Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA GIUSTIZIA

QUARTA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli incapaci.

Parliamo di Bibbiano.

Scomparsi.

Nelle more del divorzio.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.

Giustizia ingiusta.

L’Istituto dell’Insabbiamento.

L’UPP: l’Ufficio per il Processo.

Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.

Le indagini investigative difensive.

I Criminologi.

I Verbali riassuntivi.

Le False Confessioni estorte.

Il Patteggiamento.

La Prescrizione.

I Passacarte.

Figli di “Trojan”.

Le Mie Prigioni.

Il 41 bis.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione.

Riservatezza e fughe di notizie.

Il tribunale dei media.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.

Piccoli casi d’Ingiustizia.

Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.

Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.

Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.

Casi d’ingiustizia: Paola Navone.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro.

Toghe Politiche.

Magistratopoli.

Palamaragate.

Gli Impuniti.


 

INDICE SESTA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Marta Russo.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.

Il caso di Gianfranco Stevanin. 

Il caso di Annamaria Franzoni 

Il caso Bebawi. 

Il delitto di Garlasco

Il Caso di Pietro Maso.

Il mistero di Melania Rea.

Il mistero Caprotti.

Il caso della strage di Novi Ligure.

Il caso di Donato «Denis» Bergamini.

Il caso Serena Mollicone.

Il Caso Unabomber.

Il caso Pantani.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Simonetta Cesaroni.

Il caso della strage di Erba.

Il caso di Laura Ziliani.

Il caso Benno Neumair.

Il Caso di Denise Pipitone.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il caso della saponificatrice di Correggio.

Il caso di Augusto De Megni.

Il mistero di Isabella Noventa.

Il caso di Pier Paolo Minguzzi.

Il Caso di Daniel Radosavljevic.

Il mistero di Maria Cristina Janssen.

Il Caso di Sana Cheema.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il caso di Antonella Falcidia.

Il caso di Alessandra Matteuzzi.

Il caso di Andrea Mirabile.

Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.

Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Giulio Giaccio.

Il mistero di Maria Basso.

Il mistero di Polina Kochelenko.

Il mistero di Alice Neri.

Il mistero di Augusta e Carmela.

Il mistero di Elena e Luana.

Il mistero di Yana Malayko.

Il caso di Luigia Borrelli.

Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.

Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il mistero di Davide Piampiano.

Il mistero di Volpe 132.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Teodosio Losito.

Il mistero di Michelle Baldassarre.

Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.

Il Caso Gucci.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il caso di Elena Ceste.

Il caso di Libero De Rienzo.

La storia di Livio Giordano.

Il Caso di Alice Schembri.

Il caso di Rosa Alfieri.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Luca Delfino.

Il caso di Donato Bilancia.

Il caso di Michele Profeta.

Il caso di Roberto Succo.

Il caso di Pamela Mastropietro.

Il caso di Luca Attanasio.

Il giallo di Ciccio e Tore.

Il giallo di Natale Naser Bathijari.

Il giallo di Francesco Vitale.

Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.

Il caso di Luca Varani.

Il caso Panzeri.

Il mistero di Stefano Gonella.

Il caso di Tiziana Cantone.

Il mistero di Gilda Ammendola.

Il caso di Enrico Zenatti.

Il mistero di Simona Pozzi.

Il caso di Paolo Calissano.

Il caso di Michele Coscia.

Il caso di Ponticelli.

Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.

Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.

Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.

Il mistero di Marcello Vinci.

Il mistero di Ivan Ciullo.

Il mistero di Francesco D'Alessio.

Il caso di Davide Cesare «Dax».

Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.

Il caso Shalabayeva.

Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.

Il Caso di Massimo Bochicchio.

Il giallo di Grazia Prisco.

Il caso di Diletta Miatello.

Il Caso Percoco.

Il Caso di Ferdinando Carretta.

Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.

Il Milena Quaglini.

Il giallo di Lorenzo Pucillo.

Il Giallo di Vincenzo Scupola.

Il caso di Vincenzo Mosa.

Il Caso di Alessandro Leon Asoli.

Il caso di Santa Scorese.

Il mistero di Greta Spreafico.

Il Caso di Stefano Dal Corso.

Il mistero di Rkia Hannaoui.

Il mistero di Stefania Rota.

Il Mistero di Andrea La Rosa.

Il Caso Valentina Tarallo.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

Il caso di Terry Broome.

Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.

Il Mistero di Giada Calanchini.

Il Caso di Cinzia Santulli.

Il Mistero di Marzia Capezzuti.

Il Mistero di Davide Calvia.

Il caso di Manuel De Palo.

Il caso di Michele Bonetto.  

Il mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero del Cinema Eros.

Il mistero di Sissy Trovato Mazza.

I delitti di Alleghe.

Il massacro del Circeo.

Il mistero del mostro di Bargagli.

Il mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso di Alberica Filo della Torre.

Il mistero di Marco Sconforti.

Il mistero di Giulia Tramontano.

Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.

Il mistero di Maria Donata e Antonio. 

Il caso di Sibora Gagani.

Il mistero di Franca Demichela.

Il mistero di Stefano Masala.

Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.

Il caso di Emanuele Scieri.

Il caso di Carol Maltesi.


 

INDICE OTTAVA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero di Pierina Paganelli.

L’omicidio Donegani.

Il mistero di Mario Bozzoli.

Il mistero di Fabio Friggi.

Il giallo della morte di Patrizia Nettis.

La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.

La vicenda di Elisa Claps.

Il mistero delle Stragi.

Il Mistero di Ustica.

Il caso di Piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il mistero Mattei.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I nomi dimenticati.
 


 

LA GIUSTIZIA

QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Tutti.

L’UE.

Berlusconi.

La destra.

Travaglio ed i 5 stelle.

La sinistra.

Tutti.

Antonio Giangrande: Gli impresentabili e la deriva forcaiola.

Ognuno di noi, italiani, siamo quello che altri hanno voluto che diventassimo. In famiglia, a scuola, in chiesa, sui media, ci hanno deturpato l’anima e la mente, inquinando la nostra conoscenza. Noi non sappiamo, ma crediamo di sapere…

La legalità è il comportamento conforme al dettato delle centinaia di migliaia di leggi…sempre che esse siano conosciute e che ci sia qualcuno, in ogni momento, che ce li faccia rispettare!

L’onestà è il riuscire a rimanere fuori dalle beghe giudiziarie…quando si ha la fortuna di farla franca o si ha il potere dell'impunità o dell'immunità che impedisce il fatto di non rimaner invischiato in indagini farlocche, anche da innocente.

Parlare di legalità o definirsi onesto non è e non può essere peculiarità di chi è di sinistra o di chi ha vinto un concorso truccato, né di chi si ritiene di essere un cittadino da 5 stelle, pur essendo un cittadino da 5 stalle.

Questo perché: chi si loda, si sbroda!

Le liste di proscrizione sono i tentativi di eliminare gli avversari politici, tramite la gogna mediatica, appellandosi all'arma della legalità e della onestà. Arma brandita da mani improprie. Ed in Italia tutte le mani sono improprie, per il sol fatto di essere italiani.

Ci sono delle regole stabilite dalla legge che definiscono i criteri che vietano eleggibilità e candidabilità. Se un cittadino regolarmente iscritto alle liste elettorali non si trova in nessuna di queste condizioni si può candidare. Punto.

"Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale". (art. 49 della costituzione italiana). Alle amministrative del 31 maggio 2015 gli elettori saranno aiutati dalla commissione parlamentare antimafia che ha presentato una lista di impresentabili, spiega Piero Sansonetti. Cioè un elenco di candidati che pur in possesso di tutti i diritti civili e politici, e quindi legittimati a presentarsi alle elezioni, sono giudicate moralmente non adatte dai saggi guidati da Rosy Bindi. Le liste di proscrizione furono inventate a Roma, un’ottantina di anni prima di Cristo dal dittatore Silla, che in questo modo ottenne l’esilio di tutti i suoi avversari politici. L’esperimento venne ripetuto con successo 40 anni dopo da Antonio e Ottaviano, dopo la morte di Cesare, e quella volta tra i proscritti ci fu anche Cicerone. Che fu torturato e decapitato. Stavolta per fortuna la proscrizione sarà realizzata senza violenze, e questo, bisogna dirlo, è un grosso passo avanti. La commissione naturalmente non ha il potere – se Dio vuole – di cancellare i candidati, visto che i candidati sono legalmente inattaccabili. Si limita a una sorta di blando pubblico linciaggio. Un appello ai cittadini: «Non votate questi farabutti».

Ed i primi nomi spifferati ai giornali sono pugliesi.

Ma chi sono i 4 candidati impresentabili pugliesi, quelli che, in base al codice etico dei loro partiti o dei partiti al cui candidato sono collegati non avrebbero potuto presentare la loro candidatura?

Attenzione! Siamo di fronte al diritto di tutti i candidati ad essere considerati persone perbene fino all’ultimo grado di giudizio.

Uno di loro è semplicemente indagato, gli altri sono stati assolti dalle accuse in primo grado, anche se i pm poi hanno fatto ricorso. Nessuno di loro è incandidabile, secondo la legge Severino, e tutti e quattro fossero votati potrebbero fare i consiglieri regionali.

Il primo è l’imprenditore Fabio Ladisa della lista «Popolari con Emiliano» che appoggia il candidato del Pd ed ex sindaco di Bari, Michele Emiliano. La Commissione precisa che «è stato rinviato a giudizio per furto aggravato, tentata estorsione (e altro), commessi nel 2011, con udienza fissata per il 3.12.2015». Imputato, non condannato.

Con Schittulli c'è Enzo Palmisano, medico, accusato per voto di scambio (anche se poi il procedimento era andato prescritto). Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

Con Schittulli c'è Massimiliano Oggiano, commercialista, della lista «Oltre» (per lui accuse attinenti al 416 bis e al voto di scambio con metodo mafioso, è stato assolto in primo grado e pende appello, la cui udienza è fissata per il 3 giugno 2015). Assolto, quindi innocente.

Giovanni Copertino, ufficiale del corpo Forestale in congedo, accusato di voto di scambio (anche se poi era stato tutto prescritto, contro tale sentenza pende la fase di appello ), consigliere regionale Udc è in lista invece con Poli-Bortone. Prescrizione non vuol dire condanna, ma scelta legittima di economia processuale.

C’è un solo caso davvero incomprensibile: quello del candidato Pd alla presidenza della Regione Campania, Vincenzo De Luca. Per legge non potrà fare né il consigliere regionale, né il presidente della Regione Campania. Se venisse eletto il giorno dopo non potrebbe nemmeno mettere piede in consiglio regionale. Vittima, anch'egli di una legge sclerotica voluta dai manettari. Legge che ha colpito proprio loro, i forcaioli, appunto Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, e Luigi De Magistris, sindaco di Napoli e già dell’IDV di Antonio Di Pietro. Sospesi per legge, ma coperti temporaneamente dal Tar. Tar sfiduciato dalla Cassazione che riconosce il potere al Tribunale.

Con le liste di proscrizione si ha un regolamento politico di conti che nulla ha a che vedere con la legalità, spiega Mattia su “Butta”. La legalità la stabilisce la legge, non Rosy Bindi. Se la legge vigente non piace, liberissimi in Parlamento di modificarla affrontando l’opinione pubblica. Ma non è giusto mettere un timbro istituzionale su una cosa illegale come quella che sta facendo oggi la commissione antimafia. Illegale perchè va contro ed oltre la legge vigente, e non può farlo una istituzione. Non una istituzione, che per altro si è ben guardata dall’inserire nell’elencone degli impresentabili qualcuno macchiato del reato tipico dei consiglieri regionali: il peculato, la truffa sui contributi ai gruppi consiliari. L’avessero fatto, non ci sarebbero state elezioni...

Un privato cittadino può anche dire in giro che Tizio o Caio sono impresentabili perché X, ma rimane un suo giudizio personale. Già di suo è un giudizio scorretto: al massimo puoi dire che Tizio non deve essere eletto, non che è impresentabile. Puoi cioè invitare la gente a non votarlo (così come fai con tutti i candidati che non ti garbano) ma non è corretto dire che non dovrebbe essere nemmeno presentato. Può presentarsi eccome: in democrazia non c’è nessuno che è meno degno di presentarsi.

Forse non si percepisce la gravità di questo precedente. Il fatto che un pezzo di parlamento, ossia una istituzione che avrebbe ben altro da fare, come cercare la mafia nell’antimafia, si arroghi il diritto di indicare alla popolazione chi è degno di essere eletto e chi no in base ai propri gusti e non a una legge dello Stato è aberrante. Uscire l’ultimo giorno di campagna elettorale ad additare, con la forza di una istituzione, un tizio gridando “vergogna! è un X! non votatelo” senza dare al tizio la possibilità di difendersi allo stesso livello è preoccupante. Il metodo Boffo delle elezioni.

In questo modo avremo come impresentabili tutti quelli indicati da Filippo Facci.

1) Quelli condannati in giudicato;

2) No, quelli condannati in Appello;

3) No, quelli condannati in primo grado;

4) Basta che siano rinviati a giudizio;

5) Basta che siano indagati;

6) Sono impresentabili anche gli assolti per prescrizione;

7) Anche gli assolti e basta, ma "coinvolti" (segue stralcio di una sentenza);

Sono quelli che sarebbero anche gigli di campo, ma sono amici-parenti-sodali di un impresentabile;

9) Sono quelli che, in mancanza d'altro, sono nominati in un'intercettazione anche se priva di rilevanza penale;

10) gli impresentabili sono quelli che i probiviri del partito e lo statuto del partito e il codice etico del partito e il comitato dei garanti (del partito) fanno risultare impresentabili, cioè che non piacciono al segretario;

11) Sono quelli a cui allude vagamente Saviano;

12) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - che i giornali definiscono "nostalgici del Duce, professionisti del voto di scambio in odore di camorra";

13) Sono quelli - sempre innominati, sempre generici - di cui parlano anche il commissario Cantone e la senatrice Capacchione, e ne parlano pure i candidati che invece si giudicano presentabili, i quali dicono di non votare gli impresentabili;

14) Gli impresentabili sono quelli menzionati da qualche giornale, che però sono diversi da quelli nominati da altri giornali;

15) Sono i voltagabbana;

16) Gli impresentabili sono quelli che sono impresentabili: secondo me.

E così sia.

I due giustizialismi. La politica italiana è sottomessa ai Pm, la riforma della giustizia è impossibile. La destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. La sinistra vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti: ne avete visto qualcuno in giro? Piero Sansonetti su L'Unità il 29 Novembre 2023

Il ministro Crosetto ha sollevato un problema serio. Quello dell’uso della giustizia a fini politici da parte di settori molto potenti della magistratura. Si è aperta una polemica, naturalmente, per la semplice ragione che la magistratura – e specialmente la magistratura associata – gode di un forte sostegno di settori importanti della stampa, e con facilità stronca qualunque attacco mediatico.

Mi pare che Crosetto sia stato messo all’angolo anche dai suoi, che si sono fatti impaurire dai giornali. Quasi nessuno, però, immagina che Crosetto abbia “inventato”. È molto, molto probabile che Crosetto abbia detto esattamente la verità. Qual è il problema?

La politica italiana è bloccata da due opposti giustizialismi, che si combattono tra loro, ma alla fine entrambi operano a difesa dalla magistratura e determinano in questo modo la sottomissione della politica all’Anm (cioè all’associazione dei magistrati) e il dominio della magistratura sulla società e sulle classi dirigenti. Torno tra qualche riga sull’Anm, prima vorrei spiegare cosa sono i due giustizialismi.

C’è quello cosiddetto di sinistra, che è vicino alle correnti di sinistra delle Procure – sostenuto dai tre giornali con un maggior grado di dipendenza dalle Procure: Il Fatto, Repubblica e Il Domani – e che di solito usa l’arma giudiziaria per indebolire lo schieramento politico di destra e le classi dirigenti dell’economia e della finanza.

Poi c’è il giustizialismo di destra, non meno esteso, che chiede manette e ferocia verso le classi più deboli, soprattutto verso il sottoproletariato e il popolo degli immigrati. Ma anche verso i giovani, soprattutto se politicamente impegnati.

Tra questi due giustizialismi c’è una differenza. Il giustizialismo di destra è sempre molto attivo nella difesa delle classi dirigenti. Cioè è attivo nel campo garantista quando la magistratura picchia in alto. E si esprime in forme giustizialiste solo quando picchia in basso.

Il giustizialismo di sinistra invece è molto attivo nel sostenere l’attacco della magistratura (delle Procure) verso la politica, soprattutto di destra, ma non si scalda a difesa dei più deboli. Cioè difetta molto nella fase garantista. Specie quando è al governo.

Per spiegarci basta fare due esempi: il comportamento repressivo dei governi di sinistra verso i migranti (nel gergo politico si chiama “minnitismo” e non è molto meno duro del “salvinismo“), e la sostanziale indifferenza verso altre operazioni giustizialiste dei governi di destra.

Non c’è stata una rivolta di sinistra, negli ultimi mesi, per le norme incostituzionali contro i migranti, o contro le Ong. E nemmeno, recentemente (escluse poche eccezioni tra le quali quella dell’ex parlamentare Paolo Siani), quando il governo ha approvato un decreto che obbliga i magistrati a mandare in cella i neonati, insieme alle loro madri, in caso di recidiva (cioè: di sospetto di recidiva).

C’è stata la rivolta invece – a difesa della magistratura – quando Crosetto ha accusato una corrente di sinistra della magistratura. La fotografia che ne esce è questa: spallucce per un neonato in carcere, scandalo per Crosetto.

La ragione per la quale la destra passa per garantista e la sinistra no, sta esattamente nelle cose che ho scritto. La destra ha un suo “angolo” garantista, e si infiamma quando viene colpita. La sinistra non si infiamma mai.

I due giustizialismi sembrano contrapposti e nemici. In realtà sono affiancati e oggettivamente alleati. La forza della magistratura associata sta tutta lì. La magistratura associata sa giocare benissimo con questi due giustizialismi, li sa far funzionare, rendere complementari e li sa mettere in sinergia.

In questo modo ha costruito un muro invalicabile che perpetua il suo potere e le sue capacità di interdizione che annulla qualunque tentativo vero di riforma della giustizia. Protagonista assoluto di questo continuo manovrare dei rappresentanti delle Procure, che assicurano l’immobilità dei governi – e l’immediata caduta dei ministri della Giustizia che provano ad avviare delle riforme – è l’Anm, l’associazione dei magistrati.

Organismo potentissimo, poco conosciuto nell’opinione pubblica (lavora benissimo nell’ombra, adoperando a suo favore l’esposizione mediatica solo di alcuni dei suoi membri) e probabilmente assolutamente illegale. La Costituzione sostiene che il giudice deve essere indipendente, autonomo e deve rispondere solo alla legge.

Non si sa se la Costituzione si riferisse solo al giudice o anche al ben più potente Pm. I magistrati però hanno sempre sostenuto che l’autonomia riguarda anche il Pm, e che è sacra. Può un giudice essere autonomo e rispondere solo alla legge, se fa parte di una corrente politica della magistratura, e di un’associazione, assolutamente politica, come è l’Anm? E così facendo, che garanzie offre ai cittadini, agli indiziati, agli imputati?

Naturalmente nessuna, anche perché è proprio il magistrato a tradire sistematicamente, in questo modo, lo spirito costituzionale. L’unica speranza per l’imputato è che il giudice non sia della stessa corrente del Pm. E quindi? Quindi non è possibile nessun ottimismo. La magistratura ha ancora largamente in mano il timone. Comanda. Decide.

Condiziona la politica ed esercita un potere spropositato di sopraffazione nei confronti dei media e dei singoli cittadini. Anche per noi giornalisti, mettersi contro la magistratura, anche solo criticare, è una cosa spericolata: ci espone a un rischio enorme. Anche perché, di solito, le nostre organizzazioni di categoria ci difendono sempre se siamo attaccati dai politici, mai e poi mai se siamo attaccati, con vere e proprie intimidazioni, da parte dei magistrati.

C’è la speranza che i due giustizialismi si sciolgano? No. Perché la destra cavalca un giustizialismo che produce moltissimi voti. Che le permette di impadronirsi della pancia del paese. La sinistra, che oggi è molto debole, vede nell’alleanza con la magistratura l’unica possibilità di resistere e di sferrare dei colpi. Occorrerebbero degli statisti per rompere questo circolo vizioso. Appunto: degli statisti. Ne avete visto qualcuno in giro? Piero Sansonetti 29 Novembre 2023

Tribunali popolari. Un paese intimamente giustizialista, salvo poche coraggiose eccezioni. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 14 Luglio 2023

I giudici che hanno cancellato l’ergastolo per gli assassini di Willy Duarte sono l’eccezione alla regola, mentre le scelte del ministro Nordio sono tutto tranne che garantiste e rispettose dello stato di diritto

Dei giudici a Roma hanno cancellato con un tratto di penna l’ergastolo a due “mostri” ritenuti colpevoli di uno degli omicidi che più avevano indignato la pubblica opinione negli ultimi tempi, quello del giovanissimo Willy Duarte.

Lo hanno fatto presumibilmente perché, avendo ascoltato le ragioni bene esposte dai difensori, hanno ritenuto che non c’era la certezza che fossero stati i biechi imputati “gemelli” a sferrare il colpo mortale che ha ucciso il povero Willy, ragazzo mite che si affacciava alla vita, ma che debbano comunque rispondere insieme agli altri due complici condannati a pene minori della rissa da loro scatenata e costata una vita umana.

Lo hanno fatto mettendo in conto la reazione sdegnata dei vari tribunali popolari. E qualcuno di loro lo ha fatto soffocando il proprio cuore straziato per il dolore personale e inconsolabile che lo accomuna alla madre del povero Willy: se dovessi dire cos’è un giudice, nella migliore accezione, non avrei esempio migliore. Un giudice e basta.

Quei giudici hanno applicato la legge e i principi costituzionali che richiedono pene proporzionate che non debbano precludere la speranza dei colpevoli di potersi riscattare.

E che la loro decisione sia stata rispettata dalla madre della vittima con parole nobili e dignitose, senza escandescenze a favore di qualche giustiziere televisivo, fa sperare che non tutto sia perduto in questo Paese.

È successo nello stesso palazzo giudiziario dove, qualche giorno prima, un altro giudice – ignoto ai più – ha respinto una richiesta di archiviazione formulata dai suoi autorevolissimi colleghi della procura – il capo e l’aggiunto – in favore del potente sottosegretario del ministro di Giustizia.

Per intenderci l’insigne «liberale» Carlo Nordio che aveva messo sotto inchiesta altri magistrati colpevoli di non aver tenuto in galera una presunta spia russa poi dileguatisi. Senza che ci sia stato uno straccio di camera penale, un Nicola Porro o un Riformista – inteso come il giornale – a protestare: macché.

In questo caso la gip di Roma ha ritenuto di non condividere l’originale e inedita tesi dei procuratori secondo cui Andrea Delmastro, autorevole avvocato e coltissimo giurista, non avesse capito che il contenuto di una informativa di polizia su detenuti in regime di massima sicurezza fosse notizia da non divulgare in giro.

Una tesi così originale, cui non aveva pensato neanche il difensore del politico che più sobriamente si era limitato a sostenere che non vi fosse sull’atto il vincolo del segreto d’ufficio e che, comunque, la condotta dell’indagato rientrasse nell’ambito delle sue insindacabili prerogative parlamentari.

La vicenda Delmastro ha costituito il pretesto per un duro attacco che il governo – e in particolare la presidente Meloni – ha sferrato a una “certa” magistratura accusata di voler svolgere una impropria forma di opposizione.

Le accuse di Meloni troveranno vasta eco e appoggio in una informazione ormai non più servile alla magistratura come ai tempi di Mani Pulite.

Allora a protestare erano i quattro gatti del Foglio di Giuliano Ferrara e del Sabato di Paolo Liguori. Ricordo un giovane cronista, Mattia Feltri, capace di criticare con coraggio, il quale oggi, ironia della sorte, vienr impalato dai soliti incartapecoriti del politicamente corretto per aver difeso un suo collega dai modi e dalle idee scriteriati (e guarda caso anche lui ai tempi una delle poche voci coraggiose contro le manette facili).

Oggi, diciamo la verità, criticare i pm e giudici non costa nulla: è uno sport diffuso in un Paese che ipocritamente piange Enzo Tortora e continua a sbattere mostri e conversazioni private (comprese quelle delle vittime) in prima pagina.

Ecco, non vorremmo che a causa di questa ritrovata e assai poco eroica libertà si trascurasse la posta in gioco che si cela dietro l’offensiva sferrata dalla destra e da qualche garantista d’accatto nel nome dei propri interessi o di quelli del datore di lavoro: la tenuta dello Stato di diritto.

Uno dei massimi giuristi viventi, Massimo Donini, garantista a ventiquattro carati e avvocato egli stesso, in una quarantina di pagine fitte su Sistema Penale ha spiegato ai pasdaran di Nordio i pericoli per la democrazia legati alla sparizione del reato di abuso ufficio, cardine della riforma giudiziaria propugnata dal guardasigilli e al vaglio – preoccupato – del presidente Sergio Mattarella.

Scrive che «una abrogazione integrale della fattispecie rischia di trasformarsi in una scelta autoritaria, che privilegia e protegge la pubblica amministrazione che con atti arbitrari prevarica i privati mediante un abuso di pubblici poteri».

Chi potrebbe negare che sia altrettanto e forse più grave di un’ingiusta condanna di un sindaco il sopruso ai danni di un cittadino cui venga di prepotenza negato un diritto sacrosanto? Non è garantismo allo stesso modo la tutela di chi viene angariato con condanne ingiuste ma anche con una delibera che gli nega dolosamente la libertà di lavorare? E se il criterio per una abrogazione debba essere la percentuale di assoluzioni, allora perché non chiedere la soppressione del codice penale visto che le sentenze liberatorie sono oltre il cinquanta per cento?

Come ci si può lamentare dell’inefficienza della pubblica amministrazione e nello stesso tempo renderla immune dal controllo di legalità? E si badi bene che il discorso vale per i magistrati stessi.

Abbiamo in visto in Polonia, Ungheria e Israele lo stesso canovaccio: l’attacco populista allo Stato di diritto per evitare ogni controllo e argine al potere esecutivo, magari mascherato dall’invocazione dell’autonomia della politica. In Israele, Paese di salde tradizioni liberali, la popolazione è scesa in piazza.

Certo che il Fascismo non si ripeterà: basta capire se siamo pronti ad accettare una forma di democrazia autoritaria di tipo nuovo è già all’opera in est Europa e con buone possibilità di allargarsi altrove.

Di volenterosi carnefici della democrazia, animati magari da pura vanità, è piena la drammatica storia del secolo scorso, vediamo di non ripeterla anche sotto forma di tragica farsa con le sue macchiette.

 41 bis: l'esercito feroce dei suoi fan. Vince l’asse tra Travaglio e Donzelli: a proteggerlo Nordio e il Pd. Piero Sansonetti su Il Riformista il 3 Febbraio 2023

I sondaggi dicono che il 53 per cento della popolazione americana è favorevole alla pena di morte. Nel Parlamento italiano la percentuale favorevole al carcere duro, al 41 bis, oscilla tra il 99,44 e il 99,70 per cento. Contro il 41 bis, nel dibattito parlamentare, è intervenuto solo il deputato radicale Riccardo Magi che si suppone parlasse anche a nome del suo collega Benedetto Della Vedova. Due su 600. Forse c’è da aggiungere il deputato di Italia Viva Roberto Giachetti, che – conoscendolo – possiamo immaginare che sia in dissenso con il suo gruppo, ma aspettiamo che lo dichiari, e Andrea Orlando, del Pd, unica voce critica a sinistra.

Sono cifre che fanno venire i brividi. Il 41 bis molto spesso è un trattamento persino peggiore alla pena di morte. Ha in sé una quantità più alta di evidente sadismo. Come ha raccontato ieri, in un articolo struggente che abbiamo pubblicato sul Riformista, Carmelo Gallico, fratello di un condannato morto la settimana scorsa di fibroma polmonare senza aver potuto mai nemmeno toccare la mano di sua moglie per 30 anni. E senza poter leggere i libri che voleva, e senza giornali, e senza Tv, e senza quadri o fotografie alle pareti della sua cella minuscola e singola, e senza potersi cucinare i pasti, e con l’ora d’aria in un corridoio senza tetto, e potendo parlare al telefono con i parenti una volta alla settimana per dieci minuti, e senza nessun contatto con l’umanità, a parte i secondini.

Sono 738 in Italia le persone sottoposte a questa tortura. Sebbene esista una legge che proibisce la tortura, e la punisce. E sebbene esista una Costituzione (come spiega bene il professor Salvatore Curreri), scritta da persone che il carcere lo hanno conosciuto, la quale proibisce il 41 bis, così come proibisce l’ergastolo. Il Parlamento italiano, guidato culturalmente dalla nuova intellighenzia (realizzata sull’asse tra il deputato di FdI Giovanni Donzelli e Marco Travaglio), si è collocato su una posizione molto più reazionaria di quella della maggioranza degli americani, visto che gli americani – che noi sempre indichiamo come giustizialisti – sono per quasi la metà contrari alla pena di morte e all’uso della crudeltà come strumento per regolare la convivenza civile.

Alle spalle di questo fronte saldo Fatto-FdI, che si ispira a varie forme di totalitarismo palingenetico, c’è un’ampia schiera di don Abbondio. Senza i quali Travaglio e Donzelli non trionferebbero. I Donabbondi sono guidati dal ministro Nordio e dal Pd. I quali si rendono conto forse della vergogna del 41 bis, ma non hanno il coraggio di dire no. Tremano. L’unico del Pd al quale ho sentito dire un no, forse flebile ma netto, è stato – come dicevo – l’ex ministro Andrea Orlando. Spesso l’ho criticato, in passato. Oggi rendo onore al suo isolatissimo coraggio.

P.S. 1 Il Fatto Quotidiano ieri ha pubblicato in prima pagina una foto di Cospito che proiettava sul muro anziché la sua ombra, l’ombra di tre mafiosi con la coppola. E un titolo nel quale si accusava il Pd di aver parlato coi mafiosi su indicazione di Cospito. Ripreso con entusiasmo sul sito di Andrea Delmastro (sottosegretario alla giustizia di Fdi). C’è da avere nostalgia di quando i fascisti li guidava Almirante…

P.S. 2 Spetta al Gom (il reparto di azione della polizia carceraria) decidere chi debba incontrare all’ora d’aria o in corridoio un detenuto al 41 bis. Non è il detenuto che sceglie. Quindi sono i Gom ad avere organizzato l’incontro tra Cospito e alcuni detenuti accusati di essere mafiosi. La delega a controllare i Gom, al ministero, appartiene al sottosegretario Delmastro. Volete che commenti? Ma per carità: commentate voi.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L’UE.

Le “presunzioni” Ue: prima d’innocenza, poi di colpevolezza...L’assurdo voltafaccia europeo, che rinnega la direttiva garantista con quella proposta ora, che punta a disciplinare la “lotta alla corruzione”. Errico Novi su Il Dubbio il 20 luglio 2023

Novembre 2020: l’ostinazione di un deputato con una singolare, forse unica, attenzione ai temi della giustizia, Enrico Costa, costringe l’allora maggioranza giallorossa a occuparsi di un dossier fino ad allora misconosciuto, di più, ignorato: la direttiva europea sulla presunzione d’innocenza.

I 5 Stelle del premier Giuseppe Conte e del guardasigilli Alfonso Bonafede rispondono picche: il principio, dicono, è già sancito in Costituzione, quindi la disciplina europea può essere recepita seccamente, non c’è bisogno di introdurre puntualizzazioni nella legislazione italiana. Invece un anno dopo, a premier (Mario Draghi) e guardasigilli (Marta Cartabia) mutati, la direttiva Ue 343 sulla presunzione d’innocenza entra nel nostro ordinamento penale, con modifiche stringenti che cambieranno per sempre il rapporto fra magistratura e comunicazione. Tutto è bene quel che finisce bene, seppur con solenne ritardo: la disciplina garantista era stata emanata dall’Europa ben 5 anni prima, nel 2016. Nel Paese dell’ossequio alle Procure debordanti nessun partito o parlamentare, prima di Costa, si era preoccupato di prenderla in considerazione.

Cambio inquadratura. Siamo nel 2023, a sette anni di distanza dall’emanazione della direttiva garantista. Ce n’è una nuova, non ancora varata dalla Commissione di Bruxelles ma elaborata e sottoposta agli Stati membri da Parlamento di Strasburgo e Consiglio europeo. È una “proposta di direttiva” che punta a disciplinare la “lotta alla corruzione”.

 Contiene sollecitazioni ai Ventisette affinché introducano nei loro ordinamenti penali nuove fattispecie di reato sul malffare, ivi compreso l’abuso d’ufficio in via d’abrogazione dalle nostre parti. Non solo. Dopo fiumi di pronunce della Corte dei diritti dell’uomo con cui per decenni i singoli Paesi, e l’Italia per prima, sono stati sanzionati per l’eccessiva durata dei processi; dopo che l’erogazione dei fondi per il Pnrr è stata subordinata a riforme, poi realizzate da Cartabia, che riducessero il “disposition time”, nientedimeno la nuova “bozza di direttiva europea” dispone che, per certi reati, sempre di corruzione, la prescrizione si allunghi.

È finita qui? Macché. Tra i tanti input ultrarestrittivi che improvvisamente l’Europa sente il bisogno di trasmettere ai singoli governi c’è persino una simil-legge Severino, peggiore e più contraria allo Stato di diritto, e alla presunzione d’innocenza, di quanto non sia la Severino vera, la nostra: si prevede l’incandidabilità non solo per i condannati ma anche per gli “incriminati”; cioè, per adattare la cosa al nostro sistema, per chi è solo accusato, da un pm, di corruzione o, al più, è stato rinviato a giudizio, senza che sia mai stata emessa una condanna. È – lo si può dire senza tema di smentita – una direttiva sulla presunzione di colpevolezza.

Ora, in Italia, contro questa incredibile euroinversione di marcia su garanzie e diritti, la maggioranza parlamentare, mercoledì scorso, ha di fatto votato contro. Più precisamente, e come riportato sul Dubbio di ieri, ha approvato un parere critico proposto, in commissione Affari europei alla Camera, dal deputato Antonio Giordano, di Fratelli d’Italia. Una prova di coesione del centrodestra, anche nel suo partito maggiore e più incline a sterzate intransigenti sulla giustizia.

Il tutto con il sostegno anche del Terzo polo, che ha votato insieme alla coalizione di governo. Si apre una paradossale e interessantissima sfida sul garantismo, tra Italia e Unione europea. In cui non siamo soli, come ricordato dall’onorevole Giordano ai colleghi: persino la civilissima Svezia ha espresso in Parlamento un parere negativo, ad esempio, sull’incandidabilità degli incriminati.

C’è di mezzo l’ingerenza, la violazione del “principio di sussidiarietà”, in base al quale l’Ue “legifera” solo su materie per le quali gli Stati membri non adottano discipline autonome. Nel caso della corruzione non è così, certamente non è cosi per l’Italia, come ricordato da Carlo Nordio all’eurocommissario Reynders. E sarà interessante vedere se Roma riuscirà a condurre fino in fondo la propria campagna contro l’incredibile voltagabbana comunitario, che neppure lo pseudo trauma del Qatargate può giustificare.

Berlusconi.

Il garantismo del Cav. Se hanno vinto le toghe è anche colpa di Berlusconi. È stato senza dubbio un protagonista dello scontro tra politica e magistratura e una vittima della malagiustizia. Ma icona del diritto penale liberale proprio no. Valerio Spigarelli su L'Unità il 30 Giugno 2023

Alla notizia della scomparsa di Berlusconi si è aperto un dibattito sul suo ruolo nel campo della Giustizia. Nei media – soprattutto in quelli dell’area di rifermento politico della maggioranza di governo – è passata l’idea che Berlusconi sia stato una icona del diritto penale liberale, oltre che un protagonista dello scontro tra politica e magistratura ed una vittima della malagiustizia declinata in salsa politica.

Intervenendo dalle colonne del Dubbio ho avanzato l’idea che il Cavaliere può a buon diritto riconoscersi nelle due ultime silhouette, ma certamente non nella prima.

Provo a spiegarmi facendo riferimento ad alcuni dei passaggi storici in cui la figura di Berlusconi, e il suo sistema di potere incentrato sulla gestione di grandi media nazionali, hanno contato non solo con riguardo alle scelte compiute ma anche come formatori del comune sentire sui temi della giustizia. Al riguardo è bene non dimenticare che il debutto di Berlusconi in politica, la famosa discesa in campo del 1994, avvenne nel pieno della temperie di Tangentopoli.

Un passaggio storico nel corso del quale la magistratura rivendicò un ruolo del tutto improprio, quale “levatrice” di un rinnovamento politico fondato sul controllo di legalità, e per la verità, anche di moralità. Uno dei tratti distintivi, e del tutto criticabili, di quella stagione fu infatti la ricerca ostentata e rivendicata da parte della magistratura del consenso popolare, da Milano prima e poi nel resto del Paese, quali controllori del tasso di moralità degli esponenti politici. Celeberrimo, in tal senso, l’invito del Procuratore Capo Borrelli a tenersi alla larga dalle elezioni da parte di coloro che avevano “scheletri nell’armadio”.

Una sgrammaticatura costituzionale del tutto evidente, posto che i magistrati sono sottoposti alla legge e nella loro azione il consenso popolare è fattore del tutto escluso, se non addirittura foriero di situazioni che possono attentare all’ordinario svolgimento dei processi. Quel consenso, è bene sottolinearlo, non fu un incidente di percorso, un effetto indiretto e spontaneo della azione moralizzatrice che le inchieste giudiziarie incarnavano. In quel passaggio storico, ed ormai sono in molti anche tra i magistrati a riconoscerlo, la ricerca del plauso popolare, anche con le manifestazioni di piazza, fu calcolata e rivendicata dalla magistratura, anche attraverso un rapporto assai stretto con gli organi di informazione fondato sullo stillicidio di anticipazioni sugli sviluppi delle inchieste.

Basta leggere il bel libro di Goffredo Buccini su quegli anni a palazzo di giustizia per averne dimostrazione. Orbene, in quella fase, e quando il progetto di far nascere Forza Italia era già in stadio avanzato, le televisioni del Cavaliere si distinsero per lo zelo con il quale sostennero l’azione del Pool, fino a costruire i miti dello “sceriffo” Di Pietro e del “Dottor sottile” Piercamillo Davigo. Nessuno può certo dimenticare le vibranti cronache giudiziarie degli inviati delle televisioni del Cavaliere, sotto il palazzo di giustizia di Milano, che con voce grondante soddisfazione distillavano il bollettino degli arrestati e dei coinvolti nella inchiesta. Un mattinale del secondo millennio. Indimenticabile il trasporto di Paolo Brosio che all’epoca raggiungeva picchi di misticismo apologetico poi eguagliati solo quando, in seguito, diventò devoto alla Madonna di Medjugorje.

Insomma, per essere una icona del diritto penale liberale Berlusconi ha la corresponsabilità di aver sostenuto gli albori della deriva costituzionale sul ruolo della magistratura, ben rappresentata dal Niet, lanciato a reti unificate dal Pool nella vicenda del cd. decreto Biondi. Peraltro, e non a caso, una volta vinte le elezioni, fu proprio Berlusconi a proporre ai due membri del Pool ritenuti “non di sinistra”, cioè proprio Di Pietro e Davigo, di entrare a far parte del suo governo con ruoli di primissimo piano: ministro dell’Interno l’uno, della Giustizia l’altro. L’offerta non fu accolta ma questo non conta, l’importante è che fu avanzata.

Concludendo sul punto è indubbio che Berlusconi abbia coccolato il populismo giudiziario ancora in fasce, salvo poi, come l’apprendista stregone, rimanere travolto proprio dal meccanismo che aveva contribuito ad innescare. Solo dopo l’evento traumatico della notifica dell’informazione di garanzia durante il summit di Napoli l’atteggiamento della galassia mediatica di Berlusconi iniziò a modificarsi, anche se, per la verità, il germe del populismo giudiziario s’era ormai installato nelle sue tv.

Il che fruttò un filone di trasmissioni trash sulla giustizia che sull’impasto di mostri sbattuti in prima pagina, pubblicazione arbitraria di atti ed intercettazioni, mostrificazione di taluni imputati, liquidazione della presunzione di innocenza, santificazione di alcuni uffici giudiziari o singoli magistrati, ha continuato a campare per anni. E campa tutt’ora essendo comprese nel palinsesto Mediaset trasmissioni che in genere stritolano Carneadi, salvo poi essere bilanciate da altre trasmissioni, poche, in cui di giustizia si parla in maniera seria.

La nemesi storica è stata che, come ai tempi della glorificazione del Pool, la faccenda ha travolto chi l’ha innescata tanto che, nutrito da questi esempi di cattiva informazione giudiziaria, si è creato un diffuso sentire popolare che alla fine ha premiato i giustizialisti doc come i Cinque stelle facendoli trionfare alle elezioni. Tornando ai fatti politici merita un ricordo anche l’infelice esito della commissione bicamerale presieduto da D’Alema, che aveva prodotto, con la bozza Boato, il primo tentativo di modifica del titolo IV° della Costituzione dopo quello, senza esito, dell’On Bozzi durante la prima Repubblica.

Anche questo passaggio è di rilievo perché Berlusconi, ormai in guerra con la magistratura, fece fallire quel tentativo, certamente per motivi politici che coinvolgevano un contesto più ampio, ma comunque ritenendo, all’evidenza, l’obiettivo della riforma della giustizia sacrificabile. Scelta che si è poi ripetuta all’epoca del referendum organizzato dai radicali e dall’Unione delle Camere Penali nel 2000 quando, come noto, il Cavaliere non solo non sostenne la campagna referendaria ma alla fine, more Craxi anni prima, invitò gli italiani ad andare al mare e non alle urne.

Il risultato fu che il quesito referendario che richiamava la separazione delle carriere non passò, pur raccogliendo ben dieci milioni di voti favorevoli, e questo segnò un’indubbia vittoria per l’ANM, che vedeva (e continua a vedere) questa ipotesi come il fumo agli occhi. Le ragioni di quella scelta, almeno quelle ufficiali circa la “complicatezza del quesito e l’accostamento ad altri di minor popolarità” in tema di giustizia, sono sempre apparsi piuttosto fragili. Del resto, che gli italiani avessero ben compreso il quesito e la tematica della separazione lo dicono non solo i numeri assoluti sopra ricordati, ma anche la percentuale altissima di consensi tra coloro che parteciparono alla tornata referendaria; una percentuale molto più alta che non per gli altri quesiti. Ancor più inconsistente, e negata dagli avvenimenti successivi, l’ultima ragione accampata, che riguardava il fatto che con il referendum non si sarebbe potuta raggiungere una “vera” riforma costituzionale, riforma che, in cambio del boicottaggio del referendum, Berlusconi si impegnò a fare appena tornato al governo.

