. Anche in questo caso, come spesso emerge dalle cronache, lo zio materno Mario Meneguzzi è stato sospettato dai magistrati. Mentre un giorno si trovava con l’agente del Sisde Giulio Gange, amico di famiglia al quale era stato chiesto aiuto per capire cosa fosse successo, l’agente da bravo poliziotto si accorge che lo zio è seguito da una macchina, quindi lo avverte salvo poi scoprire che si trattava di un’auto della polizia. Per quale motivo lo zio era pedinato? Anche se i sospetti si sono poi rivelati infondati, senza conseguenze a suo carico, non sarebbe stato male proseguire le indagini che erano iniziate a carico del Meneguzzi. In particolare, l’avvio delle indagini pare fosse partito in seguito all’ascolto di una registrazione di una conversazione telefonica tra lo zio e quelli che si spacciavano per i rapitori della nipote, in cui il Meneguzzi parla quasi senza coinvolgimento o pathos, cosa che aveva colpito molto i magistrati. Ma il dato curioso e molto indicativo per Nicotri è che a lanciare il primo allarme per la scomparsa di Emanuela sia stato Papa Wojtylain persona. Emanuela scompare il 22 giugno 1983 di sera, e i magistrati e gli inquirenti sono inizialmente convinti che si tratti di una scappatella amorosa o dettata dalla noia (in Italia ogni anno migliaia di minorenni scappano da casa, salvo poi per fortuna ritornano quasi tutti; quell’anno nel Lazio c’erano stati una settantina di casi simili). Improvvisamente il Papa la domenica del 3 luglio durante la preghiera dell’Angelus lancia un appello a coloro i quali abbiano una qualche responsabilità nel mancato rientro a casa della giovane Emanuela Orlandi. La cosa straordinaria è che il Papa è il primo che adombra un sequestro. Il Papa lo fa senza motivo, non c’era nulla che facesse sospettare, i genitori stessi sono stati presi alla sprovvista da quell’appello, racconta il papà di Emanuela, Ercole Orlandi. Ancor più alla sprovvista sono stati presi gli inquirenti e i magistrati. A questo punto l’autore chiede una riflessione: se Emanuela fosse stata davvero rapita, come il Papa ha dato ad intendere, cosa avrebbero fatto i rapitori una volta che il Papa lancia questa notizia terribile che ovviamente avrebbe scatenato polizia, carabinieri e servizi segreti non solo italiani, come in effetti è successo? Cosa avrebbero fatto i rapitori in questo caso, sapendo di non avere più scampo? O si sarebbero liberati dell’ostaggio lasciandolo andare o eliminandolo. Come è noto Emanuela Orlandi non è mai tornata a casa. Possiamo allora pensare che il Papa abbia scientemente fatto un atto che la condannava a morte? Non possiamo spingerci a tanto. Tanto più che il Papa ha fatto poi altri sette appelli e Pino Nicotri non vuole pensare che per un atto di buonismo il Papa abbia messo a repentaglio la giovane vita della ragazza. Quindi l’unica cosa dignitosa e rispettosa verso la figura del Papa è che già sapesse che Emanuela Orlandi non poteva avere più alcun danno da questi appelli perché ormai era morta. Ci sono poi una serie di casi aggiuntivi sbalorditivi. Che il Vaticano sapesse lo ha dimostrato Monsignor Francesco Salerno, che a quell’epoca si occupava del denaro del Vaticano. Monsignor Salerno interrogato dai magistrati italiani testimonia per iscritto che gli risultava che la segreteria di stato del Vaticano avesse un dossier probabilmente risolutivo sul caso Orlandi. Esiste anche un’intercettazione telefonica dell’autotelefono che possedeva l’ingegnere Raul Bonarelli, vice capo della vigilanza del Vaticano (quindi non terrorista turco, lupo grigio o banda della Magliana), in cui il giorno prima di essere interrogato come testimone dai magistrati riceve una telefonata dal Vaticano da parte di Monsignor Bertani, Cappellano di Sua Santità. Monsignor Bertani "consiglia" all’ingegnere di mentire alla deposizione che dovrà sostenere. Cosa che segnala che qualcosa da nascondere c’era… Oltre a Monsignor Bertani, attorno al Papa circolavano strani personaggi, tra cui il suo segretario, il Vescovo irlandese Magee (spedito poi a fare il Primate d’Irlanda ha dovuto dimettersi perché per anni aveva coperto i preti pedofili nella Chiesa). Altra cosa clamorosa che Nicotri scopre scrivendo il libro è che per chiedere di poter interrogare cittadini di uno Stato estero dal Parlamento italiano partono le cosiddette rogatorie internazionali. Rogatorie che quindi partivano per chiedere al Vaticano di poter interrogare alcuni cardinali sul caso Orlandi. Il responsabile dell’Ufficio legale del parlamento Italiano nella figura di colui che spediva le rogatorie internazionali per gli interrogatori era l’avvocato Gianluigi Marroni. Dal Vaticano qualcuno rispondeva negando il permesso agli interrogatori. Chi era questa figura che rispondeva negativamente? Era lo stesso Gianluigi Marrone che andava in Vaticano, si sedeva sulla poltrona di giudice unico del Vaticano (incarico concessogli allora da Nilde Iotti) e rispondeva alle sue stesse richieste di interrogatorio. Chi era poi nell’Ufficio Legale del Parlamento Italiano una delle segretarie di Gianluigi Marroni? Natalina Orlandi, una sorella di Emanuela Orlandi. La stessa Natalina costretta a tacere, a non reclamare mai pubblicamente perché il suo datore di lavoro si mandava delle richieste di interrogatorio a cui, una volta in Vaticano, negava l’autorizzazione al tentativo dei magistrati italiani di vederci chiaro sulla scomparsa della sorella. Insomma, Nicotri dimostra in diciotto punti la responsabilità del Vaticano non si sa se nella scomparsa di Emanuela Orlandi, ma sicuramente nel non voler far sapere cosa sia accaduto. Non si mente, non si tace per venticinque anni così accanitamente per proteggere una guardia svizzera per esempio, ma qualcosa di ben più grave ad un livello più elevato deve per forza essere successo. 

Il libro. I colpi di scena e le piste si susseguono a ritmo crescente, ma il tentativo di addossare la scomparsa di Emanuela Orlandi alla cosiddetta banda della Magliana, e in particolare al suo asserito capo Enrico De Pedis è ormai crollato. Fragorosamente crollato, ove per fragore si intende non solo quello dei mass media improvvisamente scatenati come una muta di cani da caccia sulla preda, ma anche quello dei martelli pneumatici che hanno praticamente demolito i sotterranei della basilica romana di S. Apollinare alla assurda ricerca dei resti della Orlandi come fossero la famosa “"pietra verde". Martelli pneumatici il cui ossessivo baccano pareva l’esplosione della rabbia non dei magistrati, che sapevano bene non avrebbero trovato nulla, ma dei telespettatori da curva sud che confondono l’uomo De Pedis con la figura del Dandy, il cinico protagonista di Romanzo criminale in versione libro, film e serie televisiva. Il tentativo di cambiare improvvisamente canovaccio e far passare per stupratore e assassino don Piero Vergari, l’ex rettore della basilica di S. Apollinare nei cui sotterranei De Pedis dorme il sonno eterno, è un boccone per palati grossi e amanti del macabro. Ma soprattutto destinato a chi è facilmente infiammabile in un’epoca in cui la Chiesa è sommersa dagli scandali per i troppi pedofili nel suo clero. In nessun Paese civile sarebbe stato permesso che un programma televisivo, in questo caso "Chi l’ha visto? ", potesse montare una campagna scandalistica durata ben sette anni basandosi su una telefonata anonima, del settembre 2005, supportata man mano da “supertestimoni”, prove e ricostruzioni fasulle. E in nessun Paese civile la magistratura si sarebbe arresa a una tale campagna fino a violare un intero cimitero antico posto, come costume non solo a Roma, nei sotterranei di una chiesa. "Riguardo al fatto di Emanuela Orlandi, per trovare la soluzione del caso, andate a vedere chi è sepolto nella cripta della Basilica di Sant’Apollinare", ha detto per telefono nel 2005 l’anonimo di "Chi l’ha visto?". La magistratura è andata "a vedere chi è sepolto nella cripta", De Pedis ovviamente, ma "la soluzione del caso" non c'è. Quella telefonata oltre che anonima era anche bugiarda. Come del resto anche le ultime "clamorose rivelazioni".

Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 "Panorama". La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La proclamata testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.

Emanuela Orlandi: La verità sta in cielo, il film di Roberto Faenza. 5 cose da sapere. Un viaggio tra i torbidi legami tra Vaticano, Stato e criminalità. "Contribuirà ad arrivare a una conclusione": la speranza di Pietro Orlandi, scrive Simona Santoni il 30 settembre 2016 su "Panorama". "La verità è raramente pura e non è mai semplice". Con questa frase di Oscar Wilde si apre La verità sta in cielo, il nuovo lavoro di Roberto Faenza che cerca di districare i sommi intrighi attorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, portando a un passo dalla risposta ultima, senza però toccarla. "Ma questo film darà un contributo per arrivare all'ultimo atto, ne sono convinto", dice il fratello di Emanuela, Pietro Orlandi, che sul grande schermo interpreta brevemente se stesso. "Procura e Vaticano prenderanno in considerazione la scena finale, che è eloquente. Lo Stato è sempre stato succube del Vaticano. Di questo film mi piace che mette in evidenza il legame tra Stato, Chiesa e criminalità, di trent'anni fa e tuttora presente". La Cassazione nel maggio 2016 ha archiviato definitivamente l'inchiesta, ma né Orlandi né Faenza ci stanno. Dal 6 ottobre al cinema in almeno 250 copie con 01 Distribution, ecco 5 cose da sapere su La verità sta in cielo di Roberto Faenza.

1) 33 anni dopo a un metro dalla verità. Il 22 giugno 1983 Emanuela Orlandi, ragazzina di 15 anni, cittadina del Vaticano e figlia di un messo pontificio, sparisce nel centro di Roma. Inizia uno dei misteri più fitti della storia italiana, un caso irrisolto che ha implicazioni altissime, quasi "in cielo". Trentatré anni dopo Faenza decide di raccontarlo al cinema, facendo una ricostruzione di fatti, indagini (soprattutto giornalistiche) e depistamenti. Narrato su due piani temporali, gli anni Ottanta e il 2015, affascina nelle ambientazioni passate mentre è un po' didascalico e legnoso nel presente. Ma al di là del suo pregio artistico, La verità sta in cielo è un film utile, che serve a non dimenticare e a pretendere ancora risposte. "Mi sorprende che questa storia così avvincente non sia stata raccontata prima al cinema. Per me era una necessità farlo", dice Faenza, riunitosi insieme a parte del cast di fronte ai giornalisti milanesi. "Il film porta a un metro dalla verità. Manca un metro per arrivarci. La famiglia di Emanuela, e in particolare Pietro, sono stati fondamentali per me, mi hanno messo sulle tracce giuste". Era da molti anni che il regista di Sostiene Pereira e Prendimi l'anima voleva fare questo film, ma non aveva mai trovato i finanziamenti: "Quando è stato proposto a Rai Cinema sono rimasto sorpreso che abbiano avuto il coraggio di produrlo, dando prova del loro essere servizio pubblico. Non mi hanno mai limitato nella libertà o fatto problemi". 

2) Il coraggio delle donne. La verità sta in cielo si apre su quel maledetto 22 giugno 1983. Cabine telefoniche, jeans a vita alta, le targhe con su scritto "ROMA", papa Wojtyła in forma dopo l'attentato. Poi piombiamo nel 2015, lo scandalo di Mafia Capitale porta il capo di una rete televisiva (Shel Shapiro) a mandare una sua giornalista (Maya Sansa) a Roma a indagare di nuovo sul caso Orlandi. Questi sono gli unici personaggi di finzione del film, creati per poter riprender le fila di questa oscura vicenda. È attraverso le indagini ostinate di una redattrice di Chi l'ha visto?, Raffaella Notariale (interpretata da Valentina Lodovini), che Sabrina Minardi (Greta Scarano), ex moglie del calciatore della Lazio Bruno Giordano ma soprattutto compagna del boss Renatino De Pedis (Riccardo Scamarcio), rivela il diretto coinvolgimento di De Pedis nel rapimento di Sara Orlandi. "Credo che le donne siano più coraggiose", afferma Faenza. "Le ultime cose venute fuori sul caso Orlandi sono state ottenute per merito di donne. Il coraggio delle donne in questo film ha molta rilevanza". "Nel film rappresento quella parte d'Italia che non si arrende, che vorrebbe sapere", racconta Lodovini. "Non interpreto un personaggio di finzione ma una donna che per anni ha fatto una scelta e ricevuto anche minacce. Come cittadina mi sento molto grata a chi fa giornalismo d'indagine". 

3) Il potere della banda dei testaccini. Ne La verità sta in cielo sono soprattutto i testaccini guidati da De Pedis a tirare le trame torbide con i poteri alti. "Il film dice che la banda della Magliana come romanzata in libri e tv in realtà non è mai esistita, non aveva il vero potere", spiega Faenza, che ha scritto anche la sceneggiatura. "La vera banda è quella dei testaccini di De Pedis, di cui si sempre parlato meno perché avevano rapporti con senatori e uomini importanti. Se questo film ha un merito, è quello di aver demistificato la banda della Magliana". De Pedis, amico di prelati, politici, rappresentanti dell'alta società, è stato un latitante all'italiana, reperibile. Nel film, tra i suoi nascondigli, lo vediamo anche in un appartamento dei servizi segreti a Villa Borghese. Il suo corpo è stato sepolto fino al 2012 nella Basilica di Sant'Apollinare, nel cuore di Roma, proprio accanto alla scuola di musica frequentata da Emanuela. "In via del Pellegrino (dove è stato ucciso De Pedis, ndr) non volevano che girassimo perché ancora ci sono tanti amici di De Pedis", ricorda Faenza. "Un uomo ci ha detto: 'Era tanto un bravo ragazzo. Quando mi han rubato il motorino sono andato da lui, non dalla polizia, e me l'ha fatto riavere'". 

4) Rapporto torbido tra Vaticano, Stato, malavita. "C'è un legame tra esponenti della malavita e cardinali, specie monsignor Marcinkus (interpretato da Randall Paul, ndr), che sono legami tremendi, inconfessabili che nel film sollevano verità talmente terribili che sono sicuro scateneranno una infinità di polemiche", sostiene Faenza. "I prelati sono più vicini all'inferno che al paradiso", è una delle frasi del film. La sparizione di Emanuela Orlandi è anticipata da quella di Mirella Gregori e passa tra le macchinazioni dello Ior, la morte di Roberto Calvi (Anthony Souter), la malavita organizzata. 

5) Il finale e le speranza deluse da Papa Francesco. Nella scena finale (arresti qui la lettura chi vuole evitare lo spoiler) assistiamo a un incontro inquietante e a una promessa segreta. Un cardinale chiede a un procuratore che intervenga per spostare il corpo di De Pedis da Sant'Apollinare, macchia che riempie di vergogna la Chiesa. In cambio promette... il fascicolo sul caso Orlandi con le verità a conoscenza del Vaticano. Il corpo di De Pedis è stato trasferito. Il fascicolo è ancora secretato in Vaticano. "La scena finale è reale, non è una supposizione", dice Pietro Orlandi. "Chi finora ha detto di non saper nulla spero che darà risposte". Pietro, le cui figlie proprio in questi giorni hanno fatto parlare di sé partecipando alle audizioni di X-Factor, ha riposto inizialmente speranza in Papa Francesco. Quando l'ha incontrato, all'inizio del suo pontificato, gli ha detto: "Emanuela sta in cielo". "Quella frase mi ha fatto male", racconta Pietro. "Ho però sperato che si arrivasse a una conclusione, ma invece si è alzato un muro. Non ho più avuto alcuna risposta".

Papa Francesco: "C'è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace". E sugli abusi sessuali spiega: "Se non siamo convinti che questa è una malattia, non si potrà risolvere il problema", scrive il 9 febbraio 2017 "Panorama". "C'è corruzione in Vaticano. Ma io sono in pace. Se c'è un problema, io scrivo un biglietto a S.Giuseppe e lo metto sotto una statuetta che ho in camera mia". Lo afferma il Papa in un'intervista alla Civilità cattolica, pubblicata dal Corriere della Sera. Sugli abusi sessuali, spiega: "Se sono coinvolti religiosi, è chiaro che è in azione la presenza del diavolo che rovina l'opera di Gesù, tramite colui che doveva annunciare Gesù. Ma parliamoci chiaro: questa è una malattia. Se non siamo convinti che questa e' una malattia, non si potrà risolvere bene il problema".

Caso Orlandi, perché la "nota spese" della Santa Sede è falsa. Il dossier del giornalista Emiliano Fittipaldi riaccende l'attenzione sulla misteriosa sparizione. Ma il documento è scritto da qualcuno ignaro delle procedure in vigore in Vaticano, scrive Orazio La Rocca il 20 settembre 2017 su "Panorama". Può un documento apparentemente fasullo, più simile a una "patacca" che a uno scritto autentico, contribuire a fare chiarezza su un caso misterioso come la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne cittadina vaticana sparita nel nulla il 22 giugno 1983? Anche se sembra un paradosso, la risposta forse potrebbe essere affermativa. Per il semplice fatto che è comunque buona cosa accendere i fari (e l'attenzione della stampa di tutto il mondo) su un testo che, pur facendo acqua da tutte le parti, ha ridestato l'interesse su una vicenda che, a 34 anni di distanza, è ancora avvolta nel mistero e corre seri rischi di essere gettata nel dimenticatoio.

La "nota spese" della Santa Sede per Emanuela Orlandi. Il documento in questione fa parte di un fantomatico dossier pubblicato nel libro Gli impostori - Inchiesta sul potere (edito da Feltrinelli) in uscita il 22 settembre, scritto da Emiliano Fittipaldi, giornalista del settimanale L'Espresso. Qui si fa riferimento a una presunta lettera datata 28 marzo 1998, recante il nome dattiloscritto del cardinale Lorenzo Antonetti, che in qualità di presidente dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica) presenta una sorta di nota spese sostenute dalla Santa Sede per il "mantenimento" all'estero di Emanuela Orlandi dal giorno del rapimento fino al 1997; una  considerevole somma di circa 500 milioni di lire per il sostentamento della ragazza, comprensivo persino di visite mediche e di un ricovero in una clinica inglese. Destinatari, la Segreteria di Stato nella persona dell'allora Sostituto (sorta di "ministro" degli Interni), il vescovo Giovanni Battista Re, e, per conoscenza, il ministro degli Esteri del Vaticano, il vescovo francese Jean-Louis Tauran. Entrambi futuri cardinali che, però, hanno immediatamente smentito di aver "mai letto e ricevuto una lettera simile". Smentite rilanciate anche dal portavoce papale Greg Burke - che parla di documentazione "falsa e ridicola" -, dalla stessa Segreteria di Stato e dall'arcivescovo Angelo Becciu, attuale "ministro" degli Interni del Vaticano, che avverte: "C'è poco da dire, è falso e basta. Un falso strano, tra l'altro basta vedere lo stile".

Ecco perché la "nota spese" è falsa e sa di fantapolitica. Basta infatti gettare un rapido sguardo al documento pubblicato ne Gli impostori per vedere che è stato scritto da qualcuno non certamente a conoscenza delle procedure e dello stile in vigore Oltretevere. Immaginare, ad esempio, che l'Apsa, che tra l'altro è la banca centrale della Santa Sede (mentre lo Ior, l'Istituto per le Opere di Religione, è lo “sportello” operativo solo Oltretevere), possa battere cassa alla Segreteria di Stato sa di fantapolitica. Come è impossibile che un cardinale (il defunto Lorenzo Antonetti) abbia commesso grossolani errori rivolgendosi all'allora arcivescovo Re chiamandolo “Sua Riverita Eccellenza”, mentre è prassi consolidata che la formula esatta è invece “Eccellenza reverendissima”. Oppure che abbia chiamato il vescovo francese Jean-Louis Tauran col nome spagnolo Luis. Errori certamente non ascrivibili al cardinale Antonetti (che per altro nel documento, privo di numero di protocollo, timbri, sigla della Santa Sede, non appare con la firma ma solo con nome e cognome dattiloscritti).

Nuovi "corvi" all'opera ai danni del papa? Il primo ad avanzare dubbi sul documento è lo stesso Fittipaldi, che prudentemente dice che "se non fosse vero" dimostrerebbe che in Vaticano starebbero ancora tramando bande di "corvi" ai danni del papa come già avvenuto con Benedetto XVI e Giovanni Paolo II. A detta del giornalista, il dossier proverrebbe dall'archivio di Lucio Vallejo Balda, il monsignore spagnolo segretario dell'ex Cosea (la commissione sulle riforme economiche vaticane istituita da papa Francesco) condannato insieme a Francesca Chaoqui, esponente della stessa Cosea, con l'accusa di aver trafugato i documenti che hanno dato vita nel 2015 alla cosiddetta Vatealiks 2. Dopo che monsignor Balda è stato trasferito in Spagna con quattro anni di condanna sulle spalle, ci sono ancora altri "corvi" in Vaticano pronti a tradire la Santa Sede, papa in testa? Può darsi, anche perché in tutti gli archivi dei dicasteri pontifici quasi ogni giorno vengono ammucchiati documenti falsi, lettere minatorie, testi apocrifi, anche presunte lettere encicliche (ai tempi di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI ce ne furono diverse, ma quasi sempre smascherate in tempo). E i quattro anni e mezzo di pontificato bergogliano non rappresentano certamente un'eccezione.

Non dimentichiamo Emanuela Orlandi. Peccato che i documenti falsi non aiutino ad arrivare alla verità su Emanuela Orlandi. Ma è sempre bene che, pur a 34 anni di distanza, non ci si dimentichi mai che una ragazzina di 15 anni la sera del 22 giugno 1983 non tornò a casa e che i suoi cari finora non hanno mai perso la speranza di rivederla. Anche solo per parlare di presunte false lettere.

35 anni di depistaggi: è la fine del mistero Orlandi? Intorno alla sparizione di Emanuela, il 22 giugno 1983, di confusione ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni, scrive Paolo Delgado l'1 Novembre 2018 su "Il Dubbio". A Roma si dice “caciara”. Vuol dire confusione, trambusto, chiasso assordante. Intorno alla sparizione di Emanuela Orlandi, il 22 giugno 1983, di caciara ce n’è stata tantissima, sin dai primi giorni. Un polverone fittissimo, una sagra dei depistaggi, delle rivelazioni clamorose ma traballanti e sempre prive di conferme, delle ricostruzioni ardite basate però su sabbie mobili. Nel corso dei decenni nel “caso Orlandi” c’è passato di tutto: l’attentato al papa Giovanni Paolo del 1981 e l’attentatore Ali Agca, i Lupi grigi turchi e i servizi segreti dell’est, la banda della Magliana e il Banco ambrosiano di Roberto Calvi l’appeso, fior di cardinali tra cui l’allora assessore agli Affari generali della segreteria di Stato vaticana Re e l’immancabile Paul Marcinkus, presidente dello Ior, la banca vaticana. Dire pezzi da 90 è ancora poco. Anche se la sparizione di quella ragazzina quindicenne ha tenuto banco per decenni sulle prime pagine dei giornali e in decine di programmi tv la realtà è che se ne sa pochissimo e quel poco che si dà spesso per acquisito è invece incerto. C’è stato davvero un sequestro, un rapimento finalizzato a chissà quale scopo? Nulla lo prova. Esiste davvero una connessione tra la scomparsa della cittadina vaticana, figlia di un funzionario della Santa Sede, che quella sera stava tornando a casa dalla lezione di musica a un passo dal Senato col suo flauto in borsa e quella di Mirella Gregori, figlia di un barista, scesa in strada per parlare con un mai individuato “amico” meno di due mesi prima e mai più ricomparsa? Impossibile dirlo. E’ un’ipotesi ma frutto forse solo della suggestione. Le due ragazze avevano la stessa età, sono svanite misteriosamente nell’arco di poche settimane, alcune telefonate dei presunti rapitori avevano collegato i due casi, ma erano impostori. Troppo poco per dirsi sicuri del nesso. La sera di quel 22 giugno Emanuela aspettava l’autobus con due amiche in Corso Rinascimento, di fronte palazzo Madama. Però all’ultimo momento scelse di non salire: «Troppo affollato, aspetto il prossimo». Con la testa la ragazza quella sera stava altrove. Uno sconosciuto la aveva abbordata, le aveva proposto un lavoretto ben remunerato, pubblicizzare cosmetici durante una sfilata delle Sorelle Fontana. Era tentata, ne aveva già parlato al telefono con la sorella che l’aveva però sconsigliata, poi con le amiche, altrettanto contrarie e sospettose. Avevano ragione loro. La ditta di cosmetici in questione di quell’offerta non sapeva niente. In compenso da quelle parti girava da un pezzo un tipo furbo che rimorchiava ragazze e ragazzine con quella promessa a fare da esca. Nei giorni successivi, quando la notizia corredata da foto era già sui principali quotidiani della capitale arrivano due telefonate, un ragazzo, “Pierluigi” e un uomo, “Mario”: il primo fornisce elementi credibili. Raccontano in telefonate distinte di aver visto la ragazza insieme a un’amica. “Mario” assicura che Emanuela se n’è andata volontariamente ma col progetto di tornare per il matrimonio della sorella. Nessuno li individua. Nessuno li trova. Il caso esplode il 3 luglio, quando è il papa in persona a parlarne rivolgendosi ai rapitori, durante l’Angelus. La giostra inizia a girare vorticosamente solo in quel momento. Arrivano a raffica telefonate con richieste di scambio tra la ragazza e Alì Agca, il ‘ lupo grigio’ che aveva sparato al papa. A chiamare è per 16 volte un uomo con marcato accento anglosassone, ma si fa sentire, meno spesso, anche un mediorientale. Fanno ritrovare nastri con una voce disperata che chiede aiuto. Ma non è Emanuela: è la registrazione di un film. Ancora nel novembre 1984 i Lupi grigi insistono e assicurano di avere nelle loro mani entrambe le ragazze. L’affare monta, inevitabilmente si intreccia con le ombre addensate su Marcinkus, rinvia allo scandalo del banco Ambrosiano e all’uccisione di Roberto Calvi. Ma sono fantasie. Le telefonate dei Lupi grigi sono in realtà orchestrate dalla Stasi tedesca e servono a confondere le acque per stornare dai servizi segreti i sospetti di aver organizzato l’attentato al papa. Di elementi che autorizzino a ipotizzare qualche collegamento tra la bambina romana e il banchiere impiccato sotto il ponte dei Frati neri a Londra non ce ne sono. Nel XXI secolo Emanuela Orlandi torna al centro delle cronache grazie a una telefonata, anche questa anonima, che arriva al programma di Raitre Chi l’ha visto?. Suggerisce di «andare a vedere chi è sepolto nella basicilica di sant’Apollinare a Roma e allude a un “favore” fatto da Enrico De Pedis, “Renatino” uno dei capi della Banda della Magliana ucciso nel 1990, al cardinal Poletti. Che a Sant’Apollinare sia sepolto tra santi e papi proprio lui, il temuto Renatino, lo sanno tutti e quando, sette anni dopo, la tomba verrà aperta saranno ritrovati solo i resti del bandito. Nel frattempo però si è scatena- ta una corsa in massa alla rivelazione. Antonio Mancini, “Accattone”, altro bandito della Magliana, ricorda di aver riconosciuto nel “Mario” che aveva telefonato subito dopo la scomparsa un bandito detto “Rufetto”, sodale appunto di Renatino. Ancora qualche anno e “Accattone” precisa: a rapire la ragazza era stata la banda, per farsi restituire dallo Ior i soldi investiti dai criminaloni attraverso l’Ambrosiano. A chiamare in causa Renatino era stata anche una sua ex amante, Sabrina Minardi, ex moglie di un calciatore della Lazio, Bruno Giordano. La donna è palesemente un po’ sbroccata. Confonde le date e squaderna ricostruzioni inverosimili ma dà anche indicazioni reali. E’ lei a far scoprire l’immensa grotta sotterranea a cui si accede dall’appartamento di una sua amica, Daniela Mobili, nella quale sarebbe stata tenuta segregata Emanuela prima di essere uccisa dallo stesso Renatino. E la Bmw sulla quale, secondo l’improbabile teste, l’autista di Renatino, “Sergio”, avrebbe caricato la ragazza, portata al Gianicolo già drogata dalla governante della Mobili. Ma non parla solo la Magliana. Si affaccia il lupo grigio in persona, Alì Agca: rapimento per conto del vaticano, anzi no corregge cinque anni dopo, a opera della Cia. Comunque «è viva e tornerà». Si affaccia padre Anorth, esorcista principe del Vaticano: Emanuela è morta nel corso di un festino a base di droga e sesso. Conferma due anni dopo il pentito di mafia Calcara, a cui un non meglio precisato boss avrebbe rivelato che la ragazza era finita male nel corso di un festino e le spoglie erano state occultate in Vaticano. Di sfuggita spunta un agente del Sismi: «È viva, sedata in un manicomio in Inghilterra». Impossibile dire quante di queste rivelazioni, mai supportate da elementi concreti, arrivino da mitomani, quante rispondano a logiche che con il caso Orlandi in sé non hanno nulla a che vedere, come il depistaggio organizzato negli anni ‘ 80 dalla Ddr, e quanto invece la confusione avesse il preciso obiettivo di rendere impossibile orizzontarsi, coprendo così i veri responsabili del fattaccio. Forse l’elemento più inquietante, proprio per la sua distanza dall’affaire internazionale che è stato ipotizzato e raccontato per decenni, arrivò dall’avvocato della famiglia Orlandi Gennaro Egidio che raccontò a Pino Nicotri, il giornalista che più e meglio di tutti si è occupato del caso: «I motivi della scomparsa ella ragazza sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Il rapimento, il sequestro per essere scambiata con Agca? Ma no. La verità è molto più semplice, anzi, ripeto, è banale. Ma non per questo meno amara». Peccato che l’avvocato sia morto prima di poter spiegare le sue sibilline parole, anche se l’avvocato sospettava il coinvolgimento di una parente di Emanuela. Ma se tra una settimana l’esame del dna dovesse dire che le ossa ritrovate nella Nunziatura di via Po sono quelle della quindicenne scomparsa 35 anni fa il coinvolgimento di qualche pezzo grosso del Vaticano diventerebbe di fatto certo, e la “caciara” di questi decenni si rivelerebbe tutt’altro che casuale.

Servizi, Ior e Mafia: il caso Orlandi è il “complotto perfetto”. Il mistero della ragazza scomparsa nel 1983 forse vicino alla soluzione. Lunedì i risultati del dna sulle ossa trovate in Nunziatura, scrive il 3 Novembre 2018 "Il Dubbio". Per capire se quelle ossa sono davvero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, bisognerà ancora attendere i tempi tecnici necessari alle perizie. Dicono dai sette ai dieci giorni. Ma qualcuno sostiene che dieci giorni siano un tempo abbastanza inspiegabile, per avere degli esiti che normalmente si hanno nella metà del tempo. Ma di “congetture”, in questo pezzo, ne metteremo già tante, quindi questa ce la risparmiamo. Una cosa però già si sa. Anzi, due. Le ossa, che sarebbero state trovate in due punti diversi dello stesso ambiente, un appartamento in ristrutturazione all’interno di Villa Giorgina, sede della Nunziatura Apostolica a Roma, appartengono a due corpi. Almeno uno di questi è una donna, conclusione a cui si può arrivare grazie ad una prima, sommaria, analisi del bacino. E secondo indiscrezioni, sarebbero ossa di corpi non ancora adulti. Non ci sarà ancora la conferma definitiva, quindi, ma ce n’è abbastanza per lasciarsi suggestionare dall’ipotesi che sì, quelle ossa potrebbero essere di Emanuela e Mirella. O di una delle due. E questo anche escludendo quello che sembra sia un equivoco delle ultime ore, riguardante Don Pietro Vergari, il sacerdote indagato in passato per la vicenda Orlandi, per essere stato colui che si fece promotore della sepoltura in Sant’Apollinare di Renatino De Pedis, uno dei capi della banda della Magliana. Ai tempi, indagando sul legame fra la criminalità romana e la scomparsa di Emanuela, saltò fuori il suo nome, ma la posizione del sacerdote venne poi archiviata. La figura di Don Vergari, nelle ore immediatamente successive al ritrovamento delle ossa a Villa Giorgina è stata nuovamente rievocata, perché si diceva avesse lavorato proprio alla Nunziatura Apostolica, anche se in un periodo successivo alla scomparsa di Emanuela. Tuttavia, dopo alcune ricerche, sembrerebbe che in realtà il sacerdote abbia prestato la sua opera pastorale presso la Penitenzeria Apostolica, allora guidata dall’arcivescovo francescano Gianfranco Girotti, e non alla Nunziatura. E sarebbe stato proprio lavorando a Regina Coeli che Don Vergari avrebbe conosciuto De Pedis. Chiarito questo aspetto, rimane la domanda iniziale: se fossero di Emanuela Orlandi e Mirella Gregori, quelle ossa? Intanto sarebbe interessante capire da quanto tempo si trovavano a Villa Giorgina. Da sempre? Oppure solo da poco? Sono state ritrovate casualmente oppure qualcuno ha voluto che fossero trovate? E nel caso della seconda ipotesi, chi e perché ha voluto farle trovare, proprio ora e proprio in un immobile di proprietà del Vaticano? Prima di tutto va fatta una considerazione: tutti i personaggi di grosso calibro, coinvolti da inchieste e indagini, nella scomparsa di Emanuela Orlandi, sono morti. E’ morto il cardinale Marcinkus, deus ex machina dello Ior. E’ morto, e sappiamo come, anche Roberto Calvi. E’ morto e sepolto, come già detto, anche Renatino De Pedis. E visto che nello storytelling di questa vicenda non ci siamo fatti mancare neppure la mafia, sono morti anche entrambi i dominus mafiosi del tempo, cioè Riina e Provenzano. Chiunque potesse sapere qualcosa, sulla scorta di ciò su cui si è indagato, è già passato a miglior vita. A parte Pippo Calò, il cassiere della mafia, che sta al 41 bis e che vorrebbe incontrare la famiglia Orlandi. Una richiesta fin qui negata dalle Istituzioni. Insomma, chiunque potesse sapere qualcosa o è morto o non è a piede libero. Ma ne siamo certi? Se invece qualcuno che sa e può dimostrare di sapere, calcasse ancora liberamente questa terra? E se magari, questo qualcuno, per motivi da scoprire, avesse fatto sapere a qualcun altro in Vaticano della sua esistenza, chiedendo qualcosa? Visto che abbiamo tirato in ballo la mafia, facciamo un esempio mafioso: quando si chiede il pizzo ad un negoziante, lo si fa all’inizio con le buone, in maniera anche conciliante. Poi, se il commerciante non si piega al racket, si passa alle minacce. E prima di mettere bombe al negozio, si lascia davanti alla saracinesca una bottiglia con dentro della benzina. Intimidazione. E se queste ossa fossero una bottiglia piena di benzina, lasciate su una delle tante porte del Vaticano? Se fossero un’intimidazione? Congetture e suggestioni, che oggi lasciano il tempo che trovano. Ma che magari, fra dieci giorni, avranno una sostanza e soprattutto una prospettiva diversa.

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano). La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso, scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio".

C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero ( e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati.

E c’è la "bandaccia" naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio "l’Accattone" Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di ‘ Renatino’ De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente.

C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande.

Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente.

Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte.

A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’’ Americano’ che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca, scrive Pino Nicotri il 29 giugno 2018 su "Blitz Quotidiano”. Emanuela Orlandi, 35 anni di piste fasulle, ora anche Micromega abbocca alla sirena Pietro. Ammettiamo per un attimo che l’ennesimo asserito colpo di scena del mistero sulla scomparsa di Emanuela Orlandi non sia la solita panna montata con clamore, ma inesorabilmente sempre destinata a sgonfiarsi. Ammettiamo cioè che davvero, come “rivela” Pietro Orlandi con soli 35 anni di ritardo, ma tacendo anche questa volta la fonte della nuova “notizia”, il Vaticano abbia nascosto la telefonata che ne annunciava l’avvenuto rapimento la sera stessa della scomparsa di Emanuela, cioè del 22 giugno 1983. Vedremo che l’eventuale averla nascosta è stato del tutto ininfluente, ma intanto ci sono comunque da fare varie considerazioni:

 1) – la telefonata in questione, se davvero è stata fatta, è più facile che sia opera depistatrice di chi ha sequestrato ed eliminato Emanuela per i purtroppo usuali motivi da cronaca nera anziché opera dei fantomatici rapitori intenzionati a ricattare papa Wojtyla per motivi politici o malavitosi. I motivi politici si voleva fossero la volontà di ottenere la liberazione del terrorista turco Alì Mehmet Agca, condannato all’ergastolo per avere sparato a Wojtyla nell’81 oppure la volontà ammorbidire l’impegno anticomunista di quel Papa. I motivi malavitosi si vuole consistessero nella volontà di ottenere la restituzione di soldi a dire di alcuni prestati per le varie attività anticomuniste del pontefice polacco, motivi ipotizzati quando ormai era chiaro che la pista “politica”, quale che essa fosse, era una bufala. Motivi TUTTI che comunque, chiacchiere a parte, non sono mai stati dimostrati. Stando a quanto dice Pietro Orlandi, la persona che avrebbe telefonato la sera del 22 giugno 1983 ha chiesto di parlare col papa. Ma come poteva ignorare che il papa anziché in Vaticano era nella natia Polonia la temibile organizzazione che si vuol fare credere abbia rapito Emanuela?  E’ infatti lo stesso Pietro Orlandi il primo a sostenere che, politica o malavitosa, si tratta di comunque un'organizzazione composta da spezzoni di servizi segreti vari, banca vaticana IOR, mafia, malavita romana, ecc.  La ha scritto in un suo libro e lo ha detto a Vanity Fair nel maggio 2011, lo ha infine ripetuto di recente a Micromega.  Un’organizzazione dunque che sicuramente, specie la banca IOR che è del Vaticano e ha la sede DENTRO il Vaticano, sapeva che Wojtyla NON era “in casa” bensì ancora in Polonia, dove si era recato soprattutto per sostenere la lotta anticomunista e antisovietica del sindacato Solidarnosc. Una motivazione, quella del viaggio, talmente politica ed eversiva per il regime comunista polacco, e per l’Unione Sovietica dalla quale la Polonia dipendeva mani e piedi, più che sufficiente per mettere Wojtyla sotto la lente di ingrandimento di vari servizi segreti, non solo italiani, e sapere passo passo dove fosse e cosa stesse facendo. E’ quindi assolutamente impossibile che i “rapitori” e il loro telefonista di questa ennesima “rivelazione” appartenessero alla fantomatica “organizzazione” temibile e tentacolare di cui parla con insistenza l’Orlandi.

 2) – Guarda caso, si tratta di un copione identico a quello messo in piedi l’anno successivo, 1984, da Mario Squillaro, lo zio di Stefania Bini, che dopo avere sequestrato e ucciso la giovane nipote ha sostenuto coi genitori che gli aveva telefonato qualcuno per dire che la ragazza era stata rapita. Anche lei da un gruppo di turchi che volevano una bella cifra per il riscatto.

3) – E sempre guarda caso, si tratta dello stesso depistaggio tentato da Sabrina Misseri, cugina di Sarah Scazzi, che dopo averla uccisa accecata dalla gelosia si è inventata che era stata rapita.

4) – Ad accompagnare Wojtyla nel viaggio in Polonia, compresa l’andata e il ritorno in aereo, c’era il suo amico polacco Jacek Palkiewicz, che il caso vuole fosse anche mio amico perché viveva in Veneto e lo avevo conosciuto per motivi di lavoro. Come ho scritto anche in libri, Jacek mi ha sempre ESCLUSO che nel viaggio di ritorno Wojtyla avesse avuto motivi di preoccupazione diversi dal temere eventuali complicazioni con le autorità polacche riguardo il decollo per il rientro a Roma: nessuna telefonata clamorosa dal Vaticano o da altrove riguardo “rapimenti” e affini, ma solo gioia per la riuscita del viaggio e la mancanza di pretesti di qualunque tipo da parte dei polacchi.

5) – E’ incredibile che qualunque affermazione snocciolata da Pietro Orlandi venga sempre immediatamente accolta come oro colato. E sì che di bidoni e di “verità” fasulle ne ha avvalorate ormai troppe. Vediamone in dettaglio alcune:

a – le rivelazioni e le promesse di Agca.

b – La pista di Luigi Gastrini alias il falso “007 Lupo Solitario”.

c – La pista del pentito della mafia Vincenzo Calcara.

d – La pista del fotografo romano Marco Fassoni Accetti, diventato famoso per avere “confessato” ai magistrati di avere organizzato lui il rapimento di Emanuela, della quale ha esibito agli Orlandi, che gli hanno creduto, un flauto che sosteneva essere quello della ragazza.

e – Le orge con uccisione finale di Emanuela ipotizzate da don Amorth, il famoso esorcista della Chiesa. Che ha riportato la pista delle orge in un suo libro, pubblicato dopo averne consegnato le bozze a Pietro Orlandi, che non ha avuto nulla di ridire; la stralunata pista delle tomba di Enrico De Pedis con dentro la “soluzione del mistero”, pista della quale era convinta anche la sorella Natalina Orlandi.

f – La pista della “supertestimone” Sabrina Minardi asserita “amante decennale di De Pedis” quando lei stessa ha ammesso che si sono frequentati per appena due anni, per giunta mente lei svolgeva la professione di prostituta d’alto bordo. A definire mitomane Sabrina Minardi, comunque smentita dalle indagini, è stata la sua stessa sorella Cinzia.

g –  Tralasciamo il fatto che De Pedis viene sempre automaticamente definito – a mo’ di riflesso pavloviano – “boss della banda della Magliana” quando invece è stato sempre assolto in tutti i gradi di giudizio perfino dall’accusa di esserne stato un semplice membro o gregario. Tant’è che quando nel febbraio ’90 venne ucciso era in regolare possesso di patente e passaporto. Tralasciamo.

Quello che però colpisce è l’astio verso la sua vedova, Carla di Giovanni, alla quale anche di recente Pietro Orlandi sulla rivista Micromega, ripetendo quando già detto a Vanity Fair 6 anni fa, ha attribuito dichiarazioni gravi per sostenere di fatto una combutta della donna col procuratore della Repubblica di Roma Giuseppe Pignatone. Le parole riportate non con precisione assoluta da Pietro Orlandi sono estrapolate – e tenute fuori contesto – dall’intercettazione di una telefonata della vedova a don Piero Vergari, ex rettore della basilica di S. Apollinare, che all’epoca di quella telefonata aveva ricevuto un avviso di garanzia per poter analizzare l’archivio del suo computer riguardo la faccenda “tomba di De Pedis/scomparsa di Emanuela Orlandi”. Che il telefono di don Vergari fosse sotto controllo era ovvio e ben noto anche ai diretti interessati. Che non per questo hanno rinunciato a sfoghi personali contro l’assurdità dell’inchiesta sulla tomba – inchiesta già condotta e archiviata nel 1997 – e contro il prolungarsi dell’intera inchiesta sul “rapimento” basata sulle farneticazioni autoaccusatorie del fotografo Marco Fassoni Accetti, finite con l’accusa di calunnia e autocalunnia. Da notare che l’infinito tiro a segno su De Pedis e sulla sua tomba ha procurato alla vedova anni certo non di divertimento, ma di dolore intenso.  Un po’ di humana pietas non guasterebbe. Specie da parte di chi si proclama cattolicissimo e nella Santa Sede ci ha lavorato e abitato una vita e tutt’oggi continua ad abitare nelle sue case. La vedova De Pedis in particolare era furiosa, comprensibilmente, perché chiedeva inutilmente ormai da anni al sostituto procuratore Giancarlo Capaldo di controllare il contenuto della bara del marito in modo da porre fine alle chiacchiere e poterne trasferire altrove la salma evitando il sospetto di una traslazione per nascondere chissà quale il contenuto. Ovvio lo sfogo liberatorio quando ha saputo dagli avvocati che Pigantone avrebbe ordinato a breve a Capaldo l’ispezione della bara, come in effetti poi avvenuto.

6) – Strano che Pietro Orlandi prenda per oro colato le “rivelazioni” più strampalate e rifugga invece ostinatamente da altre, per l’esattezza da tutte quelle che possono contraddire la vulgata del “rapimento” e riportare la scomparsa di Emanuela nel purtroppo solito alveo delle scomparse di minorenni. A partire da quanto affermato dallo stesso avvocato degli Orlandi, Gennaro Egidio, compresi i suoi sospetti sull’amico “misterioso” della zia Anna Orlandi;

7) – Anche ammesso che la telefonata “rivelata” da Pietro Orlandi pochi giorni fa sia stata fatta e che il Vaticano l’abbia nascosta, di cosa si lamentano Pietro e gli altri fan del “rapimento”? Forse che la pista fatta imboccare alle indagini non è stata proprio quella del rapimento?  La pista del rapimento è stata fatta imboccare grazie ai vari e imprudenti pubblici appelli di Wojtyla, ben otto a partire da quello del 3 luglio, grazie alle insistenze degli stessi Orlandi e grazie all’informativa alquanto sballata dell’allora Sisde fornita al magistrato Margherita Gerunda, che stava indagando su ipotesi più normali e realistiche e che per questo venne sostituita dopo poche settimane.

POST SCRIPTUM. Non è la prima volta che Pietro Orlandi riporta “rivelazioni” altrui evitando però di fare i nomi delle fonti. E’ già avvenuto almeno due volte ai danni di don Vergari per metterlo in cattiva luce.

– Ecco cosa ha dichiarato nel 2012, evitando come sempre di fare i nomi: “Che a Sant’Apollinare ci fossero giri strani e gravitasse un pezzo di malavita romana, non solo De Pedis con cui don Vergari era in confidenza, è purtroppo qualcosa di risaputo. Le amiche della scuola di musica di Emanuela mi dissero che suor Dolores, la direttrice, non le faceva andare a messa o cantare nel coro a Sant’Apollinare ma preferiva che andassero in altre chiese proprio perché diffidava, aveva una brutta opinione di monsignor Vergari”. Peccato però che i verbali delle deposizioni testimoniali di suor Dolores, il suo permettere che gli alunni del Da Victoria cantassero nel coro di S. Apollinare e gli atti giudiziari tutti smentiscano in blocco le affermazioni di Orlandi compresa la possibilità che le “rivelazioni” in questione, anche a volere ammettere che siano state davvero fatte, possano essere vere.

– A “Chi l’ha visto?” sempre Pietro Orlandi ha sostenuto che in Vaticano gli avevano detto che nelle stanze sotterranee della basilica di S. Apollinare “avveniva di tutto e di più”, con chiara allusione quanto meno a orge. Peccato che anche le fonti di queste affermazioni, ammesso che siano mai state fatte, siano rimaste anonime…Possiamo fermarci qui. Con una sola annotazione finale: che direbbe Pietro Orlandi se la stampa riportasse come oro colato le malignità che in Vaticano non risparmiano neppure lui e la sua famiglia? A partire dal fatto che coi primi stipendi pagatigli dallo IOR lui si è comprato una Maserati, acquisto ammesso e confermato.

IOR NAME IS 007: DA MARCINKUS A SCARANO, GLI INTRECCI TRA SERVIZI, MASSONI E VATICANO. L’inchiesta su monsignor 500 euro è l’ultimo di una lunga serie di misteri che vedono intrecci tra servizi segreti italiani, Vaticano e massoneria - La morte di Papa Luciani, che voleva riformare lo Ior, e quello scazzo con Villot - Il caso di Emanuela Orlandi, scrive Marco Mostallino per Lettera43.it il 3 luglio 2013. Tonache, barbe finte e grembiulini. La vicenda dell'Istituto opere religiose (Ior), la banca vaticana i cui vertici sono stati indotti alle dimissioni, si intreccia da 40 anni con gli affari e le manovre di monsignori, agenti segreti più o meno deviati, massoni e piduisti.

MONSIGNORI E MASSONI. Massone era monsignor Paul Markincus, presidente dello Ior tra il 1971 e il 1989, coinvolto negli scandali del Banco Ambrosiano e nelle misteriose morti di Michele Sindona e Roberto Calvi. Massone era anche monsignor Jean Villot, potente segretario di Stato all'epoca di Paolo VI e protagonista di un duro scontro sugli assetti della banca con Albino Luciani, il pontefice che intendeva rivoluzionare l'Istituto ma che morì prima di poter mettere mano alle riforme.

IL CASO SCARANO. E membri dei servizi segreti italiani erano - o forse sono ancora - il prefetto Francesco La Motta, incarcerato il 28 giugno scorso per il furto di fondi del Viminale passati sui conti Ior, e Giovanni Zito, il carabiniere fermato con l'accusa di aver fatto da spallone tra l'Italia e la Svizzera per muovere i quattrini di Nunzio Scarano, il vescovo arrestato proprio per i traffici di decine di milioni movimentati attraverso i canali riservati della banca vaticana. Marcinkus guidò lo Ior, coltivandone i legami con Calvi, Sindona e il capo della P2 Licio Gelli, fino a quando nel 1987 la magistratura italiana ne ordinò l'arresto per gli intrighi dell'Ambrosiano. Il monsignore massone trovò rifugio per quasi 10 anni prima tra le mura della Santa Sede, che non lo consegnò mai alla giustizia, poi di una piccola parrocchia statunitense, dove morì nel 1997 senza che l'allora papa, Giovanni Paolo II, aprisse mai i segreti della Chiesa agli investigatori italiani.

SCARANO B. Chi cercò di ripulire le istituzioni vaticane da imbrogli e malaffare fu Albino Luciani. Prima, nel 1972, da patriarca di Venezia, quando si recò in Vaticano per contrastare la decisione di Marcinkus di acquisire due banche venete legate al mondo cattolico. Poi, nel 1978, da papa.

LA MANO DI JEAN VILLOT. Non vi riuscì, poiché il capo dello Ior godeva della piena protezione del segretario di Stato dell'epoca, il cardinale Jean Villot. Il porporato francese era un uomo abile, scaltro, determinato e spregiudicato, messo a capo del governo della Santa Sede nel 1969 da Paolo VI. Membro della massoneria, conservò la carica anche con Luciani, l'uomo che appena eletto pontefice - come confessò egli stesso ai suoi collaboratori fatti giungere a Roma dal Veneto - si trovò subito attorno la terra bruciata creata dalla Curia vaticana.

LUCIANI E QUELLA MORTE SOSPETTA. Luciani era un uomo limpido e determinato: «Desidero che siano i vescovi e cardinali, con una loro rappresentanza, a decidere cosa fare dello Ior. Chiedo che le sue azioni siano tutte lecite e pulite e consone con lo spirito evangelico», disse. Prima di aggiungere, riferendosi a Marcinkus pur senza farne il nome, che «il presidente dello Ior deve essere sostituito, nel rispetto della persona: un vescovo non può presiedere e governare una banca». Ma accadde esattamente il contrario. A essere sostituito, dopo 33 giorni di pontificato, fu il papa. E a causa di morte. Taluni ipotizzarono che quel «rispetto della persona» non fu garantito a Luciani: il decesso venne classificato per cause naturali, ma nessuna autopsia fu mai eseguita.

PAPA LUCIANI. Tra le mani, il papa morto teneva alcune carte - notizia che il Vaticano sulle prime nascose - con appunti su un duro colloquio avvenuto poche ore prima con Villot, al quale aveva comunicato di voler cambiare i vertici dello Ior e di alcuni ministeri della Santa Sede, ricevendo in cambio il parere fortemente negativo dell'allora segretario di Stato.

I SERVIZI SEGRETI ITALIANI, TRA IOR E CRIMINALITÀ. Nelle vicende dello Ior, dell'Ambrosiano e nelle misteriose morti a esse legate i servizi segreti italiani spuntano spesso e volentieri. L'ombra degli 007 è calata sugli omicidi di Calvi e Sindona mentre, secondo alcune testimonianze, gli agenti italiani avrebbero svolto ruoli di mediazione tra i porporati e la banda della Magliana nel rapimento di Emanuela Orlandi.

CARLO CALVI CON LA MADRE E MICHELE E RINA SINDONA ALLE BAHAMAS. Ed è accertato da diverse indagini che uffici dello spionaggio italiano hanno spesso utilizzato conti coperti dello Ior per spostare soldi in maniera riservata. Le ultime due inchieste romane hanno poi rivelato che uomini dei servizi sono pesantemente coinvolti nei traffici illeciti che avvengono tramite la banca vaticana.

GLI EX AISI LA MOTTA E ZITO. Il prefetto La Motta, arrestato pochi giorni fa, prima di essere trasferito al Viminale è stato vicedirettore dell'Aisi, il servizio segreto per la sicurezza interna (una dalle agenzie che hanno sostituito Sismi e Sisde, i cui nomi erano diventati impronunciabili). Anche l'uomo accusato di aver trasportato i soldi di monsignor Scarano, il sottufficiale dei carabinieri Giovanni Zito, aveva lavorato per l'Aisi per poi tornare in forza all'Arma.

EMANUELA ORLANDI. Ma uno 007 è un po' come un prete: la sua scelta vocazionale lo accompagna per tutta la vita e le indagini di questi giorni dimostrano che i film di James Bond in fondo portano con sé una morale veritiera: quando indossi una barba finta, è difficile poi che qualche pelo, magari proprio dei più sporchi, non ti resti addosso per sempre.

Soldi, caso Orlandi, abusi: il nuovo libro di Nuzzi sui misteri del Vaticano. «Su Emanuela dì che non sai niente». Nella nuova inchiesta del giornalista Nuzzi, «Peccato originale», anche la denuncia dei chierichetti di San Pietro, sottoposti ad indebite attenzioni da parte dei loro superiori, scrive l'8 novembre 2017 Gian Antonio Stella su "Il Corriere della Sera". «Allo Ior dovresti evitare assolutamente di conoscere i nomi dei correntisti…». «E se invece dovessi chiedere i nomi dei clienti?». «A quel punto, amico mio, avrai quindici minuti per mettere in sicurezza i tuoi figli. A presto caro…». Basta questo scambio di battute tra Ettore Gotti Tedeschi sul punto di essere nominato presidente della Banca Vaticana e l’«apprezzato uomo delle istituzioni pragmatico e soprattutto molto ascoltato» che scodella al banchiere l’affettuoso «consiglio» dalle sfumature mafiose, a gettare una lama di luce sul nuovo libro di Gianluigi Nuzzi.

La fronda a Papa Francesco. Si intitola «Peccato originale», è edito da Chiarelettere e in 352 pagine il giornalista e scrittore, autore dei bestseller «Vaticano S.p.A.», «Sua Santità» e «Via Crucis» cerca di rispondere a sette domande rimaste in sospeso. Domande che, proprio perché irrisolte, vanno indietro anche di mezzo secolo. «È stato ucciso Albino Luciani? Chi ha rapito Emanuela Orlandi? Se la ragazza ormai “sta in cielo”, come afferma papa Francesco, il Vaticano ha delle responsabilità nell’omicidio, e quali sono? Perché le riforme per la trasparenza della curia, avviate prima da Joseph Ratzinger e adesso da Bergoglio, puntualmente falliscono o rimangono incompiute? Cosa blocca il cambiamento? E ancora: i mercanti del tempio continuano a condizionare la vita della Chiesa dopo aver avuto un ruolo nella rinuncia al pontificato di Benedetto XVI? Infine, la questione più drammatica: lo stallo nel quale sono cadute le riforme di Francesco è dovuto a chi non vuole questo Papa, dentro e fuori i sacri palazzi, e dunque ne ostacola l’opera riformatrice?». Per rispondere, spiega, ha seguito tre fili rossi: i soldi, il sangue, il sesso. Fili che «annodandosi tra loro costituiscono una fitta trama d’interessi opachi, violenze, menzogne, ricatti, e soffocano ogni cambiamento».

Il boss in basilica. E c’è davvero di tutto, nel libro. Dai conti correnti allo Ior di Eduardo de Filippo o di Anjezë Gonxe Bojaxhiu, (suor Teresa di Calcutta) alla dettagliata ricostruzione della riservatissima trattativa tra i vertici della magistratura romana e gli altissimi prelati che fecero sapere al procuratore Giancarlo Capaldo, che da anni indagava sulla scomparsa della Orlandi, del loro imbarazzo per la crescente «tensione massmediatica» a causa della presenza nei sotterranei di sant’Apollinare della tomba di Enrico «Renatino» De Pedis, il boss della banda della Magliana sospettato d’aver avuto un ruolo centrale nella sparizione della ragazza e sepolto lì in cambio di una donazione, pare, di 500 milioni di lire. Insomma, il «disagio» per «sospetti» e «pettegolezzi» era tale che se i giudici si fossero presi la briga di rimuover loro la salma, come raccontava il film di Roberto Faenza «La verità sta in cielo», il Vaticano dopo anni di reticenze avrebbe discretamente fornito tutto ciò che sapeva. Un patto che dopo la traslazione della salma e l’esame di 409 cassette e 52.188 ossa umane per cercare eventuali tracce della quindicenne sparita, sfumò com’è noto nel nulla.

Papa Luciani. Come nel nulla erano finiti i dubbi, le discussioni e le polemiche sulla morte di Albino Luciani, il «Papa che sorrise solo 33 giorni». Fu avvelenato? Probabilmente no, dice Nuzzi: piuttosto fu «schiacciato» dal peso dei problemi e più ancora dalla «verità tragica e indicibile» di quanto avveniva dentro lo Ior. Che lui avrebbe voluto riformare fin dal ‘72, quando da Patriarca di Venezia aveva avuto il primo scontro col potentissimo e spregiudicato cardinale Paul Marcinkus. Il quale, si legge in «Peccato originale», avrebbe liquidato sei anni dopo il neoeletto Giovanni Paolo I con parole sprezzanti: «Questo pover’uomo viene via da Venezia, una piccola Diocesi che sta invecchiando, con 90.000 persone e preti anziani. Poi, all’improvviso, viene catapultato in un posto e nemmeno sa dove siano gli uffici. (…) Si mette a sedere e il segretario di Stato gli porta una pila di documenti, dicendo: “Esamini questi!”. Ma lui non sa neppure da dove cominciare».

Scatole cinesi e conti esteri. In verità, i pasticci, le scatole cinesi e i labirinti azionari erano tali che avrebbe faticato a capirci non solo un Papa santo ma un revisore dei conti provetto. Basti dire che uno dei numerosi documenti in appendice al libro, del 23 marzo 1974, è la «contabilizzazione assegno n. 0153 s/FNCB NY, del valore di 50.000 dollari, emesso all’ordine: “S.S. Paolo VI per erogazione in relazione Esercizio 1973”. In basso nel documento si riporta il relativo addebito sul conto n. 051 3 01588, intestato “Cisalpine Fund”, che potrebbe far riferimento alla banca panamense Cisalpine, nel cui cda siederanno Paul Marcinkus con Roberto Calvi e Licio Gelli». Banca tirata in ballo in un incontro con Nuzzi dalla stessa vedova di Roberto Suárez Gómez, il «re della cocaina»: «Mio marito Roberto era felice di aver incontrato in Venezuela Calvi, perché disponendo di un garante di questo livello gli affari sarebbero andati molto meglio... con la cocaina immagino, non fu esplicito ma immagino fosse così... Calvi era socio di mio marito...».

La lobby gay. Ma le pagine destinate a sollevare più polemiche sono quelle dedicate al sesso. Dove sono ricostruiti gli scandali recenti come il gay party a base di cocaina interrotto dai gendarmi vaticani in un appartamento nello stesso palazzo del Sant’Uffizio o le confidenze di Elmar Theodor Mäder, l’ex comandante delle guardie svizzere («Esiste in Vaticano una lobby gay talmente potente da essere pericolosa per la sicurezza del pontefice») o ancora le amarezze di papa Francesco: «In Vaticano esiste una lobby gay. Nella curia ci sono persone sante, davvero, ma c’è anche una corrente di corruzione. Si parla di una lobby gay ed è vero, esiste». Ma Nuzzi va oltre. Pubblica un’intercettazione telefonica ad esempio tra il rettore della basilica di Sant’Apollinare all’epoca della scomparsa della Orlandi e un giovane seminarista nato in Birmania. Intercettazione strapiena di allusioni sessuali a dir poco imbarazzanti. Più ustionante ancora la testimonianza di un polacco (con nome, cognome e copia della lettera di denuncia) entrato dodicenne nel pre-seminario San Pio X a palazzo San Carlo (lo stesso in cui vivono cardinali come Tarcisio Bertone) dove le Diocesi indirizzano i ragazzini che «manifestano una predisposizione per il sacerdozio» e «partecipano come chierichetti alle funzioni religiose nella basilica di San Pietro». Incluse quelle celebrate dal Papa. E dove, stando a quanto raccolto in «Peccato originale», sarebbero avvenuti abusi denunciati ai superiori, su su nella scala gerarchica, senza che certe cose, purtroppo, venissero radicalmente cambiate. A essere allontanato, scrive anzi il giornalista, fu il chierichetto che chiedeva di allontanare chi molestava lui e il suo compagno di stanza. Accuse assurde? Si vedrà. Certo colpiscono le risposte rasserenanti e sdrammatizzanti di certi prelati chiamati a intervenire dopo queste denunce. Su tutte una «raccomandazione» al giovane polacco: «Ti auguro di riprendere serenità e docilità».

Emanuela Orlandi, spunta dossier shock, scrive il 18/09/2017 "Adnkronos.com". Nuovo documento choc sul caso di Emanuela Orlandi, la ragazzina 15enne, figlia di un commesso della Prefettura della Casa Pontificia, scomparsa in circostanze misteriose il 22 giugno del 1983. L'esistenza del dossier segreto emerge dal libro-inchiesta Gli impostori del giornalista Emiliano Fittipaldi. "E' un riassunto di tutte le note spese per un presunto 'allontanamento domiciliare' di Emanuela Orlandi", scrive su Facebook il cronista. "Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno", spiega. "Leggendo il resoconto - continua il giornalista nel post su Facebook - e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di 'trasferirla' in Inghilterra, a Londra. In ostelli femminili". "Per 14 anni - prosegue - le avrebbe pagato rette, vitto e alloggio, spese mediche, spostamenti. Almeno fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un ultimo trasferimento in Vaticano e 'il disbrigo delle pratiche finali'". "Delle due l'una - osserva il giornalista - o il documento è vero, e apre squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi. O è un falso, un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura. Ma - conclude - chi può aver costruito un simile resoconto?". Fittipaldi torna a occuparsi di Vaticano con 'Gli impostori' dopo essere stato coinvolto due anni fa nel caso Vatileaks per il suo libro Avarizia. Messo sotto processo dal Vaticano con l'accusa di aver divulgato documenti top secret, il giornalista è stato prosciolto lo scorso anno "per difetto di giurisdizione". Il cardinale Giovanni Battista Re, il cui nome è comparso, insieme a quello del cardinale Jean-Louis Tauran tra i destinatari del documento, dichiara, intervistato da Stanze Vaticane, il blog di Tgcom24: "Non ho mai visto quel documento pubblicato da Fittipaldi, non ho mai ricevuto alcuna rendicontazione su eventuali spese effettuate per il caso di Emanuela Orlandi". Il cardinale Re, all'epoca era Sostituto per gli Affari Generali della Segreteria di Stato e avrebbe ricevuto questo dossier da parte dell'Apsa (L'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Nessuna certezza sull'autenticità del documento che riporta la firma dattiloscritta del cardinale Lorenzo Antonetti, ma non quella autografa. Vaticano: "Documento Fittipaldi falso e ridicolo" - "Falso e ridicolo". Così, senza commentare oltre, il portavoce della Santa Sede Greg Burke definisce il documento pubblicato da Fittipaldi. "Il muro sta cadendo", scrive su Facebook Pietro Orlandi, fratello di Emanuela. Probabilmente un auspicio per Pietro che da sempre lotta per la verità su quanto accaduto alla sorella.

Caso Orlandi, c’è il giallo dei ricoveri Sul dossier l’ombra dei corvi. L’elenco di spese per gestire il caso sarebbe un avvertimento. Riferimenti diretti ad altri documenti allegati e ancora segreti, scrive Fiorenza Sarzanini il 18 settembre 2017 su "Il Corriere della Sera". «Allontanamento domiciliare della cittadina Emanuela Orlandi»: così, nel dossier che circola in Vaticano, viene definita la scomparsa della giovane avvenuta il 22 giugno 1983. E tanto basta per accreditare l’ipotesi che quei cinque fogli con l’elenco delle spese per circa 500 milioni di lire attribuite alla Santa Sede per gestire la vicenda fino a luglio 1997, siano in realtà un avvertimento. La resa dei conti in una guerra interna cominciata con le rivelazioni dei «corvi» e continuata con i documenti pubblicati durante Vatileaks. Una possibilità avvalorata dal fatto che fossero stati rubati dalla cassaforte di monsignor Vallejo Balda — condannato come una delle «fonti» — e poi restituiti in un plico anonimo spedito alla Prefettura. Sono proprio le circostanze elencate nella relazione a sollevare nuovi dubbi e interrogativi su quello che invece è sempre stato considerato un rapimento di cui però rimane oscuro il movente.

Le ricevute allegate. Nel testo attribuito all’allora presidente dell’Apsa, l’amministrazione del patrimonio della sede apostolica, si parla di un «divieto postomi di interrogare direttamente le fonti incaricando esclusivamente il capo della gendarmeria vaticana», che all’epoca era Camillo Cibin. E subito dopo si specifica che il documento «non include l’attività commissionata da Sua Eminenza il cardinale Agostino Casaroli al “Commando 1” in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell’attività citata». Sia Cibin, sia Casaroli sono morti. Ma molte persone che collaboravano con loro rivestono tuttora incarichi all’interno della Santa Sede. E forse proprio a loro si rivolge chi ha confezionato il dossier. Anche perché specifica che esistono «documenti allegati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza», sottolineando che sono state effettuate spese «non fatturate». Una nota che suona come un messaggio in codice per far sapere che altre carte potrebbero essere rese note.

I due ricoveri. Nessuna tra le ipotesi formulate nel corso degli anni su che cosa sia accaduto alla giovane ha mai trovato riscontro, ma accreditare la tesi che possa essere stata «gestita» per 14 anni dalle gerarchie ecclesiastiche apre scenari inquietanti proprio su quanto può essere accaduto Oltretevere. Anche perché l’appello del 3 luglio 1983 pronunciato da Giovanni Paolo II, durante l’Angelus, escluse la pista di una fuga volontaria e confermò che il Pontefice potesse avere avuto informazioni su un coinvolgimento del Vaticano per la responsabilità di personaggi interni, oppure come destinatario del ricatto. Per questo suscitano interesse due «voci» del dossier che riguardano i ricoveri in strutture sanitarie della Gran Bretagna. Nella prima si parla di «spese clinica St Mary’s Hospital Campus Imperial College» di Londra per 3 milioni di lire. E subito dopo è citata la «dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology» senza specificare la spesa ma annotando invece che l’attività «economica a rimborso» è contenuta «nell’allegato 28».

Niente protocollo. Nel dossier «presentato in triplice copia per dovuta conoscenza a entrambi i destinatari» — che sono l’allora sostituto per gli Affari generali della Segreteria di Stato, il cardinale Giovanni Battista Re, e il sottosegretario Jean Louis Tauran — si sottolinea che «come da richiesta non si espleta la funziona di protocollazione». Un’altra circostanza che appare come un avvertimento. Di questo documento si parla ormai da svariati mesi tanto che la famiglia Orlandi aveva chiesto udienza al Segretario di Stato Pietro Parolin. Dalla Santa Sede hanno sempre negato che esistesse. Ora si scopre invece che era stato custodito nella prefettura della Santa Sede. Perché non si è confermato che circolava e si trattava di un falso? O forse qualcuno era convinto di essere riuscito a insabbiarlo.

Emanuela Orlandi, il giallo del nuovo dossier: "Oltre 483 milioni di lire spesi dal Vaticano per il suo allontanamento". Un documento shock esce dalla Santa Sede. È il cuore di un libro-inchiesta di Emiliano Fittipaldi, “Gli impostori”. Se è vero, apre squarci clamorosi sulla vicenda della ragazzina scomparsa nel 1983. Se falso, segnala uno scontro di potere senza precedenti nel pontificato di Francesco. Ecco un'anticipazione, scrive Emiliano Fittipaldi il 18 settembre 2017 su “L’Espresso". Prima di consegnarmi i documenti, la fonte aveva tergiversato per settimane. Nei primi due incontri, durante i quali avevo chiesto consigli su come raggiungere l'obiettivo, aveva escluso con fermezza di avere le carte che cercavo. "Le ho solo lette, se le avessi te le darei, figurati," aveva chiarito seccamente di fronte alle mie insistenze. Non ero convinto che dicesse la verità, ma tentai le strade alternative che mi aveva indicato. Capii presto che era fatica sprecata, e dopo un po' tornai alla carica. Alla fine, al terzo appuntamento, la fonte ha ammesso di avere il dossier. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia." Al quarto incontro, avvenuto in un bar del centro di Roma, mi consegnò una cartellina verde. Me ne tornai a casa di corsa senza neanche guardarci dentro. Appena varcata la porta del mio studio, la aprii. C'erano dei fogli: una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. È scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran. Al tempo, Giovanni Battista Re era il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede; Jean-Louis Tauran era il numero uno dei Rapporti con gli stati, un'altra sezione del dicastero della Curia romana che "più da vicino", come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione". Insomma, Re e Tauran erano nei vertici della Curia e, secondo l'estensore del documento, si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi. Il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997. La presunta missiva di Antonetti, come molte altre a cui ho avuto accesso nelle mie inchieste sulla Santa Sede, non era firmata a penna. Alla fine, l'autore chiariva che non era stata nemmeno protocollata, "come da richiesta".

Leggo il testo della prima pagina tutto d'un fiato. "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo stato città del vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi (Roma 14 gennaio1968),", è il titolo. "La prefettura dell'Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica ha ricevuto mandato di redigere un documento di sintesi delle prestazioni economiche resosi necessarie a sostenere le attività svolte a seguito dell'allontanamento domiciliare e delle fasi successive allo stesso della cittadina Emanuela Orlandi. "La sezione di riferimento, sotto la mia supervisione, ha provveduto a raccogliere il materiale attraverso gli attori dello Stato che hanno interagito con la vicenda. "Moltissimi limiti nella ricostruzione sono stati riscontrati nell'impossibilità di rintracciare documentazione relativa agli agenti di supporto utilizzati sul suolo italiano stante il divieto postomi di interrogare le fonti, incaricando esclusivamente il capo della Gendarmeria Vaticana in questo senso. "L'attività di Analisi è suddivisa in archi temporali rilevanti per avvenimenti e per spese sostenute. "Il documento non include l'attività commissionata da Sua Eminenza Reverendissima Cardinale Segretario di Stato Emerito Agostino Casaroli al 'Commando 1', in quanto alcun organo a noi noto o raggiungibile è a conoscenza di quanto emerso e della quantità di denaro investita nell'attività citata. "I documenti allegati (197 pagine) al presente rapporto sono presentati in originale per la parte relativa ai pagamenti per i quali è stata rilasciata quietanza, sono presentati in forma di resoconto bancario le quantità di denaro utilizzate e prelevate per spese non fatturate." La lettera che ho in mano sembra, o vuole sembrare, un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997. Scorro rapidamente le fredde voci di costo elencate. Delineano scenari nuovi e oscuri su una vicenda di cui si è scritto e ipotizzato molto, e su cui il Vaticano ha sempre negato di avere informazioni ulteriori rispetto a quanto raccontato e condiviso con i giudici italiani che hanno investigato in questi ultimi trentaquattro anni. Il dossier sintetizza gli esborsi sostenuti dal Vaticano dal 1983 al 1997. La somma totale investita nella vicenda Orlandi è ingente: oltre 483 milioni, quasi mezzo miliardo di lire. L'elenco riempie pagina due, tre, quattro e, in parte, cinque del rendiconto. La prima voce riguarda il pagamento di una "fonte investigativa presso Atelier di moda Sorelle Fontana". La Orlandi, nell'ultima telefonata alla famiglia prima della sparizione, aveva in effetti detto che qualcuno le aveva proposto di pubblicizzare i prodotti di una marca di cosmetici, la Avon, durante una sfilata delle stiliste Fontana. Per la fonte, la Santa Sede aveva sborsato 450.000 lire. C'era un'altra spesa per la "preparazione all'attività investigativa estera" costata altre 450.000 lire, uno "spostamento" da ben 4 milioni di lire e, soprattutto, le "rette vitto e alloggio 176 Chapman Road Londra". Chi ha scritto il documento, come vedremo, aveva digitato male l'indirizzo: a quello giusto c'è la sede londinese dei padri scalabriniani, la congregazione dei missionari di San Carlo fondata nel 1887 da Giovanni Battista Scalabrini. Dagli anni sessanta gestiscono un ostello della gioventù destinato esclusivamente a ragazze e studentesse. Nel periodo 1983-1985, per le rette, erano stati versati 8 milioni di lire. Il prezzo giusto, mi dico, per ospitare una persona in quell'arco temporale (per dare un ordine di misura, nel 1983, secondo i dati storici della Banca d'Italia, lo stipendio medio di operai e impiegati era di circa 500.000, 600.000 lire nette al mese). La prima pagina si chiude con i costi per l'"indagine formale in collaborazione con Roma" (23 milioni) e con la misteriosa "attività di indagine riservata extra 'Commando 1', direzione diretta Cardinale Casaroli", per una cifra di 50 milioni di lire. Agostino Casaroli era il segretario di Stato che nella vicenda Orlandi ha avuto un ruolo importante, soprattutto all'inizio. La nota, nella seconda e nella terza pagina, racconta i costi sostenuti per l'"allontanamento domiciliare" di Emanuela nel periodo "febbraio 1985-febbraio 1988". Si elencano dispendiosi viaggi a Londra di esponenti vaticani di altissimo livello, soldi investiti per la "attività investigativa relativa al depistaggio", spese mediche in ospedali e fatture per specialisti in "ginecologia". Si parla di "un secondo" e di "un terzo trasferimento", di decine di milioni di lire per "rette omnicomprensive" di vitto e alloggio. Gli anni scorrono. Arrivo all'ultima pagina. Il documento segnala che il resoconto dei costi per le attività relative alla cittadina Orlandi e al suo "allontanamento domiciliare" si riferisce stavolta al periodo "aprile 1993-luglio 1997". Le voci del quadriennio sono solo tre: oltre alle solite rette (con "il dettaglio mensile e annuale in allegato 22") e ad altre "spese sanitarie forfettarie", figura il capitolato finale. Mi si gela il sangue: "Attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano, con relativo disbrigo pratiche finali: L. 21.000.000". La lista finisce qui, ma in fondo alla quinta pagina il mittente aggiunge una postilla. "Il presente documento è presentato in triplice copia, per dovuta conoscenza ad entrambi i destinatari, si rimanda a documentazione allegata sulle modalità di redazione. Non si espleta funzione di protocollazione come da richiesta. APSA è sollevata dalla custodia della documentazione allegata presentata in originale. In fede, Lorenzo Cardinale Antonetti. Stato Città del Vaticano, A.D. 1998, mese di marzo giorno 28." Smetto di leggere. Il documento, che esce certamente dal Vaticano, anche se non protocollato e privo di firma del suo estensore, pare verosimile. Ma quasi incredibile nel suo contenuto. Dunque, delle due l'una: o è vero, e allora apre per la prima volta squarci impensabili e clamorosi su una delle vicende più oscure della Santa Sede. O è un falso, un documento apocrifo, che mischia con grande abilità tra loro elementi veritieri che inducono il lettore ad arrivare a conclusioni errate. In entrambi i casi, il pezzo di carta che ho in mano è inquietante. Perché, fosse un documento non genuino, significherebbe che gira da almeno tre anni un dossier devastante fabbricato ad arte per aprire una nuova stagione di ricatti e di veleni in Vaticano. Chi e quando avrebbe costruito un simile documento, che come vedremo contiene dettagli, indirizzi, nomi e circostanze molto particolari che solo un soggetto "interno" alla Città Santa poteva conoscere così bene? Se non è davvero stato scritto dal cardinale Antonetti, chi l'ha redatto con tale maestria, e chi l'ha poi messo, anni fa, nella cassaforte della Prefettura?

Difficile rispondere ora a queste domande. Ma è chiaro che, se il documento fosse falso, la Gendarmeria guidata da Domenico Giani avrà parecchio da lavorare. Il report fasullo potrebbe essere rimasto nascosto per anni in qualche cassetto, mai usato (almeno fino ad ora) e infine dimenticato. O potrebbe essere stato costruito ad hoc più di recente, dopo il furto del marzo del 2014, e restituito dai ladri insieme ad altri documenti certamente veritieri. Ma se è così, perché monsignor Abbondi non ha detto davanti ai magistrati di papa Francesco che lo interrogavano sul contenuto del plico anonimo con i documenti rubati che era tornato, tra gli altri, anche un dossier sulla Orlandi che non aveva mai visto, e quindi forse fasullo? Perché ha parlato genericamente di carte "sgradevoli"?

È pure evidente, però, che il report non spiega chiaramente cosa sia accaduto alla ragazzina che amava le canzoni di Gino Paoli, né accusa con nome e cognome qualcuno di responsabilità specifiche sul rapimento e sulla fine di Emanuela. Per quanto incredibile, cerco di costringermi a pensare che il documento possa essere anche una lettera autentica. Il report di un burocrate, il cardinale Antonetti appunto, che rendiconta minuziosamente ai due destinatari tutte le spese sostenute per "l'allontanamento domiciliare" della Orlandi, spese divise per quattro archi temporali definiti. Una pratica obbligatoria nei servizi segreti di ogni Stato del pianeta: alla fine di un'operazione, anche quelle in cui vengono usati fondi neri, i responsabili devono presentare il consuntivo di ogni spesa effettuata ai superiori. La missiva è "presentata in triplice copia", come si usa fare da sempre in Vaticano anche per i documenti riservati (uno va ai destinatari dei vari dicasteri coinvolti, un altro resta nell'archivio dell'Apsa). Stavolta una copia è finita anche negli archivi della Prefettura degli affari economici, cioè il ministero della Santa Sede che aveva il compito di supervisionare le uscite dei vari enti vaticani. Non è una stranezza: nell'enorme armadio blindato che i ladri hanno aperto nel marzo del 2014 ci sono migliaia di documenti provenienti anche da altri enti vaticani. Tra cui, per esempio, le lettere di Michele Sindona spedite non in Prefettura, ma ai cardinali presidenti di pontificie commissioni. Fosse veritiero, dunque, il rendiconto datato marzo 1998, pur in assenza delle 197 pagine di fatture, darebbe indicazioni e notizie sbalorditive che potrebbero aiutare a dipanare la matassa di un mistero irrisolto dal 1983. Perché dimostrerebbe, in primis, l'esistenza di un dossier sulla Orlandi mandato alla segreteria di Stato, mai consegnato né discusso con le autorità italiane che hanno investigato per decenni senza successo sulla scomparsa della ragazzina. Perché evidenzierebbe come la chiesa di Giovanni Paolo II abbia fatto investimenti economici importanti su un'attività investigativa propria, sia in Italia sia all'estero, i cui risultati sono a oggi del tutto sconosciuti. Perché il dossier citerebbe un fantomatico "Commando1" guidato direttamente da Agostino Casaroli, potente segretario di Stato della Santa Sede, forse un gruppo di persone composto da pezzi dei servizi segreti vaticani (il corpo della Gendarmeria ha funzioni di ordine pubblico e di polizia giudiziaria, ma svolge anche lavoro di intelligence per la sicurezza dello stato) che ha preso parte alle attività successive alla scomparsa della ragazza. Ma, soprattutto, il resoconto diventa clamoroso quando mostra come tra il 1983 e la fine del 1984 il Vaticano, dopo indagini autonome, avrebbe investe in un primo "spostamento" la bellezza di 4 milioni di lire. Da allora il campo da gioco dei monsignori che si sarebbero occupati della vicenda di Emanuela si sposta in Inghilterra. In particolare, a Londra.

Possibile che Emanuela Orlandi sia stata ritrovata viva dal Vaticano e poi nascosta in gran segreto nella capitale inglese? Se non è così, e se il documento è autentico, a chi la Santa Sede ha pagato per quattordici anni "rette vitto e alloggio" elencate in un report che ha come titolo "Resoconto sommario delle spese sostenute dallo Stato Città del Vaticano per le attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi" e per il suo "allontanamento domiciliare"? Come mai nella nota sulla ragazza viene indicato che il capo della Gendarmeria del tempo, Camillo Cibin, avrebbe sborsato la bellezza di 18 milioni di lire, tra il 1985 e il 1988, per andare avanti e indietro da Londra? Chi sarebbe andato a trovare qualche tempo dopo il medico personale di papa Wojtyla, Renato Buzzonetti, insieme a Cibin, "presso la sede l. 21", una "trasferta" da 7 milioni di lire? Perché e a chi, all'inizio degli anni novanta, il Vaticano avrebbe pagato spese sanitarie - come segnala ancora l'estensore dello scritto - per i controlli (o addirittura un ricovero) alla Clinica St. Mary, sempre a Londra? Chi è andata, sola o accompagnata, a farsi visitare dalla "dottoressa Leasly Regan, Department of Obstetrics & Gynaecology" dello stesso nosocomio un'unica "attività economica a rimborso" di cui il capo dell'Apsa non indica la spesa precisa, invitando a leggere i "dettagli in allegato 28"? (contattata da l'Espresso, la Regan nega di avere fatture a nome della Orlandi, e dice di non poter ricordare, dopo tanti anni, se ha curato una ragazza con le fattezze di Emanuela).

La storia, secondo il documento, non sembra finire bene. Perché la lista si conclude con un ultimo capitolato di spesa, sull' "attività generale e trasferimento presso Stato Città del Vaticano con relativo disbrigo pratiche finali". Il trasferimento è il quarto segnalato nel report: chi viene portato in Vaticano? Perché nel luglio 1997 la "pratica" di Emanuela Orlandi viene considerata chiusa?

A metà giugno del 2017 capisco, dal Corriere della Sera, che qualcun altro è a conoscenza del documento misterioso. La famiglia Orlandi ha infatti presentato un'istanza di accesso agli atti per poter visionare "un dossier custodito in Vaticano". Il quotidiano accredita che il fascicolo possa contenere resoconti di attività inedite fino al 1997, con dettagli anche di natura amministrativa svolta dalla segreteria di Stato ai fini del ritrovamento". Capisco che si tratta proprio del report che ho in mano. Il giorno dopo monsignor Angelo Becciu, sostituto per gli Affari generali della segreteria, nega l'esistenza di qualsiasi carta riservata: "Abbiamo già dato tutti i chiarimenti che ci sono stati richiesti. Il caso per noi è chiuso". Anche il cardinale Re interviene, assicurando che "la Segreteria di Stato" di cui nel 1997 lui era sostituto "non aveva proprio niente da nascondere. Essendo uno dei due destinatari della presunta lettera di Antonetti, decido di chiamarlo, e domandargli se ha mai ricevuto quel report sull’ "allontanamento domiciliare" di Emanuela Orlandi, e se in caso contrario quello che ho in mano è un report apocrifo che vuole inchiodarlo a responsabilità che lui non ha. L'inizio del colloquio è rilassato. Appena gli leggo il titolo, il cardinale, senza chiedermi nulla nel merito del documento, tronca improvvisamente la conversazione: "Guardi io non so di questo. E mi dispiace non poterla aiutare. Sono qui con altre persone". Clic.

La mia ricerca è iniziata nel febbraio del 2017. Leggendo il libro di Francesca Chaoqui e dell'ex direttore della sala stampa del Vaticano Federico Lombardi. Quest'ultimo ricordava come un testimone eccellente del processo che mi vedeva coinvolto, quello su Vatileaks 2, aveva parlato di alcuni documenti trafugati. Il test era monsignor Alfredo Abbondi, capo ufficio della Prefettura degli Affari economici. La parte più interessante del suo interrogatorio riguarda un misterioso furto avvenuto nelle stanze di quell'ufficio nella notte tra il 29 e il 30 marzo 2014. Dopo mezzanotte, qualcuno si era introdotto nel palazzo senza rompere alcuna serratura dei portoni di accesso, aveva sgraffignato qualche spicciolo negli uffici delle congregazioni ai primi piani dell'immobile e s'era poi concentrato sulla cassaforte e su uno soltanto dei dodici armadi blindati nascosti in una delle stanze della Prefettura, al quarto piano del grande edificio che si affaccia su piazza San Pietro. A don Abbondi, la mattina del 14 maggio 2016, i magistrati chiedono conto di quella singolare vicenda. Il prelato spiega che nell'ufficio esisteva "un archivio riservato che era sotto la responsabilità del segretario Balda", custodito inizialmente "in un armadio in una stanza vicina a quella del monsignore"; aggiunge che "dopo il furto, l'archivio riservato venne piazzato direttamente nella stanza di Vallejo". Quando il promotore di giustizia gli domanda cosa avessero rubato i ladri, Abbondi specifica che, se dalla piccola cassaforte "portarono via soldi e delle monete, dall'armadio blindato prelevarono invece dei documenti dell'archivio riservato... alcuni dei quali vennero poi riconsegnati in busta chiusa nella cassetta della posta del dicastero". Proprio così: alcune carte trafugate vennero rispedite in un plico anonimo, quasi un mese dopo lo scasso. Un dettaglio già raccontato da Gianluigi Nuzzi. Non solo. Il giornalista aveva pubblicato anche alcuni dei documenti restituiti alla Prefettura, tra cui diverse lettere mandate dal "Banchiere di Dio", Michele Sindona, a esponenti delle gerarchie vaticane, oltre a missive con riferimenti a Umberto Ortolani, fondatore - insieme a Licio Gelli - della loggia massonica deviata P2. "Cosa c'era nel plico?" chiede diretto il promotore di giustizia a don Abbondi. "Documenti di dieci, vent'anni fa, che di fatto non avevano più alcun valore," risponde il prelato. "Nel riordinare i fogli dopo l'effrazione, vidi che gli atti contenuti nell'archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato," ma a fatti che il monsignore definisce "sgradevoli". "Sgradevoli," ripeto tra me e me. Riponendo il libro mi domandai se, come ipotizzavano Abbondi e numerosi esponenti della Santa Sede, restituendo alcuni o tutti i documenti trafugati, i ladri avessero voluto lanciare un avvertimento, una minaccia, o se il furto nascondesse in realtà altre motivazioni. Certamente vi avevano collaborato persone informate dei segreti della Prefettura, visto che i banditi, violando un solo armadio blindato, erano andati a colpo sicuro. Di certo Abbondi fa intendere ai magistrati vaticani che i documenti ritornati dopo il furto non sono diversi da quelli che lui sapeva essere conservati nella cassaforte. Cominciai a leggere il volume della Chaouqui...Senza tanti giri di parole, la Chaouqui fa poi capire al lettore che, dalla discussione avuta quella mattina con il suo amico (i due in seguito diventeranno acerrimi nemici), aveva compreso che era stato lo stesso Balda a compiere l'effrazione, forse con il supporto di manovalanza esterna. Un'accusa pesantissima. Balda, che era già stato sentito dalla Gendarmeria insieme ad altri dipendenti dell'ufficio, ha sempre negato ogni addebito...L'avvocatessa calabrese - che nel 2014, ricordiamolo, era membro della Cosea e lavorava negli uffici della Prefettura che ospitavano la commissione - è uno dei pochissimi testimoni diretti di ciò che avvenne negli uffici dopo l'effrazione. E, come aveva fatto monsignor Abbondi in tribunale durante la sua deposizione, decide di raccontare nel suo libro il momento in cui tornano le carte sottratte un mese prima. Ma se il prete aveva parlato genericamente di documenti "sgradevoli", la Chaouqui entra nei dettagli, narrando in prima persona: "Alla fine i fascicoli ricompaiono, spediti da mano ignota agli uffici della Prefettura. C'è il dossier su un vescovo molto potente e sulle delicate questioni legate a un'eredità ricevuta quando era nunzio in Francia. Ci sono i resoconti delle spese politiche di Giovanni Paolo II ai tempi della Guerra fredda e di Solidarno??. C'è il carteggio tra il banchiere Michele Sindona e il faccendiere Umberto Ortolani, che il Vaticano avrebbe cercato in capo al mondo. C'è il file di Emanuela Orlandi e capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta"...Ora ho deciso di pubblicare il documento. Avessero ragione Becciu e il cardinale Re, il documento sarebbe certamente un falso. Sarebbe importante capire allora chi sono gli impostori che l'hanno architettato, e per quali oscuri motivi la storia di una ragazza scomparsa nel 1983 venga ancora usata per ricatti e lotte intestine della città sacra. Ma se le verosimiglianze impressionanti delle note spese del dossier fossero confermate da nuovi elementi determinati, il Vaticano e i suoi alti esponenti avrebbe mentito ancora una volta. E gli impostori sarebbero loro.

Emanuela Orlandi, perché dopo 32 anni la Cassazione chiude il caso. La corte ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia della quindicenne scomparsa nel 1983, scrive il 6 maggio 2016 Panorama. La Cassazione, dopo 32 anni, mette una pietra sull'inchiesta per la scomparsa di Emanuela Orlandi, la quindicenne residente nella città del Vaticano, di cui si sono perse le tracce dal 22 giugno 1983. La sesta sezione penale della Cassazione ha giudicato inammissibile il ricorso della famiglia contro l'archiviazione dell'indagine della procura di Roma. Nell'ottobre scorso il gip aveva respinto l'opposizione, avanzata dai familiari di Emanuela e da quelli Mirella Gregori (scomparsa poche settimane prima), alla richiesta di archiviazione da parte del procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, e dei pm Simona Maisto ed Ilaria Calò. L'inchiesta vedeva sei indagati, tutti in qualche modo legati al bandito della banda della Magliana Enrico De Pedis (ucciso nel 1990): monsignor Pietro Vergari, ex rettore della basilica di Sant'Apollinare, Sergio Virtù, autista di Enrico De Pedis, Angelo Cassani, detto "Ciletto", Gianfranco Cerboni, ("Giggetto"), Sabrina Minardi, già supertestimone dell'inchiesta, e il fotografo Marco Accetti. La parola testimone, un ruolo nella scomparsa di Emanuela era stato ricoperto da personaggi di spicco del sodalizio criminale romano. A parlare di un legame tra il caso Orlandi e la banda della Magliana era già stato in passato il pentito Antonio Mancini, che riferì di un depistaggio fatto da De Pedis, uno dei capi della banda sepolto nella Cappella di Sant'Apollinare a Roma proprio in virtù di presunti legami con ambienti vaticani. Tesi smentita, negli anni scorsi, dallo stesso rettore della Basilica. Proprio dietro Sant'Apollinare c'era la scuola di musica frequentata dalla stessa Emanuela, ultimo luogo in cui fu vista la ragazza scomparsa. Contro di loro sia la procura sia il gip hanno ritenuto che non fossero stati raccolti sufficienti elementi probatori. E ora è arrivato il visto della Cassazione. Rimangono pendenti per Accetti, che nelle scorse settimane è stato sottoposto a perizia psichiatrica che l'ha giudicato capace di intendere e volere ed anche di stare in giudizio benché affetto da disturbi della personalità di tipo narcisistico ed istrionico, le accuse di calunnia e autocalunnia.

Emanuela Orlandi: le tappe della sparizione (1983-2017). La scomparsa di Emanuela Orlandi: perché si riapre il caso. “Spesi dal Vaticano 483 milioni di lire per rette, vitto, alloggio e spostamenti della ragazza". Da un dossier pubblicato nel libro di Emanuele Fittipaldi, scrive il 18 settembre 2017 Chiara Degl'Innocenti su Panorama. “Ho trovato un documento uscito dal Vaticano. Ci ho lavorato mesi, e ho pubblicato un libro, Gli impostori, che uscirà tra qualche giorno. Un riassunto di tutte le note spese per un presunto ‘allontanamento domiciliare’ di Emanuela Orlandi”. Ben 483 milioni di lire. Così, su facebook Emiliano Fittipaldi ha postato una parte del suo articolo uscito su Repubblica e Il Corriere della Sera in cui rivela di essere in possesso di un “documento choc” sulla ragazzina che viveva nella Santa Sede, poi scomparsa nel 1983. “Leggendo il resoconto e seguendo le tracce delle uscite della nota, che l'estensore attribuisce al cardinale Lorenzo Antonetti, sembra che il Vaticano abbia trovato la piccola rapita chissà da chi, e che abbia deciso di trasferirla in Inghilterra, a Londra”, prosegue Fittipaldi.

Da quanto si legge nell’articolo, il giornalista de L’Espresso sostiene che quei documenti gli sono stati consegnati da una fonte che “dopo aver tergiversato per alcune settimane” al terzo appuntamento “ha ammesso di avere il dossier”. Per poi lasciarglielo al quarto incontro. "Te li do solo perché credo che sia venuto il momento di far luce sulla storia."

Il dossier. Una cartellina con cinque fogli. Il dossier in mano a Fittipaldi è una lettera di cinque pagine, datata marzo 1998. “Scritta al computer o, forse, con una telescrivente, ed è inviata (così leggo in calce) dal cardinale Lorenzo Antonetti, allora capo dell'Apsa (l'Amministrazione del patrimonio della Sede apostolica), ai monsignori Giovanni Battista Re e Jean-Louis Tauran”. La lettera sembrerebbe, dice ancora il giornalista de L’Espresso, “un documento di accompagnamento a una serie di fatture e materiali allegati di quasi duecento pagine che comproverebbero alla segreteria di Stato le spese sostenute per Emanuela Orlandi in un arco di tempo che va dal 1983 al 1997”. Anni in cui la giovane sarebbe stata trasferita in ostelli femminili. Per 14 anni le sarebbero state pagate “rette, vitto e alloggio”, “spese mediche” e “spostamenti fino al 1997, quando l'ultima voce parla di un trasferimento in Vaticano e il disbrigo delle pratiche finali”. Soldi sborsati dalla Santa Sede che ammonterebbero a 483 milioni di lire e che vanno a infittire la trama della storia di Emanuela Orlandi e della sua scomparsa.

Chi sono i due monsignori della lettera. Ai vertici della Curia negli anni ‘90 c’erano Giovanni Battista Re, il sostituto per gli Affari generali della segreteria di Stato della Santa Sede, e Jean-Louis Tauran a capo dei Rapporti con gli stati che, come spiega il sito del Vaticano, "coadiuva il Sommo Pontefice nell'esercizio della sua suprema missione" e come tali i due “si sarebbero occupati direttamente della vicenda Orlandi” mentre il nome di Re era spuntato fuori già dalla lettura della prima sentenza istruttoria sul caso, firmata dal giudice Adele Rando nel 1997”.

Quando il caso Orlandi era stato chiuso. Il 6 maggio 2016 la Cassazione aveva confermato l’archiviazione dell’inchiesta secondo cui il caso di Emanuela Orlandi veniva definitivamente chiuso dal punto di vista giudiziario giudicando “inammissibile il ricorso della famiglia contro l’archiviazione” da parte della procura di Roma che nel maggio del 2015 aveva sostenuto che non erano emersi “Elementi idonei a richiedere il rinvio a giudizio di alcuno degli indagati”.

L’importanza del dossier. Come sostiene il Fittipaldi se il documento fosse vero quella pagine aprono “squarci clamorosi e impensabili sulla storia della Orlandi”. Se è un falso sarebbe “un apocrifo che segna una nuova violenta guerra di potere tra le sacre mura”.

Dal rapimento il 22 giugno 1983 alle piste che portarono negli anni ad Ali Agça, allo Ior di Marcinkus, alla Banda della Magliana fino alle recenti novità, scrive Edoardo Frittoli il 18 settembre 2017 su Panorama. Il caso della scomparsa di Emanuela Orlandi tiene in sospeso l'Italia dal 22 giugno del 1983, da quando cioè la quindicenne cittadina vaticana non è più tornata a casa. Nel corso del tempo sono state molte le ipotesi che hanno collegato il mistero Orlandi prima all'attentato a Giovanni Paolo II, poi alla banda della Magliana e allo Ior infine a casi di pedofilia. Di questi giorni l'ultima novità: documenti che ne dimostrerebbero l'essere in vita almeno fino al 1997. Ecco dunque le tappe principali della cronistoria di uno dei gialli più intricati della storia italiana.

22 giugno 1983 - la scomparsa. Emanuela Orlandi, 15 anni, figlia di un funzionario del Vaticano, non fa rientro a casa dopo la lezione pomeridiana di musica. Sono le ore 19,00. L'ultima persona con cui ha un contatto telefonico è la sorella con la quale parla di una fantomatica proposta di lavoro come promotrice di cosmetici per conto dell'atelier delle Sorelle Fontana che le sarebbe stato offerto quel giorno.

23 giugno 1983. Il padre di Emanuela formalizza la denuncia di scomparsa al commissariato "Trevi". Partono le ricerche.

25 giugno 1983. A casa della famiglia Orlandi giungono le prime telefonate di segnalazione. Tra le molte inattendibili, giunse anche quella del sedicenne Pierluigi, che sosteneva di aver incontrato Emanuela a Campo dei Fiori nel ruolo di promotrice di cosmetici. Fu tenuto in considerazione in quanto la descrizione della ragazza pareva molto dettagliata. Tre giorni dopo fu la volta di tale Mario, titolare di un bar sul tragitto che Emanuela percorreva quasi quotidianamente il quale sosteneva che la giovane gli avesse confidato l'intenzione di allontanarsi volontariamente dalla famiglia. L'ipotesi si rivelerà priva di fondamento. Contemporaneamente il cugino degli Orlandi e agente del Sismi Giulio Gangi si mette sul tracce dei testimoni che avrebbero visto Emanuela parlare nei pressi del Senato con un uomo sceso da una Bmw verde. Rintracciata le vettura, Gangi entra in contatto in un residence con una misteriosa donna che lo congeda freddamente. Poco dopo Gangi scopre che i superiori sono stati avvisati delle sue indagini. Gangi sarà allontanato dal caso ed epurato dai superiori dieci anni dopo i fatti.

5 luglio 1983. Giunge alla Sala Stampa vaticana la prima telefonata di un uomo con accento anglosassone chiamato L' Amerikano. Sostiene per la prima volta il legame tra il rapimento Orlandi e l'attentato a Giovanni Paolo II. La ragazza sarebbe nelle mani dei "Lupi Grigi" per essere scambiata con l'attentatore del Pontefice Ali Agça. Le 16 telefonate anonime non troveranno mai un riscontro reale nelle piste degli inquirenti.

1995. Dai rapporti dell'allora vicecapo del Sisde Vincenzo Parisi emergerebbe la figura del Cardinale Paul Marcinkus, all'epoca presidente dello Ior, la banca vaticana legata alla vicenda del crack del Banco Ambrosiano e dell'omicidio di Roberto Calvi.

2005. Emerge la pista che legherebbe il rapimento Orlandi alla Banda della Magliana. La ragazza sarebbe stata rapita per ordine di Renato De Pedis, uno dei capi dell'organizzazione criminale su ordine del cardinale Marcinkus. Questa pista sarà indicata dalle testimonianze di Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore Bruno Giordano la quale ebbe una relazione proprio con De Pedis. Secondo le testimonianze (rese poco affidabili dalla sua dipendenza dalla cocaina) la Minardi avrebbe confermato il coinvolgimento di De Pedis come esecutore e di Marcinkus come mandante. Emanuela non sarebbe stata uccisa subito bensì rinchiusa nei sotterranei di un appartamento del quartiere Monteverde Nuovo. Attendibile fu l'indicazione della Minardi che portò al ritrovamento della Bmw usata per il trasferimento della Orlandi, appartenuta a due personaggi effettivamente legati alla Banda della Magliana e al caso Calvi.

2011. Antonio Mancini, criminale pentito della banda della Magliana conferma ai giornalisti il coinvolgimento della banda, che avrebbe rapito Emanuela per ricattare lo Ior di Marcinkus in quanto reo di avere "bruciato" soldi delle attività illecite dell'organizzazione criminale nel crack del Banco Ambrosiano. Il fatto che De Pedis sia stato seppellito nella basilica di Sant'Apollinare dimostrerebbe il ruolo di mediatore che il capo della banda ebbe nella restituzione del denaro del Banco Ambrosiano.

2012. È la volta della pista della pedofilia, aperta dal capo degli esorcisti americani Gabriele Amorth. Il prelato sostenne che Emanuela sarebbe stata coinvolta in un giro di festini a base di droga e sesso organizzati in Vaticano che avrebbero riguardato laici e prelati altolocati. Sarebbe rimasta uccisa accidentalmente ed il suo cadavere occultato. 

2014. Legata al caso Vatileaks è la vicenda della cassaforte svaligiata in Vaticano il 30 marzo contenente documenti amministrativi relativi alle spese dell'Apsa (Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica). Poco dopo il furto i documenti della cassaforte saranno restituiti in un plico.

Settembre 2017. Inizia a farsi strada l'ipotesi che Emanuela Orlandi sia rimasta in vita almeno sino al 1997, in quanto uno dei documenti amministrativi stilati in quell'anno fa specifica menzione alle spese sostenute per le "attività relative alla cittadina Emanuela Orlandi".

Era un giallo “normale”… Poi diventò un affare di Stato (Vaticano), scrive Paolo Delgado il 19 Settembre 2017 su "Il Dubbio". La scomparsa di Emanuela Orlandi, da Marcinkus alla banda della Magliana, una storia di misteri e depistaggi sullo sfondo delle nuove rivelazioni del libro di Fittipaldi pubblicate dall’Espresso. C’è il terrorismo internazionale: l’attentato al papa, i Lupi grigi, la guerra santa del Papa guerriero (e polacco) contro l’idra rossa, la Stasi che s’impiccia e depista per stornare gli sguardi dallo zampino di Bucarest nell’attentato del lupo Alì. C’è il nido di vespe finanziarie che ruotava intorno al Ior, con di mezzo il chiacchieratissimo banchiere di Dio Paul Marcinkus, il banco Ambrosiano, la loggia più famosa del mondo e di conseguenza qualche ombra sinistra, quella dei Frati Neri con il loro bravo impiccato, quella dell’attentato in cui al posto della vittima predestinata finì ammazzato il killer, nonché boss della Magliana Danilo Abbruciati. E c’è la bandaccia naturalmente, tirata in mezzo dal pentito Antonio l’Accattone Mancini ma anche da Sabrina Minardi, ex moglie del calciatore dal piede dorato Bruno Giordano, ex amante o sedicente tale di Renatino De Pedis, il boss ripulito ammazzato in mezzo alla strada in pieno giorno, a Campo de’ Fiori, nel 1990 e destinato poi a riposare, sino alla recente cremazione, nella basilica di sant’Apollinare, con papi e santi ma per la verità anche con gente di meno nobili natali e senz’aureole di sorta. Testimoni discutibili, che non lesinano strafalcioni ma che, specie la Minardi, ogni tanto qualche riscontro lo hanno portato. Entrambi addossano al sepolto in sant’Apollinare la responsabilità del ratto senza specificarne però in modo sia pur minimamente convincente il movente. C’è l’ombra perversa di festini a base di adolescenti ancora quasi bimbe per prelati porconi e fatali incidenti, e non è neppure tutto. Grotte sotterranee che permettono di deambulare sotto la Capitale, sussurri di salme accumulate nei ridenti giardini del Vaticano, legami ipotizzati pur se mai provati con altre scomparse misteriose, a partire da quella di un’altra ragazzina, Mirella Gregori, un mese e mezzo prima della sparizione della Orlandi. Materiale che al confronto I Misteri di Parigi vagheggiati da Eugene Sue sembrano segretucci da educande. Il caso Orlandi è il vero grande giallo italiano. Lo resterebbe anche se, come sostiene il giornalista che più di ogni altro è andato a fondo nel fattaccio, Pino Nicotri, tutto questo clamore che da quasi 35 anni non si attenua fosse solo frutto di una perversa spirale mediatica, uno show troppo ghiotto, con audience troppo malata e rinnovatasi nel tempo per essere abbandonato. Perché anche in quel caso la somma di depistaggi, interferenze, intrecci poco districabili di bugie e verità basterebbero a rendere quella scomparsa l’evento forse più clamoroso nella storia criminale della Capitale e del Paese tutto. Le ultime a vedere viva Emanuela Orlandi, 16 anni non ancora compiuti, furono due compagne di corso nella scuola di musica di sant’Apollinare dove la ragazza faceva, pare, mirabili progressi con il flauto. Si incontrarono alla fermata dell’autobus di fronte al Senato intorno alle 19 del 22 giugno 1983. Emanuela raccontò di una allettante proposta di lavoro: 350mila lire per pubblicizzare una linea di prodotti di bellezza. Le suggerirono di stare in campana. Promise di decidere solo dopo aver chiesto il permesso a casa e in effetti telefonò alla sorella che le suggerì di aspettare e parlarne con i genitori. Poi le tre amiche si separarono e da quel momento di Emanuela non si è più saputo niente. Era una ragazza tutta casa, scuola e Chiesa, dissero parenti e amici, impossibile sospettare qualche frequentazione equivoca. Quasi vent’anni dopo l’avvocato della famiglia, Gennaro Egidio, smentì: «I motivi della scomparsa sono molto più banali di quello che si è fatto credere. Contrariamente alle dichiarazioni dei familiari, Emanuela di libertà ne aveva molta». Le nuove indagini confermarono: Emanuela era una ragazza normale. Le capitava di saltare la scuola e firmarsi la giustificazione da sola. Tra i ragazzi un po’ più grandi che frequentava ce n’erano alcuni che usavano stupefacenti, o che andavano a rimorchio di ragazze per le strade da quel punto di vista ottimamente frequentate intorno al Vaticano, a uno era capitato pure di prostituirsi. Secondo il legale sarebbe stato casomai opportuno scandagliare meglio il giro di amicizie dalla zia paterna. Egidio promise a Nicotri di dire qualcosa in più su quelle frequentazioni di zia Anna a breve, ma era malato e spirò prima di farlo. Nulla di speciale, se non, forse, che l’identikit alla santa Maria Goretti ostacolò forse sul momento la pista più ovvia, quella di un rimorchio da parte dello sconosciuto che offriva soldi facili e soprattutto visibilità patinata finito in tragedia. Fu infatti facile appurare che non c’era nessuna ricerca di volti nuovi da parte di quella società di cosmetici e che, in compenso, il marpione e forse peggio aveva già provato ad adescare fanciulle in quel modo, e nella stessa zona, altre volte. A rendere il caso qualcosa in più che non uno dei tanti casi di ragazze sparite che costellano da decenni le puntate di Chi l’ha visto? fu il papa in persona. Emanuela era cittadina vaticana e appena dieci giorni dopo, il 3 luglio, durante l’Angelus, Giovanni Paolo II lanciò un appello ai rapitori. Ne seguirono altri 7. Fu quell’appello a evocare la tempesta o si sarebbe prodotta comunque? Difficile, anzi impossibile dirlo. Di fatto, appena due giorni dopo, un uomo con accento americano telefonò in sala stampa vaticana per chiedere uno scambio con Alì Agca, il turco che nel 1981 aveva sparato al papa. Arrivarono altre telefonate: una a un’amica della giovane scomparsa: amica di fresca data, il cui numero di telefono Emanuela aveva segnato proprio poche ore prima di sparire. Altre 15 dall’Americano che i periti ipotizzarono potesse essere Paul Marcinkus, il cardinale al vertice della banca vaticana, lo Ior, in persona. Un anno dopo, tanto per restare in tema turco, arrivò anche la chiamata dei Lupi grigi, l’organizzazione in cui aveva militato Agca. Si scoprì poi che a chiamare erano invece i servizi tedeschi dell’est, per sviare dai colleghi bulgari il sospetto di aver organizzato l’attentato del 1981. A tirare in ballo la Magliana, già nel nuovo millennio, fu prima una telefonata anonima, poi Mancini, infine, e con dovizia di particolari Sabrina Minardi. Confusa, anche per via dei decenni di stupefacenti assunti nel frattempo, spesso incoerente, pasticciona sulle date, la (sedicente) ex amante di Renatino non si poteva né si può definire del tutto non credibile. Aveva parlato lei per prima di un rifugio sotterraneo che si prolungava per chilometri, al quale si poteva accedere da un appartamento nel quale sarebbe stata tenuta prigioniera Emanuela, e l’immenso sotterraneo, quasi una città sotto la metropoli, c’è davvero, con tanto di lago sotterraneo. Aveva raccontato di essere andata anche lei a prelevare la Orlandi, con una BMW, in quel 22 giugno 1983, e l’automobile è saltata fuori davvero, proprietà del faccendiere Flavio Carboni, uno dei ballerini impegnati nella danza macabra intorno a Roberto Calvi poco prima dell’impiccagione del banchiere sotto il Ponte dei Frati neri a Londra, passata poi a uno dei tanti che gravitavano intorno alla Banda più celebrata della storia criminale italiana. Inevitabilmente il dossier spuntato dal Vaticano ricaricherà le batterie del carrozzone mediatico. Autorizzerà sospetti, permetterà di lanciarsi in nuove ipotesi, attirerà picchiatelli e bugiardi meno disinteressati. Forse ha ragione Nicotri, convinto che di misterioso, in questo caso, ci sia solo il nome del bastardo che dopo aver attirato Emanuela in trappola l’ha ammazzata. Ma anche al netto dei mitomani e dei depistatori, che in questo caso sono stati davvero una legione, è difficile evitare la sensazione che qualcosa di misterioso, nel giallo della povera Emanuela, ci sia davvero.

Dietro l’altare”, il docu-film sugli abusi della Chiesa, scrive Francesca Spasiano il 26 luglio 2017 su "Il Dubbio". Una storia di violenze e insabbiamenti. Lucio Mollica racconta come è nato “Dietro l’altare”, il docu-film sui casi di pedofilia nella Chiesa. Una storia di violenze e insabbiamenti. Il lungo trascorso della Chiesa è costellato di capitoli bui e adesso lo scandalo degli abusi bussa alle porte del Vaticano. Se anche la commissione antipedofilia voluta da Papa Francesco si è rivelata insufficiente nell’affrontare la guerra alle tonache incriminate, sorge naturale lo scoramento dei più ottimisti. «Abbiamo un bisogno disperato di credere in papa Francesco. Il papa trasuda sincerità. È senz’altro un uomo buono. Quindi mettere in discussione le sue parole e misurare il loro divario con la realtà è stato più che uno sforzo intellettuale: uno sforzo emotivo, ancora più doloroso se l’argomento è quello degli abusi sui minori», racconta John Dickie nel presentare il suo ultimo lavoro, Dietro l’altare (Behind the altar), in onda stasera alle 21 in prima tv mondiale su LaF (Sky 139). Il documentario risponde alla crescente domanda di chiarezza sul tema della pedofilia, proprio mentre il dibattito sulle vicende di violenze sessuali investe la Santa Sede ai suoi vertici sulla scorta del caso George Pell. Il lavoro di inchiesta e investigazione internazionale realizzato dallo storico britannico riporta la preziosa testimonianza di vittime, esperti e religiosi: da Marie Collins a Padre Hans Zollner, entrambi membri della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori. Il docu-film – diretto dal regista messicano Jesus Garces Lambert e prodotto da GA&A Productions con ZDF/Arte, EO, Witfilm in associazione con Effe tv e altre nove broadcast internazionali – è un viaggio verso la verità, dagli Stati Uniti d’America alla Francia, dal Vaticano all’Argentina attraverso la Storia della Chiesa fino alla rivelazione di casi sconosciuti. Ce lo racconta Lucio Mollica, tra gli autori del documentario insieme a Vania del Borgo e lo stesso John Dickie. Il team si era già consolidato nel lavoro di scrittura di “Chiesa Nostra”, uno speciale che svela il sodalizio tra Chiesa cattolica e criminalità organizzata.

Quale contributo apporta questo documentario al lavoro di indagine sui casi di pedofilia nella Chiesa?

«L’obiettivo di questo film era documentare quanto sta avvenendo sotto il papato di Francesco sul tema della lotta agli abusi sui minori. La sorpresa è che la Chiesa non ha davvero voltato pagina nonostante l’impegno promesso dal pontefice. Le aspettative deluse sono al centro del nostro lavoro».

Si esprime dunque un giudizio nei confronti dell’operato di Papa Francesco?

«Il papa ha più volte ribadito intransigenza contro quei preti protagonisti d’abusi e ha promesso tolleranza zero. Non abbiamo motivo di dubitare della sincerità delle sue parole, ha ancora il tempo per riprendere il cammino di riforme avviato da Benedetto XVI, ma episodi di pedofilia interni alla Chiesa continuano a verificarsi numerosi in ogni parte del mondo senza che vi sia una concreta assunzione di responsabilità e un intervento deciso. Se Papa Francesco non vuole vanificare la bontà dei suoi intenti deve correre ai ripari e schierarsi con provvedimenti severi».

Lo scandalo del Caso Pell ha coinvolto per la prima volta la Chiesa nelle sue più alte sfere, accentrando il dibattito sulle vicende di pedofilia, oggi più acceso che mai. Cosa si nasconde “dietro l’altare”?

«Sono molte le figure controverse tra la rappresentanza ecclesiastica. Si pensi al cardinale cileno Errazuriz chiamato a far parte del gruppo di 9 alti prelati che assistono papa Francesco nel governo della Chiesa Universale nonostante sia stato criticato dalle vittime per non aver condotto adeguatamente le indagini sul più noto caso di pedofilia del clero cileno. L’imperativo è rompere la coltre di silenzio. Molti episodi si sarebbero potuti evitare se si fosse prestato attenzione alle denunce dei parenti delle vittime, e se la Chiesa si fosse prestata a collaborare con le autorità giudiziarie».

Sappiamo che il lavoro di inchiesta condotto ha una portata internazionale. Come avete selezionato le tappe del viaggio?

«Il numero di vittime è davvero impressionante. Dopo un lungo lavoro di scrematura abbiamo selezionato le storie che ci sembravano più rappresentative del fenomeno di abusi e violenze diffuso in tutto il mondo. Siamo partiti dalla Francia, a Lione dove sono emersi episodi di abusi su almeno 70 bambini. Tornando in Italia, ci siamo soffermati sul caso di Don Inzoli, senz’altro rappresentativo della lentezza della burocrazia e della Chiesa nell’affrontare la lotta ai crimini sessuali. Preziosa la testimonianza di Marie Marie Collins, ex membro della Pontificia Commissione per la tutela dei Minori e a sua volta vittima, che ci ha raccontato come il percorso di riforme intrapreso abbia infine condotto alle sue dimissioni a cause delle resistenze incontrate in Vaticano. Negli Stati Uniti, siamo stati ad Altoona-Johnstown, in Pennsylvania, per un’inchiesta su centinaia di bambini vittime di abusi sessuali: a seguito degli scandali esplosi l’atteggiamento della procura è di tolleranza zero. Infine l’Argentina, il paese del Papa, con le prime ed esclusive interviste alle vittime di Padre Corradi, arrestato con l’accusa di aver abusato sessualmente di alcuni studenti sordomuti dell’Istituto Provolo di Mendoza».

Che tipo di resistenza avete incontrato nel corso della vostra ricerca?

«Il problema principale per chi conduce indagini di questo tipo è di dover confrontarsi con una Chiesa che si ostina a mantenere sotto silenzio tutto ciò che riguarda gli abusi sessuali. Questo vale sia per noi giornalisti, che per i legali delle vittime e soprattutto per i magistrati. Nel film raccontiamo il caso di un pm italiano che si è visto rifiutare dal Vaticano una rogatoria internazionale. I processi canonici sono sotto segreto pontificio, e per chi tradisce questa regola ci sono pene severissime. Omertà e silenzio sono al centro di un atteggiamento increspatosi negli anni».

Il tema degli abusi sui minori è prima di tutto un argomento fatto di sofferenza umana. Come raccontare la pedofilia?

«È stato molto difficile confrontarsi con storie così raccapriccianti, che vedono al centro i bambini. Definiamo spesso i protagonisti di queste vicende delle “vittime”, eppure io li appellerei “eroi”: nonostante il peso ditali sofferenze, trovano il coraggio di raccontare la propria storia e di sfidare la autorità, vittime ancora una volta. Mi piacerebbe segnalare tra le testimonianze raccolte il ruolo delle donne, sempre in prima linea nel rompere il silenzio. È forse proprio da loro che la Chiesa dovrebbe ricominciare per condurre la “rivoluzione” necessaria».

Estratto dell’articolo di Giacomo Galanti e Leonardo Meuti per “la Repubblica” giovedì 19 ottobre 2023
Tre grandi sospettati, un lungo processo, nessun colpevole. È un rebus che dura da oltre 30 anni quello di via Poma, piccola strada nel quartiere della Vittoria a Roma dove il 7 agosto 1990 fu uccisa la ventenne Simonetta Cesaroni. Il suo corpo massacrato da 29 coltellate fu ritrovato nell’ufficio regionale dell’associazione degli Ostelli della gioventù dove lavorava come segretaria contabile. 

[…] ci sono alcuni elementi mai presi in considerazione che potrebbero contribuire a risolvere il caso. Elementi messi in luce nel documentario “Via Poma. Un mistero italiano”, prodotto da Gedi Digital in collaborazione con Rai Documentari in onda stasera in prima serata su Rai 2. Il racconto parte da due testimonianze inedite. La prima è quella di una ex dipendente della stessa associazione per cui lavorava la vittima. 
Dalle sue parole emergono alcuni dettagli importanti soprattutto sul ruolo controverso dell’allora presidente regionale degli Ostelli della gioventù, Francesco Caracciolo di Sarno. Proprio di recente su Caracciolo, morto nel 2016, sono affiorati alcuni dubbi sull’alibi. La seconda è invece quella di un residente a due passi da via Poma che proprio nel pomeriggio del delitto fece un incontro dai risvolti inquietanti.
La vicenda è scandita dalle tre grandi “svolte” del caso. Una pochi giorni dopo il delitto, quando il portiere del palazzo, Pietrino Vanacore, viene arrestato. Ma su Vanacore, che si suiciderà in circostanze misteriose, non ci sono prove. Il secondo a essere sospettato è poi Federico Valle, nipote di un celebre architetto che abitava all’ultimo piano del comprensorio. Ma anche il ragazzo viene prosciolto. Passano 20 anni e arriva l’ultimo colpo di scena: l’ex fidanzato della vittima, Raniero Busco, va a processo incastrato dal Dna e da un presunto morso. 

Si tratta di un altro buco nell’acqua perché Busco viene assolto.

Nel documentario emerge una dimensione mai esplorata dove si muovono oscuri personaggi che non hanno detto tutto quello che sapevano. O che addirittura hanno sempre mentito. Perché in pochi conoscono il muro di gomma fatto di bugie, mezze verità e depistaggi eretto intorno al palazzo e all’ufficio per impedire di sapere quel che è successo davvero quel pomeriggio di 33 anni fa. Inoltre, è evidente come alcuni errori o dimenticanze abbiano escluso a priori una cerchia di soggetti che il 7 agosto potevano essere presenti in via Poma.
L’intera storia, che ha come narratore principale il vicedirettore di Repubblica Carlo Bonini, è stata ricostruita attraverso un ricco materiale d’archivio che mostra quanto il caso abbia catturato l’attenzione dell’opinione pubblica. In tv uno dei primi a occuparsene è stato Corrado Augias in una puntata di “Telefono giallo”, intervistato per questa occasione. Lo stesso vale per Franca Leosini che sul delitto ha condotto una puntata di “Ombre sul giallo”. 

Sul caso, riaperto dalla Procura di Roma nel 2022, nel documentario intervengono alcuni dei protagonisti. Molti però mancano all’appello. Alcuni perché sono morti, altri perché non vogliono parlare. Dopo 33 anni, il delitto di via Poma fa ancora paura.

Omicidio Simonetta Cesaroni, una pista porta al mostro di Bolzano: «Marco Bergamo la conobbe in una chat». Storia di Ferruccio Pinotti su Il Corriere della Sera mercoledì 27 settembre 2023.

Il fronte delle indagini su uno dei più misteriosi «cold case» italiani, ovvero il celebre delitto di Via Poma, l’omicidio di Simonetta Cesaroni avvenuto a Roma il 7 agosto 1990, registra nuovi spunti interessanti. Una serie di elementi sta infatti arricchendo i filoni di indagine a disposizione della Procura di Roma e degli inquirenti, che nel 2022 hanno riaperto le indagini per arrivare a dare un volto al killer della ragazza uccisa con 29 coltellate nella sede dell’Aiag, l’associazione italiana alberghi della gioventù.

Una delle nuove piste è contenuta nel libro «Anatomia di un serial killer — Marco Bergamo, storia del mostro di Bolzano» (Athesia) di Paolo Cagnan, giornalista e scrittore, condirettore de Il mattino di Padova e altri tre quotidiani veneti. Stando a questa pista Marco Bergamo, il serial killer di Bolzano, potrebbe avere ucciso Simonetta Cesaroni. Bergamo nel 1994 fu condannato all’ergastolo per una serie di femminicidi avvenuti tra il 1985 e il 1992. Cagnan elenca dieci elementi a sostegno della sua ipotesi. Quello più importante è la testimonianza, finora inedita ma concreta e figurante anche in atti giudiziari, di una ex SysOp (moderatrice) di alcune chat del Videotel, secondo la quale Marco Bergamo e Simonetta Cesaroni si erano conosciuti in quel luogo virtuale. Ne sarebbe nato un rapporto erotico on line culminato in un incontro terminato nell’omicidio di fronte al rifiuto di lei. Cagnan evidenzia anche le ripetute assenze dal lavoro di Bergamo e offre una rilettura del suo alibi per il 7 agosto 1990.

Le verifiche, possibili ancora oggi a dispetto del tempo passato, sono dettagliate sia nel rapporto inviato da Cagnan alla Procura di Roma, sia nel libro: le comparazioni sul sangue e sul Dna del possibile assassino di via Poma e il profilo biologico e genetico di Bergamo; la dinamica omicidiaria di via Poma e le analogie con il modus operandi di Bergamo, dal pattern rifiuto-schiaffo-raptus omicida sino all’overkilling; il feticismo come elemento ricorrente e caratterizzante di tutti i sei delitti presi in esame e comparati. Altri possibili collegamenti riguardano la somiglianza fisica e altre caratteristiche comuni tra Cesaroni e le cinque vittime accertate di Bergamo. Al Corriere Paolo Cagnan spiega: «Il delitto Cesaroni presenta molti aspetti tipici degli omicidi seriali: l’eccesso di accanimento sulla vittima, la ricomposizione feticistica della scena del crimine, la possibile conoscenza virtuale pregressa. Certo esistono nella vicenda elementi anomali e indicazioni di depistaggi che suggeriscono altre chiavi di lettura, forse non incompatibili con l’esistenza di un “secondo livello”. Sta agli inquirenti prendere in esame tutte queste piste».

Accanto a questa pista ce ne sono altre. Sono stati compiuti nuovi accertamenti sull’allora presidente Aiag (associazione italiana alberghi della gioventù) Francesco Caracciolo di Sarno dopo le rivelazioni rilasciate, 32 anni dopo, da una ex collaboratrice che ha smentito l’alibi del presidente degli Ostelli della Gioventù dove lavorava la ventenne. L’inchiesta è stata riaperta per omicidio volontario, ma l’uomo al centro dei sospetti è morto sei anni fa. Un’ex collaboratrice di Caracciolo di Sarno ha deciso di raccontare la sua verità ad un ex poliziotto che a sua volta ha riferito alla famiglia Cesaroni il racconto della donna. I familiari di Simonetta si sono subito recati in Procura per depositare un esposto che ha riaperto le indagini con l’obiettivo degli inquirenti di risolvere il delitto di via Poma. L ’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno è stato Presidente regionale degli Ostelli della Gioventù e i suoi uffici si trovavano proprio in via Poma. Simonetta Cesaroni, all’epoca dei fatti, lavorava come segretaria presso la Re.Li Sas, uno studio commerciale, che collaborava con Caracciolo di Sarno, e Cesaroni si recava lì alcuni giorni alla settimana per svolgere il lavoro di contabile. Il giorno della morte, Simonetta si trovava presso gli uffici di via Poma 2, per svolgere il suo lavoro. Avrebbe dovuto chiamare Salvatore Volponi, il suo datore di lavoro, per aggiornarlo. L’ultimo segnale che Cesaroni era ancora viva risale alle 17.15 quando telefonò a un’altra impiegata, Luigia Berrettini, mentre Volponi non riceverà mai la sua chiamata. Oggi, l’alibi che Caracciolo di Sarno diede agli inquirenti all’epoca dei fatti, potrebbe essere falso, secondo il racconto fatto dall’ex collaboratrice. 

Le rivelazioni di Luciano Porcari

Ci sono poi le indicazioni offerte, anche in sede di Commissione Antimafia, da una complessa figura, Luciano Porcari, il cui racconto dell’omicidio Cesaroni emerse per la prima volta in un’inchiesta del del 2010, a firma di chi scrive. Le rivelazioni di Porcari, oggi 83enne, figurano tra le carte di una inchiesta del ‘96, la «Cheque to Cheque» della Procura di Torre Annunziata, riguardante un giro di tangenti e traffico di armi nell’ambito degli appalti concessi in Africa a società italiane. L’inchiesta riporta le dichiarazioni di Luciano Porcari a un bravo investigatore, il maresciallo Vincenzo Vacchiano. Porcari rivelava un particolare inquietante ma illuminante allo stesso tempo: Simonetta Cesaroni avrebbe svolto il ruolo di segretaria presso una società la cui sede era a Via Poma e quindi sarebbe entrata a conoscenza del giro di maxi-tangenti che solitamente «oliavano» l’attività delle società dedite agli appalti concessi in Africa. «La povera Simonetta Cesaroni» – rivela Porcari al Corriere – era la ragazza incaricata di stipulare i contratti per conto di queste società al di fuori del suo lavoro normale e quindi inevitabilmente era a conoscenza di queste operazioni».

Estratto dell’articolo di Paolo Cagnan, Autore del libro “Anatomia di un serial killer – Marco Bergamo, storia del mostro di Bolzano” (Athesia), per lastampa.it giovedì 31 agosto 2023. 

Simonetta Cesaroni è stata uccisa da Marco Bergamo, il “mostro” di Bolzano. Sì, insomma: non il portiere, non il giovane strampalato, non il fidanzato. Ma un serial killer venuto dal Nord. È la tesi che espongo in un libro intitolato “Anatomia di un serial killer”, e che ho sottoposto anche all’attenzione della procura di Roma, che sul caso di via Poma ha un fascicolo contro ignoti aperto ancora nel marzo 2022. 

[...] 

E adesso, ci mancava solo questa strampalata teoria del serial killer, penseranno in molti. Epperò… Bergamo è stato condannato all’ergastolo per l’uccisione di cinque donne: delitti avvenuti tra il 1985 e il 1992.

Possibile che per sette lunghi anni quel sadico sessuale dall’aria mansueta – definizione degli psichiatri forensi – non abbia colpito? [...] 

Marco è introverso, solitario. Non ha amici né fidanzate. Vive con i genitori e nel 1990 ha 24 anni. Suo fratello lavora alla SIP; chissà, magari gli ha fornito il Videotel con cui ha conosciuto Simonetta. L'antesignano delle chat, ma solo testuali.

Ecco, l’estate del 1990. Sette agosto. La finale dei mondiali si è disputata all’Olimpico un mese prima e la Germania ha sconfitto l'Argentina. Simonetta e Marco si sono conosciuti attraverso le chat del Videotel. C’è una chimica. Nasce la voglia di incontrarsi di persona. Lui decide di andare a trovarla a Roma. Si sono sentiti anche al telefono, lei gli ha fornito l’indirizzo: sarà sola in ufficio, quel pomeriggio. 

Lui prende prima il treno, poi la metro. Raggiunge via Poma, lei gli apre. È la prima volta che lo vede di persona. Lui, goffo e impacciato, tenta un maldestro approccio sessuale, lei lo respinge – o forse lo deride – e viene barbaramente uccisa. Poi lil femminicida si allontana, verso un treno notturno per tornare a Bolzano. Non è un delitto premeditato, la furia omicida scatta dal rifiuto. Come altre volte.

Pure congetture? Certo, può essere. Ma ci sono anche fatti concreti. Il gruppo sanguigno di Bergamo, A Rh positivo, è lo stesso dell’assassino di via Poma. E il DNA, ricavato con l’ancora scarna tecnologia dell’epoca, potrebbe davvero essere il suo, se si dimostrasse un errore nella “lettura occhiometrica” di una coppia di alleli. Cose complicate, ma che i genetisti potrebbero certo verificare. Se qualcuno glielo chiedesse. 

E l’analisi della scena del delitto, poi, sembra presentare così tante similitudini con i cinque delitti attribuiti a Bergamo. L’assassino di via Poma ha dimestichezza con l’uso dei coltelli. L’arma del delitto non si è mai trovata. Un tagliacarte, fu detto. Io ipotizzo un pugnale, di quelli che il killer Bolzano portava sempre sotto la cintola. Simonetta viene colpita con un violentissimo schiaffo e cade a terra. Anche la studentessa quindicenne da lui uccisa nel 1985 venne prima schiaffeggiata. E poi un tentativo di strangolamento, come per un’altra delle vittime del mostro. E un’altra donna bolzanina è stata massacrata con l’omicida che la sovrastava, a cavalcioni. Come con Simonetta. 