In realtà queste erano considerazioni strumentali e la loro manifesta inconsistenza lascia spazio all’interrogativo che, forse, la causa reale di quell’inaspettato regalo alla magistratura potesse essere in qualche modo legata alla richiesta, ovviamente avanzata in via ufficiosa da qualche presunto plenipotenziario del Cavaliere, di un do ut des relativo alle vicende giudiziarie allora in corso. Insomma, si sacrificava la separazione nella speranza di un atteggiamento meno intransigente delle Procure. Speranza vana e smentita dai fatti successivi. In ogni caso, visto il tradimento referendario, Berlusconi, dopo essere entrato in nomination con Marcello Pera e Gaetano Pecorella, a quei tempi si aggiudicò il premio “Toga rossa”, sarcasticamente istituito dalla Camera Penale di Roma per premiare i veri avversari della separazione. Del resto, che il riformatore liberale Berlusconi fosse piuttosto incline a leggere le cose di giustizia, anche quelle di carattere generale, molto alla luce delle sue personali vicissitudini giudiziarie è cosa nota, e la stagione dei provvedimenti ad personam lo dimostra.

Quel che invece è meno noto è che in altri passaggi il tentativo di blandire la magistratura ha incrociato nuovamente la possibile riforma che, come al solito, ne ha avuto la peggio. Una volta tornato al governo, nel 2001, Berlusconi non mancò di annunciare l’ennesima riforma epocale della Giustizia, comprensiva, ovviamente, della separazione delle carriere. Solo che si trattava, come si comprese analizzando le norme della cd legge Castelli, di una truffa delle etichette: non di separazione delle carriere si trattava ma di una forma, anche blanda, di separazione delle funzioni. E fu proprio in quel contesto che, a dispetto delle dichiarazioni roboanti (e controproducenti per chi la riforma vera l’aveva a cuore) sui magistrati “modificati geneticamente” oppure “cancro dell’Italia”, si scoprì che la contrattazione sindacale con la magistratura, ritenuta vera controparte sui temi di giustizia, era praticata dal Cavaliere così come – da sempre – lo era stato da tutte le altre forze politiche della Prima e della Seconda Repubblica.

Nonostante le generose concessioni del governo, che di settimana in settimana edulcorava il provvedimento, l’ANM rilanciava ogni volta, anche attraverso scenografiche manifestazioni in sede di apertura dell’anno giudiziario opponendosi all’intervento dell’ordinamento giudiziario qualificato come un oltraggio alla “più bella costituzione del mondo” (dalla quale però avevano espunto la VII disposizione transitoria che quella riforma la prescriveva da lustri…). Fu così che, in un soprassalto di sincerità, un esponente di primo piano di FI che si occupava della materia, Nitto Palma, sbottò dicendo “Ma di che si lamentano? Abbiamo accolto il 90% delle loro richieste?”. La prima delle quali, ca va sans dire, era stata proprio quella di non fare la separazione delle carriere. Insomma, il Cav B. riformatore liberale si comportava come un democristiano della più bell’acqua: in pubblico urlava contro la magistratura dietro le quinte lisciava il pelo alla magistratura degradando le riforme a mera trattativa sindacale, anche elargendo il generoso cadeau dell’innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati. Il tutto, va detto, ancora una volta, senza portare a casa l’impossibile pax giudiziaria tanto agognata.

Si arrivava così all’ultimo governo Berlusconi, quello entrato in carica nel 2008 e forte di una formidabile maggioranza alla Camera, che avrebbe assicurato la strada spianata ad interventi di struttura. Solo che, come al solito, anche all’epoca erano in giro molti processi che riguardano il Premier (e qui, per la verità, sull’accanimento giudiziario o la estrema discrezionalità delle indagini a suo carico bisognerebbe aprire un capitolo a parte) che premevano alle porte. E così, ancora una volta, la riforma venne accantonata nella prima parte della legislatura per dare spazio ad ipotesi di leggi che avrebbero dovuto garantire l’immunità, come il Lodo Alfano e che ovviamente fallirono l’impresa.

Finalmente, solo nei primi mesi del 2011, Alfano, pressato anche dall’Unione delle Camere Penali, tirò fuori il progetto di riforma costituzionale elaborato proprio dai penalisti, gli apportò qualche ritocco e lo presentò in parlamento. Si aprì una breve stagione di dibattito, anche fecondo, presso la Commissione affari costituzionali, con numerose audizioni in cui si registrano inaspettati consensi all’ipotesi di riforma. Tanto per dire, si dichiarò a favore della separazione delle carriere anche l’allora Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, Vitaliano Esposito. Notizia ovviamente oscurata dalla gran parte della stampa embedded sul carro delle procure, ma neppure troppo valorizzata dalla stampa amica del nostro. Purtroppo, però, si era ormai fuori tempo massimo, la crisi economica e il Governo Monti chiusero la speranza ai sogni di gloria riformatori.

Come si vede una storia punteggiata da occasioni mancate, che però, più che dal destino cinico e baro, o dalle pressioni del complesso mediatico giudiziario – che pure ha pesato – è stata determinata dalla mancanza di una reale volontà politica di portare a compimento quel grande disegno riformatore in tema di giustizia che pure Berlusconi a parole si è sempre intestato. Ma nella politica, alla lunga, devono contare i fatti, non le intenzioni. Tra i quali fatti, peraltro, per inquadrare compiutamente il ruolo effettivamente svolto da Berlusconi e dal suo movimento, non può certo dimenticarsi che di leggi, in tema di giustizia, il nostro ne ha però fatte molte, ma anche quelle ben lontane da una idea liberale della giustizia.

Come tutti, avversari ed alleati, anche Berlusconi ha infatti versato il suo tributo alla legislazione penale reattiva, demagogica, simbolica. Ha licenziato decreti sicurezza e inasprito pene ad ogni stormir di fatto di cronaca, ha stabilizzato il 41 bis e lo ha centralizzato a Roma, ha introdotto ipotesi di custodia cautelare obbligatoria, ha rafforzato il sistema – illiberale come pochi – delle misure di prevenzione. Tutte imprese legislative di cui ha menato vanto (riguardare il mitico match televisivo con il duo Santoro/Travaglio per conferma) senza neppure cogliere la contraddizione tra il modello di giustizia proclamato e quello realmente perseguito. In realtà, di riforme liberali nel campo della giustizia Berlusconi ne ha fatte poche quando è stato al potere, mentre, paradossalmente, ha portato a casa qualcosa di importante quando era all’opposizione, come il Giusto Processo in Costituzione, per esempio.  Insomma, Berlusconi, soprattutto per i suoi slogan paradossali e per l’intreccio con le sue personali vicende giudiziarie, è stato più un problema che una risorsa per la vera rivoluzione liberale della giustizia.

Ps: stendendo queste note, ho trovato una moltitudine di annunci, nel corso degli anni di governo berlusconiani, in cui si prometteva la “vera riforma.. separazione delle carriere inclusa” nella “seconda fase del governo”, in genere per “l’autunno”. Guarda tu, sembrano le parole di Nordio.

Valerio Spigarelli 30 Giugno 2023

«FI garantista? Io dico di no: sacrificò ai pm persino Dell’Utri». L’avvelenata di Amedeo Labocetta, ex deputato del Popolo della libertà: «Ero l’unico parlamentare del centrodestra a visitare Marcello in carcere. Ghedini mi chiamò e disse: smettila, così danneggi Berlusconi…» Amedeo Laboccetta, Già deputato al Parlamento per il Popolo della libertà e componente della commissione Antimafia, su Il Dubbio il 27 giugno 2023

Nel 1992 una terrificante miscela esplosiva, preparata (probabilmente) con materiale proveniente dagli Stati Uniti, squassò l’Italia. Gli effetti di quella “esplosione” furono politicamente devastanti: cancellazione del pentapartito ed eliminazione dei suoi leader, a cominciare da Bettino Craxi, non a caso identificato da Vittorio Feltri come “il Cinghialone”. Era lui, infatti, il bersaglio grosso. Il circo mediatico-giudiziario, allora in allestimento, ribattezzò “Mani pulite” l’operazione. I novelli Robespierre in toga, che ne furono protagonisti, attraverso l’avviso di garanzia ghigliottinarono i partiti che avevano governato l’Italia sin dal 1948. Un vero bagno di sangue. E non solo metaforico, come testimonia la lunga catena di suicidi che accompagnò il disinvolto ricorso alla carcerazione preventiva.

Chiaro l’obiettivo: spianare la strada a una sola parte politica, la sinistra impegnata in quel tempo in una delicata operazione di maquillage, impostale dal crollo del Muro di Berlino e dalla sorprendente implosione dell’impero sovietico. Ce la misera tutta. Ma non fu una rivoluzione: fu piuttosto un colpo di Stato. Se non riuscì fino in fondo fu solo per merito di uno straordinario imprenditore milanese che decise di scendere in campo: Silvio Berlusconi.

Iniziò allora la guerra, tuttora in corso, tra chi crede nel primato della politica e chi, invece, la pretende assoggettata agli interessi della magistratura militante. Le “toghe rosse” non persero tempo e sferrarono l’attacco subito dopo la vittoria del Cavaliere e dei suoi alleati, datata 27 marzo 1994. La loro prima bordata colpì la corazzata di Berlusconi nel golfo di Napoli, nel bel mezzo del G7. A lanciare il devastante siluro fu il “Corriere della Sera”: governo colpito e affondato. Ma l’“ammiraglio” Berlusconi non si arrese. E presto ripartì con una nuova flotta, alternando vittorie e sconfitte. E questo è ieri. Oggi che non c’è più, è giusto chiedersi se la sua trentennale guerra abbia impresso davvero una indelebile impronta garantista sul centrodestra.

E qui il discorso si complica, perché, a onor del vero, bisogna riconoscere che il movimento berlusconiano ha praticato il garantismo solo nei confronti del proprio capo. Questa, almeno, è l’impressione che ha dato. Intendiamoci: Berlusconi è stato sicuramente il politico più perseguitato d’Italia, ma ora è tempo di mettere gli eventi nella loro giusta luce. A partire dal riconoscimento del ruolo che ebbero due personalità come Pinuccio Tatarella e Marcello Dell’Utri, senza i quali, probabilmente, l’avventura politica di Berlusconi non sarebbe neppure decollata, per la gioia di Occhetto e compagni, gli unici che di conseguenza avrebbero brindato quel 27 marzo ’94.

Ma torniamo al garantismo.

Per anni Forza Italia se ne è riempita la bocca. Ma quanti errori. A cominciare dalle cosiddette leggi “ad personam”, spesso ispirate da Niccolò Ghedini, che oltre a non produrre effetti concreti e positivi, si trasformarono in clamorosi autogol. Il consigliere giuridico di Berlusconi, oltre che suo legale di fiducia, ha finito così per condizionare la politica del centrodestra in materia di giustizia. Gli effetti di questo garantismo intermittente hanno pesato moltissimo nelle scelte politiche di Forza Italia prima e del Popolo della Libertà poi. Nel 2013, ad esempio, pensando di ottenere qualche rallentamento nell’azione offensiva della magistratura nei confronti di Berlusconi, molti esponenti del Pdl furono offerti in sacrificio umano agli Dei togati. Soprattutto in Campania, la mia terra. Nicola Cosentino, allora potente coordinatore regionale, legato a Denis Verdini, in zona Cesarini non venne ricandidato, e fu costretto a consegnarsi nel carcere di Secondigliano.

E, dopo 10 anni, Cosentino si ritrova un’altra volta in carcere, adesso in quel di Rebibbia. Il vicario Mario Landolfi, già ministro delle Comunicazioni, venne cancellato dalle liste solo perché indagato in una vicenda di camorra dissoltasi, per altro, in primo grado e neanche impugnata dall’accusa. Analoga sorte subì Vincenzo Nespoli, senatore, tra i massimi esperti di sistemi e flussi elettorali. Per la Campania mi fermo qua. Ma potrei continuare a lungo. Da quel tempo nella mia regione il centrodestra non ha più vinto ed è nata la stagione dello sconfittismo.

Ma il colpo più clamoroso il garantismo intermittente lo riservò a Dell’Utri, proprio l’uomo che attraverso Pubblitalia e i “Circoli del buon governo” aveva messo in piedi la struttura organizzativa, l’impianto, l’architrave del movimento berlusconiano. Anche lui fu affidato al boia. Deliberatamente e cinicamente. Un vero colpo alla nuca. Ancora mi ronzano nelle orecchie le parole con cui, negli studi di “Porta a Porta”, Angelino Alfano ne liquidò la candidatura definendolo un “povero disgraziato” che era meglio tener fuori dal Parlamento. E da quel giorno anche per Dell’Utri comincio’ un drammatico calvario. Non dimenticherò mai i nostri incontri settimanali nella sua celletta di Rebibbia: due visite a settimana, due libri a incontro. Quei libri, mi ha ripeteva, “sono i miei veri farmaci, quelli che mi danno la forza per non morire”. Mai gli ho sentito pronunciare una parola fuori posto. Mai una imprecazione, a volte abbiamo anche sorriso, pur a fronte di tanta sofferenza. Un uomo vero. Di altri tempi. Si iscrisse anche alla facoltà di Storia, per prendersi un’altra laurea. Berlusconi, chiamato dai difensori di Dell’Utri, in qualità di testimone, in un suo processo delicato e complesso, non si presentò. Il suo difensore glielo aveva sconsigliato. Così, e sicuramente lo ricorda bene anche Renato Brunetta, allora mio capogruppo a Montecitorio, venni invitato, certo con garbo e cortesia, a smetterla con quelle continue visite a Rebibbia. Ghedini mi disse chiaramente che quelle mie frequentazioni avrebbero potuto nuocere al Capo del partito.

Ma io, come è ben noto, sono un irregolare, un politico atipico, che per tutta la vita è andato controcorrente. E soprattutto posso con orgoglio dire che non ho mai abbandonato gli amici. E fu così che fino allo scadere della diciasettesima legislatura continuai a far regolarmente visita a Dell’Utri. E quei nostri lunghi colloqui li ricorderò sempre. Anche quelli che facemmo presso il campus biomedico di Roma, dove per lungo tempo fu ricoverato per curare un gravissimo tumore. Certo, oggi non siedo più in Parlamento, altrimenti andrei a trovare a Rebibbia Cosentino. O sarei andato negli anni scorsi a far visita nel carcere di Nuoro all’amico Giancarlo Pittelli. Altra vittima, a mio giudizio, di un clamoroso errore giudiziario. Ma la coerenza, la libertà, la lotta contro le ingiustizie, il garantismo vero, non si vendono per un seggio parlamentare.

Non ho rimpianti, non ho rancori. Rifarei tutto quel che ho fatto. Pubblicherei cento volte ancora il libro sul golpe di Napolitano e Fini contro Berlusconi. Ma adesso, anche in onore alla guerra che ha dovuto affrontare Berlusconi, Forza Italia trovi il coraggio per sostenere a viso aperto e convintamente in tutte le sedi Carlo Nordio, l’unico ministro in grado di condurre in porto una vera riforma della giustizia in Italia. Giorgia Meloni ha scelto bene!

Il peggior crimine è condannare un cittadino innocente. Basta processi infiniti: prescrizione è civiltà. L'analisi del leader di Forza Italia: "Perseguire una persona non colpevole significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane e denaro dalla caccia ai veri criminali". Silvio Berlusconi il 12 Giugno 2023 su Il Giornale.

Scriveva Piero Calamandrei che nelle aule dei Tribunali il Crocifisso non dovrebbe stare appeso alle spalle del collegio giudicante ma, al contrario, «in faccia ai giudici, ben visibile nella parete di fronte, perché lo considerino con umiltà mentre giudicano e non dimentichino mai che incombe su di loro il terribile pericolo di condannare un innocente».

Questo terribile pericolo - evocato dal più grande giurista italiano del '900, uno dei padri della nostra Costituzione - è esattamente la ragione per la quale noi abbiamo incluso il concetto di garantismo, insieme a quelli di liberalismo, di cristianesimo e di europeismo, fra i principi fondanti di Forza Italia.

Come ho spiegato nei tre articoli precedenti, a legare fra loro questi quattro concetti c'è l'idea di sacralità della persona. L'idea che ogni essere umano sia portatore di diritti assoluti, primo fra i quali quello alla libertà. Lo Stato esiste appunto per tutelare la libertà degli individui, e può limitare tale libertà solo quando questa limitazione è indispensabile per tutelare la libertà e i diritti degli altri da una violazione o una prevaricazione.

Lo Stato per i liberali è importante, non siamo certo anarchici, ma la principale funzione dello stato liberale è proprio quella di tutelare i diritti delle persone, diritto alla vita, all'incolumità personale, alla proprietà ecc., fermando e punendo chi li mette in pericolo. Lo Stato ha la titolarità dell'uso legittimo della forza, anche la forza delle armi nei casi estremi, ma soltanto allo scopo di tutelare la libertà e i diritti di ogni cittadino quando sono messi in pericolo.

Perseguire o condannare un innocente è il peggior crimine che lo Stato possa commettere. Significa privare un essere umano della libertà, degli affetti, del lavoro, dei beni, in molti casi della dignità e della considerazione sociale. Significa anche venir meno alla funzione stessa dello Stato, che rinuncia a perseguire i veri colpevoli, i veri criminali, e quindi a proteggere e a difendere la vita, le proprietà, i legittimi diritti delle persone. Significa addirittura incoraggiare il crimine, distogliendo mezzi, risorse umane, denaro per accanirsi contro persone innocenti.

Tuttavia le istituzioni create dall'uomo sono per definizione imperfette, gli esseri umani sono fallibili, il miglior investigatore, il più onesto e professionale, può comunque commettere un errore. La realtà è spesso difficile da interpretare, chi crede di aver individuato un colpevole è naturalmente portato anche in buona fede - a cercare prove che rafforzino la tesi della colpevolezza, non certo quelle dell'innocenza.

Per questo è necessario un giudice terzo, distaccato rispetto sia alle ragioni di chi accusa che di chi si difende, in grado di applicare al caso concreto, serenamente e senza pregiudizi, la norma giuridica, che deve sempre essere generale e astratta. Per questo chi giudica non può essere collega e amico di chi accusa. Una netta distinzione fra le due funzioni, quella inquirente e quella giudicante, è l'unica garanzia che il giudice sia davvero equidistante. Cioè lontano tanto dall'accusatore quanto dall'accusato.

Ma la fallibilità umana può entrare in gioco anche in questo caso: non solo chi accusa, ma anche chi giudica, può sbagliare in buona fede (in Italia abbiamo una grande maggioranza di magistrati onesti e preparati), può essere condizionato da un pregiudizio, oppure per esempio dall'incapacità dell'accusato - anche se innocente - di far valere le proprie ragioni. Non bisogna mai dimenticare che una persona perbene soffre la condizione di imputato, e ancor più la carcerazione, in modo ben diverso da un delinquente abituale, che in qualche modo la mette in conto.

La paura, la vergogna, la sofferenza possono indurre anche a comportamenti controproducenti o autolesionisti. Per questo è necessario che vi siano più gradi di giudizio, perché gli eventuali errori di un giudice possano essere corretti da un altro giudice di livello superiore.

Per questa stessa ragione l'uso della carcerazione preventiva deve essere limitato al massimo e non dovrebbe mai essere ammesso se è finalizzato al solo scopo di ottenere una confessione.

La presunzione di innocenza non è un principio astratto, è una necessità concreta per il corretto funzionamento di un sistema giudiziario. Significa che nessun cittadino può essere considerato colpevole fino alla sentenza definitiva e fino a quel momento non deve perdere nessuno dei suoi diritti. Tanto meno può essere messo in carcere, a meno che non ci siano forti e fondate ragioni per ritenere che possa fuggire o commettere altri gravi reati. Ma questa dev'essere l'eccezione, non la regola.

Significa anche che è l'accusa a dover provare la colpevolezza di un cittadino, non è mai la persona accusata a dover dimostrare la propria innocenza. Anche perché dimostrarla può essere estremamente difficile per chi non ha i mezzi, il denaro, gli strumenti di indagine a disposizione dell'accusa. Chi ha letto Kafka ricorderà lo smarrimento e l'impotenza del singolo di fronte all'imponenza dell'apparato giudiziario.

Per questo «in dubio pro reo» è uno dei principi cardine di ogni sistema giudiziario rispettoso delle persone: meglio rischiare di assolvere un colpevole che di condannare un innocente. È un concetto alla base della nostra idea di Stato liberale e cristiana: affonda le origini addirittura nella Bibbia (Dio era disposto a non punire Sodoma e Gomorra pur di non condannare dieci giusti).

Questo significa anche che un cittadino assolto da un tribunale in un grado di giudizio non dovrebbe essere ulteriormente perseguito: se un magistrato lo ha ritenuto innocente evidentemente esiste almeno un dubbio sulla sua colpevolezza. Per questo abbiamo proposto l'inappellabilità dei giudizi di assoluzione.

A tutto questo si aggiunge il fatto che nella pratica il processo è esso stesso una condanna, perché dura anni, perché getta sulla persona l'ombra del sospetto e dello stigma sociale, perché ne limita anche se innocente molti diritti e molte libertà, perché coinvolge inevitabilmente la famiglia, gli amici, il lavoro, ogni aspetto della vita. Su questo non aggiungo altro, perché entrerei nel merito di dolorose vicende personali delle quali non intendo parlare in questa occasione.

Ma è per questa ragione che i processi non possono durare all'infinito, una persona non può essere sottoposta a questa tortura per decenni. La prescrizione è una misura di civiltà.

Se poi la terzietà dei magistrati non è garantita, se chi accusa ed anche chi giudica è condizionato da pregiudizi, per esempio di tipo politico, il principio fondante del sistema giudiziario viene messo in discussione.

E quanto è successo in Italia, dove fin dagli anni '60-70 il Partito comunista compì un'opera sistematica di occupazione della magistratura con persone di sua fiducia, da inserire nei gangli vitali del sistema giudiziario.

Senza Berlusconi che ne sarà del garantismo? Il mondo della politica, dello sport, dello spettacolo e migliaia di persone per l'ultimo saluto al Cav. Piero Sansonetti su L'Unità il 15 Giugno 2023 

Migliaia e migliaia di persone hanno partecipato ai funerali di Berlusconi. Il Duomo era gremito di personalità della politica, del mondo dello spettacolo, e del mondo dello sport. Fuori, in piazza, il popolo azzurro. C’è stata una polemica sui funerali di Stato, ma è una polemica molto stupida. Non capisco proprio come una questione di questo genere, quasi burocratica, possa diventare l’anima di uno scandalo. Se per fare lotta politica ci si deve opporre ai funerali, il paese è messo male.

Ha fatto benissimo Elly Schlein a presentarsi al Duomo. Per testimoniare la serietà del suo partito e il suo senso, alto, della dignità e dell’umanità. Io condivido quasi niente delle politiche che Berlusconi ha condotto in questi anni. Non credo che sia stato particolarmente divisivo, semplicemente è stato un leader di destra e – quantomeno sul piano sociale – le idee della destra sono lontanissime e in conflitto con le idee della sinistra.

Però gli riconosco il merito che ieri gli ha riconosciuto anche D’Alema: di avere combattuto per riformare la giustizia e togliere alle Procure il potere dilagante e illegale del quale oggi dispongono. Come saranno ora le battaglie libertarie e garantiste, in assenza di Berlusconi? Come si schiererà una destra che di garantista ha avuto sempre molto poco? E la sinistra, perduto il bersaglio, si convincerà a rinunciare al suo ruolo ancillare verso la magistratura? Piero Sansonetti 15 Giugno 2023

«Vi racconto il ’ 94 e la rivelazione garantista di Silvio». Tiziana Maiolo, editorialista dell'Unità. Tiziana Maiolo potrebbe scrivere un romanzo – dopo i libri che ha già pubblicato (“Tangentopoli”, “1992”) – sull’evoluzione del Berlusconi garantista. Errico Novi su Il Dubbio il 15 giugno 2023

Garantisti si può nascere. O si può diventare. «Berlusconi, prima del ’ 94, non era né garantista né, figurarsi, forcaiolo. Era sempre stato un liberale, con il tic di dover piacere a tutti. Non tifava Di Pietro, ma non avrebbe mai immaginato di fare, della giustizia, la propria guerra dei trent’anni. Lo capisce quando minacciano di arrestargli il fratello, Paolo. E lo capisce ancora meglio il 22 novembre del ’ 94 con l’invito a comparire scaraventatogli sulla testa dal Pool in pieno G7».

Tiziana Maiolo potrebbe scrivere un romanzo – dopo i libri che ha già pubblicato (“Tangentopoli”, “1992”) – sull’evoluzione del Berlusconi garantista. In questa conversazione ci limitiamo a dei flash. Lei, oggi editorialista dell’Unità dopo esserlo stata anche del Dubbio, oltre che del Riformista, veniva dal manifesto, dalla più autentica tradizione garantista della sinistra italiana, e si trovò a presiedere la commissione Giustizia della Camera come deputata di FI nel “mitico” ’ 94.

Dal manifesto a prima linea di Forza Italia sulla giustizia. Racconta.

Ero già in Parlamento dal ’ 92. Alla Camera. Come indipendente radicale nelle liste di Rifondazione.

Cioè, una deputata comunista, per giunta proveniente dall’eretico manifesto, reclutata dal Cavaliere?

Aveva l’ambizione di piacere a tutti. Era affascinato anzi dalle persone di sinistra. Ma credo sia stato qualcuno di Fininvest a segnalargli che, già come consigliera comunale a Milano, giravo di continuo nelle carceri. Avevo visto Gabriele Cagliari pochi giorni prima che si suicidasse. E al Berlusconi di inizio ’ 94 cosa importava delle carceri? Dentro c’erano già alcuni di Fininvest. Le indagini sulle aziende di Berlusconi erano già iniziate. Cominciava a essere preoccupato.

Tu eri radicale e comunista?

Te l’ho detto: al manifesto mi ero sempre occupata di giustizia, ero di sinistra ed ero radicale. In Comune a Milano entro nel ’ 90 con gli antiproibizionisti. Poi Pannella a inizio ’ 92, a pochi mesi dalle ultime Politiche della Prima Repubblica, inizia a lavorare alle candidature. Il figlio di Cossutta mi offre il collegio Milano- Pavia. Ne eleggono in tre, e passo anch’io.

Due anni dopo, il colloquio con Berlusconi.

Lo incontro a via dell’Anima, inizio ad affumicarlo: io fumo tantissimo, lui è un igienista. Mi chiede se sono impegnata anche per i diritti delle donne. Gli dico che mi sono sempre occupata di giustizia. Ti eleggono e diventi presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. Ma prima Berlusconi mi propone come sottosegretario con delega alle carceri. Aveva capito quale fosse la mia vocazione e gli interessava valorizzarla.

Ma?

Ma Scalfaro mi depenna.

E perché?

Dice che la mia nomina provocherebbe l’insurrezione dei direttori di tutte le carceri italiane.

Cioè, per l’ex giudice Scalfaro eri troppo garantista?

Al mio posto viene nominato Borghezio. Scalfaro preferì Borghezio a me.

A quel punto Berlusconi è già il garantista che conosciamo?

Non ancora. A lui interessava dare una svolta ispirata ai valori dell’impresa. Diffidava dei politici di professione: e si sbagliava, perché la politica va fatta seriamente. Oltre a persone di fiducia scelte tra i quadri di Fininvest, o della Standa, pesca nella società civile: imprenditori, primari, intellettuali. Certo non gli ultrà assiepati un anno e mezzo prima sotto palazzo di giustizia coi cartelli “Di Pietro facci sognare”.

Il decreto Biondi apre la storia di Berlusconi con la giustizia.

Avevano minacciato di arrestargli il fratello. Silvio non nasce garantista ma ce lo fanno diventare. Comunque sì, il decreto Biondi è il punto di svolta. Presentato il 14 giugno, ritirato tre giorni dopo. In mezzo, l’uscita televisiva del Pool: non possiamo più lavorare, dicono, chiederemo il trasferimento.

Fatto senza precedenti nelle democrazie liberali.

Decreto Biondi ritirato. Ma in una ventina, noi ribelli votiamo contro il ritiro. Serve a poco. È l’inizio della fine.

C’è un bel drappello garantista, con te alla Camera.

Alfredo Biondi, autentico liberale. Memo Contestabile, socialista. Poi Raffaele Della Valle, capogruppo di FI a Montecitorio, l’avvocato di Tortora. E ovviamente gli avvocati di Berlusconi: Dotti, mio compagno di liceo, e Previti. Ricordo gli avvocati garantisti di An. Uno di loro, Guarra, presiede l’altra commissione Giustizia, quella del Senato. Siamo stati anche noi a trascinare Berlusconi, a farlo garantista. Ma pesa soprattutto quello che gli capita di lì a poco.

Napoli, 22 novembre ’ 94.

Al G7 c’è la conferenza Onu sulla criminalità. Lui deve presiederla. Io sono lì con Biondi e Contestabile, come sempre. La sera prima andiamo al San Carlo. C’è anche Silvio. Iniziano a girare voci su un invito a comparire per Berlusconi. Lui stesso riceve una telefonata da un’ufficiale dei carabinieri. Non dà peso alla cosa. D’altronde, se non fosse finita la mattina dopo sul Corriere, non avrebbe avuto l’impatto devastante che ebbe.

E invece.

E invece alle 6 di mattina svegliano anche me: il Corriere apre con la notizia. Gliel’hanno voluto recapitare nel pieno di una conferenza Onu presieduta da lui. Passa per le forche caudine davanti alle telecamere. Berlusconi aveva priorità diverse dalla giustizia. Ce lo trascinano. Però ripeto: c’era terreno fertile. Intanto aveva studiato Legge. Era grande amico di Craxi. E ha vissuto la tragedia di Bettino. Fino all’operazione a cui Craxi avrebbe potuto sottoporsi a Milano, se solo i magistrati avessero accettato di lasciargliela fare senza arrestarlo. Dissero: venga a operarsi, ma poi lo arrestiamo. E lui resta a morire in Tunisia.

Sembra un po’ Braveheart, il film sull’eroe scozzese William Wallace: non voleva fare l’indipendentista. Finché non gli sgozzano la moglie.

Lui diceva di avere il sole in tasca. Era baciato dall’ottimismo. Poi il 22 novembre gli scaricano sulle spalle una zavorra tremenda, con quell’invito a comparire. Una zavorra che gli impedisce di governare. Fu una cosa scientifica.

Un atto politico.

Rivendicato anni dopo da Borrelli. Disse: mi domando se ne sia valsa la pena, di fare tutto quanto abbiamo fatto con Mani pulite, visto com’è andata a finire, cioè visto che poi al governo ci è andato Berlusconi.

Ghedini sbagliò a suggerirgli le leggi ad personam?

Pensiamo al lodo Schifani e al lodo Alfano: per me sono giusti. Norme così esistono in Francia e altrove. A me interessa questo. Una legge può pure servirti come scudo, ma vale anche per gli altri. E a me interessa capire solo se è una legge di per sé corretta. Perché mai dovrei scandalizzarmi del fatto che Berlusconi se ne può immediatamente servire?

Perché, anni dopo, Berlusconi si rifiuterà di sostenere il referendum di radicali e penalisti sulla separazione delle carriere?

A quel punto non sono più in Parlamento, faccio l’assessore a Milano. Devono aver pesato logiche di convenienza politica, che con gli anni Silvio aveva inevitabilmente imparato a praticare. Erano obiettivi suoi, in cui aveva sempre creduto. Si era convinto che in quel momento non gli sarebbe convenuto sostenerli.

Voleva piacere a tutti, anche ai comunisti. Anche a una radicale eletta in Rifondazione come te.

Alessandra Ghisleri lo ha appena raccontato. Dopo il discorso di Onna, col fazzoletto da partigiano al collo, le chiede il gradimento nei sondaggi. Lei gli dice: è al 75 per cento. E lui: e chi c’è, in quell’altro 25? Non tollerava di non piacere a tutti, proprio non lo poteva sopportare.

«Anche Berlusconi sabotò la riforma della giustizia per paura delle toghe». Parla l’ex presidente dell’Unione delle Camere penali Valerio Spigarelli: «L’avvocatura rimproverò al politico berlusconi di predicare bene ma razzolare male. Parole tante, atti concreti pochi». Valentina Stella su Il Dubbio il 14 giugno 2023

Mancata “riforma epocale della giustizia” targata Berlusconi: ne parliamo con Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione camere penali che, tra l’altro, replica alla nostra intervista di ieri a Gaetano Pecorella. 

Perché Berlusconi non è riuscito a fare la sua “riforma epocale della giustizia”?

Direi perché nei momenti fondamentali non ha dimostrato la volontà politica di farla. 

Cosa avvenne nel 2000, con il referendum Partito Radicale-Unione camere penali sulla separazione delle carriere?

Le proiezioni erano ampiamente favorevoli alla nostra vittoria referendaria, che avrebbe dato una enorme forza politica per la riforma costituzionale da fare in seguito in Parlamento. Lui però disse a tutti di andare al mare.

Pecorella sostiene che era difficile spiegare alla gente per quali quesiti votare sì e per quali no.

La storia dei referendum ci insegna che si può vincere su alcuni quesiti e perdere su altri. Nonostante l’invito ad andare al mare 10 milioni di italiani votarono per la separazione delle carriere perché il quesito era facilmente comprensibile. Senza l’indicazione di Berlusconi avremmo vinto. 

E allora perché Berlusconi fece quella mossa?

La spiegazione più logica è che essendo quel tema particolarmente inviso alla magistratura, evidentemente in quel momento ha preferito sacrificare questa battaglia e coltivare qualche altra cosa. Questo si ricollega ad un tema più generale: Berlusconi poi ha fatto molte leggi - al di là del fatto che gliele criminalizzavano tutte, anche quelle sacrosante - che avevano una diretta incidenza sulle vicende giudiziarie che lo riguardavano. 

Per Pecorella è stata colpa dei suoi alleati.

Potrebbe essere anche questa una spiegazione: Lega e soprattutto Fini cercavano di accaparrarsi quella fetta di opinione pubblica che aveva eletto la magistratura a stella polare della politica. E c’era competizione da questo punto di vista. Ma come li aveva convinti a fare la legge Cirami e quella Pecorella li avrebbe potuti convincere anche a fare altro. 

Ma perché l’ammiccamento alle toghe?

Il potere giudiziario in Italia conta, meglio «non scontrarsi troppo, non si sa cosa può accadere», diceva Cossiga, pure Fini anni dopo se n'è reso conto. 

Comunque, sta di fatto che gli consegnaste la toga rossa. Come andò?

L’idea nacque prima del voto referendario. Fu una iniziativa del direttivo della Camera penale di Roma. Cominciammo a mandare un telegramma al giorno a Berlusconi e ad altri personaggi apicali di FI scrivendo: «È passato un altro giorno e non vi vediamo impegnati nella battaglia referendaria». Pecorella, che era uno dei destinatari, fece dichiarazioni pubbliche a favore del referendum ma Berlusconi decise come si è detto. Allora istituimmo il concorso “Toga rossa”, termine usato da Berlusconi contro i magistrati, lo dichiarammo vincitore e gliela portammo in via del Plebiscito dove ci ricevette un imbarazzatissimo Bonaiuti che se la prese. Questo fu il segnale di una avvocatura penale molto determinata su quel terreno, che rimproverò al politico, che predicava bene ma razzolava male, non solo di non averci aiutato ma addirittura di averci sabotato. Parole tante, atti concreti pochi. Del resto, sulla politica giudiziaria, abbiamo sempre specificato che gli slogan di Berlusconi erano controproducenti. Con Ettore Randazzo dicemmo parole che finirono su tutti i giornali: «La separazione delle carriere non è una clava da dare in testa alla magistratura» e «Berlusconi parli da premier e non da imputato». 

Comunque, Berlusconi in quattro governi ebbe altre occasioni, che fallirono.

Certo, avvenne pure all’epoca della cosiddetta “riforma Castelli”, venduta come se fosse la separazione delle carriere. Ma non era affatto così, tanto è vero che è in vigore e non è cambiato nulla. Con alcuni costituzionalisti elaborammo una proposta che interessava anche il Csm, senza intaccarne la struttura costituzionale, ma anche quella rimase nel cassetto. 

Perché?

Perché in quel momento facevano trattative sindacali al ribasso con Anm. Nitto Palma, prendendosela con i magistrati, disse: «Perché vi lamentate visto che abbiamo accolto il 90 per cento delle vostre richieste?». Puntavano alla pace giudiziaria invece l’Anm incassò e le Procure continuarono come prima. 

Poi cosa accadde?

Nel terzo Governo Berlusconi avevano 100 voti di maggioranza alla Camera e avrebbero potuto portare a casa la riforma. Ma preferirono fare altre leggi che avrebbero dovuto garantire l’immunità. Nel 2010, il Ministro della Giustizia Alfano fu convinto, anche dall’Ucpi - io ero presidente allora - a presentare, chiavi in mano, con qualche aggiustamento, una proposta di riforma costituzionale elaborata dall’Unione. Si aprì un dibattito alla Bicamerale interessante. Intervenne anche il Procuratore generale di Cassazione, fratello di quell’Esposito che poi condannò Berlusconi, che disse che era d’accordo con la separazione delle carriere. Crollò però poco dopo il governo. Noi ci lamentammo del fatto che Berlusconi, che pure aveva i numeri per fare la riforma costituzionale, aveva scelto ancora una volta di fare altro. In quel periodo il presidente della Repubblica era Giorgio Napolitano che aveva più volte parlato della necessità di riforme strutturali e quindi non le avrebbe avversate. Anche perché dello squilibrio nei rapporti tra poteri se ne stava rendendo ben conto con l’inchiesta Trattativa. Era quindi una copertura per andare avanti. Ma poi c’ è altro. 

Cosa?

Sul piano del diritto sostanziale, alcune delle leggi fatte dai suoi governi sono in antitesi con l’idea del diritto penale liberale. Leggi reattive rispetto ai fatti di cronaca, innalzamenti strepitosi di pene, stabilizzazione e centralizzazione del 41 bis, introduzione di ipotesi di custodia cautelare obbligatoria poi bocciate dalla Consulta; il tutto per dare messaggi securitari all’opinione pubblica in contraddizione con i dati criminologici. Anche lui, sul piano del diritto penale simbolico e demagogico, ha dato il suo, e i penalisti gliel’hanno sempre contestato. Nel mitico dibattito da Santoro tra Travaglio e Berlusconi, lui rivendicò tutto questo. Peraltro, il populismo giudiziario nacque anche dalle trasmissioni Mediaset ai tempi di mani Pulite, e continua tuttora. 

Pecorella però sostiene che alcune di quelle leggi non portano il nome di Berlusconi.

In un governo a guida mia tutte le leggi sono le mie, anche se le firma un mio alleato. E poi, se faccio un compromesso politico, evidentemente sacrifico quello che ritengo meno importante. Insomma, l’idea di Berlusconi come icona dell’idea liberale del diritto mi sembra eccessiva. Mi convince di più che sia stato emblema e vittima dello squilibrio tra il potere giudiziario e la politica nato da Tangentopoli, che poteva essere eliminato proprio facendo le riforme che non ha fatto e non le leggi ad personam che indubbiamente ci furono.

La destra.

Le nuove leggi repressive. Travaglio appoggia Meloni: nasce il patto delle manette tra Fatto e governo. L'anniversario della strage di via D'Amelio è la scusa per le iniziative giustizialiste del governo. Piero Sansonetti su L'Unità il 19 Luglio 2023 

Giorgia Meloni ha deciso di tirare un’altra sberla a Nordio e di mandare un nuovo messaggio di amicizia al partito dei magistrati. Mentre il ministro aveva posto il problema della riforma del “reato non-reato” di concorso esterno in associazione mafiosa, per eliminare almeno uno dei tanti pasticci che in questi anni hanno azzoppato lo stato di diritto, lei non solo ha zittito Nordio ma anche deciso di varare un decreto legge urgente per cancellare diverse sentenze della Corte Costituzionale (che sono lì da molti anni), le quali definiscono (e quindi limitano) le possibilità di aggiungere l’aggravante della mafiosità a un delitto comune.

Diciamo che l’idea di Giorgia Meloni è di affiancare al concorso esterno altre disposizioni che comunque diano sempre alla magistratura la possibilità di usare il sospetto mafioso come strumento per svolgere le indagini scardinando i diritti della difesa. Così facendo, ovviamente, il presidente del Consiglio spara sulla Cassazione, cioè sulla magistratura. Stavolta però il partito dei magistrati non è insorto. Perché la cannonata tirata da Meloni aumenta e non diminuisce il potere discrezionale delle Procure e la loro possibilità di mettere in prigione un po’ chi gli pare. La coerenza è sempre stata la dote di fondo dell’Anm.

La nuova iniziativa giustizialista del governo coincide con l’anniversario dell’uccisione di Borsellino e con le proteste del partito delle Procure, guidato dal Fatto di Travaglio, contro la possibilità che sia riformata la giustizia. Ormai sembra che fra travaglisti (e 5 Stelle) e il premier sia nato un patto un po’ segreto ma robusto, che ha come prezzo e anche come posta l’aumento del potere delle Procure e la riduzione dei diritti civili. I governi di estrema destra non hanno mai amato i diritti civili.

Ci sono altri due elementi che spingono a ritenere che questo patto sia piuttosto vasto. Il primo elemento è la politica della nuova Rai meloniana, che premia giornalisti di centrodestra e travaglisti. La sinistra è stata spazzata via. Sono rimasti Ranucci, e sono in arrivo, pare, grillini nuovi come Gomez (che prende un posto lasciato libero da Facci) e forse anche Giletti. E poi c’è un secondo elemento da analizzare. Da giorni il Fatto si scaglia contro Berlusconi, sebbene Berlusconi sia morto.

Ora lo accusa anche delle stragi del ‘93, insieme ad alcuni magistrati fiorentini (è stato chiesto l’intervento del ministro, per questa ragione, ma forse sarebbe meglio chiedere l’intervento di bravi infermieri). Ieri Travaglio sul Fatto ad alzo zero, in modo peraltro piuttosto volgare, contro Marina Berlusconi. A nome di chi questo attacco alla componente moderata del centrodestra? A favore di chi? Non è difficile rispondere.