Diciannove colpi, in via Poma: overkilling, un accanimento che può indicare volontà punitiva o odio verso le donne, tutte le donne. 

E poi la sparizione degli indumenti intimi: Bergamo era un feticista riconosciuto. Pure la ricomposizione ritualistica della scena del delitto, con il corpetto poggiato sul corpo, assomiglia a situazioni già viste in Alto Adige. Infine, non potrebbe essere lui quell’uomo giovane, alto e un po’ allampanato che Giuseppa De Luca, moglie del custode Pietrino Vanacore, disse di avere visto uscire dal complesso di via Poma, con un berrettino a visiera e un fagotto?

E adesso? La palla passa alla procura di Roma. Che dovrà innanzitutto decidere se giocare questa partita, oppure no 

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” l'8 agosto 2023.

[...] La verità sui fatti di via Poma è sempre possibile, dicono dalla commissione Antimafia, purché si indaghi nella direzione indicata dagli esperti. A conclusione degli approfondimenti, i consiglieri ravvisano «un’attività post delictum, intesa ad occultare il fatto omicidiario o...persino ad attuare un qualche proposito di spostamento del corpo dal luogo in cui fu poi rinvenuta». 

Per sgomberare il campo dai «depistaggi» che, all’indomani dell’uccisione di Simonetta Cesaroni (7 agosto 1990), condizionarono la rappresentazione dei fatti, è auspicabile «rivalutare... l’insieme degli esiti dei rilievi svolti sul materiale ematico al fine di considerare se siano esperibili ulteriori esami utili».

Le tracce di sangue, allora, potrebbero essere sottoposte a nuove verifiche. Vale poi la pena, a detta degli esperti, di ricostruire il ruolo giocato da Francesco Caracciolo Di Sarno, presidente dell’ Associazione italiana alberghi della gioventù (Aiag) per la quale Simonetta svolgeva mansioni di contabile e nella cui sede fu accoltellata. 

Influente e autorevole, Caracciolo Di Sarno, fu quasi certamente avvisato ben prima della polizia dal portiere dello stabile, Pietrino Vanacore (suicida nel marzo del 2010). Al presidente dell’Aiag, oggi morto, i vari protagonisti del giallo sembrano guardare come a un deus ex machina capace di orientare la ricerca della verità. Probabilmente sapeva ciò che gli investigatori faticarono a capire a cominciare dall’ora del delitto.

Gli esperti dell’antimafia sottolineano come quest’uomo, «altero e arrogante» (almeno nella rappresentazione della sua portiera), abitasse a pochi passi da via Poma. E che, dettaglio influente, fosse stato derubato della propria cassetta di sicurezza nel corso del famoso furto al caveau del tribunale progettato e realizzato da quel Massimo Carminati («Nero»; «Cecato»; «Pirata») titolare di un apprezzabile curriculum criminale a cavallo degli ultimi quarant’anni.

Il suggerimento allora? «Valutare l’ipotesi di più approfonditi atti investigativi volti a vagliare il possibile legame tra il furto nel caveau di cui fu vittima Caracciolo Di Sarno con gli uffici dell’Aiag e con il delitto». A dire che, forse, andrebbe riascoltato Carminati [...]. 

In una vicenda nella quale tempi e alibi si confermano centrali, dalla commissione antimafia presieduta da Chiara Colosimo, si invitano gli investigatori a «riconsiderare...l’esatta sequenza e l’orario di due gruppi di telefonate» quelle di Vanacore e i dialoghi fra Simonetta Cesaroni e le dipendenti Aiag Anita Baldi e Luigina Berrettini.

Non manca la serie di telefonate anonime [...]. Come pure non manca il fil rouge[...] con l’altro giallo dell’epoca. L’omicidio della contessa Filo Della Torre. Lo pseudo super testimone Roland Voller, accusatore di Federico Valle, fu rinviato a giudizio assieme a un ispettore «trovato in possesso di informative riguardanti l’omicidio di Alberica Filo Della Torre». [...]

Assassino, ti conosco Simonetta Cesaroni Panorama il 7 Agosto 2023

Da Panorama del 19 aprile 1992 I delitti si dividono in due categorie. La prima contempla crimini folli, privi di meditazione (pre o post), affidati a un'improvvisazione che nulla spartisce con la logica. È possibile che questa delittuosità che scaturisce dal raptus, dalla caduta dell'intento razionale, venga aiutata dalla combinazione del caso, dando vita a un rebus non risolvibile. La seconda categoria contempla invece crimini che, anche quando restano misteriosi, rivelano comunque i sintomi di una logica, per quanto perversa: l'assassino segue l' istinto ancestrale che lo porta in qualche misura a costruire il delitto, a cautelarsi. Il giallo di via Poma è un maledetto imbroglio perché caso raro rientra, nel suo sviluppo, in entrambe le categorie. Per metà si manifesta frutto di follia omicida; per metà si delinea organizzato, avvolto da una cura estrema per tutelare l'assassino. Non vi è dubbio, perciò, che ad agire siano state più persone: lo psicopatico e i suoi protettori. Questo avrebbe dovuto, fin dall' inizio, spianare la strada delle indagini. La turpe rappresentazione si compone dunque di due atti.

PRIMO ATTO È in azione l'uccisore. Il suo identikit? Si tratta di un uomo, alto, vigoroso, presumibilmente giovane, affetto da violente turbe sessuali, le quali non esplodono mai in un solo caso, ma devono, per forza di cose, aver dato segni in precedenza. Solo un tipo del genere avrebbe potuto esercitare una forza di penetrazione che ha portato a una profondità di dodici centimetri i 29 fendenti inferti, nel corpo della povera Simonetta, con un punteruolo (o tagliacarte) manovrato dall' alto al basso punto importante! in una successione rapida dov'è leggibile un rituale sadico, una sorta di "scrittura" che si è impressa dalla zona toracica al pube. Secondo i criminologi, questo è l'alfabeto esemplare con cui "scrive" il suo delitto lo psicopatico che è affetto da impotenza. Che c'entrava dunque, con l'esecuzione materiale del crimine, Pietrino Vanacore, che è padre e, fino a prova contraria, non ha mai dato segni di uno squilibrio che, nel genere, è sempre terrificante? Dall'indagine che si era arenata in varie paludi, emerge ora il nome di Federico Valle, giovane nipote del novantenne architetto Cesare Valle, che nello stabile insanguinato abita da un pezzo e fra quelle mura è quasi un'istituzione. Lo sblocco della macchina poliziesca è venuto dalle affermazioni del supertestimone di turno, presentato come un amico di famiglia dei Valle (ma il padre di Federico Valle ha negato questa amicizia), un signore che ha avuto guai con la giustizia per truffa e bancarotta fraudolenta. Egli avrebbe "percepito" (sic!) brani di conversazione, sensazioni, comportamenti. D'accordo, esistono anche i rabdomanti del crimine, il che non elimina il terrore che un innocente possa di nuovo venire sbranato sul tavolo chirurgico dei sospetti. Gli investigatori dovranno andarci con mille piedi di piombo, rispondendo subito, stavolta, alla domanda: il giovane Valle ha manifestato, nella sua vita, sintomi di psicopatia sessuale? Se sì, il cerchio potrebbe stringersi. Se no, attenti all' abbaglio. Perché qui abbiamo a che fare con un assassinio sadico, ma di quelli da manuale, e basta leggere qualsiasi trattato: il punteruolo (o tagliacarte) simbolo fallico per eccellenza, sostituto del pene che, nella pratica reale, non è in grado di compiere l' aggressione erotizzata, ecc. Si legge nei manuali: "Delitto sadico è considerato in particolare quello nel corso del quale sono state inferte ferite alle parti genitali della vittima, dopo che sono stati praticati squarci nel corpo... L' assassino non viene mai dal nulla: ha sempre rivelato, in molteplici casi, il suo sadismo". Per l' appunto.

SECONDO ATTO Entrano in scena i favoreggiatori; meglio ancora: i protettori. La meccanica ha avuto la sua esecuzione: lo psicopatico ha costretto Simonetta a denudarsi, forse a compiere gesti di autodegradazione, come succede spesso in casi del genere (vedi l'ordine, per esempio, di appaiare con pignoleria le scarpe). Ha quindi infierito con una forza tale da lasciare sui fianchi della vittima profonde ecchimosi procurate dalla stretta delle sue ginocchia. Ora, il delirio è passato, il sangue lo inonda, come inonda il pavimento. Si riaffaccia la lucidità e il mostro chiede aiuto. A chi? A qualcuno, ovvio, facilmente raggiungibile. Ossia a qualcuno che abita nel palazzo. Altre ipotesi sono assurde, a meno di non credere alla presenza di complici nell' appartamento sede dell' Associazione italiana degli alberghi della gioventù. Il che è da escludere: quel tipo di assassino è una regola agisce sempre da solo, perché il delitto gli procura, insieme a un' indicibile eccitazione, anche un' indicibile vergogna. Dunque, in aiuto dello psicopatico intervengono persone che hanno cura di lavare il pavimento, di sciacquare e strizzare lo straccio; una cura che è stata definita "da professionista". Vanacore e sua moglie, che di pulizie del genere fanno addirittura mestiere? Grande ingenuità, nel caso, non pensare che proprio un simile "marchio di pulizia" avrebbe giocato a loro sfavore. A meno che l' intento di far sparire il cadavere, e ogni altra traccia, col favore delle tenebre, non abbia forzato la mano, annebbiate le menti. Ipotesi, ipotesi... Ma, di nuovo, c'è una domanda che s'impone con una sua certezza: chi poteva nutrire tanto amore per l' assassino da impiegare tutta la propria lucida ragione, tutta la propria ansia connivente, per toglierlo dai guai? Perché quello stracciò è stato usato con un amore viscerale, oscuro e ancestrale come l' opposta spinta omicida? Ecco il punto. Credo che gli investigatori debbano partire dall' atto secondo della macabra rappresentazione, e proprio dalla parola che più stride, estranea, vilipesa, paradossale, in tanto scempio: l' amore. E' questa parola che rende la difficile equazione risolvibile.

Estratto dell’articolo di Pierangelo Sapegno per “La Stampa” lunedì 7 agosto 2023.

Non è che via Poma ricomincia da capo. Via Poma non è mai finita, è una storia che insegue quello che siamo diventati in tutto questo tempo che se n'è andato, 33 anni di misteri e di processi, di carne e sangue.  E di fantasmi. 

Attorno al corpo straziato di Simonetta Cesaroni ce ne sono stati tanti. E adesso che la relazione della Commissione parlamentare Antimafia inviata alla Procura ha chiesto di riaprire le indagini, continuiamo a percorrere sempre la stessa strada e a rifarci le stesse domande, nel grande buio che nasconde la verità.

In quelle 32 pagine arrivate ai magistrati sono annotate due cose soprattutto. La prima riguarda una macchia di sangue di gruppo A positivo, repertata dalla polizia sulla maniglia di una porta, mai presa in considerazione dagli investigatori, e comunque «appartenente a un soggetto fino ad ora ignoto», visto che «non ha trovato corrispondenza e compatibilità con i sospettati che sono stati indagati nel corso degli anni».

La seconda racconta di una telefonata fra la moglie di Mario Macinati, factotum dell'avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente degli Ostelli, uno dei datori di lavoro della vittima, e suo figlio Giuseppe. La signora dice di aver ricevuto più di una telefonata – almeno tre – quel pomeriggio del 7 agosto 1990, da un uomo che voleva mettersi in contatto con Caracciolo e che «faceva espressa menzione della notizia di una persona deceduta».

Quelle telefonate, inoltre, «non arrivarono tra le 20 e le 23, quando fu scoperto il cadavere di Simonetta Cesaroni, ma nel tardo pomeriggio». Secondo la Commissione questa informazione poteva essere fornita soltanto da «una persona che si fosse introdotta nell'appartamento scoprendo il cadavere e che avesse deliberatamente deciso di non dare l'allarme, ma di informare per primo il Caracciolo».

A questo punto, sostiene l'Antimafia, vi fu con ogni probabilità un'attività «post delictum intesa ad occultare l'omicidio». E «resta ragionevole credere che l'omicida fu persona che aveva un notevole livello di dimestichezza con lo stabile, se non proprio con l'appartamento. Si deve essere altresì trattato di qualcuno che poteva contare su un rapporto di confidenza con la vittima e che era in grado di approfittare della fiducia di Simonetta». 

Come se si volesse dare un corpo a questo fantasma, si sottolinea poi quanto sia altamente «probabile che l'omicida sia di gruppo sanguigno A, perché sarebbe altrimenti poco spiegabile che a tale gruppo sanguigno debbano essere ricondotte le macchie ematiche rinvenute su interno, esterno e maniglia della porta che apre la stanza dove venne ritrovato il cadavere». 

Cioè, era qualcuno che conosceva bene il palazzo, che aveva confidenza con Simonetta, ma che forse fino adesso non è mai stato sospettato. L'indagine è andata anche in questa direzione, ma sempre girandoci attorno. Ha cominciato così da quella sera, quando Paola Cesaroni si spaventò non sentendo più sua sorella e decise di chiamare uno dei titolari dell'ufficio, Salvatore Volponi. […]

Da allora abbiamo inseguito una verità stordita da tutto questo tempo che è passato. Si è partiti due giorni dopo, con i sospetti su Pietrino Vanacore, e alla fine è arrivata la sua strana morte a Torricella, Taranto, annegato in un metro d'acqua dopo aver lasciato un biglietto sul cruscotto della macchina: «Vent'anni di sospetti ti portano al suicidio». 

Ma in mezzo c'è stata la pista su Federico Valle […], e ci sono stati i tre processi all'ex fidanzato Raniero Busco, […] assolto in appello e Cassazione. Indizi trascurati e interrogatori mancati, macchie di sangue analizzate dopo vent'anni, tutto in quest'indagine infinita […]  è sembrato essere maledettamente lacunoso, intricato e confuso. Non è mancato niente a un caso come questo. È il brutto dei misteri, che ti offuscano la mente. Perché li facciamo più grandi se non riusciamo a capirli. E invece lo sappiamo che molte volte non li capiamo solo per colpa nostra.

Estratto dell’articolo di Ilaria Sacchettoni per il “Corriere della Sera” lunedì 7 agosto 2023. 

Come si fa con certi veggenti, interrogati più volte affinché sciolgano rebus o indovinelli, si guarda ora al palazzo. Un edificio tra tanti al civico 2 di via Poma, nel cuore multiforme del quartiere Delle Vittorie, a Roma, fra istituzioni, studi professionali e vecchie glorie della ristorazione romana divenute meta di appuntamenti e piccoli riti gastronomici. 

Il fabbricato […] potrebbe servire a riscrivere l’epilogo di uno dei gialli più significativi e tenaci della storia italiana, la morte violenta di Simonetta Cesaroni. Si cerca di «rivalutare» la posizione di chi abitava qui ma anche di chi aveva contatti con il territorio e con l’associazione italiana alberghi della gioventù (Aiag) presso la quale era impiegata Simonetta, per saperne di più. 

Un viaggio nel tempo a caccia di un colpevole plausibile tra i tanti già setacciati a suo tempo da un’autorità giudiziaria lacunosa e distratta. 

[…]  Ma quali sono gli elementi concreti a questo punto? Il testimone chiave dell’epoca, Vanacore, ha scelto il suicidio nel marzo 2010 (tre giorni prima di essere ascoltato come teste al processo contro Busco) mentre Federico Valle, l’enigmatico nipote di un architetto che abitava nel palazzo, era stato destinato a un’archiviazione già a suo tempo.

Incertezza perfino sull’arma del delitto che generazioni di investigatori (e cronisti) hanno voluto fosse un tagliacarte ma che oggi potrebbe essere altro, come ad esempio uno spadino da uniforme più lungo e appuntito. 

«I magistrati di Roma stanno cercando di appurare la compatibilità tra le ferite e un’arma differente, più acuminata» dice ancora l’avvocata Mondani. Luoghi. Persone. Oggetti. Tutto potrebbe essere riscritto. Si sa che quel giorno la contabile dell’Aiag avrebbe dovuto finire il suo lavoro part time per poi andare in vacanza. Si sa che per riservatezza non aveva divulgato l’indirizzo del suo ufficio. 

Si sa che il suo datore di lavoro, Salvatore Volponi, sottoposto inutilmente a indagine a sua volta, chiese aiuto al collega di un campeggio. 

[…] Neppure l’ora della morte si riuscì ad appurare con certezza: chi indagava non misurò la temperatura corporea tantomeno sottopose il corpo della vittima all’analisi dei succhi gastrici che avrebbero potuto fornire indicazioni precise.

La morte fu fatta risalire a un orario imprecisato fra le 17.35 e la tarda serata quando vi fu il rinvenimento. Tuttavia la fortuna potrebbe venire in soccorso agli investigatori, rivelando un altro insperato dettaglio che supplisca alla catena di errori commessi dai primi investigatori responsabili del caso. É quello che spera Paola, sorella di Simonetta, da trentatré anni in attesa di conoscere la verità su quello che per semplificazione o fretta è conosciuto da tutti come «il giallo di via Poma».

Delitto di via Poma, "oggi l'assassino...": clamoroso 33 anni dopo il massacro di Simonetta. Libero Quotidiano il 06 agosto 2023

Era il 7 agosto 1990 quando Simonetta Cesaroni fu trovata morta. Aveva solo 20 anni e fu trucidata con 29 coltellate. Il corpo fu scoperto intorno alle 23.30 dello stesso giorno della sorella Paola. Si tratta del famigerato delitto di via Poma, avvenuto in via Poma 2, a Roma.

E ora, a distanza di oltre 30 anni, intervistato da TgCom parla Giuseppe Macinati, figlio di Mario Macinati, il factotum dell'avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente regionale degli Ostelli della Gioventù, nei cui uffici fu trovata morta Simonetta. "È passato tanto, troppo tempo. I ricordi sono ormai offuscati", premette Macinati. E poi aggiunge: "Ho sempre pensato che a chiamare a casa mia, quel pomeriggio, fosse stata la polizia che aveva appena ritrovato il corpo. Invece, non era così". 

In seguito, per il delitto furono indagati e prosciolti il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, il giovane Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che la sera dell'omicidio era presente in quell'ala dello stabile, dove risiedeva, e l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco, poi assolto poiché non c'entrava nulla. Un delitto che 33 anni dopo ancora non è stato risolto.

Parlando di quanto emerso dalla commissione d'inchiesta sul caso, sottolinea: "Premetto che io non ho anticipato niente. Sono passati tanti anni. Ho cercato di ricostruire pressappoco a che ora erano arrivate quelle telefonate. Ma io non potevo sapere che erano avvenute prima della scoperta del corpo. Io per tanti anni ho pensato che gli inquirenti avevano chiamato a casa nostra dalla sede degli Ostelli della Gioventù per cercare il presidente Caracciolo, che ne era il responsabile. Non sapevo che, invece, il corpo non era ancora stato scoperto dalla polizia. L'ho detto anche ai magistrati".

Infine, le parole che pesano come un macigno: "A me dispiace tantissimo per la famiglia di questa ragazza. Se potessi, farei di tutto per aiutare. Però, è passato tantissimo tempo, uno non può ricordarsi bene le cose dopo tutti questi anni. Forse, se me lo avessero chiesto prima, nell'imminenza dei fatti, l'assassino non sarebbe libero", conclude picchiando durissimo.

 Esclusiva Tgcom24, delitto di via Poma: "Se mi avessero interrogato 33 anni fa oggi non sarebbe un giallo". Storia di Redazione Tgcom24 domenica 6 agosto 2023.

Esclusiva Tgcom24, delitto di via Poma: "Se mi avessero interrogato 33 anni fa oggi non sarebbe un giallo"© ansa

“È passato tanto, troppo tempo. I ricordi sono ormai offuscati”. Ci dica quello che sa. “Ho sempre pensato che a chiamare a casa mia, quel pomeriggio, fosse stata la polizia che aveva appena ritrovato il corpo. Invece, non era così”. Giuseppe Macinati è il figlio di Mario Macinati, il factotum dell'avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, presidente regionale degli Ostelli della Gioventù, nei cui uffici di via Poma 2, a Roma, il 7 agosto del 1990 fu trovata morta Simonetta Cesaroni, 20 anni, da qualche settimana contabile presso quella sede.

Il corpo della giovane, massacrata con 29 coltellate, fu scoperto intorno alle 23.30 di quello stesso giorno da sua sorella Paola, arrivata sul posto insieme al datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, al figlio di quest'ultimo, e al suo fidanzato. Fu quest'ultimo a chiamare la polizia. In seguito, per il delitto furono indagati e prosciolti il portiere dello stabile, Pietrino Vanacore, il giovane Federico Valle, nipote dell’architetto Cesare Valle, che la sera dell'omicidio era presente in quell'ala dello stabile, dove risiedeva, e l'ex fidanzato di Simonetta Cesaroni, Raniero Busco, poi assolto poiché non c'entrava nulla. Da trentatré anni il delitto è irrisolto.

Signor Macinati, dalla relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta che si è occupata del caso di via Poma, risulta una intercettazione a sua madre dalla quale si evincerebbe che il corpo di Simonetta sarebbe stato scoperto molte ore prima del ritrovamento ufficiale. 

“Premetto che io non ho anticipato niente. Sono passati tanti anni. Ho cercato di ricostruire pressappoco a che ora erano arrivate quelle telefonate. Ma io non potevo sapere che erano avvenute prima della scoperta del corpo. Io per tanti anni ho pensato che gli inquirenti avevano chiamato a casa nostra dalla sede degli Ostelli della Gioventù per cercare il presidente Caracciolo, che ne era il responsabile. Non sapevo che, invece, il corpo non era ancora stato scoperto dalla polizia. L'ho detto anche ai magistrati”.

Come mai cercavano Caracciolo proprio a casa sua?

“Perché, quando veniva nella sua casa di campagna, l'avvocato Caracciolo voleva rilassarsi. Per questo non aveva il telefono. Per i casi di urgenze, lasciava il numero di casa nostra. Mio padre lavorava per lui”.

Lei era in casa quando arrivarono quelle telefonate?

“Io ricordo che ero a casa, ma rispose mia madre”.

Quante telefonate arrivarono?

“Due”.

A che ora arrivarono?

“Ora è difficile dirlo, sono passati tantissimi anni. Io ricordo nel pomeriggio, intorno alle 17.30, e poi la seconda non più tardi delle 20.30, perché papà tornava a casa intorno alle 20.45. Sicuro hanno chiamato prima che trovassero il corpo. Noi in quel momento non sapevamo nulla di quello che era accaduto a Roma. Solo il giorno dopo ho scoperto dai telegiornali che era stata uccisa una ragazza agli Ostelli. Ho pensato: 'Allora era per questo che chiamavano'”.

Che cosa dissero al telefono?

“Non lo so, perché rispose mia madre. Comunque, era un uomo”.

Ma poi, in seguito, voi a casa parlavate di queste telefonate? 

“No, anche perché alla fine di telefonate per l'avvocato Caracciolo ne arrivavano in continuazione. Chi chiamava per una cosa, chi per l'altra. Anche dagli Ostelli”.

Ma ne avevate parlato con l'avvocato?

“No, gliele riportava papà il giorno dopo”.

Lei Caracciolo lo conosceva?

“Sono cresciuto sulle sue ginocchia. Era una brava persona, vecchio stile, perbene, integerrimo sul lavoro. Era pure un po' nobile, aveva una educazione ferrea, rigida. Chi lo conosceva bene non ha mai pensato a tutte le cose scritte sui giornali l'anno scorso, e cioè che poteva essere stato lui a uccidere. Non credo che ne fosse capace. A me dispiace tantissimo per la famiglia di questa ragazza. Se potessi, farei di tutto per aiutare. Però, è passato tantissimo tempo, uno non può ricordarsi bene le cose dopo tutti questi anni. Forse, se me lo avessero chiesto prima, nell'imminenza dei fatti, l'assassino non sarebbe libero”.

IL DELITTO DI VIA CARLO POMA.

Gaia Vetrano 2 Giugno 2023 Gaia su nxwss.com 

SaturDie Ep.26 – Il delitto di Via Carlo Poma

Riguardo il delitto di Via Carlo Poma, ancora oggi rimangono più dubbi che certezze.

Un insieme di tasselli che non trova ordine preciso, o che tantomeno riusciamo a riordinare. Angoli che non combaciano e indizi che non portano da nessuna parte.

Il quartiere di Prati è da sempre il punto di ritrovo preferito di professionisti, avvocati, commercialisti e non solo. L’elegante palazzina di Via Carlo Poma è solo una delle tante piena di studi dove questi lavorano o dove abitano famiglie per bene.

Eppure, il 7 agosto del 1990 iniziano a svuotarsi. Tutti preferiscono andare al mare, o in vacanza in qualche metà esotica. Così per i corridoi regna il silenzio, non tipico della desolazione, ma ricco di gioia perché sinonimo di estate. È un complesso molto ampio quello del numero civico 2, che già a partire dalle prime ore del tramonto si svuota in fretta.

D’altro canto non è facile trovare qualcuno che il 7 agosto preferisca fare ore straordinarie a lavoro piuttosto che uscire per godersi l’aria fresca e i bagliori del sole.

Eppure, quella sera, passate le 23, in Via Carlo Poma non vi è quel solito silenzio.

Un gruppo di persone si presenta infatti al numero 2 dritti verso la casa del portiere. Questi vogliono parlare con quest’ultimo o con qualcuno che li possa portare verso gli uffici dell’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù. Questi si trovano nella palazzina B, al terzo piano. 

Quando riescono a parlare con la moglie dell’usciere, vanno di fretta e sono molto preoccupati. Riescono a dare delle spiegazioni poco chiare, ma parlano di una loro amica che non è ancora tornata a casa e non riescono a trovarla da nessun’altra parte.

Eppure la portiera dello stabile, Giuseppa De Luca, sembra non capire. Al contrario, è seccata e infastidita per l’orario. Prima dice di non avere le chiavi, poi che nessuno può salire su. Alla fine però cede, sotto le insistenze del gruppo, e li accompagna verso gli uffici.

Arrivati davanti la porta continua a ribadire come tutto sia apposto. La serratura è anche chiusa a quattro mandate, nessuno può essere entrato o essere rimasto dentro.

Una porta chiusa a quattro mandate non dovrebbe suscitare sospetti.

Come la portiera aveva più volte ribadito, l’ufficio è deserto. Luci spente, finestre serrate. Solo il rumore del condizionatore acceso e un computer. Però della famosa ragazza non c’è traccia. Resta solo un’ultima stanza, quella del direttore in ferie.

Il primo a entrare è Salvatore Volponi, datore di lavoro della scomparsa. Lo segue Antonello, il fidanzato della sorella. Ciò che videro rimarrà per sempre impresso nelle loro menti.

Appena accesero le luci per terra notarono un corpo martoriato. È quello di una ventenne. Supina, con le gambe e le braccia aperte. La testa reclinata su una spalla. Addosso le restano dei calzini bianchi, una maglietta arrotolata sul ventre, e un reggiseno di pizzo abbassato, tale da lasciarle i seni scoperti. Le scarpe slacciate e poste poco lontano una accanto all’altra.

Intorno al corpo e sulle calzature non una goccia di sangue.

29 coltellate sono state necessarie per portare via la vita a Simonetta Cesaroni.

Sul viso lividi e ferite. Sul corpo scie di sangue. Le ferite inferte al cuore, alla carotide, alla giugulare, al ventre e al pube. Una puntualità nel colpire da determinare un impeto e una rabbia fuori dalla norma.

I segni di una violenza che non verranno mai puniti. 

Un intreccio di perché

Ciò che gli inquirenti capiscono sin da subito è che ci sono molti perché da sciogliere.

Innanzitutto non sembrava che quell’appartamento potesse essere lo scenario di un delitto così atroce. Non una goccia di sangue nelle componenti d’arredo, sulle pareti o sul pavimento. C’erano delle striature e degli stracci, che magari potevano essere stati usati per pulire. Ma non contengono alcuna traccia.

Solo un segno sulla porta della camera. Toccherà alla scientifica analizzarla. 

Dalla borsetta di Simonetta mancano le chiavi dell’ufficio e non c’è alcun segno di effrazione. Che senso ha chiudere a chiave una porta dopo un omicidio? Forse l’assassino voleva assicurarsi che nessun’altro potesse entrare dopo di lui?

Altre tracce ematiche vengono ritrovate fuori dall’ufficio, sul pulsante dell’ascensore e sul vetrino. Per quale motivo l’assassino, per fuggire dal luogo del delitto, avrebbe preferito l’ascensore alle scale? Per evitare sforzi?

Inoltre, nulla lascia pensare che Simonetta si sia opposta al suo aggressore. Nessuna traccia di lotta fisica o di resistenza. La Cesaroni non si è ribellata, forse perché del suo killer si fidava.

I primi interrogati sono il portiere Pietrino Vanacore e sua moglie Giuseppa. Questi ripetono che in quel palazzo vivono solo persone per bene, nessuno di loro avrebbe mai potuto compiere un omicidio.

Nessuno si sporcherebbe le mani in quel modo.

Entrambi concordano sul fatto che non sia stato visto nessun estraneo entrare o uscire dallo stabile. E nessuno ha sentito grida provenire dalla palazzina b.

Simonetta presenta una frattura cranica. La prima ipotesi è che quindi l’assassino l’abbia stordita e solo dopo l’abbia pugnalata con 29 coltellate. Per qualcuno le avrebbe dato un colpo sulla tempia, per qualcun altro le avrebbe ficcato le ginocchia sulla schiena. Poi le 29 coltellate, susseguitesi senza interruzione.

Le ferite sono strette e tondeggianti, ciò fa pensare che l’arma usata sia stato un tagliacarte. In effetti in una stanza vicina al luogo del delitto ne viene trovato uno. 

Una cosa però lascia gli inquirenti ancor di più basiti. Probabilmente, non c’è stata alcuna violenza sessuale. Mancava liquido seminale. Per gli psicologi, il killer potrebbe soffrire di impotenza, e avrebbe quindi usato il tagliacarte sul pube come sostituto del suo apparato genitale.

Accanto al corpo viene ritrovato un foglietto, con scritto “CE” e disegnato un pupazzetto a forma di margherita con in basso a destra scritto “DEAD OK”.

Mancano il portafogli della vittima e poi una maglia a righe, una calzamaglia, tutti i gioielli in oro e le mutandine. Il macabro trofeo di un omicidio costituito da centinaia di perché.

Chi era Simonetta Cesaroni?

Passate ventiquattro ore gli inquirenti iniziano a indagare riguardo la vita di Simonetta e sul perché quella sera si trovasse ancora in Via Carlo Poma.

Chi era? Quali segreti nascondeva la sua vita? Chi poteva odiarla a tal punto da commettere un omicidio così tanto brutale? 

Simonetta Cesaroni vive in un quartiere popolare, nel quartiere Don Bosco, zona Lamaro, con i suoi genitori e sua sorella Paola. Ha ventun anni e nella vita studia. Come tutte le ragazze della sua età ha tanti sogni nel cassetto e il desiderio di diventare indipendente. Una famiglia tranquilla che conduce una vita normale. Simonetta lavora nella Reli Sas, una ditta di revisioni contabili, tra cui clienti vi era anche l’Associazione Italiana Alberghi della Gioventù.

Uno dei titolari si chiama Salvatore Volponi.

Simonetta viene incaricata da quest’ultimo per andare a lavorare come computerista dell’A.I.A.G, per curare quindi alcune pratiche contabili. Due pomeriggi a settimana si reca quindi in via Carlo Poma la sera sul tardi. Quando gli altri dipendenti andavano via lei raccoglieva i dati e svolgeva il suo lavoro.

In prossimità dell’estate, quelle poche ore impiegate le davano la possibilità di raccogliere qualche soldo in più. Perché Simonetta, come tutte le giovani della sua età, ama andare a ballare o uscire la sera. È bella, ha tanti interessi, tra cui il cinema.

Al suo fianco Raniero Busco, venticinquenne che lavora negli hangar di Roma Fiumicino. Ne suoi confronti Simonetta prova una forte passione, sentimento non condiviso da Raniero, che la vede come una semplice frequentazione. Un rapporto un po’ instabile quello tra i due. Potrebbe essere questa una possibile pista? Il delitto passionale?

Più di un delitto passionale

Busco ha un alibi. Tutto il pomeriggio del 7 agosto lo ha passato sistemando l’auto del fratello in cortile, e diversi testimoni hanno confermato di averlo visto. Più tardi era salito in casa per farsi una doccia e cenare con la madre. Poi si sarebbe recato a lavoro a Ciampino.

A 48 ore dalla morte di Simonetta viene fermato Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile. Cinquantottenne originario di Taranto, gestisce con la moglie l’edificio e si occupa non solo della portineria. Di Via Carlo Poma 2 possiede le chiavi di ogni ufficio perché si occupava di dare l’acqua alle piante, fare le commissioni, ogni tanto addirittura andava a dormire a casa dell’anziano Cesare Valle, per non lasciarlo solo, al quinto piano.

Per tutti è il custode della privacy e della tranquillità del complesso, un uomo che gode di stima. Perché viene trasferito in carcere? 

Interrogato al Regina Coeli si mostra poco collaborativo o disponibile, e ciò insospettisce ancora di più gli inquirenti. L’idea che si crea è poco positiva, così gli inquirenti cercano di riordinare le poche informazioni che hanno su di lui.

Secondo le prime ricostruzioni, Simonetta è stata uccisa tra le 17.30 e le 18. A stabilire questo orario non è solo il medico legale: la Cesaroni alle 17:35 avrebbe infatti telefonato a un’amica, Luigia Berrettini, per un problema al computer. Alle 18:20 avrebbe poi dovuto chiamare il datore di lavoro per comunicargli di aver terminato il lavoro, ma Volponi non ricevette alcuna chiamata.

Evidentemente, intorno alle 18:20, Simonetta ha già incontrato il suo assassino.

Questo potrebbe essere proprio Vanacore. Stando alle sue parole, quel pomeriggio avrebbe dato l’acqua a delle piante, sarebbe andato dal fisioterapista a farsi fare un massaggio, e poi avrebbe preso un caffè a un bar. Intorno alle 18:30, Pietrino è nuovamente nel cortile del palazzo, dove lo vedono più condomini.

Poi c’è un particolare: la scena del delitto è stata ripulita perfettamente. Un lavoro così meticoloso da sembrare essere stato compiuto da una persona in particolare. Uno come Pietrino.

Infine, dalle ricostruzioni dei suoi movimenti, si scopre che alle 23 Vanacore non è nel suo appartamento. Quando i soccorritori arrivano non era in guardiola, e neanche insieme a Cesare Valle.

Un ultimo dettaglio incastrerebbe il portiere: i pantaloni che aveva indosso il 7 agosto presentano due macchie, una di ruggine, l’altra di sangue. Pietrino disse di soffrire di emorroidi, quindi quello avrebbe potuto essere il suo sangue, ma se invece fosse proprio quello di Simonetta? 

Ma perché commettere quel delitto? Si ipotizza che Pietrino si fosse invaghito della Cesaroni. Questa avrebbe rifiutato le sue avances e allora Vanacore, preso dalla rabbia, avrebbe commesso l’omicidio. Non sarebbe la prima volta che l’uomo viene accusato di violenze sessuali. Nonostante tutto l’uomo si dichiara innocente.

Nel frattempo, Giuseppa De Luca, la moglie di Pietrino, confessa agli inquirenti nuovi dettagli. Dichiara infatti di essersi ricordata di aver visto quel pomeriggio un uomo passare di lì. Questo portava in mano un sacchetto, che poteva possibilmente contenere gli abiti di Simonetta. Inoltre, zoppica, proprio come il collega di un architetto che ha lo studio in via Poma. Ma la strada non porta a nulla.

La donna ha davvero visto qualcuno o mente per coprire il marito?

Dalle analisi, le tracce di sangue sui suoi pantaloni appartengono al gruppo sanguigno 0 RH+, come quello di Simonetta. E anche come quello di Vanacore. Si passa all’esame del DNA e ci si aspetta di trovare dei risultati che possano definitivamente comprovare la sua colpevolezza.

Ma il 29 agosto arrivano delle notizie inaspettate: i segni ematici sono misti a dei residui fecali. Come aveva detto Vanacore, quello non è il sangue di Simonetta, ma il suo.

Il mistero del computer

Ordinata la scarcerazione di Vanacore, per il delitto di Via Poma si ricomincia da zero.

L’opinione pubblica si scaglia immediatamente contro il modo in cui sono state gestite le indagini. Sulla scena del crimine si recano troppe persone ancor prima l’arrivo delle Forze dell’Ordine, che inquinano la scena del crimine. Non è tutto: la polizia non ha perquisito tutti gli appartamenti del palazzo. Chi può escludere che l’assassino fosse nascosto in uno di questi?

Poi c’è chi accusa la lentezza degli inquirenti. La scientifica ci mette venti giorni per compiere l’autopsia e analizzare il computer di Simonetta. Questo avrebbe lavorato fino alle 10:49. Se così fosse, chi lo avrebbe usato? Molto probabilmente il suo assassino, e questo cambia anche il movente. Magari Simonetta, lavorando ai conti dell’A.I.A.G avrebbe scoperto qualcosa di strano. 

Una pista sostenuta anche dalla famiglia di Simonetta, che punta il dito contro Volponi, il suo datore di lavoro. Di questo vengono denunciate alcune stranezze. In particolare, dichiara di non sapere niente di chi lavorasse negli uffici di Via Carlo Poma e non conoscere neanche il numero di telefono. Paola Cesaroni, però, lo accusa di aver mentito: la sera dell’omicidio di mostra, infatti, di muoversi con dimestichezza dentro gli uffici, trovando per primo il corpo della donna.

Non solo, Paola racconta che la sorella, Simonetta, le aveva detto che quella sera Volponi l’avrebbe raggiunta in Via Carlo Poma. Infine, Giuseppa, la moglie del portiere, racconta di averlo visto più volte in quel condominio.

Perché Volponi avrebbe mentito?

C’è dell’altro. Il sangue sulla porta degli uffici è del gruppo A Rh+. Non è quindi di Simonetta, e neanche di Vanacore. Potrebbe essere di Volponi che, mancato fornisca un alibi valido, la sera del 25 settembre viene indicato come principale sospettato.

Per l’uomo è un shock, a tal punto da denunciare alla polizia un clima da caccia alle streghe nei suoi confronti. Denuncia una gogna mediatica. Alla fine, sarà anche lui scarcerato. Non è suo il sangue sulla porta, appartenendo al gruppo 0 Rh+.

L’inchiesta procede a colpi di prelievi sanguigni.

La svolta di Voller

A due mesi dall’omicidio gli inquirenti sottopongono ad analisi tutte le persone che potrebbero essere coinvolte, a partire da Paola Cesaroni. Il fidanzato di quest’ultima, Raniero Busco, il figlio di Vanacore, i dipendenti degli A.I.A.G. Chi ha ucciso Simonetta?

La svolta arriva alla fine del 1991. Roland Voller, un commerciante di auto austriaco, si reca negli uffici della Polizia, sostenendo di sapere chi sia l’assassino. Questo accusa un certo Federico Valle, nipote dell’ingegnere Cesare Valle, uomo da cui Vanacore va a dormire e a cui fa da badante.

Un ragazzo con un passato complesso, a causa del divorzio dei genitori, che cerca conforto nel nonno. Si reca quindi spesso in via Poma, ma per quale motivo avrebbe dovuto uccidere Simonetta? 

Voller racconta una storia incredibile. Il 7 agosto avrebbe ricevuto una chiamata da Giuliana Ferrara, la mamma di Federico. Questa le avrebbe detto che il figlio era tornato a casa più nervoso del solito, e gli abiti che indossava sembravano essere stati lavati da poco, e gli interni della sua auto erano stranamente puliti.

Il giovane, anche dopo il delitto, continua a recarsi in Via Carlo Poma. Lì non scende dall’auto, ma rimane al suo interno a osservare il condominio.

Questo insospettisce gli inquirenti, ma manca il movente.

Per Voller avrebbe agito per gelosia. Il padre, Raniero Valle, si sapeva avesse una relazione con una donna molto più giovane. Anche lui lavorava in Via Carlo Poma. Magari, questa era proprio Simonetta. Questa potrebbe quindi essere una delle giovani per cui avrebbe mollato Giuliana, la moglie. Federico, quindi, in preda a un raptus di rabbia e follia, la uccide. 

Può darsi, però, che Federico abbia sentito Simonetta parlare al telefono con il suo fidanzato, che ricordiamo si chiama Raniero. Valle avrebbe quindi confuso la situazione, confondendo Raniero Busco con il padre. Ma queste rimangono ipotesi perchè nulla collega Federico Valle a Simonetta.

Il ragazzo riporta però una cicatrice sul braccio destro, che dichiara essere una bruciatura, e inoltre anche lui conosceva bene il condominio di Via Poma, frequentandolo spesso per andare a trovare il nonno. Poteva quindi conoscere bene quali via di fuga usare.

Federico Valle viene sottoposto ad analisi cliniche e nel 1992 viene scagionato. L’unica macchia di sangue trovata sulla scena del crimine, che poteva corrispondere a una mescolanza tra quello di Simonetta e quello di Valle, appartiene solo alla donna.

Nulla che coinvolga anche Valle.

L’ipotesi della Magliana e dei servizi segreti

Il PM Pietro Catalani continua però a sostenere che possa essere coinvolto, e suppone che abbia avuto un complice, ossia Vanacore. Quest’ultimo lo avrebbe aiutato a far sparire le tracce dalla scena del delitto, e ciò spiegherebbe perché non ci sono segni ematici da nessuna parte.

Pietrino Vanacore continua infatti a non convincere gli inquirenti.

Nel frattempo, alle forze dell’ordine viene recapitata una missiva in cui gli viene suggerito di analizzare il computer. Simonetta, infatti, avrebbe potuto aver accesso a dei servizi quali Videotel, che consentono di comunicare in rete con altri utenti. Avrebbe così potuto conoscere il suo assassino.

Qualcuno racconta di averla proprio incontrata online con il nickname Veronica. Qualcun altro che lei avrebbe parlato con qualcuno che si firmava come Dead. Ma la pista si rivelò infondata perché il computer di Simonetta non dava l’opportunità di accedere a Videotel.

L’arrivo di Roland Voller nelle indagini causò un’ulteriore confusione, in quanto si incominciò a supporre questo lavorasse per i servizi segreti italiani, in quanto in possesso di alcuni documenti riguardo il delitto dell’Olgiata.

Secondo un’altra ipotesi, invece, il delitto si collegherebbe a presunte operazioni illecite che, nel corso dei primi anni novanta, sarebbero state compiute da alcuni soggetti appartenenti ai servizi segreti nell’ambito della cooperazione allo sviluppo e in particolare in Somalia. Simonetta Cesaroni avrebbe lavorato per conto di alcune società al di fuori della sua normale professione. Non vi furono però sufficienti prove.

Qualsiasi delitto verificatosi a Roma negli anni Novanta che si rispetti deve essere per forza collegato con la banda della Magliana. Simonetta avrebbe infatti scoperto, lavorando per l’A.I.A.G., delle prove che collegavano la suddetta ditta con enti edili a favore della Banda della Magliana con il benestare del Vaticano. Dato il sospetto avvicinamento anche di Roland, l’ipotesi venne considerata inizialmente veritiera, ma venne poi abbandonata perché non fu mai trovato alcun documento compatibile.

Per mancanza di indizi Federico Valle verrà prosciolto. D’altro canto, il ragazzo il 7 agosto era in casa, dove ci è rimasto tutto il pomeriggio, come testimonia la vicina di casa Annamaria.

 Nel 2004 il delitto di Via Poma è uno degli esempi dell’inefficienza investigativa italiana.

Il RIS trova, tramite alcune analisi, delle tracce di sangue nei lavatoi del palazzo, luogo ignorato nell’indagine, che si trova al quinto piano, accanto l’appartamento di Cesare Valle. Qui l’assassino avrebbe potuto lavare i panni con cui avrebbe pulito la scena del crimine, ma solo i condomini avevano la chiave. Sempre che il sangue sia di Simonetta.

Le tracce però sono insufficienti. Arrivano però trovate delle tracce di DNA nel corpetto della vittima, soprattutto di saliva. Per capire a chi appartiene, il magistrato convoca nuovamente tutte le figure coinvolte nella vicenda. Tra sigarette e bicchieri, solo uno combacia. È il DNA di Raniero Busco.

Nel 2004 ha quarantaquattro anni, si è sposato e ha due figli. L’uomo ribadisce di essere innocente, e avanza l’ipotesi che Simonetta stesse indossando gli stessi indumenti del giorno prima. Eppure un altro indizio sembrerebbe incastrarlo: una microscopica macchia di sangue nella stanza potrebbe contenere il suo DNA. Alla fine, il RIS non riuscirà né a confermare né a negare questa possibilità. Non si sa a chi appartenga. Nuovamente un buco nell’acqua.

Il 26 maggio del 2009 viene richiesto il rinvio al giudizio di Busco. Contro l’uomo ci sarebbe un morso ritrovato sul corpo di Simonetta e una perizia sulla sua arcata dentaria, che durante alcuni processi hanno dimostrato non corrispondere alla ferita.

A 20 anni di distanza dal delitto di via Carlo Poma, il 9 marzo 2010 Vanacore si suicidò gettandosi in mare, vicino a Torricella, dove viveva da anni. Vanacore lasciò una scritta su un cartello: “20 anni di sofferenze e di sospetti ti portano al suicidio”.

Riguardo la morte di Simonetta Cesaroni e il delitto di via Carlo Poma si cerca ancora la verità.

Scritto da Gaia Vetrano

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GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passioni e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Lo stesso principio, si presume, valga per l'autore del contenuto.

"Verità stordita dal tempo, vi dico chi uccise Simonetta Cesaroni". Il giallo di via Poma al centro di un libro inchiesta scritto da Raffaella Fanelli: la verità su chi ha ucciso Simonetta Cesaroni potrebbe essere nelle carte. La riapertura dell'inchiesta potrebbe segnare una svolta. Angela Leucci il 17 Febbraio 2023 su il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Anatomia di un delitto

 Quello che non torna

 Il duro mestiere del giornalista

Alla ricerca di una verità che non è ancora arrivata. Il giallo dell’omicidio di Simonetta Cesaroni è uno di quei casi di cronaca nera in cui, oltre al dolore di chi ha perso una persona cara, resta un grande interrogativo. Un caso intricatissimo, in cui furono furono accusate persone, ma anche in cui tutto si è risolto in un nulla di fatto: il colpevole non è mai stato trovato.

A tenere le fila di questo groviglio ha provato la giornalista Raffaella Fanelli nel volume dal titolo “Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? - Tutta la verità sul delitto di via Poma” (Ponte alle Grazie). Un piccolo spoiler prima di iniziare a parlarne: nel libro non è contenuta naturalmente una risposta a questa domanda, però è contenuta in effetti la verità, quello che è accaduto, quello che è emerso (o non emerso) nelle indagini, le ipotesi più o meno plausibili percorse dagli inquirenti. Perché, come disse una volta il padre della povera Simonetta, il nome dell’assassino è nelle carte. Quello di Fanelli è un lavoro duro e in alcuni passi anche pericoloso, fatto di fughe, di microfoni nascosti e di certosina ricerca.

Il libro di Raffaella Fanelli - scrive il magistrato Guido Salvini nella prefazione - ripropone in dettaglio tutti i vuoti, le contraddittorietà e le superficialità delle indagini, a partire dal mancato confinamento della scena del delitto. Un insieme di errori che, con le accuse mosse in sequenza a Pietrino Vanacore, Federico Valle e Raniero Busco, hanno portato a tre flop processuali con conseguenze certo non indifferenti per le persone che vi sono state coinvolte e per i familiari della vittima”.

Anatomia di un delitto

Fanelli analizza quindi nei minimi dettagli cosa sia accaduto a via Poma e i risvolti che indagini e processi ebbero nel tempo, in questo lungo tempo da quel 7 agosto 1990, quando Simonetta fu trovata cadavere negli uffici degli Aiag, in cui si occupava di inserire digitalmente dei dati. È impossibile non partire proprio dal fatto in sé, benché molto noto. I particolari sono tanti e tali che, se trascurati non consentirebbero di arrivare a un punto importante, ovvero perché non si sia giunti ancora alla soluzione del caso.

Negli anni - scrive Fanelli - per l’omicidio di Simonetta Cesaroni, sono stati inseguiti presunti colpevoli eppure mai è stato cercato un effettivo movente. La ragazza non fu violentata. Ma denudata, per far sospettare uno stupro o un movente passionale. I colpi furono inferti con una violenza inaudita perché si pensasse a un raptus”.

Quello che non torna

Nel giallo di via Poma sono tantissime le cose che non tornano. Da una scena del crimine parzialmente inquinata - con un computer sul quale Simonetta stava lavorando e cui fu staccata la spina e un disegnino con la scritta “dead ok” - alle questioni inerenti l’arma del delitto, il Dna trovato nell’ascensore, fino alle porte ben chiuse degli uffici e la frase pronunciata dal datore di lavoro di Simonetta Salvatore Volponi nel trovare la vittima: “Oddio… Bastardo!”.

C’è un “bastardo” in questa storia, un assassino. Qualcuno che ha ucciso una ragazza nel fiore degli anni e non se ne conosce il perché. C’erano dei segreti connessi con il lavoro di Simonetta? Qualcuno l’aveva insidiata? Perché non si trova la cartelletta beige che la giovane aveva con lei il giorno del suo omicidio, una cartelletta tanto importante che le richiese di tornare da chi le aveva dato un passaggio in macchina a prenderla perché l’aveva dimenticata.

E poi c’è la negazione: in tanti dissero di non aver mai incontrato o conosciuto Simonetta. “Era giovane ed era anche bella - scrive ancora Fanelli - Simonetta Cesaroni non passava di certo inosservata. Eppure i portieri di via Poma e gli impiegati degli Ostelli dicono di non averla mai vista”.

Il duro mestiere del giornalista

La parte probabilmente più interessante del volume di Fanelli consiste nel suo incontro, di fronte a una ciotola di ciliegie, con l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, il presidente dell’Aiag. La giornalista lo incontrò a marzo 2022, mentre in molti lo ritenevano morto. “Dica che sono morto, mi farebbe una grossa cortesia se confermasse che non ci sono più. Possiamo trovare un accordo. Ormai sono vecchio, vede come vivo qui, tranquillo e calmo, non voglio avere rapporti con il mondo”, le disse Caracciolo in quell’occasione.

Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?

Fu un incontro turbolento fra i due, che Fanelli registra e riporta con le sue domande incalzanti e le risposte evasive dell’ospite. Che a un certo punto la mette alla porta. “Sento una stretta forte al braccio nel secondo in cui mi arriva addosso mentre con gli occhi di fuori mi trascina verso la porta rimasta aperta e mi lancia con tutto il peso all’esterno - è il racconto scritto di Fanelli - Io urlo, lui anche, mentre cerco di non perdere l’equilibrio dopo l’urto col cancelletto. Mi giro verso il fotografo che mi guarda stranito. Mi allontano di corsa. L’uscita mi ha rintronata ma non rallento. Corre anche il fotografo, il primo a raggiungere l’auto. A ogni metro sento il cuore battere talmente forte da coprire il rumore dei passi ma non il ringhiare dei cani, sempre più vicini. Entro in auto anch’io e abbasso la sicura alla portiera. Mi appoggio al sedile, respiro e quasi ordino al fotografo di ripartire”.

E alla fine del libro resta la consapevolezza che questo sia un caso importante. Simonetta non fu semplicemente la ragazza sbagliato nel posto e nell’ora sbagliata vittima di un folle. È difficile dire che dopo oltre 30 anni l’assassino sia ancora a piede libero, potrebbe essere anche probabile che sia giunto naturalmente alla fine della sua vita: troppo tempo è passato senza una risposta. C’è un’indagine in corso, riaperta proprio a marzo 2022. “La verità, purtroppo, è stordita dal tempo trascorso. Trent’anni sono tanti. Troppi”, conclude Fanelli.

Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni? Pubblichiamo, per gentile concessione della casa editrice, un estratto di Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni. Tutta la verità sul delitto di via Poma (Ponte alle Grazie) di Raffaella Fanelli. Raffaella Fanelli il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Attraverso il parabrezza percorso dai tergicristalli mi arriva il riflesso del riquadro luminoso mentre davanti al vetro, in controluce, intravedo il muretto a secco del cimitero di Tarano. Il cancello d’ingresso è ancora chiuso. Spengo l’auto, slaccio la cintura e prima di scendere prendo il mio ombrellino giallo che, già so, non mi servirà a niente sotto la furia del temporale. Un cielo mai visto, fitto di nuvoloni bluastri, che pure non ha fermato la mia intenzione di cercare la tomba dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno. È morto davvero? Continuo a chiedermelo da quando la procura di Roma ha riaperto le indagini sull’omicidio di Simonetta Cesaroni, la ragazza uccisa con 29 colpi di tagliacarte il 7 agosto 1990, in via Poma, nel quartiere Prati. Un delitto rimasto senza colpevoli che ha riportato sotto la lente degli inquirenti l’uomo che avevo incontrato dieci anni prima, durante il processo a Raniero Busco, l’ex fidanzato di Simonetta, condannato in primo grado a 24 anni e poi assolto in appello e in Cassazione per non aver commesso il fatto. Un processo fatto a un innocente da una procura che aveva ignorato alibi e prove. Che, basandosi su costose e inutili perizie, aveva trascurato due tracce di sangue, la prima di gruppo A repertata nella stanza dell’omicidio e l’altra di gruppo B rinvenuta sul vetro dell’ascensore. E Raniero Busco ha gruppo 0. Per questo avevo cercato l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno. Perché ero convinta sapesse di quel delitto. Lo avevo rintracciato nella sua tenuta di Tarano. Avevo bussato alla sua porta in un caldo pomeriggio di giugno. Aveva i piedi scalzi, la camicia aperta e la faccia assonnata. Avevo disturbato un riposo pomeridiano e fatto alzare dal sepolcro l’avvocato che una collega del «Messaggero» aveva scritto essere morto. La falsa notizia della triste dipartita era rimbalzata da un giornale all’altro, senza ricevere smentite.

Prima di farmi strada nella spaziosa e luminosa cucina, il redivivo mi pregò di lasciare borsa e cellulare fuori dalla porta d’ingresso. Seduta di fronte a lui, e con una cesta di ciliegie sul tavolo, ascoltai indifferente l’offerta di un accordo: «Scriva che sono morto». Un suggerimento che ignorai, continuando a mangiare ciliegie e a infilare domande, sempre più fastidiose. Fino alla mia frase sugli incontri con Simonetta, su quanto fosse bella e seducente. Insinuare che lui sapesse qualcosa di più su quell’omicidio irrisolto mi costò un’alzata di voce e di mani: l’avvocato mi afferrò per il braccio e con forza mi scaraventò all’esterno. Un volo che staccò, oltre ai miei piedi, anche il registratore che avevo appiccicato addosso. Quaranta minuti di audio che mi salvarono da una querela arrivata subito dopo la pubblicazione del mio articolo: Francesco Caracciolo di Sarno negò di avermi incontrata, di avermi offerto le ciliegie e un accordo. Il suo «mai vista e mai conosciuta», grazie a quella registrazione, finì archiviato insieme alla sua querela.

Silenzi, omissioni, contraddizioni e menzogne hanno, da sempre, impedito di ricostruire con esattezza ciò che avvenne la sera del 7 agosto 1990. L’avvocato, durante il processo a Raniero Busco, dichiarò il suo «mai vista e mai conosciuta» anche per Simonetta Cesaroni. Insomma, affermò di aver assunto una ragazza senza mai averla incontrata. La prima menzogna cadde davanti ai 40 minuti della mia registrazione. La seconda anche. Perché Francesco Caracciolo di Sarno mi parlò di Simonetta, lui l’aveva vista e conosciuta. E nel marzo 2022, a distanza di oltre trent’anni dall’omicidio di via Poma, cade anche il suo alibi. Una donna rumena, all’epoca collaboratrice domestica dell’avvocato, racconta che «il giorno del delitto, pressappoco nell’ora riportata dai media come quella presunta dell’omicidio, l’avvocato sarebbe rientrato affannato e con un pacco mal avvolto». L’abitazione dell’avvocato era in largo della Gancia, distante circa 90 metri da via Poma. Stando sempre alle dichiarazioni di questa testimone, «dopo la riapertura del caso» – quindi nel 2010, quando si indagava su Raniero Busco – «l’avvocato era oltremodo agitato e preoccupato, tanto da assumere atteggiamenti maniacali». Quando ho incontrato l’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno non sapevo di questa testimonianza ma sapevo di quei 90 metri che dividevano il suo appartamento dal luogo del delitto. E a passo veloce avevo percorso quella distanza in meno di un minuto. Sapevo anche di un rapporto della digos dell’11 gennaio 1992. In quella informativa, l’avvocato veniva descritto come «persona di dubbia moralità per le reiterate molestie arrecate a giovani ragazze, episodi che seppure a conoscenza di molti non sarebbero mai stati denunciati grazie anche alle amicizie influenti dallo stesso vantate». L’informativa della digos si chiudeva con una frase inquietante: «Dopo l’accaduto, molti amici del Caracciolo lo avrebbero allontanato convinti di una sua implicazione nell’omicidio».

Cercando nell’imponente fascicolo emerge che già nel 1992, durante le indagini su Federico Valle, la portiera dello stabile in largo della Gancia, Bianca Limongiello, dichiarò di aver visto l’avvocato «affannato e strano».

Strano perché «prima di lasciare lo stabile avrebbe, ingiustificatamente, attirato l’attenzione chiedendo che ore fossero e raccontando che stava per recarsi all’aeroporto dove avrebbe dovuto accompagnare la figlia». Frasi rivolte alla portiera che mai, prima di quel 7 agosto, era stata considerata dall’avvocato. Neanche per un saluto.

Tredici anni dopo, nel 2005, Bianca Limongielo confermerà le sue dichiarazioni davanti al sostituto procuratore Roberto Cavallone: «L’avvocato aveva un appartamento al 6o piano dello stabile di largo della Gancia e lo studio nella vicina via Brofferio. Il 7 agosto 1990 lo vidi rientrare intorno alle ore 18 in compagnia di un altro uomo mai visto prima. Indossava un vestito elegante e aveva con sé una borsa».

La procura di Roma ha riaperto il caso. Si indaga per omicidio volontario. Il sospetto è che l’avvocato possa aver «trafficato» per coprire qualcuno.

Una donna apre il cancello d’ingresso del cimitero di Tarano. Sotto una pioggia incessante che ripulisce i miei passi, cerco il volto e il nome dell’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno. Trovo quasi subito la sua lapide, è sobria e poco appariscente. Sul marmo bianco sono riportate le date di nascita, 10 aprile 1938, e della scomparsa, 22 agosto 2016. L’avvocato Francesco Caracciolo di Sarno, questa volta, è morto davvero.

Estratto di “Chi ha ucciso Simonetta Cesaroni?”, di Raffaella Fanelli (ed. Ponte alle Grazie), pubblicato da “il Fatto quotidiano” l’11 gennaio 2023.

L'omicidio di via Poma, senza un colpevole da 32 anni, fa pensare al delitto perfetto. Ma chi ha ucciso Simonetta Cesaroni è rimasto fino a oggi impunito solo perché salvato dalla superficialità e dall'incompetenza di alcuni e dall'omertà e la menzogna di altri. Ogniqualvolta sembrava avesse imboccato la via giusta, l'inchiesta sull'omicidio irrisolto di Simonetta si è ritrovata davanti alla delusione e alla derisione del punto di partenza.

 Perizie, tracce e ipotesi investigative, negli anni, sono state appiattite o addirittura ribaltate per farci entrare piste assurde e improbabili colpevoli. () Come la pista offerta dal supertestimone Roland Voller, l'austriaco poco raccomandabile che per tre anni ha lasciato sulla graticola Federico Valle e Pietrino Vanacore. Oppure, come l'altra, più recente e ancora più assurda, che ha indicato Raniero Busco, l'ex fidanzato di Simonetta, colpevole dell'omicidio.

Per inchiodarlo a una colpa non sua, vengono ignorate le ricostruzioni e le prove garantite vent' anni prima. () Per vent' anni e fino al rinvio a giudizio di Raniero Busco, gli investigatori hanno sempre detto, e i giornalisti sempre scritto, che la stanza fu ripulita dopo l'omicidio e che il motivo poteva essere soltanto uno: l'assassino, col favore della notte, avrebbe fatto sparire il cadavere di Simonetta dall'ufficio degli Ostelli della gioventù. Per allontanare le indagini e i sospetti da via Poma.

 (...) Così, a pagina 18 della relazione fatta sui reperti, accanto alla foto dei calzini di Simonetta, ritroviamo una descrizione interessante: "Oltre a residui di sporcizia presenti sulle due piante, uno dei due calzini indossati dalla vittima esibisce vistose tracce ematiche mentre l'altro solo deboli aloni scuri.

 (...). Su entrambi si rileva, inoltre, la presenza di piccoli trucioli di segatura". (...)

L'ipotesi dei Servizi segreti viene menzionata per essere immediatamente esclusa dai due marescialli dei carabinieri, Flora De Angelis e Luigi Prili, incaricati nel 2006 dal pm Roberto Cavallone di verificare tutte le informative arrivate nel corso degli anni, alla Procura di Roma, su un presunto coinvolgimento dei Servizi segreti nell'omicidio di Simonetta Cesaroni.

 Nel 2006 la Procura ci chiese - precisa in aula nel 2010 il graduato dell'Arma Luigi Prili - di fare indagini su eventuali coinvolgimenti dei Servizi segreti, di verificare se avessero personale negli uffici degli Ostelli della gioventù, di capire se l'attività degli Ostelli fosse in qualche modo collegabile a quella dei servizi. L'interesse della procura nasceva poiché l'allora segretario nazionale dell'Associazione italiana alberghi della gioventù era Vito Di Cesare, cognato del prefetto Riccardo Malpica, che nel 1990 era il direttore del Sisde. Dagli accertamenti non emerse però nulla di rilevante.

Anni dopo, a chi scrive arriva la prima lettera firmata da Luciano Porcari, classe 1940, originario di Orvieto, un uomo di confine tra criminalità e Servizi: "Il datore di lavoro di Simonetta, Salvatore Volponi, non dice la verità perché conosceva benissimo il luogo di lavoro di Simonetta. Per fare chiarezza sul delitto, collegato ad altri omicidi e scomparse, bisogna portare a conoscenza della magistratura altri fatti di sangue avvenuti in Roma e in Somalia...".

Seguiranno altre due lettere. () "Conoscevo bene il portiere di via Poma, Pietrino Vanacore, ma non ho mai conosciuto Simonetta Cesaroni anche se sapevo che dal maggio/giugno del 1990 scriveva i contratti commerciali che poi 'noi' portavamo in Africa e in altre parti del mondo". Porcari racconta di aver lavorato all'estero, in particolare in Africa, dove sarebbe entrato in contatto con il "giro" degli appalti legati alla cooperazione italiana e delle tangenti che si muovono tra i vertici dei Paesi riceventi e dei Paesi donatori.

 Fa riferimento a un'inchiesta condotta dalla procura di Torre Annunziata e denominata "Cheque to Cheque"(...). In uno dei verbali Porcari fa il nome di una società, la Dolmen, con sede a Roma, che aveva strani scambi con l'Africa, con i Paesi dell'Est e con il Sudamerica. () E poi rivela un inquietante collegamento con Simonetta Cesaroni: la Dolmen, secondo Porcari, avrebbe avuto una "società gemella, in via Poma" e per quella società Simonetta Cesaroni avrebbe stipulato dei contratti: "C'era un ufficio dei Servizi segreti nel cortile interno di via Poma al 2, accanto alla palazzina B, sul lato destro. In quell'ufficio facevano i contratti per il traffico di armi e gli aiuti umanitari... era la ragazza a scrivere quei contratti". Una pista inquietante, mai vagliata.