Piero Sansonetti 19 Luglio 2023

Caso La Russa, il silenzio di Meloni. Ma in passato difendeva le donne vittime di violenza. Matteo Pucciarelli su La repubblica su il 9  Luglio 2023

La premier aveva preso posizione anche contro Beppe Grillo che difese suo figlio Ciro come ora sta facendo il presidente del Senato nei confronti di Leonardo Apache

È sempre la stessa storia, più o meno: garantisti e pacati con gli amici, forcaioli ed esagitati con tutti gli altri. Vale anche per Giorgia Meloni e il delicato tema della violenza sessuale. Quando in passato le notizie di cronaca – con indagini spesso ancora tutte da fare – riguardavano presunti molestatori stranieri e Fratelli d’Italia stava all’opposizione, era un tripudio di “vermi” (testuale: “branco di vermi magrebini”, agosto 2017), “bestie”, “animali” e altri epiteti; né ci si faceva troppi problemi a invocare la castrazione chimica oppure in alternativa una pena di 40 anni di carcere. 

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 17 luglio 2023.  

[…]Zac! “La castrazione chimica per pedofili e stupratori è una storica battaglia della destra, dimenticata nel decreto sicurezza del governo. Per questo Fratelli d’Italia l’ha ripresentata con un suo emendamento” (Giorgia Meloni, FdI, 3.11.2018). 

“Per far approvare la castrazione chimica chiamiamola ‘scelta temporanea di azzeramento della libido'” (Ignazio La Russa, FdI, Secolo d'Italia, 5.4.2019). 

Pare che, a scanso d’equivoci, Leonardo Apache abbia fatto sparire da casa tutte le forbici. […]

Santanché resiste. Ministri e Governo non li decide Report. Il miracolo della Santa: Fratelli d’Italia diventa garantista. A Palazzo Madama due ore di dichiarazioni, interventi e repliche. Lei: “Non sono indagata, non mi nascondo mai”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Luglio 2023 

Daniela Santanchè fa il miracolo. I giustizialisti che per anni hanno alzato le picche, stretto le mascelle e incitato con rabbia alle dimissioni di chiunque fosse sfiorato da un sospetto, o peggio ancora da un avviso di garanzia, sono diventati garantisti. La ministra del Turismo ha esaminato passo per passo tutte le accuse mossegli e le ha respinte al mittente. Facendo balenare anche qualche retroscena interessante su chi avrebbe armato la campagna contro di lei: ci sarebbe “qualche vocale” che maldestramente è stato lasciato circolare. Chi ha preparato la trappola? Sappiamo solo chi l’ha raccolta e amplificata: Report. Che strano. Eppure stavolta la ministra non si dimetterà: la politica non la può fare e disfare questa o quell’inchiesta. Anche perché dalla ricostruzione offerta in aula dalla Santanchè si tratta di tesi artificiose e distanti dalla verità.

Ecco le sue parole: “Sono qui a riferire perché ho preferito non far pesare al Governo le conseguenze di una campagna di vero e proprio odio nei miei confronti. Affermo sul mio onore che non sono stata raggiunta da alcun avviso di garanzia, per scrupolo ho chiesto ai miei avvocati di verificare. Ho anche estratto il certificato dei carichi pendenti, risulta non ci siano annotazioni nei miei confronti”. E lo mostra. Lo sbandiera. Andatela a smentire. Daniela Santanché respinge al mittente con vigore le accuse piovute nelle ultime settimane e nell’attesa informativa al Senato, il ministro del Turismo riferisce circa il servizio lanciato da Sigfrido Ranucci con tanta foga e rivelatosi un grande bluff. Le accuse di Report sulle presunte irregolarità nella gestione imprenditoriale delle sue aziende, in particolare Ki Group e Visibilia, e sugli articoli che si sono susseguiti sulla stampa in merito a questa vicenda, per la quale le opposizioni hanno chiesto le sue dimissioni, finiscono al microscopio in un intervento appassionato. Venticinque minuti di disamina puntuale. Introdotta da uno sfogo. “Vi dico la verità: stamattina è accaduto qualcosa che va oltre la mia vicenda e che dovrebbe allarmare tutti voi senza distinzione di appartenenza partitica o politica – ha esordito la ministra, citando un articolo de il Domani che parla di indagini nei suoi confronti – Questa mattina il Domani afferma che invece sarei indagata, sia pure segretamente”.

E a quel punto ha iniziato a snocciolare informazioni, mescolando dati noti e altri oscuri, senza minimamente indicare alcuna fonte. Ebbene, delle due l’una – ha aggiunto – O il giornale mente sapendo di mentire e sceglie proprio questo giorno, quello del mio intervento in aula per una classica imboscata per colpire proditoriamente un ministro del governo contro cui giornalmente si scaglia, oppure prendo anche in considerazione l’ipotesi secondo la quale Domani ha avuto notizie che io non ho e che nessuno potrebbe lecitamente avere, ma questa sarebbe un’ipotesi ancora più grave. Il Senato dovrebbe agire contro queste sporche e schifose pratiche”.

Santanchè, che ha parlato di una “strumentalizzazione politica” e di una “mistificazione della realtà”, ha anche spiegato come si sia presentata in aula principalmente per difendere il proprio onore e quello di suo figlio. Le sue risposte nel merito, come ha precisato, sono in qualità di imprenditrice: “Per trent’anni dal mio gruppo nessuno mi ha mai accusato di nulla. Mai ho avuto favoritismi, mai li ho cercati – ha rivendicato – Non mi sono mai appropriata di nulla che non mi appartenesse, né mai ho abusato delle mie posizioni apicali delle aziende e sfido chiunque a dimostrare il contrario”. Segue un dibattito in gran parte previsto, con il Pd che ribadisce la richiesta di dimissioni, il M5S che alza i toni e propone una mozione individuale di sfiducia e una dichiarazione “in dissenso dal gruppo” di Carlo Calenda, che si schiera dalla parte dei giustizialisti. Schlein si accoda, anche stavolta. Voterà come Conte. Eccolo, un altro merito di Santanchè, al termine della resa dei conti di ieri: ha tirato quella riga forse dolorosa ma necessaria che demarca la distinzione tra due culture politiche. Da una parte i giustizialisti del Campo largo che hanno ceduto al populismo giudiziario (M5S, Pd, Verdi, Avs, Calenda) e dall’altra i garantisti di sempre e quelli convertiti all’ultimo: a Italia Viva, Forza Italia, Noi Moderati si uniscono Lega e Fratelli d’Italia.

“Ogni valutazione sulla sua esperienza al governo è nelle sue mani e nelle mani della presidente del Consiglio’”, ha dichiarato il senatore del gruppo Azione-Italia viva Enrico Borghi in Senato, al termine dell’audizione della ministra Daniele Santanchè, non chiedendone le dimissioni. Borghi ha ricordato ‘il campionario delle dichiarazioni e delle casistiche’ sulle richieste di dimissioni di ministri, da Guidi a Lamorgese, dell’ex presidente della Regione Lazio Zingaretti e di quella della regione Umbria Catiuscia Marini, del sindaco di Milano Giuseppe Sala. ‘Una presunzione di innocenza a targhe alterne. Dovremmo utilizzare quel metro? Vogliamo sottrarci dal ruolo intercambiabile dal gioco delle parti?’, ha detto Borghi rivolto all’Assemblea del Senato.

Replica Calenda: “Non ho condiviso l’intervento di Borghi nelle sue conclusioni. Credo questo argomento stia loro particolarmente a cuore”. Mariastella Gelmini, vicesegretaria di Azione, si smarca: “Ad oggi, a mio avviso, non ci sono mozioni di sfiducia che tengano. Sono e sarò garantista, anche in questo caso’’.

Aldo Torchiaro

L'esempio Qatargate. Il garantismo è una cultura che Fratelli d’Italia non ha mai avuto: il puritanesimo, per fortuna, non è nel nostro Dna. Benedetta Frucci su Il Riformista il 7 Luglio 2023 

Negli ultimi 30 anni il dibattito politico italiano è stato concentrato spesso sulla dicotomia garantismo-giustizialismo. Mentre nessuno ammette – eccetto Piercamillo Davigo, che titola così un suo libro – di essere giustizialista, molti si sono fregiati di essere garantisti. Con scarsi risultati alla prova dei fatti. Il garantismo infatti non è soltanto il rispetto della presunzione d’innocenza, sancito dalla Costituzione.

Che un cittadino sia innocente fino a sentenza passata in giudicato è un aspetto che riguarda il diritto e dovrebbe essere un dato acquisito in politica. Dovrebbe. Il punto però è che il garantismo è una cultura, che hai o non hai: per cui si dovrebbe essere garantisti non solo quando si parla di indagini ma anche quando a passare sotto giudizio sono inchieste giornalistiche.

Oggi Fdi, che garantista non è mai stato, si trova a subire i colpi che ha sempre inferto in passato. E tuttavia, occorre dire che chiedere le dimissioni di un Ministro- si chiami Daniela Santanchè o in altro modo- sulla base di un’inchiesta giornalistica è ancor peggio che chiederlo sulla base di una condanna in primo grado. A maggior ragione, nel caso di specie, lo è se fosse confermato che la stampa avrebbe ricevuto la notizia che il Ministro del Turismo sarebbe indagata prima ancora che lei stessa, per giunta nel giorno dell’informativa in Senato.

Tanto più perché sarebbe l’ennesimo caso di cortocircuito mediatico-giudiziario, fatto di veline che passano dalle procure ai giornali, con un tempismo ad orologeria che dovrebbe scandalizzare. Chi sostiene che aspetto giudiziario e politico andrebbero tenuti separati, non solo è il peggiore dei giustizialisti ma dimostra anche una profonda ignoranza della storia di questo Paese. Perché le inchieste – giornalistiche e/o giudiziarie che siano- in Italia sono state usate troppe volte come mannaia contro politici sgraditi. Per cui, nulla vale appigliarsi alla cultura liberale di Paesi nordici, dove ci si dimette perfino per una tesi copiata. Prima di tutto perché quei Paesi non hanno il nostro sistema giudiziario- giornalistico così profondamente malato. E in secondo luogo perché il puritanesimo, da cui deriva questo approccio alle dimissioni facili, non è nel nostro Dna. E direi per fortuna. Soprattutto se pensiamo al civile Belgio e a come ha condotto le indagini sul Qatargate.

Benedetta Frucci

Tutte le volte in cui Fratelli d'Italia non è stato garantista. Caso Santanché, la storia del (non) garantismo di Giorgia Meloni: quando la presunzione d’innocenza è politica. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Luglio 2023

Oggi Fratelli d’Italia è sotto i riflettori: la ministra del Turismo, Daniela Santanchè riferirà alle 15 in Senato sulla vicenda che riguarda le sue attività di imprenditrice, proprio quando il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, riferirà alla Camera sulla vicenda Sgarbi-Maxxi. Sincronia perfetta per depistare l’attenzione o casuale incastro di agende?

Le due vicende non si equivalgono, la protagonista del momento è senz’altro lei, la ministra di Fratelli d’Italia. Santanchè riferirà quanto di sua conoscenza per la gestione delle società Ki Group (acquistata nel 2006 insieme all’ex compagno Canio Mazzaro) e sulla concessionaria Visibilia, per i cui creditori la ministra ha dovuto vincolare la sua villa di Milano. I sospetti sono gravi, le accuse sfiorerebbero la truffa e il falso in bilancio: nella sua inchiesta Report accusava in sostanza Santanchè di aver gestito male due sue aziende in particolare, di cui non è più proprietaria: la stessa Visibilia, che negli anni era cresciuta ed era diventata anche una casa editrice, e la società di investimenti Ki Group. Report documentava l’accumulo di molti debiti da parte di entrambe le aziende, gestiti perlopiù con passaggi societari poco trasparenti.

Le opposizioni si preparano ad alzare i toni. Il M5S non vede l’ora. Ma non succederà molto. Il Pd lo sa: “Non siamo contenti anche perché l’informativa in Senato prevede il suo intervento, un intervento per gruppo, nessun contraddittorio e nessun voto. Peraltro la maggioranza ha negato la possibilità di discuterne anche alla Camera”, protesta l’ex capogruppo dem alla Camera, Debora Serracchiani. “Mai e poi mai le inchieste giornalistiche possono determinare l’azione politica di un governo eletto dagli italiani”, rassicura Maurizio Lupi di Noi Moderati. Per Matteo Salvini “Sei innocente fino a prova contraria”. Giorgia Meloni, già in tensione per le fibrillazioni tra Matteo Salvini e Antonio Tajani, ha blindato la sua ministra: “Di dimissioni non se ne parla neanche”.

D’altronde risponde a un sacrosanto principio garantista: non ci si può dimettere per assecondare la richiesta di questa o quella trasmissione televisiva. E il “giornalismo a tesi”, sappiamo bene come funziona. Santanchè non farà nessun passo indietro senza una sentenza definitiva passata in giudicato. Persino nel suo discorso di insediamento, Meloni aveva fatto riferimento al garantismo: “Saremo garantisti sempre, finché si è solo indagati c’è la presunzione di innocenza”. Il ministro Carlo Nordio, che Meloni ha fortemente voluto alla Giustizia, ne è il massimo garante. Peccato non abbia sempre tenuto la stessa postura.

La storia del garantismo meloniano è infarcita di eccezioni. Ad ogni apertura di inchiesta giudiziaria, anche nelle città di provincia, quando l’indagato è di centrosinistra, segue quasi puntualmente la richiesta di dimissioni perentoria e immediata di Fratelli d’Italia. Il partito di Giorgia Meloni è sempre il primo a chiedere il passo indietro dell’indagato. A fine marzo del 2015 il capo di Gabinetto di Nicola Zingaretti, governatore della Regione Lazio, venne raggiunto da un avviso di garanzia. Fdi chiese subito le dimissioni di Zingaretti. Nel giugno 2015 arrivarono gli avvisi di garanzia per Mafia Capitale, una inchiesta poi ampliamente ridimensionata. Prima ancora di capirne gli intrecci o di leggere gli atti, Giorgia Meloni chiese le dimissioni di Ignazio Marino.

Nel dicembre del 2017 fu la Procura di Milano a iscrivere il sindaco del capoluogo lombardo nel registro degli indagati per due reati amministrativi connessi ad Expo. Non passarono che poche ore ed ecco la richiesta di dimissioni immediate di Fratelli d’Italia. Nel 2019 sarà la volta della Procura di Perugia, con una operazione tanto spettacolosa quanto esagerata, a far volteggiare gli elicotteri sopra al palazzo della Regione Umbra. Appena consegnato un avviso di garanzia all’allora Presidente, Catiuscia Marini, ecco planare le scandalizzate richieste di dimissioni firmate Meloni.

E come non ricordare il caso di Bibbiano? Quando venne resa nota la notizia dei 26 indagati, la leader di Fratelli d’Italia arrivò per prima e chiese il passo indietro di tutti gli amministratori locali interessati. Sindaci del Pd, inutile dirlo. Quando nel maggio 2020 Fulvio Baldi, capo di gabinetto del Ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, è intercettato in relazione al caso Palamara, Fdi chiede le dimissioni di Bonafede, non indagato. E che dire di quel che avvenne nel dicembre 2021 intorno al Viminale? Arrivò un avviso di garanzia alla moglie del capo dipartimento dell’immigrazione del Ministero dell’Interno. Non a lui, alla moglie. E la sera stessa Giorgia Meloni chiese a gran voce le dimissioni della ministra Lamorgese. Gli esempi sarebbero tanti, la lista è lunga. Il garantismo a doppio senso è una costante della politica italiana, della destra contro la sinistra e viceversa. La strada verso la presunzione di innocenza è irta di tentazioni. Prima o poi diventerà davvero un principio condiviso, un basamento universale della civiltà.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Le pulsioni securitarie. Lenin, Davigo e la smania di controllo con la bava alla bocca: lo Stato investa in fiducia. Non inasprendo le pene, ma educando gentilmente. Selezionando i controlli, non intensificandoli. Trattando i cittadini come adulti consapevoli e responsabili. Claudio Velardi su Il Riformista il 25 Giugno 2023 

Claudio Cerasa sul Foglio ha elencato con puntiglio i tanti provvedimenti del governo Meloni che proclamano inasprimenti di pene, giri di vite, nuovi reati e carceri a gogò. Al momento – va detto – sono più che altro parole in libertà, che hanno il solo effetto di aumentare le pulsioni securitarie in un’opinione pubblica già sufficientemente incattivita da media allarmistici e corrivi. Poi vedremo il seguito: per ora viene da sorridere amaro, immaginando una nuova infornata di misure repressive calate nel colabrodo del sistema giudiziario italiano.

Se poi vogliamo dirla tutta, gli eccitati annunci sanzionatori, spesso rilasciati con un filino di bava alla bocca, sono solo l’ennesima confessione di impotenza di un intero paese che da tempo ha smesso di pensare in grande, che non si dà obiettivi ambiziosi perché non ha fiducia in sé stesso. E per questo non sa fare altro che lanciare periodiche, disperate quanto inutili grida manzoniane, motivate sempre da una occhiuta, pervasiva smania di controllo. La più grande malattia del sistema-Italia, a pensarci bene.

Ora, non mi va di fare la parte dell’italiano-che-va-all’estero-e torna-facendo-stupidi-paragoni, ma alcuni giorni fa sono stato a Lipsia (una parte di Germania ex DDR e prima ancora Prussia, non so se mi spiego) per il Festival del mio amato Johann Sebastian Bach, e mi sono accadute le seguenti cose, tra le altre: 1) in tutti i gates aeroportuali varcati (Monaco-Lipsia-Francoforte) nessuno mi ha mai chiesto un documento d’identità, per accedere ai voli era richiesto il solo ticket aereo; 2) a Lipsia ho alloggiato in un albergo di una grande catena internazionale (il Best Western) prenotato su Booking, e anche lì nessuno mi ha chiesto documenti in entrata o in uscita, salvo inviarmi qualche giorno dopo una mail per chiedermi gentilmente il versamento della tassa di soggiorno che non avevo pagato; 3) pur alloggiando nei pressi della stazione, dove vivono giorno e notte diverse persone “problematiche”, non ho mai visto in città l’ombra di un poliziotto, neanche di sera tardi.

Ho ricavato insomma la netta sensazione di una società in cui la vita è libera e semplice, naturalmente con il supporto di tecnologie che si incrociano utilmente, in cui il cittadino non subisce continui, ossessivi controlli burocratici. E questo mi accadeva proprio nei giorni in cui impazzava in Italia la discussione sui “controlli concomitanti” della Corte dei Conti che il governo giustamente voleva limitare.

Conosco bene le obiezioni agli esempi banali che ho fatto: “loro” sono tedeschi (o inglesi o svizzeri o quello che volete), hanno una diversa coscienza civica, un’organizzazione e un rapporto con lo Stato a noi sconosciuto, e così via. Argomenti che non mi piacciono affatto. Intanto perché è ampiamente dimostrato che “noi” siamo in grado di comportarci come si deve, quando immersi in altri contesti. E poi perché è un modo di ragionare senza sbocchi: che cosa bisognerà fare, chi dovrà agire per invertire la tendenza e conquistare una “vita semplice” anche dalle nostre parti? A chi la prima mossa?

Pensando ad una riunione di condominio cui partecipai una volta (mai più da allora…), mi viene da dire che la prima mossa la deve fare lo Stato, rovesciando la sua logica sospettosa e irrispettosa verso i cittadini e investendo radicalmente in fiducia. Non inasprendo le pene, ma educando gentilmente. Selezionando i controlli, non intensificandoli. Trattando i cittadini come adulti consapevoli e responsabili. Solo così tutti noi potremo progressivamente ripensare lo stare insieme, riconoscerci nelle istituzioni di tutti e migliorare i nostri stessi comportamenti.

Se invece, per citare un protagonista dei disastri novecenteschi, in tanti continueranno a pensare che “la fiducia è bene, il controllo è meglio” (Vladimir Ilic Ulianov, detto Lenin), e alcuni contemporanei potranno dire senza colpo ferire che “non ci sono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti” (Davigo, brrr…), beh allora, per chi sogna la “vita semplice”, i tempi continueranno ad essere duri. Claudio Velardi

La legge della vittima e il paradigma vittimario, così il giustizialismo lucra sul dolore. Andrea Pugiotto su L'Unità il 20 Maggio 2023

Il 9 maggio si è celebrato il Giorno della Memoria delle vittime del terrorismo. Manlio Milani e Agnese Moro, su La Stampa, hanno saputo riempirlo di significati profondi, maturati anche attraverso la partecipazione a un percorso di giustizia riparativa finalizzato a superare la prepotenza subìta dalle vittime e agìta dai terroristi. Le loro sono parole autentiche. Attestano le potenzialità del «paradigma riparativo», ora introdotto nell’ordinamento dalla recente “riforma Cartabia”. La sua applicazione andrà seguita con attenzione a evitarne la torsione in un ben diverso «paradigma vittimario» (Giovanni De Luna) di cui è necessario pre-dire le insidie.

È il processo Eichmann celebrato a Gerusalemme nel 1961 a inaugurare l’era del testimone (martiris, in latino). L’esperienza della Shoah, dove i sopravvissuti allo sterminio sono del tutto innocenti e i criminali mostruosamente colpevoli, induce a immedesimarsi nella vittima. Fino ad attribuirle uno statuto speciale: creditrice di un debito inestinguibile, garantito da un enorme senso di colpa collettivo, oracolare, sottratta al contraddittorio. È l’unicità della Shoah a giustificarlo. Oggi, invece, identico status è riconosciuto alla vittima in quanto tale, di qualsiasi evento luttuoso a rilevanza penale.

Lo dimostra proprio la legge n. 56 del 2007. Il Giorno della Memoria è istituito «al fine di ricordare tutte le vittime del terrorismo, interno e internazionale, e delle stragi di tale matrice» (art.1). Inevitabili le aporie in un sacrario così sterminato. Vi trovano posto i morti per caso (tutte le vittime di stragi lo sono) o i morti per errore (scambiati per l’obiettivo politico che non erano) o gli antagonisti politici uccisi mentre contestavano le istituzioni (militanti di gruppi extraparlamentari, ad esempio, o la radicale Giorgiana Masi).

Dunque, per il nostro ordinamento vittima è (potenzialmente) chiunque, per qualunque causa, anche a sua insaputa. Nasce da qui la proliferazione di Associazioni di familiari delle “vittime di” eventi di ogni tipo, benché tra loro incommensurabili: dell’immigrazione, ma anche della caccia; della mafia, ma anche delle sette religiose o del precariato. Un arcipelago abitato da gruppi in concorrenza tra loro (come le tante Associazioni di familiari di vittime della strada) o contrapposti tra loro (come l’Associazione tra familiari di vittime delle Forze dell’Ordine e le molte associazioni di familiari di vittime del Dovere).

In questo contesto – come osserva Luigi Zoja – la giustizia sociale non è più rimedio ai problemi dei gruppi svantaggiati, bensì a quelli delle vittime, che prendono il ruolo che fu dei sindacati: «ma mentre il diritto sindacale sorgeva da una contrattazione, quello “vittimario” si sottrae così al contratto sociale, rifacendosi a una condizione originaria e trascendente». Cambia anche la narrazione mediatica, che «non è quella del dibattito politico cui il pubblico partecipa, ma quella dello spettacolo del dolore, cui esso si limita ad assistere». Non a torto, Tamar Pitch denuncia nel discorso pubblico la sostituzione della parola «oppressi» con quella di «vittime».

Così declinato, il paradigma vittimario compone un puzzle in cui tutte le vittime lo sono in egual misura. Ma ciò ha un senso sul piano della pietas umana, non su quello della ricostruzione storica o giudiziaria. Azzerando le differenze, infatti, si nega l’identità di ciascuno e si fraintende l’accaduto, come lamenta giustamente Manlio Milani: «gli otto caduti in Piazza della Loggia sono inscritti oggi, insieme a tutte le vittime dei terrorismi, rosso e nero, nel patrimonio comune della storia repubblicana. Non posso più neanche chiamarli “compagni”». Le vittime di Brescia, infatti, sono morte per il loro impegno antifascista. Se poi tutte le vittime sono eguali, allora hanno anche identica voce in capitolo. Eppure non cantano in coro, come rivela la dolente memorialistica sugli anni di piombo di Mario Calabresi, Gemma Capra, Massimo Coco, Silvia Girallucci, Sergio Lenci, Giovanni Moro, Eugenio e Vittorio jr. Occorsio, Licia Pinelli, Benedetta Tobagi. È una cacofonia che non sorprende, perché del tutto personale è la memoria dei propri lutti e delle proprie ferite: per alcuni è un rapporto riappacificato, per altri è fonte di un rancore inestirpabile, che inchioda a un passato che non passa. Proprio in questi casi la voce delle vittime si salda con lo spirito del tempo dominato dal risentimento, che è il carburante del populismo penale. Così la sua retorica securitaria trova il giusto tono intimidatorio a sostegno di una politica pan-penalista, che incrementa pene e reati elevando il paradigma vittimario a «instrumentum regni» (Daniele Giglioli).

Tutto ciò può aprire a preoccupanti derive. Eccone due esempi, estremi e urticanti. Negli USA la pena di morte si è emancipata dalla sua natura di vendetta privata per mano pubblica. Oggi si giustifica con un più civile ed evoluto scopo terapeutico, quale «modo per ripristinare il benessere collettivo e fornire una chiusura psicologica alle vittime traumatizzate» (David Garland). È una metamorfosi insidiosa. Ne fa un servizio che la comunità statale deve alle vittime. Non ha più nulla di patibolare, trasformata d’incanto in una moderna terapia di sostegno. Ecco l’altro esempio. Se la giustizia deve farsi carico anche della vulnerabilità di vittime potenziali, ben potrà bilanciarsi la dignità del torturato con quella degli innocenti in pericolo, che solo le informazioni estorte con la violenza potranno salvare. Trasformato così il torturato da vittima certa in aggressore di vittime ipotetiche, ogni argine può saltare: «Un uomo ammette d’aver piazzato una bomba? Il ricorso alla tortura salverà delle vite. Un uomo è sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura lo scoprirà. Un uomo ha un amico sospettato d’aver piazzato una bomba? La tortura porterà a individuare il sospetto. Un uomo professa idee pericolose e potrebbe avere in mente di piazzare una bomba? La tortura rivelerà i suoi piani».

I sintomi di un uso strumentale del paradigma vittimario sono anche altrove. Per la politica, ad esempio, c’è vittima e vittima. Si spiega anche così la faticosa e tardiva introduzione dei reati di depistaggio e di tortura: la solidarietà per le vittime perde di peso davanti alla volontà dello Stato «restio a lasciarsi mettere sotto accusa» (Benedetta Tobagi). Sul paradigma vittimario poggia anche lo stigma verso leggi di amnistia e indulto, accusate di provocare una vittimizzazione secondaria. Nel discorso pubblico, infatti, la clemenza va subordinata al perdono delle vittime. Eppure il perdono è una categoria metagiuridica: non è un dovere della vittima (perché inesigibile), né un diritto del reo (perché è altra cosa dalla riabilitazione sociale). Il perdono è una predisposizione dell’animo di chi lo concede e di chi lo riceve («per-dono»), impermeabile al diritto positivo. Alcune vittime, infine, scompaiono dall’orizzonte politico. Ad esempio, quando si tratta di rimediare al sovraffollamento carcerario (perché la vittima è il carnefice) o quando si nega l’introduzione del reato o dell’aggravante di omo-transfobia. Forse che certe vittime sono figlie di un dio minore?

Tra i due paradigmi, riparatorio e vittimario, il confine è sottile ed esposto a pericolose scorribande. Va presidiato da chi ha a cuore la matrice laica, liberale e garantista del diritto penale. Ecco perché i sentimenti di giustizia delle vittime, sole o associate, certamente «devono ricevere il riguardo sincero e non ipocrita della legge. Ma non sono la legge, né la sua fonte d’ispirazione. Quando provano un desiderio di punizione, rivendicano un carcere più duro, pensano alla galera come a un luogo di espiazione, hanno torto, il più umano dei torti, ma torto. Chi, nel mondo politico, se ne fa un alibi in favore dell’afflizione carceraria e dell’inerzia sul ruolo del carcere ha torto, il più losco dei torti» (Adriano Sofri). Sottoscrivo.

Più manette per i diversi e i poveracci: il garantismo deve fronteggiare un nemico in più con Meloni. Iuri Maria Prado su L'Unità il 20 Maggio 2023

Tutto si può dire, tranne che alla destra che si insediava al governo qualche mese fa non fosse stata concessa una notevolissima linea di credito anche da parte di osservatori non propriamente amici, o addirittura avversari, che tuttavia confidavano nella presenza e nella capacità di influenza di qualche indizio liberale in quel sostanziale complesso reazionario. Speranze vane. Specie in materia di giustizia, infatti – ma, con sguardo più largo, in ordine a ciò che orrendamente si dice “idea di società” -, la destra di governo ha immediatamente preso a esercitarsi nell’offerta di soluzioni politiche neppure soltanto conservatrici (che in un Paese che avrebbe assai poco da conservare sarebbero a dir poco indesiderabili), ma di deciso carattere recessivo praticamente in ogni ambito del vivere civile e sociale della cosiddetta “Nazione”.

Pochi mesi di governo hanno con abbondanza dimostrato che le quotidiane amenità ministeriali sul destino etno-centrico della patria, l’elevazione a protocollo esecutivo di un italianismo simultaneamente tronfio e straccione, la sguaiata rivendicazione di un riordino sociale che la fa finita con gli immigrati anteposti agli italiani, con “la questione rom” e con le lingue forestiere lasciate libere di contaminare le purezze della nostra didattica, non erano gli episodi di ridicole intemperanze di cui si rendeva responsabile un personale politico poco sorvegliato: ma denunciavano una cultura.

Quella che non casualmente ma sistematicamente offre prova di sé stessa addebitando a un deputato nero di avere una suocera indagata e una moglie con le borse di lusso, accusando la controparte politica di tenere bordone alla mafia e ai terroristi perché visita un detenuto al 41 bis, reclamando il pugno di ferro per le zingare che avrebbero una gravidanza dietro l’altra per scampare il gabbio, facendo del proprio profilo social il mattinale che riporta lo stupro a patto che a commetterlo sia l’africano, la rapina a condizione che a farla sia il clandestino, l’aggressione sempre che il responsabile non sia un italiano bianco di famiglia tradizionale.

Sulla giustizia, in particolare, questa piega ormai compiutamente realizzata della effettiva fisionomia della destra di governo non potrebbe essere più evidente. I pochi conati di ipotesi liberale affidati a qualche comunicato eccentrico di un Guardasigilli che ha deluso solo gli illusi erano puntualmente contraddetti da una pratica di governo che ha attuato con esattezza il precetto elettorale della donna che sarebbe diventata presidente del Consiglio (“garantisti nel processo e giustizialisti nella pena”): col dettaglio che sulla metà buona, le garanzie nel processo, non si capisce dove e come il governo sia intervenuto.

Se dall’equanimità giustizialista che reclama più manette per tutti si passa a un sistema ricondotto a giustizia con più manette per i diversi e per i poveracci vuol dire soltanto che il garantismo deve fronteggiare un nemico in più. Iuri Maria Prado

Il garantismo ad personam. Inchieste sulla famiglia Meloni: quando su Renzi Fratelli d’Italia era tutto fuorché garantista. Ciro Cuozzo su Il Riformista il 14 Maggio 2023

Il garantismo non è ad personam. O si è coerenti sempre e, quindi, si è garantisti con tutti (dal politico al disgraziato di turno) oppure, sbagliando, s’invoca il garantismo a convenienza, quando inchieste dei media e operazioni di polizia giudiziaria coinvolgono il tuo partito o la tua sfera privata, salvo poi mantenere quotidianamente uno spirito giustizialista su tutte le altre vicende.

Ne sanno qualcosa Giorgia Meloni e gli esponenti di Fratelli d’Italia. Nelle scorse ore, infatti, Il Domani e Repubblica hanno pubblicato due inchieste sulle società e sugli affari della madre e dell’entourage vicino alla premier. Un lavoro che prova a smontare la narrazione meloniana dell’underdog, ovvero della sfavorita che, nonostante le difficoltà, ce la fa e riesce ad emergere, analizzando le attività economiche dei familiari della Premier e i presunti affari (e plusvalenze) della madre tra una casa acquistata nonostante un reddito basso e un bar rilevato e rivenduto a prezzi più alti.

Una inchiesta che riguarda gli affetti di Meloni e chiama in causa ancora una volta una vicenda dolorosa per la premier, ovvero quella relativa al rapporto con il padre (Francesco Meloni, deceduto da tempo), scappato via in Spagna e protagonista di vicende giudiziarie che vedono la Premier del tutto estranea.  Meloni, infatti, ha più volte raccontato il doloroso rapporto con suo padre, che la abbandonò quando lei aveva poco più di un anno e con il quale dall’età di 11 anni non ha più avuto rapporti. “Quale è l’obiettivo di questo presunto scoop? Ve lo dico io. Mettere un po’ di fango nel ventilatore e accenderlo” ha replicato Meloni a Domani, aggiungendo che il loro obiettivo è “colpire tutte le persone che mi sono vicine, che mi vogliono bene, a una a una, giorno dopo giorno”. Per poi concludere: “Fatevene una ragione, mi vedrete camminare sempre a testa alta”.

Meloni nel mirino: le inchieste sulla sua famiglia di Domani e di Repubblica

E’ doveroso però ricordare come gli stessi esponenti di Fratelli d’Italia, premier in testa, in passato tutto questo garantismo non lo invocavano. Anzi. La stessa Meloni in Parlamento e l’allora consigliere regionale toscano Giovanni Donzelli, presentarono addirittura due interrogazioni per provare a far luce sugli ‘affari’ dell’azienda di Tiziano Renzi, padre di Matteo, e sull’inchiesta Consip.

Una inchiesta che vide addirittura Donzelli definirsi non felice “ma arrabbiato” per l’arresto del padre di Renzi (finì per un breve periodo ai domiciliari) perché “sono anni che alcuni fatti sono arcinoti, alcuni li abbiamo denunciati in maniera incontrovertibile: mi sorprendo che siano emersi solo adesso”. Peccato per Donzelli che dopo un lungo calvario giudiziario i genitori di Renzi sono stati assolti dal processo sulle false fatture perché “il fatto non costituisce reato”.

La stessa Meloni, all’epoca, sfoggiò la solita retorica giustizialista e populista sulla società del padre di Renzi: “E’ normale che in un’Italia in cui gli imprenditori non riescono ad accedere al credito e si suicidano oltre 200mila euro di debiti della famiglia Renzi vengano pagati da fondi pubblici?”. Ma il tempo è galantuomo, è Meloni a distanza di anni avrà, si spera, sicuramente cambiato approccio su inchieste mediatiche e giudiziarie. La presunzione d’innocenza vale per tutti e per averne certezza basta chiederne conferma al ministro della Giustizia (voluto proprio dalla premier) Carlo Nordio, garantista DOCG.

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

In mancanza di Di Battista, abbiamo trovato il sostituto perfetto. Donzelli, il comunicatore meloniano che ignora la storia: Almirante aiutò un terrorista, Berlinguer non fece sconti. Nicola Biondo su Il Riformista il 3 Febbraio 2023

Foto Roberto Monaldo / LaPresse 15-09-2022 Roma (Italia) Politica Camera dei Deputati – Dl Aiuti bis Nella foto Giorgia Meloni e Giovanni Donzelli durante il voto degli emendamenti 15-09-2022 Roma (Italy) Chamber of Deputies – Law Decree on urgent measures relating to energy, water emergency, social and industrial policies In the pic Giorgia Meloni, Giovanni Donzelli

Ci sono due semplici verità nella storiaccia che ha coinvolto il Pd e il parlamentare meloniano Giovanni Donzelli. Per il Pd è questa: come in mille altre questioni anche sul 41bis non ha un’idea chiara.  Capita quando si è sempre in cerca di un’identità senza costruire una visione. Chissà se questa ormai decennale inadeguatezza finirà nei libri di storia. Quegli stessi libri di storia che con ogni evidenza Donzelli non ha mai letto e siccome crediamo nella funzione pedagogica del giornalismo proviamo a ricordarla all’incendiario parlamentare.

State con i terroristi“, questa è la provocazione che ha rivolto al Pd nell’aula di Montecitorio il parlamentare a cui Giorgia Meloni ha affidato la comunicazione del partito.  Insomma, una roba da social, da no-vax della Storia più che da esponente delle Istituzioni. Al Pd, dove tutti si sentono campioni di analisi, strategie e comunicazione, si vede che i libri di storia non li aprono, esattamente come Donzelli. Perché in caso contrario saprebbero tutti, da Donzelli appunto al vertice del Pd, che il primo e unico caso di un leader politico che ha fatto una scelta di campo a favore di un terrorista, in almeno un caso, è quello di Giorgio Almirante.

Il fatto è noto: a metà degli anni ’70 l’allora segretario del MSI fece recapitare al latitante Carlo Ciccuttini svariati milioni di lire. L’uomo, dirigente friulano del partito, era pesantemente coinvolto nella strage di Peteano, tre carabinieri uccisi da un’autobomba, e in decine di altre attività terroristiche. L’obiettivo di quella dazione di denaro era quello di consentire al latitante, condannato molti anni dopo per quei fatti, un’operazione alle corde vocali per rendere inutile alle indagini la comparazione con la telefonata di rivendicazione per Peteano, fatta proprio da Cicuttini.

Almirante venne indagato per favoreggiamento e alla fine si salvò dal processo optando per l’amnistia. Una soluzione legale ma davvero poco onorevole. Nel processo venne condannato l’altro imputato che con il segretario del MSI aveva destinato la somma di 35.000 dollari al terrorista, come risultava dai documenti che provarono il passaggio del denaro tramite banche estere.

La cultura garantista del Riformista ha un giudizio assai preciso sulla mole di errori politici che il PCI prima e i suoi eredi dopo hanno commesso nella torsione dello stato di diritto e nel rendere permanenti leggi emergenziali. Ma su una cosa è impossibile dubitare: Enrico Berlinguer non  promise a nessun terrorista di sottrarsi alla giustizia. Almirante sì. E figurarsi se uno come l’ex-ministro Orlando, colui che nonostante il parere favorevole delle Procure di Palermo, Firenze e Caltanissetta, negò al moribondo Provenzano di uscire dal 41bis, possa essere oggi tacciato della ridicola accusa di Donzelli. La sua carriera, ne siamo certi, non subirà contraccolpi. In mancanza di Di Battista nell’aula di Montecitorio abbiamo trovato il sostituto perfetto.

Nicola Biondo

Giovanni Donzelli rinnega il fratello dopo l’arresto: tanto “vota per il centrosinistra”. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

Il capo dei deputati di Fratelli d’Italia, Giovanni Donzelli, l’altro giorno ha avuto in Tv uno scontro con Maria Elena Boschi, di Italia Viva. Si discuteva di garantismo, e la Boschi ha fatto notare che il partito di Donzelli usò politicamente le inchieste che la magistratura toscana realizzò contro suo padre e su suo fratello (che poi finirono tutte con ampie assoluzioni), mentre da parte di Italia Viva non ci fu neanche l’ombra di una polemica quando fu arrestato – accusato di bancarotta – il fratello di Donzelli. Anzi – ha detto la Boschi – noi ci siamo augurati e ci auguriamo che le indagini possano al più presto scagionare il fratello di Donzelli.

Beh, sapete come ha replicato Donzelli? Non negando, o viceversa scusandosi, ma semplicemente rinnegando suo fratello. Ha detto che suo fratello vota per il centrosinistra. E che quindi non ha niente a che fare con lui. Come abbiamo riassunto nel titolo di prima pagina, citando il titolo di un vecchio libro di Antonio Pennacchi, “mio fratello è figlio unico”. Naturalmente nessuno vieta all’onorevole Donzelli di usare gli argomenti che vuole per le sue polemiche in Tv. Certo, l’immagine che ne esce non è proprio quella di un combattente coraggioso. Rinnegare il proprio fratello nel momento nel quale si trova ad attraversare il periodo più difficile della sua vita, non è proprio il massimo che ci si può aspettare da una persona.

In genere le persone di una certa statura morale difendono i fratelli e i parenti e gli amici. Uno dei padri della destra di questo secolo, Gianfranco Fini, quando si trovò nei guai non per colpa sua ma per colpa del fratello della sua compagna (la nota vicenda della casa di Montecarlo), non fu neanche sfiorato dall’idea di poterlo scaricare. Tantomeno di accusarli di essere di sinistra. Diciamo la verità: un’altra stoffa, un’altra moralità politica.

C'è chi l'amore lo sceglie per noia, chi per professione e Fratelli d'Italia grida prigione! In prigione chi va con le prostitute: ritorno al Medioevo, il nuovo cult di Fratelli d’Italia. Francesca Sabella su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

Fratelli d’Italia vuole “tutelare la moralità pubblica e il buon costume” e quindi subito in gattabuia chi va a comprar l’amore dalle donnacce di strada. No, non è una burla, è quanto prevede una proposta di legge del partito della premier Giorgia Meloni a prima firma del viceministro Edmondo Cirielli che intende modificare il codice penale ripristinando il carcere per questo tipo di reato. L’obiettivo dichiarato nell’illustrazione della proposta depositata alla Camera è “contrastare in maniera più adeguata il degrado morale che affligge la nostra collettività” e “rafforzare la sicurezza dei cittadini“. Si mira così anche a “tutelare la moralità pubblica e il buon costume”.

Il degrado morale… carcere… moralità. Non c’è dubbio: la proposta è di Fratelli d’Italia. Ma dopo aver riso, proviamo a ragionare. Invece di gridare prigione, prigione e prigione e chiudersi prima che in una cella in un falso moralismo e in una retorica perbenista da quattro soldi che manco su Famiglia Cristiana si può leggere, perché non ragioniamo su ciò che c’è a monte? Ovvero, la prostituta è il mestiere più antico del mondo. Come cantava De Andrè: “C’è chi l’amore lo fa per noia, Chi se lo sceglie per professione, Bocca di rosa né l’uno né l’altro, Lei lo faceva per passione”.

Ecco, c’è chi lo fa per noia, chi per professione e chi per passione. Chi lo fa per professione dovrebbe, come tutti i lavoratori onesti, pagare le tasse e dichiarare i suoi guadagni. Su questo siamo d’accordo e allora perché non guardare a un modello di civiltà e tutela delle prostitute? Amsterdam, per esempio, lì le donne che vogliono esercitare questo mestiere pagano le tasse, fanno le analisi, lavorano in un ambiente protetto, caldo e pulito, sono tutelate dallo Stato al quale pagano le tasse.