(Adnkronos giovedì 19 ottobre 2023) - “Sono contento che finalmente la richiesta di riaprire il caso è arrivata a Brescia, speriamo bene! Che dire, ora che l'attesa dell'invio è finita non vedo l'ora si recuperi tempo sul riaprire subito il caso, ho sempre paura che qualcuno possa "mettere il bastone tra le ruote". 
Ma lo confido a te, forse più delle altre volte sono un po' più fiducioso nella giustizia. Con Rosa ne parliamo, non tanto, perché il tempo che abbiamo (poco) lo dedichiamo a noi. Cosa dire: "incrociamo le dita". 
Lo scrive Olindo in lettera inviata Romano a Marco Oliva, conduttore della trasmissione Iceberg, su Telelombardia, a commento dell'istanza di revisione per la Corte d’Appello di Brescia sulla strage di Erba, 17 anni dopo i fatti. Nel corso del programma verrà fatto ascoltare un audio inedito di Rosa e Olindo intercettati pochi giorni dopo la strage che è stato allegato alla richiesta di revisione. ''
Oggi più che mai, ma è da diverso tempo, tutti in carcere mi esprimono sostegno e solidarietà e ci incoraggiano a non mollare. E’ bello e ringrazio sempre tutti. Oggi mi dedico a lavori come imbianchino anche se sto ancora finendo il corso, per questo motivo non sono più addetto in cucina. Spero proprio di uscire dal carcere prima o poi. Certamente il mio futuro sarà con Rosa fuori dal carcere''.

Dal 2007 in carcere. Strage di Erba, perché i legali di Olindo e Rosa chiedono la revisione della sentenza: “Sette consulenze dimostrano la loro innocenza”. Redazione su L'Unità il 17 Ottobre 2023

Ci sarebbero nuovi elementi che potrebbero portare ad un proscioglimento, ribaltando così le sentenze di condanna. I legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, i coniugi condannati in via definitiva all’ergastolo per la “strage di Erba” avvenuta l’11 dicembre 2006 nella cittadina in provincia di Como, per l’uccisione di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk, della nonna del bambino Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini, hanno depositato alla Corte d’assise di Brescia l’istanza di revisione di condanna.

I due avvocati, Fabio Schenbri e Luisa Bordeaux, chiedono dunque un nuovo processo per marito e moglie (in carcere dal 2007) sulla scorta di sette consulenze, il cui contenuto sarebbe incompatibile con la ricostruzione fatta dai coniugi e poi ritrattata della strage oltre che con quella emersa dalle indagini In una si insiste sulla testimonianza di Mario Frigerio, unico sopravvissuto alla strage, morto negli anni successivi, e diventato principale testimone dell’accusa che riconobbe Olindo in aula.

L’istanza depositata dai due legali, un dossier di oltre 150 pagine, segue quella presentata lo scorso 31 marzo dal sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, che aveva creato un caso giudiziario e un procedimento disciplinare nei suoi confronti. “Ma c’è molto di più rispetto ai temi portati dal magistrato – spiega all’Agi l’avvocato Fabio Schembri, autore dell’istanza insieme ai colleghi Nico D’Ascola, Patrizia Morello e Luisa Bordeaux -. Abbiamo allegato sette consulenze, audio e video e affrontato tempi più vasti”.

Tra gli argomenti, le modalità della morte di Valeria Cherubini che sarebbero “incompatibili” con la tesi di Olindo e Rosa colpevoli, le intercettazioni ambientali sul letto d’ospedale del sopravvissuto Mario Frigerio, uno studio sull’energia elettrica nella casa dell’eccidio, la testimonianza di Abdi Kais, mai sentito dagli inquirenti, e residente nell’abitazione di Erba, che venne poi arrestato per spaccio nella zona dove avvenne il massacro.

La ‘guerra’ nella Procura di Milano

Sullo sfondo c’è poi la questione della battaglia in Procura a Milano, quella tra il sostituto pg Cuno Tarfusser e la procuratrice generale Francesca Nanni.

Pur decidendo lo scorso luglio di depositare l’atto di revisione firmato da Tarfusser, la procuratrice non aveva mancato di sferrare dure accuse al sostituto pg, già finito sotto procedimento disciplinare proprio per le modalità di presentazione della sua istanza. Richiesta di revisione giudicata “nel merito infondata” perché mancavano i “presupposti” e in particolare le “nuove prove decisive” richieste per una revisione: eppure Nanni, che sembrava orientata a non inoltrate l’atto di Tarfusser, ha ritenuto di andare avanti perché il procedimento “deve essere concluso nella sede competente”.

Nanni nel parere inviato ai giudici bresciani assieme all’avvocato generale Lucilla Tontodonati sottolineava che le confessioni dei coniugi Olindo e Rosa erano state già ampiamente valutate nelle sentenze, così come avevano retto in sede di giudizio il riconoscimento di Olindo da parte di Mario Frigerio, unico sopravvissuto alla carneficina.

Insomma, nell’istanza del sostituto pg di Milano “non ci sono nuove prove decisive” e non si può si sostenere nemmeno, come aveva fatto il sostituto pg, una “falsità in atti” di alcune prove, come la macchia di sangue di Valeria Cherubini sul battitacco dell’auto dei coniugi. Redazione - 17 Ottobre 2023

Estratto dell'articolo di today.it il 9 ottobre 2023.

Antonino Monteleone attacca Selvaggia Lucarelli in un video pubblicato sui social. Prima di raccontare cosa è accaduto, però, occorre fare una premessa. Spiegare cos'è il cherry picking, primo argomento che Lucarelli tratterà nel suo corso online di giornalismo. Letteralmente significa "raccolta di ciliege", che giornalisticamente parlando può tradursi in "scelta delle informazioni". Chi fa cherry picking, dunque, invece di raccogliere tutte le informazioni di un caso ne raccoglie soltanto alcune, quelle più funzionali alla storia che vuole raccontare, quasi sempre per lanciare scoop o notizie sensazionalistiche. 

Tornando all'attacco di Monteleone, questo nasce dopo che la giornalista ha consigliato ai suoi futuri corsisti di ascoltare il podcast "Anime Nere", sulla strage di Erba [...]

Selvaggia Lucarelli non ha mai nominato Monteleone, ma sentendosi chiamato in causa ha risposto in un video: "La prima questione è sorprendente. Selvaggia Lucarelli fa un corso di giornalismo, ma questa è l'epoca in cui tutti fanno tutto, uno vale uno, va bene così. Il tema è che lei si cimenta in una storia, la strage di Erba, sulla quale la invito e stimolo un po' gli iscritti al suo corso di giornalismo. Invito Selvaggia Lucarelli a un confronto pubblico. Online, di persona, in tv, scelga lei. Sulla tv del Fatto Quotidiano, a La7, sulla Rai, a Mediaset, a Le Iene, quando vuole, un confronto pubblico sui temi che riguardano la strage di Erba, perché è vero che esiste il cherry picking, ma io non sono sicuro che siamo noi a farlo". 

L'inviato ha replicato duramente: "Quando si parla di cherry picking non si considera il fatto che da un cesto di ciliege io butto via quelle marce e scelgo le ciliegine che contengono le notizie che per 17 anni non sono state comunicate all'opinione pubblica. E non ripeto le stesse balle che invece tutti conoscono e che hanno consentito la cristallizzazione di vere e proprie bufale e leggende metropolitane che riguardano la strage di Erba. Questo dovrebbe fare il giornalismo - ha incalzato Monteleone - ma siccome spesso chi una cosa non la sa fare bene ha il tempo per insegnarla agli altri, io dico così: cara Selvaggia, aggiungi del valore al tuo meraviglioso e sold out corso di giornalismo e facciamo un dibattito pubblico.

Confrontiamo anche il livello di conoscenza di questa storia. Il mio patrimonio informativo (sottolineando molto bene quel 'mio', ndr) e il tuo patrimonio informativo.  Facciamolo dove, come e quando decidi tu, e io parteciperò con la mia modestissima conoscenza del caso. Certo, poi Selvaggia Lucarelli mi consiglia di ascoltare Anime Nere, ma ci sono dei falsi sensazionali all'interno di quel racconto sui quali non vale la pena perdere tempo più di tanto". La conclusione è tronfia: "Sfido chiunque, però, sul tema strage di Erba, a un confronto pubblico con il sottoscritto. Buon corso di giornalismo con Selvaggia Lucarelli". 

La solitudine di Tarfusser e il silenzio delle correnti. Felice Manti il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale.

«Se non avessi chiesto la revisione del processo non ci avrei dormito», dice il giudice Cuno Tarfusser a Tv7, lo speciale Tg1 (diretto da Gian Marco Chiocci) andato in onda ieri notte. L'intervista al sostituto pg di Milano è uno scoop, vista la riservatezza dell'ex giudice dell'Aja, anche perché Tarfusser è sotto procedimento disciplinare al Csm per aver disobbedito al regolamento organizzativo deciso dal suo capo Francesca Nanni. Al di là dei tanti dubbi sulla strage di Erba dell'11 dicembre di 17 anni fa e del solito derby tra colpevolisti (all'inizio tanti, oggi sempre meno) e innocentisti, confortati dalle inchieste televisive delle Iene e il podcast Il grande abbaglio su Youtube), il milieu giornalistico perbenista - dal Fatto alla Stampa - ha stranamente sparato a palle incatenate contro il sostituto Pg. Persino la Procura di Como si è ribellata, lamentando un'ingerenza che in teoria è legittima, ma tant'è. Nell'intervista di Alessandro Gaeta, il magistrato originario di Bolzano dice di voler rifuggire dalle solite etichette («Io mi pongo nell'ottica del pm») quando ha analizzato le tre prove che hanno incastrato Olindo Romano e Rosa Bazzi (confessioni, riconoscimento e macchia di sangue): «Colpevolisti e gli innocentisti tendenzialmente non hanno studiato gli atti, ragionano di pancia - dice Tarfusser - io ho studiato gli atti. Se non avessi fatto la richiesta di revisione non sarei stato più sereno con me stesso, col mio dovere, con la mia deontologia». Sullo scontro tra Tarfusser e la Nanni né l'Anm né il ministero né il Csm hanno ritenuto di dover intervenire a tutela di alcuno, ma il braccio di ferro tra i due attiene al cuore del problema: l'autonomia del singolo magistrato, apparentemente così cara a chi si batte per la giudice Iolanda Apostolico. In attesa di capire cosa succederà, spiace vedere che il generoso riflesso corporativo delle toghe scatta solo di fronte a magistrati «amici», un po' incauti sui social o nelle piazze. Non con un giudice dallo standing indiscutibile che ha scelto la legge e la coscienza, non di nascondersi dietro un cavillo.

Strage Erba: tutore Rosa e Olindo chiede revisione sentenza. Giuseppe Spatola il 31 Agosto 2023 su Il Giornale.

Un'istanza di revisione della sentenza di condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi, per la strage di Erba dell'11 dicembre del 2006, è stata presentata alla Corte d'appello di Brescia dal tutore dei due coniugi

Un'istanza di revisione della sentenza di condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi per la strage di Erba dell'11 dicembre del 2006 è stata presentata alla Corte d'appello di Brescia dal tutore dei due coniugi, l'avvocato Diego Soddu, dopo quella del sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser. A quanto si è saputo nella richiesta il tutore dei coniugi Romano sollecita che la sua istanza sia riunita a quella del magistrato milanese. I giudici bresciani dovranno decidere sull'ammissibilità di entrambe e sulla loro riunione. Il tutore rientra tra le persone legittimate a chiedere la revisione.

Il caso del pg al Csm

Intanto nei giorni scorsi la Procura generale della Cassazione ha trasmesso gli atti alla sezione disciplinare del Csm chiedendo di giudicare l'operato del sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, per le modalità con cui ha proposto la revisione del processo sulla strage di Erba avvenuta nel 2006. In base alla segnalazione della procuratrice generale milanese Francesca Nanni, avrebbe "violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio" e non si sarebbe attenuto al "documento organizzativo dell'ufficio". La vicenda per cui ora la sezione disciplinare di palazzo dei Marescialli dovrà fissare una data per avviare la procedura, ha al centro una sorta di braccio di ferro tra Tarfusser e i vertici del suo ufficio. Il primo, ritenendo un errore giudiziario l'ergastolo inflitto a Olindo Romano e Rosa Bazzi, il 31 marzo scorso ha depositato di propria iniziativa in cancelleria la richiesta, da inoltrare a Brescia, di riaprire il caso.

La questione giuridica

Il pg Nanni, ha ritenuto che in questo modo sia stato scavalcato il regolamento interno che assegna all'avvocato generale o alla stessa procuratrice generale (che in caso di dissenso ha l'ultima parola) "la facoltà di richiedere la revisione di sentenze", qualora sopravvengano nuove prove d'innocenza. Ora il sostituto pg milanese è disciplinarmente accusato di aver tenuto, senza alcuna delega dal capo, contatti con i difensori Fabio Schembri e Paolo Sevesi, e da essi ricevuto consulenze scientifiche sulle asserite nuove prove a favore dei coniugi Romano-Bazzi contenute nella sua proposta di revisione. Proposta che comunque la Pg milanese, prima dell'estate, ha mandato alla Corte d'appello di Brescia ma con parere negativo.

Strage Erba, arriva l'istanza di revisione per Olindo e Rosa, ma il pg di Milano prepara l'offensiva. La procuratrice generale Francesca Nanni ritiene "inammissibile" l'istanza di Tarfusser perché proveniente da soggetto "non legittimato". Federico Garau il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

La Corte d'appello di Brescia ha ricevuto quest'oggi dalla Procura generale di Milano l'atto con il quale il sostituto pg Cuno Tarfusser ha proposto la revisione del processo realtivo alla strage di Erba. Unitamente a tale documentazione, tuttavia, ai giudici bresciani è stato inoltrato altresì il parere della Procuratrice generale Francesca Nanni, la quale ritiene" inammissibile" l'istanza di Tarfusser perché proveniente da soggetto "non legittimato", oltre che "infondata" in quanto secondo la pg non sussisterebbero presupposti e/o nuove prove determinanti per una revisione del processo. Ciò premesso, comunque, sarà la Corte d'appello di Brescia a fare le proprie valutazioni sul caso.

I documenti contrastanti

Francesca Nanni ha trasmesso stamani la richiesta di revisione firmata lo scorso marzo dal sostituto pg Cuno Tarfusser e finalizzata a riaprire il processo a conclusione del quale Olindo Romano e la moglie Rosa Bazzi furono condannati all'ergastolo in via definitiva. La stessa procuratrice generale ha depositato anche un parere, una relazione firmata anche dell'avvocato generale Lucilla Tontodonati, nel quale si parla di inammissibilità della richiesta perché proveniente da "soggetto non legittimato".

Ad essere contestato, quindi, è innanzi tutto un vizio di forma, per il fatto che il regolamento interno prevede che suddette istanze di revisione possano essere proposte esclusivamente dal procuratore generale e dall'avvocato generale, e non da un sostituto pg. La richiesta sarebbe, almeno secondo il parere del pg "nel merito infondata", perché mancano i "presupposti" e in particolare le "nuove prove decisive" richieste per una revisione.

Tanto che la stessa Procura generale era orientata addirittura a non inoltrare l'atto di Cuno Tarfusser, il quale, peraltro, si trova ora sotto provvedimento disciplinare proprio per le modalità di presentazione della sua istanza. Alla fine la PG di Milano ha ceduto, sostenendo che il fatto che il sostituto pg abbia depositato quella richiesta alla segreteria della Procura generale a fine marzo abbia "dato impulso ad un procedimento che deve essere concluso nella sede competente". "Quelli che temevano che questa istanza non fosse valutata avevano torto", ha commentato Nanni. I legali di di Olindo e Rosa, che speravano nell'istanza di revisione a Brescia, una volta giunta quella di Tarfusser, potranno finalmente depositarla.

"È un atto dovuto mandare l'istanza di revisione" della sentenza di condanna dei due imputati, ha spiegato all'Agi l'avvocato Fabio Schembri. "Viene accolto un convincimento che abbiamo sempre espresso. Apprendiamo che la procuratrice Nanni ha espresso un parere di inammissibilità che valutiamo come irrituale perchè non previsto dal codice penale", aggiunge il legale di Olindo e Rosa."Un parere che, in astratto, potrebbe condizionare o magistrati di Brescia che sono gli unici a dover valutare l'istanza". 

Strage di Erba, la confessione di Olindo e Rosa è la prova della loro innocenza. I giornalisti Felice Manti ed Edoardo Montolli chiariscono dei punti fondamentali sulle confessioni di Rosa Bazzi e Olindo Romano in relazione alla strage di Erba. Angela Leucci il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Le confessioni

 Le foto

“Nemmeno gli assassini avrebbero potuto descrivere i dettagli della mattanza. La confessione di Olindo e Rosa è la prova della loro innocenza”. Nella nuova puntata del loro video podcast “Il grande abbaglio” (che prende il titolo dal loro libro), i giornalisti Felice Manti ed Edoardo Montolli chiariscono un punto fondamentale sulla strage di Erba.

L’11 dicembre 2006 in un condominio della cittadina nel Comasco furono uccisi Raffaella Castagna e il figlio Youssef Marzouz, la madre di lei Paola Galli, la vicina Valeria Cherubini. L’appartamento di Castagna fu dato alle fiamme. Sopravvisse, ferito e intossicato, il marito di Cherubini, Mario Frigerio. Per la strage furono condannati due vicini, Olindo Romano e Rosa Bazzi, ma ci sono a tutt’oggi molti dubbi sulla loro colpevolezza da parte dell’opinione pubblica.

Le confessioni

Nel podcast di Manti e Montolli vengono fatte ascoltare e analizzate le confessioni dei coniugi a partire da quanto dichiarato nella sua requisitoria a Como dal pm Massimo Astori, che in aula negò con forza che a Bazzi fossero state fatte sentire tutte le dichiarazioni del marito. Si parte quindi dal 10 gennaio 2007, due giorni prima che i coniugi fossero arrestati, ovvero quando vengono intercettati. Nei nastri si ascolta Romano, nonostante le rimostranze della moglie, affermare: “Mi hanno spiegato innanzi tutto che loro ci tengono qui dentro fino a quando non fanno tutte le indagini. Se per disgrazia trovano qualche cosa, ti processano e ti danno l’ergastolo. Se invece confessi, c’è l’attenuante del rito abbreviato. Dici la verità che tua moglie non c’entra niente eccetera. E non becchi niente”.

Quando, dopo l’incontro con la moglie, Romano tornò dai magistrati ribadendo la sua innocenza, i pm lo invitarono a non farsi convincere dalla moglie ma invece a convincere la moglie “a dire le cose come stanno”. Nei nastri si ascolta inoltre Massimo Astori dire: “Basta, sua moglie viene trasferita di carcere, va da un’altra parte e lei non la vede più”.

Un momento molto particolare dell’inchiesta quello delle confessioni, tanto più che Bazzi non sa leggere e chiese che le venisse letta la confessione del marito. Ma entrambe le confessioni sono piene di contraddizioni. In tribunale Astori chiosò: “Si è detto molto su questo interrogatorio, si è molto speculato. Avremmo ottenuto confessioni facendo sentire le dichiarazioni del marito, ottenendo un semplice sì. Non è vero. Questa è una gigantesca calunnia. Bazzi sente la prima parte, l’inizio delle dichiarazioni. Poi va avanti da sola. Per qualcuno sarebbe stato tutto un 'grande abbaglio', come se noi fossimo degli sprovveduti. Entriamo e non rispettiamo la prima regola degli interrogatori: non suggerire le risposte”. Tuttavia Bazzi ascoltò per intero le dichiarazioni di Romano.

"La strage di Erba? Una vendetta". Ora la difesa punta sul super testimone

Le foto

Uno dei punti più interessanti del podcast riguarda la questione delle foto. L’opinione pubblica negli ultimi anni ha sollevato un interrogativo: come facevano Olindo Romano e Rosa Bazzi a conoscere la scena del crimine? Ai coniugi di Erba furono mostrati degli scatti in cui ci sarebbero stati dei dettagli che - si è affermato - solo i presunti killer avrebbero potuto conoscere, nonostante il gip non lo abbia mai saputo, dato che i pm non lo scrissero sul verbale d'interrogatorio. “”Il fatto fu poi acclarato sei mesi dopo le confessioni da un verbale del 6 giugno 2007, in cui il pm Massimo Astori lo mise nero su bianco. E dalla stessa requisitoria del magistrato, che lo ammise in aula”, si spiega nel podcast.

In più c’è una frase di Olindo Romano, mai trascritta, in cui ha un lapsus: “Veniamo alle altre fot… eeh questione”. “In quel momento, dunque - commentano Manti e Montolli - lo spazzino stava guardando delle fotografie decisive: stava infatti descrivendo come fosse vestita Paola Galli, una delle vittime. Si tratta dei dettagli che secondo i pm solo gli assassini potevano conoscere. In realtà nemmeno loro: alle 20, in quell’appartamento con la luce staccata alle 17,40 e le persiane probabilmente chiuse, non si vedeva assolutamente nulla, perché in città era già buio pesto”.

(ANSA il 19 luglio 2023) - La Procura generale di Milano non ha intenzione di inoltrare alla Corte d'Appello di Brescia l'atto nel quale il sostituto pg Cuno Tarfusser ha proposto la revisione del processo sulla strage di Erba, per la quale sono stati condannati all'ergastolo Olindo Romano e Rosa Bazzi. 

Tarfusser per le modalità con cui ha lavorato al suo atto è sotto procedimento disciplinare, promosso dalla procuratrice generale milanese Francesca Nanni. La Procura generale, da quanto si è saputo, sta ancora valutando la situazione, ma non ha intenzione di depositare a Brescia l'atto di Tarfusser.

Sono stati valutati anche i profili per un'eventuale richiesta di revisione da parte dei vertici della Procura generale, ma allo stato, da quanto si è appreso, non ci sono elementi per un'istanza di questo tipo. 

La procuratrice generale ha sempre ribadito che ritiene "falso e offensivo" anche nei confronti "dell'Ufficio" sostenere che stia impedendo la revisione del processo. La difesa di Olindo e Rosa, infatti, potrà presentare una propria istanza di revisione a Brescia.

La procuratrice generale Francesca Nanni ha, in sostanza, accusato Tarfusser, facendo partire il procedimento disciplinare (è stato già sentito dal pg della Cassazione), di aver violato un regolamento interno, anche rapportandosi in autonomia coi difensori di Olindo e Rosa e acquisendo le loro consulenze difensive, su cui si basa il suo atto. Un regolamento interno in base al quale compete soltanto ai vertici della Procura generale, tra cui anche l'Avvocato generale, la facoltà di presentare istanze di revisione.

Dal canto suo, Tarfusser fa valere il merito della vicenda, convinto della innocenza di Olindo e Rosa e chiarendo di aver agito nel nome della giustizia. La Procura generale, decidendo di non depositare a Brescia quell'atto presentato da Tarfusser a fine marzo, non dovrà dare comunicazione formale, ma semplicemente non presenterà alcuna istanza di revisione sul caso, perché non ritiene che ci siano elementi. In ipotesi, ad un certo punto lo stesso Tarfusser potrebbe decidere di inviare autonomamente l'atto a Brescia e la Corte a quel punto dovrà valutarne l'ammissibilità. Nel frattempo, la difesa potrebbe presentare la propria istanza, come più volte annunciato.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 18 luglio 2023.

Sotto procedimento disciplinare non per la fondatezza o meno della messa in dubbio degli ergastoli per la strage di Erba, ma per il modo di farlo, disciplinato o no da un regolamento: un’altra azione disciplinare raggiunge un magistrato milanese, ma stavolta non è azionata dal ministro della Giustizia (come per gli arresti domiciliari al russo Artem Uss in attesa di estradizione), bensì scaturisce da una denuncia proprio della dirigente la Procura generale di Milano per un conflitto insorto con un suo magistrato, Cuno Tarfusser, che ritiene errore giudiziario l’ergastolo ai coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi.

[…]  la competente Procura generale della Cassazione ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti di Tarfusser, contestandogli (sulla scia di quanto lamentato appunto dal suo capo Francesca Nanni) di aver «violato i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio» quando il 31 marzo Tarfusser depositò di propria iniziativa in cancelleria la richiesta di revisione della condanna definitiva dei due ergastolani, «in palese violazione del documento organizzativo dell’ufficio che assegna all’Avvocato generale e al Procuratore generale» (che in caso di dissenso ha l’ultima parola) «la facoltà di richiedere la revisione di sentenze» qualora sopravvengano nuove prove dell’innocenza.

Il sostituto pg milanese Tarfusser è disciplinarmente accusato di avere, appunto senza alcuna delega dal capo, per mesi tenuto contatti con i difensori Fabio Schembri e Paolo Sevesi, e da essi ricevuto consulenze scientifiche sulle asserite nuove prove a favore dei coniugi Romano-Bazzi: sulla cui base Tarfusser ha poi scritto e depositato a Nanni […] una richiesta di revisione degli ergastoli inflitti alla coppia per il quadruplice omicidio nel 2006 del bimbo di 2 anni Youssef Marzouk, di sua madre Raffaella Castagna, di sua nonna Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini, nonché per il tentato omicidio di Mario Frigerio.

Tarfusser, ex procuratore di Bolzano, poi sino al 2018 giudice e vicepresidente della Corte Penale Internazionale, è stato interrogato a Roma nel disciplinare dal sostituto pg di Cassazione Simone Perelli, di fronte al quale ha ritenuto di rivendicare la propria imparzialità nell’accertare anche possibili circostanze a favore degli imputati, e l’assurdità a suo avviso di far dipendere dall’interpretazione di un regolamento interno la sorte di due ergastolani da egli ritenuti innocenti […] 

Al pg di Cassazione, che dovrà decidere se farlo processare o no dalla sezione disciplinare del Csm, Tarfusser sostiene che il regolamento interno (che indica competenti i due vertici di una Procura Generale) sarebbe pensato per i casi ordinari in cui a chiedere la revisione è il difensore, non per l’inedito caso di una revisione chiesta d’iniziativa da un singolo magistrato. E ribalta sulla pg Nanni l’accusa di non averla informata, affermando d’averle invece chiesto in una mail il 24 marzo un incontro per parlarle di una cosa delicata e urgente, senza ricevere risposte.

In più, per spiegare al pg di Cassazione l’urgenza di depositare la richiesta entro il 31 marzo, non nasconde il riverbero del processo mediatico sul processo vero, giacché motiva d’aver voluto evitare che la Procura generale milanese sembrasse muoversi solo dopo la spinta dello speciale de «Le Iene» annunciato per il 2 aprile. 

La pg Nanni ribatte che la mail inviatale da Tarfusser non conteneva alcun riferimento specifico alla strage di Erba, Tarfusser controlamenta di non essere neppure stato richiamato da lei al telefono in quei sette giorni, Nanni gli rimprovera di aver lavorato mesi senza dirle nulla. […]

Strage di Erba, nei guai il giudice innocentista. "Sulla richiesta di revisione ha violato le regole". Tarfusser sotto procedimento disciplinare: "Ho fatto soltanto il mio dovere". Per la Pg ha calpestato il protocollo. I legali di Olindo e Rosa: carte a Brescia. Felice Manti e Edoardo Montolli il 19 Luglio 2023 su Il Giornale.

La strage di Erba fa saltare in aria la Procura generale di Milano. Come aveva ipotizzato il Giornale, dietro lo stallo sulla richiesta di revisione del processo per la mattanza dell'11 dicembre 2006, depositata il 31 marzo scorso, si nasconde una frizione tra il sostituto pg Cuno Tarfusser, autore della richiesta, e il Pg di Milano Francesca Nanni: galeotto il regolamento organizzativo che Tarfusser non avrebbe rispettato, ipotizzando il più clamoroso abbaglio giudiziario del Dopoguerra senza alcuna delega e senza avvisare il suo superiore, se non via mail qualche giorno prima. Ecco perché, qualche giorno dopo il deposito la Nanni ha chiesto al Pg di Cassazione Simone Perelli di aprire un procedimento disciplinare contro Tarfusser, che sarebbe già stato interrogato a Roma lo scorso 23 giugno. La notizia del Corriere circolava da giorni ma nessuno aveva voglia di confermarla. Il procedimento disciplinare ha «stoppato» la richiesta di revisione per oltre 100 giorni, ma le due questioni non sarebbero collegate. Sulla fondatezza deve decidere la Procura generale di Brescia, indipendentemente dall'eventuale violazione disciplinare che Tarfusser avrebbe commesso. Tanto che i legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi chiedono che la richiesta del pg venga celermente spedita a Brescia.

Ma il magistrato ha davvero violato «i doveri di correttezza, riserbo ed equilibrio» quando sostiene che quella condanna è figlia di una frode processuale? Davvero un documento assegna solo a Pg e Avvocatura «la facoltà di richiedere la revisione di sentenze»? Un cavillo vale più del diritto costituzionale a una revisione? «Attendo con grande serenità e fiducia l'esito, consapevole di non avere fatto che il mio dovere», spiega il sostituto pg. «Per il resto prendo atto come il problema della strage di Erba non sono più due persone da 17 anni all'ergastolo che hanno maturato una legittima aspettativa, ma sia diventato io che ho scoperto gravi criticità e nuovi elementi».

La posizione della Nanni è chiara: ha preso tempo per studiare la pratica, senza ostacolare affatto l'iter della richiesta di revisione. Secondo il Corriere la Pg prima di decidere aspetta la formale richiesta di revisione dei difensori, mentre l'atto di Tarfusser è «a titolo personale».

«Queste sono beghe tra toghe, non è lei a dover valutare la revisione», dicono invece Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, secondo cui «sarebbe gravissimo se la richiesta di revisione venisse sottratta alla valutazione della Corte d'Appello di Brescia». Il rischio è che passi il messaggio che prendere iniziative significhi rischiare il procedimento disciplinare, come se l'autonomia dei sostituti nell'ufficio più importante d'Italia fosse oltremodo compressa. Qualche giorno fa il vicepresidente del Csm Fabio Pinelli aveva stigmatizzato proprio l'eccessivo dirigismo di alcuni uffici giudiziari, definito «offensivo innanzitutto per i magistrati».

Peraltro, gli stessi pm di Como bacchettati da Tarfusser nella richiesta di revisione avevano respinto al mittente le accuse di aver condizionato i due coniugi e il supertestimone, Mario Frigerio, decisivo con il suo riconoscimento seppure tardivo e pieno di contraddizioni. Forse per evitare altre frizioni, la Nanni non ha ancora speso nemmeno una parola rispetto all'attacco della Procura lariana contro il suo ufficio e contro l'ex vicepresidente della Corte penale internazionale dell'Aja da cui Como dipende attraverso un comunicato stampa che aveva stupito per la sua veemenza e la sua irritualità persino l'ex procuratore capo di Milano Bruti Liberati.

Il Guardasigilli Carlo Nordio, ancora infuriato per la storiaccia dell'oligarca russo Artem Uss scappato dai domiciliari nonostante l'alert del ministero, rimane alla finestra. Come il Csm, che curiosamente era in visita agli uffici giudiziari meneghini solo l'altro ieri. Coincidenze?

ROSA E OLINDO: SCIA DI SANGUE A ERBA

Gaia Vetrano il 22 Aprile 2023 su nxwss.com

Se solo le pareti sapessero parlare, quest’oggi avremmo la risposta a uno dei più grandi quesiti del crime italiano: Rosa e Olindo sono davvero i colpevoli della strage di Erba?

Sono le 10 di mattina del 17 aprile. Uno di quei giorni normali, che quasi definiremmo come noiosi.

Erba non è Chicago, e neanche Milano. Semplicemente un normale comune in provincia di Como, che s’innalza sulle Prealpi lombarde, circondata da ville. C’è chi dice addirittura che la Brianza occidentale non abbia terra più graziosa di questa.

Effettivamente si tratta di un gioiello formato da vari borghi, ricchi di chiese e pure un castello.

Ma se c’è una cosa che voi, miei cari lettori, avete capito, leggendo i nostri racconti, è che non bisogna mai sottovalutare le cittadine più silenziose. Quelle meno conosciute, di cui si parla poco e che, molto spesso, vengono dimenticate. Perché è proprio da questi angoli bui, che nascono le più grandi storie.

Erba è solo la cornice dove agiscono un uomo e una donna. O almeno, così si crede.

È un giorno qualunque. Il presupposto della noia viene però subito derubricato. Sì, perché il telefono del nostro protagonista sta squillando da almeno un minuto. Non è l’amministratore di condominio, o l’operatore telefonico pronto a proporgli un’offerta vantaggiosa.

«Ce l’abbiamo fatta, depositeranno l’istanza di revisione». Il nostro protagonista è Cuno Tarfusser, procuratore generale di Milano, ex giudice della Corte Penale Internazionale.

L’uomo sospira dall’altra parte della cornetta. Ma per capire per quale motivo in questi giorni non si stia parlando di altro, dobbiamo fare un passo indietro.

Dalla storia di Olindo e Rosa la città di Erba è da subito rimasta colpita. Quando si respira l’aria del Natale, ci sentiamo tutti un po’ più buoni, disposti ad aiutare gli altri. Eppure, quando si avvicina la stagione natalizia, i cittadini di Como non possono che non pensare a quel lontano dicembre del 2006. Per qualche giorno, risale la malinconia, la paura, e l’orrore.

11 dicembre 2006. Nel cuore operoso della Brianza, il Natale è un momento di pausa dalle solite giornate passate in industria, o in banca. Il denaro circola senza problemi per le banali 17 mila anime che la popolano. Erba ha però dei segreti che, da manuale, si nascondono dietro le mura delle villette.

L’11 dicembre 2006 tre famiglie di Erba intersecano i loro cammini. Era una sera come tante, che si trasforma in quella che sembra essere una tragica fatalità.

Un incrocio di sguardi che però non riesce a fornirci la reale identità del colpevole degli eventi che vi stiamo per narrare. Una semplice notte che diventa l’inizio di un incubo.

È lunedì e, in questo angolo di Brianza, sono appena passate le nove di sera. È già tutto buio: tutti sono rintanati nelle loro case. Le strade sono fatte di silenzio e di gelo. D’altro canto, ci troviamo in quella che viene descritta come “La metropoli infinita”. Un distretto triste, fatto di gente chiusa e che parla poco.

Quella sera in via Armando Diaz sta succedendo qualcosa di cui difficilmente si potrà far finta di niente.

Un condominio come gli altri, ma dalle cui finestra fuoriesce molto fumo. Quelli che vi abitano vicino notano anche la porta del piano terra aperta.

Un incendio divampa sempre di più, il fuoco divora le pareti della casa. È necessario chiamare i Vigili del Fuoco. Tra questi c’è Glauco Bartesaghi, che riesce addirittura a entrare dentro. Sale le rampe delle scale, fino a quando sull’ingresso non vede una persona.

È un uomo, sdraiato sulla rampa, che respira a stento. Non a causa del fumo che pervade il locale, ma perché sta perdendo sangue. Molto sangue. Che gli macchia i vestiti, il volto. Si chiama Mario Frigerio, ha 65 anni ed è uno dei condomini dell’edificio. Abita al piano di sopra.

Qualche ora prima, il signor Frigerio stava tranquillamente guardando la televisione, mentre la moglie, Valeria Cherubini, era pronta a portare fuori il cane. Perché Mario si trova ora lì, per terra, riverso sul pianerottolo dell’edificio?

Frigerio va salvato immediatamente. Ma cos’è successo in quella casa?

In fondo, Valeria era solo uscita a fare una passeggiata, mentre al piano di sotto gli altri condomini stavano cenando tranquillamente. Insomma, niente di strano. Se non fosse per le urla che provengono dall’appartamento di Raffaella Castagna, al piano di sotto. Ma loro agli schiamazzi sono abituati. Questa e il suo compagno, Azouz Marzouk, litigano spesso.

Quando la Cherubini rientra nel condominio di via Armando Diaz, sappiamo tutti quanti cosa succede dopo.

Qualcuno fuoriesce dall’appartamento di Raffaella, seguito da una coltre di fumo. Ha le mani sporche di sangue e brandisce un’arma. La Cherubini grida, mentre questa figura incappucciata si avventa contro di lei.

«Mario! Esci fuori! Brucia la casa!», urla davanti al pianerottolo. Ma è già troppo tardi.

Il fuoco lentamente divora la camera di Raffaella. La vicenda si consuma in venti minuti, lasso di tempo in cui se quello non era l’Inferno, sicuramente ne era l’Anticamera.

I pompieri non troveranno solo il corpo di Mario Frigerio, riverso sulle scale.

Nessuno, vorrebbe rinvenire il cadavere di Valeria Cherubini, sul pianerottolo. Poco distante da quello di Mario. 

Più sopra, ci sono i corpi di Raffaella Castagna, trent’anni, e di sua madre Paola Galli, sessanta. È difficile trascinarle via: il fumo brucia il respiro. Entrambe hanno i vestiti che vanno a fuoco.

Fortunatamente stanno venendo i rinforzi. Arrivano i Carabinieri, il procuratore generale.

Spento l’incendio, notano altri dettagli dell’appartamento di Raffaella. C’è sangue dappertutto: sulle pareti, sui mobili. Sul divano, c’è il corpo del suo piccolo bambino, Youssef, di due anni e tre mesi. Una creatura innocente finita a fare capolino in una vicenda molto più grande di lui.

Tra le vittime anche il cane di Frigerio, soffocato dal monossido di carbonio dei fumi.

Com’è possibile che una furia omicida così letale si sia scagliata contro di loro? Erba si riempie di interrogativi. È l’11 dicembre 2006, e la Brianza non è più una terra silenziosa. Quella sera l’Apocalisse sembra essersi fermata al primo piano di via Armando Diaz.

Un buco nell’acqua grande quanto il mar Ionio

C’è un particolare che rende questa storia ancora più inquietante. Tutto quel sangue dice una cosa terribile: questo non è un semplice omicidio, ma un massacro.

Chi può aver ucciso quattro persone e averne ferita una tanto da portarla in coma?

Mario viene portato subito in ospedale. Vengono avviate anche le autopsie. Le vittime, oltre alle numerose coltellate, presentano anche delle ferite da corpo contundente, forse una spranga. Solo Youssef è stato ucciso da un unico colpo alla gola.

Tutte e cinque le persone colpite sono accumunate da questo colpo finale, una sorta di sgozzamento. Se Mario Frigerio si trova in ospedale, lo deve solo a una fortunata coincidenza: a causa di una malformazione della carotide, per qualche millimetro la lama dell’arma non l’ha recisa.

Il tipo di ferite e le dinamiche lasciano intendere un’unica cosa: gli assassini erano due. Uno di questo mancino. Inoltre, molti inquirenti cominciano a sostenere che, coloro i quali avessero compiuto questo massacro, provassero dell’odio nei confronti delle loro vittime. In fondo, ci vuole tanta rabbia per uccidere un bambino di due anni, davanti a sua madre.

Ora ci vuole solo tanto coraggio per guardare in faccia i familiari delle vittime, tra cui Carlo Castagna, che in una sola notte ha perso una moglie, una figlia e un nipote. Per un caso non era con loro. Le sue lacrime rappresentano il dolore di una nazione intera.

È arrivato il momento di iniziare a raccontarvi delle indagini dietro questo caso.

Gli inquirenti cominciano a indagare proprio da Raffaella. Nessuna ipotesi viene esclusa.

Mario Frigerio e sua moglie Valeria non avevano nulla da nascondere. Due figli grandi: appassionato escursionista lui, lei commessa. Due brave persone, così come Paola Galli. Tutti la raccontano come una donna pia, sempre dedita alla beneficenza. Il signor Carlo Castagna è un democristiano buono e colto, che per anni ha lavorato come assessore una volta conclusi i suoi studi a Parigi.

Quella dei Castagna è una famiglia che conta a Erba. Benestanti e stimati. È proprio da qui che cominciano le ricerche. Raffaella ha due fratelli: Giuseppe e Pietro, che lavorano con il padre. Lei è la piccola di casa, una ribelle che amava il sociale e le persone. Pur essendo molto cattolici, nessuno in famiglia approvava questo suo eccessivo altruismo.

In particolare, suo marito Azouz non era ben visto. Tra tutti i membri della famiglia, da quella tragica scena mancava anche lui. Perché il giovane tunisino non era presente? E soprattutto, dove si trova?

Il giovane è originario di Hammamet, Tunisia. Il padre è fotografo, la madre casalinga. Nel 2002 raggiunge il fratello maggiore, già in Italia da qualche anno. Incontra Raffaella nella piazza del mercato di Erba. Un colpo di fulmine. Azouz è un giovane piacevole, e le propone di sposarlo dopo un paio di mesi dal loro primo incontro.

Alla cerimonia la famiglia Castagna non prenderà parte. Alla famiglia non piaceva a causa delle sue cattive frequentazioni e perché disoccupato. È un personaggio rissoso e iroso, il contrario di ciò che Carlo Castagna sperava come genero.

La nascita di Youssef sembra portare serenità, ma dura poco. Azouz riceve una condanna a due anni di carcere per spaccio di eroina. Per indulto ne sconta solo sedici e, quando rientra a casa, le ore con Raffaella non sono proprio serene.

I vicini spesso segnalano di urla: i due litigano, e Raffaella sembra essere vittima di violenze domestiche.

Un marito violento. Spacciatore. Scappato alla strage della sua famiglia. Con un passato difficile in un paese lontano da Erba, la Tunisia. Se fosse lui, l’assassino?

Sull’opinione pubblica, la strage di Erba lascia una forte impronta. In particolare in seguito le accuse poste nei confronti di Marzouk. In men che non si dica si riprese a parlare di problematiche sociali quali l’integrazione dei migranti in Italia, soprattutto da parte dei militanti dei partiti di destra, tra questi la Lega.

Vennero organizzate fiaccolate contro gli immigrati clandestini, i marocchini e in particolare i tunisini.

Gli inquirenti cominciarono da subito la caccia all’uomo. Ma dura poco.

Tramite un’agenzia di viaggi si viene a conoscenza che Azouz Marzouk in quei giorni si trovava in Tunisia. A confermare ciò anche lo stesso Carlo Castagna.

Marzouk dalla scena del crimine si trovava distante 1.514,2 km. Quello degli inquirenti si tratta di un buco nell’acqua, grande quanto il mar Ionio.

Excusatio non petita, accusatio manifesta

Un giorno dopo la strage, Azouz rientra in Italia. Ora gli è rimasto solo Carlo Castagna.

Le indagini proseguono, nonostante molti continuino a non provare compassione nei confronti del tunisino. Il suo volto invade televisioni e giornali. Eppure l’esposizione mediatica non lo infastidisce, ma al contrario, come racconterà lui stesso più avanti, gli fruttò particolarmente in termini di denaro. 

Ma se Marzouk esce di scena, il suo passato rimane comunque oggetto di indagini. Gli inquirenti si chiedono infatti se la strage non potesse essere una vendetta da parte di qualcuno con cui il tunisino avesse avuto problemi. Il ragazzo era infatti stato coinvolto in alcuni screzi con altre bande di spacciatori, oltre ad aver conosciuto alcuni boss di Ndrangheta in carcere.

Entrambe le piste non portano a nulla.

Le indagini cambiano rotta, si ritorna a controllare la scena del crimine. Si riparte dalla scelta di colpire le proprie vittime in casa e dalle armi usate. Si pensa infatti che il coltello e la spranga siano state selezionate per evitare di fare eccessivo rumore.

C’è poi un dubbio: i killer da dove sono scappati? Ci sono solo due via di fuga, ossia le scale e il portone, ma i vicini di casa non hanno visto nessuno uscire dal palazzo. Questi hanno un nome: Olindo Romano, di 44 anni, e Rosa Bazzi, di 43.

La notte della strage sono tra i primi a venire ascoltati dai Carabinieri, abitando al piano di sopra di Raffaella. Durante gli interrogatori gli inquirenti notano qualcosa di strano. Il signor Romano presentava un’ecchimosi al braccio, mentre la signora Bazzi una ferita al dito. Come se li sono provocati?

Non basta per costituire una prova, chiaramente. Eppure, non passano inosservati gli atteggiamenti dei due. Rosa, in particolare, mostra uno scontrino ai Carabinieri, senza che nessuno lo chiedesse.

In latino si dice “Excusatio non petita, accusatio manifesta”, letteralmente “Scusa non richiesta, accusa manifesta”.

Come se Rosa volesse giustificare e dimostrare che lei e suo marito Olindo stessero facendo altro, quando nessuno aveva messo in discussione, fino a quel momento, un loro alibi.

Infine, c’è un altro particolare che suscita stupore e perplessità. Intorno alle due del mattino, la coppia decide di accendere la lavatrice. Agli inquirenti pare strano che decidano di svolgere faccende domestiche a quell’ora della notte, dato quello che era accaduto.

Forse tutto questo non significa nulla, forse sono solo dei dubbi infondati. Dei comportamenti ambigui.

Eppure, gli inquirenti non vogliono tralasciare alcuna pista: vengono fatti analizzare gli abiti messi a lavare quella sera, mentre i Romano finiscono incarcerati.

Ma chi sono Olindo e Rosa?

Se i vicini fan schiamazzi, chiama Olindo e Rosa Bazzi

Olindo e Rosa sono sposati e vivono a Erba da più di vent’anni. Da fuori sembrano tanto diversi.

Olindo è un omone taciturno e scontroso. È figlio di alpini, rude ma dall’animo buono. Rosa è molto socievole, chiacchierona e vivace. Piccola di statura, con un’istruzione che si ferma alla quinta elementare.

Netturbino lui, donna delle pulizie lei. Estremamente puliti e ordinati. Una vita autoriferita, scandita dai loro orari di lavoro. Pur avendo amici, preferiscono passar tempo soli a casa. Con i loro ritmi ben precisi: pranzo rigorosamente alle 13, cena alle 19, a letto prima delle 22. Un rapporto simbiotico e profondo. 

Sono talmente chiusi nel loro mondo da non sopportare rumori e urla, soprattutto quelle che provengono dall’appartamento di Raffaella Castagna.

Olindo e Rosa malvedono Raffaella e Azouz. Ma i coniugi hanno un alibi, che sembrerebbe scagionarli dalla vicenda: i due raccontano di essere infatti andati a cenare al McDonald’s di Como, e a riprova di ciò vi è il famoso scontrino.

Eppure qualcosa continua a insospettire gli inquirenti perché quello non è un alibi ferreo. L’orario dello scontrino è delle 21.37. Mentre la strage si è consumata intorno alle 20. Erba e Como sono a pochi chilometri di distanza. Bastano un quarto d’ora di macchina. Volendo, uno può compiere la strage e poi andare a cenare con un Big Mac senza problemi.

D’altro canto, l’astio che vi era tra i Romano e i Castagna era noto a tutti. Una volta, Raffaella con un vaso aveva sporcato i panni stesi di Rosa. Le due iniziano a litigare tanto animatamente per la vicenda che la prima decide di querelare la Bazzi per percosse.

Ma si può decidere di sgozzare qualcuno per una querela? E altre vittime per quale motivo c’entrano?

Nel frattempo arrivano i risultati delle perizie del RIS di Parma: in casa dei Romano non ci sono tracce di sangue o di natura biologica delle vittime, mentre nella scena del crimine non viene trovato segno alcuno di Rosa e Olindo. Non ci sono prove sufficienti per accusarli di omicidio.

L’unico che può dare una risposta è Mario Frigerio, che all’improvviso si risveglia. Respira a fatica, ma è in grado di parlare. Alla presenza degli inquirenti racconta in maniera abbastanza precisa gli eventi.

Stando ai suoi racconti, uscito sul pianerottolo di casa la prima cosa che vede è una figura fuori l’appartamento dei Castagna. Un individuo di imponente stazza, con la faccia grossa e i capelli abbassati, e di cui lui si fida. Questo lo spinge a terra con forza, prima di tirare fuori dalla tasca il coltello.

L’identikit fornito da Frigerio cambia più volte. Quando gli inquirenti gli chiedono per la prima volta se si trattasse di Olindo Romano, Mario Frigerio risponde di sì.

Eppure nel farlo continua a descrivere una persona che non sembrerebbe rispettare l’aspetto estetico del vicino di casa, trattandosi di un uomo dalla pelle olivastra.

C’è un altro elemento che proverebbe la colpevolezza di Olindo. Nella sua macchina viene infatti trovata una piccola traccia di sangue di Valeria Cherubini.

Eppure, Frigerio stesso conferma la presenza di un secondo killer insieme a Olindo. Chi potrebbe essere se non Rosa? Che, oltre a essere la sua compagna di vita, è anche mancina?

I due vengono arrestati per la strage di Erba. 

Sono davvero i colpevoli della strage di Erba?

Sappiamo tutti come si conclude la loro storia, ma è giusto che ve la racconti.

Sottoposti ai primi interrogatori, entrambi i coniugi negano di essere i colpevoli dell’omicidio. Mettono in dubbio le parole di Frigerio, accusandolo di aver detto il falso, e continuano a ripetere di essere stati tutta la sera lontani da via Armando Diaz e da Erba.

Poi, succede qualcosa che dà a questa storia una piega diversa. Olindo decide di voler confessare. Avendo parlato con i magistrati, spiega a Rosa, in uno dei loro ultimi incontri prima del processo, che se avesse confessato lei sarebbe stata assolta.

Ovviamente, ciò che vi stiamo raccontando è tratto dai file delle registrazioni che gli inquirenti hanno effettuato durante tutte le indagini.

Olindo e Rosa ammettono, separatamente, di essere colpevoli. Ognuno accusa sé stesso per scagionare l’altro, ammettendo l’odio che entrambi provano per i Castagna. Sei anni di liti dove la querela è stata la goccia che ha fatto traboccato il vaso. L’udienza, infatti, si sarebbe tenuta due giorni dopo la strage.

Prima di uscire, i due coniugi ammettono anche di aver staccato la luce della casa di Raffaella dal contatore del condominio, per vendicarsi dell’ultimo litigio avvenuto. Dopodiché, avrebbero aspettato che la donna tornasse dal lavoro, seguita quella sera da Youssef e dalla mamma, Paola Galli. Olindo, armato di spranga, e Rosa, con il coltello, si sarebbero poi avventati contro l’appartamento dei Castagna. 

I due raccontano le dinamiche della strage: secondo il loro racconto, Rosa avrebbe accoltellato Raffaella, mentre Olindo avrebbe ucciso a sprangate la madre. Terminato il massacro avrebbero dato fuoco all’appartamento. Uscendo, trovandosi Valeria Cherubini di fronte, sono stati costretti a massacrarla. Lo stesso destino è toccato a Mario Frigerio, su cui Olindo si sarebbe accanito.

L’ultima parola spetta ai giudici. Il 29 gennaio 2008 si apre il processo e si accendono i riflettori della nazione intera. La coppia dei Romano, da dietro le sbarre, si scambiano coccole ed effusioni come due fidanzati. Il ricordo di quella notte affiora come il peggiore degli incubi. Interrogato davanti alla corte, Olindo accuserà più volte i Carabinieri di averlo sottoposto al lavaggio del cervello.

La difesa, costituita da Fabio Schembri, si concentra sulla confessione, ritenuta indotta. Riguardo alla macchia di sangue trovata sull’auto, si tratterebbe di una contaminazione innocente da parte degli stessi inquirenti che la sera stessa, dopo aver perlustrato la scena del crimine, sono entrati nella macchina di Olindo.

L’accusa di Astori e Manuel Gabrielli demolisce le dichiarazioni di Olindo, riportando perizie riguardo la disputa dell’auto.

A rendere il clima più pesante anche le consulenze psichiatriche svolte da Massimo Piccozzi, per conto della precedente difesa dei Romano. A inchiodare i coniugi c’è la testimonianza di Frigerio, che afferma di ricordarsi ogni singolo dettaglio di quella notte.

La difesa, riguardo le parole di questo, ripete siano state condizionate e quindi inattendibili. Davanti ai giudici, Rosa ribadisce la sua innocenza, supplicando i giudici di non separarli in carcere. 

Alla fine, questa richiesta non verrà ascoltata. La Corte d’assise pronuncia il 26 novembre 2008 la sentenza di primo grado: i coniugi Romano sono condannati all’ergastolo con l’isolamento diurno per tre anni. La Corte di Cassazione confermerà la condanna.

Oggi i coniugi Olindo e Rosa sono autorizzati a vedersi una volta al mese. Stanno scontando la loro pena rispettivamente al carcere di Opera lui e a quello di Bollate lei.

Il 16 settembre 2014 muore, in una casa di cura ed all’età di 73 anni, Mario Frigerio, dopo qualche mese dalla diagnosi di una malattia terminale. Il 25 maggio 2018, a 74 anni, ci lascia Carlo Castagna.

Oggi il procuratore Cuno Tarfusser ha chiesto di riaprire l’indagine. Insieme a lui anche il pool degli avvocati della difesa, costituito da Fabio Schembri, Nico D’Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello. Questi mettono in dubbio la validità delle parole di Mario Frigerio, e al contrario sostengono di disporre di “più di un nuovo testimone”. 

Tra questi un uomo che “risiedeva nella casa della strage, poi arrestato per traffico internazionale di stupefacenti che faceva parte dei fratelli di Azouz”. Questo avrebbe riferito “di una faida con un gruppo rivale, nella quale anche lui è stato ferito con un’arma da taglio”. Un altro testimone sarebbe “un ex carabiniere che riferisce delle indagini e delle parte mancanti del 50% dei momenti topici delle intercettazioni”.

Ad aver causato la morte dei Castagna e di Valeria Cherubini non sarebbe stato l’odio che Olindo e Rosa provavano nei confronti di Raffaella, ma un regolamento di conti tra bande rivali, legato al mercato dello spaccio.

«Ogni singolo elemento di prova non regge e ora i nuovi elementi raccolti vanno a intaccare la condanna» spiega Schembri all’Adnkronos.

Per il pool di avvocati, l’identikit fornito da Frigerio sarebbe una memoria falsata, così come “false“, indotte, sono le confessioni di Olindo e Rosa. La macchia di sangue di Valeria trovata nella macchina di Olindo sarebbe una “suggestione ottica”.

Infine, viene posto un grande interrogativo: com’è possibile che in quella “mattanza“‘, in quel “bagno di sangue“, i due condannati siano riusciti a non lasciare alcuna loro traccia e a non ‘portarne’ alcuna nella loro abitazione?

La scleta se riaprire il caso spetta prima alla Corte d’Appello di Brescia e poi ai legali della procura generale di Milano.

Nel frattempo poniamo a voi il quesito: Olindo e Rosa sono davvero colpevoli?

Scritto da Gaia Vetrano

Le foto presenti in questo articolo provengono da internet e si ritengono di libero utilizzo. Se un’immagine pubblicata risulta essere protetta da copyright, il legittimo proprietario può contattare lo staff scrivendo all’indirizzo email riportato nella sezione “Contatti” del sito: l’immagine sarà rimossa o accompagnata dalla firma dell’autore. 

GAIA VETRANO. 19 anni. Studia Ingegneria Civile e Gestionale a Catania. Quando non è alle prese di derivate e integrali le piace scrivere e parlare delle sue passione e degli argomenti più svariati. Un giorno spera di lavorare nell’industria della moda.

Certe storie si raccontano solo di SaturDie, la rubrica crime di Nxwss.

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Lo stesso principio, si presume, valga per l'autore del contenuto.

Le nuove rivelazioni. “Rosa e Olindo sono innocenti, la strage di Erba per una partita di droga”, spuntano gli audio di due telefonate inedite. Redazione Web su L'Unità il 28 Giugno 2023

Dopo ben 17 anni dalla Strage di Erba, emergono nuovi dettagli sul caso. “Il 29 dicembre 2008 uno dei legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi, l’avvocato Luisa Bordeaux, ricevette una telefonata prima a casa e successivamente nel suo ufficio, in cui un uomo con l’accento del sud, presentatosi come ‘Morabito’, sosteneva che i due coniugi, appena condannati a Como, fossero innocenti. E che, per contro, il movente della strage andava ricercato in una partita di droga scomparsa del valore di 400 mila euro“. E’ questa la grande novità divulgata dagli avvocati di Rosa e Olindo nel podcast dal titolo “Il grande abbaglio”, dei giornalisti Felice Manti e Edoardo Montolli, autori dell’omonimo libro inchiesta sulla strage di Erba del 2008, che sarà online oggi pomeriggio.

Dopo la richiesta di revisione del processo messa nero su bianco dal sostituto procuratore della procura generale di Milano Cuno Tarfusser, un nuovo indizio emergerebbe sull’innocenza di Rosa e Olindo che attualmente sono in carcere scontando l’ergastolo per i fatti avvenuti l’11 dicembre 20116. A divulgare per la prima volta l’esistenza della telefonata è proprio l’avvocato Bordeaux, nel terzo episodio del podcast. “Non abbiamo mai rivelato prima l’esistenza di questa telefonata – spiega nel podcast Fabio Schembri, altro storico legale di Olindo e Rosa – perchè nel 2008 nulla si sapeva della criminalità organizzata a Erba, scoperta dall’indagine Crimine-Infinito della Procura di Milano solo nel 2010, quando emerse l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta dedita al traffico internazionale degli stupefacenti”.

Alla richiesta di revisione del processo, secco e senza dar spazio a nessun dubbio, rispose il procuratore capo facente funzioni di Como Massimo Astori: “La lettura delle corpose e approfondite sentenze che hanno motivato la condanna all’ergastolo di entrambi gli imputati, atto imprescindibile e doveroso per chiunque intenda formulare pubblicamente osservazioni, non lascia spazio a perplessità“. Ma le nuove rivelazioni potrebbero nuovamente cambiare le cose.

Dopo l’ipotesi di riapertura del caso della strage di Erba, per la quale secondo il pg di Milano Olindo e Rosa sono innocenti, è arrivata la reazione dei fratelli Pietro e Beppe Castagna, che hanno perso madre, sorella e nipotino. I due, che avevano deciso di non parlare più del caso, di fronte ai nuovi sviluppi avevano deciso di tornare a indicare quella che per loro è l’unica verità. “Speravo fosse finita ma ci risiamo, purtroppo la superficialità è meno faticosa del pensiero consapevole”, hanno commentato sui social. E accusano: “Chi sfrutta questa debolezza di molti solo per fare audience o per crearsi carriere o visibilità, è un vigliacco”.

Durante la strage furono uccisi a colpi di coltello e spranga Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Il marito di quest’ultima, Mario Frigerio, colpito con un fendente alla gola e creduto morto dagli assalitori, riuscì a salvarsi grazie a una malformazione congenita alla carotide che gli evitò la morte per dissanguamento. La strage avvenne nell’abitazione di Raffaella Castagna, in una corte ristrutturata nel centro della cittadina nel Comasco. L’appartamento fu dato alle fiamme subito dopo l’esecuzione del delitto. Per quella drammatica vicenda furono accusati Rosa e Olindo che erano i vicini di casa. I due stanno scontando la pena all’ergastolo.

Redazione Web 28 Giugno 2023

Da leggo.it il 30 maggio 2023.

È stato trovato morto stamane in un bosco, il maresciallo Luca Nesti, il comandante della stazione carabinieri di Costa Masnaga (Lecco) già in servizio a Erba (Como). Il cadavere del sottufficiale è stato rintracciato dopo cinque giorni di ricerche a tappeto nei boschi tra Lambrugo (Como), dove Nesti viveva, e il Lecchese.  

(...) Del sottufficiale, 55 anni, si erano perse le tracce attorno alle 15 di mercoledì scorso. 

La scomparsa dopo un litigio famigliare

In base a quanto si è potuto apprendere, il militare risulta si fosse allontanato volontariamente dopo una discussione famigliare, portando con se l'arma di ordinanza.

Sarà ora un'inchiesta a cercare di fare piena luce sull'accaduto. 

Indagò sulla strage di Erba

Nel 2006, quando era comandante della stazione dell’Arma di Erba, Luca Nesti era arrivato per primo sulla scena del quadruplice delitto e aveva condotto le perquisizioni a caccia delle prove che avevano portato agli arresti di Olindo Romano e della moglie Rosa Bazzi, ritenuti gli autori della mattanza.

Trovato morto nei boschi il carabiniere Luca Nesti: era scomparso da giorni. Il carabiniere Luca Nesti si era allontanato dalla propria abitazione mercoledì scorso, portando con sé la pistola d'ordinanza. Indagini in corso. Federico Garau il 30 Maggio 2023 su Il Giornale.

È stato ritrovato questa mattina il maresciallo Luca Nesti, comandante della stazione carabinieri di Costa Masnaga (Lecco), dato per disperso dalla serata di mercoledì 24 maggio. Nesti, che prese parte alle indagini sul terribile caso di quella che è passata alla storia come "Strage di Erba", si era allontanato spontaneamente dalla propria abitazione. Col passare delle ore in pochi pensavano di riuscire a trovare il carabiniere ancora in vita, e purtroppo quei timori si sono rivelati fondati. Stamani, infatti, i soccorritori hanno rinvenuto il suo cadavere.

Scomparso maresciallo dei carabinieri, lavorò nelle indagini sulla strage di Erba

Il ritrovamento

Le ricerche, a cui hanno partecipato tanti rappresentanti delle forze dell'ordine, anche colleghi, sono andate avanti incessantemente per quasi una settimana. Il maresciallo Luca Nesti se ne era andato portando con sé la pistola d'ordinanza, e questo aveva subito fatto pensare al peggio. Questa mattina, dopo cinque giorni di ricerche portate avanti nei boschi di Lambrugo (Como), dove si erano spinti i cani molecolari, il corpo del 55enne in una zona della macchia verde. Non è stato possibile, dunque, fare nulla per lui. Il carabiniere si è probabilmente ucciso, e adesso spetterà alle autorità locali fare luce sulla tragica vicenda.

Cosa sappiamo

Luca Nesti, residente a Erba, si era occupato nel corso della sua carriera anche delle indagini relative alla "strage di Erba", in qualità di comandante della stazione dei carabinieri di quella zona. Era stato fra i primi ad accorrere sul luogo del terribile delitto. Aveva poi preso il comando della stazione carabinieri di Costa Masnaga (Lecco). Nella giornata di mercoledì 24 maggio si era allontanato dalla propria abitazione di Lambrugo, intorno alle ore 15, dopo aver avuto un'accesa discussione con la moglie. Questo, almeno, quanto riferiscono i quotidiani locali. Pare infatti che la famiglia stesse attraversando dei momenti di difficoltà.

Per trovarlo si era mosso un ingente dispiegamento di forze. A partecipare alle ricerche, interrotte due giorni fa, i carabinieri dello squadrone elitrasportato dei Cacciatori di Calabria, la polizia locale, gli uomini della Protezione civile, i vigili del fuoco e la guardia di finanza. Anche i colleghi di Nesti, i militari della stazione di Costa Masnaga, hanno fatto del loro meglio per rintracciare il compagno. Alla fine il 55enne è stato rinvenuto senza vita nei boschi, a poca distanza dalla sua abitazione. L'ipotesi più avvalorata è che si sia trattato di un gesto volontario. Le indagini sulla vicenda sono in corso.

C’è ancora spazio in Italia per i processi indiziari? Rosa e Olindo, la strage di Erba, l’ergastolo e la richiesta di revisione del processo: Italia divisa. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 14 Maggio 2023 

C’è ancora spazio in Italia per i processi indiziari? La richiesta di revisione della sentenza di condanna nei confronti di Olindo Romano e Rosa Bazzi, presentata nei giorni scorsi sia dalle loro difese che dal sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser, ha suscitato come era prevedibile un accesso dibattito fra “colpevolisti” e “innocentisti”. Olindo e Rosa sono stati condannati all’ergastolo per aver ucciso la sera dell’11 novembre 2006 ad Erba in provincia di Como, Raaella Castagna, il figlioletto di due anni Youssef Marzouk, la mamma Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini.

La motivazione della strage, avvenuta con modalità efferate, sarebbe stata l’insoerenza della coppia nei confronti, in particolare, del tunisino Azouz Marzouk, marito della Castagna. Gli elementi su cui i giudici hanno condannato i due coniugi sono stati la testimonianza di Mario Frigerio, marito della Cherubini, miracolosamente sopravvissuto alla strage dopo aver riportato un taglio alla gola, il quale inizialmente aveva però affermato che l’assassino fosse un soggetto con la carnagione “olivastra”, una macchia di sangue sul battitacco dell’auto di Olindo, ritrovata a settimane di distanze in quanto nei tre sopralluoghi effettuati dai carabinieri nell’immediatezza non venne trovata alcuna traccia biologica delle vittime nelle pertinenze del luogo della strage, la confessione di entrambi.

“Per quanto concerne la confessione, è provato dalle intercettazioni ambientali effettuate dagli inquirenti che non è stata genuina” puntualizza il difensore dei due, l’avvocato Fabio Schembri, secondo il quale “Olindo e Rosa avrebbero deciso di confessare la strage dopo che gli sarebbe stata prospettata la possibilità di avere dei “vantaggi”, per esempio una cella matrimoniale dove trascorrere la detenzione.

La decisione del sostituto Pg milanese ha scatenato la durissima reazione di Massimo Astori, procuratore facente funzioni di Como. Astori ha diramato un comunicato nel quale ha preso le distanze dal collega Tarfusser. “Senza giustificazione alcuna – scrive Astori – a distanza di 16 anni, espressioni del pg contengono accuse di condotte abusive e illegittime se non di veri e propri reati a carico di magistrati della procura di Como”.