E ancora, non tutte quelle che la sera sostano sotto un lampione lo fanno per scelta. Molte sono costrette dalla fame o peggio ancora da qualcuno che le ha trascinate in Italia promettendo sogni e fama e invece le ha solo affamate e schiavizzate. Andiamo da loro a chiedere se vogliono fare un altro lavoro, se hanno bisogno di aiuto. In quanto ai clienti, non vi sembra un po’ eccessivo mettergli le manette ai polsi per aver scelto di pagare per ricevere amore? Un po’ sì dai. Che anche loro debbano pagare e magari anche con il Pos per poter comprare le attenzioni di una donna, siamo d’accordo, ma da qui ad ammanettarli ce ne passa. Suvvia… basta con questa ossessione del carcere a ogni costo. Sembra di tornare ai tempi del proibizionismo, proviamo a pensare in maniera più moderna, più intelligente, al passo con i tempi.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

La proposta e le polemiche. Chi è Edmondo Cirielli, l’ex carabiniere di Meloni che vuole i ‘zozzoni’ in carcere. Redazione su Il Riformista il 28 Gennaio 2023

L’onorevole Edmondo Cirielli, di Fratelli d’Italia, l’ha pensata giusta. Ha presentato un disegno di legge che prevede il carcere per i clienti delle prostitute. Ma non vuole punirli perché sfruttano le prostitute, cosa che forse lo lascia abbastanza indifferente. Vuole punirli perché sono degli zozzoni che turbano il decoro delle città. Cirielli dice che se l’atto sessuale viene consumato dentro un‘automobile con i vetri ben oscurati e appannati, si può anche chiudere un occhio e lasciare impunito il cliente. Ma se i vetri non sono appannati, la polizia deve intervenire e trascinarlo in prigione. Che poi uno si chiede: ma come faccio ad appannare i vetri prima di spogliarmi?

Qual è l’idea del Cirielli? Che gli atti osceni vadano stroncati. Se vuoi sfruttare la prostituzione fallo pure, ma devi farlo con accortezza e senza dare scandalo. Che volete, Cirielli è un ex carabiniere e ha sempre apprezzato l’uso della prigione come strumento moderno di governo. Quello che più preoccupa è il futuro. La possibilità che dopo aver cambiato nome ai ministeri, proibito i rave, deciso che le Ong possono anche salvare i naufraghi a condizione che poi li sbarchino nei porti di Bologna, Firenze, Milano e L’Aquila, dopo tutto questo il nuovo governo, spinto da Cirielli, si spinga oltre e torni a introdurre nel nostro codice penale il delitto d’onore, l’adulterio femminile, l’obbligo dell’alzabandiera nelle scuole (se ne è già parlato) e l’adesione, per i bambini, a piccole organizzazioni Balilla. Però qualcosa di buono potrebbe anche venire. Per esempio l’introduzione del giovedì fascista, con l’obbligo della mezza giornata di riposo.

I casi Soumahoro e Qatargate. Il garantismo a targhe alterne della destra, vale solo per i ricchi e gli amici. Luigi Manconi su Il Riformista il 26 Gennaio 2023

Caro Direttore,

per i partiti e per i giornali di destra è stato un gioco fin troppo facile quello di denunciare la vocazione giustizialista della sinistra in occasione della polemica sul ministro della Giustizia Carlo Nordio e sulle sue intenzioni di ridurre il ricorso alle intercettazioni telefoniche. Fin troppo facile, e posso dirlo a ragion veduta, perché di quella sinistra – ancorché faticosamente – faccio parte. E, dunque, posso affermare che la vocazione giustizialista alberga tuttora nella maggioranza di questa area politica.

Ma non riesco, non riesco proprio, a evitare la replica (un po’ puerile, lo ammetto): e allora voi? Qui, l’abusata parabola della pagliuzza e della trave si impone, e non solo per ripicca: perché, piuttosto, colpevolizzare esclusivamente la sinistra, come si merita, rischia di assolvere la destra italiana. Che è, poi, la più giustizialista d’Europa. Come sempre, bisogna salvaguardare e valorizzare le eccezioni, ma se i garantisti collocati a sinistra possono contarsi sulle dita di due mani, o poco più, quelli collocati a destra (nei media e nel sistema politico) non superano le dita di una. Innumerevoli le conferme. La fallacia di un presunto garantismo di destra rivela impietosamente tutta la sua povertà rispetto a tre regole fondamentali. Uno: il garantismo vale per tutti, amici e nemici, alleati e avversari, sodali e competitori. Due: il garantismo deve essere universalista. Cioè capace di tutelare ricchi e poveri, potenti e deboli, privilegiati e non garantiti. Tre: il garantismo si afferma a prescindere dall’identità di colui al quale va applicato, dunque a prescindere dal curriculum criminale, dalle idee politiche, dall’adesione al sistema democratico, dalla simpatia che suscita o dalla riprovazione che ispira.

Quanto i partiti e i media di destra facciano strame di questi principi, è sotto gli occhi di tutti. Basti notare che, in occasione delle due più recenti vicende giudiziarie “di sinistra” (caso Soumahoro, Qatargate) la destra compattamente, come un sol uomo e un solo vocabolario, come un unico pensiero e un’unica postura, si è scatenata contro il campo avversario, senza la più esile preoccupazione garantista. (Ricordo una sola eccezione: Iuri Maria Prado). E così è andata, inesorabilmente, nel corso degli ultimi trent’anni. D’altra parte, il connotato classista del garantismo della destra è lampante: non vale mai, dico mai, quando diritti e garanzie dovrebbero tutelare gli individui più deboli e in particolare gli stranieri e le persone private della libertà personale. I decreti sicurezza del ministro Salvini hanno fatto scempio di tutte le garanzie, processuali e penali, e hanno contribuito all’introduzione di un “diritto diseguale” per chi non sia titolare della cittadinanza italiana.

L’abolizione di un grado di giudizio per coloro che ricorrono contro il mancato riconoscimento dello stato di rifugiato (introdotta, peraltro, da un governo di centro – sinistra), la pratica dei respingimenti collettivi, le limitazioni al diritto – dovere di soccorso in mare, sono altrettanti strappi inferti al sistema delle garanzie. Infine, mentre una dozzina di anni fa, la difesa della causa di Stefano Cucchi veniva assunta anche da esponenti della destra (da Melania Rizzoli a Flavia Perina), oggi nulla del genere. Non un solo esponente dell’attuale maggioranza ha pronunciato una sola parola sulla vicenda dello sciopero della fame di Alfredo Cospito contro il 41-bis. E appena un paio di anni fa, in occasione della “mattanza” (parole della procura) ai danni dei detenuti di Santa Maria Capua Vetere, i parlamentari di destra che si sono espressi lo hanno fatto per comunicare la propria solidarietà agli aguzzini. In conclusione, mi sembra innegabile che non possa essere la destra a dare lezioni di garantismo alla sinistra. Come non può essere il contrario. E la cosa riguarda anche il cosiddetto Terzo Polo.

Come dimenticare che, al momento della formazione del suo esecutivo, Matteo Renzi, per il Ministero della Giustizia, fece al capo dello Stato il nome di Nicola Gratteri, il più lisergico e spensierato (in senso letterale) dei giustizialisti italiani? E nel corso di quello stesso governo, le preoccupazioni garantiste del premier si adattavano agevolmente alla valutazione delle opportunità. L’intransigenza garantista di Renzi è, ahilui, acquisizione più recente. Quindi, come si vede, il più pulito c’ha la rogna (anche io, e ne ho fatto pubblica ammenda proprio su queste colonne). La conseguenza è una sola: rinfacciare tentazioni manettare all’opposto schieramento non porta da nessuna parte. Fino a che qualcuno non dismetterà per primo le armi e, dunque, non rinuncerà a colpevolizzare un avversario perché avversario, il populismo penale umilierà tutte le nostre migliori intenzioni. Cordiali saluti. Luigi Manconi

Dei delitti e delle pene. La destra vuole più penitenziari, la sinistra più penitenze e nessuno pensa alla vita dei detenuti. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 29 Dicembre 2022.

Per i partiti al governo la violenza e l’illegalità del carcere sono considerate il congruo corrispettivo dovuto alle canaglie, mentre Pd e Cinquestelle vogliono applicare le cure carcerarie con equanime trasversalità sociale: più catene per tutti

Sul sistema delle carceri la destra è nettamente riformatrice: ne vuole di più, vuole che ne siano costruite altre. E ovviamente non perché i detenuti stiano più larghi o vivano in strutture più decenti: ne vuole di più perché purtroppo quelle che ci sono non bastano a contenere tutta la gente in più che la destra forcaiol-riformatrice vorrebbe ficcarci dentro. In argomento, la sinistra è invece fermamente conservatrice. Da quelle parti, lo stato delle carceri forma la materia di qualche editoriale compassionevole, di una convegnistica routinaria ed ecumenica, una specie di ventriloquìa cappellana che mormora sulle sofferenze dei detenuti, ma senza che tutto questo neppure pallidamente assomigli a quel che ci vorrebbe se non ci si limitasse, appunto, alla deplorazione che allarga le braccia davanti al sistema tanto cattivo.

E quel che ci vorrebbe è andare contro la destra dei piombi e contro il primo polo giustizialista cui invece la sinistra si inchina, vale a dire il partito delle procure e della reazione giudiziaria che senza sosta ormai da decenni, e anzi sempre più fortemente, è il garante della continuità dell’inciviltà carceraria in questo Paese.

La contaminazione prodotta a sinistra dal neofascismo grillino c’entra abbastanza poco con una piega avversa alla civiltà giuridica e alla tutela dei diritti individuali che a sinistra è piuttosto autonoma e originaria. E verosimilmente non era soltanto il consenso in fuga verso i Cinquestelle, né soltanto un servile omaggio in favore dei pm influencer, a far dire al segretario del Partito democratico che non ci si può dividere tra giustizialisti e impunitisti: era appunto quel conservatorismo di fatto, lo stesso che accetta quale fisiologico effetto collaterale di una malintesa legalità la sistematica violazione della Costituzione punto e basta, una cosa diversa rispetto a quella più bella del sistema solare che affonda le radici nell’antifascismo, nell’Associazione nazionale partigiani italiani (Anpi), nell’Atac e nei palinsesti di Raitre.

Almeno a destra (non è un merito: è una differenza) la violenza e l’illegalità del carcere sono considerate il congruo corrispettivo dovuto alla canaglia, da monitorare tutt’al più quando c’è caso che tocchi alla gente dabbene, generalmente e alternativamente tale per censo o appartenenza alla cerchia familiare o di cosca partitica. A sinistra si tratta invece tutt’al più di redistribuire quell’ingiustizia, e sulla constatazione che in carcere c’è soprattutto povera gente il rimedio è garantire che le cure carcerarie si applichino finalmente con equanime trasversalità sociale, in buona sostanza più catene per tutti.

Stupirsi che le cose non migliorino quando a contrapporsi sono simili impostazioni non è neppure da ingenui, è da gente che vuol credere e far credere di essere nel giusto quando imputa rispettivamente a una parte o all’altra i mali del sistema penal-carcerario: mentre così una parte come l’altra sono soltanto la diversa pronuncia dell’identico verbo reclusivo. Semmai da aggiustare, da destra, con qualche penitenziario in più e, da sinistra, con qualche penitenza in più per i colpevoli che la fanno franca.

La destra forcaiola. Altro che governo garantista, era solo un’illusione. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Gli arretramenti in senso anti-garantista della maggioranza di centrodestra possono sorprendere solo chi ingenuamente aveva dato credito a qualche vago proclama liberale di quello schieramento e alla scelta di officiare Carlo Nordio a capo del ministero della Giustizia.

In realtà non era nemmeno necessario attendere qualche mese di esercizio esecutivo per capire che la linea di quella maggioranza si sarebbe affidata a una direttiva anche peggiore rispetto a quella del partito delle Procure, vale a dire il risentimento di piazza, violento e plebeo, che fa accantonare i diritti delle vittime dell’ingiustizia in omaggio a quelli della gente “perbene”, la gente che non tira la fine del mese, la gente che si comporta come si deve mentre i criminali e la canaglia la fanno franca: insomma la gente dell’Italia onesta che fa da serbatoio di voti per il demagogo forcaiolo che agita il pugno di ferro, possibilmente ornato di rosario, e reclama quel che dopotutto Giorgia Meloni aveva promesso, garantismo prima del processo (ma quando mai?) e giustizialismo nell’applicazione della pena (sempre). A cominciare dai tormenti del carcere duro e dell’ergastolo ostativo di cui addirittura ci si compiace nel vederli finalmente applicati ai malati di cancro.

Evidentemente sul presupposto che quando un pericoloso criminale è arrestato non ci si debba limitare a impedirgli di nuocere: e che compito dell’ordinamento, da rivendicare orgogliosamente, sia invece di farlo soffrire. Che poi di garantismo prima del processo si veda poca traccia, anzi nessuna, e che in questi giorni si assista a intendimenti di involuzione illiberale che riguardano non solo l’esecuzione ma proprio la fase anteriore all’irrogazione della pena, proprio la fase di attivazione del potere punitivo dello Stato, proprio l’area in cui avrebbe dovuto insistere – figurarsi – il già dimidiato approccio garantista della destra Ruspa&Ordine, è solo la riprova di quanto fosse perlopiù apparente e dopotutto contraffattorio il lustro di attenzione ai diritti civili di cui faceva mostra questa destra: e di quanto fosse invece profonda e genuina la completa estraneità di quella tradizione politica alle ragioni dello Stato di diritto incardinato sul rispetto dei diritti individuali, non quelli degli amici e famigli, non quelli dei sodali di partito, ma quelli delle persone sottoposte a giustizia e perciò solo, dunque, in quanto parti deboli, bisognose dell’attenzione garantista.

Una patina liberale certificata dalla presenza di un guardasigilli di ottime letture rischia di trasformarsi nel lasciapassare che licenzia controriforme anche più regressive rispetto a quelle che farebbero la felicità del potere togato, e questo proprio perché la subordinazione alla chiama forcaiola e il disinteresse per i diritti delle vittime della giustizia sono per questa destra motivi di indirizzo anche più forti della corrività di sinistra verso la prepotenza del sistema giudiziario. È un giustizialismo insediato e accreditato nella piazza, anziché nei corridoi delle procure e del Csm, e rischia perciò di essere anche più selvaggio. Iuri Maria Prado

Travaglio ed i 5 stelle.

Antonio Giangrande: Di Pietro, Grillo, il Movimento 5 Stelle e gli “utili idioti giustizialisti”.

L’Opinione del dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Le incalzanti notizie di cronaca giudiziaria provocano reazioni variegate tra i cittadini della nostra penisola. Sgomento, sorpresa, sdegno, compassione o incredulità si alternano nei discorsi tra i cittadini. Ma emerge, troppo spesso, una ipocrisia di fondo che è la stessa che attraversa, troppo spesso, la nostra società. Ma… chi è onesto al cento per cento? Credo nessuno, nemmeno il Papa. Chi non ha fatto fare qualche lavoretto in nero? Chi ha fatturato ogni lavoro eseguito? Chi ha sempre pagato l’iva? Chi ha dichiarato l’esatta metratura dei propri locali, per evitare di pagare più tasse sulla spazzatura? Chi lavora per raccomandazione o ha vinto un concorso truccato? Chi è un falso invalido o un baby pensionato? Chi per una volta non ha marinato l’impiego pubblico? Ecc.. Chi è senza peccato scagli la prima pietra! Naturalmente, quando non paghiamo qualche tassa, ci giustifichiamo in nome della nostra “onestà” presunta, oppure del fatto che fan tutti così: “Io non sono un coglione”! E così via…

Ecco allora che mi sgranano gli occhi all'ultimo saluto a Casaleggio il 14 aprile 2016. La folla grida “Onestà, onestà, onestà”, frase di sinistroide e giustizialistoide natali. "Onestà, onestà". Questo lo slogano urlato a più riprese dai militanti del M5S alla fine dei funerali del cofondatore Roberto Casaleggio a Milano. Applausi scroscianti non solo al feretro, ma anche ai parlamentari presenti a Santa Maria delle Grazie, tra cui Alessandro Di Battista e Luigi Di Maio. Abbracci, lacrime e commozione fra i parlamentari all'uscita.

“La follia di fare dell'onestà un manifesto politico”, scrive Alessandro Sallusti, Venerdì 15/04/2016, su "Il Giornale". «Gli unici onesti del Paese sarebbero loro, come vent'anni fa si spacciavano per tali i magistrati del pool di Mani pulite, come tre anni fa sosteneva di esserlo il candidato del Pd Marino contrapposto a Roma ai presunti ladri di destra. Come tanti altri. Io non faccio esami di onestà a nessuno, me ne guardo bene, ma per lavoro seguo la cronaca e ho preso atto di un principio ineluttabile: chi di onestà colpisce, prima o poi i conti deve farli con la sua, di onestà. Lo sa bene Di Pietro, naufragato sui pasticci immobiliari del suo partito; ne ha pagato le conseguenze Marino con i suoi scontrini taroccati; lo stesso Grillo, a distanza di anni, non ha ancora smentito le notizie sui tanti soldi in nero che incassava quando faceva il comico di professione».

In pochi, pochissimi lo sanno. Ma prima di diventare il guru del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, Gianroberto Casaleggio aveva avuto rapporti con la politica attraverso le sue società di comunicazione. In particolare con un politico anni fa molto in voga e oggi completamente in disgrazia: Antonio Di Pietro.

«E' così, quando vedono una figura che potrebbe offuscare o affiancare la popolarità di Grillo, i vertici del Movimento si affrettano a epurarla». La sua storia, dall'appoggio incondizionato ricevuto all'allontanamento improvviso, è il simbolo del rapporto tra l'Italia dei Valori e Beppe Grillo, scrive Francesco Oggiano il 22 giugno 2012 su “Vanity Faire”. Il partito dell'ex pm è da sempre quello più vicino per contenuti al Movimento. Il sodalizio è iniziato con la nascita del blog ed è continuato almeno fino agli scorsi mesi. Grillo ha sempre sostenuto l'ex pm, definito una «persona perbene» e soprannominato «Kryptonite», per essere rimasto «l'unico a fare veramente opposizione al Governo Berlusconi». I «vertici» sarebbero quelli della Casaleggio Associati, società fondata dal guru Gianroberto che cura la comunicazione del Movimento 5 Stelle. La «figura» in ascesa era lei, Sonia Alfano. 40 anni, l'esplosiva eurodeputata eletta con l'Idv, poi diventata Presidente della Commissione Antimafia europea, arrivando al culmine di una carriera accidentata (prima la rottura con Grillo, poi con l'Idv) iniziata nel 2008. Figlia del giornalista Beppe assassinato dalla mafia, l'eurodeputata è stata la prima ad aver creato una lista civica regionale certificata da Grillo, nel 2008. Già attiva da tempo nel Meetup di Palermo, si presentò in Sicilia ignorata dai media tradizionali e aiutata dal comico prese il 3% e 70 mila preferenze. «Alla vigilia delle elezioni europee del 2009, Grillo e Di Pietro vennero da me e mi chiesero di candidarmi a Strasburgo. Io non sapevo neanche di che si occupava l'Europarlamento», racconta oggi. Perché Casaleggio avrebbe dovuto allontanare due europarlamentari popolari come Sonia Alfano e Luigi De Magistris? Chiede Francesco Oggiano a Sonia Alfano: «La mia sensazione è che quando i vertici del Movimento annusano una figura "carismatica" che può offuscare, o quantomeno affiancare, la leadership mediatica di Grillo, diano inizio all'epurazione».

Già dal gennaio 2003 il Presidente dell'Associazione Contro Tutte le Mafie, dr Antonio Giangrande, in una semideserta ed indifferente assemblea dell'IDV a Bari, in presenza di Antonio Di Pietro e di Carlo Madaro (il giudice del caso Di Bella) criticò il modo di fare nell'IDV. L'allora vice presidente provinciale di Taranto contestò alcuni punti, che furono causa del suo abbandono: Diritto di parola in pubblico e strategie politiche esclusiva di Di Pietro; dirigenti "Yes-man" scelti dal padre-padrone senza cultura politica, o transfughi da altri partiti, o addirittura con troppa scaltrezza politica, spesso allocati in territori non di competenza (in Puglia nominato commissario il lucano Felice Bellisario); IDV presentato come partito della legalità-moralità in realtà era ed è il partito dei magistrati, anche di quelli che delinquono impunemente; finanziamenti pubblici mai arrivati alla base, così come ne hanno tanto parlato gli scandali mediatici e giudiziari.

Ma non è questo che fa pensare cento volte prima di entrare in un movimento insipido come il M5S. Specialmente a chi, come me, per le sue campagne di legalità contro i poteri forti è oggetto perpetuo degli strali dei magistrati. Incensurato, ma per quanto?

FU IL TENENTE GIUSEPPE DI BELLO IL PRIMO A SCOPRIRE L’INQUINAMENTO IN BASILICATA, PER PUNIZIONE LO DENUNCIARONO PER “PROCURATO ALLARME!” Tenente della polizia provinciale di Potenza denuncia l’inquinamento e perde la divisa. A Potenza viene sospeso e condannato. Il caso affrontato con un servizio di Dino Giarrusso su "Le Iene" del 17 aprile 2016. “Io rovinato per aver fatto il mio dovere. E per aver raccontato i veleni del petrolio in Basilicata prima di tutti”. In un colloquio lo sfogo di Giuseppe Di Bello, tenente di polizia provinciale ora spedito a fare il custode al museo di Potenza per le sue denunce sull'inquinamento all'invaso del Pertusillo, scrive Antonello Caporale il 4 aprile 2016 su "Il Fatto Quotidiano". «La risposta delle istituzioni è la sentenza con la quale vengo condannato a due mesi e venti giorni di reclusione, che in appello sono aumentati a tre mesi tondi. Decido di candidarmi alle regionali, scelgo il Movimento Cinquestelle. Sono il più votato nella consultazione della base, ma Grillo mi depenna perché sono stato condannato, ho infangato la divisa, sporcato l’immagine della Basilicata. La Cassazione annulla la sentenza (anche se con rinvio, quindi mi attende un nuovo processo). Il procuratore generale mi stringe la mano davanti a tutti. La magistratura lucana ora si accorge del disastro ambientale, adesso sigilla il Costa Molina. Nessuno che chieda a chi doveva vedere e non ha visto, chi doveva sapere e ha taciuto: e in quest’anni dove eravate? Cosa facevate?».

A questo punto ritengo che i movimenti a monoconduttura o padronali, che basano il loro credo sulla propria presunta onestà per non inimicarsi i magistrati, ovvero per non essere offuscati dall’ombra degli eroi che combattono i poteri forti e ne subiscono le ritorsioni giudiziarie, vogliano nelle loro fila solo “utili idioti”. Cioè persone che non hanno una storia da raccontare, o un’esperienza vissuta; non hanno un bacino elettorale che ne conosca le capacità. Insomma i padroni del movimento vogliono dei “Yes-Man” proni al volere dei loro signori. “Utili idioti” scelti in “camera caritatis” o a forza di poche decine di click su un blog imprenditoriale. “Utili idioti” sui quali fare i conti in tasca: sia mai che guadagnino più del loro guru. A pensarci bene, però, gli altri partiti non è che siano molto diversi dal Movimento 5 Stelle o l’IDV. La differenza è che gli altri non gridano all’onestà, ben sapendo di essere italiani.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto Quotidiano” il 9 settembre 2023.

[…] L’altroieri il governo annuncia l’ennesimo giro di vite da grida manzoniana: manette più facili, pene più alte, divieti assortiti fra cui quello credibilissimo di usare il telefono, multe, Daspo, ammonimenti, revoche di patrie potestà e altre trovate “securitarie” (quelle che spacciano per sicurezza nei fatti la rassicurazione a chiacchiere). 

Il tutto riservato ai minorenni: baby pusher, baby bulli, baby gang, baby delinquenti, baby doll, soprattutto se non condannati in via definitiva. Per i maggiorenni, purché ricchi e/o potenti e/o famosi, meglio se pregiudicati e detenuti, la pena massima resta il Parlamento.

O, per i più sfortunati che non possono più entrarci perché condannati a più di 2 anni, la libertà di girare e fare i loro porci comodi. Proprio mentre il governo partoriva la “stretta” per gli juniores, due bei seniores provvedevano a rammentarci come funziona la giustizia all’italiana. Uno è Denis Verdini, suocero del vicepremier Salvini, ex senatore berlusconiano e poi, per coerenza, filorenziano. 

Condannato in Cassazione a 6 anni e mezzo e in appello a 5 e mezzo per due bancarotte fraudolente, dovrebbe essere in galera. Ma nel 2021, dopo appena 91 giorni, il giudice di sorveglianza lo scarcerò d’urgenza da Rebibbia perché era un “soggetto particolarmente vulnerabile al contagio da Covid” e occorreva “tutelare in via provvisoria la sua salute”. Lo stesso contagio lo rischiavano gli altri 1.200 ospiti del carcere, ma non si chiamavano Denis né Verdini, dunque restarono dentro.

Da allora, il nostro eroe è ai domiciliari a Firenze, ma il Tribunale di sorveglianza gli concede di andare a Roma 3 volte a settimana per visite dentistiche (a Firenze, si sa, non esistono dentisti). E lui, già che c’è, nel tragitto incontra il sottosegretario Freni (leghista come suo genero), manager Anas e l’ex deputato e imprenditore pregiudicato Bonsignore. 

Cioè viola le pur generose prescrizioni per infilarsi – sostengono i pm – in nuovi traffici. Uno si aspetta che lo rimettano in carcere, come gli evasi normali. Invece lo indagano, ma rimane a casa sua.

L’altro è Salvatore Buzzi, già ergastolano per omicidio, poi graziato, ricondannato a 12 anni e 10 mesi definitivi per le corruzioni di “Mondo di mezzo”. Secondo calcoli e ricalcoli, dovrebbe star dentro fino al 2028. Invece è uscito dopo un solo anno: la Cassazione ha scoperto che, essendo alcolista, aveva iniziato la riabilitazione proprio sette giorni prima del verdetto definitivo; ergo il suo arresto fu illegittimo, perché non gli diede il tempo di chiedere di andare in comunità. 

Resta da capire cosa debba fare di più un povero delinquente Vip per finire in galera e restarci. A parte tornare bambino.

Altro che presunzione d'innocenza. Renzi risponde a Travaglio: “Io imputato, lui pregiudicato: lo disistimo non per questo, ma per l’odio…” Redazione su Il Riformista il 13 Maggio 2023 

“Il Riformista ha un direttore imputato, il Fatto Quotidiano ha un direttore condannato: orgogliosi di essere diversi, anche in questo”. Matteo Renzi risponde così a Marco Travaglio che “oggi scrive un editoriale per dire che il direttore del Riformista, cioè il sottoscritto, è imputato. Vero: come noto sono davanti al giudice dell’udienza preliminare per Open. Il Fatto Quotidiano invece è guidato da un direttore pregiudicato che si chiama Marco Travaglio” sottolinea l’ex premier.

“In altre parole lui è stato condannato penalmente in via definitiva, cosa che io non sarò mai. Ma non è per questo che lo disistimo” spiega Renzi che chiarisce: “Lo disistimo per il suo carico di odio che tutte le sere esprime in TV contro chi non la pensa come lui”.

Altro che presunzione d’innocenza, Travaglio nel suo editoriale si è scagliato, per l’ennesima volta, sia contro l’editore del Riformista, l’avvocato e imprenditore Alfredo Romeo, che contro l’attuale direttore editoriale Matteo Renzi. La loro colpa? Essere imputati (e non condannati, attenzione).

Nel mirino del pregiudicato Travaglio l’editoriale di Renzi sul processo Open. Editoriale dove spiegava ai lettori che “anche oggi mi presenterò in Tribunale, a Firenze, nell’ambito del “processo Open” per poi aggiungere che “debbo ai lettori una spiegazione sul perché Il Riformista non seguirà questa udienza preliminare, né questo processo”.

“Questo giornale non è il luogo della mia difesa. Mi difendo da solo” ha aggiunto Renzi. Parole che hanno fatto scattare l’ennesima caccia alle streghe di Travaglio.

Qualcuno spieghi a Travaglio che i giudici non sono un jukebox. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 2 Maggio 2023

Ma a Travaglio qualcuno prima o poi glielo dovrà pur spiegare, ammesso che non sia refrattario a tali argomenti.

La magistratura non è brava, efficiente, determinante e fedele servitrice dello stato quando si tratta di arrestare, incolpare, rinviare a giudizio, condannare qualcuno e poi si trasforma nell’esatto opposto, ai limiti della connivenza, quando assolve.

Non funziona così. I giudici non sono un jukebox che mette il disco scelto dal Travaglio di turno che inserisce il soldino.

Perché è proprio quello che traspare dalle dichiarazioni del Marco nazionale sull’esito del noto processo, al secolo conosciuto, come quello sulla “trattativa stato-mafia”.

La verità è che il santone del giustizialismo, il Bernardo Gui de noantri, non tollera che sentenze di ultimo grado smontino accuse delle quali si è, o si era, reso paladino demolendo altresì quello che è ormai un suo teorema e cioè che una semplice messa in stato di accusa è già di per sé fonte di certa colpevolezza.

Del resto non fu forse il ragazzo a sostenere tempo fa che “Non c’è nulla di scandaloso se un presunto innocente finisce in carcere”?

E fa niente se la persona reclusa subisce umiliazioni e danni che nessuno potrà riparare, fa niente se spesso le accuse sono mosse da procure peracottare, fa niente se si crea ingiustizia, l’importante è che scorra il sangue, non della vendetta si badi bene, ma della sete della flagellazione, del gusto crudele alla punizione, dell’odio che cerca sfogo nella sofferenza e fa niente se il povero cristiano di turno non ha commesso un cacchio niente.

Travaglio ha ribaltato il principio della presunzione di innocenza.

Non basterebbe una vita per raccontare i fiumi di scienza e cultura giuridica che danno un fondamento al principio di non colpevolezza nei quali si sono bagnati tutti i più grandi pensatori della storia moderna che si sono cimentati nelle ragioni dell’etica, della morale e del diritto.

Già Platone, nella “Apologia a Socrate”, narrava delle tre difese svolte a sé stesso dal filosofo ateniese, in altrettanti processi abbastanza campati in aria e che si conclusero con la sua condanna a morte. Era il 399 a.C. ma già da allora Socrate teorizzava che una persona è da considerarsi innocente sino alla condanna definitiva, che le prove devono essere addotte da chi accusa e non da chi si difende e  che, in mancanza di prove, una persona non può essere condannata e deve essere considerata innocente.

Sin da allora dettò i principi nei quali ogni studente di giurisprudenza schiuma il suo sudore, tutti fustigati dal severo Francesco Mercadante, professore di filosofia del diritto, e tutti protesi, a partire da Socrate, passando per Hobbes, Locke, Poitier, Rousseau, per finire al mio concittadino Capograssi, nel cercare di capire che uno Stato, nell’adottare tali principi sceglie, scientemente e consapevolmente, di preferire il rischio che un colpevole vada in giro piuttosto che un innocente sieda, anche per un solo giorno, in carcere.

Sacri principi, anzi sacrissimi, che invece Travaglio demolisce, calpesta, spiaccica nella melma e ostenta anche l’arroganza di chi si pone sullo scranno più alto della purezza e della ragione.

“Devono essere loro a chiedere scusa…” per aver assolto dei colpevoli certi, ha detto il colpevolista a prescindere, dimenticando che si stava riferendo alla Cassazione e che la sentenza faceva il paio con quella della Corte d’Appello, quando, invece, quella decisione ha reso giustizia e dignità, per esempio, al Generale Mori, uno dei più efficaci e decisi avversari e combattenti contro la mafia.

Una frase e un modo di pensare che fa il paio con la pesca a strascico che certi pubblici ministeri, anche abbastanza mitizzati, fanno quando ordinano retate di tre, quattrocento persone, perché tanto una “decina che sono davvero colpevoli in mezzo ci capiteranno sicuro”.

Fa il paio con il “non poteva non sapere” che fece da teorema per la mattanza di mani pulite.

Fa il paio con il “concorso esterno in associazione mafiosa” che fece mettere sotto accusa chi i mafiosi li incontrava senza saperlo in mezzo a migliaia di persone presenti a un comizio o a una conferenza.

Insomma fa il paio con chi pensa che la giustizia sia un rituale sommario e non la strenua ricerca della verità perché l’importante è avere “un colpevole da linciare” e non “il colpevole” da condannare.

Quella brutta frase è la sintesi di un pessimo modo di pensare purtroppo condiviso da molti.

E merita una risposta. Che non può essere sommaria e rozza come loro sono stati, o meglio come lui è stato. La risposta vera, civile, riformista è discuterne, parlarne, convincere le persone che certi principi non sono negoziabili. Insegnare che il garantismo è un valore e non può essere bollato con il marchio della difesa e della ricerca dell’impunità. Chi è garantista non è complice di un delinquente. Non si tratta di aiutare un colpevole a sfuggire alla giustizia. Il fine, nobile, è di esigere che per condannare una persona bisogna rispettare tutte, ma proprio tutte, le regole che fanno funzionare le indagini e i processi, senza trucchi, senza scorciatoie, senza furbate e soprattutto cercando il colpevole, quello vero, e non uno qualunque che faccia da colpevole.

Si tratta di far comprendere alle persone che la giustizia non è un carnefice che fa scorrere la lama della ghigliottina per assetare la brama di sangue del popolo inferocito, ma un sistema che deve garantire la convivenza tra i cittadini.

Una brama di sangue che non è una roba di oggi ma è storia antica che si ripete nei secoli, apparteneva ai Romani che accalcavano il Colosseo e si affannavano al pollice verso, o alle genti che affollavano i patiboli per vedere cadere le teste durante il “terrore” di Robespierre, o che si attardavano a stuzzicare i piedi inermi delle streghe che penzolavano dai cappi.

Ma è anche la storia di un uomo giusto che nel pomeriggio di un venerdì, comparve davanti al Sinedrio per essere processato. Ma il popolo, assetato dallo stesso sangue, scelse Barabba, un ladrone, perpetrando la più grande ingiustizia della storia.

Travaglio era tra loro.

L'intergruppo del governo. Alla Camera in gruppo garantista: partecipano tutti tranne i grillini. Paolo Comi su L'Inchiesta il 16 Aprile 2023 

È nato questa settimana alla Camera l’intergruppo parlamentare sul ‘garantismo’. A farne parte, per il momento, Enrico Costa (Azione), Roberto Giachetti (Italia Viva), Luciano D’Alfonso e Marco Lacarra (Pd), Giorgio Mulè e Pietro Pittalis (Forza Italia), Dario Iaia e Ylenia Lucaselli (Fratelli d’Italia), Simonetta Matone (Lega), Maurizio Lupi (Noi con l’Italia), Riccardo Magi (+Europa) e Filiberto Zaratti (Avs). Gli unici non pervenuti in questa compagine quanto mai trasversale, i deputati grillini.

Il programma dell’intergruppo garantista «in queste ore sta già raccogliendo molte adesioni di numerosi parlamentari», assicura Costa che è stato fra i promotori dell’iniziativa. Sarà “una zona franca”, aggiunge Costa, i cui obiettivi saranno quelli di espandere il più possibile nella legislazione futura «il diritto di difesa, la presunzione di non colpevolezza, il giusto processo, la concezione di diritto penale come extrema ratio. Pilastri essenziali e irrinunciabili della nostra democrazia», puntualizza il deputato di Calenda. L’intergruppo, in particolare, punterà a “tutelare e attuare i principi costituzionali alla base dello stato di diritto” e sarà soprattutto un ‘pungolo’ nei confronti del ministro della Giustizia Carlo Nordio sul quale si concentrano molte aspettative.

Il Guardasigilli, al netto degli iniziali bei proclami, non ha ad oggi però prodotto iniziative legislative degne di nota. Nessuna riforma delle intercettazioni telefoniche, nessuna limitazione a uno strumento altamente invasivo come il trojan, nessuno modifica dei reati contro la pubblica amministrazione, a iniziare dal quanto mai evanescente “traffico d’influenze illecite”. E poi, nessun progetto di legge per una vera separazione delle carriere fra pm e giudici, con concorsi separati e due distinti organi di autogoverno. I maligni dicono che la premier Giorgia Meloni non voglia andare allo scontro con le toghe e quindi con l’Associazione nazionale magistrati. Molto meglio, quindi, un profilo basso senza riforme che potrebbero irrigidire i pm e far rivivere all’esecutivo la stagione dello scontro toghe-politica di berlusconiana memoria.

Nordio, poi, in questi primi mesi di governo ha riempito nuovamente gli uffici di via Arenula di magistrati ‘fuori ruolo’, mettendoli tutti in posti di comando, a iniziare da quello di capo di gabinetto e per finire a quello di numero uno del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap). Una decisione che non deve aver fatto certamente felice lo stesso Costa che da sempre è in prima linea per evitare che il Ministero della giustizia venga ‘colonizzato’ dalle toghe. È inutile, infatti, parlare di riforma della giustizia se non si mette prima un freno agli incarichi che la politica affida ai magistrati.

Se l’iniziativa dell’intergruppo avrà successo lo si vedrà nelle prossime settimane. Nordio, tornando alla riforme, ha, in un recente incontro con i vertici dell’Unione delle Camere penali, fatto sapere che «c’è stata la condivisione di un preciso e netto cronoprogramma, che avevamo già scandito d’intesa con gli altri colleghi sottosegretari». «Entro fine aprile-metà maggio avremo un primo pacchetto di norme, ovviamente da sottoporre al necessario contraddittorio», ha affermato il ministro.

Sul punto Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia in quota Forza Italia, ha annunciato che ci sarà «una sorta di sistema componibile tra riforma dell’abuso d’ufficio, del traffico di influenze, riforma della prescrizione, interventi sulla figura del pubblico ufficiale e dell’incaricato di pubblico servizio e normative per contrastare le baby gang». Sul fronte del processo penale, ha aggiunto Sisto, «ci saranno interventi sulla possibilità per il pubblico ministero di appellare le sentenze di assoluzione e sull’informazione di garanzia, che non deve essere più una condanna anticipata. E, sullo sfondo il grande tema delle intercettazioni telefoniche». Staremo a vedere. Paolo Comi

L'articolo sul Fatto Quotidiano. Il travaglismo è la fase suprema del populismo. Piero Sansonetti su Il Riformista il 7 Febbraio 2023

In un bell’articolo pubblicato l’altro giorno sul Fatto, Marco Travaglio ci ha fornito una spiegazione chiarissima di cosa lui ritenga sia la politica moderna. La politica moderna – dice – è il sondaggio. Lì inizia e lì si conclude. I partiti che non la seguono sono da buttar via, legati a concetti antichi ed estremisti, e cioè alla fissazione che la politica sia qualcosa costruito sulle idee e persino sul pensiero.

Dice Travaglio (sintetizzo senza modificare la sostanza): meno del 4 per cento degli italiani, secondo i sondaggi, si oppongono al 41 bis mentre circa il 70 per cento è favorevole a togliere la pensione all’ex senatore D’Alì che è stato messo in prigione, anche se è stato messo in prigione per un reato non contemplato dal codice penale (questa osservazione sul codice penale non è di Travaglio: è una mia nota). Benissimo: allora -dice Travaglio – mi spiegate perché il Pd invece di fare una battaglia per togliere la pensione a un signore di 71 anni si preoccupa di sospendere il carcere duro per un anarchico?

Non c’è cattiveria nell’analisi di Travaglio, non c’è astio. C’è stupore per il comportamento dissennato di chi sceglie le sue battaglie sulla base di idee precostituite e non non sulla scelta di rivolgersi al bacino più grande possibile di elettori. Dice Travaglio: queste cifre stanno lì a dimostrare che il Pd è lontanissimo dal paese reale. La domanda se sia giusto adoperare la tortura come mezzo di organizzazione della giustizia, secondo Travaglio, avrebbe un senso soltanto se fosse una domanda gradita a una maggioranza, o almeno a una significativa minoranza di elettori. Ma se si tratta solo di una domanda che nasce esclusivamente da una visione politica di ispirazione liberale è una domanda insensata. Anzi: è prova di un tradimento. Dimostra come un partito abbia voltato le spalle ai suoi elettori.

La stessa cosa vale per la pensione di D’Alì. È un principio da rispettare quello che stabilisce l’inviolabilità del diritto alla pensione? Nessun principio resta tale se entra in conflitto con un sondaggio. Un partito serio non si lascia chiudere nelle sue idee e nei suoi principi. È tenuto a seguire i principi della maggioranza, del senso comune. Anche quando – come diceva Manzoni – il senso comune litiga col buonsenso. Chiaro? A me sembra chiarissimo. Quello di Travaglio è un manuale sintetico ma completo di populismo. E la verità vera è che a seguire questo manuale non ci sono sono i 5 Stelle di Travaglio, ma quasi tutti i partiti presenti in Parlamento. La politica è messa all’indice. Proibita. E questa, credo, è una delle ragioni del decadimento civile di questo paese.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Quel tic infantile di chi ripete “ma allora stai con la mafia?” Le intercettazioni vanno manipolate con cura. Spesso ci sentiamo giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente. Chiara Lalli su Il Dubbio il 25 gennaio 2023.

C’è una legge universale che stabilisce che data la sciocchezza X nel giro di qualche ora seguirà una sciocchezza Y che equivale a una qualche moltiplicazione di X. La lievitazione dipende da vari fattori: l’umore, il numero di obiezioni ricevute, la capacità di argomentare.

Se poi la sciocchezza originaria riguarda una questione che divide bene i buoni dai cattivi, allora l’incastro mortale è perfetto (lo so che ormai anche “non bevo caffè” causa posizionamenti e liste di imperdonabili mostri da far precipitare giù dalle scale, ma la giustizia e le code di paglia funzionano ancora meglio dei bisticci agroalimentari).

Veniamo all’ultimo esempio di moltiplicazione delle X. Pierfrancesco Majorino il 20 gennaio così commenta la relazione del ministro della giustizia Carlo Nordio: “La guerra contro le # intercettazioni condotta dal ministro # Nordio è assolutamente preoccupante”.

Non mi soffermerò sulla scelta lessicale, sugli hashtag né sulla ingenerosa sintesi di quanto avrebbe detto Nordio, ma passerò precipitevolmente alla risposta di Majorino a uno che lo rimprovera di populismo elettorale.

Ma quale populismo. E quali voti. Qua il tema è capire se vogliamo sostenere l’azione della magistratura contro le mafie e la corruzione o meno” (il corsivo è mio).

Ora, di Majorino potremmo indubbiamente disinteressarci, ma quello che scrive è purtroppo così comune che rischiamo di fare come Massimo Troisi con la domanda “sei emigrante?”. Per esasperazione, per noia, per pigrizia. La fallacia di rispondere a dubbi e a critiche di metodo con l’adolescenziale “ah, ma quindi sei a favore della mafia?!” è esasperante forse solo quanto la fallacia di domandare con fare passivo aggressivo “se non hai niente da nascondere di cosa ti preoccupi?”. Insomma, la difesa d’ufficio va dal grande fratello delle intercettazioni al razionale e difendibilissimo “o con me, o contro di me”, quindi per i cattivi. In una discussione con queste premesse non può che andare tutto malissimo (e purtroppo non solo in una discussione).

Le intercettazioni, come ogni strumento, vanno manipolate con molta cura. E le indicazioni per farlo ce le abbiamo anche – cioè non ci servono altre leggi, ci serve ragionare e contenere la bava e la furia moralizzatrice – ma spesso in nome della Giustizia e della Verità ci sentiamo principini machiavellici e giustizieri della notte, finché nel rancore della ronda punitiva ci finisce un parente o un amico.

Tutto quello che inizia con una maiuscola e non è una città o un nome proprio è un po’ preoccupante e la cautela doverosa riguarda la pubblicazione, la correttezza delle trascrizioni, la comprensione, la loro rilevanza penale. Perché è ripugnante e ridicolo dover aspettare di finirci in mezzo per rendersi conto che il walk of shame è una primitiva forma di regolamento dei conti, che i verbali sono spesso inesatti e parziali, che si perdono i toni e i significati reali sacrificati in nome di un letteralismo incolpevole ma mortale (questo quando intercettato e trascrittore parlano la stessa lingua, in caso di lingue diverse e di traduzione aggiungiamo questa ulteriore insidia), che possiamo essere persone orribili o avere un senso dell’umorismo nerissimo e non per questo meritare la galera (né la gogna che vi fa sentire bravissimi e buonissimi).

È ripugnante e ridicolo pensare che questo voglia dire essere allegri sostenitori di mafie e corruttori o mafiosi e corruttori. Ed è ripugnante e soprattutto ridicolo questa difesa acritica “dell’azione della magistratura”. Perché dipende, ovviamente. E perché i magistrati, anche in buonafede, sbagliano e si ostinano e perseguono poveri cristi che non c’entrano nulla.

E perché certe regole non ci sono per ostacolare voi buoni, che non avete niente da nascondere e che vivreste in una casa fatta di cristallo perché la vostra anima è pura, ma esistono per ridurre le ingiustizie e gli errori. Che ci saranno sempre ma che non dovrebbero essere giustificati in nome delle vostre buone intenzioni. Perché le buone intenzioni lasciano cadaveri lungo la strada, e su quei cadaveri ci sono i segni di molte coltellate ma non c’è nemmeno la giustificazione di aver vendicato l’assassinio di Daisy Armstrong e non siamo in un romanzo di Agatha Christie.

Il ministro sotto attacco. Il ministro Nordio non si piega alle toghe, Travaglio lancia raccolta firme per cacciarlo. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 21 Gennaio 2023

Carlo Nordio fa paura. Perché è poco politico e dice le cose come stanno. Perché le riforme sulla giustizia vuol farle davvero. Ma soprattutto perché è un ex pubblico ministero e conosce i suoi polli, cioè gli ex colleghi. Non ha paura in aula di Cafiero De Raho e Scarpinato. Ma neanche del procuratore di Palermo De Lucia che parla di ”borghesia mafiosa” o del principe dei blitz Nicola Gratteri che dice con sarcasmo abbiamo arrestato duecento presunti innocenti, irridendo alla riforma sulla presunzione di innocenza.

Lui non ha paura e quindi l’assalto nei confronti del ministro Nordio è ancora più violento di quello subito da Marta Cartabia. Non perché qualcuno dei suoi detrattori le abbia mai concesso qualche riguardo, di quelli che una volta si usavano nei confronti di una signora, perché al contrario la nota misoginia di quelli come Travaglio si era eccitata più del solito. Non per una questione di differenza di genere dunque, ma per semplici motivi politici. E per il fatto non secondario che un partito ormai privo di identità come il Pd e i suoi ispiratori del Movimento cinque stelle facevano parte della maggioranza che sosteneva il governo Draghi. Il che non impediva al vero capo dei grillini e direttore del Fatto quotidiano di insultare la ministra ogni giorno, chiamandola “guardagingilli” e definendo i suoi provvedimenti legislativi come “schiforma”. Ma quanto meno in quei giorni il Pd teneva alzato il freno a mano del dissenso, ridotto a qualche mugugno “interno”.

Ma il problema è sempre lo stesso, ieri come oggi, e si chiama corporazione dei magistrati, soprattutto della parte più reazionaria e controriformista cui appartengono alcuni dei più famosi procuratori. Cui va aggiunta la piccola combattiva truppa di quegli ex che non sopportano l’idea di essere pensionati e poi anche di quelli che sono transitati in Parlamento con i Cinque Stelle. Tutti costoro non vorrebbero cambiare mai niente, nell’amministrazione della giustizia, aggrappati come sono alla forza straordinaria che il mondo della politica ha regalato loro fin dai tempi di Mani Pulite. E stiamo parlando di trent’anni fa. Un tempo lungo quasi quanto la latitanza di Matteo Messina Denaro, anni durante i quali qualcosa però è cambiato, e almeno se ne parla. Al termine di un lungo commento su Repubblica ieri Stefano Folli lo ha detto esplicitamente. Sono proprio le ultime tre righe, ma sono anche quelle che ti rimangono in mente, al termine della lettura: “..nessuno può sottovalutare il potere vero della magistratura e la sua forza anche mediatica”. Il che vuol dire teniamone conto, non lo dimentichi neppure il ministro. Ma nello stesso tempo si mette anche in guardia il lettore dal fatto che in democrazia mai toghe e divise dovrebbero aspirare al potere, e men che meno afferrarlo anche quando viene loro servito su un piatto d’argento, come accaduto in Italia.

Ma viviamo in un paese in cui un direttore di giornale come Travaglio con gli ufficiali di complemento Gomez e Padellaro può addirittura permettersi di raccogliere le firme per far dimettere un ministro, oltre a tutto appena nominato. La cosa dovrebbe fare un po’ ridere, in quanto si tratta di firme del nulla, perché dovrebbero servire, un domani a promuovere un referendum abrogativo di riforme future. Campa cavallo, ma i furbini sanno bene che un po’ di tagliagole pronti al tifo da stadio per introdurre anche da noi qualche sistema iraniano lo troveranno tra i propri lettori. Ma c’è poco da ridere visto che il guardasigilli è già sbattuto sul banco degli imputati, anzi decisamente già in gabbia, visto il livello delle accuse messe sul piatto. L’imputato Nordio dovrà rispondere soprattutto di istigazione a delinquere solo per aver avuto il coraggio di dire al Parlamento di svegliarsi, di smettere di essere “supino” davanti al pubblici ministeri. Viene accusato di aver pronunciato a voce alta quel che la maggior parte dei politici da anni sussurra nei corridoi e nel transatlantico di Montecitorio.

Il coraggio di Nordio spaventa le toghe. Perché sanno che un ex pubblico ministero che per 40 anni ha conosciuto dall’interno della corporazione più controriformatrice ogni battito, ogni sospiro, ma anche i complotti e le tentazioni “golpistiche”, non è un interlocutore da sottovalutare, soprattutto da avversario. Soprattutto perché, dopo l’uscita dei due libri di Palamara e Sallusti, tanti cittadini si sono fatti sospettosi, non credono più alla neutralità delle toghe, guardano con diffidenza quella bilancia che dovrebbe rappresentare l’imparzialità dei giudici, ne hanno capito il ruolo politico. E non giovano alla reputazione delle toghe vicende come quella che ha visto come protagonista un eroe di mani Pulite come Piercamillo Davigo e neppure il fatto che un altro pm della procura di Milano come Fabio De Pasquale sia processato a Brescia perché sospettato di aver danneggiato nel processo Eni, nascondendo prove a loro favorevoli, gli imputati che oltre a tutto sono poi stati assolti.

E’ davanti a questa tipologia di pubblici ministeri che il Parlamento vuol continuare a essere supino? E inoltre: dobbiamo lasciare le cose come stanno, quando un eroe di quei Ros che hanno anche arrestato Messina Denaro, uno come Mario Mori ha sofferto per 17 anni processi e accuse ingiuste e ingiuriose, e altre persone per bene estranee ai processi subiscono la gogna delle intercettazioni? Sono queste le cose che i pubblici ministeri e anche una parte del mondo politico non vogliono sentirsi dire. Avere un ministro di giustizia che dichiara esplicitamente di essere favorevole all’abolizione tout court del reato di abuso d’ufficio mette in imbarazzo soprattutto il Pd i cui sindaci, come ha detto Nordio alla Camera, stanno facendo la fila per implorare il ministro di essere coerente e di non accettare compromessi, perché non ne possono più di vedere la propria mano che trema davanti alla paura della firma.

Il problema politico oggi non è dunque quello della tenuta del ministro sui propri principi giuridici, perché qualche compromesso, come lui stesso ha detto, dovrà trovarlo. E non è neanche quello della tenuta della maggioranza, perché se sorprendentemente la premier ha voluto proprio lui, l’ex procuratore aggiunto di Venezia che non ha mai celato il proprio pensiero dietro nessuna forma di opportunismo, questo significa quanto meno che Giorgia Meloni ha in mente un piano di riforme sulla giustizia. Pur non coincidendo il suo pensiero totalmente con quello del guardasigilli da lei stessa scelto. Il punto sta in quelle tre righe finali dell’editoriale di Folli: nessuno può sottovalutare il potere vero della magistratura e la sua forza anche mediatica. E’ su quello che la politica deve oggi misurare la propria forza. Occorrerà essere politicamente armati, cioè rivendicare l’autonomia del Parlamento, e abbandonare la subalternità alle toghe. Non facile.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Il Fatto chiede di votare il peggior Guardasigilli. Travaglio apre il tiro al ministro: chi è il peggiore tra Conso, Biondi, Alfano e Cartabia? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 28 Dicembre 2022

Ne avrebbe tante da dire, Silvio Berlusconi, soprattutto se si ritrova a colloquio con Repubblica, il quotidiano delle dieci domande, ripetute e ribadite a raffica. Vasto programma. Ma si contiene. E non perché è Natale, e l’intervista si apre con l’immagine del patriarca e la sua famiglia, un po’ da presepe. Ma perché lui è fatto così. Il rientro al Senato dopo i lunghi tempi dell’interdizione e l’assistenza sociale in affidamento alla Sacra Famiglia gli suscitano risentimento? Solo un moto dell’animo: “…non posso negare che riprendere la parola in senato dopo tanti anni mi ha anche profondamente commosso”.

Programmi politici di riforma? “Penso alla riforma della giustizia, sulla quale il ministro Nordio ha dato indicazioni basate su una solida cultura garantista che è anche la nostra”. Non è l’argomento forte dell’intervista, su cui già tanto stanno commentando tv e social, perché quando parla il leader di Forza Italia puoi star sicuro che la notizia c’è. Ma pare ininfluente che nella manovra di bilancio abbiano trovato spazio due antichi cavalli di battaglia dell’ex presidente del consiglio, come l’aumento delle pensioni minime (con l’ambizione di portarle fino a mille euro) e la decontribuzione per l’assunzione dei giovani con nuovi contratti a tempo indeterminato. Quando c’è di mezzo Berlusconi la reazione è di tipo pavloviano, automatico, occorre abbinargli subito la parola “giustizia”, a volte buttata lì quasi fosse una parolaccia. Per quotidiani come la Repubblica delle dieci domande è d’obbligo tradurre una semplice frase come “penso alla riforma della giustizia” nel titolo “Bene la manovra, ora voglio la riforma della giustizia”.

Quel “voglio” che lui non ha mai pronunciato. Quasi come se avesse detto che la legge finanziaria è questione secondaria, e quel che conta adesso è buttar giù qualche legge “ad personam”, come piace al quotidiano delle dieci domande chiamare le riforme sulla giustizia. Quasi una minaccia alla Presidente del consiglio Giorgia Meloni, da parte di colui che non fa mistero del fatto di ammirare il nuovo guardasigilli non scelto da lui. Quello che in altra pagina dello stesso quotidiano viene definito “garantista della domenica”, proprio dalla giornalista nel cui vocabolario quell’attributo è stato cancellato prima ancora di esser stato scritto.

Ma è Carlo Nordio il nuovo bersaglio del partito delle dieci domande. Che cosa di meglio allora, dopo che il pm genovese Francesco Pinto lo ha accusato di aver rispolverato “il vecchio repertorio della P2”, se non accomunarlo negli intenti e nei progetti di riforma a Silvio Berlusconi? E contrapporlo paradossalmente a colei che lo ha voluto negli uffici di via Arenula anche quando il fondatore di Forza Italia ancora insisteva su Elisabetta Casellati? Poco importa che il pensiero del ministro di giustizia sia stato espresso nel corso degli anni con articoli, libri e interviste che non saranno sfuggiti all’attenzione di Giorgia Meloni prima di effettuare la scelta del guardasigilli. E ancor meno importa, a quanto pare, il fatto che il programma di riforme sulla giustizia di Silvio Berlusconi sia nato ben prima delle indagini che lo hanno coinvolto e che lo tengono ancora appeso alle incognite di qualche esito processuale.

Così, sarà perché a Natale a volte si gioca a tombola, a quei goliardi del Fatto è venuto in mente di prenderla alla larga e di mettere in piedi una sorta di tombola sui ministri, anzi un vero gioco delle freccette. Tirate, tirate, dicono ai loro lettori, e colpite al petto il guardasigilli che vi fa più schifo. I prescelti per la finale sono sei e non ce ne è neanche uno di sinistra. Su ogni nome c’è l’impronta digitale di Marco Travaglio, quasi gli avessero fatto dispetti personali. Porta rancore a Giovanni Conso, illustre giurista e persona per bene, e lo insulta dicendo una falsità sul mancato rinnovo di alcuni 41-bis che è stata smentita nel processo “Trattativa”.

Altre bugie sul ministro Alfredo Biondi e il famoso decreto sulla custodia cautelare, che non era affatto riservato ai reati contro la pubblica amministrazione, ma che ha avuto il merito di smascherare l’inutilità di certi arresti, tanto che quando il provvedimento fu ritirato, meno del 10% delle persone scarcerate fu di nuovo arrestata. Ce ne è per Castelli e Alfano, naturalmente. Ma non viene risparmiata l’ex ministra Marta Cartabia, che ha due colpe fondamentali, quella di essere una donna (che Travaglio con la consueta volgarità è arrivato a definire “Guardagingilli”) e anche quella di aver fatto parte del governo che ha tolto la poltrona al cocchino Giuseppe. Ora votate, disinformati lettori del Fatto.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Bocchino inchioda Travaglio: "Mi hai chiamato per farti togliere le cause". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2023

Scontro su Giuseppe Valentino, candidato di Fratelli d'Italia al Csm (candidatura poi ritirata), tra Italo Bocchino e Marco Travaglio da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nell'ultima puntata del 18 gennaio. "Quando candidi al Csm come vicepresidente cioè come capo uno che è indagato per 'ndrangheta... Per me è un presunto innocente ma a me preoccupa la sua biografia. È un signore che risulta in contatti strettissimi con un certo Paolo Romeo, che non c'entra niente con l'amico di Bocchino, quello dello scandalo Consip". "Anche amico tuo...", ribatte Bocchino.

"Mai stato. Non l'ho mai conosciuto", precisa il direttore de Il Fatto quotidiano. "Qualche frequentazione l'hai avuta... Gli hai fatto un'intervista fatta da te", lo incalza Bocchino. "Non sono stato né intercettato né rinviato a giudizio per traffico di influenze come te e Romeo", attacca Travaglio. Quindi Bocchino lo inchioda: "Sono lo stesso che chiamasti per chiedermi la cortesia di farti togliere le cause che ti aveva fatto Romeo e che ti sarebbero costate molto. Ho ancora i tuoi messaggi di ringraziamento, Marco". "Ho pubblicato le sue precisazioni perché siamo giornalisti corretti". Comunque, taglia corto Travaglio, "è un neo fascista, reo confesso di aver ospitato Franco Freda durante la latitanza. Come fa il partito del presidente del Consiglio a proporre alla vicepresidenza del Csm uno che ha queste frequentazioni? È una questione di opportunità politica".

Il caso Consip. Barbarie contro Alfredo Romeo, l’abbaglio di Travaglio e soci. Davide Faraone su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Prima arrivano il fango, gli editoriali apocalittici, le prime pagine definitive. Poi però arrivano i processi, quelli nei tribunali, e infine, molto spesso, arrivano le assoluzioni. Quello che ho appena descritto è un copione fin troppo abusato. È il modus operandi tipico di un certo giornalismo giustizialista che insegue lo scandalo, spesso lo crea dal nulla, sbatte il mostro in prima pagina, calpesta interessi, storie e vite senza curarsi di aspettare la verità. E quando la verità arriva, sotto forma di sentenza, semplicemente fa finta di non vederla. Niente prime pagine, niente articoli e soprattutto niente scuse.

L’ultimo caso del genere riguarda la vicenda dell’imprenditore Alfredo Romeo e i “Trentamila euro al mese promessi al babbo di Renzi”. Ieri, dopo cinque anni di processo, per Romeo è arrivata l’assoluzione. La corruzione per “il più grande appalto d’Europa” altro non era che una balla. Anche questa volta, come decine di altre in passato, Travaglio e soci hanno preso un abbaglio. Ma ovviamente non troverete traccia di questa notizia sul Fatto. Perché purtroppo, per alcuni giornalisti, ciò che conta non sarà mai la verità, ma semplicemente fomentare l’opinione pubblica contro fantomatici “colpevoli” additati come tali senza aspettare i verdetti dei tribunali. Chiamatela pure retorica colpevolista della giustizia mediatica, se preferite. Per quanto mi riguarda la parola più esatta per definirla sarà sempre barbarie. Davide Faraone

"Via le denunce, facciamo intervista". Travaglio e il giornalismo “corretto”, il caso Consip e la richiesta a Bocchino per mediare con Romeo. Paolo Liguori su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Giornalisti corretti, siamo tutti giornalisti corretti. Allora sono io scorretto perché non capisco questa correttezza dov’è. Alfredo Romeo è stato assolto dopo un processo Consip, che doveva essere l’asta truccata del secolo, e invece è stato ‘assolto perché il fatto non sussiste’ e il Fatto Quotidiano – giornalisti corretti – ha pubblicato un trafiletto piccolo così che la Gruber non ha neppure letto, perché se l’avesse letto non direbbe “non ne fate un fatto personale” (tra Bocchino e Travaglio), perché non è un fatto personale, è un fatto preciso di giornalismo.

Travaglio aveva delle denunce da parte di Romeo che riteneva eccessive le ‘centodiecimila’ pagine del Fatto Quotidiano su una sua presunta violazione della legge. Presunta perché poi si è dimostrata falsa, e Travaglio ha chiesto a Bocchino: “Per piacere, puoi dire ad Alfredo Romeo di levare queste denunce? In cambio faremo un’intervista”, ma non perché ‘siamo giornalisti corretti’, perché temeva quello che c’è stato adesso, dopo l’assoluzione. Se fossero rimaste quelle cause e non fossero state serenamente tolte, sarebbe certamente sottoposto a dei danni.

Questo giornalismo corretto, a cui fa capo Travaglio, è un giornalismo di silenzio, di omertà. Non è solo Travaglio, non è un fatto personale – ha ragione la Gruber – è anche il Corriere della Sera, è anche Libero, sono tutti i giornali italiani, La Stampa, Repubblica. Tranne il Giornale che ha pubblicato un trafiletto in cui spiegava dell’assoluzione. La cosa incredibile è che tra giornalisti corretti c’è stato uno scambio di accuse sanguinose: il Corriere della Sera ha pubblicato i conti dell’editore di Libero (che potrebbe essere in futuro l’editore del Giornale, Angelucci), perché potrebbe diventare un suo concorrente.

Correttezza? Mi sembra un colpo alle gambe! E cos’è successo il giorno dopo su Libero? Che Sallusti ha detto: “Ah! Ci avete azzoppato. Volevate dare i nostri conti? Ora vi do io i vostri, quelli di Cairo”. Un’altra raffica, un’altra bordata in prima pagina. Quale giornalismo corretto, notizie in prima pagina di reati gravissimi. Vengono tutti assolti e nessuno pubblica più nulla. Non solo, ma si scopre che Travaglio se la prende con Bocchino perché Bocchino è colpevole di essersi fatto intermediario per chiedere ‘per piacere’ ad Alfredo Romeo di levare delle denunce sacrosante a Travaglio. Fatto personale? Giornalismo corretto? Mi sento molto scorretto. Paolo Liguori

Davigo.

Caso verbali, Davigo fa appello: «Al Csm nessuno parlò di segreti». L’ex pm di Mani pulite impugna la condanna a Brescia per rivelazione. I legali: «Tutti sapevano». Il Dubbio il 20 luglio 2023

«Tutti gli altri soggetti che ai tempi vennero informati dal dottor Davigo dell'esistenza di quei verbali secretati» non hanno «mai» avuto «a obiettare alcunché nel momento in cui venne fatto oggetto dell'asserita “rivelazione segreta”, e neppure successivamente, quando emerse l'anno dopo pubblicamente la circostanza». Lo scrivono i legali di Piercamillo Davigo, gli avvocati Francesco Borasi e Davide Steccanella, nel ricorso depositato alla Corte di appello di Brescia contro la sentenza di condanna a un anno e 3 mesi (pena sospesa) e 20mila euro di risarcimento per Sebastiano Ardita nei confronti dell'ex membro del Csm, per aver rivelato il contenuto dei verbali della “Loggia Ungheria” resi dall'ex legale esterno Eni Piero Amara alla procura di Milano e a lui consegnati ad aprile 2020 dal pm Paolo Storari, lamentando inerzie investigative da parte dei suoi vertici e il “muro di gomma” rispetto alle necessità di svolgere indagini rapide sulla presunta loggia massonica.

«Anche costoro - si legge nel ricorso di Davigo con riferimento a una dozzina di persone informate dell'esistenza dei verbali a Roma fra maggio e settembre 2020 - seppure a diverso titolo (avvocati, magistrati) sono uomini di legge, e ricoprenti le più alte cariche istituzionali in campo giudiziario, compreso il procuratore generale presso la Corte di Cassazione (all'epoca Giovanni Salvi, ndr), il quale, ben guardandosi dall'eccepire al dottor Davigo la commissione del reato di rivelazione di segreto, ritenne di immediatamente rivolgersi al procuratore della Repubblica di Milano ( all'epoca Francesco Greco, ndr) per sollecitare la ritardata iscrizione' sul registro degli indagati.

«Ho letto la sentenza di condanna e l'ho trovata profondamente sbagliata e per questo meritevole di essere impugnata nella convinzione che la Corte di appello assolverà Davigo perché a mio parere non ha commesso nessun reato», ha spiegato all’Adnkronos l’avvocato Steccanella.

Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Perché Repubblica censura le motivazioni della condanna di Davigo: meglio non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 5 Luglio 2023

La notizia non c’è. Nemmeno un box, un colonnino, una foto notizia. Nulla.

In 40 pagine di giornale, ieri, Repubblica non ha trovato lo spazio per dare la notizia del deposito delle motivazioni della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha condannato il mese scorso ad un anno e tre mesi di prigione per rivelazione del segreto d’ufficio Piercamillo Davigo.

Repubblica è lo stesso giornale che ultimamente, un giorno sì e l’altro pure, intervista magistrati di ogni ordine e grado, in servizio ed in pensione, per criticare la riforma della giustizia voluta da Carlo Nordio. Ed è anche il giornale che, a maggio del 2019, fece lo ‘scoop’ pubblicando, con le intercettazioni in atto, quelle dell’hotel Champagne, determinando poi, come hanno riportato nella sentenza i giudici bresciani, i contrasti fra lo stesso Davigo ed i componenti del suo gruppo, Autonomia&indipendenza, ad iniziare da Sebastiano Ardita, poi risarcito con 20mila euro.

Strano modo di concepire il giornalismo dalle parti di largo Fochetti: si pubblicano atti coperti dal segreto e non si pubblicano le sentenze emesse nel popolo italiano.

A parziale giustificazione, va ricordato che Davigo è stato spesso intervistato da Repubblica. Meglio, allora, non girare il coltello nella piaga. Paolo Pandolfini

La sentenza Davigo e i giornalisti d’inchiesta: una storia ridicola. Dimenticanze, documenti nascosti, secretati, desecretati, esposti, prestati, spariti... cellulari inumiditi. Dichiarazioni da commedia. Malafede o ignoranza? Iuri Maria Prado su L'Unità il 5 Luglio 2023 

Anche chi non sia del mestiere può leggere senza problemi le centoundici pagine della sentenza del tribunale di Brescia che motivano la condanna inflitta, per rivelazione di segreto d’ufficio, al dottor Piercamillo Davigo. È una lettura di interesse non tanto per il ragionamento che ha portato il collegio giudicante a ritenere il dottor Davigo responsabile di aver commesso quel delitto, ma per la rassegna di strepitose circostanze che contornavano il ciclone degli accadimenti. Viene in mente quella pagina delle Memorie di Adriano: “…baci furtivi sulle scale, sciarpe fluttuanti sui seni, commiati all’alba, e serti di fiori lasciati sulle soglie”.

Solo che qui si stava sulle scale, anzi “nella tromba delle scale”, e a rendere memorabili i giudiziosi accoppiamenti non c’erano gli ardori dell’amante “che stordivano come una melodia frigia”, ma gli occhioni celesti e il profilo post-vaffanculo del presidente della Commissione antimafia, senatore Nicola Morra, il quale riceveva le illecite confidenze del dottor Davigo per poi sentirsi dire in sentenza (era testimone) che “non ha brillato per capacità comunicativa”, povera stella, coi giudici impietosamente incattiviti sulla “sospetta insipienza” dimostrata dal teste nel non rispondere in modo chiaro alla domanda ovvia, e cioè se il conciliabolo con il dottor Davigo fosse avvenuto in via amicale o istituzionale. Ed evidentemente lo sventurato, rispondendo in quel modo, cioè non rispondendo, dimenticava ciò che aveva dichiarato in precedenza (“In quel momento non parlavo con lui – vale a dire con Davigo, n.d.r. – nella mia veste di Presidente della Commissione Nazionale Antimafia e il colloquio aveva carattere privato”).

Altro che sciarpe fluttuanti, qui frusciavano le veline dei verbali prima inguattate e poi disseminate in favore dei confidenti, quelle che si potevano rammostrare al Csm perché non c’era il segreto – questa la tesi della difesa – e quelle che invece si potevano ostentare al suddetto Morra perché, lui sì, era… “tenuto al segreto”. E qui in effetti il lettore comune perde il filo, perché non capisce più come funzioni questa storia del segreto: che non c’è quando si tratta di divulgarlo ad alcuni, ma che ricompare per trasferimento in tromba di scale per vincolare non già chi lo divulga, bensì chi lo riceve, vale a dire Morra: che però dice di sé stesso di non essere lì come presidente dell’Antimafia, cioè il soggetto pretesamente tenuto al segreto, ma in veste di non si sa cosa. E dice pure, Morra, che Davigo non gli aveva riferito che i verbali erano secretati. Doveva essere sottinteso, boh, vai a capire.

E sugli usci, poi, non serti di fiori, ma ancora quelle veline, finite in impreveduto svolazzo alle porte delle redazioni e delle residenze private del giornalismo d’inchiesta – scelto a caso, come vedremo tra poco – il quale però, per per una volta, non le pubblicava immediatamente (prima era meglio chiedere consiglio). C’è per esempio questo Antonio Massari, del Fatto Quotidiano, anche lui testimone. Il presidente del tribunale gli domanda se “i giornalisti avevano legami con personaggi che gravitavano intorno al Consiglio Superiore”, e quello risponde che “ha dei contatti, come è giusto che sia, però le fonti sono sempre state riservate”. Peccato non sapere se ci sono giornalisti che lavorano sulla scorta di contatti con personaggi gravitanti intorno al Csm. Mica è necessariamente illecito, figurarsi, ma il lettore (abbiamo il “dovere” di informarlo, giusto?) potrebbe essere interessato a sapere se il Consiglio Superiore della Magistratura è il centro di un sistema satellitare che organizza lo smistamento dei “plichi anonimi” di cui parla la sentenza. Macché.

Poi c’è quest’altra, Liana Milella, di Repubblica, testimone a sua volta e anch’ella destinataria di quei plichi, il cui invio era stato preannunziato da una telefonata anch’essa anonima: una voce di donna con accento settentrionale (impagabili le pagine della sentenza che indugiano sulle abilità della giornalista di “distinguere una voce del nord da una voce del centro e una voce del sud”). Milella riceve l’incartamento, cioè il pacco di veline, accompagnato da una lettera che sparla del procuratore della Repubblica di Milano e del procuratore generale della Cassazione: e che fa? Dice che si sente “prigioniera di un segreto”: e allora porta il plico alla Procura di Roma, conservando tuttavia “una copia degli atti”.

Poi evidentemente qualcosa o qualcuno sprigiona la giornalista dal segreto che ne raggelava gli intendimenti, e lei decide allora di passare le veline (così almeno dice la sentenza, pag. 53, riga 8 e seguenti) a uno notoriamente abituatissimo al riserbo assoluto e totalmente estraneo anche al sospetto di qualche eccentricità nell’interpretazione delle funzioni consiliari: tale Luca Palamara. E qui il solito lettore un po’ tardo capisce che il segreto che ti sconsiglia di pubblicare la notizia è lo stesso che ti induce a passarla a quello che i giornali, tra i quali il tuo, definiscono come il protagonista del più grande scandalo giudiziario della storia repubblicana.

Poi la sentenza si intrattiene sui fatti mirabili di cui già scrivemmo qui: le chat irrecuperabili perché il cellulare ha preso umidità e il dottor Davigo se lo fa cambiare dal concessionario Apple che esegue il backup di tutto, ma non di quei messaggi (porca vacca!); i file nelle chiavette Usb, che però “si perdono sempre”, ma attenzione: i documenti non ci sono nemmeno se le chiavette non si perdono, perché vengono cancellati “per fare spazio”; le email introvabili perché gli account vengono soppressi nella cessazione dei ruoli giudiziari e istituzionali dell’imputato.

È lo “sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica” di cui parla la sentenza, la strana “morìa dei possibili elementi di riscontro” che il tribunale ritiene “ragionevolmente prossima” alla perquisizione subita dalla collaboratrice del dottor Davigo. Una vicenda, quest’ultima, che i giudici bresciani hanno ritenuto di non rimettere all’attenzione di “altre Autorità Giudiziarie” per gli accertamenti di ragione. E per noi bene così. Ma chissà per il giornalismo d’inchiesta.

Iuri Maria Prado 5 Luglio 2023

(ANSA lunedì 3 luglio 2023) - "Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari, (verbali formato Word, tramite chiavetta Usb, consegna nell'abitazione privata dell'imputato), e le precauzioni adottate in occasione delle disvelamento ai consiglieri - avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici - appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale". 

Lo si legge nelle motivazioni della sentenza di condanna a 15 mesi di reclusione nei confronti dell'ex consigliere del Csm Piercamillo Davigo, decisa lo scorso 20 giugno dal Tribunale di Brescia.

(ANSA lunedì 3 luglio 2023) - "Alla luce di quanto emerso nel processo viene da ritenere che tra il dottor Storari e il dottor Davigo si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante".

Lo si legge nella sentenza di condanna del Tribunale di Brescia, che ha inflitto un anno e 3 mesi, con la sospensione condizionale e la non menzione, all'ex componente del Csm Pier Camillo Davigo, in un passaggio che riguarda i suoi rapporti con il pm di Milano Storari, assolto definitivamente dalla vicenda con al centro i verbali di Piero Amara su una presunta loggia Ungheria.

Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che "nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all'epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un'iniziativa 'self made' o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra".

"Iniziò a fargli terra bruciata al Csm". Davigo condannato: nessuna intenzione di salvare la magistratura, la missione era screditare il “massone” Ardita. Le motivazioni della condanna a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 4 Luglio 2023 

Nessuna missione “salvifica” nei confronti della magistratura italiana, in quel momento sotto attacco per le rivelazioni ‘shock’ dell’avvocato Piero Amara, quanto piuttosto «polarizzare chirurgicamente l’attenzione» nei confronti dell’allora collega del Csm Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina. È quanto si legge nelle oltre cento pagine di motivazioni della sentenza, depositata ieri, con cui i giudici della prima sezione del tribunale di Brescia, presidente Roberto Spanò, hanno fatto a pezzi la linea difensiva di Piercamillo Davigo.

Il mese scorso l’ex pm di Mani pulite ed idolo di tutti i manettari del Paese era stato condannato ad una pena di un anno e tre mesi di prigione per rivelazione e utilizzazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria, resi da Amara, all’epoca legale esterno di Eni, alla Procura di Milano verso la fine del 2019. Per i giudici bresciani, in particolare, Davigo era convinto che Ardita, con il quale aveva fondato la corrente Autonomia&indipendenza e aveva scritto dei libri per Paper First, la casa editrice del Fatto Quotidiano di cui erano entrambi editorialisti di punta, fosse un “massone”, proprio come affermava Amara.

Una accusa terribile al punto, proseguono i giudici, che Davigo «iniziò a fargli terra bruciata al Csm». Ardita, da parte sua, aveva scoperto che qualcosa non andava ed infatti si era confidato con David Ermini, vice presidente del Csm, del fatto che diversi consiglieri gli avevano «tolto il saluto e lo schivavano». Alcuni componenti del Csm, come il togato Giuseppe Marra, anch’egli appartenente ad A&i, a seguito delle rivelazioni di Davigo erano addirittura arrivati a pensare che Ardita fosse «un uomo pericoloso».

Davigo, per questo motivo, è stato anche condannato a risarcire Ardita con 20 mila euro. L’ex pm di Mani pulite, invece, si era difeso dicendo di aver agito correttamente, rispondendo alla richiesta di ‘aiuto’ del pm milanese Paolo Storari che, dopo aver interrogato Amara, avrebbe voluto fare indagini per verificarne la veridicità del contenuto delle sue dichiarazioni. Paolo Pandolfini

Pm Milano: “Tra Davigo e Storari un cortocircuito fuorviante”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 3 Luglio 2023

È quanto si legge nelle 111 pagine di motivazioni con cui il tribunale di Brescia ha condannato l'ex componente del Csm a 1 anno e 3 mesi per rivelazione di segreto sui verbali della Loggia Ungheria resi dall'ex legale esterno di Eni, Piero Amara. ALL'INTERNO LA SENTENZA INTEGRALE

Tredici giorni dopo la condanna inflittagli in primo grado per rivelazione del segreto d’ufficio sono uscite le motivazioni sulla sentenza che ha sancito un anno e tre mesi di reclusione (con pena sospesa e non menzione nel casellario) a Piercamillo Davigo per il caso dei verbali della presunta Loggia Ungheria – resi dall’ex legale esterno di Eni, Piero Amara – che il magistrato aveva ricevuto dal pm di Milano Paolo Storari. “Le motivazioni offerte dal dottor Davigo per giustificare l’incontinenza divulgativa e i criteri di selezione adottati nella scelta dei depositari del segreto sono state assai variegati ma, in nessun caso, ricollegabili a fini ordinamentali”, scrive il presidente della Prima sezione penale del tribunale di Brescia, Roberto Spanò, nelle 111 pagine.

“Le modalità quasi carbonare con cui le notizie riservate sono uscite dal perimetro investigativo del dottor Storari, (verbali formato Word, tramite chiavetta Usb, consegna nell’abitazione privata dell’imputato), e le precauzioni adottate in occasione delle disvelamento ai consiglieri – avvenuto nel cortile del Csm lasciando prudenzialmente i telefonini negli uffici – appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale“.

“Alla luce di quanto emerso nel processo viene da ritenere che tra il dottor Storari e il dottor Davigo si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante”. Lo si legge nella sentenza di condanna del Tribunale di Brescia, che ha inflitto un anno e 3 mesi, con la sospensione condizionale e la non menzione, all’ex componente del Csm Davigo, in un passaggio che riguarda i suoi rapporti con il pm di Milano Paolo Storari, assolto definitivamente dalla vicenda con al centro i verbali di Piero Amara su una presunta “loggia Ungheria“. 

Nel corso del processo in cui era imputati Davigo si era difeso dichiarando di non aver seguito le vie formali perché tra i presunti appartenenti alla loggia erano citati anche due consiglieri del Csm. Secondo i giudici della Prima sezione penale, però, “non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm” dei verbali “in assenza dell’iscrizione nel registro degli indagati di nominativi di magistrati”. Inoltre, scrivono, “il dottor Storari si era rivolto a Davigo per rimuovere l’impaccio all’indagine e non per denunciare i colleghi menzionati da Amara“.

Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che “nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra”.

“Numerosi indizi – e non ‘una ricostruzione obiettivamente paranoica’ – suggeriscono che Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte di Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020“. Nella vicenda, infatti, “si è assistito ad un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici , pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti. Al riguardo, appare lecito pensare che la morìa dei possibili elementi di riscontro sia avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla Contrafatto“.

Il presidente della prima sezione penale Roberto Spanó ha aggiunto che “nel dibattimento non è stato possibile rischiarare compiutamente quanto sia realmente avvenuto all’epoca del fatto e, in particolare, se quella del sostituto sia stata davvero un’iniziativa ‘self made’ o non ci sia stato invece un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra“. Redazione CdG 1947

Sulla condanna di Davigo spunta l'ombra di Boccassini. Luca Fazzo il 4 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nelle motivazioni della sentenza di Brescia il ruolo di "Ilda la rossa" dietro le mosse del pm Storari

Forse alla fine la verità è quella che Piercamillo Davigo ha messo a verbale durante uno dei suoi interrogatori: «Il tempo passa e io invecchio». Come escludere che anche lo scorrere inesorabile e scortese degli anni abbia inciso, nell'aiutare il leggendario Dottor Sottile del pool Mani Pulite, ad infilarsi nel guaio che lo ha trasformato da inquisitore a inquisito, e poi da giudice a condannato? Implacabile il giudizio dei giudici: «Modalità carbonare (di Davigo ndr.), che appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionali».

Di certo c'è che le motivazioni depositate ieri della sentenza con cui il tribunale di Brescia ha inflitto a Davigo quindici mesi di carcere per rivelazioni di segreto d'ufficio lasciano aperte almeno due piste per spiegare come sia stato possibile che i verbali esplosivi del «pentito» Piero Amara sulla presunta loggia Ungheria siano finite prima nelle mani di Davigo, poi in quelle di una sfilza di magistrati e politici romani e infine sui giornali. Nella prima pista, quella che i giudici ritengono provata, Davigo è l'unico colpevole. Nella seconda, più inquietante, lo scenario cambia, affiorano ipotesi più complicate: forse Paolo Storari, il pm che consegnò materialmente i verbali a Davigo come gesto di ribellione contro l'insabbiamento delle indagini sulla loggia, non è l'unico ad avere parlato troppo, e forse Davigo sapeva tutto già prima. Forse, si legge nella sentenza, bisogna chiedersi «se quella del sostituto sia stata davvero un'iniziativa self made o non vi sia stato, invece, un qualche mentore ispiratore, come pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Chi è il «mentore ispiratore» di Storari? Tra i colleghi che avevano consigliato a Davigo di fidarsi del più giovane collega, la sentenza fa un nome pesante: lo stesso imputato ha detto che Storari aveva «delle credenziali che venivano da Ilda Boccassini, magistrato di straordinaria sagacia investigativa che lo aveva avuto nel suo dipartimento (...) aveva una fiducia illimitata in Storari, questo me l'aveva detto».

Per i giudici di Brescia, era comunque una fiducia malriposta. Perché la furia di Storari (che nel frattempo è stato assolto) contro l'insabbiamento dell'indagine sulla loggia, dei verbali in cui comparivano magistrati, politici, generali, viene considerata dai giudici di Brescia del tutto immotivata e insensata: la cautela con cui i capi di Storari, ovvero il procuratore Francesco Greco e la sua vice Laura Pedio, gestivano in quei mesi le rivelazioni di un soggetto ambiguo come Amara sono segno secondo il giudice Roberto Spanò delle «difficoltà incontrate dagli inquirenti nella gestione di un materiale limaccioso, cosparso da una patina scivolosa su cui era arduo far presa (...) la scelta organizzativa improntata alla cautela poteva dunque essere ispirata non a colpevole titubanza o, peggio, a volontà di insabbiamento, quanto piuttosto a ragioni di garantismo, onde evitare ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali».

Sta di fatto che Storari, di sua iniziativa o spinto da un «mentore occulto», sclera e porta le carte a Davigo. E su quello che accade dopo la sentenza non ha dubbi: Davigo commette una lunga serie di reati, consegnando o raccontando i verbali a gente che non aveva nessun diritto di conoscerli. E lo fa con un movente preciso: in quelle carte viene indicato come massone e aderente alla loggia un altro membro del Csm, Sebastiano Ardita, ex amico di Davigo divenuto suo nemico giurato. «Le risultanze processuali dimostrano che l'imputato, lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura (...) abbia piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l'attenzione sul dott. Ardita rendendo precaria anche in seno allo stesso Csm la posizione di un componente che egli considerava ormai fuori da gruppo». Cortesie tra colleghi.

I giudici: «Smarrimento della postura istituzionale». Forse sapeva della Loggia prima di aprile 2020. Simona Musco su Il Dubbio il 3 luglio 2023

«Incontinenza divulgativa», «selezione» dei confidenti, «modalità quasi “carbonare”» di circolazione di notizie segrete: sono tutti comportamenti attribuiti dal Tribunale di Brescia all’ex pm Piercamillo Davigo, le cui scelte, secondo il collegio che lo ha condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio, «appaiono sintomatiche dello smarrimento di una postura istituzionale». Sono motivazioni dure quelle con le quali i giudici hanno motivato la sentenza di condanna del processo nato dalla consegna, da parte del pm Paolo Storari, dei verbali di Piero Amara a Davigo, che ha poi scelto di non seguire i canali legittimi - pur conoscendo a menadito le regole - provocando un danno non solo all’ex amico Sebastiano Ardita, indicato falsamente quale membro della presunta “Loggia Ungheria”, ma soprattutto alle indagini, di fatto ammazzate dalla scelta compiuta dai due magistrati. «Con il suo comportamento - scrivono i giudici - l’imputato ha disseminato tossine denigratorie nella stretta cerchia di frequentazioni dell’ex amico, con ripercussioni anche sul corretto funzionamento del Csm». Ma soprattutto, «se l’elusione dei binari formali aveva lo scopo di impedire la divulgazione di una notizia da mantenere segreta, il risultato ottenuto è stato quello di averla diffusa in modo incontrollato».