“La responsabilità di Rosa Bazzi e Olindo Romano – prosegue – è stata afferma nei tre gradi di giudizio. I giudici hanno espresso valutazioni ampiamente positive delle prove raccolte dalla pubblica accusa e hanno accolto integralmente nei tre gradi di giudizio le richieste dei rappresentanti dell’ufficio del Pm. La lettura delle corpose e approfondite sentenze che hanno motivato la condanna all’ergastolo di entrambi gli imputati, atto imprescindibile e doveroso per chiunque intenda formulare pubblicamente osservazioni, non lascia spazio a perplessità”.

Il procuratore di Como ribadisce come nel corso delle tre fasi di giudizio “svolte nel pieno rispetto delle garanzie processuali e con la costante partecipazione della difesa”, i giudici abbiano più volte affermato la correttezza di magistrati e investigatori e che sono state raccolte “prove incontestabili” e non solo le confessioni.

Dal 2015 ad oggi, inoltre, “ai tre gradi di giudizio e ai due giudizi incidentali, sono seguite numerose altre pronunce sulle istanze di nuovi indagini o di revisione del processo, tutte respinte”. “Le confessioni – continua il capo dei pm lariani – sono state dettagliate sino alla descrizione di ogni minimo e più atroce par ticolare e accompagnate a ulteriori prove emerse”.

E le stesse confessioni “sono state seguite, nei mesi successivi, da ulteriori dichiarazioni confessorie a più interlocutori e persino da appunti manoscritti”. “La ritrattazione è stata frutto di un cambio di strategia processuale”. Se non stupisce comunque che “le difese intendano legittimamente proporre nuove iniziative”, stupisce “che la proposta di revisione, frutto dell’iniziativa individuale di un sostituto procuratore generale della Procura presso la Corte D’Appello di Milano sia stata rapidamente e integralmente divulgata prima della sua trasmissione all’Autorità competente”.

Astori contesta poi espressioni del pg come “uso pesante di fonti di prova come grimaldelli per convincere i fermati a confessare” e “manipolazioni da parte dei Carabinieri”. “Le espressioni sopra riportate – commenta il procuratore – contengono accuse di condotte abusive e illegittime, se non veri e propri reati, a carico di magistrati, senza giustificazione alcuna. La Procura di Como in questi 16 anni si è consegnata a un doveroso quanto rigoroso silenzio, guidata dal rispetto della legge, delle parti processuali e degli stessi condannati”.

“La Procura auspica – conclude allora la nota -che altrettanto rispetto sia adottato, nelle forme e nei contenuti, da tutti coloro che si accostano a questa drammatica vicenda, al cui fondo rimane il profondo dolore di chi ne è stato colpito. Tutelerà comunque, nelle sedi e con le forme opportune, l’immagine dell’ufficio, a difesa dei singoli magistrati e della loro correttezza professionale”.

In caso di accoglimento dell’istanza di revisione, il nuovo processo si celebrerà davanti alla Corte d’assise di Brescia. Paolo Pandolfini

Strage di Erba: c'era davvero una macchia di sangue sull'auto di Olindo Romano? Non c’è mai stata agli atti una foto della traccia evidenziata dal liquido luminol, ma solo una foto normale con sopra disegnato un cerchietto, all’interno del quale un brigadiere dei carabinieri ha sempre sostenuto di aver rinvenuto la macchia di sangue. Felice Manti il 12 Maggio 2023 su Il Giornale.

C’era davvero una macchia di sangue sull’auto di Olindo Romano? Sul canale Youtube @frontedelblog la nuova puntata del nostro podcast «Il grande abbaglio» tratto dall’omonimo libro scritto con Edoardo Montolli e dedicato alla strage di Erba, per la prima volta siamo in grado di rivelare i dettagli della consulenza del genetista Marzio Capra, che presto sarà depositata a Brescia dai legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi. Si parla della macchia di sangue repertata il 26 dicembre 2006 dal brigadiere del Rono di Como Carlo Fadda sul battitacco della vettura di Olindo Romano, una delle tre prove che hanno portato i coniugi all’ergastolo. Come i lettori del Giornale sapranno, il pg di Milano Cuno Tarfusser ha scritto nella sua richiesta di revisione del processo che il verbale di repertazione, avvenuto il 28 dicembre, a due giorni da quando i lavori vennero svolti, fu solo «apparentemente redatto» da Fadda, l’unico ad asserire che sulla vettura ci fosse una traccia di sangue: la macchia non fu infatti mai documentata. Ovvero: non c’è mai stata agli atti una foto della traccia evidenziata dal liquido luminol, ma solo una foto normale con sopra disegnato un cerchietto, all’interno del quale il solo Fadda ha sempre sostenuto di aver rinvenuto la macchia di sangue.

Soprattutto, ai processi Fadda parlò di una macchia lavata e pulita, mentre il professor Carlo Previderè di Pavia sostenne in aula di aver analizzato una macchia densa e originale, che aveva subito pochi passaggi. Come fa ad essere la stessa macchia, ci siamo chiesti? Abbiamo così analizzato il verbale di Fadda e le foto originali del brigadiere, scattate con una macchina digitale. E abbiamo scoperto che, in effetti, Fadda di quel verbale non sapeva molte cose: il vero orario di inizio delle repertazioni, la targa della macchina di Olindo, il numero delle foto scattate, l’ordine delle foto e perfino che a fare la repertazione non era da solo, come documenta un audio del tutto inedito fatto ascoltare nel podcast, proveniente dalla Seat della coppia, che era intercettata. E nel quale si evidenzia come, differentemente da quando ribadito più volte in aula dal brigadiere, a fare le repertazioni erano due persone. Chi era la seconda persona e perché Fadda non ne ha mai parlato in aula? E perché non sono stati apposti i cartellini sulle tracce con le misurazioni, come si fa in ogni repertazione (e come aveva fatto lo stesso Fadda in precedenza nell’analisi delle tracce sulla Lancia K di Carlo Castagna)?

Ma nel podcast viene per la prima volta analizzata nel dettaglio anche la consulenza per la difesa realizzata dal noto genetista Marzio Capra. Da essa si scopre anche che l’ordine delle tracce, senza alcuna giustificazione logica e diversamente da quanto riportato a verbale, era stato cambiato: le quattro tracce rinvenute (tre risultate negative) sono state catalogate ovviamente come 1-2-3-4, la prima delle quali trattata con un prodotto utile a capire se si fosse in presenza di sangue umano.

Ma le proprietà digitali dei file fotografici svelano che l’ordine esatto fu 3- 2- 4 -1, e dunque solo l’ultima venne sottoposta al trattamento per capire se si fosse in presenza di sangue umano.

Non solo. La traccia di sangue che mandò la coppia all’ergastolo e catalogata come Foto 3 era in realtà la prima e venne repertata unicamente grazie al luminol. Ma, come evidenzia il genetista, il battitacco appare secco: se fosse stato spruzzato lì sopra del luminol, sarebbe dovuto essere intriso di liquido, così come appare intrisa di liquido la parte laterale del sedile della macchina nella foto scattata appena 6 secondi più tardi. Dov’è finito il luminol del battitacco utile a evidenziare la traccia?

(ANSA l'8 maggio 2023) Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef, due delle quattro vittime della strage di Erba (Como) delll'11 dicembre del 2006 ha tenuto una condotta diffamatoria "di gravità estrema", con insinuazioni che hanno alimentato la corrente innocentista sull'eccidio, e la denigrazione delle parti offese "già una prima volta stravolte dall'efferato omicidio dei loro familiari, e nuovamente travolte dalla impressionante risonanza mediatica delle infondate accuse a loro rivolte".

A scriverlo è il giudice di Como Veronica Dal Pozzo, nelle motivazioni della sentenza con cui ha condannato Marzouk a due anni e mezzo per diffamazione aggravata ai danni degli ex cognati, Beppe e Pietro Castagna, che avevano presentato denuncia Nelle motivazioni, pubblicate da "Il Giorno", il giudice spiega perché ha raddoppiato la richiesta del pm (un anno e tre mesi). In un articolo su un sito nel febbraio del 2019 si sosteneva l'ipotesi che la strage avesse un fine economico: "Indagate sulla famiglia - aveva detto Marzouk - mio figlio Youssef conosceva l'assassino… Lo ha ucciso qualcuno vicino a mia moglie. Basta leggersi le carte per capire che qualcuno voleva l'eredità di mia moglie».

Al giudice è apparso chiaro il riferimento alla famiglia delle vittime e nella sentenza sottolinea lo "speciale disvalore" di questo comportamento sotto due profili: "Non solo che l'accusa provenisse da loro stesso cognato, ma anche e soprattutto che si sia inserita nel fluire di una corrente innocentista e revisionista del processo, risolvendosi in una vera e propria campagna di disinformazione, fatta di sibilline allusioni ed eclatanti denigrazioni, brutalmente lesiva della reputazione dei fratelli Castagna". Una condotta compiuta "nella consapevolezza della falsità delle accuse loro rivolte".

Strage di Erba, l'ira dei pm: nessuna ombra sui processi. Astori difende la Procura di Como: ingiustificata la revisione chiesta dal Pg. Ma fu lui a fare le indagini. Felice Manti e Edoardo Montolli il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Strage di Erba, ora a parlare è la Procura di Como. E, dato che il posto di procuratore capo è vacante, lo fa con un comunicato del procuratore facente funzioni Massimo Astori. Che però è anche parte in causa nel processo contro Olindo e Rosa, essendo il pubblico ministero che condusse le indagini e il dibattimento in aula contro la coppia. Astori si riferisce alla richiesta di revisione proposta dal sostituto Pg di Milano Cuno Tarfusser, ancora ferma alla Procura generale, a quanto risulta al Giornale. Ma il magistrato, irritualmente, non si limita a difendere il suo operato di sedici anni fa, sostenendo la bontà del proprio lavoro. Anzi, attacca direttamente il Pg, le cui «espressioni contengono accuse di condotte abusive e illegittime, se non veri e propri reati, a carico di magistrati, senza giustificazione alcuna». Un attacco durissimo a Tarfusser, che tuttavia desta più di una perplessità: la prima è che si tratta di un attacco alla Procura generale di Milano, ovvero all'autorità preposta proprio al vaglio del lavoro della Procura di Como. La seconda è che il controllato, ossia la Procura di Como, sostiene che il suo controllore, la Procura Generale di Milano, stia portando avanti accuse «senza giustificazione alcuna». La terza è che si evidenzia un palese conflitto di interessi in Astori, che è sì il procuratore capo facente funzioni di Como, ma anche il magistrato che utilizzando questo ruolo difende il suo stesso operato di sedici anni fa facendosi scudo dell'istituzione che rappresenta e cerca di smontare il lavoro di un Procuratore generale della Repubblica, cosa che spetta giudicare esclusivamente ai colleghi di Brescia. La quarta perplessità, e più importante, è che lo stesso procuratore facente funzioni Massimo Astori sostiene che Tarfusser ipotizzi reati a carico dei magistrati di Como che svolsero quelle indagini, e cioè anche del medesimo Astori. E allora, la domanda è ovvia: cosa sta aspettando ancora il procuratore generale di Milano Francesca Nanni a inviare la richiesta di revisione di Tarfusser a Brescia? Lo ha già fatto o, come sostenuto da autorevoli colleghi che frequentano il Palazzo di Giustizia, la richiesta è ancora ferma in un cassetto in attesa di un'eventuale sua controfirma? La Procura generale di Milano ha già segnalato a Brescia le asserite notizie di reato a carico dei colleghi di Como riferite dallo stesso Astori? Tarfusser, d'altra parte, come fa notare proprio il procuratore capo facente funzioni di Como, ha chiesto la revisione anche per «falsità in atti», in particolare per le prove inerenti il riconoscimento di Olindo Romano da parte di Mario Frigerio e per la macchia di sangue trovata sulla Seat della coppia: macchia che, per il pg milanese sarebbe legata a «gravissime criticità» visto che «per qualità, quantità e concentrazione» con ogni probabilità non proviene «dal battitacco del lato guidatore dell'autovettura di Olindo».

E allora, davvero si sta tergiversando sulla trasmissione di un atto alla Corte d'Appello di Brescia che contiene queste gravissime ipotesi, ovvero dei presunti falsi che avrebbero portato due innocenti all'ergastolo per sedici anni? E ancora: il Csm intende aprire una pratica in autotutela di Tarfusser, attaccato in questa maniera dalla Procura di Como, oggetto del suo legittimo operato? E il ministero della Giustizia come intende affrontare questo scontro tra il procuratore di Como facente funzioni, accusato per suo stesso dire di reati, e il sostituto Pg di Milano Tarfusser, che di quei reati sarebbe l'accusatore?

Lo scontro che rischia di lacerare i rapporti tra due istituzioni giudiziarie, anche al loro interno, si inserisce nel desolante spaccato della giustizia italiana, offrendo alla politica - finora stranamente silenziosa sulla vicenda, anche se ci sarebbero due interrogazioni parlamentari in lavorazione - una prateria per una riforma del sistema giudiziario che si annuncia a questo punto inevitabile. Soprattutto se prendesse corpo il più clamoroso abbaglio mediatico-giudiziario dell'Italia repubblicana.

I pm di Como sulla strage di Erba: «Rosa e Olindo rivelarono particolari atroci». Anna Campaniello su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023 

Il procuratore Astori contro il sostituto pg Tarfusser: «Le prove sono incontestabili»

Sulla strage di Erba la procura di Como passa al contrattacco dopo la richiesta di revisione del processo del sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser. Il procuratore della Repubblica facente funzione Massimo Astori ripercorre tutte le tappe della vicenda processuale e parla di «corpose e approfondite sentenze che non lasciano spazio a perplessità» ma anche di «correttezza dell’operato del pubblico ministero e dell’Arma dei carabinieri». Contestando le parole del pg di Milano, non esclude «azioni per tutelare l’immagine dell’ufficio di Como».

Il delitto e le sentenze

L’11 dicembre 2006 a Erba Olindo Romano e Rosa Bazzi hanno ucciso Raffaella Castagna, il figlio di 2 anni Youssef Marzouk, la mamma Paola Galli e la vicina Valeria Cherubini e ferito gravemente Mario Frigerio: lo dicono tre sentenze. In un documento ufficiale, Massimo Astori — che già allora era pm a Como — ripercorre tutte le tappe della vicenda processuale, anche quelle successive alla sentenza definitiva della Cassazione. «La responsabilità penale di Rosa Bazzi e Olindo Romano è stata affermata nei tre gradi di giudizio previsti — scrive —. I giudici hanno espresso valutazioni ampiamente positive delle prove raccolte e hanno affermato la correttezza dell’operato del pubblico ministero e dell’Arma dei carabinieri». Astori ricorda che, oltre ai tre gradi di giudizio, negli anni ci sono state anche ulteriori decisioni di Corti diverse, seguite alle numerose istanze presentate dalla difesa. Le ultime sono del 2020. «Istanze tutte ritenute prive di qualsiasi novità e di attitudini probatorie significative». E ancora, ricorda Astori: «Agli interventi giurisdizionali si sono aggiunti accertamenti ispettivi ministeriali presso gli uffici della procura di Como. L’ispettorato ha acquisito l’intero fascicolo ed effettuato approfondimenti anche di natura tecnica senza formulare alcun rilievo».

Le confessioni

Il procuratore parla delle confessioni di Olindo Romano e Rosa Bazzi, «dettagliate sino alla descrizione di ogni minimo e più atroce particolare, accompagnate da ulteriori e decisive prove emerse ognuna delle quali, anche da sola, avrebbe potuto condurre ad un giudizio di piena responsabilità degli imputati». A queste sono seguite, nei mesi successivi «ulteriori dichiarazioni confessorie a più interlocutori e persino appunti manoscritti».

Lo stupore

Astori attacca poi direttamente la richiesta di revisione scritta da Tarfusser. «Stupisce che la proposta di revisione sia stata rapidamente ed integralmente divulgata prima della sua trasmissione all’autorità competente a valutarla e prima di un suo eventuale uso processuale — scrive il procuratore —. Stupisce che la premessa menzioni la collaborazione delle difese. Infine, che nell’atto siano contenute espressioni che contengono accuse di condotte abusive ed illegittime, se non di veri e propri reati, a carico di magistrati della procura di Como, a distanza di 16 anni dai fatti e senza giustificazione alcuna». «La procura di Como in questi 16 anni si è consegnata a un doveroso quanto rigoroso silenzio — conclude Astori —. La procura auspica che altrettanto rispetto sia adottato da tutti coloro che si accostano a questa drammatica vicenda, al cui fondo rimane il profondo dolore di chi ne è stato colpito. Tutelerà comunque nelle sedi e con le forme opportune l’immagine dell’ufficio».

Erba: piano con la parola «innocenti». Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 23 Aprile 2023. 

Olindo Romano e Rosa Bazzi stanno scontando l’ergastolo perché tutti i giudici che li hanno processati dicono che sono due assassini. Perché hanno ritenuto solide le prove a loro carico «al di là di ogni ragionevole dubbio»

Consiglio non richiesto per gli innocentisti della strage di Erba: andate piano, che a correre poi ci si schianta. Olindo Romano e Rosa Bazzi stanno scontando l’ergastolo perché tutti i giudici che li hanno processati dicono che sono due assassini. E non lo dicono perché hanno chiesto alla sfera di cristallo. Lo dicono perché hanno ritenuto solide le prove a loro carico «al di là di ogni ragionevole dubbio». Loro, dicono, hanno ucciso tre donne, un bambino di due anni e hanno tentato di uccidere Mario Frigerio, poi diventato testimone oculare.

Perciò andateci piano, dicevamo, con la parola «innocenti». Perché scrivere una richiesta di revisione — come ha fatto il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser, che li crede vittima di clamorosi errori giudiziari — non è la stessa cosa che scagionare. Tanto più che quel documento non è ancora arrivato alla Corte d’Appello di Brescia, tenuta a decidere per un eventuale nuovo processo. E non è detto che ci arrivi mai, tra l’altro. Al momento quella richiesta di revisione è nelle mani della procuratrice e dell’avvocata generale che potrebbero anche decidere di sconfessare il collega e, appunto, non trasmetterla alla Corte d’Appello bresciana. E quand’anche ci arrivasse: andate piano lo stesso. Dov’è scritto che la Corte debba accoglierla per forza e disporre un nuovo processo? E ancora. Se per caso l’accogliesse — anche lì — frenate gli entusiasmi. Serve il processo e l’assoluzione fino al grado definitivo prima di poter accostare ai nomi di Rosa e Olindo la parola «innocenti». Oggi la realtà è lontanissima da tutto questo. Comunque: una seconda richiesta di revisione è già pronta ed è quella dei difensori dei due ergastolani. Che giustamente contano molto sull’assist di Tarfusser e, alla peggio, possono allegare (o citare diffusamente) il suo documento se la Procura generale non lo trasmettesse a Brescia.

Ma in ogni caso la parola d’ordine resta «prudenza». Lo diciamo soprattutto a quell’onda innocentista del web che ha già scritto la sentenza di assoluzione, che già blatera di «giudici che ora devono pagare» per gli errori commessi. Che ha letto un titolo e nemmeno il sommario ma già sa per certo come andrà a finire. Caro @Fragolino2000 o nome idiota con bandierine annesse, fidati: vai piano. Che a correre poi ci si schianta.

Da blogtivvu.com il 28 aprile 2023.

Così l’inviato Monteleone prima rilancia e smentisce in onda un articolo di Nuzzi poi attacca sui social: “Non ve la prendete, non studiano. (…) Il conduttore de La Corrida me lo ricordavo diverso. Ma come mai l’hanno messa su Rete 4? Quando entra quello coi campanacci?”, per poi aggiungere un’altra offesa “Quarto Sfondone”.

Da ultimenotizieflash.com il 28 aprile 2023.  

Antonino Monteleone ha deciso di spiegare sui social, quello che è successo dopo le sue parole su Quarto Grado e provare a fare chiarezza, anche dopo gli articoli pubblicati sia sulla stampa che sul web. L’inviato de Le Iene smentisce ogni genere di “guerra” con Quarto Grado e con i suoi colleghi. E spiega: “La divergenza di posizioni non è una guerra. Alcuni commentatori delle cose della TV hanno raccontato di una «guerra» tra Le Iene e Quarto Grado. Le posizioni delle due trasmissioni sulla “Strage di Erba” sono assai distanti. Lo sanno tutti. È così da almeno cinque anni“.

L’inviato del programma di Italia 1 ha spiegato sui social: “Ci siamo sempre punzecchiati, per carità, ma mai i disaccordi sulle vicende raccontate, hanno modificato i rapporti di stima e cordialità che mi legano a Gianluigi Nuzzi. Né hanno mai inteso offendere la professionalità dei colleghi che conosco e stimo“. 

E poi: “Nei giorni scorsi però il calore del mio dissenso ha superato il limite e ho scritto di getto delle cose antipatiche. L’ho fatto da telespettatore indispettito dall’aver sentito dire cose che ritengo inesatte, ma l’ho fatto nella forma più adatta alla curva di uno stadio. Lo racconto perché al telefono con Gianluigi ci siamo fatti anche una risata rileggendole”. 

Poi sono arrivate le scuse: “Ma anche se tifiamo entrambi per il Milan, «non siamo ultrà» ha detto – e sono d’accordo con lui. Discutendo delle uscite stampa di questi giorni mi sono reso conto che l’effetto delle mie parole ha travalicato enormemente le mie intenzioni e questo mi dispiace. Ho rivolto, l’altro ieri privatamente – e qui voglio ribadire pubblicamente – a Gianluigi le mie scuse che mi auguro vorrà estendere alla sua squadra“. 

Monteleone ha poi concluso: “Ognuno di noi continuerà a sostenere con fermezza le proprie posizioni. E continueremo a metterci in discussione a vicenda, lo faremo nel merito delle questioni che ci stanno a cuore. Abbiamo la fortuna di lavorare in un’azienda che assicura – anche al suo interno – la libertà di uno scambio dialettico più che vivace. Quindi stasera guarderò Quarto Grado come ogni venerdì e prenderò appunti e martedì Le Iene”.

Estratto da adnkronos.it il 28 aprile 2023.

La responsabilità penale di Rosa Bazzi e di Olindo Romano, condannati all'ergastolo per la strage di Erba, "è stata affermata nei tre gradi di giudizio previsti dal codice di procedura penale". I giudici "hanno espresso valutazioni ampiamente positive delle prove raccolte dalla pubblica accusa e hanno accolto integralmente nei tre gradi di giudizio le richieste dei rappresentanti dell'ufficio del pubblico ministero".

Inizia così il comunicato del procuratore capo facente funzioni di Como Massimo Astori […] in cui replica a distanza all'istanza di revisione avanzata dal sostituto procuratore della procura generale di Milano Cuno Tarfusser e alla difesa dei coniugi Romano pronta a inoltrare alla corte d'appello di Brescia (probabilmente la prossima settimane) la propria richiesta di revisione per tentare di riaprire il processo sulla strage dell'11 dicembre 2006. 

"La lettura delle corpose e approfondite sentenze che hanno motivato la condanna all'ergastolo di entrambi gli imputati, atto imprescindibile e doveroso per chiunque intenda formulare pubblicamente osservazioni, non lascia spazio a perplessità" […]

"Non stupisce che le difese intendano legittimamente riproporre nuove iniziative giudiziarie, ne ovviamente che gli organi di informazione svolgano il loro prezioso servizio", né stupisce "che ci si annuncino nuove prove difensive, in realtà riletture di materiale già ampiamente analizzato e prive di qualsivoglia elemento di novità" […]

La procura di Como in questi 16 anni, dalla strage di Erba dell'11 dicembre 2006, "si è consegnata a un doveroso quanto rigoroso silenzio, guidata dal rispetto della legge, delle parti processuali e degli stessi condannati. La Procura auspica che altrettanto rispetto sia adottato, nelle forme e nei contenuti, da tutti coloro che si accostano a questa drammatica vicenda, al cui fondo rimane li profondo dolore di chi ne è stato colpito". 

[…] "Nel corso delle tre fasi di giudizio, svolte nel pieno rispetto delle garanzie processuali e con la costante partecipazione della difesa, i giudici hanno più volte affermato la correttezza dell'operato del pubblico ministero e dell'arma dei carabinieri, che, nella fase delle indagini preliminari, hanno raccolto prove materiali, documentali, dichiarative, scientifiche e logiche incontestabili (non certo le sole confessioni); l'irrilevanza delle argomentazioni di segno opposto".

"Le confessioni della strage sono state dettagliate sino alla descrizione di ogni minimo e più atroce particolare, accompagnate da 'ulteriori e decisive prove emerse... ognuna delle quali, anche da sola, avrebbe potuto condurre ad un giudizio di piena responsabilità degli imputati", come riporta la sentenza di primo grado della corte d'Assise di Como, "spontanee, coerenti, e non indotte da suggerimenti od altro, ritrattate senza alcuna ragione o prova convincente, se non una scelta difensiva diversa", non certo frutto di pressioni […]

"Le confessioni agli inquirenti sono state inoltre seguite, nei mesi successivi, da ulteriori dichiarazioni confessorie a più interlocutori e persino da appunti manoscritti contenenti chiare ammissioni vergati da Olindo Romano" e datati 4 aprile 2007, 5 maggio 2007, 12 giugno 2007, 23 agosto 2007, 4 settembre 2007, 6 ottobre 2007 (più altri quattro senza data) e da una lettera. Scritti "minuziosamente analizzati" in primo e in secondo grado.

"La ritrattazione è stata il frutto di un cambio di strategia processuale. Non si è trattato di 'una decisione dovuta ad un ripensamento complessivo, ma ad un completo cambio di strategia, sembra - questo si- indotto da altri" […] "lo stesso Olindo Romano aveva scritto 'Gli avvocati vogliono rispondere anche loro con la carta stampata, troveranno penso un giornale che abbracci la nostra causa ma hanno chiesto se voglio scrivere qualche pezzo anch'io che poi verrà pubblicato - seminare dubbi incertezza caos nella stampa che ci è contro e agli imbecilli colpevolisti". 

Il procuratore capo di Como, […]sottolinea come i processi si siano svolti "nel pieno rispetto delle garanzie processuali e con la costante partecipazione delle difesa", e come nella fase dibattimentale, "le istanze di rimessione ad altro giudice e di ricusazione coltivate dalle difese, dirette a mettere in dubbio l'imparzialità e la serenità di giudizio della corte d'Assise di Como, sono state ugualmente respinte dalla settima sezione della Corte di Cassazione" con due distinte pronunce del 16 luglio 2008 e del 30 settembre 2008.

Anche dopo che le condanne all'ergastolo sono divenute definitive, i giudici competenti, chiamati più volte ad esprimersi, "hanno nuovamente - sottolineato l'assenza di alterazioni della genuinità delle fonti di prova, certificato la trasparenza dell'attività di raccolta del materiale probatorio (in particolare delle confessioni, delle dichiarazioni di una parte offesa, delle tracce biologiche), riconosciuto, infine, la corretta acquisizione degli elementi d'accusa".

Dal 2015, ai tre gradi di giudizio ordinario e ai due giudizi incidentali ricordati, "sono seguite numerose altre pronunce giurisdizionali su corpose istanze difensive tendenti ad ottenere nuove indagini e un giudizio di revisione. Tali istanze sono state ritenute prive di qualsiasi novità e di attitudini probatorie significative, semplicemente esplorative e inammissibili e quindi integralmente rigettate dai giudici".

Agli interventi giurisdizionali si sono aggiunti, nel 2020, accertamenti ispettivi ministeriali presso gli uffici di Procura Como, "in seguito ad ulteriori segnalazioni di asserite irregolarità nelle operazioni di intercettazioni ambientali effettuate nel corso delle indagini. L'Ispettorato ha acquisito l'intero fascicolo processuale ed effettuato approfondimenti anche di natura tecnica senza formulare alcun rilievo". Ancora, va sottolineato che la difesa, "la quale ha assistito i due imputati per tutta la cruciale fase delle indagini preliminari ed ha ripetutamente incontrato i propri assistiti, non ha mai avanzato, in tale fase, doglianze sulle modalità delle stesse e in particolare degli interrogatori e della condotta tenuta da tutto il personale coinvolto (magistrati, operatori di polizia giudiziaria, polizia penitenziaria)" conclude il procuratore Astori.

La confessione di Olindo e Rosa L’Italia non è la Spagna di Torquemada. Storia di Aldo Cazzullo Il Corriere della Sera il 19 aprile 2023.

Caro Aldo, dopo anni, ora salta fuori che Olindo e Rosa, condannati per la strage di Erba, forse non sono colpevoli e potrebbe essere tutto da rifare. Certo, gli errori giudiziari esistono ed esisteranno sempre, ma questa storia sembrava chiusa anche perché c’erano un testimone, la confessione della donna e chissà quante altre prove. Possibile che non valgano più nulla? Ada Demarchi Questa vicenda aveva colpito tutti per l’efferatezza della strage. Una probabile revisione del processo riporterà a galla il dolore e l’orrore. Ma spero che serva a fare luce sui dubbi che in realtà ci sono sempre stati. Lei che ne pensa? Marco Ferrari

Cari lettori, Devo confessarvi una cosa: sono da sempre convinto che i gialli non esistano, o meglio appartengano più alla sfera letteraria che a quella reale. Gli inquirenti non sono sprovveduti. Quando individuano un colpevole, di rado sbagliano. Poi certo non sempre riescono a ottenere una condanna: in mancanza di prove certe, si deve assolvere. Infine ci sono gli errori giudiziari, su cui occorre sempre vigilare; e fa bene Vittorio Feltri a ricordare su Libero il caso Tortora. A leggere le numerose mail, gentili lettori, qualcuno di voi dubita che la confessione — poi ritrattata — di Rosa e Olindo fosse sincera. I dubbi sono sempre legittimi, per carità. Però insomma l’Italia non è il Cile di Pinochet o la Spagna di Torquemada, escludo che i carabinieri si siano recati in carcere da Olindo e Rosa con i ferri roventi per estorcere una verità purchessia. Dice: Rosa è semianalfabeta. Anche i nostri antenati erano semianalfabeti, però non andavano confessando di aver commesso stragi di cui erano innocenti. Certo, la storia giudiziaria è piena di confessioni false. Ma davvero si può confessare di aver ammazzato quattro persone, tra cui un bambino, senza averlo fatto? È giusto che la discussione pubblica avvenga su qualsiasi argomento. «Le sentenze non si commentano» è una frase ipocrita; certo che si commentano. È evidente che, in caso di condanna, l’innocentista avrà più audience, più attenzione. Ma chi la pensa diversamente non è un «colpevolista»: è un cittadino consapevole che la giustizia viene amministrata anche nel suo nome.

Parla l'inviato de Le Iene. “Olindo e Rosa vittime di Pm e giornalisti”, intervista ad Antonino Monteleone sulla strage di Erba. Nicola Biondo su Il Riformista il 19 Aprile 2023 

Un contesto investigativo “malato”. Questa è la definizione, di certo irrituale, che il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ha utilizzato per definire le indagini che hanno portato, “oltre ogni ragionevole dubbio”, all’ergastolo Rosa Bazzi e Olindo Romano per la strage di Erba, uno dei delitti “privati” più cruenti e spaventosi: 4 morti, tra cui un bambino, l’11 dicembre 2006.

Un caso che, clamorosamente, potrebbe riaprirsi rimettendo in moto quel processo di polarizzazione dell’opinione pubblica riportando al centro due questioni esiziali per una democrazia: come si amministra la giustizia e come il giornalismo racconta e sazia la curiosità dell’opinione pubblica per la cronaca nera. Antonino Monteleone è da anni il giornalista italiano che ha ripercorso questo contesto “malato” e lo ha fatto nei panni della “iena”, inviato di punta di uno degli esperimenti televisivi più urticanti, criticati e di successo della storia patria.

La sua lunga inchiesta iniziata nel 2018 ha portato alla luce molti di quegli elementi su cui la Procura generale di Milano ha chiesto ai colleghi di Brescia di valutare la riapertura delle indagini e l’eventualità di un processo di revisione per i coniugi Bazzi-Romano. Di tutti i casi di cronaca nera particolarmente efferati uno degli aspetti principali, il più segreto e occultato forse – al di là delle sorti dei condannati e dei familiari delle vittime – è quello che svela la connessione tra paure e desideri, quello di vendetta o di giustizia, dell’opinione pubblica.

Come viene saziata la curiosità del pubblico di fronte al sangue?

Indagare sulla strage di Erba mi ha svelato una verità spaventosa: non abbiamo la consapevolezza del rapporto che esiste tra chi fa la cronaca giudiziaria e chi somministra, di volta in volta, le informazioni.

Malata la ricostruzione del delitto, malata la sua rappresentazione sui media, vuoi dire questo?

Continuo a leggere sui giornali alcune clamorose falsità. Diciassette anni fa erano scusabili, oggi tradiscono i sintomi della disinformazione consapevole. Ma comprendo il nervosismo di certi colleghi. Se dovesse affermarsi l’idea che noi giornalisti siamo chiamati ad approfondire tutto, anche il contenuto di una condanna definitiva, per molti sarebbe più facile trovarsi un altro impiego. Dico così perché è solo frutto di una concezione impiegatizia della professione la prassi per cui apriamo le virgolette e ci buttiamo dentro tutto quello che esce da una procura o da un Tribunale. E questi giornalisti impiegati, credimi, non potrebbero tollerare la fatica che serve per scalare le montagne dei fascicoli di storie come questa.

Come finisci a occuparti di Erba?

La cronaca nera non mi aveva mai appassionato. Nelle stranezze del processo sulla strage di Erba vengo trascinato da un amico, Felice Manti, che se ne occupa fin dall’inizio per Il Giornale. Lessi il libro che firmava con Edoardo Montolli e rimasi sconvolto. Le confessioni, ascoltate con freddezza, sono un racconto che stentato è dire poco. Frigerio, il sopravvissuto alla strage, riconosceva fin dal primo momento un altro soggetto e non Olindo Romano.

E la macchia di sangue nella macchina dei due sospettati? «Nessuno l’aveva mai vista».

Ci ho messo un po’ prima di avere da Davide Parenti (il papà de Le Iene, ndr) l’ok ad occuparmi della storia, ma intanto lavoravo sulla morte di Davide Rossi e qualcosa succede anche lì (grazie all’inchiesta de Le Iene il Parlamento ha già approvato la seconda commissione parlamentare di inchiesta, ndr). Dopo mesi di studio il primo servizio su Erba va in onda a settembre 2018. Gli atti parlano chiaro. Le sentenze vacillano, se osservate da vicino.

E arrivano i primi attacchi.

Se passa l’idea che il giornalista che verifica gli angoli oscuri di un’inchiesta o di una sentenza (anche se definitiva) è un criminale da mettere all’angolo stiamo messi male. Vigilare sull’esercizio di un potere dello Stato è uno dei diritti-doveri del giornalismo. L’errore del medico finisce in prima pagina, un politico indagato viene massacrato. Vale la stessa cosa per i magistrati, per gli ufficiali di polizia giudiziaria? No, sono intoccabili. Non c’è indignazione, poche interrogazioni parlamentari, controvoglia i dibattiti su un possibile un errore giudiziario. Si fa finta di niente.

Lo scorso gennaio il Riformista ha dimostrato documenti alla mano manipolazioni nelle indagini sulla strage di Alcamo Marina e inerzie incomprensibili fino all’archiviazione. Non è successo niente.

Il caso Gulotta, la giustizia negata alle vittime di Alcamo Marina e ai capri espiatori è una pagina spaventosa, messa in scena con la complicità del circo mediatico giudiziario. Se ne occupò Giulio Golia un po’ di anni fa. Se ci pensi l’istituto della revisione così come oggi arriva solo alla metà degli anni 60 in seguito alla vicenda di Paolo Gallo per la cui morte vengono condannati il fratello e il nipote. Solo che la vittima era viva! A scoprire tutto fu un giornalista siciliano, Enzo Asciolla, che dovremmo ricordare sempre come esempio. Ogni prova, anche quella più solida può e deve essere messa alla prova. Oggi va molto di moda il fact-checking sulle affermazioni dei politici, ma perché non prova nessuno a farlo sulle sentenze?

Nel caso Erba cosa non ha funzionato?

Direi che ha funzionato tutto, fin troppo bene come sempre: si è attivato il circo. Nel 2007, a indagini in corso, la PG e la Procura cominciano a spillare qui e là una serie di informazioni che si sono rivelate false al dibattimento, ma hanno contribuito alla costruzione dei mostri per il tribunale dell’opinione pubblica e chissà forse hanno influenzato anche la giuria popolare. Mentana a Matrix, con i soli atti dell’accusa, imbastisce una fiction che sarà un successo televisivo, ma è zeppa di ricostruzioni errate. E le bugie della prima vengono sistematicamente rispolverate ogni volta che c’è da puntellare le sentenze di merito. Poi a chi importa che al processo un maresciallo dei Carabinieri dica il falso o che un giudice abbia modificato la registrazione audio delle prime dichiarazioni del superstite ribaltandone il senso? A chi importa delle intercettazioni sparite o dei reperti distrutti?

In più qualcuno usa il metodo della delegittimazione preventiva: perché credere a Le Iene?

Per qualcuno è insopportabile il successo della trasmissione. Certo tutti hanno qualcosa da farsi perdonare e noi non facciamo eccezione, ma negli anni in quanti possono vantare lo stesso numero di inchieste in grado di imporsi al centro del dibattito? Imperdonabile, per il nostro gruppo di lavoro, poi, è la capacità di raggiungere le fasce di pubblico più giovane, quello più curioso e reattivo. Quelle fasce che i media tradizionali non riescono a coinvolgere. Ma se te lo ritrovi a fianco, puoi cambiare il mondo.

Come si finisce nel tritacarne giudiziario, c’è uno schema che si ripete?

La pigrizia di certi investigatori e di certi giornalisti è l’elemento ricorrente di queste storie. Ogni errore giudiziario si riflette anche sulla qualità del giornalismo. Gli attacchi a chi vuole verificare come stanno davvero le cose ne è la naturale conseguenza. Sono convinto, ad esempio, che se Azouz Marzouk fosse stato in Italia, anche a centinaia di chilometri da Erba, ci sarebbe lui oggi all’ergastolo: aveva il physique du role perfetto. Ma stava in Tunisia al momento dell’eccidio e quindi le indagini hanno riguardato esclusivamente i due drop-out di questa storia, calcando i tratti dell’antipatia per far accendere il meccanismo dell’odio.

Come finirà questa storia secondo te: si aprirà un processo di revisione?

Si è già accesa la miccia di uno scontro interno alla Procura Generale di Milano. Il capo dell’ufficio potrebbe fermare tutto, ma mi sembrerebbe qualcosa di assurdo. Una inedita, e paradossale, situazione. Spero invece che il rispetto per il profilo e l’anzianità di Cuno Tarfusser, spingano il capo dell’ufficio (Francesca Nanni, ndr) a dare il via libera perché la sua istanza finisca alla Corte d’Appello di Brescia e venga discussa assieme a quella della difesa.

Perché i reperti sono stati distrutti senza alcuna autorizzazione? Qualcuno dovrà spiegare.

Ci ha provato la Procura di Como, ma i responsabili dell’ufficio corpi di reato dello stesso Tribunale si sono contraddetti a vicenda e l’indagine scaturita dalle ispezioni del Ministero è stata archiviata. Forse si aspettavano un’altra confessione, che non c’è stata. Nicola Biondo

Estratto dell'articolo di Pino Corrias per il “Fatto quotidiano” il 20 aprile 2023.

Facile perderci la testa e la pazienza in questo permanente bagno di sangue, furbizie e chiacchiere. Ma meno male che le suggestioni non fanno una prova. Neppure se ripetute all’infinito per conto degli imperturbabili Olindo Romano e Rosa Bazzi, quelli della strage di Erba, che stanno sempre là, in effigie, spalla a spalla nella gabbia degli imputati, Tribunale di Como, persino la tv giapponese a registrare l’abisso della loro storia di coppia invisibile al mondo, ma che è stata capace di assaltare con la spranga e di scannare con il coltello, tre donne e un bambino di due anni, Raffaella Castagna, il figlio Youssef, la nonna Paola Galli, la vicina di casa Valeria Cherubini. Per poi cancellarli con il fuoco. Era l’11 dicembre 2006. Palazzina di silenzi e nebbia. Dove da allora non smette di sgocciolare il sangue della strage e l’inchiostro di chi vorrebbe riscriverla. 

A questo giro lo fa addirittura un procuratore generale, il sostituto Cuno Tarfusser, di Milano, che chiede la revisione del processo maneggiando la stessa prosa della difesa, lo stesso corredo di prove trasformate con un oplà televisivo in dubbi moltiplicati da infinite illazioni. E meno male che il sostituto Tarfusser dice al Corriere a proposito dei suoi dubbi: “A me importa il merito, non il circo mediatico”. Visto che grazie a lui ha appena riacceso le sue luci, la sua musica e le sue ruote panoramiche per il felice pubblico, un po’ meno per i familiari di quel massacro che tornano nel gorgo.

Innocenti! Innocenti! Non valgono più le confessioni videoregistrate di Olindo e Rosa piene di odiosi dettagli, perché sono “false confessioni acquiescenti”. Non vale più la goccia di sangue trovata sull’auto di Olindo perché “trasuda criticità”, qualunque cosa voglia dire. Non vale più il riconoscimento del sopravvissuto, il vicino di casa Mario Frigerio, che in aula identifica Olindo come il suo aggressore e grida: “Vergognati, assassino!” perché è frutto di “falsa memoria”, anzi di “memoria indotta”.

Lode alla difesa per la sua rocciosa costanza che dai giorni della sentenza definitiva, 3 ottobre 2011, pena massima dell’ergastolo alla coppia specchiante, ha chiesto una volta, due volte, tre volte, la revisione del processo per l’intero decennio successivo. Lo ha fatto per inattendibilità delle confessioni ritrattate in aula. Per insussistenza delle prove. Per clamorose novità probatorie. Per “40 motivi di legittimità”. Poi, addirittura, “per 234 incongruenze”, non una di meno, non una di più, che falsificano le indagini, le confessioni, i processi, tutto. 

Un vero peccato per le 999 congruenze che nel frattempo hanno trascurato.

Le quali (invece) hanno agevolmente convinto prima i carabinieri, poi i giudici di primo, di secondo e di terzo grado. Tutti persuasi di avere risolto il labirinto (anche psichiatrico) che armò la mano di Olindo e Rosa (i poveri del piano terra) contro i vicini di casa (i ricchi del piano di sopra) spinti da un odio a lungo covato, diventato furore. 

È vero, esistono gli errori giudiziari, ci mancherebbe. Ma mai se n’è visto uno in presenza della confessione circostanziata degli imputati. Mai con un testimone oculare che conferma l’identità di chi gli ha tagliato la gola senza riuscire a ucciderlo. Mai con un alibi così sconclusionato come quello allestito da Olindo e Rosa, lo scontrino del McDonald’s di Como che avrebbe dovuto collocarli altrove all’ora (sbagliata) del delitto.

La difesa ha diritto di inseguire ombre, congetture, persino le più trascurabili incrinature di un processo se serve agli assistiti, anche a negare l’evidenza. Benissimo. Ma il procuratore? Possibile che anche lui faccia finta di non vedere quello che sta in primo piano in ogni delitto: il movente? E cioè l’ingranaggio che muove il veleno del cuore e le armi dell’omicidio, l’odio contro Raffaella Castagna, “la ricca bastarda” che abita sopra di loro. L’odio per “la famiglia potente e prepotente” che la difende. L’odio per “il marito negro”, Azouz Marzuk, in Tunisia, la notte della strage, che spaventa Rosa “perché ha passato la linea”, è “entrato nel mio mondo”, la ossessiona con “la sua puzza che mi sento addosso”. Possibile? 

(...)

Finalmente un pubblico ministero lo ha capito. Olindo e Rosa, tutte le prove che dimostrano la loro innocenza in nome “dell’amore per la verità”. Tiziana Maiolo su Il Riformista il18 Aprile 2023 

Mai visto un caso di questo genere: avvocati difensori e procuratore generale che chiedono, separatamente, la revisione di un processo. E che processo! Rosa e Olindo, la strage di Erba del 2006, la condanna definitiva all’ergastolo, l’infaticabile testardo avvocato Fabio Schembri, e da subito il conduttore di “Iceberg” a TeleLombardia Marco Oliva, e Vittorio Feltri e pochi altri a denunciare l’errore giudiziario.

E in seguito l’inchiesta di Antonino Monteleone e Marco Occhipinti delle Iene. Sono passati diciassette anni prima di approdare finalmente all’ascolto di un pubblico ministero. Perché loro sono innocenti, ormai in tanti ne sono sicuri. Anche se, non solo chi ha condotto le indagini e qualche consulente ambizioso e maldestro, ma anche ventisei giudici ne hanno dichiarato la colpevolezza. E dovrebbero prima o poi essere chiamati a render conto di questo colossale “errore giudiziario”. Chiamiamolo così.

L’estraneità di Rosa e Olindo alla strage in cui furono ammazzati a colpi di spranga e coltello Raffaella Castagna, il figlio di due anni Youssef Marzouk, la madre di Raffaella, Paola Galli, e la vicina di casa Valeria Cherubini la sera del’11 dicembre 2006, ha convinto il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ad avanzare alla corte d’appello di Brescia la richiesta di revisione del processo. Un gesto clamoroso da parte del magistrato che gode di molta stima da quando, come procuratore capo a Bolzano, nel 2001 attuò una vera rivoluzione organizzativa, riuscendo a smaltire tutto l’arretrato, a ridurre i costi e ad attuare un progetto che diventerà esempio di efficienza per tutte le procure italiane.

Dopo dieci anni alla Corte Penale Internazionale il dottor Tarfusser è sbarcato alla procura generale presso la corte d’appello di Milano. E qui si è imbattuto nei legali di Rosa Bazzi e Olindo Romano (oltre a Schembri, anche Luisa Bordeaux, Patrizia Morello e il professor Nico D’Ascola) con le loro richieste di revisione del processo. Ha dato ascolto, ed è la prima volta che succede in un caso così clamoroso e con ergastoli dopo tre gradi di giudizio. Così ha informato la dirigente dell’ufficio Francesca Nanni e l’avvocata generale dello Stato Lucilla Tontodonati, con una relazione di venti pagine, la sintesi di una storia che racconta prima di tutto indagini sciatte, ma anche qualche spintarella perché il caso fosse risolto subito, perché trionfasse una qualche “verità” che servisse più a mostrare al mondo le grandi capacità investigative di forze dell’ordine e procura, che non a dare giustizia alle vittime.

Il pg Tarfusser scrive nel suo documento di richiesta di revisione processuale di agire “per amore di verità e giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo”. Rosa Bazzi e Olindo Romano, persone semplici, vicini di casa di quella famigliola composta da Raffaella Castagna, il marito tunisino Azouz Marzouk e il loro bambino Yussef, che loro ogni tanto sentivano litigare. La strage, che coinvolgerà anche Paola Galli, madre di Raffaella, e la vicina Valeria Cherubini casualmente sulle scale adiacenti all’appartamento, sarà particolarmente crudele, con armi bianche e modalità di tipo terroristico, tanto sangue e subito dopo anche un incendio.

Il primo sospettato è “naturalmente” l’assente Azouz, extracomunitario con un paio di precedenti per spaccio di stupefacenti. Ma lui è in Tunisia ed esibisce un alibi incrollabile. La pista viene subito abbandonata. Così si trovano i vicini di casa nervosetti, che potrebbero aver impugnato coltelli e spranghe e fatto una strage particolarmente sanguinolenta, solo perché infastiditi dai rumori che provenivano dall’appartamento. Questo sarà il movente che porterà Rosa e Olindo fino all’ergastolo in tre gradi di giudizio. Le prove? Sono tre: la loro confessione, una testimonianza, una macchia di sangue.

Inoppugnabili, all’apparenza. Ma sarebbe bastato aprire gli occhi, come pochi giornalisti, ma nessun magistrato, hanno fatto, per cogliere incongruenze enormi, oggi sottolineate dal pg Tarfusser, e da sempre dai difensori degli imputati. Primo punto, il testimone Mario Frigerio, marito della vittima Valeria Cherubini, rimasto miracolosamente vivo sulle scale benché con la gola squarciata. Viene interrogato in ospedale dal pm Pizzotti e riferisce di aver visto nei momenti della strage uno sconosciuto, un uomo bruno, “di carnagione scura, olivastra” e con i capelli corti. Sembra lucido e preciso, tanto da dire di essere in grado di riconoscere quell’uomo anche tramite identikit.

Per quale motivo nei giorni successivi, proprio quando ci sarà un aggravamento della malattia e farà effetto sulle capacità cognitive del malato l’intossicazione da monossido di carbonio, un luogotenente dei carabinieri per nove volte interrogherà il signor Frigerio non sullo “sconosciuto” dalla pelle olivastra, ma su una persona ben conosciuta, Olindo Romano, fino a inoculare nel ricordo del teste il dubbio e a trasformare le sue deposizioni in atti d’accusa nei confronti del vicino?

Teniamo presente che la richiesta di revisione avanzata dal pg Tarfusser si fonda, sulla base dell’articolo 630 del codice di procedura penale, non solo sull’emersione di nuove prove, ma anche di “falsità in atti o in giudizio”. E questo potrebbe essere il caso, anche se purtroppo nel frattempo il signor Frigerio è morto. Ma veniamo alla “prova regina”, una macchia di sangue, appartenente alla vittima Valeria Cherubini, trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano. Su questa, che il pg Tarfusser definisce la “prova regina dell’innocenza” di Rosa e Olindo, ha aiutato molto la scienza, con una consulenza biologico-genetica che denuncia addirittura una “accertata inconciliabilità” tra la traccia rilevata e quella repertata.

La prova regina dell’innocenza dei due, appunto. E, a proposito di sangue, è mai possibile che dopo un agguato a base di sgozzamenti, con quattro persone uccise, neanche una goccia sia rimasta sugli abiti o sulle scarpe o nell’abitazione di Rosa e Olindo? Certo, ci sono state le confessioni, anche se in seguito ritrattate. Dichiarazioni di due persone semplici, di cui una, Rosa Bazzi, con visibili carenze cognitive, cui qualcuno aveva detto che “poi” sarebbero stati rimandati a casa. Ed è sufficiente riguardare le riprese audio-video della preparazione che precedeva gli interrogatori per farsi un quadro di quel che è successo in quei giorni, quando una diceva “va bene così?” e l’altro “ma mettete quel che volete”. Dichiarazioni oggi considerate dal pg Tarfusser come “false confessioni acquiescenti”.

Non è un caso il fatto che il più convinto sostenitore dell’innocenza di Rosa e Olindo sia Azouz Marzouk, che nel processo è parte lesa, avendo perso nella strage la moglie e il figlio di due anni. È stato il primo sospettato e avrebbe tutto l’interesse a scaricare ogni responsabilità sui suoi vicini di casa, che forse non gli erano neppure troppo simpatici. Ha invece sempre esortato gli investigatori a seguire piste alternative. Quelle che, scrive oggi il magistrato in 58 pagine destinate alla corte d’appello di Brescia, in quel “contesto malato” delle prime indagini, “se approfondite e valutate avrebbero già sin dal giudizio di primo grado potuto portare a un diverso esito processuale”.

Peccato che tra i ventisei giudici che hanno deciso e confermato gli ergastoli non ce ne sia stato uno, a quanto ne sappiamo, a farsi sfiorare almeno da un dubbio. E intanto i difensori si preparano a presentare sia le intercettazioni ambientali captate in ospedale durante la degenza del signor Frigerio e mai depositate al processo, sia due nuovi testimoni. Un ex carabiniere, un maresciallo del nucleo operativo di Como che, già sentito in indagini difensive, è pronto a testimoniare l’abitudine di certi suoi colleghi a fare pressioni su indagati e testimoni.

C’è poi una persona residente nella casa della strage, che in quei giorni era in carcere e che faceva parte di un gruppo di spacciatori impegnato in una faida con uso di armi bianche in cui fu coinvolto anche il fratello di Azouz. Anche lui ha qualcosa da raccontare, qualcosa che avrebbe potuto portare a piste alternative che 17 anni fa nessuno ha voluto seguire.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La richiesta di revisione del processo. Chi è Tarfusser, il pm che si batte per l’innocenza di Olindo e Rosa. Fausto Malucchi su Il Riformista il 21 Aprile 2023 

Accade spesso che alla fine di una proiezione, anche di una proiezione emozionante e complessa come quella che aveva ripercorso la vicenda giudiziaria di un uomo, condannato innocente e, per ventun anni, prigioniero senza colpa delle galere italiane, si chieda se qualcuno vuole intervenire. Spesso nessuno si alza e la serata finisce lì.

Ma quella sera, un uomo percorse il breve spazio che separava la platea dal palco, salì le scalette di servizio, si fermò davanti a un altro uomo, vittima dell’errore di Dike o forse di qualche giudice sbagliato e, con sguardo diretto e voce nordica, pronunciò parole giuste, a corredo di una sentenza che nella forma ma solo nella forma aveva riportato l’orologio della vita di Angelo Massaro indietro di ventuno anni: “in nome del popolo italiano e delle istituzioni, le chiedo umilmente scusa”. Sembrarono parole strane ma Angelo Massaro, commosso, le capì. E mentre la gente si guardava ancora, interrogandosi con gli occhi sull’identità di quello sconosciuto, Cuno Tarfusser, Sostituto Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Milano, già Vice Presidente per nove anni della Corte Internazionale dell’Aja, Procuratore Capo di Bolzano, era già lontano, sul primo taxi che nella notte lo portava a casa. Lui non c’entrava nulla con quel caso, non lo aveva mai trattato, ma era un giudice e come giudice si scusò.

Ci vuole coraggio, sensibilità, umanità, per scendere dallo scranno e mettersi all’altezza degli uomini; per guardarli negli occhi, per scoprire i loro errori o, talvolta, anche i propri. Certo il prestigio di Tarfusser non nasceva quella sera, con quel telegrafico e bellissimo intervento che aveva colpito la sensibilità dei presenti ma non aveva avuto conseguenze e meritato risalto nell’opinione pubblica. Era stato lui a condurre importantissime indagini a Bolzano e poi all’Aja, aveva firmato i mandati di cattura a carico del Presidente del Sudan Al Bashir per genocidio, nei confronti di Gheddafi per crimini contro l’umanità e per la stessa ragione aveva rinviato a giudizio il Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta e il Vicepresidente del Congo Jean Pierre Bemba. Era per queste “pratiche” e non per essere salito sul palco a chiedere scusa per la magistratura che Cuno Tarfusser aveva assunto un ruolo primario tra i giudici.

Devo dirvi la verità, di tutto ciò non mi importava molto. Bravo, veramente bravo Tarfusser, però il tema non mi coinvolgeva emotivamente più di tanto. Poco dopo però mi imbattevo in un articolato, appassionato e complesso ricorso per Cassazione, avverso una sentenza di condanna per omicidio, redatto con stile degno del migliore dei difensori, che però non era un avvocato bensì il titolare dell’accusa, il pubblico ministero. Cuno Tarfusser, si proprio lui, si firmava. E nella premessa spiegava ai Giudici della Suprema Corte che era l’art. 73 dell’Ordinamento Giudiziario che gli imponeva come Pubblico Ministero il controllo sull’osservanza delle leggi, anche di quelle che avevano portato alla condanna, ed era poi l’art. 359 del codice di procedura penale che lo obbligava “a ricercare ed acquisire le prove anche a favore dell’imputato”. Niente di strano quindi in quel ricorso ma soltanto rispetto e applicazione della legge, a cui sono tenuti tutti e in particolare il Pubblico Ministero. E la Corte di Cassazione, accogliendo le censure del dott. Cuno J. Tarfusser, annullava con rinvio la sentenza di condanna dell’imputato, pronunciata dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano.

Apprendevo allora che Tarfusser aveva presentato anche altri ricorsi, a favore di altri imputati ingiustamente condannati e aveva ottenuto l’annullamento anche di altre sentenze. Il caso Alfano non era stato per lui un fatto eccezionale ma il consueto adempimento del dovere che lo obbligava al doppio controllo, sia quando l’imputato veniva assolto ma anche quando risultava condannato.

Non so se la Corte d’Appello di Brescia accoglierà o meno la richiesta di revisione da lui presentata in queste ore avverso la sentenza che condannò Olindo Romano e Rosa Bazzi alla pena dell’ergastolo per la strage di Erba. Già di per sé è comunque un fatto clamoroso che comunque vada a finire aumenterà a dismisura la sua notorietà.

Ma non sarà l’esito di questo importantissimo procedimento ad accrescere o intaccare il valore di un uomo, preparato e libero, che per gran parte della sua vita ha inciso sulla vita di altri uomini e che ha ricordato o insegnato, a noi tutti, che nel nostro ordinamento il pubblico ministero, così come è il titolare dell’accusa, rimane pur sempre il primo codifensore dell’imputato. Non per lo stile incerto o per l’inesistente fama dello sconosciuto autore, bensì per la storia che contiene, per le persone e il gesto che vi viene raccontato, consiglierei di ritagliare, rileggere e conservare questo articolo: all’interno di un libro se siete studenti o uomini curiosi, tra le pagine del codice se siete Magistrati. Fausto Malucchi

Olindo Romano e Rosa Bazzi, tutto il caso giudiziario: le prove, i protagonisti. E cosa è cambiato, oggi. Storia di Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 16 aprile 2023.

Si dirà: un processo con un testimone oculare (per altro pure vittima, perché provarono a sgozzarlo) è un processo «blindato». Nel senso che agli inquirenti capita raramente la fortuna, chiamiamola così, di avere come fonte di prova il racconto di chi c’era e può riferire. Se poi oltre al testimone oculare il processo parte con la confessione degli assassini — guarda caso uno dei due indicato proprio dal teste — allora è fatta. E se, ancora, una macchia di sangue completa il quadro aggiungendo anche l’elemento della prova scientifica, i più tenderanno a pensare che nulla potrà mai più smontare l’impalcatura dell’accusa. Nemmeno se nel frattempo i due rei confessi ritrattano tutto.

E invece no. Invece succede che dopo primo grado, secondo grado e Cassazione, che condannano i due imputati all’ergastolo, un sostituto procuratore generale studi il caso per mesi da capo a piedi, si convinca della loro innocenza e scriva una richiesta di revisione del processo «in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo».

I fatti del 2006

Stiamo parlando della strage di Erba, la sera dell’11 dicembre del 2006. Furono uccisi barbaramente Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, che aveva due anni, e sua madre Paola Galli. E fu uccisa anche Valeria Cherubini,che era invece la vicina di casa di Raffaella. Mario Frigerio, suo marito, fu sgozzato, appunto, ma non morì soltanto perché aveva una malformazione alla carotide. Tutto questo per mano di Olindo Romano e Rosa Bazzi, così ci hanno detto le sentenze scritte fin qui. Rosa e Olindo erano la coppia del piano terra in perenne lite con Raffaella e suo marito, il tunisino Azouz Marzouk. Liti sui rumori, insulti, minacce reciproche, una querela in corso per lesioni e ingiurie, un’udienza fissata davanti al giudice di pace da lì a pochi giorni... Insomma: un quadro che la coppia viveva con esasperazione, al punto da dormire a volte nella roulotte, in cortile, pur di sfuggire a voci e rumori del piano di sopra.

La richiesta di revisione

La richiesta di revisione, dicevamo. È firmata dal sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser e non è stata presentata direttamente alla corte d’Appello di Brescia, titolata a esprimersi sulla questione, ma alla procuratrice generale di Milano Francesca Nanni e all’avvocata generale Lucilla Tontodonati. Tocca a loro decidere se sconfessare il collega bocciando tutto oppure inviare l’atto a Brescia. E non è chiaro quali orizzonti possa aprire una eventuale bocciatura. In quel caso il sostituto procuratore deciderà di agire in autonomia e presentare lui direttamente la richiesta? La sola certezza, per ora, è che di sicuro a Brescia arriverà nei prossimi giorni una richiesta di revisione firmata dai legali di Olindo e Rosa, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, avvocati storici della coppia. Loro due e altri legali lavorano da anni — gratis e con dedizione — all’inchiesta post-condanna; hanno interpellato decine di consulenti, hanno studiato ogni passaggio e hanno messo a punto una ricostruzione che escluderebbe la responsabilità degli attuali ergastolani. Ma, come è noto e come sanno bene anche loro, le revisioni dei processi sono mosche bianche, e che una revisione venga presentata dai difensori è nell’ordine delle cose. Mentre è decisamente insolito, per non dire unico, che sia un sostituto procuratore generale a farlo. E certamente se la richiesta di Tarfusser arriva a Brescia la possibilità che la Corte d’Appello la accolga diventa più realistica. Non a caso l’iniziativa del sostituto procuratore prende spunto proprio dagli avvocati di Olindo e Rosa.

L’incipit

«Nell’autunno del 2022 gli avvocati mi chiesero un appuntamento per sottopormi una questione riservata e delicata», scrive Tarfusser nel suo documento. La questione delicata era il lavoro che stavano facendo sulla strage di Erba. «Mi chiesero se potevo immaginare di presentare un ricorso per revisione», scrive ancora il magistrato. Risposta: «Se con lo studio degli atti e le “nuove prove” di cui mi dite mi convincerò che ci sono spazi per una richiesta, lo farò» è stata la risposta, «senza condizionamenti e in piena autonomia e indipendenza». Quindi, mesi di studio delle sentenze, delle consulenze e delle “nuove prove” alla fine hanno convinto il sostituto procuratore delle tesi della difesa: Olindo e Rosa sono innocenti. 

Le «nuove prove»

La convinzione dell’innocenza ruota attorno a tre punti: la confessione dei due imputati, la testimonianza di Frigerio e la macchia di sangue di Valeria Cherubini sull’auto di Olindo. Dice in sostanza la difesa (a a questo punto anche Tarfusser): il riconoscimento di Mario Frigerio fu una «falsa memoria», indotta dalle domande su Olindo che il luogotenente dei carabinieri Gallorini gli fece mentre lui era ricoverato in gravissime condizioni; la confessione di Olindo e Rosa fu ottenuta con «errate tecniche di intervista investigativa» e ci sono dubbi sulla raccolta, sull’analisi e sulla provenienza della macchia di sangue sul battitacco dell’auto. Tre questioni tutt’altro che nuove, perché già affrontate in secondo grado. Ma «lo sono ontologicamente», spiega il magistrato nella sua richiesta di revisione, «in quanto fondano su conoscenze scientifiche, metodologiche e tecnologiche sviluppare successivamente alla prima decade di questo secolo, ma ancora di più lo sono se considerate e valutate unitamente alle prove già valutate e ancora di più alle prove in atti e mai valutate».

La testimonianza di Frigerio

«Le nostre consulenze tirano in ballo moltissimi esperti», dice l’avvocato Schembri, che «provano scientificamente che la testimonianza di Frigerio non fu genuina. Nessuno dice che lui mentì. Lui aveva una lesione cerebrale e aveva sviluppato quella che la scienza chiama una amnesia anterograda che rende impossibile recuperare i ricordi». Niente di più falso, stando ai giudici che si sono occupati del caso fin qui. Dicono i giudici di Cassazione: «Pur ammesso il carattere suggestivo delle domande fatte dai carabinieri, il teste sia davanti ai pm che davanti ai giudici ha sempre detto di aver esitato a menzionare Olindo, sulle prime, perché voleva capire come fosse stato possibile che un normale condomino, con cui mai aveva avuto contrasti, si fosse accanito così brutalmente su di lui e su sua moglie». Frigerio davanti ai giudici del primo grado che gli chiedevano se riconosceva gli assassini disse: «Li vedo in aula, sono loro, quei due delinquenti, li riconosco. Lui mi guardava con due occhi da assassino». Mario Frigerio è morto anni fa. Sua moglie e lui finirono per caso sulla scena del delitto. Stavano uscendo per portare fuori il cane quando si sono imbattuti in Olindo che usciva da casa di Raffaella Castagna. Eliminati perché testimoni di quella mattanza, dicono le sentenze di condanne.

Le confessioni poi ritrattate e la Bibbia

Scrive Tarfusser: quelle confessioni (come la testimonianza di Frigerio e la macchia di sangue sull’auto) sono prove maturate in «un contesto che definire “malato” è fare esercizio di eufemismo». Prendi le confessioni, per esempio. Olindo e Rosa avrebbero ceduto alle pressioni degli inquirenti, secondo la ricostruzione della difesa alla quale il sostituto procuratore aderisce. Nella sentenza di Cassazione, alla quale era già stata sottoposto questo punto, si dice questo: «Se è vero che indubitabilmente sono stati sottoposti a una pressante, ma non vietata sollecitazione a dire quanto di loro conoscenza (...) non può essere ritenuto che si stata fatta pressione psicologica tale da limitare la libertà di autodeterminazione». Non è stata accolta, in sostanza, la lettura della difesa secondo cui Olindo e Rosa sarebbero stati vittima di una vera e propria circonvenzione.