Le scelte della procura di Milano, afferma il collegio presieduto da Roberto Spanò, furono d'altronde corrette: non solo era necessario evitare «ricadute pregiudizievoli ai soggetti coinvolti rispetto a notizie di reato anemiche o, peggio, strumentali», ma c’erano anche problemi di competenza territoriale da affrontare. Inoltre, «anche laddove si fosse inteso procedere nei modi indicati dall’imputato sulla base delle “dichiarazioni autoincriminanti" del legale - iscrivendo, quindi, almeno lo stesso Amara che si autoaccusava, ndr -, non vi sarebbe stata ragione alcuna di informare il Csm in assenza dell’iscrizione dei nominativi di magistrati, neppure in previsione di rilievi di natura disciplinare, inscindibilmente legati, nel caso di specie, a quelli penali». Di fronte al «muro di gomma» da lui denunciato, dunque, Storari avrebbe dovuto rivolgersi alla procura generale di Milano, l’unica «preposta al controllo delle disposizioni in materia di iscrizione delle notizie di reato e alla vigilanza sugli eventuali contrasti all'interno dell’Ufficio di procura».

L’incontro Davigo/Storari

Sono diversi i punti oscuri, stando alla sentenza. Tanto da non poter escludere nemmeno il dubbio che Davigo fosse a conoscenza dei verbali ben prima di aprile 2020 - data indicata come momento della consegna dei verbali - e che ci fosse una sorta di un «mentore ispiratore», come «pure farebbero pensare alcuni passaggi rimasti in ombra». Quel che è certo, secondo i giudici, è che tra Storari e Davigo «si sia creato un cortocircuito sinergico reciprocamente fuorviante». A partire dalla situazione descritta da Storari, «distonica rispetto a quella reale», facendo intendere a Davigo, «contrariamente al vero, che vi fossero resistenze rispetto all’indagine che intendeva sviluppare». All’ex pm, nonostante la grande esperienza da magistrato, era bastato poco per fidarsi: la «risonanza emotiva con cui questi aveva accompagnato il racconto» e il parere che l’ex collega Ilda Boccassini aveva di Storari. E anziché limitarsi ad ascoltare ed eventualmente consigliare il magistrato milanese, Davigo «ha cavalcato l’inquietudine interiore dell’interlocutore», convincendolo che il segreto non fosse opponibile ai consiglieri del Csm, nonostante «la strada maestra per investire il Csm della questione fosse, per sua stessa ammissione, quella di “fare un plico riservato”».

L’opponibilità del segreto

Ma il segreto era davvero non opponibile ai membri del Csm? Secondo i giudici no: se è vero che «per permettere al Csm di funzionare è necessario che i singoli consiglieri siano adeguatamente informati su ciò che devono decidere, tuttavia la materia è disciplinata da norme di rango secondario che fissano ben precisi paletti rispetto ai casi, ai modi e ai tempi in cui gli Uffici di procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al Consiglio atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività». Non c’è, dunque, un diritto ad un accesso incondizionato, perché spetta alla procura decidere se omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - «la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi». Proprio per tale motivo «la migrazione di atti coperti da segreto deve avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia». Nessuna prova, nel corso del processo, ha giustificato la scelta di Davigo, prima fra tutti quella di far circolare «atti riservati in assenza di passaggi formali». E anzi l’ex pm ha «allargato in maniera indebita la platea dei destinatari della rivelazione», senza acquietarsi nemmeno dopo aver raggiunto lo scopo di «instradare il procedimento “Ungheria” nei binari della legalità» con le prime iscrizioni del 12 maggio 2020. Il tutto giustificando le proprie azioni con la necessità di spiegare il suo allontanamento di Ardita. Ma per il collegio «non vi era nessuna necessità» di giustificare «la presa di distanza dai collega Ardita»: sarebbe stato sufficiente riferire genericamente, come fatto con altri interlocutori, di «ragioni di contrasto molto gravi di cui tuttavia “non poteva parlare”». Proprio per tale motivo, secondo i giudici, le rivelazioni, «lungi da essere legittime e necessitate, sono state in definitiva finalizzate a gestire rapporti e situazioni private all’interno del Csm».

Il movente

Secondo la sentenza, Davigo ha certamente «utilizzato il tema dell’asserita appartenenza massonica per fare terra bruciata intorno al dottor Ardita», tuttavia non è possibile provare con certezza «che abbia strumentalmente ottenuto prima - e divulgato poi - i verbali di Amara con animus nocendi, ossia animato da una cosciente volontà di propalare un’accusa che sapeva mendace in ragione di personalismi o di intenti ritorsivi dovuti a dissidi insorti nel passato con l’ex amico». E «lungi dal farsi promotore di una missione salvifica per la magistratura a fronte dell’attacco “violentissimo... all'Ordine Giudiziario nel suo complesso”» ha «piuttosto inteso polarizzare chirurgicamente l’attenzione sul dott.or Ardita, poiché, come egli ha candidamente spiegato nel giustificare la gemmazione delle rivelazioni versate ai soggetti menzionati nell’imputazione, vi era “dentro al gruppo consiliare una persona che, ove fosse stata esercitata l'azione disciplinare, avrebbe avuto problemi serissimi, persino di permanenza al Consiglio». E ciò perché se gli atti fossero arrivati al Csm per vie legali il plico contenente i verbali di “Ungheria” sarebbe necessariamente approdato in Prima Commissione, all’epoca presieduta proprio da Ardita. Da qui la «scorciatoia (...) funzionale ad occultare la paternità di un’iniziativa che avrebbe inevitabilmente provocato sconquasso in seno al Consiglio, nonché pesanti ricadute sul piano penale».

«Tu mi nascondi qualcosa»

La frase «sibillina» pronunciata da Davigo ad Ardita nel corso di una riunione del gruppo “Autonomia&Indipendenza” il 3 marzo 2020 per decidere quale posizione assumere in merito alla nomina del procuratore di Roma «potrebbe far supporre che questi già all’epoca fosse a conoscenza delle dichiarazioni dell’avvocato Amara». E sembra poco verosimile, secondo i giudici, che Storari, prima di rivolgersi all’allora per lui sconosciuto Davigo non si sia consultato con qualche collega milanese, come affermato in aula. Elementi di cui non si hanno prove e che potrebbero «spalancare uno scenario significativamente diverso da quello emerso nel processo». Numerosi indizi, scrivono i giudici, «suggeriscono che il dottor Davigo possa essere stato al corrente del contenuto delle dichiarazioni dell’avvocato Amara ancor prima della consegna materiale dei verbali da parte del dottor Storari, ove effettivamente avvenuta solo nell’aprile del 2020». Ma sul punto il collegio ha preferito non dilungarsi oltre. Ma nella vicenda, sottolineano, «si è assistito ad un vero e proprio sterminio di atti, corpi di reato, chat, mail, apparecchi telefonici, pen drive ed indirizzi di posta elettronica che non ha consentito di tracciare appieno gli accadimenti», una moria di possibili elementi di riscontro presumibilmente «avvenuta in epoca da ritenersi ragionevolmente prossima alla perquisizione subita nell’aprile del 2021 dalla dottoressa Contrafatto», ex segretaria di Davigo.

Magistratura. "Davigo come Falcone", l'oltraggio del "Fatto" per salvare il pm che ha profanato la sua toga. Felice Manti il 30 Giugno 2023 su Il Giornale.

Padellaro scivola su un paragone ardito: la storia dei due pm è antitetica

Noli miscere sacra prophanis, non si mescola il sacro col profano. Nel commovente tentativo del Fatto quotidiano di salvare il soldato Piercamillo Davigo dall'onta di una condanna, l'ex direttore Antonio Padellaro l'altro giorno ha infranto l'ennesimo tabù antimafia, paragonando le tristi vicende giudiziarie dell'ex magistrato simbolo di Mani Pulite a quelle di Giovanni Falcone. Una bestemmia anche per i più accaniti fan di Davigo, se si pensa che a Falcone un Csm condizionato dalla sinistra sbarrò prima la strada della Procura di Palermo poi quella Antimafia. Anzi, fu proprio una toga rossa come Alessandro Pizzorusso che sull'Unità giudicò unfit il magistrato morto a Capaci, incapace di guidare una creatura figlia della sua intuizione perché «come principale collaboratore del ministro della Giustizia Claudio Martelli non dà più garanzie di indipendenza».

Tra loro c'è una differenza gigantesca: Falcone è stato vittima dell'odio politico della sinistra, Davigo - che della stessa cultura si è abbeverato in questi anni - si è beccato una condanna per violazione del segreto. Al Csm Falcone non fu votato perché controcorrente, Davigo non potè correre perché pensionato. Una bella differenza. E il fatto che oggi a Palazzo de' Marescialli in quota Pd ci sia il delfino di Pizzorusso - al secolo Roberto Romboli, sulla cui eleggibilità si è discusso non poco - ne è la più straziante conferma.

L'idea che Davigo fosse un magistrato scomodo è un cliché sbagliato. Nessuno ne ha ostacolato i disegni, nessuno ha tentato di minare il suo percorso, la sua carriera è rimasta immacolata fino al pasticciaccio Eni-Amara-Storari. Le sue affermazioni («Non esistono innocenti, ma colpevoli che l'hanno fatta franca», «i politici non hanno smesso di rubare ma hanno smesso di vergognarsi», «Non vanno aspettate le sentenze») sono antitetiche ai dogmi di Falcone, che ha sempre criticato il khomeinismo, l'anticamera del sospetto come religione giudiziaria, il teorizzare matrici politiche e disegni scomodi come alibi per dimostrare l'infondatezza delle proprie tesi. Falcone non avrebbe mai ricevuto brevi manu dossier su altri colleghi come fece Davigo, mascariando il povero Sebastiano Ardita con cui fino a qualche mese prima aveva diviso il pane.

Quando Sergio Mattarella dice «la toga non è un abito di scena, va indossata per manifestare appieno la garanzia di imparzialità» parlava alla stampa perché Davigo e i pm protagonisti più sui giornali che in tribunale intendessero. Pensare a un Davigo bersagliato da vivo in un talk show, come avvenne per Falcone, è puro esercizio di fantasia, vista la pletora di cortigiani che ancora oggi ne magnifica le gesta nonostante tutto. «Le toghe celebrano i caduti ma non sempre fanno autocritica», disse Davigo. Ma Falcone non avrebbe mai inscenato una «obiezione di coscienza» a favore di telecamere come fece il pool di fronte a una legge del Parlamento nel 1994, lamentando per contro «un'aggressione mediatica senza precedenti», come se sfidare il potere legislativo fosse una forma di «resistenza».

L'azzardo su Davigo, salvato sacrificando l'icona Falcone, è segno dei tempi. D'altronde, i guai del Pd calabrese a braccetto coi boss (Nicola Gratteri dixit) interessano poco i giornalisti ciclostile delle Procure, accucciati e scodinzolanti di fronte alle carte che svolazzano dalle Procure, sia che riguardino fantomatiche trattative, sia foto fantasma che ritrarrebbero Silvio Berlusconi con i fratelli Graviano, giallo su cui è stato interrogato l'altro giorno a Firenze l'editore del Corriere Urbano Cairo. Inseguire i fantasmi evocati dal sedicente pentito Salvatore Baiardo anziché cercare la verità dentro la magistratura è il peggior segnale da dare alla mafia, a un pugno di giorni dall'anniversario della morte di Paolo Borsellino in via D'Amelio, il cui destino grida vendetta. Segno che la vera Antimafia è morta in quella torrida estate del 1992.

Estratto dal “Foglio” il 28 giugno 2023.

L'ex pm di Mani pulite ed ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, è stato ascoltato ieri dalla commissione Giustizia della Camera sulle proposte di legge che mirano a modificare la disciplina della prescrizione. 

“In quasi tutti i paesi occidentali […] la prescrizione non decorre dopo l'inizio del processo”, ha affermato per l'ennesima volta Davigo, ovviamente senza ricordare le statistiche che pongono la giustizia penale italiana in coda a tutte le classifiche internazionali per la sua lentezza (se non si facesse decorrere la prescrizione, i processi sarebbero eterni). 

[…] A un certo punto il davigismo è però andato in tilt. “Nel nostro paese c'è una percentuale di impugnazioni sconosciute negli altri paesi. In Francia solo il 50 per cento delle sentenze di condanna viene appellato, in Italia pressoché tutte”, ha detto Davigo con la solita foga scandalizzata.

Peccato che proprio una settimana fa Davigo, dopo essere stato condannato in primo grado dal tribunale di Brescia per la vicenda dei verbali secretati da Amara, abbia subito annunciato che impugnerà la sentenza di condanna, senza neanche leggere prima le motivazioni. Insomma, se nel nostro paese si impugnano troppe sentenze, è lo stesso Davigo a contribuire a questo problema in prima persona.

L'ennesimo paradosso in cui Davigo è caduto a causa della vicenda Storari-Amara. Anche in questo caso, l'ex pm di Mani pulite si è dimenticato di ricordare il contesto: con magistrati abituati a addestrare teoremi senza alcun briciolo di prova, […] l'impugnazione delle sentenze è un diritto fondamentale e inderogabile. Da difendere, anche a vantaggio di Davigo. 

I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati per l'ex pm di Mani Pulite. Piercamillo il condannato in audizione alla Camera: Davigo spiega il suo verbo su prescrizione e legge Bonafede. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 28 Giugno 2023

I reati si prescrivono e non si arriva a sentenza? La ‘colpa’ è degli avvocati. A dirlo è Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed idolo dei giustizialisti in servizio permanente effettivo. Davigo, fresco di condanna ad un anno e tre mesi di prigione per aver rivelato i verbali degli interrogatori dell’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara sulla loggia Ungheria, è intervenuto ieri in audizione alla Camera sulla riforma della prescrizione. La sua audizione era stata sollecitata dal M5s, per nulla in imbarazzo della condanna riportata da Davigo questo mese dal tribunale di Brescia. “Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a un incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico ad una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo ha accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e non comune rigore nelle argomentazioni”, ha replicato al Dubbio, mostrando un inaspettato garantismo, Valentina d’Orso, capogruppo pentastellata in Commissione giustizia a Montecitorio.

Alla Camera, prima ancora che Carlo Nordio presentasse all’inizio del mese la sua riforma della giustizia, sono incardinate tre diverse proposte di legge, a firma Enrico Costa (Azione), Pietro Pittalis (FI) e Ciro Maschio (FdI), che puntano a modificare le attuali norme sulla prescrizione, tornando al meccanismo antecedente a quello voluto dall’allora Guardasigilli Alfonso Bonafede e successivamente modificato da Marta Cartabia. L’ex presidente della Consulta, nella scorsa legislatura, aveva introdotto l’improcedibilità, uno strumento di tipo processuale che trascorsi due anni senza la pronuncia dell’appello determina la fine del procedimento.

Il problema della prescrizione, per Davigo, sarebbe dovuto al numero, a suo dire eccessivo, degli avvocati italiani che avrebbero tutto l’interesse a tirare in lungo le cause. “Gli avvocati in Italia abilitati al patrocinio in Cassazione sono 52mila”, ha ricordato l’ex pm. Essendo ’tanti’, per Davigo, presenterebbero appelli anche se non ci sono presupposti, in tal modo dilatando i tempi di definizione dei processi per raggiungere la tanta agognata prescrizione.

La ricostruzione di Davigo è stata immediatamente smontata da Costa, responsabile giustizia di Azione. Costa, infatti, tabelle ministeriali alla mano, ha evidenziato come la maggior parte delle prescrizioni avvenga oggi durante la fase delle indagini preliminari, quando l’avvocato non “tocca palla” essendo il pm dominus assoluto ed il procedimento coperto dal segreto. Quando il procedimento supera questa fase ha già consumato molto tempo.

Nessuna riforma, va ricordato, è riuscita ad intervenire in maniera efficace sui tempi delle indagini preliminari, prevedendo, ad esempio, sanzioni per i pm che per inerzia o altro lasciano i fascicoli in ‘sonno’. Il problema è molto serio come è stato ricordato dagli avvocati penalisti. La prescrizione, infatti, è una norma di diritto sostanziale e trova il suo fondamento nella Costituzione. Se la pena ha una funzione “riabilitativa”, che senso può avere farla espiare a distanza di tanti anni dal fatto commesso? Non è più riabilitazione ma ‘afflizione’. L’interruzione della prescrizione dopo la sentenza di primo grado che era stata introdotta da Bonafede aveva creato la figura processuale dell’imputato a vita, in balia delle decisioni dei magistrati e senza alcuna possibilità di incidere sulle stesse.

La riforma Cartabia ha, come detto, introdotto l’improcedibilità ma gli effetti, soprattutto per gli effetti civili non sono ancora valutabili. Il processo deve ricominciare davanti al giudice civile e nessuno è oggi in grado di fare previsioni sulla sua conclusione. Molto meglio, dunque, tornare, come evidenziato dai proponenti, ai tempi di prescrizione legati alla gravità del reato commesso.

Premesso che i reati gravi, quelli per fatti di sangue o con l’aggravante di mafia e terrorismo, sono già oggi imprescrittibili, anche i tanti contro la Pa hanno tempi molto lunghi di prescrizione. Guardando il catalogo dei reati di medio allarme sociale, nessuno, già con le modifiche introdotte da Andrea Orlando, si prescrive prima di 15 anni, un tempo assolutamente idoneo per celebrare i tre gradi di giudizio e in linea con il principio costituzionale della ragionevole durata del processo.

La soluzione, allora, sarebbe depenalizzare e non mettere continui paletti al diritto di difesa. Sempre con le statistiche alla mano, in appello sono modificate circa il 40 per cento delle sentenze di condanna di primo grado. Altro che ‘colpa’ degli avvocati come dice Davigo. Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Federica Zaniboni per “il Messaggero” il 29 giugno 2023.

Nessun reato ai danni dell'ex pm Piercamillo Davigo. Il giornalista Paolo Mieli ha semplicemente esercitato il suo diritto di critica. Così è stato assolto l'ex direttore del Corriere della Sera, querelato per diffamazione dal magistrato di Mani Pulite per una frase comparsa nell'editoriale del 5 giugno 2020. 

Lo ha deciso il giudice monocratico della terza sezione penale del Tribunale di Milano, accogliendo la richiesta della procura, «perché il fatto non costituisce reato». Un articolo, quello portato sul tavolo delle toghe milanesi, dal titolo «Le correnti dei magistrati e la giustizia rimossa», nato dallo scandalo esploso in seguito all'intervista rilasciata da Luca Palamara alla trasmissione di La7 "Non è l'Arena" il 31 maggio dello stesso anno.

Nel passaggio dell'editoriale che non è andato giù a Davigo, Mieli scriveva che Palamara, nel programma di Massimo Giletti, «ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione. Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno proseguiva il direttore con qualcuno della sua corrente».

Sono queste le parole che l'ex consigliere del Csm ha ritenuto lesive della sua reputazione e che lo hanno portato a decidere di querelare il giornalista. Il giudice Luigi Vanarelli, però, ha accolto le richieste di assoluzione avanzate dall'avvocato di Mieli, Caterina Malavenda, e dal pm Paolo Filippini, in quanto il direttore del Corriere «non ha fatto altro che proporre» una lettura «di secondo livello, introducendo una critica che è l'essenza del fare il giornalista» ed è un «diritto». […]

Criticò Davigo ma non lo diffamò”. Assolto il giornalista Paolo Mieli. Massimo Balsamo il 28 Giugno 2023 su Il Giornale.

“Il fatto non costituisce reato” secondo il giudice monocratico del Tribunale di Milano Luigi Varanelli.

Paolo Mieli è stato assolto a Milano dall’accusa di aver diffamato l’allora consigliere del Csm Piercamillo Davigo. Fu una critica, non diffamazione il parere del giudice monocratico della terza sezione penale del tribunale, Luigi Varanelli, accogliendo le richieste del pm Paolo Filippini e dell'avvocata Caterina Malavenda, legale del giornalista. La vicenda risale al 5 giugno 2020, al centro della discussione l’editoriale scritto dal giornalista per il Corriere della Sera in cui commentava un’intervista rilasciata a “Non è l’arena” – su La7 – dall’ex membro del Consiglio superiore della magistratura Luca Palamara.

"Palamara ha tenuto a citare il nome dei più importanti procuratori della Repubblica per sottolineare come lui in persona avesse avuto parte nella loro designazione", le parole di Mieli sul Corriere della Sera: "Talvolta, ha lasciato intendere, d'accordo con l'uomo di maggior rilievo (per prestigio, notorietà e forza acquisita) nella magistratura italiana: Piercamillo Davigo. Quantomeno con qualcuno della sua corrente". Ritenendo questo passaggio lesivo della sua reputazione, Davigo aveva sporto querela evidenziando di non aver mai avuto niente a che fare con il “sistema Palamara”. Poi il sostituto procuratore Francesco Ciardi – senza acquisire il video di “Non è l’arena” aveva messo in deposito gli atti e il procuratore aggiunto Fabio De Pasquale aveva disposto la citazione diretta a giudizio dell’ex direttore del Corriere.

Mieli e Davigo durante il dibattimento erano stati ascoltati nei mesi scorsi dal giudice Varanelli. Come riportato dal Corriere, quest’ultimo aveva più volte chiesto all’ex pm di Mani pulite se l’oggetto delle sue doglianze fosse proprio il passo in cui il giornalista esprimeva la sua opinione su quello che aveva ascoltato i televisione. Mercoledì mattina il giudice ha invitato l’avvocato di Davigo, il legale Francesco Borasi, a valutare se rimettere la querela. Mieli, dal canto suo, ha spiegato che avrebbe accettato la remissione solo se fosse arrivata prima, rimarcando che la causa “è stata una esperienza molto dolorosa”.

“Questo processo nasce da un equivoco”, ha rimarcato in requisitoria il pm Paolo Filippini prima di chiedere l’assoluzione: “Dall’errore sia della parte offesa di denunciare il gioriustizianalista, sia della Procura di mandare a giudizio il giornalista, senza prima avere acquisito la fonte, ossia il video della trasmissione in cui Palamara, su forte pungolo e strategia giornalistica di Giletti, che gli chiedeva se davvero Davigo potesse atteggiarsi a “vergine”, rispondeva in modo sibillino”. Mieli nel suo articolo “non ha fatto altro che richiamare quel passaggio della trasmissione e introdurvi una lettura di secondo livello che rientra assolutamente nell’esercizio della critica giornalistica" senza volontà di diffamare Davigo.

Toh, il condannato Davigo dà lezioni alla Camera: ora valga per tutti. L’ex pm sarà audito sulla prescrizione, su input del M5S. Che dice: non è un aspirante sindaco...Valentina Stella, Errico Novi su Il Dubbio il 26 giugno 2023

Oggi pomeriggio alle 14:30 la commissione Giustizia della Camera avvierà un ciclo di audizioni informali, in videoconferenza, nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Tra gli esperti che verranno sentiti, compaiono i professori Gianluigi Gatta e Mitja Gialuz, chiamati dal Pd, il segretario dell’Unione Camere penali Eriberto Rosso, indicato da Enrico Costa, i vertici dell’Anm Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro voluti dal Movimento 5 Stelle, il quale ha richiesto anche la presenza di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo, condannato pochi giorni fa, in primo grado, a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Nulla quaestio sulla sua audizione: una persona è innocente fino a sentenza definitiva, e anche qualora la sua condanna passasse in giudicato chi lo dice che non potrebbe essere audito come ex magistrato? Sono sempre suonati stucchevoli i discorsi sulle “questioni di opportunità” riguardanti incarichi per politici anche solo indagati, suonerebbero altrettanto fuori luogo per Davigo. Certo colpisce che a volere alla Camera l’ex pm del “pool” siano i pentastellati, i quali sembrano abbandonare così quella presunzione di colpevolezza da cui sono stati sempre sedotti: come “uno valeva uno”, fino a qualche tempo fa, persino un avviso di garanzia valeva, ad esempio, dimissioni subito da qualsiasi carica. Adesso, e ne siamo lieti, il paradigma sembra cambiato. Ma perché da parte dei 5S su Davigo non esiste imbarazzo laddove, per esempio, il Movimento difende ancora la legge Severino, che sancisce la sospensione per gli amministratori locali in caso di condanna di primo grado?

Valentina d’Orso, capogruppo 5S in commissione Giustizia, risponde che «la richiesta di audizione del dott. Davigo è precedente alla notizia della sua condanna» ma che «in ogni caso è stata da noi confermata in quanto non c’è alcun imbarazzo, nemmeno dopo la condanna in primo grado. Non stiamo parlando di una candidatura a una carica elettiva o di una nomina a incarico pubblico: qui si sta chiedendo un contributo tecnico a una persona che per decenni ha svolto incarichi di primo piano nella magistratura e per questo accumulato grande conoscenza della materia, dimostrando sempre notevole preparazione e un non comune rigore nelle argomentazioni».

Del resto, conclude D’Orso, «non è nostra abitudine andare a controllare la fedina penale delle tante persone audite in commissione su richiesta di tutte le forze politiche. Piuttosto, è paradossale e fa francamente sorridere che l’obiezione giunga dal sedicente fronte politico garantista: evidentemente sono loro a usare due pesi e due misure, ricorrendo a un garantismo di comodo con gli amici e a un giustizialismo d’occasione contro quelli che ritengono avversari».

In realtà nessuna polemica è stata sollevata da un presunto fronte garantista: a porci la domanda siamo stati semplicemente noi. E dalle parole della deputata possiamo dedurre due considerazioni. La prima: finalmente i 5 Stelle non legano la credibilità di una persona alla mera assenza di scocciature con la giustizia. La seconda: è discutibile tuttavia il loro ragionamento nella parte in cui di fatto sancisce che una persona indagata, o imputata o addirittura condannata in primo grado e comunque presunta innocente possa essere ritenuta attendibile come esperta da audire in commissione ma non possa essere ritenuta degna di una candidatura o di restare in carica come amministratore locale.

Ci chiediamo, o meglio chiediamo loro: la presunzione d’innocenza non dovrebbe essere un principio assoluto, di civiltà liberale, che non si misura col lumicino?

È il solito Davigo: «Giustizia lumaca? Colpa degli avvocati». In commissione giustizia alla Camera parte il ciclo di audizioni sui disegni di legge finalizzati alla riforma della prescrizione. L’ex pm: «In Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte». Valentina Stella su Il Dubbio il 27 giugno 2023

La commissione Giustizia della Camera ha avviato un ciclo di audizioni informali nell’ambito dell’esame delle proposte di legge di Enrico Costa, Pietro Pittalis e Ciro Maschio su “Modifiche al codice penale in materia di prescrizione del reato”. Le proposte Costa e Maschio propongono di tornare alla riforma Orlando, mentre quella Pittalis all’assetto di disciplina precedente alla riforma Orlando.

Tra i primi ad essere auditi Gianluigi Gatta, consigliere dell’ex ministra Cartabia e ordinario di diritto penale all’Università di Milano che ha dapprima evidenziato come una ennesima modifica stresserebbe il sistema e gli operatori: «I tre disegni di legge si propongono di riaprire per l’ennesima volta il cantiere della prescrizione del reato, un istituto che negli ultimi diciotto anni – dalla legge ex Cirielli del 2005 ad oggi – è stato riformato già quattro volte. È comprensibile il mal di testa di interpreti e magistrati, chiamati a confrontarsi con complesse questioni di diritto intertemporale dipendenti dai quattro diversi regimi della prescrizione succedutisi a stretto giro di tempo».

In merito al ritorno alla legge Orlando ha aggiunto: «Un sistema ben congegnato in una stagione in cui l’obiettivo del sistema era di ridurre le prescrizioni nei giudizi di impugnazione – specie in appello – ma che è oggi del tutto disfunzionale rispetto all’obiettivo del Pnrr di ridurre i tempi del giudizio penale del 25% entro il 2026. Introdurre ora, in piena fase di attuazione del Pnrr, meccanismi sospensivi del corso della prescrizione, legati alle fasi del giudizio, allungherebbe i tempi medi del processo penale proprio mentre lo sforzo del sistema giudiziario è massimamente teso a ridurli». Sempre sulle proposte Costa e Maschio: «Correrebbero nei giudizi di secondo e terzo grado due diversi termini: quello di prescrizione del reato e quello di improcedibilità dell’azione penale. Sarebbero cioè operativi due diversi timer: l’uno, avviato con la commissione del reato; l’altro, avviato con l’inizio del giudizio di impugnazione. È una soluzione certo molto favorevole per le difese degli imputati ma per nulla per le vittime e per le parti civili e, ancor prima e soprattutto, per la funzione naturale del processo, che è deputato all’accertamento dei fatti e delle eventuali responsabilità». Infine, come previsto da Pittalis, «abolire l’improcedibilità, in piena fase di attuazione del Pnrr, sarebbe un suicidio».

Mitja Gialuz, professore di diritto processuale penale presso l’Università di Genova, ha iniziato criticando la proposta Pittalis che ritornerebbe alla ex Cirielli: «Sarebbe un ritorno al passato che ha determinato un aumento delle prescrizioni in appello, che sono – passatemi il termine – “cattive prescrizioni”. Lo Stato ha investito per arrivare ad una sentenza di primo grado e poi tutto verrebbe perso in appello, deludendo le aspettative delle vittime e della società per una decisione di merito». Per entrambi i giuristi, chiamati dal Pd, la soluzione è quella di andare avanti con l’improcedibilità, come «conquista di civiltà».

Enrico Costa ha replicato: «Improcedibilità e prescrizione sostanziale sono complementari ma manifesto comunque una apertura sul mantenimento o meno della prescrizione processuale. Nel caso sarei favorevole a una delle due proposte previste da Lattanzi». Fabio Varone, avvocato e dottore di ricerca in diritto e processo penale presso l’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna, si è detto favorevole alla riforma Pittalis. È intervenuto anche Eriberto Rosso, segretario nazionale dell'Unione Camere penali che si è detto d’accordo con tutte le tre proposte nella parte in cui abrogano l’articolo 161 bis cp (il corso della prescrizione del reato cessa definitivamente con la pronunzia della sentenza di primo grado). Ha aggiunto: «Occorrerà fare una sintesi delle tre proposte, avendo come obiettivo il ripristino della prescrizione sostanziale ante 2019. Sulla convivenza tra prescrizione sostanziale e processuale riteniamo che quest’ultima non debba prevalere mai sulla prima».

È arrivato poi il momento di Piercamillo Davigo, magistrato in congedo che ha attaccato, come già scritto sulle pagine del Fatto, le cosiddette presunte tecniche dilatorie degli avvocati favorite a suo dire dalla prescrizione: «Se ad una persona viene rubato un libretto degli assegni e questi vengono usati in varie province gli avvocati non consentono di acquisire la denuncia del derubato, costringendolo a testimoniare in ogni sede». Ha poi ricordato che in «Francia solo il 50% delle condanne viene impugnato, in Italia tutte, per non parlare dei ricorsi in Cassazione. In Francia 1000 l’anno, in Italia 90000, considerato anche l’alto numero di avvocati cassazionisti nel nostro Paese». A replicare Costa, che ha ricordato che «la maggioranza delle prescrizioni arriva durante la fase delle indagini preliminari» e inoltre «se non erro circa il 50% delle sentenze di primo grado impugnate vengono riformate del tutto o in parte in appello». Ci chiediamo: Davigo appellerà la sua recente condanna?

Presenti in Commissione anche Giuseppe Santalucia e Salvatore Casciaro, rispettivamente presidente e segretario generale dell’Associazione nazionale magistrati. Secondo il primo, «cumulare i due meccanismi, della prescrizione e della improcedibilità, a nostro giudizio crea un’incoerenza sistematica. L’improcedibilità è stata la risposta ad una scelta del legislatore del 2019 di interrompere la prescrizione con la sentenza di condanna. I due istituti rispondono a finalità diverse. La compresenza dei due istituti a nostro giudizio è asistematica: o l’una o l’altra».

«Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». La cupa profezia di Craxi. Ora che persino Davigo è stato condannato in primo grado, quelle parole tornano alla mente. Paola Sacchi su Il Dubbio il 22 giugno 2023

«Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Ora che Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, è stato condannato in primo grado per rivelazione d’atti di ufficio, e il garantismo deve valere per tutti, quindi anche per lui dalle posizioni estreme sui politici, non può non risuonare in testa quella tagliente profezia di Bettino Craxi, nei giorni di Hammamet. Lo statista socialista, che aveva fatto esposti contro Davigo, per il quale usò parole durissime difendendosi da quelle altrettanto trancianti che l’esponente del pool di Mani pulite aveva usato per lui, quella cupa profezia la ripeteva spesso fin dal 1994, quando iniziò il suo esilio.

Quelle parole le diceva ai pochi ormai che lo andavano a trovare e gli stavano vicini, oltre alla sua famiglia, come l’ex capo dei giovani socialisti, Luca Josi, e pochi altri del suo stesso Psi. Giustificava solo Gianni De Michelis per non averlo lì con lui. Disse alla cronista: «Povero Gianni, lo capisco, lo hanno messo in croce sul piano giudiziario, però lui come può mi chiama sempre da una cabina telefonica».

Erano gli anni in cui lui diceva, preoccupandosi quasi più degli altri: «Attenzione, chi tocca i fili muore». E questo persino per riguardo dei pochi giornalisti, come la sottoscritta, che pur scrivendo allora per un giornale avversario, l’Unità, durante i periodi di ferie lo andava a trovare in forma privata per un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, I conti con Craxi (MaleEdizioni con prefazione di Stefania Craxi). Erano i giorni in cui già stavano emergendo le prime crepe nel pool milanese, Craxi aveva denunciato in uno dei suoi libretti clandestini, diffusi da Critica social”, dal titolo Giallo, grigio, turchino, la violazione allo stato di diritto che era stata fatta per la sua persona, il suo partito e la sua famiglia. E sperava che qualche verità emergesse dal processo di Brescia contro Di Pietro. Craxi non piangeva, lo fece platealmente in un’intervista a Carlotta Tagliarini, per la tv tedesca, solo per il suicidio di Sergio Moroni. Ma, quando lo incontravamo sul terrazzo dello Sheraton hotel si vedeva che i suoi occhi trattenevano dignitosamente e con fierezza le lacrime dell’amarezza per la sua fine. Per il fatto di essere stato trattato «peggio dei peggiori criminali, mentre io ho sempre servito solo il mio Paese e spero di averlo fatto bene». «Ma, non mi hanno neppure lasciato fare il pensionato», è scritto in uno degli appunti notturni di Hammamet, raccolti dallo storico Andrea Spiri, nel libro L’ultimo Craxi- Diari di Hammamet, per Baldini e Castoldi. Sempre Spiri nel libro

Io parlo e continuerò a parlare (Fondazione Craxi per Mondadori) ricorda le denunce ai colpi dati allo stato di diritto: «Giustizieri, protagonisti, forcaioli mostreranno tutta la corda della loro falsità». Craxi fu il primo a denunciare il perverso circuito mediatico- giudiziario. Lo stigmatizzò più esattamente così: «Clan politici, mediatici, giudiziari». Ma guardava lontano, non si fermava al suo personale calvario giudiziario, tragedia politica per un intero Paese, guardava al futuro dell’assetto tra i poteri, denunciava il colpo inferto al primato della politica da quell’uso politico della giustizia sotto il quale cadde un’intera, storica classe dirigente che aveva ricostruito il Paese nel dopoguerra, fatto importanti riforme e raggiunto successi, come i suoi, dalla scala mobile al nuovo Concordato, all’Italia nel G7. Il terremoto di quella che definì «la falsa rivoluzione» salvò solo gli ex Pci poi Pds e Ds e la sinistra della Dc. Dall’archivio della Fondazione Craxi, in suo schema autografo, riportato da Spiri in Nell’ultimo Craxi, emergono in modo spietatamente chirurgico tutti i nodi di quella stagione, alcuni dei quali ancora oggi irrisolti: «L’uso violento del potere giudiziario. Gli arresti illegali ( le modalità ingiustificate agli arresti), per esempio l’uso illegale delle manette. Gli incredibili Tribunali della Libertà. Il ruolo del Gip. Le detenzioni illegali. I trucchi adottati per allungare le detenzioni. Le discriminazioni negli arresti. La orologeria politica rispetto alle scadenze politiche. Il rapporto con il potere legislativo, con l’istituzione parlamentare. Esibizionismo logorroico. Politicismo nelle valutazioni e nella condotta».

Infine, uno dei punti più dolenti, ancora oggi alla ribalta: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Conclusione: «Violazioni sui diritti dell’uomo». Forse, Craxi aveva ben intuito con la sua profezia che un sistema politico, schiacciato e che aveva in parte avallato «la falsa rivoluzione», gioco forza, per contraccolpo, avrebbe prima o poi generato spinte e controspinte tra aree in lotta in quella stessa parte di magistratura allora dominante. «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Craxi azzeccò anche la profezia su di sé: «Io parlo e continuerò a parlare» .

Processo a Davigo, le chat sparite “riappaiono” in aula per mano della difesa. Depositati messaggi teoricamente irrecuperabili: l’ex pm aveva rivenduto il cellulare senza fare un backup delle chat, comprese quelle con Storari, che gli consegnò i verbali di Amara. Simona Musco su Il Dubbio il 24 giugno 2023

Il backup non c’è, anzi sì. Al processo a carico di Piercamillo Davigo, l’ex pm di Mani Pulite condannato ad un anno e tre mesi (pena sospesa) per aver diffuso i verbali di Piero Amara sulla presunta Loggia Ungheria, non sono di certo mancati i colpi di scena. E gli ultimi sono arrivati nel giorno della sentenza, nel corso della discussione della difesa e della replica della parte civile, durante le quali l’attenzione è tornata sul cellulare di Davigo, non più disponibile perché “rivenduto” ad un centro di telefonia, causa «umidità». Il contenuto del cellulare, aveva detto l’ex pm in aula, non è più disponibile: l’ex consigliere del Csm non ha salvato i dati, comprese le chat. Con il rammarico della parte civile, che voleva dimostrare che Davigo conosceva le dichiarazioni di Amara ben prima di aprile 2020, data in cui il pm Paolo Storari gli avrebbe consegnato i verbali per autotutelarsi di fronte alla presunta inerzia della procura di Milano.

Ma a tirare fuori delle chat, il 20 giugno scorso, ci ha pensato proprio la stessa difesa di Davigo. «Abbiamo depositato della documentazione, delle chat, che dimostrano che ad un certo punto, quando sa qualche cosa, Davigo non parla più con Santoro», ha detto l’avvocato Francesco Borasi. Perché depositare quelle conversazioni? La questione è semplice: la difesa di Sebastiano Ardita, ex consigliere del Csm, parte civile nel processo (sarà risarcito con 20mila euro), aveva evidenziato che nonostante anche il nome dell’ex giudice del Consiglio di Stato Sergio Santoro fosse tra quelli indicati da Amara tra i componenti di “Ungheria” Davigo non ne avrebbe preso le distanze come fatto, invece, con lui. Anzi, aveva detto in aula l’avvocato Fabio Repici, l’ex pm avrebbe incontrato a cena Santoro almeno due volte, una a fine 2019 e una tra il 9 e il 10 settembre 2020, quando l’ex consigliere del Csm era in possesso da almeno cinque mesi dei verbali di Amara. Tale circostanza fu smentita da Davigo in aula, che retrodatò quelle cene, nelle quali si sarebbe discusso dell’innalzamento dell’età pensionabile dei magistrati alla presenza anche di un altro magistrato di Palazzo Spada, Giuseppe Severini, allora presidente della V Sezione del Consiglio di Stato, la stessa davanti alla quale Davigo aveva impugnato la sentenza del Tar che stabiliva il difetto di giurisdizione circa il ricorso relativo alla sua esclusione dal Csm.

Per smentire la versione della parte civile, la difesa di Davigo ha dunque depositato stralci di chat che testimonierebbero l’interruzione dei rapporti con Santoro ben prima della consegna dei verbali. Nulla di eccezionale, verrebbe da dire, se non fosse che lo stesso ex pm, intervenendo in aula a maggio scorso, aveva dichiarato di non aver fatto alcun backup delle chat, comprese quelle nelle quali si metteva d’accordo con Storari per un incontro. Davigo avrebbe conservato «solo le cose importanti», aveva detto, cose tra le quali, evidentemente, non rientravano i messaggi scambiati con chi gli aveva annunciato una nuova possibile catastrofe all’interno della magistratura, notizia che, a suo dire, lo aveva sconvolto.

Ma non è l’unica cosa che manca: oltre al cellulare non c’è più traccia né della chiavetta usb sulla quale erano contenuti i verbali né tantomeno dell’indirizzo mail dal quale Davigo si spedì gli atti per poterli stampare al Csm. Un fatto curioso, considerato che anche l’ex procuratore generale Giovanni Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco hanno dichiarato di aver smarrito i telefoni. «Non c'è un modo per avere un documento che fissi la data» di consegna dei verbali, aveva fatto notare dunque Repici, secondo cui Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno di Eni molto prima di aprile 2020. «C'è stato uno smarrimento di prove per sua legittima volontà», aveva dunque contestato. Un concetto che il legale ha ribadito anche il 20 giugno, giorno in cui poi è arrivata la condanna dell’ex pm. Davigo, ha detto Repici, «ha volontariamente disperso tutto ciò che poteva fissare una data. Noi abbiamo la prova che la cena con Santoro è stata il 9 o il 10 settembre - ha sottolineato -. Ma la cosa sconcertante è che siamo davanti a un imputato che ci ha detto di aver rivenduto il telefono, di non avere chat e mail, di non avere niente. Dopodiché», però, «produce brandelli minimi di una chat di WhatsApp con tale dottoressa Ciafrone e con tale dottor Santoro» per certificare di non aver avuto interlocuzioni con quest’ultimo dopo esser entrato in possesso dei verbali. «Ma scusi presidente - ha chiesto Repici -, si ricorda che l'ha chiesto lei all'imputato: “ma non l'ha fatto il backup?”. “No, solo delle cose importanti, Storari no”», aveva risposto. Invece «le hanno prodotte loro quelle chat di WhatsApp, le hanno prodotte nell'anno 2023», ha sottolineato Repici, che ha parlato di «menzogna» e di «spregiudicata impostura». La verità, ha aggiunto, «è che vi ha sottratto, come è diritto dell'imputato, com’è facoltà dell'imputato, dati di conoscenza. Se la procura della Repubblica, tanto astiosa, come è stata ritenuta dalla difesa, gli avesse sequestrato il cellulare, il problema sarebbe stato risolto in partenza».