E i giudici della Suprema Corte hanno elencato anche la «libera determinazione» dei due nel confessare e nel raccontare una storia plausibile, con dettagli che soltanto chi era stato quella sera in quella casa poteva conoscere. Per esempio: la posizione dei cadaveri; l’energia elettrica interrotta con distacco manuale del contatore; il fatto che quella sera Raffaella sia arrivata a casa con l’auto di famiglia e non la sua come al solito; il fatto che il fuoco si stato alimentato da una pira di libri, il punto da cui è partito, la posizione dei corpi, i cuscini vicino a Raffaella lasciati nel tentativo di soffocarla, la morte di Youssef avvenuta per mano di Rosa che era mancina (lui fu ucciso da mano mancina). Non ultimo: le famose frasi scritte da Olindo sulla bibbia in carcere, quando ancora lui e sua moglie non avevano ritrattato. «Perdonaci, non sapevamo cosa facevamo», dice una di quelle frasi. «Dio perdona anche quelli come noi che su questa terra hanno vissuto l’inferno». «Accogli nel tuo regno Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita».

Sempre sulla bibbia Olindo trascrisse le confidenze ricevute da Rosa sullo «spettro di Raffaella» comparsa di notte davanti alla branda «come quella sera col sangue che le scendeva sulla faccia». E ancora: Olindo (sempre prima di ritrattare) scrisse una lettera al cappellano del carcere «in cui ammise — scrivono i giudici di Cassazione — che non si erano ancora resi conto di quel che avevano fatto e che il perdono e il pentimento si contrapponevano all’odio, alla rabbia, all’umiliazione subita negli anni, ritornando così sulla recriminazione ricorrente nel suo argomentare: che se qualcuno fosse intervenuto per tempo, il peggio sarebbe stato evitato».

La macchia di sangue

Tutto sbagliato, secondo la difesa, riguardo a quel reperto. A cominciare dal verbale che ne dà conto, firmato non dalla persona che lo ha repertato. Sbagliate le modalità tecniche per repertarle, sbagliato considerarla così limpidamente pura e non frutto di un «contaminazione», cioè portata inavvertitamente sull’auto da qualcuno degli inquirenti che quella sera stava operando sulla scena del delitto. «La traccia era particolarmente nitida» scrive la Cassazione, «tanto da consentire di esaltare con puntualità il profilo genetico di Valeria Cherubini (...) Trattandosi di una traccia di alta qualità, si doveva escludere che potesse aver subito tanti passaggi e che fosse stata esposta a fattori degradanti». In quanto al verbale firmato da carabinieri diversi da chi fece il prelievo, «per quanto discutibile come prassi la corte territoriale ritenne che tale modus operandi fosse comprensibile in ragione della concitazione del momento».

Le famiglie

In tutto questo scrivere, discutere e riaprire ferite, sembrano perdute nel nulla le vite delle famiglie che in quella strage del 2006 persero chi amavano. La famiglia Castagna e la famiglia Frigerio hanno mantenuto negli anni un profilo basso. Non hanno mai partecipato alle polemiche, anche quando sarebbe stato legittimo farsi sentire. Sui fratelli di Raffaella, Beppe e Pietro, qualcuno arrivò senza ritegno a ipotizzare perfino un coinvolgimento nel delitto. Oggi, giustamente, la loro parola d’ordine è: silenzio. «Non diremo nulla. Speravo fosse finita ma ci risiamo» scrive su Facebook Pietro. Ci risiamo. Dopo quasi 17 anni realizziamo che vale anche qui quel famoso «mai dire mai».

Perché Olindo Romano e Rosa Bazzi sono colpevoli, secondo la Cassazione: i libri, i cuscini, la luce staccata. Giusi Fasano su Il Corriere della Sera il 17 Aprile 2023.

I giudici hanno già smontato una per una le 40 obiezioni dei coniugi, confermando l’impianto e l’ergastolo 

Prove. Responsabilità accertate «al di là di ogni ragionevole dubbio». Le sentenze di primo e di secondo grado decisero che Olindo Romano e Rosa Bazzi meritavano l’ergastolo. La Cassazione ritenne tutto dimostrato, confermò l’impianto dell’accusa e il fine pena mai diventò definitivo.

Fino a prova contraria questo è quel che vale ancora adesso, a quasi 17 anni dalla strage che costò la vita a Youssef Marzouk, 2 anni, a sua madre Raffaella Castagna, a sua nonna Paola Galli e a Valeria Cherubini, la vicina di casa di Raffaella che si trovò nel luogo sbagliato al momento sbagliato: sul pianerottolo davanti all’appartamento della strage. A pochi gradini da lei c’era suo marito, Mario Frigerio. Olindo — diranno poi l’inchiesta e il processo — gli tagliò la gola, ma lui rimase in vita perché aveva una malformazione alla carotide. Le sue parole risuonarono nel silenzio più assoluto, durante il processo, quando il giudice gli chiese se riconosceva gli aggressori. «Li vedo in aula» rispose, «sono loro, quei due delinquenti, li riconosco. Lui mi guardava con due occhi da assassino».

La testimonianza

La testimonianza di Mario Frigerio è una delle tre prove-chiave di questa storia nera. Alla quale si aggiungono la confessione (poi ritrattata) dei due imputati e una macchia di sangue di Valeria Cherubini ritrovata sul battitacco dell’auto di Olindo.

Tre pilastri portanti dell’accusa, è vero, tant’è che proprio su dettagli «nuovi» relativi a questi tre elementi si fonda la richiesta di revisione del processo caldeggiata dal sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser. Ma è anche vero che a carico di Olindo e Rosa c’è molto altro. E la sentenza scritta dalla Suprema Corte ripercorre tutto smontando ad una ad una le 40 obiezioni di legittimità proposte dalla difesa: un elenco di punti che la Corte definisce «vivisezione della vicenda processuale».

La descrizione

Quando riaprì gli occhi, Mario Frigerio diede una descrizione del suo aggressore che nulla aveva a che fare con Olindo. «Fu indotto dalle domande dell’allora luogotenente dei carabinieri Gallorini a costruire il falso ricordo di Olindo», hanno sempre lamentato gli avvocati Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, difensori storici della coppia di Erba. Scrissero invece i giudici di Cassazione: «Pur ammesso il carattere suggestivo delle domande fatte dai carabinieri, il teste sia davanti ai pm che davanti ai giudici ha sempre detto di aver esitato a menzionare Olindo, sulle prime, perché voleva capire come fosse stato possibile che un normale condomino, con cui mai aveva avuto contrasti, si fosse accanito così brutalmente su di lui e su sua moglie». Fu, scrivono i giudici, «un ricordo di realtà nitida ma semplicemente incomprensibile, come ha lucidamente detto lui stesso: “Fin dal primo istante che mi sono svegliato la persona che mi ha colpito era lui, questa era la sicurezza che avevo, assoluta, ma non capivo perché”».

La sua testimonianza è sempre stata ritenuta autentica, oggi invece la difesa e Cuno Tarfusser (che fa proprie le consulenze degli avvocati), sostengono che «sviluppò una disfunzione cognitiva» e che fosse «inidoneo a rendere valida testimonianza».

La confessione

Olindo e Rosa poco dopo l’arresto confessarono. «Sotto pressione», caduti vittime di «una vera propria circonvenzione», è stata la conclusione della difesa per anni. In Cassazione si ritenne invece che non ci fu nessuna forzatura nei loro interrogatori. E che cambiarono versione, ritrattando, «non come ripensamento ma come cambio di strategia correlato al cambio di avvocato e a consigli ricevuti da terzi». Le confessioni, tra l’altro, contenevano dettagli che poteva conoscere soltanto chi era stato in quella casa la sera della strage. Eccone alcuni: la posizione dei cadaveri; l’energia elettrica interrotta con distacco manuale del contatore; il fatto che quella sera Raffaella sia arrivata a casa non con la sua auto come al solito; il fatto che il fuoco appiccato nell’appartamento della strage sia stato alimentato da una pira di libri, il punto da cui è partito, i cuscini vicino a Raffaella lasciati lì dopo il tentativo di soffocarla, la morte di Youssef ucciso da persona mancina (Rosa lo è). E, non ultimo: le famose frasi scritte da Olindo sulla bibbia in carcere, prima di ritrattare. «Dio perdona quelli come noi (...) Accogli nel tuo regno Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita».

Il sangue

La traccia del sangue di Valeria Cherubini sull’auto di Olindo è l’altra prova-chiave. «Molto nitida», scrissero i giudici, e quindi «non degradata» e non frutto di possibile contaminazione, come invece ipotizzava finora la difesa. Che però adesso si spinge oltre: in una delle consulenze, che anche Tarfusser allega alla sua richiesta, la definisce «fortemente dubbia» e, in sostanza, dice che «probabilmente» non fu prelevata dal battitacco dell’auto di Olindo. Quindi non sarebbe il sangue «raccontato» nel verbale.

Tutto questo mentre uno dei fratelli di Raffaella, Pietro, scrive su Facebook: «Speravo fosse finita ma ci risiamo».

Erba, le mosse per la revisione. Il rischio è lo scontro fra toghe. Anche i legali di Rosa e Olindo pronti a chiedere un nuovo processo. L'azione del pg può spaccare l'ufficio giudiziario. Felice Manti e Edoardo Montolli su Il Giornale il 17 Aprile 2023

Ci vorranno giorni, qualche settimana. Poi l'Italia saprà se la doppia richiesta di revisione del processo per la strage di Erba verrà accolta dalla Procura di Brescia, competente sulla corte d'Appello di Milano, o se invece Olindo Romano e Rosa Bazzi resteranno per sempre in galera a scontare l'ergastolo. Per un delitto del quale si professano innocenti dopo essersi autoaccusati e dopo tre gradi di giudizio che - secondo il sostituto Pg di Milano Cuno Tarfusser che a Brescia chiede la revisione, rivelata in esclusiva dall'Adnkronos - hanno tralasciato di analizzare compiutamente tutte le prove. Alcuni elementi che saranno sottoposti come «nuove prove» avrebbero potuto dimostrare l'estraneità dei due coniugi a quella mattanza già in primo grado. Tanto che il Pg si azzarda a sottoscrivere che Olindo Romano e Rosa Bazzi siano in carcere ingiustamente e sarebbero vittime di un clamoroso errore giudiziario «nato in un contesto che definire malato è un eufemismo», come si documenta nella richiesta di revisione di una sessantina di pagine. «Noi da qui a breve presenteremo la nostra richiesta, al di là di quella della magistratura. Faremo la nostra istanza, e se la Procura generale ne presenterà un'altra, ben venga», fanno sapere i legali della coppia Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D'Ascola e Patrizia Morello.

Non è la prima volta che difesa e sostituto procuratore - che di norma sono agli antipodi in aula - sono concordi nel chiedere alla corte d'Appello competente di riaprire un processo. «È successo con la strage di Via D'Amelio», ricorda al Giornale un pm siciliano che ha lavorato al caso. Ma in quel caso ci fu il clamoroso depistaggio orchestrato attorno al sedicente colpevole Vincenzo Scarantino. «Raramente è accaduto per un processo così mediatico e a quasi 17 anni di distanza, con sentenze unanimi di condanna, in tutti i tre gradi di giudizio, con il massimo della pena, soprattutto se la revocazione è fondata sulla rivalutazione dell'attendibilità di un testimone e sulla base di consulenze tecniche relative alla sua personalità».

Sarà. Ma prima che la patata bollente firmata Tarfusser venga recapitata a Brescia, appare chiaro che i vertici della Procura generale di Milano debbano decidere se «vistare e condividere» o meno la richiesta di revisione indirizzata a Brescia. «In realtà, dipende dalle regole che scrive il capoufficio. Se davvero prevede il visto del Procuratore generale, senza questo la richiesta non parte», spiega al Giornale una fonte giudiziaria esperta in dinamiche procedurali. Ovviamente il diniego andrebbe motivato con grande attenzione, nel merito e nel metodo, per evitare frizioni che sembrano inevitabili. Qualcuno sostiene anche che la richiesta di revisione vada depositata comunque, anche senza l'ok dell'ufficio, ma a questo punto dentro la Procura generale si aprirebbe uno scontro senza precedenti. «Visto il clamore suscitato dal provvedimento, la dovizia di critiche apparentemente ben motivate e il coinvolgimento degli inquirenti in reati come la presunta frode processuale, sarebbe difficile difendere un veto alla richiesta», spiega un altra fonte vicina alla Procura. Anche perché si intreccia a doppio filo con quello dei legali della coppia di coniugi di Erba, visto che ne condivide perizie e contenuti: tra le nuove prove c'è anche un'intervista del Giornale a Manuel Gabrielli, l'ex legale del supertestimone Mario Frigerio morto qualche mese fa, nel quale lo stesso Gabrielli ammise di nutrire più di un dubbio sulla bontà del riconoscimento di Olindo, come peraltro sostiene anche il Pg Tarfusser carte alla mano.

E in caso di diatriba, cosa succederebbe? Non è chiaro a chi Tarfusser dovrebbe eventualmente ricorrere per sciogliere il conflitto. «Non alla procura della Cassazione, perché non è un ufficio di merito - spiega un giudice che preferisce rimanere anonimo - chi dice che si potrebbe andare al Csm sbaglia, perché anche a Palazzo de' Marescialli la soluzione del conflitto presupporrebbe la conoscenza di indagini coperte da segreto istruttorio, come avvenne per il caso Storari-Davigo», è il ragionamento del magistrato. Peggio: «In teoria dopo le riforme Mastella e Castelli di fatto negli uffici di Pg non ci sono strumenti di riesame, se il capo dice no è no. Ma sarebbe un brutto precedente».

Sangue, testimone e "confessione": i punti chiave. Nelle carte di Tarfusser la contro-verità sulla mattanza. Nuove prove per riaprire il caso. Felice Manti e Edoardo Montolli su Il Giornale il 17 Aprile 2023

C'era davvero una macchia di sangue sull'auto di Olindo Romano? Lui e la moglie furono sono soggetti «a qualche manipolazione da parte dei carabinieri» prima delle confessioni? E chi c'era davvero al colloquio del 20 dicembre 2006 oltre all'allora comandante dei carabinieri di Erba Luciano Gallorini e al testimone Mario Frigerio, quando il maresciallo gli fece più volte il nome del vicino di casa Olindo Romano? Sono le domande che si pone il pg di Milano Cuno Trasfusser nella richiesta di revisione del processo per la strage di Erba pubblicata in esclusiva dall'Adnkronos, visto che quel presunto riconoscimento è - assieme alle confessioni e alla macchia sul battitacco - una delle colonne portanti del processo per la mattanza dell'11 dicembre 2006, quando morirono Raffaella Castagna, suo figlio Youssef, sua madre Paola Galli e la vicina Valeria Cherubini.

Tarfusser ipotizza che sui capisaldi dell'accusa esistano gli elementi per chiedere la revisione per falsità in atti. Una frode processuale, insomma. E a tali conclusioni il pg giunge ancor prima di introdurre le nuove prove presentate dalla difesa, rileggendo gli atti e analizzando soprattutto gli audio mai discussi (a processo, giova ricordarlo, ne entrarono meno delle dita di una mano). Migliaia non furono peraltro mai trascritti e considerati non utili o incomprensibili: invece, erano utilissimi e si sentivano bene, tanto che la difesa li vuole utilizzare per chiedere la riapertura del processo.

Il magistrato, sul colloquio tra Gallorini e Frigerio, sottolinea come il carabiniere, in Corte d'Assise a Como, negò «contrariamente alla verità» di aver fatto il nome di Olindo al testimone, che continuava a riconoscere un olivastro mai visto prima. E si sofferma sul verbale in cui il comandante asseriva che Frigerio poteva aver riconosciuto il vicino di casa come aggressore, fermando subito dopo il colloquio. Scrive Tarfusser: «Ma come? Al momento topico, centrale, nevralgico, in cui l'indagine sembrava essere ad una svolta, si termina il colloquio? Perché? Per non inficiare eventuali successivi atti, si sostiene». Fu quello il motivo «o perché in quel momento giungeva anche l'avvocato Manuel Gabrielli, difensore della famiglia Frigerio?» Ma c'è di più: stando al verbale di Gallorini erano presenti anche il capitano Alfredo Beveroni e il tenente Nicola Gargini, ma i due ufficiali non firmarono l'annotazione di servizio del maresciallo. Un fatto «sicuramente mai valutato dalle Corti di merito, ma che rende questa annotazione di servizio ancora più equivoca». E si domanda il pg: «Vi hanno partecipato davvero? Vi hanno partecipato ma non hanno sentito? Non hanno sentito perché non è stato detto ciò che è stato scritto? Non hanno condiviso? Perché i due ufficiali non sono inseriti nella lista testa dei pm? Perché la Corte d'Assise non ha ritenuto di ammetterli a deporre?». Si tratta di un «atto di polizia giudiziaria che definire strano non coglie l'essenza tanto che è da valutare nell'ottica della falsità in atti».

Ma non è il solo atto opaco. Tarfusser pone enormi dubbi anche sulle «stranezze» del verbale di repertazione della macchia di sangue sull'auto di Olindo «solo apparentemente redatto dal brigadiere Fadda perché da lui non sottoscritto, così come non è sottoscritto dal Romano, pur essendo l'accertamento risultato positivo». Operazioni di repertazione e trasmissione, scrive il magistrato, che avvengono «con modalità, a dir poco, non trasparenti e non tracciabili. Mai è stata posta da alcuno la questione della tracciabilità della prova, senza la quale la prova è, o inammissibile, o irrilevante. Si tratta quindi di un ulteriore atto di polizia giudiziaria che, come detto in precedenza, definire strano non coglie l'essenza». Ma, soprattutto, aggiunge Tarfusser che il reperto analizzato dal professor Carlo Previderè, ovvero la macchia di sangue, potrebbe non essere quello prelevato da Fadda sulla Seat di Olindo, tanto da sollevare «qualche dubbio anche nell'ottica dell'ipotesi di cui alla lettera d) dell'articolo 630 del codice di procedura penale». Anche qui si ipotizza la falsità in atti. E le nuove prove della difesa confermerebbero che quella macchia di sangue non fosse la stessa. Il Pg illustra infatti le conclusioni dei consulenti di Fabio Schembri, Luisa Bordeaux, Nico D'Ascola e Patrizia Morello. E sintetizza: «Detto in termini più chiari e crudi, laddove il consulente afferma che le caratteristiche delle tracce ematiche non risultano conciliabili con quanto sarebbe lecito attendersi egli afferma che quanto analizzato dal dottor Previderè non è quanto apparentemente prelevato dal Fadda e quindi che non è in alcun modo stata rispettata la chain of custody». Dei punti oscuri in questa vicenda abbiamo scritto a lungo in solitudine per anni. E in un podcast abbiamo riportato gli audio della testimonianza in cui Frigerio non ricordava nulla anche nei giorni seguenti al riconoscimento di Olindo con Gallorini. Ma se le prove che portarono alla tutt'altro che dettagliata confessione possono essere frutto di un falso, in cella ci sono due innocenti?

Estratto dell’articolo di Gianluigi Nuzzi per “la Stampa” il 17 aprile 2023. 

La prova regina dell'innocenza di Rosa e Olindo, ergastolani condannati per la strage di Erba, è la stessa che li ha portati alla massima pena: la macchia di sangue scoperta dai carabinieri sul battitacco dell'auto dei due, appartenente a Valeria Cherubini, una delle tre donne uccise l'11 dicembre del 2006 insieme al piccolo Youssef di soli due anni.

È su questo elemento che il sostituto procuratore generale Cuno Tarfusser basa la sua richiesta di revisione […] sulla macchia di sangue sull'auto di Rosa e Olindo, Tarfusser innanzitutto osserva come questa, sebbene grande due centimetri quadrati, non sia stata notata nè nella prima ispezione dei carabinieri il 12 dicembre 2007 alle ore 14.21 nè dagli stessi che se fossero davvero gli autori della strage avrebbero cancellato la prova. Invece ciò non accade per due settimane fino a quando la sera tarda del 23 dicembre i militari dell'Arma ancora controllano l'auto.

In particolare un solo brigadiere compie la verifica come «accertamento tecnico urgente». Tarfusser trova stravagante il tutto, senza dimenticare che il relativo verbale viene redatto «solamente 36 ore dopo». Tarfusser nota che l'atto manca di firma e che su nessuna delle 12 foto scattate «è visibile una macchia di sangue, nessuna di esse è scattata al buio per risaltare il luminol, non viene usato alcun numero identificativo e nessun righello per documentare la dimensione delle macchie/traccia ovvero il più banale ABC del mestiere».

Sul punto Tarfusser insiste e sottolinea come «nessuna macchia è visibile all'interno del cerchietto numero 3 che stando al brigadiere sarebbe il luogo dove è stata repertata la macchia di sangue successivamente attribuita alla povera Valeria Cherubini». Insomma saremo di fronte a un'azione e a modalità «a dir poco non trasparenti e non tracciabili» condotte «con stupefacente superficialità». 

Ed è per il magistrato un elemento rilevante perché quando una prova è priva di tracciabilità diventa inammissibile o irrilevante. In altre parole il sostituto non dubita che la traccia ematica inviata all'analisi appartenesse alla vittima, pone invece degli interrogativi sul fatto che si tratti dello stesso sangue prelevato dal brigadiere durante la seconda ispezione. Insomma, si potrebbe addirittura ipotizzare una frode processuale compiuta da qualcuno?

Tarfusser non si spinge a tanto ma ricorda come nelle consulenze dei difensori si adombri proprio questo. […] Tarfusser ritorna anche sulla confessione degli imputati che ritiene falsa e falsata come anche il riconoscimento del sopravvissuto Frigerio in Olindo quale aggressore. Quest'ultimo sarebbe dovuto al «peggioramento della condizione psichica e dei deficit cognitivi manifestati dal Frigerio nel corso della degenza ospedaliera».

La decisione del procuratore generale è attesa in un paio di settimane si esprimerà sulla richiesta di revisione avanzata da Tarfusser, dopodiché o la scena giudiziaria si illuminerà a Brescia con la valutazione definitiva del documento da parte della Corte dopo il parere della procura generale cittadina o tutto si chiuderà nel capoluogo lombardo con Nanni che archivierà la richiesta. In parallelo e direttamente a Brescia i difensori dei due ergastolani potranno presentare la loro richiesta di revisione con le nuove prove e i nuovi testimoni individuati in questi anni di attività difensiva.

È chiaro che si tratta di due stanze che corrono […] in parallelo ma l'esito della prima avrà una inevitabile ricaduta sulla seconda […] Senza dimenticare che a chiedere giustizia e verità ci sono di certo i due imputati già condannati definitivamente all'ergastolo, ma anche i parenti delle vittime che vivono in questi giorni la riapertura di una ferita devastante […] la lente d'ingrandimento di Tarfusser corrisponde a verità o si tratta di una serie di interpretazioni e domande che possono trovare una risposta?

Strage di Erba, Cuno Tarfusser: «Un caso da riaprire. Ho scritto ogni pagina con onestà intellettuale». Storia di Giusi Fasano su Il Corriere della Sera Reporti Rai

La voce di Cuno Tarfusser arriva da Amsterdam, dove sta passando qualche giorno di vacanza. «Trovo a dir poco spiacevole che l’atto sia uscito», dice, «guarda caso proprio quando io non ero in Italia. E comunque: tutto quello che ho da dire l’ho scritto lì dentro. Ho scritto ogni pagina con la massima onestà intellettuale di cui sono capace e con tutta la passione per il mestiere che ho sempre avuto. Direi che il mio compito finisce qui, sta ad altri prendere ulteriori decisioni. E ora vorrei che di me non si parlasse, perché io non voglio niente, non cerco niente. A me importa il merito, non il circo mediatico». L’atto di cui parla il sostituto procuratore generale di Milano Tarfusser è la richiesta di revisione del processo sulla strage di Erba. Si è convinto che siano innocenti e ha scritto 58 pagine di «arringa» da mandare alla Corte d’Appello di Brescia a cui spetterebbe decidere se riaprire il caso oppure no. Ha depositato tutto in segreteria e ne ha mandato copia alla procuratrice generale Francesca Nanni e all’avvocata generale Lucilla Tontodonati. Che non devono aver gradito molto la sua iniziativa e hanno bloccato la trasmissione a Brescia. Tocca a loro — hanno deciso seguendo il «documento organizzativo» interno — occuparsi di qualsivoglia richiesta di revisione e saranno loro a valutare quella scritta dal collega. Entro un mese, hanno fatto sapere ieri.

Tarfusser, nel frattempo, invoca silenzio e rimane alla finestra a guardare. E chi lo conosce non esclude per niente che, nel caso si decidesse di non inoltrare il documento a Brescia, sia poi lui a farlo lo stesso, autonomamente. Il sostituto procuratore non è uomo arrendevole e, soprattutto, non è mai stato troppo diplomatico davanti a quelle che ritiene ingiustizie. L’anno scorso, per esempio: il Csm gli impedì di diventare garante del codice etico per il Comune di Bolzano (dove cominciò la sua carriera da magistrato) e lui convocò una conferenza stampa per spiegare che «la mia colpa è non essere parte del sistema e ne sono orgoglioso». Fuori sistema anche nell’autocritica, personale e di categoria. Qualche mese fa andò alla prima della presentazione del docufilm «Peso morto», la storia di un errore giudiziario che costò 21 anni di carcere ad Angelo Massaro, innocente. Alla fine della proiezione Tarfusser chiese la parola visibilmente scosso. «Io chiedo scusa a nome delle istituzioni», disse a quell’uomo e al pubblico. «Angosciante» è il suo aggettivo quando definisce casi di errori giudiziari. E lo fu anche per l’arresto sbagliato che lui stesso chiese tanti anni fa per Luca Nobile, ingiustamente detenuto per alcuni giorni come «mostro di Merano» e poi scagionato. A fine carriera (68 anni e pensione l’anno prossimo), Tarfusser è sostituto procuratore generale dal 2019, quando rientrò in Italia dopo 11 anni da giudice e da vicepresidente alla Corte Penale Internazionale all’Aja (Paesi Bassi). Sua (fra le altre) la firma per il mandato di cattura del presidente del Sudan al Bashir per genocidio; suo il mandato di cattura per Muhammar Gheddafi per crimini contro l’umanità. Ma è sua anche la decisione di assolvere per mancanza di prove il presidente della Costa d’Avorio accusato di crimini contro l’umanità. E ancora: fu lui — da procuratore a Bolzano — a inventare, diciamo così, le best practices nei palazzi di giustizia del nostro Paese. Informatica, riorganizzazione degli uffici, dei servizi, rapporti con gli utenti... e nell’arco di pochi mesi Bolzano diventò un esempio per il resto d’Italia. Quel tempo sembra lontano anni luce dal suo interesse per la strage di Erba, nato per caso da un incontro con gli avvocati di Olindo e Rosa. «È per me insopportabile il pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo» scrive nella richiesta di revisione. Una premessa che non prevede la resa, nemmeno se fosse bocciata la trasmissione dell’atto a Brescia.

Perché il sostituto pg ha chiesto di riaprire il caso. Strage di Erba, cosa era successo e la nuova convinzione: “Rosa e Olindo vittime di un errore giudiziario”. Rossella Grasso su L'Inchiesta il 16 Aprile 2023 

Era l’11 dicembre 2006 quando a Erba, comune di 15mila abitanti in provincia di Como, avvenne una strage, rendendo il piccolo centro protagonista di uno dei delitti più efferati della storia della cronaca nera italiana. Della “Strage di Erba” furono condannati i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, ritenuti colpevoli dell’omicidio di Raffaella Castagna, del figlio di 2 anni Youssef Marzouk, della nonna del piccolo Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini. Uccisi a colpi di coltello e spranga. Ma ora nuovi elementi potrebbero portare il Procuratore generale Francesca Nanni e l’Avvocato Lucilla Tontodonati a riaprire il caso. Nei giorni scorsi il pg di Milano Milano, Cuno Tarfusser, ha consegnato alle due magistrate venti pagine per spiegare quali sono le nuove presunte “prove” che potrebbero portare a riaprire il caso: una relazione redatta sulla scorta di nuovi elementi presentati dalla difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi.

Un caso che ha sulle spalle oltre 16 anni di sentenze definitive, prove regine, confessioni fatte e poi ritrattate. Il pool di avvocati dei due coniugi ha prodotto una serie di nuovi atti che il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ha raccolto, chiedendo alla procura generale – e quindi ai suoi superiori – di riaprire il fascicolo, ritrasmettendo gli atti alla Corte d’appello di Brescia, “in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo”.

La “Strage di Erba”

La sera dell’11 dicembre 2006 furono uccisi barbaramente Raffaella Castagna, il suo bambino Youssef, che aveva due anni, e sua madre Paola Galli. Fu uccisa anche Valeria Cherubini, che era invece la vicina di casa di Raffaella. Mario Frigerio, suo marito, fu sgozzato, ma non morì: aveva una maltormazione alla carotide che ne impedì il mortale dissanguamento. Rosa e Olindo erano i vicini di casa del piano di sotto, in perenne lite con Raffaella e suo marito, il marocchino Azouz Marzouk a causa di rumori che avevano provocato già liti violente, insulti e minacce reciproche. C’era stata anche una lite la notte di Capodanno del 2005 ed era anche in atto una causa civile fra le parti, che avrebbe dovuto svolgersi due giorni dopo la strage: in quell’occasione, i coniugi Romano avevano aggredito e percosso la Castagna, che aveva sporto denuncia contro di loro per ingiurie e lesioni dopo un diverbio scoppiato quella sera, pur offrendosi di rimetterla in cambio di un risarcimento in denaro. L’episodio, comunque, era solo l’ultimo di una lunga lista di ostilità e sgarbi tra inquilini, frequentemente sfociati in diverbi e litigi.

L’8 gennaio 2007 vengono arrestati: Romano viene accusato di omicidio plurimo pluriaggravato, la donna di concorso. Il 10 gennaio 2007, davanti ai magistrati, i Romano ammettono, separatamente, di essere gli esecutori della strage, descrivendone con minuzia i singoli atti, il tipo di ferite, la posizione dei corpi delle vittime e il tipo di armi usate. Nei tre gradi di giudizio marito e moglie verranno sempre considerati colpevoli, con la conferma della condanna all’ergastolo: nel corso dei processi i coniugi avevano poi ritrattato la confessione, dichiarando di averlo fatto dietro la promessa di arresti domiciliari e pene di pochi anni da scontare in carcere.

La richiesta di revisione del processo e le nuove prove

Secondo la ricostruzione fatta dal Corriere della Sera, a Brescia arriverà nei prossimi giorni una richiesta di revisione firmata dai legali di Olindo e Rosa, Fabio Schembri e Luisa Bordeaux, avvocati storici della coppia che in anni di studio approfondito sono riusciti a trovare nuove prove da sottoporre ai giudici. Tanto da aver convinto Tarfusser, il sostituto procuratore, delle tesi della difesa: Olindo e Rosa sono innocenti. Tre i motivi principali: la confessione dei due imputati, la testimonianza di Frigerio e la macchia di sangue di Valeria Cherubini sull’auto di Olindo.

In sostanza le “nuove prove” non sarebbero novità ma sarebbero state analizzate sotto una nuova luce. Per la difesa il riconoscimento di Mario Frigerio fu una “falsa memoria”, indotta dalle domande su Olindo che il luogotenente dei carabinieri Gallorini gli fece mentre lui era ricoverato in gravissime condizioni; la confessione di Olindo e Rosa fu ottenuta con “errate tecniche di intervista investigativa” e ci sono dubbi sulla raccolta, sull’analisi e sulla provenienza della macchia di sangue sul battitacco dell’auto. Tre questioni già affrontate in secondo grado. Ma “lo sono ontologicamente”, spiega il magistrato nella sua richiesta di revisione, “in quanto fondano su conoscenze scientifiche, metodologiche e tecnologiche sviluppare successivamente alla prima decade di questo secolo, ma ancora di più lo sono se considerate e valutate unitamente alle prove già valutate e ancora di più alle prove in atti e mai valutate”.

La testimonianza di Frigerio

Secondo quanto riportato dal Corriere, “le nostre consulenze tirano in ballo moltissimi esperti”, ha detto l’avvocato Schembri, che “provano scientificamente che la testimonianza di Frigerio non fu genuina. Nessuno dice che lui mentì. Lui aveva una lesione cerebrale e aveva sviluppato quella che la scienza chiama una amnesia anterograda che rende impossibile recuperare i ricordi”. Ma questo non trova concordi i giudici della Cassazione che invece obiettarono: “Pur ammesso il carattere suggestivo delle domande fatte dai carabinieri, il teste sia davanti ai pm che davanti ai giudici ha sempre detto di aver esitato a menzionare Olindo, sulle prime, perché voleva capire come fosse stato possibile che un normale condomino, con cui mai aveva avuto contrasti, si fosse accanito così brutalmente su di lui e su sua moglie”. Frigerio è morto anni fa. Lui e sua moglie, Valeria Cherubini, furono coinvolti per caso nella drammatica vicenda perché stavano uscendo con il cane quando incontrarono Olindo che sarebbe uscito da casa di Raffaella Castagna. Secondo i giudici in tre gradi di giudizio eliminati perché scomodi testimoni di quella mattanza. Frigerio ai giudici di primo grado disse di riconoscere gli assassini: “Li vedo in aula, sono loro, quei due delinquenti, li riconosco. Lui mi guardava con due occhi da assassino”.

Le confessioni di Rosa e Olindo poi ritrattate e le scritte sulla Bibbia

Secondo Tarfusser le confessioni di Rosa e Olindo sarebbero maturate in “un contesto che definire ‘malato’ è fare esercizio di eufemismo”. Secondo al difesa i due coniugi avrebbero ceduto alle pressioni degli inquirenti e vittime di una vera e propria circonvenzione. I giudici della Cassazione all’epoca obiettarono che Rosa e Olindo avevano raccontato una storia plausibile con dettagli che soltanto chi era stato quella sera in quella casa poteva conoscere. Per esempio: la posizione dei cadaveri; l’energia elettrica interrotta con distacco manuale del contatore; il fatto che quella sera Raffaella sia arrivata a casa con l’auto di famiglia e non la sua come al solito; il fatto che il fuoco si stato alimentato da una pira di libri, il punto da cui è partito, la posizione dei corpi, i cuscini vicino a Raffaella lasciati nel tentativo di soffocarla, la morte di Youssef avvenuta per mano di Rosa che era mancina e lui fu ucciso da mano mancina.

E poi c’è quello che Olindo scrisse in cella sulla Bibbia prima di ritrattare: “Perdonaci, non sapevamo cosa facevamo”. E ancora: “Dio perdona anche quelli come noi che su questa terra hanno vissuto l’inferno”, “Accogli nel tuo regno Youssef, sua mamma Raffaella, sua nonna Paola e Valeria a cui noi abbiamo tolto il tuo dono, la vita”.

La macchia di sangue sull’auto di Olindo

La difesa ha contestato l’uso che si fece di quel reperto che sarebbe stato prelevato in maniera sbagliata tanto da mettere in discussione che non fosse frutto di una contaminazione successiva cioè portata inavvertitamente sull’auto da qualcuno degli inquirenti che quella sera stava operando sulla scena del delitto. “La traccia era particolarmente nitida” scrisse la Cassazione, “tanto da consentire di esaltare con puntualità il profilo genetico di Valeria Cherubini (…) Trattandosi di una traccia di alta qualità, si doveva escludere che potesse aver subito tanti passaggi e che fosse stata esposta a fattori degradanti”. In quanto al verbale firmato da carabinieri diversi da chi fece il prelievo, “per quanto discutibile come prassi la corte territoriale ritenne che tale modus operandi fosse comprensibile in ragione della concitazione del momento”.

Il dolore delle famiglie delle vittime

Negli anni la famiglia Castagna e la famiglia Frigerio hanno mantenuto basso profilo. Alla notizia della probabile riapertura del caso Pietro e Beppe Castagna si sono sfogati in un post su Facebook: “Speravo fosse finita ma ci risiamo”. E ripropongono un post scritto nell’ottobre 2018. “Ora, non sta a noi, né difendere la procura né gli inquirenti né il loro operato, consentiteci di difendere però la verità, che per noi è solo una, consentiteci di essere indignati e increduli nel sentire gente che definisce i colpevoli come innocenti vittime di una giustizia sommaria e faziosa, definiti addirittura come ‘un gigante buono e una gracile signora’. Questo gigante buono e questa gracile signora hanno ucciso brutalmente nostra madre, nostra sorella, nostro nipotino, la signora Valeria, hanno tentato di uccidere il signor Mario, spezzando pochi anni dopo la sua vita e la vita di nostro padre, facendo vivere a me e a Beppe, a Elena e Andrea Frigerio un incubo continuo”.

Rossella Grasso. Giornalista professionista e videomaker, ha iniziato nel 2006 a scrivere su varie testate nazionali e locali occupandosi di cronaca, cultura e tecnologia. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Orgogliosamente napoletana, si occupa per lo più video e videoreportage. È autrice anche di documentari tra cui “Lo Sfizzicariello – storie di riscatto dal disagio mentale”, menzione speciale al Napoli Film Festival.

Strage di Erba, il pg: «Olindo e Rosa vittime di un errore giudiziario, riaprite il caso». Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 15 Aprile 2023

Il procuratore ha avanzato la richiesta di revisione del processo per la morte di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, della nonna del piccolo Paola Galli e di una vicina di casa Valeria Cherubini

Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all'ergastolo per la strage di Erba, sono innocenti. Lo sostiene il pg di Milano Cuno Tarfusser che, su input della difesa, ha avanzato richiesta di revisione del processo per la morte di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, della nonna del piccolo Paola Galli e di una vicina di casa Valeria Cherubini. Una richiesta, si legge nell'atto di 58 pagine in possesso dell'Adnkronos, che viene sollevata dal magistrato «in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l'insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l'ergastolo». 

In tal senso chiede che la corte d'Appello di Brescia, titolata a esprimersi sulla questione, voglia procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale mediante, «l'esame dei 57 consulenti tecnici che hanno redatto e sottoscritto le consulenze tecniche sulle modalità, le tecnologie, gli accertamenti da loro effettuati e sui risultati cui sono giunti, e voglia disporre, previa acquisizione degli atti processuali, ogni ulteriore accertamento ritenuto utile e necessario ai fini del decidere secondo verità e giustizia».

Secondo il procuratore, il riconoscimento effettuato dal testimone oculare Mario Frigerio, che nella strage di Erba ha perso la moglie Valeria Cherubini, non è attendibile, come sostiene nella richiesta di revisione del processo. «Il peggioramento della condizione psichica e i deficit cognitivi manifestati da Mario Frigerio nel corso della degenza ospedaliera, le errate tecniche di intervista investigativa dense di numerosissime suggestioni su di lui attuate e la palese violazione di precise e note leggi scientifiche in materia di memoria e di riconoscimento di volti dimostrano in modo incontrovertibile che la memoria riguardante Olindo Romano quale suo aggressore è una falsa memoria e che Mario Frigerio era soggetto inidoneo a rendere valida testimonianza circa i fatti avvenuti la sera dell'11 dicembre 2006» si legge nel documento.

«Moltissimi erano gli elementi che sin dal giudizio di primo grado sarebbero stati idonei, se solo valutati dai giudici, a giudicare inattendibile la prova del "riconoscimento", fortemente dubbia la prova della "macchia di sangue" (sangue della vittima Valeria Cherubini che sarebbe stata trovatao sul battitacco dell'auto di Olindo Romano) e indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo, le "confessioni", trattate invece alla stregua di prove regine».  

«Le dichiarazioni auto accusatorie» di Olindo Romano e Rosa Bazzi «sono da considerarsi false confessioni acquiescenti. Tali conclusioni si fondano sui più recenti ed avanzati dati scientifici che corrispondono ai criteri che, se mancanti, rendono le confessioni, false confessioni».

Il procuratore punta il dito anche sul fatto che non sono state prese in esame «altre piste investigative» e che non sono mai state spiegate «le lacune di giorni nelle intercettazioni ambientali e telefoniche». Si tratta di «criticità mai valutate», da considerare alla luce di «nuove prove».

Strage di Erba, il sostituto procuratore di Milano: "Olindo e Rosa innocenti in carcere. Sono vittime di un errore giudiziario". Redazione Milano su La Repubblica il 15 Aprile 2023

Il sostituto pg di Milano Tarfusser ha chiesto alla procura generale di riaprire il caso: "Fin dal primo grado prove della loro innocenza". I fratelli Castagna: "Sono colpevoli, chi crede il contrario è un demente o un farabutto"

False confessioni, riconoscimenti errati, prove regine che tali non sono. La premessa è necessaria, trattandosi di un caso che ormai ha più di 16 anni con sentenze definitive: il pool di avvocati di Rosa Bazzi e Olindo Romano, la coppia accusata della strage di Erba nel 2006, ha prodotto una serie di nuovi atti che il sostituto procuratore generale di Milano Cuno Tarfusser ha raccolto, chiedendo alla procura generale - e quindi ai suoi superiori - di riaprire il fascicolo, ritrasmettendo gli atti alla Corte d'appello di Brescia. Con la convinzione che "Olindo Romano e Rosa Bazzi sono vittime di un errore giudiziario" e che l'unico testimone sopravvissuto alla strage che costò la vita a Raffaella Castagna, a suo figlio Youssef, alla madre della donna, Paola Galli e alla vicina di casa Valeria Cherubini, ovvero il marito di quest'ultima Mario Frigerio ebbe una "falsa memoria" nell'identificare Olindo Romano come il suo aggressore.

"Moltissimi erano gli elementi che sin dal giudizio di primo grado sarebbero stati idonei, se solo valutati dai giudici, a giudicare inattendibile la prova del 'riconoscimento', fortemente dubbia la prova della 'macchia di sanguè e indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo, le 'confessioni', trattate invece alla stregua di prove regine". Ecco cosa scrive il sostituto procuratore Tarfusser nella richiesta di revisione per la quale, appunto, sono stati condannati all'ergastolo, in via definitiva, i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi.

"Oggi, a distanza di oltre 17 anni, la scienza - se auspicabilmente ammessa a farlo nel giudizio rescissorio - è fortunatamente in grado di fornire da sola, ma soprattutto in unione alle numerose criticità in atti e non in atti, comunque mai valutati, quelle certezze scientifiche idonee a fare sgretolare i tre pilastri probatori su cui fondano la condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi", si legge nel documento di 58 pagine di cui l'Adnkronos è in possesso. In cui si sostiene che "le dichiarazioni auto accusatorie" di Olindo Romano e Rosa Bazzi "sono da considerarsi false confessioni acquiescenti. Tali conclusioni si fondano sui più recenti ed avanzati dati scientifici che corrispondono ai criteri che, se mancanti, rendono le confessioni, false confessioni".

Il contesto in cui le tre prove, - riconoscimento da parte del testimone oculare Mario Frigerio e macchia di sangue trovata sul battitacco dell'auto di Olindo Romano, prima e le confessioni (di Olindo e della moglie Rosa Bazzi), successivamente, sono maturate è "un contesto che definire 'malatò è fare esercizio di eufemismo", scrive Tarfusser. "Si tratta di considerazioni e di osservazioni che, se approfondite e valutate, avrebbero già sin dal giudizio di primo grado potuto portare ad un diverso esito processuale, ma che oggi probabilmente da sole non avrebbero la forza necessaria per infrangere il giudicato". E ancora: "Esse però sono in grado di tracciare un netto punto di partenza, la base, su cui si innestano gli accertamenti tecnico-scientifici che attraverso tecniche e metodologie nuove e più sofisticate valutate unitamente agli elementi già in atti, valutati e non valutati, dimostrano che gli imputati devono essere prosciolti" conclude.

Mario Frigerio - morto alcuni anni fa - fu gravemente ferito dal suo aggressore, che lui identificò in Olindo Romano. "Il peggioramento della condizione psichica e i deficit cognitivi manifestati da Mario Frigerio nel corso della degenza ospedaliera, le errate tecniche di intervista investigativa dense di numerosissime suggestioni su di lui attuate e la palese violazione di precise e note leggi scientifiche in materia di memoria e di riconoscimento di volti dimostrano in modo incontrovertibile che la memoria riguardante Olindo Romano quale suo aggressore è una falsa memoria e che Mario Frigerio era soggetto inidoneo a rendere valida testimonianza circa i fatti avvenuti la sera dell'11 dicembre 2006" si legge nel documento. In particolare, rispetto al riconoscimento "non si può non rilevare come questo riconoscimento abbia avuto una genesi tortuosa, sia inficiato da evidenti e gravi elementi di criticità che lo rendono estremamente dubbio ma, soprattutto, che si fonda su elementi che pur essendo in atti, mai sono stati scrutinati e valutati dalle Corti di merito".

Strage Erba, il sostituto pg Tarfusser: "Insopportabile pensare che due innocenti siano condannati all'ergastolo"

Su input della difesa, quindi, Tarfusser ha avanzato richiesta di revisione del processo, una richiesta, si legge nell'atto di 58 pagine in possesso dell'Adnkronos, che viene sollevata dal magistrato "in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l'insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l'ergastolo".

In tal senso chiede che la corte d'Appello di Brescia, titolata a esprimersi sulla questione, voglia procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale mediante, "l'esame dei 57 consulenti tecnici che hanno redatto e sottoscritto le consulenze tecniche sulle modalità, le tecnologie, gli accertamenti da loro effettuati e sui risultati cui sono giunti, e voglia disporre, previa acquisizione degli atti processuali, ogni ulteriore accertamento ritenuto utile e necessario ai fini del decidere secondo verità e giustizia".

Beppe e Pietro Castagna sono i fratelli di Raffaella e figli di Paola Galli, due delle vittime della strage. Sono gli unici rimasti, dopo che il loro padre Carlo Castagna, che per anni si è battuto per avere verità sulla morte dei suoi cari, è morto. E tra ieri e oggi sui loro profili Facebook hanno scritto cosa pensano di questa richiesta di revisione.

 Scrive Beppe Castagna: "Siamo sopravvissuti malgrado il dolore derivante dall'efferato assassinio di nostra madre, nostra sorella e nostro nipote, l'11/12/06. Abbiamo successivamente concesso a malincuore che le spoglie di Raffaella e Jouseff finissero in Tunisia, e li abbiamo accompagnati, ospiti dei parenti di Azouz... velo pietoso...Abbiamo sopportato le incursioni di troupe televisive per settimane, fino in casa e anche durante i funerali. Abbiamo seguito attentamente tutti i processi, primo grado, secondo grado e cassazione, ripercorrendo ogni volta il martirio dei nostri cari, convincendoci senza ombra di dubbio della colpevolezza dei coniugi Romano. Non ci saremmo mai accontentati di due capri espiatori. E trovo fortemente offensivo chi lo osa pensare. Prove abbondanti mai state confutate da nessuno in tre gradi di giudizio. E da altri inutili ricorsi ecc. Ora un sostituto procuratore probabilmente condizionato dalla campagna mediatica assordante delle Iene, sembrerebbe abbia ritenuto di valutare la "riapertura del caso". Se si tratterà di una persona preparata e seria, dopo aver studiato attentamente il caso non potrà fare altro che archiviare l'ennesima assurda richiesta della solita inutile ma dannosa per tutti, soprattutto per gli assistiti, difesa, coadiuvata dalla ultima, più potente sponsorizzatrice delle cause perse, trasmissione Le Iene. Olindo, sulla sua Bibbia, scrisse cose tipo: " ti ho sognata come quel giorno che ti abbiamo ucciso con il sangue che ti usciva dalla testa" oppure, "accogli Raffaella, sua mamma e Jouseff che noi abbiamo ucciso... I Frigerio dovevano farsi i cazzi loro... e altre ulteriori confessioni. Ma la verità è già stata abbondantemente dimostrata, i coniugi Romano sono colpevoli. E chi crede il contrario o è un demente o un farabutto. Non ci sono alternative".

Perché Rosa e Olindo non possono essere gli assassini. Estratto dell'articolo di Gianluigi Nuzzi per “La Stampa” il 15 Aprile 2023

 La strage di Erba, dopo aver già conquistato il primato di peggiore carneficina del nuovo millennio nel nostro Paese, colleziona un'altra inquietante peculiarità: un sostituto procuratore generale dopo aver letto gli atti chiede che il processo venga riaperto, affatto convinto che Rosa e Olindo siano davvero gli assassini di quei quattro innocenti ammazzati la sera dell'11 dicembre 2006 a Erba.

 Un documento analitico, frutto di mesi di lavoro quello che il sostituto Cuno Tarfusser […] ha elaborato, dopo aver incontrato gli avvocati di Rosa e Olindo, i due che stanno scontando l'ergastolo dopo la pronuncia definitiva della Cassazione nel 2011. Una richiesta sollevata «in tutta coscienza per amore di verità e di giustizia e per l'insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l'ergastolo».

La conclusione è netta: «Fin dal primo grado c'erano prove della loro innocenza». Il documento è ora sulla scrivania del procuratore generale Francesca Nanni perché sta a quest'ultima decidere se vistarlo e trasmetterlo a Brescia per il vaglio della Corte d'Appello sull'eventuale revisione, oppure archiviarlo non ritenendolo condivisibile.

 Nel documento Tarfusser valorizza elementi controversi su tutte le tre prove principali che portarono all'ergastolo. Si parte dalle macchie di sangue della vittima sull'auto usata dagli imputati, che sarebbe in realtà un effetto ottico, al riconoscimento e l'identificazione di Olindo da parte di Mario Frigerio, unico testimone della strage, che sarebbe compromesso dai "buchi" nelle intercettazioni e, da ultima, la confessione stessa della coppia che poi ha ritrattato.

 L'auto accusa dei coniugi, per il magistrato, sarebbe «da considerarsi false confessione acquiescente», la testimonianza di Frigerio una «falsa memoria» legata al «peggioramento della condizione psichica» dell'uomo e alle «errate tecniche di intervista investigativa».

 Osservazioni, sottolinea il magistrato, che «se approfondite e valutate, avrebbero già sin dal giudizio di primo grado potuto portare ad un diverso esito processuale».

[…] Tarfusser ha cioè maturato dubbi sull'istruttoria ancora prima di valutare le "nuove prove" che gli avvocati di Rosa e Olindo hanno raccolto negli ultimi anni, contando su numerosi consulenti ed esperti. Sembra infatti che Tarfusser si sia sorpreso di numerosi dettagli a iniziare dal fatto che Rosa e Olindo vennero sentiti addirittura da quattro pubblici ministeri.

Per capire la portata di questa mossa di Tarfusser è forse davvero la prima volta dal 1930, con l'entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale nella storia della nostra giustizia, che un sostituto procuratore generale – e quindi chi rappresenta l'accusa – ponga dei dubbi sulla colpevolezza dei condannati, sollecitando la revisione e la riapertura del dibattimento. In genere, infatti, è l'imputato a chiedere un nuovo processo.

[…] si tornerebbe a quelle ore, alla sera delle atrocità, a quei 76 colpi inferti con spranghe e due coltelli, l'11 dicembre 2006 quando in una delle palazzine di via Armando Diaz 25 a Erba vennero ammazzate quattro persone: Raffaella Castagna (30 anni), il figlio Youssef Marzouk di appena due anni, la nonna del bimbo, Paola Galli di 60 anni, e una loro vicina, Valeria Cherubini di 55 anni che viveva con il marito Frigerio al piano superiore, in una mansarda.

 Ed è proprio Frigerio l'unico a rimanere in vita. E questo grazie a una assai particolare malformazione congenita alla carotide che gli impedisce di dissanguarsi. E così Frigerio diverrà il testimone chiave dell'accusa, quello che, recuperate le forze, punterà l'indice contro Rosa e Olindo.

I due, a gennaio del 2007, confesseranno la strage con parole da pelle d'oca. Quando i pm chiedono a Rosa: «Il bambino perché lo ha ucciso?», lei senza battere ciglio risponde: «Perché urlava… (…) perché piangeva e mi dava fastidio… mi aumentava il mal di testa quando lo sentivo». Olindo: «No, è stato come ammazzare un coniglio, se l'è meritata».

Rosa e Olindo andranno poi a ritrarre, accusando di esser stati indotti a confessare, senza però essere creduti. Olindo: «Non ho fatto altro che dirgli le notizie apprese tramite i giornali» mentre la procura osserva come nei ricordi dei due messi agli atti abbondino «particolari significativi riferibili solo da soggetti che abbiano effettivamente vissuto la scena del crimine».

A questo punto, diventa importante non solo che venga fatta chiarezza ma che questo avvenga in tempi rapidi e in modo definitivo. Non si possono lasciare le vittime e i loro parenti rimasti in vita con dubbi di questo tipo. In pochi giorni, al massimo una o due settimane, il procuratore di Milano Nanni deciderà se vistare e condividere le venti pagine firmate da Tarfusser dopodiché bisognerà capire se e cosa faranno i giudici a Brescia. Anche perché è sempre stato ritenuto improponibile solo ipotizzare che gli autori della strage siano da cercare tra le persone che non abitavano nella stessa palazzina e le prove contro Rosa e Olindo ad oggi sono state sempre ritenute granitiche e tali da convincere giudici di ogni ordine e grado.

Strage di Erba, il Pg: «Rosa e Olindo vittime di errore giudiziario». Ecco il contenuto del documento con il quale il sostituto procuratore generale di Milano chiede la revisione del caso: «Le prove li scagionano». Il Dubbio il 16 aprile 2023

Le prove per cui sono stati condannati Rosa e Olindo per la strage di Erba sarebbero maturate in «un contesto che definire malato sarebbe un esercizio di eufemismo». A scriverlo il sostituto pg di Milano Cuno Tartufesser nell'istanza di revisione del processo che ha portato alla condanna all'ergastolo per l'omicidio dell'11 dicembre del 2006 di Raffaella Castagna, Paola Galli, Youssef Marzouk Raffaella Cherubini e per il tentato omicidio di Mario Frigerio. Le tre prove cardine - il riconoscimento degli imputati come autori del delitto da parte di Frigerio, le confessioni dei coniugi e la macchia di sangue trovata sull'auto di Olindo appartenente a Cherubini - vengono smontate una a una dal magistrato, la cui istanza dovrà comunque essere valutata dai giudici prima di un eventuale nuovo processo. A convincere il pg della necessità di una revisione sono state anche due consulenze che gli hanno sottoposto gli avvocati Fabio Schembri e Paolo Sevesi il 14 febbraio scorso, «alla cui stesura hanno contribuito diversi accademici, tutti luminari della rispettiva materia tecnica e scientifica, le quali, alla luce delle più moderne e recenti tecniche e metodologie, comunque successive alla fine della prima decade del secolo, e quindi dei fatti oggetto del processo, hanno analizzato le due prove dichiarative, ovvero il riconoscimento e le confessioni dei due condannati e una consulenza Tecnica biologico-genetica forense che, ad oltre 16 anni di distanza, ha riesaminato e rivalutato alla luce dell'enorme sviluppo tecnologico e metodologico che ha avuto la materia in questi anni, la tecnologia e la metodologia utilizzata allora per il repertamento».

«Le dichiarazioni auto accusatorie di Olindo Romano e Rosa Bazzi sono da considerarsi false confessioni acquiescenti», scrive Tartufesser, secondo cui questo è «il risultato cui giungono i consulenti» sulla base dei «più recenti ed avanzati dati scientifici che corrispondono ai criteri che, se mancanti, rendono le confessioni, false confessioni». Quanto alla prova del sangue della vittima Valeria Cherubini sull'auto di Olindo, il magistrato scrive che «non si può non rilevare come si tratta di una prova che trasuda criticità mai valutate dalle Corti di merito che mai hanno messo in dubbio, né l'origine della macchia di sangue, né la chain of custody dal momento del suo repertamento».

Tra gli elementi “nuovi” la non attendibilità di Frigerio, l’unico sopravvissuto alla strage e oggi deceduto. «Queste novità si possono così riassumere: mancata valutazione dell'idoneità a rendere testimonianza, effettuata in base alla ricostruzione dalle intercettazioni mai entrate al processo, che evidenziano deficit cognitivi non segnalati nella relazione del dottor Cetti. L'elemento nuovo ècostituito dalla decodifica delle intercettazioni ambientali durante la degenza ospedaliera del testimone, nelle quali la somministrazione della testistica clinica è menzionata dai figli ma di cui non vi è traccia nella relazione medica. Dati clinici acquisiti dopo il 2010 che, applicati al caso specifico, dimostrano che Frigerio sviluppò, a seguito dell'aggressione, una disfunzione cognitiva provocata da intossicazione da monossido di carbonio, arresto cardiaco, shock emorragico e lesioni cerebrali focali. Stante la gravità dei singoli eventi neurolesivi, la loro concomitanza in un soggetto anziano ed iperteso ha sicuramente determinato un complessivo scadimento delle funzioni cognitive necessarie a rendere valida testimonianza. Dati nuovi che si ricavano dalle trascrizioni delle intercettazioni ambientali, mai effettuate prima, che evidenziano e dimostrano la presenza di disfunzioni cognitive tipicamente osservabili nei casi con patologia neurologica sopra descritta». Insomma, «dalle intercettazioni mai trascritte emerge senza alcun dubbio che Mario Frigerio soffriva degli effetti tardivi dovuti all'intossicazione da monossido di carbonio, che hanno a loro volta provocato un'amnesia anterograda. L'amnesico anterogrado è soggetto patologicamente suscettibile agli effetti distorsivi delle suggestioni. Il paziente con amnesia anterograda è da considerarsi un caso di scuola per l'inidoneità a rendere valida testimonianza».

Si tratterebbe di «dati scientifici nuovi» che portano alla «conclusione» che in relazione alle dichiarazioni rese i giorni 20, 26 dicembre 2006 e 2 gennaio 2007 «il testimone fu progressivamente indotto ad aderire a suggerimenti che determinarono l'installazione di una falsa memoria circa la corrispondenza fra l'aggressore sconosciuto e Olindo Romano».

«Se quindi - è scritto nel documento - come ho cercato di dimostrare moltissimi erano gli elementi che sin dal giudizio di primo grado sarebbero stati idonei, se solo valutati dai Giudici, a giudicare inattendibile la prova del "riconoscimento", fortemente dubbia la prova della "macchia di sangue" e indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo, le "confessioni", trattate invece alla stregua di prove regine, oggi, a distanza di oltre 17 anni, la scienza - se auspicabilmente ammessa a farlo nel giudizio rescissorio - è fortunatamente in grado di fornire da sola, ma soprattutto in unione alle numerose criticità in atti e non in atti, comunque mai valutati, quelle certezze scientifiche idonee a fare sgretolare i tre pilastri probatori su cui fondano la condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi».

Strage Erba, il pg su Olindo e Rosa: “Innocenti, prove e scienza sgretolano condanna”. Il Tempo il 15 Aprile 2023

Il processo su Olindo Romano e Rosa Bazzi va rivisto. La richiesta di revisione del procedimento giudiziario sulla strage di Erba è arrivata dal pg di Milano Cuno Tarfusser, che giustifica così le sue mosse: “Il contesto in cui le tre prove, riconoscimento da parte del testimone oculare Mario Frigerio e macchia di sangue trovata sul battitacco dell’auto di Olindo Romano, prima e le confessioni (di Olindo e della moglie Rosa Bazzi), successivamente, sono maturate è un contesto che definire ‘malato’ è fare esercizio di eufemismo. Si tratta di considerazioni e di osservazioni che, se approfondite e valutate, avrebbero già sin dal giudizio di primo grado potuto portare ad un diverso esito processuale, ma che oggi probabilmente da sole non avrebbero la forza necessaria per infrangere il giudicato. Esse però sono in grado di tracciare un netto punto di partenza, la base, su cui si innestano gli accertamenti tecnico-scientifici che attraverso tecniche e metodologie nuove e più sofisticate valutate unitamente agli elementi già in atti, valutati e non valutati, dimostrano che gli imputati devono essere prosciolti”.

Nel documento di 58 pagine si legge ancora che i due sono innocenti e non colpevoli per la morte di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, della nonna del piccolo Paola Galli e di una vicina di casa Valeria Cherubini: “È una richiesta in tutta coscienza, per amore di verità e di giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone, probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando l’ergastolo. Moltissimi erano gli elementi che sin dal giudizio di primo grado sarebbero stati idonei, se solo valutati dai giudici, a giudicare inattendibile la prova del ‘riconoscimento’, fortemente dubbia la prova della ‘macchia di sangue’ e indotte, con modalità che definire poco ortodosse è fare esercizio di eufemismo, le ‘confessioni’, trattate invece alla stregua di prove regine. Oggi, a distanza di oltre 17 anni, la scienza, se auspicabilmente ammessa a farlo nel giudizio rescissorio, è fortunatamente in grado di fornire da sola, ma soprattutto in unione alle numerose criticità in atti e non in atti, comunque mai valutati, quelle certezze scientifiche idonee a fare sgretolare i tre pilastri probatori su cui - il riassunto del documento consultato dall’Adnkronos - fondano la condanna all’ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi”.

 Strage di Erba, il pg di Milano: "Olindo e Rosa innocenti, prove scientifiche li scagionano". Storia di Redazione Tgcom24 il 15 aprile 2023

Olindo Romano e Rosa Bazzi, che stanno scontando l'ergastolo per la strage di Erba, sono vittime di un errore giudiziario e in carcere da innocenti. Non lo dice il loro avvocato difensore ma il procuratore che sostiene l'accusa. Il pg di Milano Cuno Tarfusser ha avanzato la richiesta di revisione del processo per la morte di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk di soli 2 anni, della nonna del piccolo Paola Galli e di una vicina di casa Valeria Cherubini. E nelle 58 pagine del suo atto, in parte pubblicate in esclusiva dall'agenzia Adnkronos, si mettono nero su bianco tutti gli errori e le forzature compiute dall'accusa nei tre gradi di giudizio. Una vicenda, quella della ingiusta condanna subita da Olindo Romano e Rosa Bazzi che era stata oggetto di numerose inchieste da parte de Le Iene.

Un'altra offensiva mossa dal sostituto procuratore della corte d'Appello di Milano è quella di chiedere alla corte d'Appello di Brescia di rinnovare l'istruzione dibattimentale "per quanto riguarda la strage di Erba". Egli chiede di esaminare i 57 consulenti tecnici che hanno redatto le consulenze tecniche sulle modalità, le tecnologie, gli accertamenti da loro effettuati e sui risultati cui sono giunti. Il procuratore vuole inoltre che sia eseguito ogni ulteriore accertamento necessario ai fini del decidere secondo verità e giustizia. Da subito, si erano riscontrati molti elementi, che avrebbero potuto essere presi in considerazione dai giudici, in merito alla Strage di Erba. Tali elementi avrebbero potuto giudicare inattendibile la prova del 'riconoscimento', dubbia la prova della 'macchia di sangue' e indurre, con modalità che possiamo definire 'poco ortodosse', le 'confessioni'. 

È quindi necessario che la corte d'Appello di Brescia esamini i 57 consulenti tecnici e che venga effettuato ogni ulteriore accertamento per assicurare che la strage di Erba venga giudicata secondo verità e giustizia. Il sostituto procuratore della corte d'Appello di Milano, con la sua offensiva, ha fatto un passo importante nel processo di ricerca della verità.

La scienza può scagionare Olindo e Rosa  "Oggi, a distanza di oltre 17 anni, la scienza - se auspicabilmente ammessa a farlo nel giudizio rescissorio - è fortunatamente in grado di fornire da sola, ma soprattutto in unione alle numerose criticità in atti e non in atti, comunque mai valutati, quelle certezze scientifiche idonee a fare sgretolare i tre pilastri probatori su cui fondano la condanna all'ergastolo di Olindo Romano e Rosa Bazzi" si legge nel documento pubblicato dall'Adnkronos.

Le confessioni estorte  Il pubblico ministero Cuno Tarfusser sottolinea come il contesto in cui sono maturate le prove a carico degli imputati sia "un contesto che definire 'malato' è fare esercizio di eufemismo". Una volta preso in considerazione tutti gli elementi in atti, i due imputati vengono prosciolti dall'accusa di omicidio. La Strage di Erba è una storia di giustizia sommersa, in cui le prove non sono state sufficienti a condannare i due imputati. Le testimonianze, i riconoscimenti da parte dei testimoni oculari, la macchia di sangue trovata sul battitacco dell'auto di Olindo Romano, le confessioni dei due imputati e gli accertamenti tecnico-scientifici non sono stati sufficienti a dimostrare la colpevolezza dei due. Il processo è stato una vera e propria lotta per la giustizia, che alla fine, è stata accolta grazie all'aiuto di tecniche e metodologie più sofisticate. La Strage di Erba è una storia di giustizia sommersa, che tutt'oggi resta uno dei casi più controversi della storia giudiziaria italiana.

Nuove prove per riaprire il processo  La richiesta di revisione è legata a due delle quattro ipotesi, previste dall'articolo 630 del codice di procedura penale, ovvero, "la scoperta di 'nuove prove' successivamente alla condanna tale da dimostrare che i condannati debbano essere prosciolti (lettera c) e quella, in parte discendente quale conseguenza delle 'nuove prove', di cui alla lettera d, ovvero la dimostrazione che la condanna venne pronunciata in conseguenza anche di falsità in atti o in giudizio".

Mario Frigerio unico testimone vittima di "falsa memoria"  Chi invece sostiene la colpevolezza di Olindo e Rosa usa l'unico sopravvissuto alla strage di Erba come prova schiacciante. Mario Frigerio, che nella strage di Erba ha perso la moglie Valeria Cherubini, sostiene invece il pg di Milano, non è attendibile. "Il peggioramento della condizione psichica e i deficit cognitivi manifestati da Mario Frigerio nel corso della degenza ospedaliera, le errate tecniche di intervista investigativa dense di numerosissime suggestioni su di lui attuate e la palese violazione di precise e note leggi scientifiche in materia di memoria e di riconoscimento di volti dimostrano in modo incontrovertibile che la memoria riguardante Olindo Romano quale suo aggressore è una falsa memoria e che Mario Frigerio era soggetto inidoneo a rendere valida testimonianza circa i fatti avvenuti la sera dell'11 dicembre 2006" si legge nel documento. Da quasi 17 anni la strage di Erba continua a far parlare e più volte la trasmissione 'Le Iene' ha messo in discussione le sentenze. Ora, per la prima volta, un magistrato cerca di 'sgretolare' le tre prove su cui si fondano le condanne. In particolare, rispetto al riconoscimento "non si può non rilevare come questo riconoscimento abbia avuto una genesi tortuosa, sia inficiato da evidenti e gravi elementi di criticità che lo rendono estremamente dubbio ma, soprattutto, che si fonda su elementi che pur essendo in atti, mai sono stati scrutinati e valutati dalle Corti di merito".

Si riapre il processo di Erba la nuova difesa di Olindo e Rosa. Rita Cavallaro su L’Identità il 15 Aprile 2023

Un capitolo in fondo mai chiuso, nonostante la sentenza in via definitiva, che potrebbe riaprirsi con nuovi testimoni, prove mai analizzate e l’eventualità che gli assassini di Erba possano lasciare la cella in cui sono rinchiusi da sedici anni. Quella luce in fondo al tunnel, che i coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi non hanno mai smesso di anelare e che si è fatta sempre più strada con le indagini della difesa per la richiesta di revisione del processo, ora è più che una probabilità. Perché, finché a sostenere l’innocenza dei vicini assassini c’era solo il loro team difensivo, l’ago della bilancia è rimasto fermo su quella sentenza di condanna con cui la Cassazione, nel 2011, ha inflitto l’ergastolo a Olindo e Rosa, accertando che sono loro gli autori della strage di Erba dell’11 dicembre 2006, quando nella corte di via Diaz vennero brutalmente ammazzati Raffaella Castagna, 30 anni, il suo bimbo di due, Youssef Marzouk, la madre Paola Galli, di 70 e la vicina di casa 55enne, Valeria Cherubini, mentre il marito di quest’ultima, il 65enne Mario Frigerio, sopravvisse per miracolo allo sgozzamento, grazie a una malformazione congenita alla carotide. Ora, invece, a sollevare dubbi sulla pronuncia di ben 26 giudici in tre gradi di giudizio c’è il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, che ha depositato una relazione in cui chiede di riaprire il processo contro Olindo e Rosa, perché i nuovi testimoni e alcune intercettazioni inedite sarebbero sufficienti per sostenere la revisione del processo. La relazione di Tarfusser, il quale ripercorre i punti fondamentali dell’istanza che la difesa depositerà nei prossimi giorni alla Corte d’Appello di Brescia, è stata trasmessa al procuratore generale Francesca Nanni e all’avvocato generale Lucilla Tontodonati, a cui spetta la decisione riguardo alla circostanza che la Procura di Milano affianchi la richiesta di revisione del processo a quella della difesa, presentandosi insieme ai condannati nell’udienza davanti ai giudici bresciani, i quali dovranno stabilire se Olindo e Rosa meritino un’altra occasione dibattimentale. D’altronde, seppure i vicini di Erba sono stati riconosciuti colpevoli della strage e puniti con l’ergastolo, su quelle sentenze sono rimaste una serie di una serie di incongruenze mai chiarite, alle quali si sono affiancate negli ultimi anni due nuovi testimoni, reperti mai analizzati, ma ritenuti rilevanti per il team difensivo, e perfino alcune criticità sull’unica prova scientifica che ha collegato Olindo e Rosa alla scena del crimine, oltre a una serie di intercettazioni inedite che svelerebbero come la memoria dell’unico sopravvissuto sia stata manipolata. Per capire le motivazioni che potrebbero spingere la Corte ad accogliere l’istanza di revisione dobbiamo ripartire da quella tragica sera della mattanza, l’11 dicembre 2006, quando i vigili del fuoco, allertati per un incendio in un appartamento di via Diaz ad Erba, intervennero convinti di spegnere il fuoco e si trovarono davanti a una strage. A ricostruire il delitto una perizia tecnica della criminologa Roberta Bruzzone, consulente del team di Olindo e Rosa, allegata al dossier che l’avvocato difensore Fabio Schembri è in procinto di depositare.

L’analisi della scena del crimine e le modalità del delitto rafforzano la pista alternativa che almeno due assassini esperti, e non certo i Romano, avrebbero agito con furia cieca e premeditazione. I killer, infatti, avrebbero staccato il contatore della luce già dalle 17.30, come emerge dai dati Enel, e avrebbero atteso all’interno dell’appartamento l’arrivo di Raffaella Castagna, che sarebbe stata l’obiettivo degli aggressori, mentre le altre vittime sarebbero una sorta di danno collaterale. Poco prima delle 20.30 due abitanti della corte, richiamati dal fumo, avevano tentato di prestare soccorso. Sul pianerottolo c’era Frigerio, agonizzante e in un lago di sangue. Erano poi entrati in casa e, vicino alla porta, si erano imbattuti in un corpo con gli abiti in fiamme. Era quello di Raffaella, trascinata fuori ma ormai già morta. “Mia moglie è su”, aveva tentato di avvisare Frigerio con un filo di voce. E dal piano superiore si sentivano le urla di Valeria, che chiedeva disperatamente aiuto mentre il suo aggressore le sferrava il fendente mortale. “Tutte le vittime sono state attinte da una chirurgica “tecnica di produzione” delle ferite da scannamento, una sorta di “firma comportamentale” che non può essere ricondotta ad una mano inesperta”, si legge nella perizia della criminologa Bruzzone, che sottolinea come “l’ipotesi da privilegiare in base alle tracce ematiche è che le vittime siano state aggredite da qualcuno che si trovava già all’interno dell’abitazione al loro arrivo”. Una circostanza che emerge anche dalla testimonianza degli inquilini del piano inferiore, che avevano raccontato di aver sentito dei passi nell’appartamento di Raffaella già intorno alle 18, orario in cui in casa non c’era nessuno. Gli assassini avrebbero sorpreso la mamma di Youssef mentre, entrata nella casa buia, richiudeva la porta. Avrebbe tentato di scappare, come dimostrerebbe il sangue sul muro del corridoio e sulla parte interna della porta mai sottoposto ad analisi, ma sarebbe stata sgozzata in camera da letto. Subito dopo sarebbe toccato alla mamma Paola Galli, trovata con il cranio fracassato e scannata. Infine al piccolo Youssef, ucciso con un unica coltellata sul divano. A causa del fumo, Valeria e Mario si erano presentati alla porta, andando incontro al terribile destino: Frigerio colpito con il fendente alla gola, la moglie con 43 coltellate, in un’aggressione che per la difesa non si è consumata davanti all’appartamento di Raffaella, come sostengono tre gradi di giudizio, ma è iniziata sul pianerottolo, da dove la donna è fuggita, lasciando le impronte di sangue sul muro della scale, per ripararsi in casa sua, dove è stata uccisa da un colpo così profondo da tagliarle la lingua. Per la criminologa quella lesione non avrebbe consentito alla Cherubini di poter gridare “aiuto”, motivo per il quale gli assassini erano sulla scena del crimine quando i primi soccorritori erano intervenuti. I coniugi Frigerio, dunque, sono vittime occasionali “che hanno fatto infuriare gli aggressori”, sottolinea Bruzzone, e “che li hanno costretti, con ogni probabilità, a fuggire attraverso i tetti delle abitazioni limitrofe o dal balconcino di casa Castagna. Non certo attraverso la corte, ormai affollata dai condomini preoccupati e dai soccorritori”. Quel balconcino dove c’è un’orma insanguinata finora mai analizzata. Forse l’impronta di un assassino mai scovato.

Strage di Erba, ecco perché la Procura vuole riaprire l’indagine su Olindo e Rosa. Andrea Galli su Il Corriere della Sera il 14 Aprile 2023.

Dalle intercettazioni sparite al giallo delle macchie di sangue. I legali di Rosa Bazzi e Olindo Romano: «Lieti che finalmente la magistratura si stia interessando di nuovo al caso». Ma i tempi per concludere l’iter saranno lunghi

Nel caso, i tempi saranno comunque lunghi. Ma certo, nonostante i 16 anni già trascorsi da allora — era il dicembre del 2006 —, nonché soprattutto la definitiva risoluzione del mistero secondo le decisioni dei giudici, la strage di Erba potrebbe avere una nuova narrazione. Anche rivoluzionaria rispetto alla coppia giudicata omicida, Olindo Romano e Rosa Bazzi. Il sostituto procuratore generale di Milano, Cuno Tarfusser, ha infatti chiesto di riaprire il fascicolo. Un’azione che ora, ed eccoci alla probabile non immediatezza dell’iter, dovrà dapprima essere avallata dai vertici del suo ufficio e venir trasmessa alla Corte d’Appello di Brescia.

Per intanto, e questo rimane indubbio, Tarfusser ha accolto il meticoloso lavoro del pool difensivo della coppia di coniugi, in carcere per l’omicidio della 30enne Raffaella Castagna, suo figlio Youssef di due anni, la nonna del piccolo Paola Galli (60), e la vicina di casa Valeria Cherubini (55). Quattro cadaveri, un unico sopravvissuto, ovvero Mario Frigerio, deceduto a gennaio, il quale si disse testimone diretto del massacro. Il legale Fabio Schembri ha redatto un dossier che poggia sulle diversificate relazioni di una quindicina di esperti. Costoro avrebbero approfondito le seguenti piste: alcune intercettazioni ambientali relative al medesimo Frigerio che non sarebbero mai entrate nel procedimento; gli audio e i video antecedenti le confessioni di Romano e Bazzi; i filmati girati in carcere dal criminologo Massimo Picozzi, nominato consulente della difesa (da un altro avvocato), filmati che seppur protetti dall’ovvio riserbo sarebbero al contrario circolati; e ancora, lo studio di un genetista secondo cui la traccia di sangue «decisiva» isolata sulla macchina di Olindo sarebbe stata una pura «illusione ottica». Ma allora, se togliamo dalla scena il marito e sua moglie, dove cercare il killer oppure i killer? Nel sottomondo della droga e in un conseguente regolamento di conti tra bande rivali.

Il legale Schembri dice che «possiamo essere lieti di come finalmente la magistratura si stia interessando a una possibile riapertura». I tempi tecnici, anzi gli eventuali tempi tecnici, conviene ripeterlo, non dovrebbero essere rapidissimi, a meno di imprevisti colpi di scena. Quanto finora raccontato, peraltro, non sarebbe esaustivo nella misura in cui il medesimo pool degli avvocati possiede altri elementi, non dimenticando l’imminente testimonianza che verrà resa da un amico di Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e papà di Youssef, e nell’immediatezza ricercato quale unico stragista. Uno dei tanti, molteplici errori commessi sia nelle fasi iniziali delle indagini, sia forse anche dopo. Loro, i diretti interessati, al netto delle ammissioni che li avrebbero collocati sulla scena del crimine senza margini di dubbio, sempre leggendo le carte dell’inchiesta fino alla sua conclusione, si sono professati innocenti, sovente andando lì, ai giorni in cui i magistrati li interrogavano adoperando «metodi non corretti». Senza infine omettere, a corredo esterno oppure forse no, certe pubblicazioni, in una vicinanza temporale alla strage, che contenevano informazioni assai segrete. Ma avute da chi? E con quale ipotetico fine ultimo?

Strage di Erba, perché si riapre il caso. "Nuovo testimone e pista della droga". Il Tempo il 13 aprile 2023

Audio e video inediti, ma anche intercettazioni ’sparite', c’è il lavoro di 15 professionisti nelle consulenze che la difesa dei coniugi Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all’ergastolo per la strage di Erba, hanno consegnato nelle mani del sostituto procuratore della corte d’appello di Milano Cuno Tarfusser che, negli ultimi mesi, almeno cinque, ha lavorato in gran segreto per cercare di mettere nero su bianco le sue perplessità nella ricostruzione di quanto accaduto l’11 dicembre 2006 nella corte di via Diaz. Da quanto si apprende, nella richiesta - ora nelle mani della procuratrice generale Francesca Nanni e l’avvocato generale Lucilla Tontodonati - si offrono «nuove prove» che porterebbero a ’smontare' le sentenze e a offrire una diversa lettura di quanto accaduto quella notte.

Sotto i colpi di spranga e coltello, persero la vita Raffaella Castagna, il figlio di 2 anni Youssef Marzouk, la nonna del piccola Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini. Si salvò, per una malformazione congenita alla carotide, il marito Mario Frigerio, unico testimone oculare di quella strage. Video e audio delle intercettazioni ambientali del sopravvissuto, mentre era ricoverato all’ospedale Sant’Anna di Como e veniva sollecitato a ricordare chi lo avesse aggredito, sono finiti sotto la lente del sostituto procuratore generale, così come la consulenza che riguarda le tracce audio e video prima della confessione di Olindo e Rosa (’suggerita' a dire della difesa) e la consulenza sulla traccia ematica che attesterebbe «l’impossibilità che provenga dal battitacco dell’auto» del condannato. Se su quella traccia ematica finora la difesa ha fatto un atto di fede, ora fa marcia indietro: quella traccia non esiste, «è una suggestione ottica» a usare le parole del difensore Fabio Schembri.

 La «pista» per la strage di Erba fu un «regolamento dei conti da cercare nel mondo dello spaccio» e c’è un «testimone nuovo» che «nessuno ha mai rintracciato ma solo intervistato», afferma il legale che fra circa una settimana depositerà istanza di revisione del processo. Proprio nella casa e nei pressi dell’abitazione ci sarebbero stati - secondo gli elementi che depositerà il legale - soldi e droga e un’indagine in corso all’epoca condotta dalla Guardia di Finanza nell’ambito di una faida per il controllo della piazza di spaccio di Piazza Mercato. A parlarne all’avvocato dei coniugi Romano un testimone tunisino che avrebbe fatto parte del gruppo di Azouz Marzouk, marito di Raffaella Castagna e padre di Youssef, inizialmente coinvolto nell’indagine e dopo breve tempo completamente scagionato dagli inquirenti per la conferma del suo alibi (era all’estero) con gli investigatori che già all’epoca dei fatti, dicembre 2006, ipotizzarono un regolamento di conti nei suoi confronti.

Secondo l’avvocato che chiederà la revisione del processo la strage fu il culmine di una serie di rappresaglie: sarebbero già stati sventati tentativi di gambizzazione mentre sia il nuove testimone che il fratello di Azouz sarebbero stati accoltellati proprio perché quest’ultimo avrebbe gestito lo spaccio di droga dall’abitazione luogo del delitto.

Strage di Erba, la giudice scopre «l’accanimento innocentista». La toga risponde attraverso un podcast ai servizi Tv che mirano a scagionare Rosa e Olindo: «Così la pressione mediatica ha condizionato il processo». Valentina Stella su Il Dubbio il 6 aprile 2023

Strage di Erba: Rosa e Olindo colpevoli (a dispetto del revisionismo mediatico). Ecco il perché nel nostro podcast”: così titolava la testata “La provincia di Como” qualche giorno fa per replicare indirettamente al servizio delle Iene andato in onda domenica, durante il quale una inchiesta di Antonino Monteleone, dal titolo provocatorio “Scommettiamo che Rosa e Olindo sono innocenti?”, ha ricostruito la mattanza avvenuta nel 2006, le indagini e il processo da una prospettiva opposta a quella accusatoria.

Anche noi in passato abbiamo sollevato molti dubbi su questa vicenda, a partire dalla testimonianza dell’unico testimone, Mario Frigerio. Comunque tre gradi di giudizio hanno indicato i due come colpevoli dell’uccisione di Raffaella Castagna, del figlio Youssef Marzouk, della madre Paola Galli e della vicina di casa Valeria Cherubini. La riproposizione del podcast “Anime nere”, realizzato dai giornalisti Martina Toppi e Paolo Moretti, serve alla testata locale a ribadire ancora una volta i cinque motivi per cui non può esserci altra verità che la colpevolezza dei due. E lo fanno anche attraverso la voce di Luisa Lo Gatto, giudice di Como che scrisse le 280 pagine di sentenza sul caso e che racconta «cosa è andato storto e perché l’incredibile stress mediatico sollevato intorno alla Strage di Erba ha fatto così male». Secondo la magistrata, «l’accanimento innocentista degli ultimi sedici anni ha alimentato il livello dei conflitti. Durante il processo le vittime dirette ed indirette hanno reso le loro deposizioni in condizioni di forte stress, dovuto ad una cross examination particolarmente serrata e poco rispettosa, anche a causa della pressione mediatica: il clima di tensione era evidente - prosegue -. E poi è seguito l’affronto, per i signori Castagna, di essere addirittura sospettati di un diretto coinvolgimento nella strage. Il processo ci ha mostrato il volto disumano della giustizia, parlo della giustizia che segue a un processo penale ovviamente».

In realtà, come detto più volte su questo giornale, dovremmo augurarci che in ogni processo avvenga un vero controesame, molto spesso svilito proprio dei giudici che non permettano ai legali di “stressare” i testimoni. Il problema, come ci disse l’ex presidente dell’Unione Camere penali, Valerio Spigarelli, «è che il contraddittorio vero, quello in azione, non è mai stato digerito dalla maggioranza dei magistrati italiani, in particolare dai giudici, anche in tema di esame testimoniale». Tornando al podcast, per la giudice è stato un processo molto faticoso anche «per la perturbante presenza di media e la spettacolarizzazione che di quel processo è stata fatta, visto che parallelamente a quello giudiziario vi è stato un processo mediatico. Nei soggetti più fragili ed esposti può scatenare tempeste di ansia e di paura» o anche «istinti narcisisti e bisogno di visibilità». Abbiamo pure noi continuamente stigmatizzato i processi mediatici paralleli portati avanti non rispettando la presunzione di innocenza e trascurando il contraddittorio delle parti. Ma allo stesso tempo abbiamo difeso, soprattutto in tempo di pandemia, quando i processi venivano fatti a porte chiuse, il diritto alla pubblicità dell’udienza. Comunque per Lo Gatto quella «è stata una esperienza umana fallimentare per i soggetti emotivamente più coinvolti per definizione, quindi mi riferisco alle vittime e anche agli imputati. Un carico collettivo di dolore che invece di trovare un contenimento e una qualche forma di pacificazione è stato invece amplificato all’ennesima potenza. Io ho assistito a ciò inerme. Benché il mio lavoro di giudice sia stato riconosciuto, avendo la mia sentenza passato il vaglio di tutti i gradi, è comunque una esperienza per me da archiviare o da ricordare come occasione di ripensamento in generale rispetto al modo in cui nelle aule penali si può fare giustizia».

Cosa è andato storto, chiede la giornalista nel podcast? «Penso che le vittime non siano state sufficientemente rispettate nella loro dignità. Sono state costrette a rievocare in pubblico una esperienza dolorosa forse anche nel momento sbagliato. E questo costituisce già di per sé fonte di vittimizzazione secondaria. Nel processo penale la vittima è usata strumentalmente per raggiungere un obiettivo che tutti i processi perseguono: ottenere la verità processuale. Nessuno si è preoccupato di concordare i tempi delle loro deposizioni per renderli più compatibili con il loro stato emotivo. Poi la vittimizzazione secondaria si è ripetuta a causa del clima di tensione in cui le deposizioni sono state raccolte. Il signor Frigerio e i signori Castagna hanno subito un fuoco incrociato delle parti in condizioni di forte stress amplificato dalla presenza dei media e fotografi. Hanno poi subito una vittimizzazione secondaria extra processuale a causa del processo mediatico parallelo, hanno affrontato un vero e proprio calvario dentro e fuori il processo. Nessuno ha preso contatti per loro con la stampa per garantire maggiore serenità, nessuno li ha assistiti durante il dibattimento, nessuno ha assicurato loro una assistenza psicologica dopo la conclusione del processo».

A differenza, ad esempio, di quanto avvenuto in Francia con le vittime del Bataclan. «Anche gli imputati sono stati gettati in pasto ai media e ai fotografi che li hanno immortalati in tutte le possibili posizioni dietro le sbarre quasi fossero animali e non esseri umani. Vittime e carnefici sono stati intrappolati nei loro rispettivi ruoli». La soluzione per la magistrata? «Progetti di giustizia riparativa e di pacificazione sociale».

Estratto da ilmessaggero.it il 16 aprile 2023.

La difesa di Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati all'ergastolo per la strage di Erba, quando depositerà istanza di revisione del processo presenterà «più di un nuovo testimone». 

Lo ha spiegato all'ANSA l'avvocato Fabio Schembi, legale della coppia insieme a Nico D'Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello. Uno «mai sentito all'epoca dei fatti» è un uomo che «risiedeva nella casa della strage, poi arrestato per traffico internazionale di stupefacenti che faceva parte dei fratelli di Azouz» Marzouk, il marito di Raffaella Campagna, una delle quattro persone uccise l'11 dicembre 2006, fra cui il figlio di due anni Youssef. 

«Ha riferito di una faida con un gruppo rivale, nella quale anche lui è stato ferito con un'arma da taglio» e inoltre ha detto che la casa della strage «era la base dello spaccio che veniva effettuato nella vicina piazza del mercato e il posto dove erano depositati gli incassi». Altro testimone, ha aggiunto l'avvocato, è «un ex carabiniere che riferisce delle indagini e delle parte mancanti del 50% dei momenti topici delle intercettazioni».

[…] «Ogni singolo elemento di prova non regge e ora i nuovi elementi raccolti vanno a intaccare la condanna» spiega Schembri all'Adnkronos. I legali ripropongono testimonianze, verbali, rilievi, audio e video da sempre presenti nell'inchiesta, ma a loro dire, mai davvero analizzati, valorizzati o compresi fino in fondo. 

La testimonianza di Frigerio

Si parte dal ricostruire le versioni di Frigerio che passa dal non ricordare, a offrire l'identikit di uno sconosciuto con la pelle olivastra per poi puntare il dito sul noto vicino di casa. Una memoria falsata, così come «false», indotte, sono le confessioni di Olindo e Rosa.

Nella corposa documentazione dei legali c'è un paragrafo dedicato alle intercettazioni 'scomparsè in ospedale e a casa dei coniugi Romano, così come viene messe in discussione, la «genuinità» della macchia di sangue di Valeria Cherubini sul battitacco dell'auto di Olindo. 

Non convince il modo in cui è stata repertata, così come il risultato. Se su quella traccia ematica finora la difesa ha fatto un atto di fede, ora fa marcia indietro: quella traccia non esiste, «è una suggestione ottica».

Ma soprattutto stupisce che in quella 'mattanzà, in quel «bagno di sangue», i due condannati siano riusciti a non lasciare alcuna loro traccia in casa delle vittime e a non 'portarè alcuna traccia nella loro abitazione. In discussione c'è anche la dinamica della morte della Cherubini, che lascia supporre che gli aggressori siano ancora presenti all'arrivo dei primi soccorritori accorsi per spegnere le fiamme. […]

"La strage di Erba? Una vendetta". Ora la difesa punta sul super testimone. Olindo Romano e Rosa Bazzi, condannati in via definitiva all'ergastolo, puntano alla revisione del processo. Per il loro avvocato nel puzzle del delitto ci sono diverse tessere mancanti. E una pista abbandonata ancora da battere. Angela Leucci il 31 Gennaio 2023 su Il Giornale.

 I processi

Non siamo stati noi”. “Ma stiamo scherzando, non abbiamo ucciso nessuno noi, eh”. Sono le rispettive voci di Rosa Bazzi e Olindo Romano, che risuonano in una vecchia puntata di Un giorno in pretura. I coniugi di Erba sono stati condannati in tre gradi di giudizio, indicati come colpevoli della strage di Erba. Ma ora potrebbe cambiare tutto: i legali del collegio difensivo annunciano nuove prove che potrebbero portare a una revisione del processo.

Noi andremo a sostenere - spiega a IlGiornale.it Fabio Schembri, avvocato della coppia condannata - che quando arrivarono i soccorritori sul luogo della strage, l’assassino o gli assassini erano ancora all’interno della palazzina. Abbiamo ottimi elementi per poterlo fare. Ciò significa che si escluderebbe la responsabilità di Olindo e Rosa, che quando arrivarono i soccorritori avrebbero dovuto essere non solo fuori dalla palazzina, ma addirittura a Como”. Schembri fa parte del collegio difensivo insieme ai colleghi Nico D'Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello.

La strage di Erba

Tre donne, un bambino, un cane. Fu questo il bilancio delle morti della strage di Erba. La sera dell’11 dicembre 2006 un incendio colpì un’abitazione al primo piano di una palazzina condominiale in via Diaz 25 a Erba, in provincia di Como. Due vicini, di cui uno vigile del fuoco volontario, entrarono nella palazzina, trovando un ferito, Mario Frigerio, colpito da un coltello ma sopravvissuto grazie a una malformazione alla carotide. Nonostante Frigerio indicasse il piano di sopra e si udissero delle urla femminili - si scoprirono poi essere quelle della moglie di Frigerio, Valeria Cherubini - i soccorritori non poterono fare molto, fino a che i pompieri non domarono l’incendio.

Di fronte ai soccorritori si palesò uno scenario drammatico. Mentre al secondo piano era stata uccisa Cherubini, colpita da sprangate e coltellate, e fu trovato il cane di famiglia soffocato dal monossido di carbonio, al primo piano, nella casa in cui era scoppiata l’incendio, furono trovati i corpi di Raffaella Castagna e la madre Paola Galli, entrambe colpite a morte come Cherubini, e il figlio di Castagna, Youssef Marzouz, ucciso con una coltellata. Cherubini in particolare, che fu sentita urlare, fu rinvenuta con la lingua tagliata: l’ipotesi della difesa di Schembri è che quando fu udita dai soccorritori la donna fosse ancora alle prese con il suo aggressore o i suoi aggressori.

Le indagini vennero indirizzate sul marito di Raffaella e padre del piccolo Youssef di soli 2 anni, Azouz Marzouk. L’uomo aveva dei precedenti e il fatto che Frigerio avesse indicato inizialmente come aggressore un uomo che non era di quelle parti portò gli inquirenti a scandagliare un possibile regolamento di conti, approdando però a un nulla di fatto. Azouz in ogni caso aveva un solidissimo alibi: era in Tunisia.

Frigerio - racconta Schembri in merito alla prima testimonianza dell’unico sopravvissuto alla strage - non è che non ricordasse il suo aggressore, ma indicava un soggetto a lui sconosciuto, con determinate caratteristiche somatiche, addirittura non del posto e non di Erba, e non il vicino di casa Olindo - che invece conosceva bene - nella prima fase delle sue dichiarazioni. Frigerio fu sentito anche dal pubblico ministero e non in una sola dichiarazione. Peraltro aveva anche chiesto eventualmente che gli fossero fornite delle foto segnaletiche, affinché, guardando le foto, avesse potuto contribuire in qualche modo a riconoscere l’aggressore. Frigerio ci tenne inoltre a mettere a verbale che la casa di Raffaella Castagna era frequentata da soggetti extracomunitari”.

Gli indizi contro Olindo e Rosa

A finire nell’occhio degli inquirenti furono in seguito due vicini di casa, Olindo Romano e Rosa Bazzi, descritti dai vicini come particolarmente litigiosi, in particolare nei confronti di Raffaella. I coniugi, che avrebbero presentato delle ferite, si mostrarono apparentemente disinteressati alla strage: quando gli venne chiesto del loro alibi, i due mostrarono prontamente uno scontrino del McDonald’s di Como, che però riportava un orario successivo alla strage stessa. Così vennero sequestrati loro degli abiti e i due furono intercettati. Il Ris non trovò nulla sui vestiti, ma accadde qualcosa di particolare con l’auto, anche quella sequestrata.

Due settimane dopo la strage - prosegue Schembri - venne fatto un accertamento sulla macchina di Olindo. Venne perquisita non dai Ris, ma dai carabinieri di Como. In questo caso sarebbe stata ritrovata una macchia sul battitacco. Avremmo però dovuto fare un atto di fede, perché di fatto questa macchia consiste in un cerchietto rosso, ma non c’è una fotografia della macchia: quindi, non essendo stata fotografata la macchiolina sul battitacco, non c’è corrispondenza documentale”.

Non solo. “A suo tempo, abbiamo sostenuto anche la tesi di una contaminazione innocente, perché risultavano dei verbali in base a cui alcuni carabinieri erano stati sulla scena del crimine e poi avevano perquisito l’auto di Olindo con gli stessi calzari. All’epoca, in dibattimento, fu sostenuto che i verbali erano stati firmati da questi carabinieri, ma nessuno di essi avrebbe proceduto alla perquisizione della macchina, perché - fu detto - ‘se non avessero firmato tutti, si sarebbe offeso qualcuno’. In dibattimento fu affermato anche che la perquisizione fu effettuata da un altro carabiniere, che non aveva firmato. Non solo c’è un problema di contaminazione innocente, ma anche di fotografia: i rilevamenti si effettuano con il luminol e non ci sono delle foto negli atti. Non ci fu sul battitacco e sull’auto, secondo noi, una repertazione. E alla luce di ciò non si può certo sostenere che la macchia fosse sull'auto di Olindo Romano: su questo punto offriremo dei nuovi elementi”.

Olindo e Rosa confessarono a gennaio 2007, venendo poi riconosciuti da Mario Frigerio. “È stato l’Olindo che mi ha aggredito”, disse l’unico sopravvissuto in tribunale, ritrattando sul primo identikit fornito del suo aggressore, un uomo con i capelli cadenti sulla fronte, più alto di lui.

Il ricordo migliore - aggiunge il legale - fu quello del primo momento, scevro da qualsivoglia suggestione, che effettivamente Frigerio ha subito. Ha avuto dei colloqui, anche questi registrati, con i carabinieri che avrebbero suggerito, attraverso domande successive, il nome di Olindo. In un colloquio, per ben 9 volte, uno dei carabinieri iniziò dicendo: ‘Diciamo per assurdo se avesse visto Olindo Romano come suo aggressore, lo avrebbe riconosciuto?’. Anche a lui Frigerio escluse che l’aggressore fosse Olindo”.

La difesa dei coniugi punterà anche su “intercettazioni ambientali dell’epoca che spiegano il percorso di Frigerio che portò dallo sconosciuto aggressore a fare il nome di Olindo”.

Sembra paradossale - chiosa l’avvocato - ma le conseguenze dimostrano questo. Quando Frigerio rese le prime dichiarazioni al pubblico ministero era perfettamente capace e reattivo: non si trattò di un soggetto che non ricordava, indicava una precisa persona. Frigerio iniziò a star male 10-15 giorni dopo l’aggressione. Accadde in virtù di un fenomeno scientifico non analizzato nei precedenti processi: Frigerio respirò il monossido di carbonio in quantità tale da provocare forti disturbi di carattere neurologico intorno alle due settimane dall’inalazione. Tant’è che le intercettazioni ambientali successive dimostrano che Frigerio stava male da un punto di vista cognitivo e quindi neurologico. In alcune intercettazioni, oltre le due settimane dall’aggressione, Frigerio incontrò il neurologo inviato dal pubblico ministero, che lo sottopose a test cognitivi: Frigerio non seppe dire dove si trovasse, che giorno fosse, non seppe eseguire banali operazioni di sottrazione. Quindi Frigerio, quando si accinse a fare il nome di Olindo, stava molto molto male”.

Da parte loro anche Olindo e Rosa successivamente ritrattarono la confessione, affermando di essere stati convinti durante l'interrogatorio a confessare, per ottenere una pena più leggera, dalle forze dell’ordine. I due chiesero anche di essere in carcere insieme, eventualità che la coppia affermò essere stata loro promessa in sede d'interrogatorio. I coniugi Romano pare temessero, essendo persone semplici e stando alle loro dichiarazioni, di non riuscire da quella situazione da innocenti, tanto più che parte dell'opinione pubblica, soprattutto locale, credeva alla loro colpevolezza.

I processi

Rosa e Olindo vennero condannati in primo grado all’ergastolo con isolamento diurno di 3 anni il 26 novembre 2008, mentre i risarcimenti vennero stabiliti in 500mila euro per i Frigerio, 60mila per Azouz Marzouk e 20mila per i famigliari di quest’ultimo. Ergastolo e isolamento furono confermati in secondo grado il 20 aprile 2010 e poi in Cassazione. Nelle motivazioni della condanna definitiva al carcere a vita, i giudici della Suprema Corte hanno scritto che l'omicidio era riconducibile ad "un meccanismo reattivo generato da sentimento di odio, grettezza, individualismo covati per lungo tempo." E che i contributi nella confessione offerti dalla donna "mostrano al di là di ogni ragionevole dubbio la sua partecipazione al delitto": primo fra tutti "la mimica dei colpi inferti al piccolo Youssef urlante (mimica ritenuta molto più efficace delle parole, viste le difficoltà espositive della donna)". A partire dal 2011 Marzouk ha iniziato a proclamare l'innocenza dei due condannati. Nel 2019 l'uomo si è visto respingere la richiesta di revisione del processo: l'avvocato generale Nunzia Gallo ha ritenuto la richiesta inammissibile, nonostante Marzouk abbia affermato di avere nuove prove per scagionare la coppia.

Alla possibile revisione del processo ora potrebbe contribuire la presenza di un nuovo testimone. “Il nuovo testimone Abdi Kais, che non venne mai sentito dagli inquirenti, è importante perché all’epoca della strage era residente nella casa della strage - chiarisce Schembri - E faceva parte del gruppo di spaccio che venne arrestato un anno dopo e condannato per traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Una delle piazze di spaccio del gruppo era proprio la piazza del mercato di via Diaz. Il testimone fu arrestato con i fratelli di Azouz ed è a conoscenza di ciò che accadde in quei giorni: c’era una faida con un gruppo rivale per questioni afferenti il controllo del territorio per il traffico delle sostanze stupefacenti. Tra l’altro durante la faida il teste venne accoltellato”.

In altre parole si tornerebbe alla prima ipotesi degli inquirenti, cioè un movente di vendetta trasversale e che combacerebbe con il primo identikit reso da Frigerio. “Kais dice che peraltro la casa della strage era sotto la lente d’ingrandimento di altri inquirenti che indagavano sul traffico: il telefono della casa di Raffaella Castagna era intercettato. Secondo il teste, la casa e le zone limitrofe all’abitazione servivano anche come punto di imbosco per le sostanze e per i valori provenienti dal traffico. Sostiene anche che il gruppo rivale fosse interessato ai luoghi di imbosco, per cercare di appropriarsi di sostanze e proventi, non solo controllare il territorio senza nessuna concorrenza. Descrive un contesto allarmante, che inizialmente venne riscontrato dalle indagini iniziali della Guardia di Finanza sull’ipotesi della vendetta trasversale. La pista fu abbandonata per le revoche di indagine quando Rosa e Olindo confessarono”.

Le lettere contorte e la pressione: chi sono Olindo e Rosa

Mentre Rosa si trova nel carcere di Bollate ed è delegata alle pulizie, Olindo è recluso a Opera, assegnato alle cucine. I due si possono incontrare una volta al mese. “Chiaramente non vivono bene la distanza. La loro unione è quella che in qualche modo ha contribuito li ha fatti giungere alla confessione, il grimaldello usato per farli confessare”, afferma il loro legale.

Nel frattempo sono morti nel 2014 il testimone principale Mario Frigerio e nel 2018 il padre di Raffaella Carlo Castagna, marito di Paola e nonno di Youssef, mentre a gennaio 2023 è scomparso anche l’avvocato di Frigerio Manuel Gabrielli. Ed è sorta una polarizzazione all’interno dell’opinione pubblica: non sono in pochi a credere all’estraneità di Rosa e Olindo.

Inizialmente Rosa e Olindo non hanno vissuto una divisione tra innocentisti e colpevolisti durante i processi - conclude Schembri - furono descritti come i mostri di Erba, non vi fu una spaccatura, che invece si è creata dopo le sentenze passate in giudicato e quando l’opinione pubblica ha iniziato a conoscere gli elementi d’accusa e di difesa e quindi a credere alla loro estraneità”.

Manuel Gabrielli, trovato morto nel box di casa l'avvocato di Mario Frigerio, l'unico scampato alla strage di Erba. Federico Berni su Il Corriere della Sera il 7 Gennaio 2023.

A trovarlo senza vita, venerdì sera, nel garage di casa è stata la compagna, che ha avvisato i carabinieri. Per stabilire le esatte cause del decesso, la Procura lariana ha disposto l’autopsia. Gli inquirenti non escludono che possa essersi trattato di un gesto volontario

L'avvocato Manuel Gabrielli, a sinistra, e Mario Frigerio, l'uomo sopravvissuto alla strage di Erba

La battuta sempre pronta, immediata, a volte fulminante. Come il sorriso. Per sciogliere la tensione tra un’udienza e l’altra; per addolcire certe amarezze che può riservare il lavoro del penalista. Il mestiere che l’avvocato Manuel Gabrielli, 47 anni, amava tanto, come potrebbero testimoniare i tanti colleghi del foro di Monza rimasti sgomenti dalla notizia della sua morte improvvisa, inaspettata. Una professione che anni fa, ancora giovane, lo ha portato sotto le luci della ribalta nel processo sulla strage di Erba, dove assisteva come parte civile, Mario Frigerio, il sopravvissuto alla furia omicida dei coniugi Rosa Bazzi e Olindo Romano, condannati in Cassazione all’ergastolo. 

A trovarlo privo di vita, venerdì sera, nel garage di casa a Novedrate (Como), è stata la compagna, che ha avvisato i carabinieri. Per stabilire le esatte cause del decesso, il pm di turno della Procura lariana ha disposto l’autopsia. Gli inquirenti non escludono che possa essersi trattato di un gesto volontario. Manuel Gabrielli lascia anche due figli piccoli, oltre al grande sconcerto in tutto l’ambiente del foro di Monza, dove era conosciuto e apprezzato per le sue doti umane e professionali. 

Aveva ricoperto anche alcuni incarichi nella politica locale nella sua città, a Novedrate. Laureatosi a Como, aveva avviato il suo studio a Seregno. In passato si era occupato di processi di criminalità organizzata e negli ultimi tempi era impegnato, in particolare, davanti alla Corte d’Assise brianzola, nel caso di un omicidio avvenuto a Monza due anni fa. Processo giunto alle battute finali e nel quale si stava battendo, con la consueta passione per il diritto e il codice, allo scopo di far riconoscere l’innocenza del suo assistito. Avrebbe avuto udienza mercoledì prossimo.

Scripta manent. Le lettere contorte e la pressione: chi sono Olindo e Rosa. L'analisi grafologica sulla coppia - condannata per la strage di Erba - che proclama ancora la propria innocenza: "C'è un testimone". Evi Crotti il 7 gennaio 2023 su Il Giornale.

La grafologia non può stabilire la colpe­volezza di un soggetto relativamente a un delitto, ma può osservare e de­scrivere le motivazioni, le intenzioni e i disagi che portano un individuo a manifestare com­portamenti disturbati, cogliendo la parte nascosta dell'iceberg, quella inconscia e meno control­lata, che lo porta, quando dovesse perdere il controllo, a dare spazio a emozioni puramente istintive.

Dall'analisi dei disegni e degli scritti di Olin­do Romano si deduce che egli possiede una struttura non ben costruita sia a livello intellettivo sia emozionale, con un'identità non deli­neata; ciò non tanto per mancanza di cultura, quanto per la sua effettiva struttura temperamentale, che lo porta a lasciarsi facilmente prendere dall'istinto non sapendo gestire l'emotività con padronanza e costringendolo a vivere la conflittualità tra "buonismo" e moti di aggressività.

Olindo, con le aste delle lettere contorte verso sinistra e le “g” ben evidenziate e rigonfie, denota instabilità d’umore e inca­pacità nel gestire le pulsioni e incoerenza nella vita relazionale.

La pressione della penna sul foglio, evidenziata dall’alternarsi di chiaro-scuri nelle lettere, e i continui ritocchi sono indice del bisogno di controllare ossessivamente ogni cosa, quasi a esorcizzare una profonda insicurezza che pone il soggetto in uno stato di ansia fobi­ca. Il timore e la paura della solitudine, infatti, unitamente alla fragilità affettiva, sembrano far parte della sua storia passata, dove l'identità personale non si è costruita a dovere, dando luogo a una fame affettiva insaziabile che se da un lato lo ha por­tato alla dipendenza dalla sua compagna, dall'altro lo ha anche reso possessivo e geloso.

Olindo: "Io e Rosa incastrati perché non troppo svegli. Ora c'è un testimone"

Nella grafia si notano inoltre tratti aggressivi espressi da gesti "contorti" nelle lettere con allungo sia superiore sia inferiore, segnalando un che di adolescenziale che può aver fatto sorgere nel soggetto atteggia­menti di compensazione alla povertà interiore.

Il tratto congestionato, la scrittura quasi infantile e le lettere con inclinazione delle aste verso sinistra denotano tendenza a maschera­re i sentimenti, specie se di rancore, lasciando trasparire all'esterno bonarietà puerile al posto dei veri sentimenti che prova interior­mente. Da un lato ciò va a rimar­care la componente fobico-ossessiva (vedi anche l’eccessivo uso degli evidenziatori e il ricorso a disegnini e figurine aggiunte) e dall'al­tro esprime il bisogno di meravigliare e im­pressionare con strategie peraltro assai ingenue.

Ancora una volta la grafologia, come scien­za umanistica, può collaborare con altre disci­pline per capire in modo precoce le motivazio­ni che stanno alla base di una personalità di­sturbata. È vero che non può cogliere ciò che avviene per "raptus", né perché un soggetto sia colto da una collera improvvisa; mentre può individuare e descrivere uno stato di disturbo della personalità che si è costruito nel tempo.

Nell grafia attuale di Olindo Romano si coglie povertà cognitiva che lo lascia in balia di un vissuto emozionale a sfondo fobico-ossessivo.

Per quanto riguarda la firma, che mi è stata data come appartenente a Rosa Bazzi, non posso tracciare un profilo di personalità ma posso senz’altro dire che il soggetto è preda di una forte emotività di tipo ansioso.

Strage di Erba, Olindo torna a parlare dal carcere: «Io e Rosa incastrati. Abbiamo nuove prove e un testimone».  Redazione Milano su Il Corriere della Sera il 3 Gennaio 2023.

L'ex netturbino condannato all'ergastolo invoca la verità a sedici anni dalla mattanza dove morirono quattro persone. «Bisogna indagare sullo spaccio, noi accusati perché poco svegli. Ho visto Rosa due giorni prima di Natale»

Olindo Romano torna a parlare della «strage di Erba» dal carcere di Opera, dove è recluso dopo la condanna all'ergastolo per avere ucciso in concorso con la moglie Rosa Bazzi quattro persone, i suoi vicini di casa colpiti con coltelli e spranghe: Raffaella Castagna, suo figlio Youssef Marzouk, la madre della donna e un'altra residente della corte di via Diaz, Valeria Cherubini, ferendo anche il marito di quest'ultima Mario Frigerio che fu l'unico a salvarsi. «Sono passati sedici anni, ci sto riflettendo parecchio in questi giorni. Forse è arrivato il momento di fare un po' di chiarezza» ha esordito Olindo nel suo sfogo raccolto dall'Adnkronos, —. In cella la vita è sempre quella, nulla di nuovo. Per passare il tempo continuo a lavorare in cucina, per il resto sto senza far niente tutto il giorno, spesso in compagnia di qualche altro detenuto costretto come me in questo carcere».

L'incontro con Rosa prima di Natale

Dimagrito e molto cambiato nell'aspetto, oggi Olindo ha capelli bianchi ma ancora voglia di combattere e urlare la propria innocenza. Oltre che di confermare l'estraneità di Rosa, la consorte che ha incontrato prima di Natale: «La vedo appena è possibile. Sono andato a colloquio da lei a Bollate e sono contento, mi tiene a galla il pensiero che prima o poi si possa accertare che non abbiamo commesso noi quel crimine».  

Avvocati al lavoro per la revisione del processo

Sostenuto dall'avvocato Fabio Schembri, che sta lavorando a una richiesta di revisione del processo alla luce di «nuove prove e un testimone chiave», l'ex netturbino imputa gli omicidi a persone esterne, o meglio a soggetti che potessero avere conti in sospeso con Azouz Marzouk, il marito di Raffaella Castagna e padre del piccolo Youssef: «Non so perché non sia stata approfondita la pista dello spaccio di droga, continuo a pensare che sia stato più semplice incastrare due persone come noi non sveglissime e inconsapevoli di quello che ci stava piombando addosso». Sulla decisiva, tra le altre prove, testimonianza di Frigerio contro di loro ai fini della condanna, Olindo non ha dubbi: «È stato utilizzato come noi. Ripenso a quell'uomo, quando lo incontravo, era una brava persona, per questo credo che abbiano manipolato i suoi ricordi per farlo testimoniare contro di noi, lo considero una vittima».

«Azouz e Raffaella litigavano spesso»

Olindo rivanga nei ricordi e non si sa quanto questi siano nitidi, ma confessa di ripensare spesso a quei giorni, all'arresto, «e a come ci hanno abbindolato e preso in giro, tanto che solo quando ci hanno portato al Bassone (la casa circondariale di Como) ci siamo accorti che i sospettati eravamo noi». E ancora: «Da allora tutto è assurdo e continua a essere irreale. Io le liti dalla casa di Raffaella e Azouz le ricordo bene, litigavano spesso, ma non per questo abbiamo pensato di fare una strage. Non c'entriamo nulla. Chi è stato? Non lo so, diversamente lo avrei già detto ai miei avvocati, ma di certo una strage simile può farla solo chi è abituato a fare quelle cose, non penso sia facile improvvisare un fatto del genere così efferato».

La strage di Erba: i testimoni dimenticati. Rita Cavallaro su L’Identità il 3 Gennaio 2023

Siamo innocenti, non li abbiamo uccisi noi. Ora confidiamo nella revisione del processo”. Sono le parole, affidate a L’Identità attraverso l’avvocato Fabio Schembri, di Olindo Romano e Rosa Bazzi, i due coniugi di 60 e 58 anni condannati all’ergastolo per la strage di Erba, avvenuta l’11 dicembre 2006, quando i vigili del fuoco, allarmati per un incendio, si trovarono davanti a uno dei peggiori delitti della storia d’Italia. Sul quale, nonostante la verità giudiziaria, restano alcuni elementi controversi che ora potrebbero cambiare le sorti dei coniugi Romano. Olindo e Rosa sono in galera da sedici anni, ma oggi intravedono la possibilità di poter lasciare quella cella da innocenti. L’avvocato Schembri e il collegio difensivo, infatti, sono pronti a presentare alla Corte d’Appello di Brescia l’istanza di revisione del processo. Nel ricorso, che verrà depositato a gennaio, i legali di Olindo e Rosa hanno alcuni assi nella manica, tra cui due nuove testimonianze e alcune perizie scientifiche, che dimostrerebbero come non siano stati Olindo e Rosa a compiere il massacro nella corte di via Diaz, ad accanirsi su quei cinque corpi, di tre donne, un uomo e un bambino, dilaniati dalle coltellate e riversi nel sangue. Raffaella Castagna, trent’anni e proprietaria dell’appartamento, fu massacrata con decine di fendenti e poi sgozzata. Stessa sorte per sua madre Paola Galli, di 70. Fu tagliata la lingua a Valeria Cherubini, una vicina di casa di 55 anni. La scena più raccapricciante sul divano: il piccolo Youssef Marzouk, due anni e figlio di Raffaella, finito con due coltellate alla gola. Riverso sul pavimento Mario Frigerio, 65 anni e marito di Valeria, ancora esanime, quasi soffocato dal suo stesso sangue ma vivo. Con lui, gli assassini commisero un grave errore, perché la profonda coltellata alla gola non gli recise la carotide. Grazie a una malformazione congenita, Frigerio riuscì a sopravvivere. Gli inquirenti, in attesa che l’uomo si risvegliasse da un delicato intervento chirurgico e potesse indicare i responsabili dei delitti, concentrarono le indagini sul marito di Raffaella e padre di Youssef, Azouz Marzouk, un tunisino di 25 anni coinvolto all’epoca in giri di droga e uscito di galera. Quella pista investigativa, legata al mondo dello spaccio, però fu abbandonata subito, perché Azouz aveva un alibi di ferro: si trovava in Tunisia. Le attenzioni si rivolsero allora sulla strana coppia di inquilini del piano terra. Ed emerse che Rosa e Olindo potevano avere un movente. Negli ultimi mesi, infatti, erano coinvolti in liti per questioni condominiali proprio con la famiglia Marzouk. Addirittura Raffaella era stata aggredita da Rosa per un vaso caduto sul bucato della donna e aveva intentato una causa civile di risarcimento, la cui udienza era fissata pochi giorni dopo la strage. E i coniugi Romano, secondo gli investigatori, erano esasperati da quei vicini di casa ingombranti. I due, inoltre, avevano dei tagli sospetti: Olindo alla mano e al braccio, Rosa a un dito. I sospetti accrebbero quando, arrivati sulla scena, esibirono come alibi uno scontrino del McDonald, per dimostrare che erano fuori a cena. Tanto più che sulla base dell’orario avrebbero avuto tutto il tempo di compiere il massacro, cambiarsi i vestiti e andare al ristorante. La prova decisiva contro i coniugi fu una piccola traccia ematica sul battitacco della portiera della loro auto. Dal dna risultò che il sangue era della Cherubini. L’unica prova scientifica del caso, visto che non ci sono segni della presenza di Rosa e Olindo sulla scena del delitto, chiuse il cerchio con la testimonianza di Frigerio, che risvegliatosi dal coma, con un filo di voce continuava a ripetere “Ottolino”, finché indicò in Olindo l’uomo che lo aveva aggredito. Per la coppia scattò l’arresto, seguito dalla confessione, che i due poi ritrattarono, accusando gli investigatori di averli indotti ad addossarsi la colpa. Inclemente la condanna all’ergastolo. Eppure Rosa e Olindo non si sono arresi alla colpevolezza e il collegio difensivo ha ora alcune consulenze tecniche che, dallo studio della disposizione delle macchie di sangue, smentirebbero la ricostruzione del delitto, oltre a una serie di elementi scientifici. Inoltre nell’istanza di revisione sono riportati due testimoni chiave a discapit. Il tunisino Abdi Kais, amico di Azouz e residente nell’appartamento del massacro, che “ha parlato di gravi litigi avvenuti prima della strage, liti per droga culminate addirittura nell’accoltellamento del fratello di Azouz. Inoltre ha detto di aver ricevuto l’ordine di eliminare alcuni elementi del gruppo rivale e che nell’abitazione della Castagna venivano custoditi i proventi dello spaccio di droga”, spiega l’avvocato Schembri. Un movente, questo, più compatibile con la ferocia della strage, che si legherebbe a un regolamento di conti. L’altro teste è Giovanni Tartaglia, ex maresciallo dei carabinieri di Como, che ha partecipato alle indagini. “Ci ha garantito che tutte le intercettazione ambientali si svolsero regolarmente, eppure sono sparite proprio quelle in ospedale nei giorni in cui Frigerio arrivò a indicare Olindo”, precisa l’avvocato. “Frigerio ricevette diverse visite dai carabinieri. Cosa si dissero? Tanto più che il sopravvissuto inizialmente disse di essere stato aggredito da un uomo non del posto e di carnagione olivastra, ma poi, dopo le visite, cambiò versione e indicò Olindo”, dice Schembri. Se la Corte, sulla base dell’istanza, riaprirà il processo, il collegio chiederà l’analisi di reperti rimasti senza corrispondenza, tra cui una ciocca di capelli sulla felpa di Youssef e un’impronta palmare.

"Io e Rosa incastrati perché non troppo svegli. Ora c'è un testimone". L'intervista a Olindo Romano, che spera in una riapertura del processo alla luce delle nuove prove raccolte dalla difesa: "Io e mia moglie non abbiamo commesso la strage. Non so perché non sia stata approfondita la pista dello spaccio di droga". Federico Garau il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

"Siamo stati incastrati", questo quanto afferma con forza Olindo Romano, che chiede a gran voce un nuovo processo per far veramente luce sulla Strage di Erba, uno dei casi più controversi della cronaca nera italiana.

A distanza di 16 anni dall'omicidio di Raffaella Castagna e il figlio Youssef Marzouk, Paola Galli (madre di Raffaella) e Valeria Cherubini (vicina di casa), e il ferimento del marito di quest'ultima, Mario Frigerio, continua il dibattimento giudiziario, con i legali di Olindo Romano e Rosa Bazzi pronti a riaprire il caso.

Colpevoli o innocenti?

Sulla Strage di Erba (11 dicembre 2006) è stato detto e ipotizzato tanto. Ancora oggi, merito delle tante trasmissioni tv, gli italiani sentono ancora molto vicina la vicenda. C'è chi ritiene la coppia Olindo e Rosa assolutamente colpevole, ma altri, grazie anche ai servizi de Le Iene, stanno cominciando a nutrire dei forti dubbi circa le responsabilità dei due.

Olindo Romano sta attualmente scontando l'ergastolo dietro le sbarre di Opera, mentre la moglie Rosa Bazzi si trova reclusa a Bollate. Adesso, però, tutto potrebbe cambiare. La difesa dei coniugi parla di nuove prove e un testimone chiave che dimostrerebbero l'innocenza dei due.

"Nuovi indizi su Erba". I legali di Rosa e Olindo vogliono riaprire il caso

"È il momento di fare chiarezza"

"Sono passati 16 anni dalla strage di Erba, ci sto riflettendo parecchio in questi giorni", dichiara Olindo Romano ai microfoni di AdnKronos. "È arrivato il momento di fare un po' di chiarezza", aggiunge. "In cella la vita è sempre quella, nulla di nuovo. Per passare un po' il tempo continuo a lavorare in cucina, per il resto sto senza far niente tutto il giorno, spesso in compagnia di qualche altro detenuto costretto come me in questo carcere".

Olindo ha il pieno sostegno dell'avvocato Fabio Schembri il quale, insieme ai colleghi Nico D'Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello, sta combattendo per far riaprire il processo.

Schembri, afferma Olindo, è sempre stato convinto della sua innocenza, così come di quella di Rosa, e non intende cedere. "Non è più l'unico, grazie a Dio, a credere che io e mia moglie non abbiamo commesso la strage di Erba. Non so perché non sia stata approfondita la pista dello spaccio di droga, continuo a pensare che sia stato più semplice incastrare due persone come noi non sveglissime e inconsapevoli di quello che ci stava piombando addosso", aggiunge.

"Ci hanno abbindolato"

Una coppia di persone semplici, senza grande dimestichezza del mondo giudiziario. Secondo Olindo Romano, lui e Rosa, ai tempi, furono abbindolati, presi in giro.

"Solo quando ci hanno portato al Bassone, ci siamo accorti che i sospettati eravamo noi", confessa. "Da allora tutto è assurdo e continua a essere irreale. Io le liti dalla casa di Raffaella e Azouz Markouk le ricordo bene, litigavano spesso, ma non per questo abbiamo pensato di fare una strage", precisa.

Nessuna responsabilità nel terribile omicidio. Olindo non ha idea di chi possa essere stato, ma è sicuro che "una strage simile può farla solo chi è abituato a fare quelle cose, non penso sia facile improvvisare un fatto del genere così efferato".

A essere raggirati non solo lui e la moglie, ma anche Mario Frigerio. "Era una brava persona, per questo credo che abbiano manipolato i suoi ricordi per farlo testimoniare contro di noi. Io lo considero una vittima come noi", afferma.

Adesso la speranza è che il caso venga riaperto. A Olindo manca molto Rosa, l'adorata moglie, vista qualche giorno prima di Natale. "È dura, ma in qualche modo la vita in carcere va avanti, vedo Rosa appena è possibile. Mi tiene a galla il pensiero che prima o poi, spero prima che poi, si possa accertare che non abbiamo commesso noi la strage di Erba", conclude.

Strage di Erba, Olindo Romano: «Ho visto Rosa prima di Natale, dopo 16 anni è l’ora della verità». Rosa e Olindo sono stati condannati in via definitiva all'ergastolo per la strage di Erba. L’avvocato Fabio Schembri, insieme ai colleghi Nico D'Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello, sta lavorando a una richiesta di revisione del processo alla luce di «nuove prove e un testimone chiave». Il Dubbio il 3 gennaio 2023

«Sono passati sedici anni dalla strage di Erba, ci sto riflettendo parecchio in questi giorni. Forse è arrivato il momento di fare un po' di chiarezza». A parlare all'Adnkronos è Olindo Romano, condannato all'ergastolo in concorso con la moglie Rosa Bazzi con l'accusa di aver ucciso Raffaella Castagna, il figlio Youssef Marzouk, la madre Paola Galli e la vicina di casa Valeria Cherubini.

Olindo Romano, recluso nel carcere di Opera, a Milano, racconta: «In cella la vita è sempre quella, nulla di nuovo. Per passare un po' il tempo continuo a lavorare in cucina, per il resto sto senza far niente tutto il giorno, spesso in compagnia di qualche altro detenuto costretto come me in questo carcere». Sostenuto dal suo avvocato Fabio Schembri, che (insieme ai colleghi Nico D'Ascola, Luisa Bordeaux e Patrizia Morello, ndr) sta lavorando a una richiesta di revisione del processo alla luce di «nuove prove e un testimone chiave», Olindo Romano conferma: «E’ sempre stato convinto della mia innocenza e di quella di Rosa e non è più l'unico, grazie a Dio, a credere che io e mia moglie non abbiamo commesso la strage di Erba. Non so perché non sia stata approfondita la pista dello spaccio di droga, continuo a pensare che sia stato più semplice incastrare due persone come noi non sveglissime e inconsapevoli di quello che ci stava piombando addosso».

Per l'ex netturbino 60enne di Albaredo per San Marco le accuse contro di lui e contro la moglie non hanno fondamento. «Mi capita di ripensare a quei giorni e a come ci hanno abbindolato e preso in giro - spiega all'Adnkronos - tanto che solo quando ci hanno portato al Bassone (la casa circondariale di Como, ndr), ci siamo accorti che i sospettati eravamo noi. Da allora tutto è assurdo e continua a essere irreale. Io le liti dalla casa di Raffaella e Azouz le ricordo bene, litigavano spesso, ma non per questo abbiamo pensato di fare una strage. E, in effetti, non c'entriamo nulla. Chi è stato? Non lo so, diversamente lo avrei già detto ai miei avvocati, ma di certo una strage simile può farla solo chi è abituato a fare quelle cose, non penso sia facile improvvisare un fatto del genere così efferato».

Dimagrito, il portamento placido e diverso dalle foto dell'epoca che lo immortalavano spesso sornione, quasi distante, oggi Olindo Romano ha i capelli bianchi e i ricordi intatti. «"Frigerio (Mario, marito di Valeria Cherubini e unico superstite, ndr) è stato utilizzato come noi. Ripenso a quell'uomo, quando lo incontravo: era una brava persona, per questo credo che abbiano manipolato i suoi ricordi per farlo testimoniare contro di noi. Io lo considero una vittima come noi».

E oggi, sedici anni dopo le fiamme in quell'appartamento di via Diaz, dopo i corpi esanimi in un lago di sangue, le tracce rilevate e contestate, le prove, le testimonianze, le confessioni fatte e ritrattate, Olindo passa le sue giornate in una cella lontano dall'inseparabile moglie. «E' dura, ma in qualche modo la vita in carcere va avanti, vedo Rosa appena è possibile. Due giorni prima di Natale sono andato a colloquio da lei a Bollate e sono contento - racconta sempre all'Adnkronos - Mi tiene a galla il pensiero che prima o poi, spero prima che poi, si possa accertare che non abbiamo commesso noi la strage di Erba». (Adnkronos)

L'avvocato: "Vi dico perché le figlie mentono sul delitto di Laura Ziliani". Nel processo per l'omicidio di Laura Ziliani, l'ex vigilessa di Temù uccisa nella notte tra il 7 e l'8 maggio 2021, la versione degli imputati e il movente sono "un racconto infarcito di bugie", secondo l'avvocato Piergiorgio Vittorini. Rosa Scognamiglio il 5 Maggio 2023 su Il Giornale.

"L'omicidio è stato pianificato nell'arco di un anno, peraltro con un tentativo andato a vuoto prima di quello definitivo. I tre imputati hanno agito con lucidità e freddezza". Non ha dubbi l'avvocato Piergiorgio Vittorini, legale di parte civile assieme alla collega Monica Baresi nel processo per l'omicidio di Laura Ziliani, l'ex vigilessa uccisa a Temù nella notte tra il 7 e l'8 maggio 2021, sulle complicità tra Silvia e Paola Zani, figlie della vittima, e il fidanzato di entrambe, Mirto Milani.

All'ultima udienza, celebrata davanti alla Corte d'Assise di Brescia lo scorso 27 aprile, le due sorelle hanno raccontato di aver ucciso la madre perché, a loro dire, avrebbe tentato di avvelenarle con la candeggina nel latte, un'accusa che ha scosso l'opinione pubblica. "Escludo categoricamente che la signora Laura Ziliani volesse sbarazzarsi delle figlie", dice ancora Vittorini alla redazione de ilGiornale.it.

"È stato Mirto", "Ruota infernale". Tutti contro tutti in aula per l'omicidio Ziliani

Avvocato Piergiorgio Vittorini, lei è il legale di parte civile nel processo per l'omicidio di Laura Ziliani. Cosa ne pensa delle ultime deposizioni degli imputati?

"Ritengo che non vi sia stato un passo indietro rispetto alle dichiarazioni precedenti, sia alle prime confessioni rese davanti al pm che all'udienza del 27 aprile. Mi riferisco in particolar modo a quelle di Silvia che ha confermato di aver ucciso assieme agli altri due imputati la madre".

Le carte dell'inchiesta parlano di uno "trio diabolico", così come è stato ribattezzato anche dalla stampa. Secondo lei a chi è venuta l'idea dell'omicidio?

"Sulla scorta delle ultime deposizioni, il racconto più credibile è quello di Mirto Milani. Durante l'ultima udienza ha parlato di 'ruota infernale', in cui quando uno dei tre avrebbe provato a tirarsi fuori, qualcun altro lo 'tirava dentro'. È stato un delitto concertato di comune accordo da tutte e tre le persone coinvolte".

Eppure Mirto Milani è stato più volte posto al vertice del triangolo amoroso. Cosa ne pensa?

"Mirto Milani era al centro del triangolo amoroso ma non penso che tenesse le redini del ménage à trois. Tant'è che in una delle tante lettere di una delle fidanzate, Silvia gli dà dell''insufficiente' nell'intimità. Ciò è indicativo del fatto che non era l'agente principale all'interno del relazione sentimentale con le due ragazze".

"Così Mirto ha confessato l'omicidio di Laura Ziliani"

Silvia e Paola Zani hanno anche raccontato che Mirto Milani le sottoponesse a delle "sedute di psicoterapia". Secondo lei?

"Tentano di passare per vittime ma nessuno impediva loro di sottrarsi a queste presunte sedute di psicoterapia. Sono lucide artefici e complici del delitto della madre".

E rispetto all'omicidio, qual è la posizione di Milani?

"Pur ribadendo che c'è stata unità e complicità di intenti, sia nella fase progettuale che esecutiva, credo non sia Mirto Milani il Deus ex machina. Ritengo molto più dominante, invece, la figura di Silvia".

Perché?

"Le dichiarazioni rese da Silvia, soprattutto rispetto al presunto movente del delitto, non sono credibili. Legittimo il tentativo di provare a ottenere uno sconto di pena rispetto alla gravità del reato commesso e che ha confessato, ma è un racconto mendace".