E che la data corretta non sia aprile 2020 Repici lo deduce anche dall’interrogatorio di Davigo a Perugia del 19 ottobre 2020: alla richiesta del procuratore Raffaele Cantone sul perché Ardita fosse preoccupato, Davigo ha opposto il segreto d’ufficio, sostenendo che «la parte coperta da segreto d'ufficio su cui non posso rispondere è la ragione per cui non parlo più con il consigliere Ardita dal marzo 2020». E qual era il segreto? A rispondere è stato lo stesso Davigo: i verbali sulla Loggia Ungheria. Marzo 2020, dunque, non aprile. Mentre a tradire le intenzioni delle numerose comunicazioni fatte circa quei verbali è anche un’altra data, settembre 2020: è in quel momento che informa l’allora neo primo presidente della Cassazione Pietro Curzio. L’indagine si era però ormai sbloccata e quindi si era realizzato l’intento dichiarato da Davigo: non far arenare l’inchiesta su Ungheria. Ma «qual è la cosa che deve fare il presidente Curzio? - si è chiesto Repici - Prendere le distanze da Ardita. Le parole del dottor Davigo valgono - ha concluso -. È lui che confessa».

Le accuse. La condanna di Davigo apre una faida tra toghe: “Vendetta del gup Marino”. L’ex pm in pensione aveva volantinato i verbali di Amara a mezzo mondo. Anche il Colle sapeva. Ma sono finiti indagati solo in due per non aver denunciato. Tiziana Maiolo su L'Unità il 23 Giugno 2023

Ormai sono tutti contro tutti, e la condanna all’ex magistrato Piercamillo Davigo ha scoperchiato un verminaio di scontri feroci tra toghe, come se non fosse stato sufficiente quello che aveva denunciato con i suoi libri Luca Palamara, che era stato uno di loro. Al centro sempre quel luogo di potere e soprusi della Procura di Milano, quella che fu. Quella che fu fortino di Magistratura Democratica, la corrente più a sinistra del sindacato. Quella degli eroi intoccabili di Mani Pulite.

Quella dove regnava il rito ambrosiano, troppo spesso disinvolto su regole e procedure. Ma è un romano, Giuseppe Marra, a buttare oggi il sasso in piccionaia con un’intervista a La Verità in cui accusa un suo collega della capitale, il giudice Nicolò Marino, di aver agito per ritorsione nei suoi confronti. Il fatto preoccupante è che l’accusa (aspettiamo sviluppi), fatta da un magistrato nei confronti di un altro nella sua veste di gup, pare un fatto normale. Come se non stessimo parlando di amministrazione della giustizia, ma di una faida politica o peggio ancora di uno scontro tra persone di malaffare.

In che modo c’entra Davigo? C’entra, così come c’entrano il processo a Brescia che lo ha condannato, e anche un bel gruppo di toghe tra Roma a Milano. Il giudice chiamato in causa da Marra è il gup di Roma che ha assolto l’ex segretaria di Davigo al Csm, Marcella Contraffatto, dall’accusa di calunnia. Ma non si è limitato a questo, il magistrato. Il gup con quel provvedimento ha anche inviato alla Procura due nominativi, quelli di Giuseppe Marra e Giuseppe Cascini, perché fossero sottoposti a indagine. Ambedue a loro volta magistrati, il primo attualmente collocato al Massimario della Cassazione, il secondo procuratore aggiunto a Roma (infatti la sua posizione sarà trasferita a Perugia).

I reati per i quali sono indagati sono omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e, solo per il primo di loro, distruzione di corpo di reato. Si torna sempre lì, a Milano, alla maledizione (per la procura) dei processi Eni e alla famosa deposizione del faccendiere Piero Amara. Il quale era considerato da tutto l’ufficio, a partire dal suo capo Francesco Greco e dal rappresentante dell’accusa nel processo contro il colosso petrolifero, Fabio De Pasquale, un testimone di platino, intangibile. La sentenza di assoluzione dei vertici di Eni sarà una botta che farà scricchiolare per sempre quella gestione della procura e la reputazione dello stesso Francesco Greco. Il quale andrà in pensione un po’ ammaccato, se pur subito consolato con un ruolo di tutore della legalità al Comune di Roma.

Il processo Eni e l’assoluzione dei suoi vertici esploderà come una bomba e disvelerà un’intera storia e certi metodi del sistema ambrosiano non proprio trasparenti. La possiamo sintetizzare così. Un sostituto procuratore, Paolo Storari, ha nelle mani una deposizione dell’avvocato Amara il cui si parla di una potente loggia massonica di nome “Ungheria”, composta di magistrati, alti ufficiali e altri uomini di potere, dedita a condizionare la vita economica e politica d’Italia. Tra questi ci sarebbero anche due membri del Csm, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti. Storari vuole aprire un fascicolo, Greco tergiversa.

Si capirà solo in seguito che il testimone è troppo prezioso per il processo Eni e che è meglio non agitare le acque con una testimonianza che può farlo incriminare per calunnia e autocalunnia. Il caso Davigo nasce di lì, in uno scontro con l’ex collega del pool Mani Pulite, che nel frattempo è diventato capo dell’ufficio, mentre “Piercavillo” è membro del Csm. L’arroganza dell’ex pm, che lo porterà fino a essere condannato per rivelazione di atti d’ufficio, è nata dal suo approdo all’organo di autogoverno della magistratura o non è invece solo una coda, una prosecuzione dell’intoccabilità consentita agli uomini dell’ex pool? Fatto sta che Davigo si mette a volantinare quella deposizione, che è un atto riservato e segreto, a mezzo Csm e al vicepresidente David Ermini, pregandolo di riferirne anche al Capo dello Stato.

Coinvolti anche il procuratore generale Giovanni Salvi e il presidente della commissione antimafia Nicola Morra. Con metodi da barbe finte, telefonini silenziati e appuntamenti nel vano delle scale, anche. Mezzo mondo, insomma. E tutti tacciono, pur avendo tra le mani una potenziale bomba. Qualcuno, come Ermini e Marra, dice di aver buttato via i fogli. Ma non se ne saprà niente finché non sarà un altro componente del Csm, Nino Di Matteo, a denunciare il fatto nel plenum del Consiglio. E tutti, nel processo di Brescia, si presentano come testimoni.

Ma due di loro, Marra e Cascini, scoprono di essere indagati, uno a Roma e l’altro a Perugia, su iniziativa del gup Marino. Perché solo loro due, visto che mezzo mondo, togato e non, ha toccato la bomba Amara? E visto che la notizia di quelle carte scottanti era arrivata fino al Quirinale? Non dimentichiamo che stiamo parlando di pubblici ufficiali, obbligati per legge. La spiegazione di Marra nell’intervista alla Verità è sconcertante: siamo stati scelti solo noi due perché avevamo impedito al collega Marino di diventare procuratore aggiunto a Caltanissetta. Quindi: vendetta tremenda vendetta!

Dobbiamo dedurre che esistono magistrati i quali prendono decisioni sulla base di proprie antipatie personali? O peggio ancora mettono in campo, mentre indossano la toga e amministrano la giustizia in nome del popolo, ritorsioni e vendette? Immaginiamo che questa vicenda avrà ancora uno o più seguiti. Ma, se non è stato bello vedere Davigo che inseguiva l’ex amico Ardita e ora Marra che se la prende con Marino, preoccupa anche il fatto che questa vicenda finisca anche con il lambire il ruolo dello stesso presidente Mattarella. Che era stato informato di questa situazione di illegalità, come ha confermato lo stesso ex vice del Csm, Davd Ermini, e che si era limitato ad ascoltare. Tiziana Maiolo 23 Giugno 2023

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 giugno 2023. 

All'inizio del millennio, al Foglio, dove allora lavoravo, avevamo oltrepassato il centinaio di querele ricevuto dal Pool di Mani pulite. Poi assolti in blocco ma mica male come intimidazione […]. 

In una di esse […] Piercamillo Davigo aveva individuato una prova di dileggio in un banale refuso – mi uscì un "Pircamillo" – e lì si si consolidò il sospetto che il Dottor Sottile si stesse lasciando un po' prendere la mano, quanto a sottigliezze.

Ma ieri, dopo la condanna in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, sono stato contento di […] leggere anzi qualche articolo nel quale si osservava che l'onestà di Davigo rimane fuori discussione. 

Infatti non ho mai pensato che l'onestà delle persone sia misurabile coi codici e le sentenze […]. Altrimenti non avrebbe nessun senso i Miserabili, il capolavoro di Victor Hugo nel quale Jean Valjean è un pregiudicato latitante eppure sta moralmente tre spanne sopra a Javert, il poliziotto da cui è braccato, l'incorruttibile che pretende da sé il rigore preteso dagli altri poiché crede nella perfetta coincidenza fra legge e morale, ed è questa la sua condanna.

Tra l'altro Javert nel romanzo non ha nome, soltanto il cognome, come se fosse soltanto un ruolo, una maschera: Javert. E a distanza di tanti anni confermo il refuso: se avessi voluto irriderlo, non avrei scritto "Pircamillo", avrei scritto semplicemente Davigo.

Condanna all'ex Mani Pulite. Davigo come Palamara, la solita logica del capro espiatorio. La condanna di Davigo potrebbe servire a seppellire per sempre la questione della Loggia Ungheria sulla quale, alla fine, non si è mai indagato...Frank Cimini su L'Unità il 22 Giugno 2023

La logica del capro espiatorio. Dopo Palamara, Davigo. La condanna del magistrato in pensione Piercamillo Davigo a 1 anno e 3 mesi per violazione del segreto d’ufficio decisa a Brescia rischia di avere la stessa funzione che ebbe la radiazione dall’ordine giudiziario di Luca Palamara passato in poco tempo da “ras delle nomine” a uno dal quale prendere le distanze da parte degli stessi ex colleghi che lo affliggevano di telefonate per chiedere favori, promozioni e prebende.

Il rischio, davvero fortissimo, è che sapremo mai nulla di che cosa fu e che cosa non fu la loggia Ungheria di cui aveva parlato a verbale a cavallo tra il 2019 e il 2020 davanti ai pm di Milano l’avvocato Piero Amara ex consulente dell’Eni. È datata luglio 2022 la richiesta di archiviazione della procura di Perugia sulla benedetta o maledetta loggia di cui avrebbero fatto parte magistrati, imprenditori, avvocati, ufficiali dei carabinieri funzionari pubblici, che potrebbe aver fatto il bello e il cattivo tempo tra le toghe e non solo.

E’ passato quasi un anno e sulla richiesta di archiviazione non è stata presa ancora una decisione. L’ennesimo inquietante interrogativo che bisogna porsi in questa vicenda. Era una richiesta di archiviazione poco convincente. Il capo dei pm di Perugia faceva riferimento alle mancate immediate iscrizioni nel registro degli indagati a Milano come aveva sollecitato il pm Paolo Storari, colui il quale poi pensò di trovare la soluzione consegnando i verbali di Amara a Davigo. Cantone dava la colpa alla fuga di notizie che avrà contribuito, ma non può certamente spiegare tutto.

Alla fine della fiera sulla loggia Ungheria non si è indagato a Milano e nemmeno a Perugia. Non sarebbe stato possibile riscontrare le parole di Piero Amara, che potrebbe aver raccontato un sacco di balle anche se Cantone poi affermerà che alcune dichiarazioni del legale non erano del tutto inattendibili. Uno dei pochi atti di indagine fu la perquisizione a Giuseppe Calafiore uno di quelli che si erano autoaccusasti far parte della loggia e che avrebbe avuto la disponibilità degli elenchi. La perquisizione fuori tempo massimo non ebbe esito.

Ma in questa intricata vicenda pesa anche l’inerzia del Consiglio Superiore della Magistratura che avrebbe dovuto intervenire immediatamente. Basti pensare alle parole di fuoco, agli insulti volati negli uffici della procura di Milano, soprattutto quelli tra Paolo Storari e Fabio De Pasquale, il pm del processo per corruzione internazionale ai vertici dell’Eni, preoccupato dal fatto che le indagini approfondite su Amara avrebbero leso l’attendibilità e la credibilità di un importante testimone di accusa. I protagonisti di quei litigi sono ancora tutti lì nella stessa procura, tranne il capo Francesco Greco andato in pensione.

L’alibi del Csm punta sul fatto che erano e sono in corso procedimenti penali. Storari è stato assolto in via definitiva, De Pasquale è imputato a Brescia per aver sottratto al deposito nel processo Eni atti utili alle difese e proprio oggi ci sarà l’udienza per l’ammissione delle prove. Insomma tempi lunghi. E va aggiunto che se il Csm intervenisse adesso, dopo non averlo fatto nell’immediato, rischierebbe anche di passare in un certo senso dalla parte del torto. La questione andava chiarita subito. Era ed è una guerra di potere dentro la magistratura dove in troppi hanno agito non certo per amministrare la giustizia, ma per ragioni personali anche di rancore. Frank Cimini 22 Giugno 2023

Caso Minenna, Palamara: “Grillini vittima del loro giustizialismo”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 22 Giugno 2023

“Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto”. Così l’ex presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Luca Palamara commenta l’arresto dell’ex direttore dell’Agenzia delle Dogane in merito all’inchiesta sui dispositivi anti Covid.

Possiamo dire che il caso Minenna apre il mascherina gate?

Come in tutte le vicende giudiziarie, penso che sia doveroso attendere la lettura di tutte le carte. E ciò al fine di meglio comprendere quelli che potranno essere gli sviluppi di questa inchiesta.

La verità sui soldi spesi durante la pandemia è venuta tutta a galla?

Mutato il contesto politico di riferimento, viene meno quella iniziale rete di protezione che forse aveva consentito di indirizzare queste vicende sul classico binario morto. Penso che ora tante altre verità potranno venire a galla.

Fare chiarezza interessa soprattutto ai cittadini…

Certamente! Mi riferisco a quelle persone, che hanno vissuto quel periodo nella totale incertezza di ciò che improvvisamente stava avvenendo. Non dimentichiamo mai che uno dei momenti più oscuri fu proprio quello legato al prezzo delle mascherine, inizialmente schizzato alle stelle e poi improvvisamente ribassato.

Minenna sembra essere amico di Grillo. Non è che quel giustizialismo che hanno sempre difeso i pentastellati, adesso, gli si ritorce contro?

Distinguerei le due vicende. Quella di Minenna attiene al piano giudiziario e come tale deve essere affrontata, nel rispetto di tutte le garanzie difensive. Quella del giustizialismo attiene, invece, ai rapporti tra politica e magistratura e per una sorta di nemesi si sta ora ritorcendo contro coloro i quali dopo le elezioni politiche del marzo 2018 ritenevano essere in qualche modo “immuni” da ogni iniziativa giudiziaria. Il mondo della magistratura è un mondo complesso e l’idea di una parte politica, in questo caso quella dei 5 Stelle, di poter maggiormente “flirtare” con la corrente della magistratura capeggiata da Piercamillo Davigo, come ha plasticamente evidenziato la vicenda dei verbali della Loggia Hungaria, si è rivelata alla fine un boomerang.

Perché?

Non dimentichiamo che molte delle riforme di Bonafede traevano ispirazione proprio da questo connubio e che alla fine anche l’iniziale battaglia dello stesso ministro e dei cinquestelle contro il correntismo e le logiche del sistema si è rivelata di corto respiro. Basti considerare che, oggi, secondo le logiche del sistema, Bonafede compone il consiglio di giustizia tributaria e due ex magistrati, Cafiero de Raho e Scarpinato, siedono al Senato tra le loro fila. Insomma, come dice Giuseppe Tomasi di Lampedusa, “tutto cambia affinché nulla cambi”.

Esiste una guerra all’interno della magistratura sul Coronavirus.  Il tribunale dei ministri, intanto, ha assolto l’ex premier Conte. Le sembra strano?

Non parlerei assolutamente di guerra, ma dicevo prima che la magistratura è un mondo complesso e l’autonomia, l’indipendenza che la contraddistingue comporta che ci siano tanti magistrati che in qualche modo non vogliono essere allineati a un unico pensiero. Tutto questo comporta che ci possano essere iniziative e decisioni divergenti tra di loro. Aspetterei ulteriori sviluppi per comprendere come potrà evolversi la vicenda.

Le disavventure. Davigo, Claise, Travaglio, storie e storielle di epuratori che camminano con le mani a terra ed i piedi in aria. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 22 Giugno 2023 

La cronaca di questi giorni ci offre a man bassa materiale per ragionare sugli “epuratori“, cioè quella categoria di persone che – per le ragioni più varie, ma comunque sempre arbitrarie – si è autoassegnata il compito di evangelizzarci sul bene e sul male, sui buoni (loro) ed i cattivi (gli altri).

Prima storia. Circa un anno fa il Giudice Istruttore belga Michel Claise, forte della scoperta di un borsone con 750mila euro in contanti, parte all’assalto del Parlamento Europeo, ricettacolo -egli ipotizza- di corruzioni indicibili. Arresta a destra e a manca, trattiene in carcere senza derogare nemmanco di fronte alle elementari esigenze affettive di una bimba di due anni, come si addice agli epuratori tutti d`un pezzo. Dopo un anno di fiammeggiante inchiesta e di dichiarazioni inflessibili (ma niente prove) sulla corruzione universale, si scoprono tuttavia i segni di una certa indulgenza verso una delle persone che pure la Procura aveva approfonditamente segnalato tra i protagonisti della (oscura) vicenda.

Come mai – ci si chiede – non l’ha mai nemmeno interrogata, costei? Si viene ora a sapere che il figlio di costei è socio in affari del figlio di costui (dell’epuratore, intendo), e qualche avvocato impudente (maledetti avvocati!) formalmente chiede: non sarà mica per questo? Lui al momento si chiude in uno sdegnato silenzio, ma prudentemente lascia l’inchiesta. Se fossimo lui, lo avremmo già arrestato. Invece diciamo, noi queruli e salottieri liberali e garantisti: semplici insinuazioni, si vedrà. Intanto, al momento il nostro epuratore ha dovuto rinfoderare la sua incandescente sciabola.

Seconda storia: Piercamillo Davigo. Un galantuomo, strepita Travaglio. Io, infatti, non ho il benché minimo dubbio che lo sia. Mai avuto. Ma il processo aveva ed ha ad oggetto non se il dott. Davigo sia un galantuomo, bensì se egli potesse consegnare a terzi atti di indagine coperti da segreto, oppure no. Anche in questo caso, ben s`intende, egli rivendica di averlo fatto per denunciare il male, in nome del bene. Secondo questi primi giudici, tuttavia, commettendo un reato. Si vedrà. Ora lui giustamente appella, ritenendo -immagino- che questo suo sacrosanto atto difensivo sia in qualche modo (quale?) diverso da tutte quelle altre impugnazioni che egli ha sempre denunziato come il male assoluto della giustizia penale. Un altro classico del mondo degli epuratori.

Piccola storiella in coda. Il Direttore Travaglio tuona, indignato, che questo è il mondo alla rovescia. Davigo condannato e il sindaco Uggetti – e qui quasi si strozza – assolto, vergogna. Questo, cari lettori, è il mondo semplificato nel quale si baloccano gli epuratori: io buono, tu cattivo, com’è che non tornano i conti? “È il mondo alla rovescia!”, strepitano, mentre camminano, impettiti, con le mani a terra ed i piedi in aria. Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 giugno 2023.

Piercamillo Davigo è stato condannato per aver divulgato atti coperti da segreto d'ufficio (i verbali del faccendiere Piero Amara sulla loggia Ungheria) nelle stanze del Csm. Atti che sarebbero stati condivisi con modalità un po' carbonare con i consiglieri Giuseppe Cascini, Giuseppe Marra, Ilaria Pepe (togati), David Ermini, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna (laici) oltre che con l'ex presidente della commissione parlamentare antimafia Nicola Morra.

Ma può essere condannato solo uno dei pubblici ufficiali che erano venuti a conoscenza delle carte segrete sulla loggia Ungheria e non tutti gli altri che non avevano denunciato di aver visionato atti sicuramente sensibili? È quello che, a gennaio, si è chiesto il giudice dell'udienza preliminare Nicolò Marino, il quale, dopo aver assolto (..dall'accusa di calunnia l'ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, ha chiesto alla Procura di iscrivere sul registro degli indagati due ex consiglieri del Csm, Giuseppe Cascini, (rappresentante del cartello progressista di Area) e Giuseppe Marra (ex esponente della corrente fondata da Davigo Autonomia & indipendenza), per omessa denuncia da parte di pubblico ufficiale e distruzione del corpo del reato.

Cascini era stato accusato di non essersi «scandalizzato» e di non aver respinto «la richiesta di consulenza fatta dal dottor Davigo circa la credibilità di Amara»; ma anche di non aver sentito «il dovere di interrompere la catena di divulgazione dei verbali di Amara, addirittura interloquendo sugli stessi alla presenza non solo del dottor Davigo, ma anche dei consiglieri Pepe e/o Marra». 

Quest'ultimo aveva ammesso: «Davigo mi disse: “Ti ho lasciato i verbali sulla scrivania”, senza aggiungere altro. Quando tornai in ufficio, trovai una cartellina contenente i verbali di Amara. […] Dopo qualche settimana li ho strappati». La stessa cosa che ha confessato di aver fatto l'ex vicepresidente del Csm David Ermini. Che ha anche raccontato che Davigo gli aveva chiesto di conferire «riservatamente», «lasciando i telefoni in strofa proprio perché la domanda era molto delicata».

Poi a Brescia ha confermato quanto rivelato da Piercavillo e cioé di essere salito al Quirinale per riferire al presidente Sergio Mattarella: «Io penso e ritengo che lui (Davigo, ndr) volesse che io avvisassi […] il Capo dello Stato della presenza di queste persone a questa ipotetica loggia […] lui mi disse: “Sarebbe opportuno che tu lo riferissi al Presidente” […] Io risposi di sì, gli dissi: “Va bene” […] poi quando andai dal Presidente io dovevo parlare anche di tante altre cose, ma, insomma, gli riferii le cose che mi aveva detto il consigliere Davigo». 

Ermini ammise anche di aver distrutto i verbali e aveva spiegato il motivo: «Non erano utilizzabili, erano arrivati in modo non ufficiale, l'autorità giudiziaria ne era a conoscenza perché così Davigo mi disse […] quindi io che ne facevo di questi verbali ? Mica potrebbe diventare il megafono di Amara!». Una giustificazione che per Marino ha fatto la differenza tra Ermini e Marra, il quale, invece, aveva distrutto il «corpo di reato […] senza neanche aver tentato di spiegarne il perché alla autorità giudiziaria di Brescia, come invece aveva fatto il vicepresidente del CSM». 

Ieri abbiamo contattato Marra per chiedergli conferma dell'indagine nei suoi confronti e il magistrato non si è trincerato dietro al classico «no comment». Anzi. 

Cinquantaquattro anni, romano, per anni fuori ruolo al ministero della Giustizia, risponde tranquillo.

«Sì, sono iscritto nel registro degli indagati. Io e il collega Cascini per omessa denuncia, io da solo per soppressione del corpo del reato». 

Perché siete solo voi due?

«Le dico la mia opinione: perché il dottor Marino con un atto ritorsivo ha denunciato (si tratta di una denuncia qualificata provenendo da un giudice) alla Procura solo noi due perché non lo abbiamo votato per due volte per un incarico semidirettivo di procuratore aggiunto ( di Caltanissetta, ndr) a cui lui aspirava. E, poi, il dottor Cascini è stato componente della sezione disciplinare che lo ha condannato, ragione per la quale non lo avevamo votato per l'incarico semidirettivo».

Dove siete indagati?

«Cascini a Perugia, perché è procuratore aggiunto a Roma, io invece nella Capitale perché lavoro al Massimario della Cassazione, un ufficio con competenza nazionale e per questo incardinato a Roma». 

I comportamenti di cui siete accusati sono stati tenuti anche da altri…

«Il motivo glielo ho detto. Per me il giudice non aveva titolo per valutare la nostra posizione che non incideva o era utile nella valutazione della decisione sul Contrafatto, che rispondeva davanti a lui del reato di calunnia… una vicenda del tutto autonoma rispetto alla diffusione dei verbali da parte di Davigo nel Consiglio, che al massimo poteva rappresentare una premessa…». 

Ma Ermini, Pepe, Morra non potevano essere considerati pubblici ufficiali come voi?

«Certo, eravamo tutti consiglieri e quindi pubblici ufficiali, Morra sotto un'altra veste…». 

Davigo si fece seguire nella tromba delle scale… qualche sospetto poteva venire anche a lui…

«Assolutamente sì. Ma Marino ha scelto noi due per le ragioni che le ho detto. Io ero commissario della quinta e Cascini è intervenuto in plenum per dire che non poteva avere l'incarico… Gigliotti che ha votato a favore del conferimento non è stato denunciato».

Eppure ha visto anche lui le carte…

«Eeeeeeeeeh…» 

L'omessa denuncia poteva essere contestata a tutti, anche al presidente della Repubblica o mi sbaglio?

«Io non dico nulla sugli altri. Io ricevetti queste comunicazioni da Davigo un mese dopo gli altri perché rientrai dal lockdown il 9 giugno e non ai primi di maggio. E quindi a chi avrei dovuto denunciare se non al mio superiore che in quel momento era il vicepresidente Ermini, se non volevamo considerare il presidente della Repubblica? Quando Davigo mi dice “ho consegnato le carte a Ermini, so che Ermini è andato dal Capo dello Stato”, a chi dovevo denunciare la cosa, al maresciallo dei carabinieri della stazione sotto casa mia? 

Potevo denunciare, certo, ma a chi? Il vertice dell'autorità giudiziaria è il procuratore generale e per quanto mi risulta anche lui (all'epoca Giovanni Salvi, ndr) era stato informato, il vertice del Csm è il vicepresidente… mi dica, io, che ho saputo queste cose un mese dopo Ermini, Salvi, che cosa avrei dovuto fare». 

Era informato anche il presidente della Repubblica…

«È una notizia che ha confermato Ermini». 

Lei, a febbraio, si è presentato in aula a Brescia con l'avvocato.

«Sapevo di essere indagato e volevo rispondere. Anche se la mia posizione era già stata valutata dalla Procura di Brescia». 

E in Lombardia non è mai stato iscritto?

«Certo, perché ovviamente se indagavano me, avrebbero dovuto indagare anche tutti quanti gli altri, visto che la questione dell'omessa denuncia è uguale per tutti. Per quanto riguarda la distruzione, anche Ermini ha detto di averlo fatto». 

Lei con chi ha parlato di questi documenti?

«Con le persone che Davigo mi aveva detto che erano state informate prima di me: Cascini, Gigliotti, Pepe…» 

Ed Ermini?

«Con lui ho ritenuto di non parlarne… il 9 giugno, giorno del mio rientro, Davigo mi dice che mi deve parlare con urgenza e mi racconta sinteticamente la storia e cioè che il pm Paolo Storari non riusciva a convincere il procuratore (Francesco Greco, ndr) a iscrivere l'avvocato Amara e che gli aveva lasciato queste carte... che non erano copie di verbali perché non c'erano timbri, firme, non avevano valore giuridico , anche se si capiva che erano file che provenivano da un procedimento giudiziario... mi parla e mi fa vedere i documenti per non più di dieci minuti, poi, visto che erano entrate altre persone, mi disse che avremmo continuato dopo e, in effetti, ne riparlammo a pranzo in un bar vicino al Consiglio, quando mi fece vedere la parte che interessava i due consiglieri che erano stati “attinti” da queste dichiarazioni, Sebastiano Ardita e Marco Mancinetti.

Dopo di che mi disse la cosa che per me era fondamentale, altrimenti mi sarei posto anche io il problema: “Ho informato il vicepresidente, ho informato Salvi e so che il vicepresidente è andato poi al Quirinale a riferire”». 

Più di così che cosa si poteva fare?

«Appunto, se lo dice pure lei... sono finito in un pasticcio senza colpa, tutti quelli a cui ho raccontato i dettagli mi dicono che per colpa di colpa di una persona che fa male il suo lavoro sono finito denunciato alla Procura di Roma».

La colpa può essere anche di chi non ha iscritto tutti e approfondito i fatti… (Marra pensa che ci riferiamo ai magistrati di Milano a proposito di Amara)

«Certo. Ma perché il dottor Greco non vuole iscrivere uno che ha confessato di far parte di un'associazione segreta? Lo poteva fare per calunnia e autocalunnia se non voleva per violazione della legge Anselmi... questo ci rendeva dubbiosi senza sospettare che Greco volessero coprire una loggia massonica... Davigo, né nessuno di noi, lo ha mai pensato... il motivo per cui Greco faceva resistenza lo abbiamo capito dopo». 

E qual era?

«Che non volevano screditare Amara perché era testimone del processo Eni Nigeria.

Ma questa è una mia valutazione, non un dato oggettivo».

Ma se erano tutti i pubblici ufficiali, compreso il presidente della Repubblica, perché doveva essere lei fare la denuncia?

«Se lei legge la sentenza (di Marino, ndr) probabilmente si metterà a ridere. La posizione di Ermini sarebbe diversa dalla mia perché lui ha spiegato il motivo per cui ha distrutto le carte, anche se io non ero ancora stato sentito in Tribunale. Ma quella che ha dato secondo lei è una spiegazione? Ermini ha detto di averli buttati via perché erano atti irricevibili. Ma se erano tali non li dovevamo ricevere. Ma anche se volessimo lasciare perdere questa contraddizione, per la sua giustificazione Ermini non è stato denunciato e io sì». 

Ma anche il presidente Mattarella poteva denunciare o no?

«Che cosa le devo dire? Non so in che termini sia stato informato. Lo preciso per essere attento ai ruoli istituzionali. Su questo Davigo non mi ha detto nulla di specifico, ma Ermini ha confermato di aver ricevuto le carte e ha detto di averle distrutte. Però prima di farlo Davigo gliele avrà chiamato altrimenti come faceva a giudicarle irricevibili?». 

Lei come ha saputo di essere indagato?

«Ho letto sulla Verità che eravamo stati denunciati. Quindi prima di andare a Brescia a testimoniare ea dire che forse ero indagato ho fatto richiesta alla procura di Roma e ho avuto la conferma di essere iscritto».

Caso verbali, ecco perché gli altri consiglieri del Csm non sono stati indagati. Il processo a Davigo continua a generare polemiche tra le toghe: scoppia il caso della presunta intervista a Marra. Simona Musco su Il Dubbio il 22 giugno 2023

Il caso Piercamillo Davigo e dei verbali segreti fatti circolare al Csm fa discutere ancora. Dopo la difesa d’ufficio del Fatto Quotidiano, che si è chiesto come mai non fossero stati aperti dei fascicoli per omessa denuncia a carico dei consiglieri informati dell’esistenza della “Loggia Ungheria” (in realtà ce ne sono due, uno a Roma e uno a Perugia), a dare manforte è La Verità che in una lunga (presunta) intervista a Giuseppe Marra - ex consigliere del Csm e indagato a Roma per violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia (l’altro indagato è Giuseppe Cascini) - si pone la stessa domanda, cercando di dare però anche una risposta.

E scriviamo presunta perché a smentirla è lo stesso “intervistato”: «Non ho rilasciato alcuna intervista, non sono stato avvisato che la conversazione informale sarebbe stata divulgata come intervista su un quotidiano - ha dichiarato l’ex consigliere al Dubbio -. In tutti i casi in cui ho rilasciato interviste i vari giornalisti mi hanno sempre fatto rileggere le dichiarazioni che avevo espresso. Ho presentato una diffida al quotidiano, ma valuterò un esposto all’ordine dei giornalisti e al Garante della privacy: trovo scorretto quanto accaduto e non mi è mai capitata una cosa del genere. Le cose che dovevo e potevo dire le ho dette davanti al Tribunale di Brescia».

Le dichiarazioni trascritte dal quotidiano si potrebbero riassumere così: nella magistratura ci sarebbe una lotta intestina, dove ad ogni azione corrisponde una reazione. E così il motivo per cui solo Marra e Cascini sono stati iscritti sul registro degli indagati sarebbe una sorta di ritorsione - stando a quanto scritto da La Verità -, poiché gli stessi, per due volte, hanno votato contro il conferimento di un incarico semidirettivo a Nicolò Marino, il magistrato che ha assolto l’ex segretaria di Davigo e contemporaneamente trasmesso alla procura gli atti sulle due toghe, inguaiandole. Roba da far rischiare una querela a Marra, che forse mai si sarebbe lanciato in tali affermazioni se avesse saputo di essere intervistato.

Il ragionamento de La Verità è chiaro: anche gli altri, presidente della Repubblica compreso (informato dal vicepresidente del Csm David Ermini, anche se non si sa bene in che termini), andavano denunciati. Perché, dunque, sono Marra e Cascini gli unici indagati? La ragione sta nel fatto che entrambi sono entrati materialmente in possesso delle copie dei verbali di Amara, secondo quanto ammesso dagli stessi a Brescia. Così come Ermini, che poi li distrusse, rischiando di incappare nello stesso reato contestato a Marra. Ma a salvarlo è stato lo stesso Davigo, che a Brescia ha dichiarato di non aver detto a Ermini che si trattava di atti riservati. Se l’ex pm avesse comunicato tale particolare al numero due di Palazzo dei Marescialli, come chiarito in quella occasione dal presidente del collegio Roberto Spanò, l’udienza sarebbe stata interrotta e gli atti trasmessi alla procura.

Fuori per un soffio, dunque. Tutti gli altri pubblici ufficiali coinvolti da Davigo nell’affaire verbali, invece, non hanno mai ricevuto copia degli stessi, per questo scampando il pericolo di finire sotto indagine. Avrebbero di certo potuto denunciare, come fatto (anche se tardi e su suggerimento di Ardita e Di Matteo) da Nicola Morra, all’epoca presidente della Commissione Antimafia, ma non andò così. E a impedire che un nuovo scandalo si consumasse nel silenzio fu soltanto l’invio di quelle carte a Nino Di Matteo, che svelò tutto in plenum e al procuratore di Perugia, dove andò a denunciare il tutto. Insomma, un bel pasticciaccio. L’ennesimo.

Caso Amara, l’ex pm di Mani pulite Davigo condannato a un anno e tre mesi. Redazione su L'Identità il 20 Giugno 2023 

Un anno e tre mesi di reclusione è la condanna per l’ex magistrato Piercamillo Davigo, imputato per la rivelazione di segreto d’ufficio sui verbali secretati resi alla procura di Milano dall’avvocato Piero Amara sulla presunta esistenza della loggia Ungheria. Lo ha deciso il Tribunale di Brescia. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna dell’ex pm di Mani pulite per aver ricevuto dal pm milanese Paolo Storari – assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato – i verbali segreti di Amara, in cui l’ex avvocato esterno di Eni aveva parlato dell’esistenza della presunta associazione massonica.

Davigo dovrà inoltre risarcire con 20 mila euro Sebastiano Ardita, l’unica parte civile nel processo. A Davigo la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche, le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni. “Faremo appello”, ha detto Davigo commentando al telefono con l’avvocato Francesco Borasi.

Come è noto, le dichiarazioni presenti in quei famosi verbali furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020, nell’inchiesta sul cosiddetto “falso complotto Eni”, di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. La consegna avvenne a Milano nell’aprile del 2020, per stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo, a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese – in particolare dall’allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall’aggiunto Pedio – sull’ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte vertici delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento.

Caso Amara, il magistrato Piercamillo Davigo condannato a 15 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Giugno 2023

"Più grave" per l’accusa, è la rivelazione di Davigo all' ex senatore grillino Nicola Morra: "È esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". ALL'INTERNO LA SENTENZA DEL TRIBUNALE

Il magistrato ex componente del CSM Piercamillo Davigo, ora in pensione, è stato condannato a 1 anno e tre mesi oltre a 20mila euro di risarcimento. Lo ha deciso il Tribunale di Brescia nel processo per rivelazione e utilizzazione di segreto sui verbali della cosiddetta “Loggia Ungheria” resi alla Procura di Milano dall’ex legale esterno di Eni, Piero Amara, nei confronti del pm considerato uno dei simboli di “Mani Pulite“. Il dispositivo della sentenza è stato letto nell’aula della Corte d’Assise dal presidente della prima sezione penale, Roberto Spanò, al termine di un processo iniziato il 24 maggio 2022.

La vicenda era venuta alla luce nella primavera 2021 dopo che il consigliere Nino Di Matteo aveva reso noto in un’udienza pubblica del plenum del Csm di essere stato destinatario di verbali anonimi di Amara, e successivamente era emerso che analoghi verbali anonimi fossero già stati inviati nell’ottobre 2020 al giornalista Antonio Massari de «Il Fatto Quotidiano» che aveva informato i pm milanesi Laura Pedio e Paolo Storari, e successivamente alcuni mesi dopo, nel febbraio 2021 alla giornalista Liliana Milella del quotidiano “La Repubblica” che a sua volta aveva avvisato il procuratore perugino Cantone).

Nelle dieci udienze sono stati chiamati sul banco dei testimoni tutti i principali vertici della magistratura e del Csm della stagione 2018-2022. La Procura di Brescia aveva chiesto la condanna a 1 anno e 4 mesi con pena sospesa con l’accusa a Davigo, ex componente del Csm, di aver concorso con il pm Paolo Storari, che gli consegnò a Milano i verbali di Amara in formato word su una pen drive, nel “disvelare atti coperti dal segreto investigativo” e per averli a sua volta consegnati o mostrati a diverse persone a Roma, sia dentro che al di fuori del Consiglio superiore della magistratura. 

Storari, che sarà processato disciplinarmente dal Csm dopo l’estate, nel processo penale è stato invece già assolto in rito abbreviato in primo e in secondo grado in via definitiva per difetto dell’elemento soggettivo del reato di rivelazione di segreto, e cioè per aver fatto affidamento nella “liberatoria” assicuratagli da Davigo che si basava sulla “non opponibilità” del segreto di indagine ai membri del Csm. 

La tesi dei pubblici ministeri di Brescia

La tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco della procura di Brescia è che la scelta di Davigo ha fatto sì che tutto “sia rimasto nel chiacchiericcio e nell’uso privato di informazioni pubbliche” e che “Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere” questa alcune delle parole proferite dall’ accusa nella propria requisitoria.

Davigo nel cortile del Csm informò diversi colleghi peraltro in assenza di una ragione ufficiale, del contenuto per metterli in allarme dal “frequentare i consiglieri Ardita e Mancinetti“, mostrando e facendo leggere quei documenti su cui la Procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm in carica all’epoca dei fatti On. Avv. David Ermini, “ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute”, distrusse immediatamente la copia dei verbali che Davigo gli aveva consegnato, pur parlando della vicenda con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella.

Ancora “più grave” per l’accusa, è la rivelazione di Davigo all’ ex senatore grillino  Nicola Morra: “È esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite“. Contestata anche la rivelazione del documento E poi le successive rivelazioni di segreto ai consiglieri Csm Giuseppe Marra, Giuseppe Cascini, Ilaria Pepe, Fulvio Gigliotti e Stefano Cavanna, e persino alle sue ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: “Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo“. E così il magistrato che per una vita si è autodefinito integerrimo sostenendo di operare in nome della legalità è stato anch’egli condannato per la prima volta.

Contestata a Davigo dai pm proprio all’ultima udienza è stata anche la sua rivelazione all’allora presidente della Corte di Cassazione, Pietro Curzio, di cui i pm hanno rimarcato la data di settembre 2020, non coerente con la dichiarata volontà di Davigo di sbloccare l’inchiesta milanese considerando che bene o male essa era stata già sbloccata il 12 maggio 2020 con le prime iscrizioni degli indagati: cronologicamente successive di pochi giorni a una telefonata dell’ex procuratore generale della Cassazione Giovanni Salvi (“sollecitato” da Davigo) al capo della procura di Milano Greco, ma per Greco e Pedio (entrambi archiviati l’anno scorso a Brescia rispetto all’accusa di “omissione d’atti d’ufficio”) decise già e indipendentemente prima dalla telefonata di Salvi a Greco. 

Il tribunale di Brescia ha concesso a Davigo le attenuanti generiche e lo ha condannato al pagamento delle spese processuali e a risarcire l’ex collega al Csm Sebastiano Ardita – accusato da Amara di essere aderente alla Loggia Ungheria – con 20mila euro più 5mila di spese legali. Il collegio ha fissato in 30 giorni il termine per il deposito della motivazioni della sentenza. In aula era presente anche il procuratore capo di Brescia Francesco Prete.

“Soltanto in questo Paese potevamo pensare che un reo confesso potesse essere assolto”, è stato invece il commento dell’avvocato Fabio Repici, costituitosi parte civile per conto dell’ex collega ed ex amico di Davigo, Sebastiano Ardita, a cui il collegio presieduto da Roberto Spanò ha riconosciuto un risarcimento danni di ventimila euro.

Davigo presa conoscenza della sentenza di condanna ha pronunciato poche parole al suo avvocato Francesco Borasi che lo ha informato della condanna subita, solo per annunciare: “Faremo appello“. 

Redazione CdG 1947

Loggia Ungheria, Davigo condannato a un anno e tre mesi per rivelazione di segreto d’ufficio. GIULIA MERLO su Il Domani il 20 giugno 2023

L’ex consigliere del Csm e pm di Mani pulite era imputato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per aver rivelato ad altri membri del Csm e ad un parlamentare il contenuto dei verbali di Piero Amara, in cui rivelava l’esistenza della presunta loggia Ungheria. «Farò appello», ha annunciato

L’ex consigliere del Csm e toga di Mani Pulite, Piercamillo Davigo è stato condannato a un anno e tre mesi dal tribunale di Brescia per il reato di rivelazione di segreto d’ufficio nell’ambito del caso sui verbali di Amara e la presunta loggia Ungheria. Risarcimento di 20mila euro, invece, a Sebastiano Ardita che si era costituito parte civile. La procura aveva chiesto un anno e quattro mesi, la difesa l’assoluzione con formula piena. 

«Farò appello», ha già annunciato l’ex toga. Il processo di primo grado si è svolto con rito ordinario, mentre il pm di Milano Paolo Storari – che materialmente ha consegnato a Davigo i verbali di Amara – aveva scelto il rito abbreviato ed è stato assolto per «ignoranza di norma extrapenale».

Davigo ha scelto il rito ordinario proprio per dare massima diffusione ai fatti e, attraverso il dibattimento, ricostruire nel modo più completo i fatti. Davanti ai giudici di Brescia, infatti, hanno sfilato i vertici del Csm, della procura di Milano e della Cassazione, per tentare di ricostruire il clima di veleni sia al palazzo di giustizia meneghino che a palazzo dei Marescialli.

IL CASO

I fatti oggetto del processo risalgono al 2019, 2020, quando Davigo ha rivelato ad alcuni membri del Csm suoi colleghi e anche al deputato del Movimento 5 Stelle, Nicola Morra, il contenuto dei cosiddetti verbali di Amara, che contenevano le dichiarazioni dell’ex legale esterno di Eni sull’esistenza di una logga segreta chiamata Ungheria.