Omicidio Ziliani, la nonna e i sospetti sul "trio": "Qualcosa non tornava"

Durante l'ultima udienza sia Silvia che Paola Zani hanno detto di temere per la propria vita ipotizzando che la madre, Laura Ziliani, volesse ucciderle.

"È un'idea concepita nel tentativo di giustificare l'omicidio della madre. Ma escludo categoricamente che la signora Laura Ziliani volesse sbarazzarsi delle figlie".

Gli imputati hanno riferito di un episodio in particolare, ovvero, che Laura Ziliani avrebbe tentato di avvelenarle versando la candeggina nel latte. Le sembra possibile?

"Le faccio una domanda: secondo lei è possibile che una persona beva candeggina e non finisca in ospedale? Stiamo parlando di una sostanza altamente corrosiva, sarebbe bastato un sorso per avvertire quantomeno una sensazione insopportabile di bruciore".

Dunque lei non crede al movente, così per dire, della "legittima difesa"?

"Nel modo più assoluto. E poi, mi scusi, nell'ipotesi irreale che temessero per la propria incolumità, perché non hanno denunciato il fatto ai carabinieri? È un racconto infarcito di bugie".

"È lui, è lei". Così "l'uomo col binocolo" ha incastrato il trio diabolico

E quindi quale ritiene possa essere allora?

"Senza dubbio il movente è economico. La signora Laura Ziliani aveva accreditato il suo patrimonio a un ente del Bresciano per tutelare la figlia minore, una ragazza con fragilità psichiche, quando lei non ci sarebbe più stata".

Invece?

"Silvia e Paola, che evidentemente non condividevano la scelta della madre, hanno pensato di ucciderla. Cosicché, quando la mamma non ci fosse più stata e nella convinzione di farla franca, sarebbero diventate le tutrici legali della sorella nonché le amministratrici del patrimonio di 11 appartamenti".

Uno degli avvocati della difesa ritiene di essere in possesso di un audio che proverebbe la volontà di Laura Ziliani di uccidere le figlie. Cosa può dirci al riguardo?

"Mi domando come mai non sia stato prodotto prima dal momento che, nell'ipotesi in cui fosse accertata la veridicità della prova, probabilmente avrebbe potuto alleggerire la posizione delle due ragazze. E non credo che un documento del genere sia passato inosservato agli inquirenti che, peraltro, hanno lavorato con grande scrupolo anche nei confronti degli imputati. Attendiamo di conoscere il contenuto di questo audio e poi faremo tutte le valutazioni necessarie".

Sulla scorta di tutte le risultanze emerse in fase investigativa e dibattimentale, quale ritiene possa essere la pena più idonea per i tre imputati?

"Non spetta a me valutare l'entità della pena ma ai giudici della Corte d'Assise di Brescia. Da avvocato posso solo dire che l'omicidio è stato pianificato nell'arco di un anno, peraltro con un tentativo andato a vuoto prima di quello definitivo. I tre imputati hanno agito con lucidità e freddezza".

Estratto dell'articolo di corriere.it il 30 marzo 2023.

«Eravamo convinte che nostra madre ci volesse uccidere». Pe questo Silvia e Paola Zani l' 8 maggio 2021 a Temù avrebbero stordito con degli ansiolitici, soffocato con un sacchetto di plastica e seppellito la mamma Laura Ziliani (ex vigilessa di 55 anni) sul greto del fiume Oglio con l'aiuto di Mirto Milani, fidanzato della prima e amante della seconda ragazza. Queste le parole pronunciate dalla primogenita 29enne, Silvia, la mattina di giovedì 30 marzo davanti al pubblico ministero Caty Bressanelli nel processo in Corte d'Assise di Brescia, giunto al momento clou: l'interrogatorio del trio criminale.  

[…]

 La confessione della primogenita

«Con mia madre ho sempre avuto un buon rapporto, trascorrevamo parecchio tempo insieme» ha detto in aula Silvia Zani; pochi minuti dopo però ha sostenuto che la madre voleva avvelenarla con «latte alla candeggina», che lei e Mirto l'avrebbero ingerito.  E rispondendo alle domande della difesa ha detto che sospettavano di tutti i cibi preparati dalla madre, tanto che loro avevano un altro frigorifero.

«Quando l'ho uccisa ero convinta al 300 per cento che lei volesse avvelenarci. Ci avrei messo la mano sul fuoco. Ora dopo tanti mesi in carcere, non sono più così sicura» ha aggiunto la ragazza dettagliando le fasi della premeditazione del delitto, dal quale hanno preso spunto da diverse serie tv, Dexter e non solo. Da qui l'idea (poi scartata) di usare piante velenose e il tentativo di avvelenamento della tisana della madre «con del liquido antigelo». 

Avrebbero però voluto farla «sparire in montagna, perché la amava più di noi». Poi la scelta di drogarla con le benzodiazepine mescolate alla torta preparatale per la festa della mamma. «Dopo l'omicidio eravamo  spaventatissimi, ci siamo autocatapultati in una situazione di cui non avevamo il controllo» ha aggiunto la primogenita, che ha cercato di giustificarsi dicendo anche che la madre non accudiva come avrebbe dovuto la figlia mezzana, affetta da una disabilità. Infine ha provato a scagionare il fidanzato: «Quando è intervenuto in camera dove io soffocavo mamma e mia sorella la teneva ferma, credo che mia mamma fosse già morta. È quanto ho rielaborato dopo mesi di carcere».

Paola Zani: «Chiedo scusa a mamma, nonna, zii»

«Voglio chiedere scusa a tutti. A mia madre che ho ucciso, ai miei zii, a mia sorella, a mia nonna, a tutte le persone di Temù. […]». Lo ha detto in lacrime dopo un'ora e mezza di esame in aula, Paola Zani, la sorella più piccola. 

Stando al racconto della primogenita la più piccola all'inizio non era coinvolta: «Quando è tornata dall'Erasmus in Francia è venuta a vivere con me. È stata inglobata nel rapporto tra me e Mirto, con il quale sono insieme da 12 anni. Eravamo un'unica unità, un trio, in cui le scelte venivano sempre prese insieme. Chi non era d'accordo si chinava agli altri due, Paola ha desistito più di tutti». […]

Estratto dell’articolo di Maria Rodella per corriere.it il 3 Febbraio 2023.

Operatrice al Caf di Lecco, «specializzata in dichiarazioni di successione, riceve una telefonata sul lavoro nel maggio 2021.

 «Mi chiamò una donna dicendomi di essere la mamma del fidanzato di una ragazza la cui madre era scomparsa nei giorni precedenti, a Temù, nel bresciano» (aspetto «particolarmente strano», dirà di aver pensato, chiedendosi perché la signora non si fosse rivolta a un centro nella sua provincia). «Mi chiedeva come svincolare i suoi conti correnti» ma allo stato «la persona risultava solo sparita, quindi i conti non potevano certo essere svincolati».

 Quella donna però «insiste»: «Le figlie sono sole, il padre è mancato, quindi hanno urgenza per la sorella affetta da disabilità». L’operatrice le consiglia quindi di «rivolgersi al un legale», prima di riattaccare e cercare, in internet, di che vicenda si tratti.

La trova: «Lessi della scomparsa di una vigilessa ma la Protezione civile la stava ancora cercando», dice Greta Galluzzi, chiamata a deporre nel processo in Corte d’assise (presidente Roberto Spanò) per l’omicidio e l’occultamento del cadavere di Laura Ziliani, 55 anni, che vede imputate le figlie Silvia e Paola Zani e il fidanzato della maggiore (e amante della minore) Mirto Milani.

[…]

 Primi a testimoniare, i consulenti medico-legali incaricati dal pm Caty Bressanelli. Stando ad Andrea Verzeletti, direttore dell’Istituto di medicina legale del Civile, l’epoca del decesso è compatibile con l’ultimo giorno in cui è stata vista viva. E sarebbe stata sepolta subito dopo l’omicidio, la notte tra il 7 e l’8 maggio.

Confermate anche le cause del decesso: «Nel corpo della vittima abbiamo riscontrato la presenza di tre diverse benzodiazepine in concentrazioni certamente inferiori rispetto a quelle presenti al momento della morte», ha spiegato, ipotizzando che le capacità di reazione della vittima fossero «ridotte» proprio a cause di queste sostanze, per di più mischiate tra loro, e che sia stata poi soffocata. Verosimilmente con un sacchetto di plastica, nominato peraltro anche dagli imputati nelle rispettive confessioni, e che sarebbe stato stretto (perché «troppo piccolo») al collo di Laura con il cavo di una prolunga.

Segni di lesioni non sono stati riscontrati in sede di autopsia, ma «può capitare, qualora fosse già in fase asfittica».

 Da escludere, per gli esperti, sia stata sepolta viva, nonostante Mirto, a cui venne il dubbio, all’ex compagno di cella durante le lunghe confidenze avesse raccontato di una serie di convulsioni durante la fase di trasporto del corpo: anche lui è stato richiamato a testimoniare, per riferire sui presunti «depistaggi» messi in atto dai ragazzi per allontanare le indagini da loro.

E «spiegare» le ricerche in Rete sui veleni: «Mirto prima ammise, poi cambiò versione, sapendo di essere intercettato, dicendo fossero le sostanze che Laura avrebbe potuto utilizzare per avvelenarli».

Benno Neumair, parte il processo contro «Chi l'ha visto?» e la conduttrice Sciarelli. Chiara Currò Dossi su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023 

Un servizio del programma sosteneva come gli avvocati avessero consigliato al loro assistito di mentire sui tempi del delitto: autori e conduttrice in aula il 9 maggio. Omicidi in famiglia, il sondaggio: «Evitabile uno su due» 

Inizierà il 9 maggio, davanti alla giudice Julia Dorfmann, il processo per diffamazione aggravata a carico degli autori di un servizio televisivo trasmesso il 10 marzo 2021 su Chi l’ha visto?: il giornalista Giovanni Loreto Carbone e la responsabile del programma, Federica Sciarelli. A denunciarli erano stati gli avvocati di Benno Neumair, Flavio Moccia e Angelo Polo. Nodo del contendere il non detto della frase: «Nei vari interrogatori, sicuramente su consiglio degli avvocati, Benno restringe sempre di più l’intervallo di tempo tra lo strangolamento del padre e l’arrivo in casa della madre». Gli avvocati gli avrebbero cioè suggerito di mentire, per nascondere il fatto che il secondo delitto sarebbe stato premeditato. La Procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il gip aveva disposto l’imputazione coatta.

Il sondaggio

Intanto sono stati diffusi i dati di un sondaggio diffuso da Astat, l’istituto di statistica provinciale. Per quasi la metà degli altoatesini (il 47%) i parenticidi sarebbero evitabili, almeno in alcuni casi. Per uno su tre (il 33%), il rischio di macchiarsi di questo tipo di crimine aumenta nei casi di persone affette da disturbi mentali. Ma quanto, nello stigmatizzarli, abbiano influito gli organi di informazione, nel riportare l’andamento del processo Neumair, uno su quattro (il 26%) non se la sente di dare un’opinione: «Non eravamo presenti in aula». Sono queste le conclusioni alle quali è arrivato l’Astat in un panel (un procedimento di raccolta continuativa di informazioni statistiche su un campione di popolazione) realizzato a marzo per sondare l’opinione della popolazione rispetto al caso Neumair. Non c’è dubbio sul fatto che il duplice omicidio di Laura Perselli e Peter Neumair, strangolati il 4 gennaio 2021 dal figlio Benno (condannato in primo grado all’ergastolo), sia stato uno dei principali argomenti di discussione degli ultimi due anni. Così come sul fatto che abbia trovato ampio spazio sugli organi di informazione, locali e nazionali. Quanto questo abbia influito sull’opinione pubblica, in termini di stigma sui disturbi mentali, è diventato argomento di studio tra gli addetti ai lavori.

I sentimenti suscitati dal delitto Neumair

 I primi a muoversi erano stati gli esperti del Servizio di psichiatria dell’Azienda sanitaria (Asl), che avevano elaborato un questionario online (ancora disponibile) del quale il primario, Andreas Conca, aveva detto di aver «informato e coinvolto» la famiglia Neumair: circostanza smentita a stretto giro di boa. Di qui la (caldeggiata) entrata in scena dell’Astat che, come si legge in testa alla pubblicazione, «ha risposto a un’esigenza di ricerca del Servizio psichiatrico». Le domande sono diverse sia nel numero (6 per l’Astat, 27 per l’Asl) che nel contenuto. Il quadro che emerge è sfaccettato. Il principale sentimento suscitato dal delitto Neumair è di rabbia (54%), seguito da disgusto (22%), sorpresa (14%), indifferenza (11%) e paura (6%). Sul fatto che i parenticidi possano essere evitati, l’opinione è «letteralmente» divisa a metà, spiegano gli esperti Astat: il 47% degli intervistati lo ritiene possibile, il 53% che sia difficile dare una risposta o preferisce non darla. Parallelamente, la metà degli intervistati ritiene sia possibile individuare dei segnali premonitori (per l’8% spesso, per il 44% talvolta), ma c’è un’alta percentuale (21%) di «non so», ovvero «di chi lascia tale giudizio agli esperti del settore». 

Malattia mentale ed episodi criminali

Rispetto a un possibile legame tra malattia mentale e aumentato rischio di episodi criminali, oltre la metà (51%) sospende il giudizio, mentre uno su tre (33%) sostiene che ci sia. Per quel che riguarda il quotidiano, due persone su tre sarebbero disposte ad avere una persona con disturbi mentali come collega di lavoro (71%), come vicino di casa (70%) o come amico (68%), ma solo una su tre (33%) a viverci insieme. E poi c’è il ruolo dei media. L’Astat ha chiesto di valutare «il modo di riportare l’andamento del processo»: il 33% degli intervistati li ritiene affidabili, il 41% sensazionalistici e il 26% dichiara di non poterlo sapere, in quanto non presente in aula (e quindi impossibilitato a confrontare quanto riportato e quanto accaduto). Conca, invece, aveva insistito sull’affidabilità delle notizie (da «insufficiente» a «ottima»), sulla loro quantità, sull’utilizzo dei termini psichiatrici e sul grado di manipolazione «ponendo l’accento su possibili aspetti negativi correlati a disturbi mentali (ad esempio la pericolosità sociale)». Dando l’impressione, come aveva scritto l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti, Lissi Mair, «che la manipolazione fosse già data per scontata. Lo scopo reale della ricerca sembra essere quello di dire che il malato mentale non è pericoloso, ma che se lo si pensa la colpa è di chi fa informazione».

"Ho gli incubi": così Madè ha fatto incastrare il fratello Benno Neumair. Madè Neumair è stata uno dei protagonisti del processo di primo grado per l'omicidio di Bolzano, in cui è stato condannato all'ergastolo il fratello Benno. Angela Leucci il 18 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è Madè Neumair

 Il duplice omicidio

 L’iter giudiziario

A partire da gennaio 2021 Madè Neumair è stata raccontata molte volte dalla cronaca. Una delle descrizioni più interessanti viene fatta all’interno del volume Il male dentro di Matteo Macuglia ed è relativa al funerale dei genitori della donna, avvenuto il 18 giugno 2021: “Mentre sale verso il piccolo podio con il microfono, il silenzio se possibile si fa ancora più pesante. Inizia a parlare. La sua voce trasmette il dolore e allo stesso tempo la risolutezza di chi sa che non potrà mollare, mai”.

Dolore e risolutezza. Due concetti che sembrano quasi contrastare, ma che convivono invece nella compostezza riservata di una donna che ha “perso tutto”, come aveva temuto in tempi non sospetti. Madè Neumair ha perso la sua famiglia, ma non la forza di chiedere giustizia per l’omicidio del padre e della madre.

Chi è Madè Neumair

Classe 1994, è la secondogenita di Peter Neumair e Laura Perselli. Il suo nome è comune per le secondogenite in Indonesia: i genitori, appassionati di cultura e spiritualità orientale hanno omaggiato così una delle terre da loro amate. Vive a Monaco di Baviera, dove lavora in un ospedale, nel reparto di ortopedia e traumatologia.

La figura di Madè Neumair è stata fondamentale nelle indagini e nel processo di primo grado - in cui l’imputato era il fratello Benno Neumair - per quello che le cronache hanno chiamato 'l’omicidio di Bolzano', il duplice assassinio ai danni dei genitori. È stata infatti lei a dubitare per la prima volta del fratello, a metterlo alla prova per testare la veridicità delle sue parole: chiese infatti a una vicina di constatare se qualcuno fosse in casa, dato che Benno aveva affermato di essere fuori, scoprendo in tempo reale che il fratello, invece, era proprio lì. E durante il processo non ha avuto cedimenti: lo sguardo fisso alla corte, ha demolito una per una tutte le affermazioni di Benno, che aveva lamentato presunte mancanze da parte dei genitori.

Il duplice omicidio

Il 4 gennaio 2021 Peter Neumair e Laura Perselli, insegnanti, ormai in pensione, rispettivamente di 63 e 68 anni, scomparvero dalla loro casa a Bolzano. La prima ad allarmarsi fu proprio Madè Neumair: abituata a sentire spesso la madre, con telefonate e messaggi WhatsApp, anche solo per augurare buongiorno e buonanotte, percepì in maniera funesta il silenzio nelle comunicazioni con la madre.

“A casa mia - raccontò Madè Neumair - avevo ospite un’amica, quella sera. Abbiamo fatto una fotografia e l’ho mandata a mamma. Lei non l’ha visualizzata e mi sembrava strano ma ho pensato: sarà crollata dalla stanchezza. Il mattino dopo però c’era ancora una sola spunta di Whatsapp. Allora ho scritto a papà: tutto bene? Quando ho visto che anche lui non rispondeva ho cominciato a chiamare tutti. Ho chiamato anche Benno, mi ha detto che era fuori col cane a camminare... Sa quando si conosce bene una persona e si capisce che sta mentendo?”.

Il giorno dopo la scomparsa fu denunciata da Benno Neumair, che si costituì il 28 gennaio successivo. Sebbene le primissime indagini ipotizzarono un incidente in montagna - poiché le vittime erano appassionate di escursionismo - il giovane fu fermato dalle forze dell’ordine nei giorni precedenti alla confessione, e nella sua auto fu rinvenuta dell’acqua ossigenata ad alti volumi, che può essere utilizzata per pulire il sangue. Ma i dubbi di Madè c’erano stati fin dall’inizio: “Non potevo immaginare altro che i genitori fossero vittime di un reato - ha affermato durante un'udienza del processo - Benno viveva con loro. Non riuscivo a pensare a nessun altro”.

I corpi di Laura Perselli e Peter Neumair sono stati restituiti dal fiume Adige rispettivamente il 5 febbraio e il 27 aprile 2021. Ma qualche giorno prima del ritrovamento del corpo del padre, il 10 aprile, Benno Neumair fu rinviato a giudizio. “Penso che non parlerò più con mio fratello”, aveva chiosato la sorella pochi giorni dopo l'imputazione.

L’iter giudiziario 

Il processo di primo grado per omicidio è iniziato il 4 marzo 2022 per concludersi il 19 dicembre dello stesso anno. Benno Neumair, riconosciuto seminfermo di mente al momento dell’omicidio del padre, è stato riconosciuto capace di intendere e di volere al momento di uccidere la madre, e condannato all’ergastolo. Alla vigilia della sentenza Madè Neumair aveva spiegato: “Non penso a lui, anche se a volte lo sogno. Sono incubi. Sogno che vuole uccidere anche me oppure lo vedo che uccide loro”. Naturalmente, "lui" è il fratello Benno, "loro" sono i genitori Peter e Laura.

Chiare le motivazioni della sentenza pronunciata dai giudici della Corte d’assise di Bolzano, Carlo Busato e Ivan Perathoner: “La Corte ha ricostruito sulla base dell’ampio materiale probatorio raccolto, i fatti del giorno dell’omicidio e di quelli successivi, analizzando tutte le testimonianze ed i risultati delle indagini scientifiche di ogni tipo. Questo esame ha portato ad affermare oltre ogni ragionevole dubbio la commissione dei reati contestati da parte dell’imputato. […] Il disturbo di personalità dal quale è risultato affetto l’imputato non ha inciso sulla capacità di intendere e di volere al momento della commissione dei reati. […] La Corte ha poi ritenuto sussistente l’aggravante della premeditazione in ragione delle modalità di commissione che si sono sostanziate in un vero e proprio agguato. […] L’avvenuta confessione da parte dell’imputato è intervenuta in un momento in cui il materiale probatorio raccolto era assolutamente sufficiente ad affermare la colpevolezza dell’imputato”.

"Vi racconto chi è Benno". Macuglia e quel "male dentro" di noi

“Quando il giudice Busato ha iniziato a leggere il dispositivo - ha raccontato Madè Neumair all’Alto Adige - il mio campo visivo s’è ristretto su di lui. Vedevo solo lui e attorno a me non c’era nessun altro. Però ribadisco che la verità ha vinto. Non ci sono vincitori, nessuno mi ridarà i genitori, ma mi ritengo fortunata ad aver ottenuto una verità processuale”.

Il 3 aprile 2023 è stata depositata, da parte del collegio difensivo di Benno Neumair, la richiesta di ricorso in appello alla sentenza. È possibile che il processo di secondo grado punterà ancora sulla capacità di intendere e di volere del condannato. E che la sorella Madè torni a testimoniare, a difendere la memoria dei genitori.

"Vi racconto chi è Benno". Macuglia e quel "male dentro" di noi. L'intervista al giornalista-inviato di Quarto Grado che nel suo libro analizza nel dettaglio l'omicidio di Bolzano e il processo di primo grado in cui Neumair è stato condannato all'ergastolo. Angela Leucci il 23 Marzo 2023 su Il Giornale.

L’omicidio compiuto da Benno Neumair, condannato all’ergastolo a novembre 2022, ha innescato una sorta di revival nella cronaca nera. Ha fatto pensare agli altri omicidi dei figli ai danni dei genitori, ma anche, date le lettere che riceveva in carcere dalle “Bimbe di Benno”, a quel fenomeno che spinge alcune persone a invaghirsi degli assassini. E in tutto questo c’è anche un altro mondo, quello spesso bistrattato del giornalismo, un mondo che ha dimostrato più volte di avere un cuore.

Ci vuole distanza, certo, per fare il giornalista. Ma questo non significa che a un certo punto non si possa avere il coraggio di spegnere il microfono. Questa sensibilità, questa carezza, è stata adoperata da Matteo Macuglia, inviato di Quarto Grado, insieme con altri colleghi, il 18 giugno 2021, quando ci furono i funerali di Laura Perselli e Peter Neumair.

Macuglia ha scritto un libro intenso - “Il male dentro” per Rizzoli nella collana “I casi di Gianluigi Nuzzi”, che ripercorre appunto l’omicidio di Bolzano - un libro in cui il giornalista porta il lettore nel capoluogo altoatesino, attraverso tutte le tappe dal 4 gennaio 2021, giorno in cui Laura e Peter furono uccisi, fino ai depistaggi, alle bugie, alle confessioni del figlio Benno, il ritrovamento dei due corpi, il dolore e il bisogno di giustizia della figlia Madè.

Madè - spiega Macuglia a IlGiornale.it - ha vestito per mesi le vesti dell’investigatore, aiutando i carabinieri a sbugiardare le affermazioni del fratello, a indirizzarli alle persone da sentire per trovare la verità, a trovare il punto dove potevano essere nascosti i corpi dei genitori”.

Macuglia, da dove viene il titolo del libro?

Il titolo ha più livelli di lettura. Il più semplice: è una citazione diretta di Benno, che durante la sua seconda confessione disse di aver ucciso il padre perché si sentiva ‘male dentro’ e voleva silenzio. Inoltre è un tentativo di spiegare come mai in una famiglia normalissima, ordinaria - con due genitori che dopo 30 anni di matrimonio si amano ancora, con due figli che sono cresciuti avendo tutto ciò che potevano desiderare, dai viaggi allo studio fino alla possibilità di coltivare passioni - sia avvenuta una cosa incredibile, un duplice omicidio. Tra l’altro è rarissimo in Italia che due persone vengano uccise insieme per strangolamento a mani nude”.

Laura e Peter erano una coppia tipica per la loro generazione. Molti si saranno identificati in loro.

Erano una coppia molto ordinaria, lontana da problemi socio-economici: insegnanti in pensione, dopo 30 anni che stavano insieme e si amavano ancora, facevano tutto insieme, pianificavano, viaggiavano, andavano in montagna, facevano mille cose. Erano molto conosciuti a Bolzano: il loro lavoro li aveva messi a contatto sia con la generazione dei loro figli che con quella dei genitori. Il fatto che una famiglia così imploda, all’improvviso e in questo modo, rende chiaro che le storie di cronaca nera, di cui mi occupo ogni giorno per lavoro, possono accadere a chiunque. Il male si annida un po’ ovunque, anche se ci sembra impossibile. Non possiamo mai dire: ‘A me non potrebbe succedere’”.

Ci sono stati altri casi di giovani che abbiano ucciso i genitori. Quali sono le peculiarità dell’omicidio di Bolzano?

La prima particolarità assoluta è, come detto, la statistica su un duplice omicidio commesso a mani nude, che è in Italia rappresenta una percentuale infinitesimale. Inoltre Benno è rimasto a lungo libero: per quasi un mese ha cercato di depistare le indagini, commettendo però tanti errori e senza coprire interamente le tracce di ciò che aveva fatto. E poi ci sono i mesi, lunghissimi, che ci sono voluti per ritrovare i corpi di Peter e Laura. Un ultimo elemento è costituito dalla sorella di Benno, Madè: se Benno rappresenta una forma di male molto cupa e profonda, in questa storia abbiamo un contraltare, Madè che porta la bilancia in pari, con le sue parole buone, con il suo modo gentile e sensibile di stare al mondo nonostante la cosa terribile che le è successa”.

I legali di Benno sarebbero al lavoro sul ricorso in appello. Secondo lei, punteranno all'incapacità di intendere e volere?

Sì. I testimoni sono stati sentiti tutti nel primo grado di giudizio. I legali promettono che non si parlerà solo di imputabilità, di capacità di intendere e di volere, ma quello sarà molto probabilmente l’argomento forte, la protagonista del prossimo grado di giudizio che arriverà. In ogni caso, non faccio l’avvocato, mi limito a raccontare quello che vedo”.

Cosa significa, nella pratica, che sia concessa o meno la non volontà di intendere e volere?

Dipende da ciò che prevedono i giudici. Se Benno fosse stato giudicato incapace di intendere e di volere, sarebbe stato possibile che venisse affidato a una struttura, che lo prendesse in carico per un periodo variabile. Benno ha un disturbo della personalità che può essere rilevante, con un profilo di cura che gli può essere applicato, ma al tempo stesso, secondo i giudici della corte d’Assise nel primo grado di giudizio, il disturbo non ha influito sull’omicidio”.

Ovvero?

In altre parole il disturbo non è stato la miccia che ha fatto esplodere questo omicidio. Dall’altro lato, senza fare giudizio di merito, se Benno fosse rimesso in libertà, bisognerebbe tenere conto che è stato giudicato socialmente pericoloso, in particolare per Madè, che, secondo i giudici, correrebbe il rischio di essere uccisa. Benno ha bisogno di una cura per quello che è possibile in base al suo disturbo, ma anche di rieducazione, perché al processo non ha mai mostrato pentimento per ciò che ha fatto”.

Lei ha incontrato Benno la prima volta quasi per caso, poi è riuscito anche a intervistarlo. Le va di spiegare ai lettori l’importanza giornalistica di quello che le ha raccontato?

L’ho incontrato per caso, ma neanche tanto: ero vicino a casa sua, lo stavo cercando ma non rispondeva al citofono. Ero appena arrivato a Bolzano, non avevo un’idea precisa di questa storia, perché le notizie erano ancora troppo generiche. L’ho trattato come il figlio degli scomparsi. Ho trovato una persona molto fredda, ma è comune questo atteggiamento verso i giornalisti nei casi di cronaca nera. Anche Madè all’inizio è stata fredda con la stampa, ma successivamente abbiamo creato un rapporto”.

E poi?

La seconda volta l’ho sentito al telefono, lungamente, per 25 minuti. È stata l’ultima intervista che Benno ha rilasciato, l’unica che secondo me ha rilasciato in maniera genuina. Ho trovato un ragazzo molto allegro, i suoi genitori erano scomparsi ormai da 10 giorni, i giornali parlavano ormai di ricerca di cadaveri. Ho trovato strano che ridesse per alcune domande e ho capito che in quel momento mi stava raccontando delle bugie. Al tempo stesso ho trovato manipolatorio il suo modo di fare, perché lui rispondeva a qualsiasi domanda ed era comunque molto convincente. Io non potevo sapere se era lui l’assassino, ma lui sapeva benissimo cosa aveva fatto. Non riuscivo a capire perché avesse voluto parlare con un giornalista, richiamandolo anche, dopo aver finito. Questa è la cifra della capacità manipolatoria di Benno, che si è vista con le sue donne, con i carabinieri, con i suoi famigliari”.

"Senza via d’uscita", "Bugiardo". Così Benno ha ucciso i genitori

In questa storia c’è Madè, che ha “perso tutto”. Ci racconti un po’ di questa figura che appare essere la bussola morale della vicenda.

La straordinarietà della figura di Madè si evince dalle primissime ore di questa storia. Di fatto Madè risolve il caso il 5 gennaio, con le prime chiamate che fa per capire dove sono mamma e papà, che non le stanno più rispondendo al telefono dalla sera prima. Madè quel giorno, quando vede che suo papà e sia mamma non solo non le hanno risposto, ma non hanno neppure visto i messaggi, dice subito: ‘Io ho capito che c’era qualcosa che non andava, di profondamente sbagliato, di terribile’. Durante i funerali dei suoi genitori dirà: ‘Mi sono sentita come un’antenna che ha perso il segnale’. Una frase forte”.

Tornando alle chiamate, cosa accadde?

Madè chiama Benno per terzo, dopo aver cercato la zia e il vicino, e appena ci parla capisce che sta mentendo. Invece di piangere, disperarsi, avere un crollo emotivo, Madè vestirà per mesi le vesti dell’investigatore, aiutando i carabinieri a sbugiardare le affermazioni del fratello, a indirizzarli alle persone da sentire per trovare la verità, a trovare il punto dove potevano essere nascosti i corpi dei genitori. La missione di Madè diventa di consegnare il fratello alla giustizia, e anche al processo non sarà vittima, ma difenderà i genitori dalle accuse del fratello”.

Cosa hanno rappresentato per l’opinione pubblica le bugie, i depistaggi e i silenzi in tribunale di Benno?

Per quanto riguarda Bolzano, la città è stata sconvolta da questo omicidio, perché è la tipica città in cui queste cose non succedono, sebbene in passato ci sia stato il famoso caso di Marco Bergamo. E Bolzano ha convissuto per un mese con un assassino libero. Per la città è stata una situazione ansiogena, anche per via delle ricerche dei corpi nell’Adige. Le persone andavano in bici sull’argine, mentre i pompieri, i cani molecolari, gli elicotteri, i droni continuavano le ricerche. Per l’Italia ha significato assistere allo svolgimento di una storia pazzesca, con colpi di scena incalzanti, con molte parti da scoprire”.

Ha dedicato una parte del libro alla vicenda umana di Peter e Laura. Crede che si sia parlato troppo poco delle vittime nella cronaca, approfondimenti a parte?

In generale sì. È uno dei problemi della cronaca: ci si concentra sulle persone che sono vive, che possono parlare. Volevo raccontare la storia di queste due persone, ci tenevo moltissimo. Ho messo più di un anno per guadagnarmi la fiducia delle loro famiglie. Era un mio desiderio che in questo libro ci fosse traccia di Laura e Peter, mi sembrava giusto restituire loro una dimensione umana, raccontare chi erano, cosa che nessuno è riuscito a fare in quei primi mesi del 2021, perché non c’erano le condizioni per farlo, e comunque spesso le vittime restano sullo sfondo di queste storie”.

"Senza via d’uscita", "Bugiardo". Così Benno ha ucciso i genitori. Benno Neumair ha ucciso i genitori Laura Perselli e Peter Neumair: è stato condannato in primo grado all'ergastolo nel novembre 2021. Angela Leucci il 4 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Il 4 gennaio 2021 Laura Perselli e Peter Numair, rispettivamente di 68 e 63 anni, due ex insegnanti in pensione con la passione dello sport all’aria aperta, scomparvero nel nulla. I loro corpi furono restituiti dal fiume Adige nei mesi successivi: erano stati uccisi dal figlio, Benno Neumair, poi condannato in primo grado all’ergastolo.

Il duplice omicidio

Gran parte della dinamica del duplice omicidio di Peter e Laura è stata ricostruita anche grazie alle dichiarazioni del figlio Benno, che dopo aver denunciato la scomparsa dei genitori il 5 gennaio, si è costituito il successivo 28 gennaio - tuttavia gli inquirenti avevano già iniziato a indagare su di lui. Il tutto si è svolto nella villetta di famiglia a Bolzano.

Benno ha raccontato perfino il movente del delitto. “Papà mi rinfacciava che non valessi niente - ha spiegato il giovane nel suo interrogatorio - Era uscito fuori il discorso delle mie responsabilità. Mi sono sentito così alle strette, così senza una via d'uscita. Io mi rifugio in camera e vengo incalzato anche se voglio stare in pace. Volevo solo il silenzio. L'ho zittito, ho preso dalla bacinella di plastica dove ho gli attrezzi la prima corda di arrampicata che ho trovato”.

I coniugi Neumair sarebbero stati infatti strangolati con un cordino da arrampicata: per l’omicidio di Peter è stata riconosciuta a Benno la seminfermità, mentre durante l’omicidio di Laura Benno sarebbe stato “capace di intendere e volere”.

Durante l’interrogatorio, Benno è stato prodigo di dettagli. “Eravamo in corridoio - ha continuato, parlando del parricidio - Siamo cascati insieme per terra, non so se l'ho strozzato da dietro o da davanti. Ricordo solo che ho stretto molto forte. Poi sono rimasto seduto, o sdraiato in corridoio. Ricordo che in quel momento è suonato il mio cellulare, probabilmente ho risposto. Poi ricordo che mi sono di nuovo agitato, sentendo il rumore del cellulare e poi, subito dopo, il rumore del chiavistello. Mi sono mosso verso la porta, è entrata la mamma, avevo ancora il cordino in mano e mi è venuto di fare la stessa roba, senza nemmeno salutarla”.

Durante lo strangolamento, lo smartphone di Laura sarebbe caduto per terra: Benno l’avrebbe preso, insieme con quello del padre, e gettato sull’argine dell’Adige. Rientrando in casa, avrebbe telefonato alla madre, il cui corpo era ancora all’ingresso: il device squillava libero. “Ero contento che il telefono squillasse, perché poteva significare che mi fossi sognato tutto”, ha chiosato Benno.

Il giovane ha poi pulito tutto, chiedendo a una donna conosciuta su Tinder di aiutarlo. Da un’altra invece si sarebbe fatto lavare i vestiti. Successivamente avrebbe trasportato i corpi per gettarli nell’Adige che, come detto, li ha restituiti mesi dopo.

L’unico sospetto

Gli inquirenti hanno seguito una prima pista, immediatamente dopo la denuncia di scomparsa da parte di Benno: messi al corrente che i coniugi svolgessero attività all’aria aperta come trekking e passeggiate in montagna, si sono recati dapprima in un hotel della zona che proprio in quei giorni era stato travolto da una frana. Ma la ricerca si è conclusa in un nulla di fatto.

Scoprendo che gli smartphone dei Neumair erano stati spenti la sera prima della denuncia, hanno iniziato a cercare di capire la posizione di Benno, scoprendo che da poco tempo era tornato a vivere con i genitori, dopo un problema psichiatrico riscontrato in Germania. Così il 10 aprile 2021 Benno è stato rinviato a giudizio con l’accusa di duplice omicidio e occultamento di cadavere.

La “restituzione” dei corpi

Nonostante a fine gennaio 2021 Benno si sia costituito, si è dovuto attendere per eseguire l’autopsia sui corpi, che in quel momento erano mancanti. Laura è stata ritrovata il 5 febbraio, circa un mese dopo la scomparsa, il cadavere di Peter è stato restituito dal fiume il 27 aprile. L’autopsia ha confermato poi la morte per strangolamento.

Madè

C’è una quarta persona in questa vicenda luttuosa, una terza vittima che da quel giorno piange i genitori. Si tratta di Madè Neumair, figlia di Peter e Laura e quindi sorella di Benno. Ed è stata la prima a nutrire sospetti verso il fratello. “Benno ha sempre raccontato bugie, sin da bambino - ha raccontato, come riporta L’Adige - è un tratto del suo carattere. In famiglia lo sapevamo tutti. E purtroppo ho capito che mi stava mentendo anche subito dopo la sparizione dei nostri genitori, il 4 gennaio. Ma lui negava, diceva che non dovevo prendermela con lui, sostenendo che non sapeva cos'era successo ai nostri genitori e che lui non c'entrava nulla”.

Con grande dignità e forza d’animo, Madè, in questi due anni, si è battuta per la verità. “La circostanza più dolorosa e quella con la quale devo fare i conti è sapere come sono morti - ha spiegato in un’intervista a Quarto Grado - Sapere che non è stato un incidente, sapere come hanno passato i loro ultimi minuti di vita, che hanno sofferto tanto, che c’è stata violenza e soprattutto che si sono accorti che è stato Benno a farlo”.

Le bimbe di Benno innamorate che adesso inneggiano al killer

Il processo

Il processo di primo grado è partito il 4 marzo 2022. Spesso Benno si è trincerato dietro al proprio silenzio. “Si nasconde come un codardo - ha commentato Madè in un’intervista al Corriere del Veneto - Io vorrei che non si dimenticasse mai il vero motivo per cui siamo qui in tribunale: l’atroce omicidio di due persone. Lui non parla mai della violenza fatta, della sofferenza causata. Noi non siamo qui per parlare del tipo di educazione impartita dai miei genitori, delle telefonate tra parenti, dei rapporti tra sorelle. No, siamo qui per parlare del fatto che un adulto cosciente ha ucciso i suoi genitori”.

Il processo si è concluso il 19 novembre 2022: la corte d’assise di Bolzano si è pronunciata condannando Benno all’ergastolo. L’accusa aveva chiesto anche un anno di isolamento in carcere, ma sono state concesse per questo le attenuanti generiche. Madè ha commentato in questo modo la condanna a Storie Italiane: “Non è un traguardo, è la fine di un capitolo molto doloroso in quest’ultimo anno. Se qualcuno mi avesse detto prima quanto sarebbe stato doloroso, avrei pensato forse di non farcela. Speriamo che ora arrivi un po’ di pace. Questa pena, la sentenza, la lettura delle motivazioni non ci daranno indietro mamma e papà, ma forse ci ridaranno un po’ di pace”.

Denise Pipitone, la storia della bambina scomparsa. Linda Di Benedetto su Panorama l'1 Settembre 2023.

Diciannove anni fa da Mazara del Vallo spariva la piccola Denise. Da quel giorno ricerche e presunti avvistamenti per una vicenda che tiene l'Italia con il fiato sospeso.

Sono passati 19 anni dalla scomparsa della piccola Denise Pipitone da Mazara del Vallo. Dal 2004 anno in cui la bambina è sparita all'età di 4 anni le ricerche non hanno dato alcun esito che potesse portare alla scoperta di quanto é accaduto il giorno in cui è sparita nel nulla senza lasciare traccia. La madre Piera Maggio non ha mai smesso di cercare la figlia rapita da ignoti fuori la porta di casa. In quei pochi istanti che hanno cambiato la sua vita per sempre nessuno ha visto ne sentito nulla in via Domenico La Bruna nel cuore di Mazara dove Denise ha girato l'angolo senza mai più fare ritorno. La storia di Denise Denise Pipitone è scomparsa il 1 settembre 2004 all'età di 4 anni mentre era in compagnia della nonna materna a Mazara del Vallo in Sicilia. L'ultima volta è stata vista alle 11,45 di quel giorno da una zia mentre era seduta su un marciapiede davanti la porta di casa. In pochi minuti la piccola è sparita dopo aver svoltato l'angolo della strada per rincorrere un cuginetto. Da quel momento in poi di Denise non si avrà più notizia. Denise è nata il 26 ottobre 2000 a Mazara del Vallo (TR) da Piera Maggio e Pietro Pulizzi e riconosciuta da Toni Pipitone. Nel corso degli anni le indagini sono sempre state concentrate in ambito familiare. Tra le ricostruzioni degli inquirenti Denise sarebbe stata rapita dalla sorellastra Jessica Pulizzi in concorso con la madre Anna Corona e l'ex fidanzato Gaspare Ghaleb. Il movente è la gelosia perché Denise e Jessica sono figlie dello stesso padre. Jessica Pulizzi è stata accusata di concorso in sequestro di minorenne e rinviata a giudizio dal Gup di Marsala il 18 gennaio 2010. Il processo di primo grado iniziato il 16 marzo 2010 ed è durato tre anni dove la procura di Marsala ha chiesto la condanna a 15 anni di reclusione per sequestro di minore. Per il Pubblico Ministero la mattina del 1 settembre 2004 Jessica Pulizzi aveva preso Denise e l'aveva condotta a casa del padre Piero Pulizzi, non trovandolo ha consegnato la bambina a terze persone mai identificate. La donna è stata assolta al termine del processo di primo grado dal Tribunale di Marsala nel 2013 per insufficienza di prove confermata in tutti e tre i gradi di giudizio fino al 19 aprile 2017 in via definitiva in Cassazione. In questi giorni è riemersa in tv un'intercettazione che ha avuto molto clamore mediatico di casa Pulizzi usata nel processo di Appello del 2014 di Jessica Pulizzi. Nell'audio si sente Jessica la sorellastra di Denise dire alla sorella minore Alice: "Quanno eramu 'ncasa, a mamma l'ha uccisa a Denise". Alice chiede alla sorella: "A mamma l'ha uccisa a Denise?". E l'altra: "Tu di sti cosi unn'ha parlari" Alice: "E' logico" ma nulla di fatto perché la trascrizione del perito viene contestata durante il processo. Gli avvistamenti Un mese e mezzo dopo la sua scomparsa, il 18 ottobre 2004, una guardia giurata di un istituto di vigilanza di Milano ha filmato un gruppo di nomadi composto da un uomo, due donne e tre bambini. Tra questi c'era una bambina che somigliava a Denise Pipitone. Il vigilante non è riuscito a intrattenere il gruppo che si è allontanato prima dell'arrivo della volante della Polizia. Nel video registrato dalla guardia giurata si sente la donna rom che dice alla bimba "Danàs" e la bimba che risponde "Dove mi porti?". La piccola del video aveva un graffio sotto l'occhio sinistro come quello di Denise quando è sparita da casa e dagli esami svolti dai Ris dei Carabinieri è stata riscontrata un'alta probabilità che potesse essere Denise per i punti in comune tra i due visi. Da quel giorno nonostante le ricerche il gruppo rom è svanito nel nulla. Il 31 marzo di quest'anno un'infermiera russa residente in Italia ha chiamato il programma "Chi L'ha visto?" segnalando una somiglianza tra una ragazza russa e Piera Maggio la mamma di Denise. La ragazza russa si chiama Olesya  Rostova. La scoperta è stato oggetto di due puntate in un programma russo sollevando non poche perplessità sia per la modalità mediatica scelta sia per l'identità della ragazza che non convinceva. Infatti il sangue di Olesya Rostova non è risultato compatibile con quello di Denise. Infine nelle ultime 48 ore i carabinieri di Scalea in Calabria stanno verificando l'identità di una 19enne di origine romena segnalata da un cittadino che ha notata una somiglianza con Denise Pipitone. La ragazza ha già dichiarato di non essere lei e di essere pronta a sottoporsi al Dna. Le nuove indagini La procura di Trapani dopo aver riaperto il caso lo scorso 3 maggio 2021 ha proceduto con i Ris dei Carabinieri e la scientifica alla perquisizione della casa dove viveva Anna Corona. L'intento è stato di verificare se fossero stati svolti dei lavori nuovi nella palazzina che potessero celare un nascondiglio e se nel pozzo di 10 metri nel garage del palazzo ci potesse essere qualcosa. Dopo 7 ore di perquisizione nate dalla segnalazione inquietante di un anonimo che ha riferito di aver sentito dei versi venire da li non è stato trovato nulla. È stato la pressione mediatica che ha ridato vigore alla vicenda. I nuovi particolari emersi sono inquietanti, tra cui la perquisizione della casa sbagliata. Errori macroscopici che hanno mostrato uno scenario diverso e delle défaillance nel condurre le indagini. Noi come città adesso abbiamo una maggiore consapevolezza. Piera Maggio non era stata capita nelle sue esternazioni ma aveva contezza di come era andata. Mazara ha un debito con lei e siamo qui ad appoggiarla fino in fondo in questa nuova stagione nella ricerca di Denise ci spiega Salvatore Quinci il sindaco di Mazara del Vallo

"Lei ci tiene vivi": la ricerca di Denise Pipitone nello sguardo di suo padre. C'è un uomo discreto ma deciso che cerca sua figlia da 19 anni: è Piero Pulizzi, padre di Denise Pipitone, che da sempre affianca Piera Maggio nella sua lotta per la verità. Angela Leucci l'1 Settembre 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Chi è Piero Pulizzi

 La scomparsa di Denise e il processo a Jessica Pulizzi

 La pista rom e il conoscente di Piero Pulizzi

 Una ricerca lunga decenni

Nell’annoso caso della scomparsa di Denise Pipitone, sicuramente il volto della ricerca - della bambina di ieri e della verità - è, nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica, la sua mamma Piera Maggio, accompagnata dall’onnipresente legale di famiglia, l’avvocato Giacomo Frazzitta. Esiste però qualcun altro, rimasto nell'ombra ma con lo stesso desiderio disperato: è Piero Pulizzi, papà della bimba e marito di Piera Maggio.

Chi è Piero Pulizzi

Quelli di Piero Pulizzi sono sicuramente un nome e un volto più “discreti” di questa storia, e sono rare le interviste che l’uomo ha rilasciato nel tempo. Pulizzi in realtà, come la stessa Maggio rimarca più volte nel suo libro “Denise - Per te, con tutte le mie forze” e anche se forse alcuni non lo sanno, è stato sempre al fianco di Piera Maggio: la forza di lei e la forza di lui sono un tutt’uno.

"Vi racconto la mia Denise. Così lotto contro l'oblio"

Piero Pulizzi viene definito solitamente il “padre naturale” di Denise Pipitone, dicitura che deriva dal fatto che la bambina portava il cognome dell’ex marito di Piera Maggio, Toni Pipitone. Pulizzi, all’epoca della nascita della piccola, aveva messo fine alla propria relazione con la prima moglie, Anna Corona, dalla quale sono nate le figlie Jessica e Alice Pulizzi. Questo dettaglio famigliare sarebbe stato al centro dell’interesse degli inquirenti e successivamente in un processo, in cui l’imputata fu appunto Jessica Pulizzi. 

L’1 settembre 2004 era un giorno di mercato a Mazara del Vallo. Denise Pipitone, che avrebbe compiuto 4 anni il successivo 26 ottobre, era a casa della nonna, poiché Piera Maggio era impegnata in un corso di aggiornamento. L’ultima traccia della bambina la porta nei pressi della casa degli zii, al seguito di un cugino più grande che però era rientrato in casa, poi più nulla. Da quel momento un consueto e tranquillo menage famigliare è stato distrutto: la scomparsa della bimba che in un video canta alla sua mamma “Palloncino blu” avrebbe dato vita negli anni a ricerche, ipotesi e talvolta anche presunti tasselli mancanti.

La ricostruzione fondamentale cui a un certo punto sono giunti gli inquirenti è che Denise Pipitone sarebbe stata rapita e portata via attraverso un “passaggio di mani”. Indagata e poi a giudizio per concorso in rapimento fu Jessica Pulizzi, sulla quale pesò il presunto movente della gelosia nei confronti del padre, che aveva lasciato la madre e aveva quindi dato alla luce una figlia con un’altra donna, mentre la posizione di Anna Corona venne archiviata.

All’epoca delle indagini, il rapporto tra Jessica e Piero Pulizzi iniziò a incrinarsi. “Ho sempre cercato di avere una collaborazione con Jessica - ha raccontato l’uomo nel 2008 a Insieme sul Due - per il discorso che si è sempre avvalsa della facoltà di non rispondere, e io quello che le ho sempre chiesto è di dissociarsi dalla facoltà di non rispondere, per andare a trovare la verità”.

Il processo di primo grado ebbe inizio nel 2010, per concludersi nel 2013: Jessica Pulizzi venne assolta per insufficienza di prove, e l’assoluzione fu confermata in appello nel 2015 e in Cassazione nel 2017. Negli ultimi anni si è tuttavia tornati a parlare del caso, non solo per la presunta somiglianza di alcune giovani con Denise Pipitone - uno su tutti il caso della russa Olesya Rostova - ma molti programmi di informazione si sono soffermati su alcuni punti chiave delle indagini: la mancata perquisizione della casa di Anna Corona nell’immediatezza della scomparsa, la ricostruzione della mattina dell’1 settembre 2004 per Jessica Pulizzi e la madre, le intercettazioni a carico delle due donne, la testimonianza dell’epoca dell’anziano audioleso Battista Della Chiave che potrebbe essere stata interpretata in maniera errata al tempo.

La pista rom e il conoscente di Piero Pulizzi

Negli ultimi anni la trasmissione “Chi l’ha visto?” è tornata appunto sulla testimonianza di Della Chiave, oggi defunto, che all’epoca delle prime indagini si spiegò a gesti - non conosceva la Lis - agli inquirenti e a Giacomo Frazzitta in tre diverse circostanze. Il programma condotto da Federica Sciarelli ha elaborato, grazie a un esperto, una ricostruzione interessante sulla testimonianza di Della Chiave, che, esprimendosi a gesti, avrebbe raccontato di aver visto una bambina, di averla nutrita e che poi questa sia stata portata via da tale Beppe, un uomo con i baffi e una zazzera di riccioli, mai identificato. La descrizione dell’anziano collimerebbe con alcuni luoghi effettivamente presenti a Mazara del Vallo. Si risalì a Della Chiave per via di una presunta telefonata partita da un magazzino di via Rieti, in cui l’uomo lavorava, alla volta del telefono di Corona, che però era spento.

Naturalmente non c’è modo oggi, ma solo supposizioni, per capire davvero cosa volesse dire Della Chiave - i suoi parenti hanno tra l’altro sempre parlato di ricordi di gioventù, completamente scollegati dalla scomparsa di Denise Pipitone. Ma tuttavia quella testimonianza avrebbe supportato nel tempo l’ipotesi del “passaggio di mani” della bambina. 

E questo conduce direttamente alla cosiddetta “pista rom”, ovvero l’ipotesi secondo cui la piccola potrebbe essere stata consegnata ad alcuni nomadi. L’indizio più importante in questa pista è legato alla testimonianza di una guardia giurata che lavorava all’ingresso di una banca milanese nell’ottobre 2004: Felice Grieco notò e riprese con un vecchio telefonino una bambina che parlava italiano all’interno di una presunta famiglia nomade. Troppo imbacuccata per essere ottobre, e per di più gli esperti linguisti hanno individuato che la piccola si esprimesse con un’intonazione compatibile con una bambina dell’area del Trapanese. Altre testimonianze, tuttavia mai esaminate a fondo, avrebbero collocato successivamente Denise Pipitone nella Bergamasca, sempre in una famiglia di etnia rom.

A questo si deve aggiungere un dettaglio. Piero Pulizzi, nell’immediatezza della scomparsa di Denise Pipitone, chiese aiuto a un conoscente, un kosovaro di etnia rom ma stanziale, che conosceva, per cercare la figlia. L’uomo ha poi affermato a verbale che dapprima Pulizzi gli avrebbe detto che la bambina era la figlia di un’amica, per poi lasciarsi sfuggire che era anche propria figlia. “Siccome Giacoma (Maggio, sorella di Piera, ndr) - spiegò Pulizzi a verbale - insisteva che io girassi dappertutto e cercassi da chiunque e in particolare mi diceva di cercare dagli zingari, sono andato da uno slavo”.

Una ricerca lunga decenni

“Il mio primo pensiero quando mi sveglio la mattina è poter avere una famiglia felice, avere una vita tranquilla, quella che ci manca da anni a tutti, e di avere Denise a casa. Quello è il primo obiettivo, la prima cosa che viene nella mente: ti addormenti con il pensiero di Denise e ti svegli con il pensiero di Denise. Perché è lei quella che manca di casa, è lei quella che ci tiene vivi sino a oggi per combattere questa battaglia, perché è diventata veramente una battaglia”, sono state le parole di Piero Pulizzi nel 2021 a “Chi l’ha visto?”. L’uomo fa di mestiere il conducente d’autobus: nei suoi tanti spostamenti si augura nuove segnalazioni, chiede di affiggere sulle finestre dei negozi le age progression della figlia, che oggi potrebbe avere poco meno di 23 anni e che lui non ha mai smesso di sperare. Insieme a Piera Maggio, la loro famiglia, e il combattivo avvocato Frazzitta.

Denise Pipitone, com'è andata a finire la storia: "Prelevato il dna". Si riapre la pista rom. Il Tempo il 03 marzo 2023

Com'è andata a finire la storia di Denise Pipitone? Potrebbe essere vicina la svolta sul caso della bambina sparita nel nulla nel 2004 da Mazara del Vallo. A “Quarto Grado“, la trasmissione di Rete4 condotta da Gianluigi Nuzzi, si è tornati a parlare della vicenda venerdì 3 marzo. Nel corso della puntata si è parlato di un nuovo elemento, che potrebbe rappresentare un clamoroso colpo di scena oppure l’ennesimo buco nell’acqua.

Nei giorni scorsi a Roma è stato prelevato un campione di Dna a una ventenne rom di origini bosniache. La ragazza potrebbe forse essere la bambina scomparsa nel nulla diciotto anni fa? Per saperlo bisognerà attendere i risultati del test sul campione prelevato e la comparazione con quello di Denise.

La ragazza, Denisa, ha raccontato il fatto alla troupe di “Quarto Grado”, che l’ha incontrata nei giorni scorsi durante un servizio sulla periferia nord-est di Roma. Una volta in caserma dei carabinieri e le è stato prelevato il Dna da un campione di saliva. Alla 20enne inoltre sarebbe stata mostrata la foto di Piero Pulizzi, il padre di Denise Pipitone, quindi le sarebbe stato chiesto di non lasciare la città.

La giovane ha raccontato di essere cresciuta insieme alla nonna in Bosnia e di essere arrivata in Italia nel 2018. La giovane sarebbe stata nel nostro Paese anche nel 2005, all’età di tre anni.

Denise Pipitone, negativo l'esame del Dna di una ragazza di origini bosniache. Storia di Redazione Tgcom24 il 4 marzo 2023.

Novità sul caso di Denise Pipitone. Il Dna di Denisa Berganovic, la ragazza bosniaca che martedì si è sottoposta al test, non coincide con quello della bambina scomparsa a Mazara del Vallo (Trapani) l'1 settembre 2004 quando aveva 4 anni. 

Gli accertamenti genetici, che hanno dato esito negativo, sono stati disposti dal procuratore di Marsala Fernando Asaro e dal pm Roberto Piscitello. Denisa risulterebbe domiciliata alla periferia di Roma e sarebbe nata il 29 settembre 2002, data che non coincide con quella della nascita di Denise Pipitone avvenuta nel 2000.

Denisa: "So chi sono i miei genitori e sono in Bosnia"  "Sono Denisa sono di Tuzla in Bosnia e il 10 torno lì a trovare mia madre, i miei genitori sono di là, io non sono italiana". Prima ancora che il risultato del Dna fugasse ogni dubbio sulla sua vera identità, Denisa Beganovic spiegava ai giornalisti che non è lei Denise Pipitone e di sapere esattamente chi sono i suoi genitori. "Sono bosniaca, so chi sono mio padre e mia madre, ora parlano di questa storia che dovrei essere un'altra ma è solo una storia". La giovane donna di origine rom bosniaca era stata recentemente contattata da Carabinieri per un prelievo del DNA con l'intento di confrontarlo con quello di Denise Pipitone, la bambina scomparsa a Mazzara del Vallo il primo settembre del 2004. I risultati delle analisi del DNA però hanno già confermato che Denisa non è Denise "Ti posso parlare ma solo a voce perché ho paura di finire in televisione", diceva ai giornalisti prima di andare via col marito, allontandosi dallo stabile dove abita alla periferia di Roma.

Per Procura l'ex pm era in "malafede". “Maria Angioni raccontò frottole sulla scomparsa di Denise Pipitone”, le accuse per l’ex magistrato a processo. Redazione su Il Riformista il 22 Dicembre 2022

Il caso della scomparsa di Denise Pipitone, sparita da Mazara del Vallo il 1 settembre del 2004, negli ultimi mesi è tornato sotto i riflettori per alcune rivelazioni fatte dall’ex pm Maria Angioni che all’epoca seguì le indagini. Oggi si è aperto il processo che vede imputata l’ex pm Angioni, accusata di false informazioni al pubblico ministero. L’ ex giudice, che nei mesi scorsi si è dimessa dalla magistratura, avrebbe mentito alla Procura di Marsala che, proprio dopo le dichiarazioni da lei rese ai media, riaprì le indagini sulla scomparsa di Denise.

Secondo quanto ricostruito all’Ansa, l’ex pm, infatti, in diverse apparizioni tv, aveva denunciato presunti depistaggi dell’inchiesta originaria, per questo venne sentita dai colleghi siciliani. Le rivelazioni da lei confermate nel corso delle sommarie informazioni, però, vennero sistematicamente smentite dagli accertamenti fatti. Da qui l’accusa di false informazioni. Oggi l’udienza è cominciata con il deposito da parte della Procura di Marsala di nuovi documenti il processo, celebrato davanti al giudice monocratico, Giusi Montericcio, che vede imputata l’ex pm Maria Angioni.

Enfatizzate nei media le funzioni svolte all’epoca del sequestro di Denise Pipitone, Maria Angioni ha trovato il modo di essere una parte sempre più importante del nuovo interesse sul caso, apparendo – in un crescendo esponenziale – in moltissime trasmissioni televisive come su diverse piattaforme online. L’ex pm ha assunto ben presto il ruolo di vera e propria star televisiva, la cui presenza, in diretta negli studi o da remoto, veniva contesa dalle decine di trasmissioni che sulle reti pubbliche o private calibravano i loro palinsesti proprio sul sequestro della bambina mazarese. In ciascuna delle innumerevoli ospitate era proprio il magistrato a far assumere alla vicenda i connotati di un giallo, la cui mancata positiva soluzione riferiva essere dipesa da errori, da depistaggi, da interessi particolari di questa o quella consorteria criminale e soprattutto dalla infedeltà dell’organo di Polizia che aveva condotto quelle indagini (senza dire sotto la sua direzione!): il commissariato di Mazara del Vallo”. Prende il via così la requisitoria del pm Roberto Piscitello nel processo all’ex magistrata Maria Angioni.

Il pm ha ricordato la genesi dell’inchiesta che ha portato all’incriminazione di Angioni. Furono le rivelazioni della donna, che aveva indagato per prima sul sequestro di Denise, a far riaprire il caso. Il 10 aprile 2021, a 17 anni dai fatti, la Procura di Marsala ricevette una mail dalla Angioni che annunciava di avere ricevuto le confessioni di una testimone che, nel giorno del sequestro di Denise, aveva visto un uomo, Giuseppe Della Chiave, su uno scooter con la compagna e la bambina che, sempre a dire della teste, sarebbe stata poi portata in un magazzino di Mazara del Vallo. Rivelazioni esplosive che indussero i pm “vista la fonte qualificata da cui proveniva: un magistrato che era stato titolare del fascicolo”, dice Piscitello, a riaprire l’indagine.

Nelle fluviali dichiarazioni che molto generosamente rilasciava nelle sue plurime apparizioni televisive, nei suoi account internet, nei social in cui la sua presenza mai mancava, Angioni gettava più di un’ombra sulle modalità con le quali il commissariato di Mazara del Vallo avrebbe condotto le indagini. Senza mezzi termini lasciava intendere che quelle investigazioni furono segnate dall’assoluta infedeltà della polizia giudiziaria che in qualche caso avrebbe operato delle gravi omissioni, dei favoritismi tutti finalizzati a garantire l’impunità ai colpevoli del sequestro di Denise Pipitone“, ha continuato il pm di Marsala Roberto Piscitello nella requisitoria, come riportato dall’Ansa. Per il pm Angioni non si limitò, però, alle dichiarazioni tv e confermò le sue accuse di depistaggi a verbale davanti ai colleghi di Marsala che a quel punto cercarono riscontri. Dagli accertamenti “è emerso, però, che le sue dichiarazioni erano completamente prive di fondamento – ricorda il pm – facendo tutte riferimento a fatti e mai verificatisi nei termini così perentori in cui li aveva riferiti da testimone“. Iscritta nel registro degli indagati a quel punto l’ex pm venne convocata per rendere interrogatorio. “L’imputata da cui ci si sarebbe allora ragionevolmente atteso una semplice presa d’atto di quanto la procura aveva accertato, con conseguente indolore correzione delle dichiarazioni precedentemente rese – spiega il pm – nel corso dell’interrogatorio ha invece sostanzialmente confermato le frottole raccontate in sede di informazioni, impegnandosi in una estenuante tiritera di ammissioni e smentite non seguite da una presa d’atto chiara ed inequivocabile che ciò che aveva riferito non corrispondeva al vero“.

Secondo la ricostruzione dell’Ansa, Maria Angioni mentì quando disse ai colleghi della Procura di Marsala di aver scoperto ‘non senza sconcerto’ che una telecamera montata nel corso dell’indagine sulla scomparsa della piccola Denise Pipitone fosse stata disattivata dal commissariato di Mazara del Vallo, illegittimamente, a sua insaputa, quindi senza che la Procura della Repubblica lo avesse disposto, danneggiando così l’inchiesta sul sequestro della bambina. Durante la requisitoria il pm Roberto Piscitello smentisce così le rivelazioni dell’ex pm Maria Angioni, originaria titolare del caso Denise, che aveva parlato di depistaggio delle indagini sul rapimento della bambina, sostenendo che una delle telecamere piazzate dagli inquirenti fosse stata smontata illegittimamente dalla polizia. Accuse che costano ora all’ex magistrata l’imputazione di false informazioni al pm. “I documenti prodotti dimostrano esattamente il contrario e cioè che fu proprio la polizia ad avere l’intuizione investigativa di montare la telecamera il 15 novembre del 2004 e Angioni stessa, con un provvedimento a sua firma, ad attivarla e che la cessazione del funzionamento della telecamera venne disposto dalla Procura di Marsala il 3 giugno 2005”, ha spiegato il magistrato.

Maria Angioni, ex pm del caso Denise Pipitone, che ha di fatto accusato la polizia di aver depistato le indagini sul sequestro della bambina scomparsa da Mazara del Vallo, non ha mai tolto le indagini al commissariato di Mazara del Vallo (poi accusato appunto di aver inquinato l’inchiesta), anzi, da titolare del caso coinvolse maggiormente i poliziotti. È questala tesi del pm di Marsala Roberto Piscitello durante la requisitoria. “Angioni, infatti, immediatamente dopo una prima interruzione delle intercettazioni in atto, sottoscrisse, subito, più decreti delegando tutte le operazioni allo stesso commissariato di Mazara del Vallo“, ha fatto notare Piscitello che ha sottolineato che “in un altro momento, prendendosi gioco finanche della Giustizia, Angioni ha goffamente cercato di spostare in avanti il momento in cui ha ostinatamente (e falsamente) ribadito di aver preso la decisione di sottrarre le indagini al commissariato di Mazara”. Il pm ha parlato di “malafede” dell’imputata. “Ci vorrebbe uno psicologo o uno psichiatra…e questa faceva il magistrato”, ha aggiunto.

Intanto Piera Maggio, mamma di Denise Pipitone, dai social porta avanti la sua battaglia affinchè venga stabilita una commissione d’Inchiesta parlamentare per la scomparsa della figlia. “Temo sarà un impresa ardua chiedere che venga istituita una Commissione d’Inchiesat Parlamentare  sul nostro caso in breve tempo dopo il trascorso precedente – scrive Piera Maggio sui social – Vorremmo che ci fossero persone che aldilà del ruolo che svolgono, fossero predisposti e sensibili anche al caso Denise, tanto da riconoscerlo meritevole di ulteriori attenzioni dopo un trascorso di diciotto anni di calvario. Non accusiamo nessuno ma vorremmo che ci fosse un attenta verifica e valutazione di tutto il percorso indagine-giudiziario. Non vogliamo ombre, ambiguità. Vogliamo chiarezza e verità!”.