I verbali erano stati consegnati a Davigo da Storari, magistrato milanese e titolare di un fascicolo d’indagine su Eni, parallelo a quello detto Eni-Nigeria sulla presunta tangente internazionale del colosso petrolifero.

Storari, preoccupato dall’inerzia dei vertici della procura nel dar seguito all’acquisizione dei vernali, si era confidato con il consigliere Davigo, il quale lo aveva rassicurato del fatto che il segreto d’ufficio non fosse opponibile ai membri del Csm.

Storari aveva consegnato i verbali a Davigo, il quale li aveva poi portati a Roma, e ne aveva parlato con i vertici del Csm, sia per verificare le ragioni della presunta inerzia milanese, sia per valutare il da farsi. Davigo, tuttavia, non aveva ritenuto di aprire alcuna pratica ufficiale.

Al momento del pensionamento di Davigo e la votazione per escluderlo dal Csm, i verbali sarebbero stati trafugati dal suo studio e mandati a Repubblica, al Fatto Quotidiano e al consigliere Nino Di Matteo, il quale ne ha svelato l’esistenza durante un plenum del Csm, facendo scoppiare il caso Ungheria.

IL PROCESSO

A processo, la difesa di Davigo ha chiesto l’assoluzione con formula piena, perchè «Sul piano obiettivo nessuna violazione dell'articolo 326, l'inesistente pericolo concreto per lo svolgimento indagine della Procura milanese e l'insussistente ingiusto danno per Ardita e Mancinetti».

Secondo la difesa, «l'ipotesi che Davigo abbia voluto dare a Storari rassicurazioni false o che la datazione del contatto fra Davigo e Storari sarebbe stata falsamente posticipata è fuori dal mondo e ancora una volta paranoico», anche perchè «Mai nessuno ha messo in dubbio che la richiesta d'incontro è stata fatta da Storari ed era motivata da problemi reali nell'indagine della Procura milanese sulla 'Loggia Ungheria' per la diversità di vedute degli inquirenti e valutazioni sul da farsi».

I pm di Brescia Francesco Milanesi e Donato Greco, coordinati dal Procuratore Francesco Prete, hanno chiesto la condanna a un anno e 4 mesi con pena sospesa per aver indotto il pm di Milano Paolo Storari a consegnargli i verbali di sintesi di Amara e per 11 episodi di rivelazione di segreto avvenuto a Roma fra maggio e settembre 2020.

La parte civile - l’ex consigliere Csm Sebastiano Ardita, parte offesa di calunnia per le dichiarazioni di Amara contenute nei verbali e riconosciute false - ha chiesto un risarcimento per aver visto infangato il proprio nome con l'obiettivo, secondo il suo legale Fabio Repici, di orientare il voto per la Procura di Roma nel 2020 dopo l'addio di Giuseppe Pignatone e sul quale i due erano in disaccordo.

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Piercamillo Davigo condannato, clamoroso in tribunale: 1 anno e 3 mesi. Libero Quotidiano il 20 giugno 2023

Il tribunale di Brescia ha condannato a un anno e tre mesi (pena sospesa) Piercamillo Davigo, ex componente del Csm ed ex magistrato simbolo del pool di Mani Pulite per rivelazione di segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna per aver preso dalle mani del pm milanese Paolo Storari - assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato - i verbali segreti di Piero Amara, in cui l'ex avvocato esterno di Eni ha svelato l'esistenza della presunta associazione massonica. All'imputato la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche, le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni.

Le dichiarazioni furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l'11 gennaio 2020, nell'inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni', di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. Una consegna avvenuta a Milano nell'aprile del 2020, da stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese - in particolare dall'allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall'aggiunto Pedio - sull'ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento. 

La corte presieduta dal giudice Roberto Spanò ha condannato Davigo, ma ha concesso all'imputato "il beneficio della sospensione della pena e la non menzione della condanna nel casellario giudiziario". Davigo, oltre al pagamento delle spese legali, dovrà risarcire la parte civile, l'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita "nella misura di 20mila euro". Si chiude così con una condanna in primo grado la vicenda giudiziaria che ha segnato e spaccato la procura di Milano.

Storari consegnò quei verbali segreti, non firmati e in formato word, rassicurato dall'inopponibilità al segreto rivendicata dal consigliere del Consiglio superiore della magistratura, ma Davigo agì - per la pubblica accusa - fuori dalla procedura formale descritta in due circolari e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti. La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell'uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. "Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere" le parole usate nella requisitoria. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm David Ermini, "ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute", immediatamente distrusse copia dei verbali. La "più grave", per l'accusa, è la rivelazione a Nicola Morra: "è esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". Contestata anche la rivelazione alle ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: "Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo". E così il magistrato che per una vita si è battuto in nome della legalità è stato condannato per la prima volta.

Davigo condannato, "sventato un golpe nel Csm": l'accusa dell'avvocato di Ardita. Libero Quotidiano il 20 giugno 2023

"Era l'unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente". Lo afferma l'avvocato Fabio Repici, che ha tutelato gli interessi dell'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita parte civile nel processo bresciano che ha visto la condanna a un anno e tre mesi dell'ex magistrato Piercamillo Davigo per rivelazione del segreto d'ufficio rispetto ai verbali conegnatigli dal pm di Milano Paolo Storari in cui Piero Amara ha svelato i nomi dei presunti appartenenti alla fantomatica loggia Ungheria.

Per il legale di Ardita "c'è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli" contro cui scagliarsi. "Oggi bisognerebbe ringraziare Ardita per aver mantenuto la dignità dell'Organo di autogoverno della magistratura, senza un ruolo nel quadriennio e senza l'impegno di pochi altri di tutela delle istituzioni, oggi probabilmente se quella operazione fosse riuscita ci troveremmo davanti a una giustizia più sbandata" conclude Repici.  

Il Tribunale di Brescia ha condannato Davigo anche a pagare 20mila euro ad Ardita come risarcimento. Secondo i pm dell'accusa, Storari consegnò quei verbali segreti a Davigo rassicurato dall'inopponibilità al segreto rivendicata dal consigliere del Consiglio superiore della magistratura. Davigo però agì - per la pubblica accusa - fuori dalla procedura formale descritta in due circolari e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti. La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell'uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. "Appare difficile ritenere che la gestione di questa vicenda abbia incrementato la fiducia dei cittadini: non si è evitato alcun danno, si è semplicemente scelto chi e quando doveva sapere" le parole usate nella requisitoria. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. 

 Diffuse verbali segreti: condanna per l’ex pm Davigo. L’ex consigliere Csm condannato ad un anno e tre mesi: dovrà risarcire con 20mila euro Ardita, vittima delle bufale di Amara. Il suo legale: «Unica sentenza giusta, sventato un tentato golpe». Simona Musco su Il Dubbio il 20 giugno 2023

Un anno e tre mesi: è la condanna inflitta dal Tribunale di Brescia a Piercamillo Davigo, ex consigliere del Csm ed ex pm del pool di Mani Pulite, accusato di rivelazione ed utilizzazione di segreto d’ufficio. E l’utilizzo di tale segreto sarebbe stato quello di mettere mezzo Csm contro l’ex amico Sebastiano Ardita, indicato falsamente dall’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara tra gli appartenenti della presunta - ma smentita - “Loggia Ungheria”. La decisione è arrivata ieri, dopo dieci udienze del processo nato dalla consegna dei verbali di Amara a Davigo da parte del pm milanese Paolo Storari, che ad aprile 2020 si è rivolto a lui come forma di autotutela, denunciando il presunto lassismo della procura di Milano nelle indagini sulla loggia. Così bussò alla porta di Davigo, al quale - dopo essere stato rassicurato sulla inopponibilità del segreto ai consiglieri del Csm - consegnò su una chiavetta usb (di cui si sono perse le tracce) dei verbali non firmati, che contenevano i nomi di decine di persone che avrebbero fatto parte della «nuova P2», pezzi dello Stato tra i quali anche molti magistrati. E tra questi ci sarebbe stato Ardita, cofondatore con Davigo della corrente Autonomia&Indipendenza, passato dall’essere un suo intimo amico a nemico giurato, dopo un acceso diverbio sulla scelta da fare per il successore di Giuseppe Pignatone alla procura di Roma. Davigo, una volta riaperti i confini durante il primo lockdown, stampò quei verbali nel suo ufficio del Csm mostrandoli a diversi consiglieri, tra i quali il vicepresidente David Ermini, al quale consegnò una copia che poi finì nel tritacarta, e al senatore Nicola Morra. A tutti suggerì cautela nei suoi rapporti con Ardita, presunto massone al pari di un altro consigliere, Marco Mancinetti, sul quale, però, non si soffermò molto.

È proprio da tale consegna che è partita una delle più clamorose fughe di notizie della storia della magistratura: quei verbali segretissimi, potenzialmente capaci di stravolgere l’ordine istituzionale, una volta arrivati a Palazzo dei Marescialli vennero spediti alla stampa e all’allora consigliere del Csm Nino Di Matteo, che decise di denunciare tutto in plenum, svelando quello che definì un complotto contro Ardita. Da lì partì un’indagine della procura di Roma sulla “manina” che aveva spedito i plichi e che portò ad individuare come presunta responsabile l’ex segretaria di Davigo, Marcella Contrafatto, assolta però in primo grado a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore di Milano Francesco Greco, contro il quale il mittente inveiva in un bigliettino anonimo. Un capro espiatorio, probabilmente, mentre il “corvo”, ad oggi non ha ancora un nome.

Sono undici gli episodi contestati all’ex magistrato oggi in pensione, il più grave dei quali è proprio quello relativo a Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia. Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità ai membri del Csm del segreto istruttorio, dietro il quale Davigo si è trincerato citando ad ogni udienza la circolare che lo avrebbe autorizzato a conoscere atti blindatissimi, niente motiverebbe l’aver rivelato anche ad un esterno al Consiglio come Morra il contenuto di quei documenti. Sicché il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, così come sostenuto dallo stesso in aula, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato, secondo la difesa di Ardita proprio per danneggiare il suo ex amico. Quella dell’ex pm sarebbe dunque «un'interpretazione arbitraria» delle circolari, alle quali si è appigliato sin dall’inizio, con lo scopo, secondo l’accusa, di ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, avevano detto i pm in aula (che avevano chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi), «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita». Quei verbali erano infatti arrivati a Palazzo dei Marescialli in una forma irricevibile, come confermato da più testimonianze, tanto da essere utili solo a generare un nuovo clima di veleni. Circostanza che non poteva non essere nota a Davigo, all’epoca anche componente della Commissione per il regolamento interno del Consiglio. Secondo l’ex pm, invece, era stato proprio il suo intervento presso l’allora procuratore generale Giovanni Salvi a sbloccare le indagini e a «ripristinare la legalità», cosa smentita dall’allora procuratore Francesco Greco e ora anche dal Tribunale.

Laconico il commento dell’avvocato Francesco Borasi, difensore di Davigo: «La condanna è un errore giuridico e un errore di fatto, presenteremo appello», ha dichiarato dopo la lettura della sentenza, che ha previsto la sospensione condizionale della pena e anche un risarcimento di 20mila euro per Ardita - difeso da Fabio Repici -, parte civile al processo. Prima che il collegio presieduto da Roberto Spanò si riunisse in camera di consiglio, Borasi e Domenico Pulitanò, altro legale di Davigo, ne hanno chiesto l’assoluzione con la «formula liberatoria più ampia possibile»: secondo la difesa, infatti, l'incontro tra Storari e Davigo «ha a che fare con le funzioni di entrambi», una questione di «elementare cortesia e colleganza», in una situazione, per il pm milanese, «di serio disagio professionale». «Il senso delle parole di Davigo è che Storari poteva parlargli liberamente anche entrando su cose che in via di principio sono coperte da segreto. Le circolari presuppongono che le competenze riguardano anche attività coperte da segreto», ha detto Pulitanò. Ma per la procura Davigo avrebbe indotto in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso - ha affermato il pubblico ministero -. Se gli avesse detto la verità, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato». Per Repici, «c'è stato un tentativo di golpe ai danni del Consiglio superiore della magistratura e il consigliere Ardita era stato visto come uno dei pochi ostacoli» alla realizzazione. «Era l'unica sentenza possibile nel rispetto della legge, davanti a un reo confesso non si poteva far finta di niente», ha concluso. Per l’Unione Camere penali italiane, «Davigo sarà ora finalmente in condizione di comprende fino in fondo - ad occhio e croce per la prima volta nella sua vita - la funzione fondamentale, inderogabile ed incoercibile del diritto di impugnazione delle sentenze di condanna, diritto che egli ha invece sempre fieramente considerato e propagandato come del tutto eccezionale e residuale, giacché altrimenti causa della paralisi della nostra giustizia». A voler citare l’ex pm di Mani Pulite toccherebbe dire che non l’ha fatta franca, parafrasando la sua massima forse più famosa, quella secondo cui «un innocente a volte è un colpevole che l’ha fatta franca». Ma le regole dello Stato di diritto valgono anche per il grande inquisitore: Davigo è un presunto innocente. Fino alla Cassazione.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per corriere.it il 21 giugno 2023.

«Se mi sono pentito? No, rifarei tutto quello che ho fatto, e nel modo in cui l’ho fatto. Perché era l’unica cosa giusta da fare in quella situazione». Piercamillo Davigo lo rivendicava alla vigilia della sentenza, e dunque, adesso che la condanna è arrivata per davvero, c’è da giurare che, quasi più dei 15 mesi inflittigli, all’ex pm di Mani pulite bruci l’offrire il destro al ghigno ribaldo di chi, sfottendolo nel rimarcare quanto «resti innocente fino al terzo grado di giudizio», da tre decenni non aspettava altro che potergli rinfacciare tutto il copione delle sue gag da talk show.

Quelle false attribuitegli («rivolteremo l’Italia come un calzino»), quelle mezze false perché brutalizzate nella caricatura fuori contesto («non ci sono innocenti ma colpevoli non ancora scoperti»), quelle da copione consunto («se il mio vicino di casa è stato condannato solo in primo grado per pedofilia, io per omaggio alla presunzione di innocenza gli affido mia figlia di 6 anni da portare a scuola?»), e quelle più vere ma guarda caso meno ascoltate («la politica dovrebbe riformarsi prima delle sentenze per non far dipendere la propria legittimazione dai magistrati»). 

Astronomo mancato […] nonno segretario comunale, padre rappresentante di commercio, mamma impiegata nella società dei telefoni dell’epoca (la Stipel), dal servizio militare come ufficiale passa in Confindustria a curare le relazioni sindacali, cioè a fare (per dirla come lui) «il sindacalista dei padroni».

[…] l’accusa di «toga rossa» […] appariva […] spericolata, […] Davigo […] non ha mai fatto mistero di essere «essenzialmente un uomo d’ordine», convinto che sia «difficile fare il magistrato se non si crede nel binomio che nel mondo occidentale è lo slogan della destra, legge e ordine».

Inizia a farlo nel 1978 […] resta fulminato da Francesco Saverio Borrelli e cementa con il suo futuro procuratore un’intesa duratura quando l’allora giudice Borrelli, in mezzo a colleghi che si buttano in malattia per schivare i processi ai brigatisti, rientra in servizio pur con la gamba fratturata per celebrare il processo al br Corrado Alunni.

All’opinione pubblica diventa familiare nel 1992-’94 nella formazione titolare del pool Mani pulite […] Esauritosi lo tsunami di Mani pulite, la seconda vita di magistrato lo vede passare da pm a giudice (prima consigliere in Cassazione e poi presidente di sezione), e darsi all’impegno associativo (sino a presiedere per un anno l’Anm) in una nuova corrente che fonda uscendo da Magistratura Indipendente per dare vita a Autonomia & Indipendenza assieme a Sebastiano Ardita: cioè proprio al collega ed ex amico che ora dovrà risarcire dei danni stimati dal Tribunale bresciano nelle divulgazioni in seno al Csm dei verbali di Amara, talvolta accompagnate da ammiccamenti alla possibilità di cautelarsi dal fatto che davvero Ardita potesse essere tra gli affiliati alla «loggia Ungheria» indicati da Amara. […]

 Estratto dell’articolo di ilsussidiario.net il 21 giugno 2023.

Da grande accusatore a condannato. Finito sotto processo per rivelazione di segreto d’ufficio l’ex componente del Csm, ed ex magistrato di Mani pulite, Piercamillo Davigo ha visto emettere dal Tribunale di Brescia una sentenza nei suoi confronti con una condanna a un anno e tre mesi in merito alla vicenda dei verbali di Amara sulla loggia Ungheria, una presunta associazione segreta che avrebbe condizionato nomine giudiziarie e politiche. Si tratta dei verbali che il pm Storari gli aveva consegnato per una sorta di autotutela riguardo a un’indagine che a suo dire era stata frenata e che Davigo aveva fatto circolare all’interno del Consiglio superiore della magistratura.

Davigo si è difeso parlando di non opponibilità del segreto a un membro del Csm. In altri procedimenti relativi alla stessa vicenda lo stesso Storari è stato assolto, così come la segretaria di Davigo al Csm Marcella Contraffatto. Al termine del dibattimento il legale di Sebastiano Ardita, parte civile nel processo, aveva sostenuto che l’unico fine di Davigo, facendo circolare i verbali, sarebbe stato di “abbattere Ardita”, con il quale aveva rotto i rapporti. Ardita era stato inserito nella lista della cosiddetta loggia Ungheria alla quale ha dichiarato la propria assoluta estraneità. 

L’episodio che riguarda Davigo e la sua condanna, spiega Frank Cimini, storico cronista di giudiziaria, già al Manifesto, Mattino, Apcom, Tmnews e attualmente autore del blog giustiziami.it, sono solo una parte di una vicenda più grande che coinvolge altri magistrati e che non sarebbe stata chiarita.

Come possiamo interpretare questa condanna?

La mia sensazione è che Davigo sia stato condannato perché non conta più niente. Tra l’altro dallo stesso giudice, il presidente Roberto Spanò, che è uno di coloro che anni fa aveva prosciolto Di Pietro con motivazioni risibili. La condanna ci può anche stare, anche se secondo me Davigo ha ancora una speranza in appello e in Cassazione. 

C’è un problema tecnico: viene condannato perché ha indotto Storari a violare il segreto, ma Storari è stato assolto con sentenza ormai definitiva. Potrebbe succedere che in uno dei gradi successivi i giudici dicano che l’imputazione debba essere cambiata, con restituzione delle carte alla Procura, procedendo per aver ingannato Storari. Il problema è che Davigo è in pensione, non ha più un ruolo.

In quale contesto si sviluppa questa vicenda?

Il contesto generale è inquietante: è vero che la Procura di Milano, con Francesco Greco, non aveva ancora fatto le iscrizioni nel registro degli indagati (che erano un atto dovuto) riguardo alla loggia Ungheria. Di questa vicenda si sono perse le tracce perché è stata archiviata, ma non si è capito bene quello che è successo. 

Cantone, il procuratore di Perugia che l’aveva archiviata, aveva detto che per alcune delle dichiarazioni rese Piero Amara era da considerare attendibile. Era una patata bollente che non voleva nessuno. In Italia si sono fatte indagini per molto meno. Personalmente posso anche essere convinto anche Amara abbia raccontato frottole, ma il problema è che la cosa andava verificata. Per la magistratura, al di là del personaggio Davigo, è una brutta storia questa. […] 

[…] La domanda che bisogna farsi è se uno dei grandi accusatori di Mani pulite ha usato per ragioni private un fatto pubblico per “vendicarsi” di un collega, Sebastiano Ardita, suo ex sodale, della sua stessa corrente, con il quale aveva rotto i rapporti. 

La difesa di Davigo, secondo la quale non si poteva opporre il segreto a un membro del Csm, ha fondamento?

Credo di no. Una cosa è il Csm, una cosa le persone che ne fanno parte. Storari avrebbe dovuto seguire le vie formali, gerarchiche, per denunciare che a Milano non avevano fatto l’iscrizione nel registro degli indagati. Doveva rivolgersi formalmente al Consiglio superiore della magistratura, non incontrare Davigo nel salotto di casa sua. Poi è stato assolto per mancanza di dolo. Ne prendiamo atto, ma che un magistrato ignorasse certe cose fa pensare. 

Anche altre persone sono state assolte, come la segretaria del Csm di Davigo. Lui è l’unico condannato. C’è un motivo?

La mia sensazione è che sia stata “insabbiata” l’inchiesta sulla loggia Ungheria e siano stati “insabbiati” anche i litigi fra magistrati. Finora chi paga è l’unico che non ha più potere. […] il problema sono i litigi tra i magistrati.

Piercamillo Davigo? "Erto a paladino della giustizia, ma a violarla è stato lui". Libero Quotidiano il 21 giugno 2023

Piercamillo Davigo, ex componente del Csm ed ex magistrato del pool di Mani Pulite, è stato condannato a un anno e tre mesi (pena sospesa) per rivelazione di segreto d’ufficio nell’inchiesta sulla presunta loggia Ungheria. La sentenza accoglie la richiesta della pubblica accusa che aveva chiesto la condanna per aver preso dalle mani del pm milanese Paolo Storari - assolto in via definitiva al termine del processo abbreviato - i verbali segreti di Piero Amara, in cui l’ex avvocato esterno di Eni ha svelato l’esistenza della presunta associazione massonica. 

All’imputato la corte ha riconosciuto le attenuanti generiche e le motivazioni saranno rese note tra 30 giorni. Ma Davigo annuncia che “farà ricorso”. “È senza dubbio un errore giudiziario”, commenta con La Stampa l’avvocato Francesco Borasi che lo assiste con il professore Domenico Pulitanò: “Aspettiamo di leggere le motivazioni”.

Le dichiarazioni furono rese da Amara in cinque interrogatori, tra il 6 dicembre 2019 e l’11 gennaio 2020, nell’inchiesta sul cosiddetto 'falso complotto Eni' di cui Storari era uno dei titolari insieme alla collega Laura Pedio. Una consegna avvenuta a Milano nell’aprile del 2020, da stessa ammissione di Storari, a casa di Davigo a cui fu data una chiavetta con gli atti secretati per poter denunciare la presunta inerzia a indagare da parte dei vertici della procura milanese - in particolare dall’allora procuratore di Milano Francesco Greco e dall’aggiunto Pedio - sull’ipotetica loggia Ungheria di cui avrebbero fatto parte personaggi delle istituzioni e delle forze armate, oltre che due componenti del Csm in carica in quel momento. Storari consegnò quei verbali segreti, non firmati e in formato word, rassicurato dalla "inopponibilità al segreto" rivendicata da Davigo, il quale agì fuori dalla procedura formale e invece di impedire la diffusione di quegli atti svelò, a quasi una decina di persone, quelle informazioni rese dal controverso Amara - sulla cui credibilità più procure si sono trovate a discutere - per screditare il collega Ardita, il cui nome avrebbe fatto parte di quei verbali segreti.  

La scelta di Davigo ha fatto sì che tutto "sia rimasto nel chiacchiericcio e nell’uso privato di informazioni pubbliche" è la tesi dei pm Francesco Carlo Milanesi e Donato Greco. E così, nel cortile del Csm lontano da cellulari pericolosi, Davigo informò diversi colleghi - in assenza di una ragione ufficiale - del contenuto per metterli in allarme dal frequentare i "consiglieri Ardita e Mancinetti", mostrò e fece leggere quei documenti su cui la procura di Milano manteneva il più stretto riserbo. Il vicepresidente del Csm David Ermini, "ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute", immediatamente distrusse copia dei verbali. La "più grave", per l’accusa, è la rivelazione a Nicola Morra: "Esterno al Csm, è un parlamentare che non ha nessun titolo per conoscere quelle informazioni. Quella rivelazione è la più grave, ma quelle antecedenti e successive sono ulteriormente illecite". Contestata anche la rivelazione alle ex segretarie Giulia Befera e Marcela Contrafatto: "Era facilissimo tenerle fuori da questo circuito informativo, si è scelto di non farlo". 

Insomma, Davigo ha detto di aver agito “per dare una scossa a una situazione che riteneva ‘inaccettabile’: il denunciato ritardo nell’apertura di un fascicolo d’inchiesta a Milano sulla presunta loggia Ungheria”, si legge ancora su La Stampa, “proprio in nome di quelle indagini necessarie che con il suo comportamento, per l’accusa della procura diretta da Francesco Prete, avrebbe ‘danneggiato’”. Per i pm Donato Greco e Francesco Milanesi “Davigo si è erto a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire era stata violata. Ma l’unica legalità violata è quella nel salotto di casa sua, dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po’ di tempo sono finiti sui giornali”.

I penalisti: “Ora Davigo scopre il diritto a fare appello”. La replica: “Cattivo gusto”. Per il magistrato Andrea Reale, la nota dell’Ucpi dopo la condanna dell’ex pm è “un gesto che non fa onore alla categoria professionale”. su Il Dubbio il 21 giugno 2023

Pubblichiamo di seguito la nota dell’Unione Camere penali sulla condanna dell’ex pm di Mani Pulite Piercamillo Davigo, e la replica di Andrea Reale, magistrato dell’Anm.

La condanna del dott. Piercamillo Davigo non scalfisce minimamente, per noi garantisti e liberali, la presunzione di non colpevolezza che, per fortuna sua e di tutti noi, continua ad assistere l’ex PM di Mani Pulite.

Contro questa sentenza, l’ex magistrato ha infatti preannunziato appello, ritenendola errata in fatto ed in diritto. Il dott. Davigo sarà ora finalmente in condizione di comprendere fino in fondo -ad occhio e croce per la prima volta nella sua vita - la funzione fondamentale, inderogabile ed incoercibile del diritto di impugnazione delle sentenze di condanna, diritto che egli ha invece sempre fieramente considerato e propagandato come del tutto eccezionale e residuale, giacché altrimenti causa della paralisi della nostra giustizia.

Infine, un augurio da noi penalisti italiani, sincero, non sarcastico ed autenticamente rispettoso della persona: di incontrare giudici di appello ed eventualmente di Cassazione che abbiano una idea della ammissibilità dei ricorsi radicalmente diversa da quella notoriamente praticata dal dott. Davigo nei lunghi anni della sua esperienza di giudice di appello prima e di Cassazione poi.

La Giunta Ucpi

Con il comunicato che segue la Giunta dell'Unione delle Camere penali Italiane commenta la sentenza di condanna in primo grado di P. Davigo. Al di là del merito della vicenda (personalmente ho sempre detto ciò che pensavo del comportamento del Consigliere Davigo nella vicenda Amara e non credo di averlo mai difeso), mi pare un comunicato "di pancia", tutt'altro che sarcastico, bensì livoroso e di pessimo gusto.

Come detto da un Avvocato che stimo, esso è l'antitesi di ciò che i penalisti dicono di volere combattere, ossia il pubblico ludibrio, la strumentalizzazione politica di fatti di cronaca giudiziaria, l'attacco personale tramite decisioni giudiziarie. Un gesto che non fa onore alla categoria professionale che più di tutte dovrebbe garantire il diritto di difesa in questo Paese, oltre che la presunzione di non colpevolezza fino ad una sentenza irrevocabile.

Speriamo che siano in tanti a prendere le distanze e a dissociarsi da questo modo di rappresentare l'avvocatura penale. Andrea Reale, componente del Comitato direttivo centrale Anm

LE DUE SENTENZE. Quelle amnesie del Fatto sull’amico Davigo e il nemico Uggetti. Non sono le aule a stabilire chi è innocente, ma la stampa. Basta omettere alcuni fatti...Simona Musco su Il Dubbio il 21 giugno 2023

«Per una mirabile congiunzione astrale», scriveva questa mattina Marco Travaglio, mentre il Tribunale di Brescia condannava «uno degli italiani e dei magistrati più onesti e corretti mai visti», ovvero Piercamillo Davigo, la Corte d’appello di Milano assolveva l’ex sindaco Pd di Lodi, Simone Uggetti, «non perché fosse innocente (l’aveva già escluso la Cassazione), ma perché la sua turbativa d’asta era “tenue” (ha solo truccato una gara pubblica per dare l’appalto a chi pareva a lui)». Un editoriale, quello del direttore del Fatto, che contiene più di una inesattezza. A partire dalla considerazione - sbagliata in linea di principio - che la Cassazione sia entrata nel merito, escludendo l'innocenza di Uggetti. E insistendo sulla ovvia innocenza di Davigo - che verrà eventualmente accertata in appello -, certificata, secondo Travaglio, dal fatto che nessuna delle persone alle quali l’ex pm ha spifferato fatti segreti abbia denunciato. Una circostanza da far rabbrividire - questo il pensiero espresso dal direttore -, che certificherebbe un dato storico: l’Italia è un Paese che funziona al contrario e dove uno che «ha commesso il reato» come Uggetti viene assolto, mentre uno che non ha «mai smesso di ricordare a chi ricopre cariche pubbliche il dovere costituzionale di esercitarle “con disciplina e onore”» come Davigo viene condannato. «Dove sono i processi per omessa denuncia?», si chiede Travaglio, come se l’eventuale reato di qualcun altro annullasse quello che secondo il Tribunale di Brescia è il reato commesso da Davigo.

Ma andiamo con ordine. L’ex pm di Mani Pulite, come noto, è stato condannato ad un anno e tre mesi perché una volta ricevuti in maniera indebita dal collega milanese Paolo Storari i verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara sulla presunta e inesistente Loggia Ungheria, anziché invitare il magistrato a seguire le vie formali, ha diffuso le informazioni contenute in quei verbali, invitando anche altri colleghi a prendere le distanze dall’ex amico Sebastiano Ardita (ma non da Marco Mancinetti, altro presunto affiliato alla loggia). Un invito inutile rispetto al fine dichiarato, ovvero sbloccare le indagini che, secondo Storari, i vertici della procura volevano affossare. Tant’è che esclusi i membri del Comitato di Presidenza, nessuno avrebbe potuto fare nulla, se non invitare Davigo a seguire le regole. L’ex pm, per giustificare le sue azioni, si è sempre appigliato a una circolare del Csm, interpretata, secondo procura e giudici, in maniera sbagliata. Circolare che, ovviamente, nulla dice sul Presidente della Commissione Antimafia - altro soggetto informato da Davigo - che può sì conoscere atti coperti da segreto, ma chiedendoli all’autorità giudiziaria, che può anche ritardare la trasmissione degli atti per motivi di natura istruttoria. E l'ex presidente Nicola Morra, in realtà, non ha chiesto nulla, avendo potuto leggere il nome di Ardita nella tromba delle scale del Csm, dove è stato l’ex pm a condurlo. Ma c’è di più: Morra si è rivolto all’autorità giudiziaria, forse tardi, ma lo ha fatto, segnalando di aver visto documenti segreti che di certo avrebbe preferito non vedere. E che circolassero documenti segreti, parlando addirittura di complotto, è stato anche Nino Di Matteo a svelarlo, prendendo la parola al plenum del Csm e rompendo il silenzio su una vicenda a dir poco assurda. Ci si potrebbe fermare anche qui, in attesa di conoscere le motivazioni della sentenza, che chiariranno a tutti, Travaglio compreso, quali prove abbiano smentito la tesi di Davigo.

Ma c’è anche un altro fatto: il gup di Roma, nell’assolvere l’ex segretaria di Davigo, accusata di aver calunniato l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, ha trasmesso gli atti alla procura per valutare due ulteriori ipotesi di reato compiute nell’affaire verbali. Si tratta dell’omessa denuncia contestata all’ex consigliere del Csm Giuseppe Cascini, e delle ipotesi di violazione della pubblica custodia di cose e di omessa denuncia, contestate all’ex consigliere Giuseppe Marra. Reati, quelli ipotizzati dal gup, commessi nella gestione di quei verbali, consegnati ai due magistrati proprio da Davigo, e sui quali è ancora pendente un’inchiesta a Perugia. Il gup di Roma era andato anche un po’ oltre, descrivendo «un'immagine preoccupante ed assai allarmante del Consiglio superiore della magistratura, che ancora una volta sembrerebbe avere operato - in questa o in altre vicende - non sulla base di conoscenze, rituali comunicazioni e/o atti formalmente acquisiti dall'Organo di autogoverno della magistratura, bensì nella logica - si consenta - della “congiura di Palazzo”». E un passaggio era dedicato anche a Davigo, spintosi, secondo il giudice, «ben oltre i confini dei poteri conferitigli come membro togato» del Csm. Insomma, al momento sono quattro - uno a Roma e tre a Brescia - i giudici secondo cui l’ex pm di Mani Pulite avrebbe sbagliato. E pensare che tutti se la prendano con lui perché unico “grillo parlante” in Paese di mangiafuoco forse è un po’ riduttivo.

C’è poi il caso Uggetti. Che secondo Travaglio era già stato chiarito dalla Cassazione, allorquando annullò con rinvio l’assoluzione piena ottenuta nel primo appello. Ma cosa diceva la sentenza della Suprema Corte? Non c’era scritto da nessuna parte che Uggetti non fosse innocente - e gli Ermellini, d’altronde, non avrebbero potuto farlo -, bensì che fosse necessaria una motivazione rafforzata, per giustificare il ribaltamento della sentenza in appello, dopo la condanna a 10 mesi rimediata in primo grado. Ma qui il fatto si fa ancora più simpatico: anche la sentenza di primo grado, quella che condannava Uggetti, aveva certificato che l’ex sindaco si era mosso nell’interesse pubblico. Un fatto scritto nero su bianco, pur considerando l’azione del politico un atto fuori dalle regole. I giudici d’appello avevano invece considerato completamente innocente l’ex sindaco, sottolineando che non si può «punire indiscriminatamente le mere irregolarità formali» che, invece, «debbono essere idonee a ledere i beni giuridici protetti dalla norma», in questo caso la libera concorrenza. Nel valutare i fatti, le giudici avevano verificato, «da un punto di vista oggettivo», se vi fosse o meno un’alterazione del bando nei termini di una «indebita influenza», attraverso la quale, secondo l’accusa, l’interesse pubblico sarebbe stato piegato agli scopi di parte. E la risposta era negativa: «Non risulta essersi verificato alcun sviamento di potere, nemmeno nell’esplicazione di quel margine discrezionale di intervento riconosciuto dalla legge per l’esercizio di poteri di indirizzo». Ma alla Cassazione non era bastato, contestando un errore nell’inquadramento giuridico del reato e chiedendo a nuovi giudici d’appello di rispondere a cinque questioni non sufficientemente chiarite dalle motivazioni. Dove fosse scritto che Uggetti non era sicuramente innocente non è dato saperlo, dal momento che la Cassazione si è limitata a criticare l’approccio metodologico della Corte d’Appello di Milano. Ma anche questo rientra nello strabismo di chi le sentenze - e chi le scrive - le apprezza solo quando fanno comodo.

Il dubbio sta al garantista come la certezza dell’ideologia sta al giustizialista. Davigo il ‘puro’ condannato, il Riformista non esulta: vicini a Travaglio in questo momento difficile. Valeria Cereleoni su Il Riformista il 21 Giugno 2023 

Uno strano scherzo del destino ha voluto che proprio ieri, mentre l’aula del Senato commemorava Silvio Berlusconi, in un’altra aula, di tribunale, Piercamillo Davigo venisse condannato a quindici mesi di reclusione, con sospensione della pena, per rivelazione del segreto di ufficio e a 20.000 euro di risarcimento nei confronti di Sebastiano Ardita, ex componente del Csm, come racconta nel dettaglio su questo giornale Paolo Pandolfini.

Fuori da ogni ipocrisia: la tentazione di esultare per questa condanna, siamo umani, verrebbe forse anche a noi. Il garantismo però è in fondo anche e soprattutto sancire il primato della ragionevolezza sulla reazione di pancia. Per cui le esultanze le lasciamo ai cultori del populismo giudiziario, di cui Piercamillo Davigo è stato ed è autorevole esponente, come sanno tutti quelli che hanno letto il libro scritto- ironia del destino vuole- a quattro mani con Ardita, dal titolo “Giustizialisti”. Noi ci teniamo la ragionevolezza dello Stato di diritto.

Questo non vuole dire però non ricordare dei passaggi salienti delle esternazioni di Davigo. Perché essere garantisti non significa censurare, non riportare le notizie, ma farlo assumendo a faro guida il sacro dubbio. Il dubbio sta al garantista come la certezza dell’ideologia sta al giustizialista. E allora, non può non venire in mente la celebre frase sugli innocenti che sarebbero solo dei colpevoli che l’hanno fatta franca. E a questo ribattere che invece no, per noi Piercamillo Davigo è semplicemente presunto innocente fino a sentenza passata in giudicato.

Quello che ci auguriamo è che oggi, nell’apprendere di essere stato condannato, l’ex Pm colga l’importanza della presunzione di innocenza. Che abbandoni il furore manettaro e che recuperi quell’umanità che gli è mancata quando, durante la stagione di Mani Pulite, in seguito al suicidio del parlamentare socialista Sergio Moroni, dichiarò che “È un episodio che sul piano umano non può che colpire, ci mancherebbe altro che qualcuno fosse contento di quello che è accaduto. Ma non vedo perché dovrebbe cambiare il metodo dell’indagine… Le conseguenze dei reati ricadono su chi li ha commessi” e 32 anni dopo, ha detto di non aver cambiato idea.

Che la smetta di ergersi a moralizzatore dalle colonne del quotidiano di Travaglio (gli siamo vicini in questo difficile momento) e dai salotti di La7. Perché, come diceva Nenni, a fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura. È la sorte dei populisti, da sempre. Fin dai tempi della rivoluzione francese, quando la stessa ghigliottina usata dai Giacobini, fu usata sul loro leader, Maximilien de Robespierre. Valeria Cereleoni

A dispetto dalla linea dell'editorialista del Fatto, i legali presenteranno appello. Condannato Davigo, la caduta del pm manettaro da sempre contro gli errori giudiziari: “Colpevoli che l’hanno fatta franca”. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 21 Giugno 2023 

Piercamillo Davigo, ex pm di Mani pulite ed editorialista di punta del Fatto Quotidiano, il giornale dei manettari in servizio permanente effettivo, è stato condannato ieri ad un anno e tre mesi per rivelazione del segreto d’ufficio, oltre a risarcire con 20mila euro il collega Sebastiano Ardita, ora procuratore aggiunto a Messina.

Si tratta di una condanna più pesante di quella inflitta nei mesi scorsi a Luca Palamara, già presidente dell’Associazione nazionale magistrati ed ex capo del ‘Sistema’ che condiziona le nomina e gli incarichi delle toghe. Dopo oltre un anno di udienze, i giudici di Brescia hanno dunque stabilito che Davigo non aveva alcuna ‘immunità’ particolare e non poteva rivelare a terzi il contenuto dei verbali delle dichiarazioni dell’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.

La vicenda inizia alla fine del 2019, una volta terminati gli interrogatori in Procura a Milano di Amara da parte dell’aggiunta Laura Pedio e del pm Paolo Storari che indagano sul colosso petrolifero di San Donato. Amara, durante uno di questi interrogatori, raccontò dell’esistenza di una organizzazione segreta denominata Ungheria, nata come continuazione della loggia P2.

Ungheria sarebbe una super loggia coperta in grado di interferire sulle funzioni di organi di rango costituzionale e di condizionarne l’operato, asservendolo agli interessi dell’organizzazione e dei suoi appartenenti occulti. Amara fece ben 64 nomi di appartenenti allo loggia: magistrati, alti ufficiali delle forze di polizia, prelati, imprenditori.

Storari voleva procedere subito alle iscrizioni nel registro degli indagati ma percependo inerzia investigativa da parte dei capi, tramite la collega Alessandra Dolci, compagna di vita di Davigo, in quel momento potente membro del Consiglio superiore della magistratura, decise di rivolgersi a quest’ultimo per un consulto. Davigo non perse tempo e si fece consegnare i verbali incriminati, dicendo a Storari che il segreto investigativo non era opponibile a se stesso.

Una volta entrato in possesso delle carte, Davigo avvisò del contenuto ben 11 persone dentro e fuori il Csm, fra cui l’ex vice presidente David Ermini, i capi della Cassazione, l’ex primo presidente Pietro Curzio e ex pg Giovanni Salvi, i consiglieri di Palazzo dei Marescialli Giuseppe Marra, Ilaria Pepe, Alessandro Pepe, Giuseppe Cascini, Fulvio Gigliotti, Stefano Cavanna, l’ex presidente della Commissione parlamentare antimafia Nicola Morra (M5s). Lo scopo di Davigo non sarebbe stato quello di superare l’impasse investigativo milanese bensì screditare Ardita, inserito da Amara fra i componenti di Ungheria.

Con tale azione Davigo avrebbe così cercato di condizionare il voto per la Procura di Roma nel 2020 dopo l’addio di Giuseppe Pignatone e sul quale era in disaccordo, nonostante fosse della stessa corrente e co-autore di libri, proprio con Ardita. La difesa di Davigo ha sempre negato tale circostanza, giustificandone la non osservanza delle circolari del Csm del 1994-1995 che disciplinano la trasmissione formale degli atti d’indagine, per evitare fughe di notizie come già avvenuto per il Palamaragate.

Mai chiarite le tempistiche della vicenda, anche a causa del fatto che l’imputato e alcuni dei principali testimoni, Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, hanno affermato di aver perso o venduto il telefono prima delle indagini, in alcuni casi poche ore prima delle perquisizioni. Manca, infatti, il giorno preciso in cui Storari si è recato sotto lockdown a casa di Davigo e gli consegna una pen drive con i verbali. I due hanno collocato la data nei primi dieci giorni di aprile del 2020. Davigo riferisce di esserseli mandati via mail il 7 aprile per poi stamparli a Roma il 4 maggio (temendo un furto sul treno se se li fosse portati), giorno in cui comincia a parlarne ad altre persone.

I pm Francesco Milanesi e Donato Greco, e sopratutto la parte civile Ardita, hanno fatto aleggiare in più occasioni il sospetto che l’ex pm sapesse di Amara almeno due mesi prima, portando come indizi alcuni atteggiamenti tenuti nei confronti di Ardita come la frase “tu mi nascondi qualcosa”, pronunciata poche ore prima del plenum del Csm del 3 marzo. “Penso che per il dottor Davigo essere assolto o essere condannato sarebbe stata la stessa cosa: come ha sempre sostenuto, chi viene assolto è un colpevole che l’ha fatta franca. Non esistendo, a suo dire, errori giudiziari da parte degli ex colleghi, credo proprio che non proporrà appello”, ha dichiarato Antonio Leone ex presidente della Sezione disciplinare del Csm. Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 14 giugno 2023.

Ovunque si trovi in questo momento Silvio Berlusconi, ieri deve essergli scappato un sorriso. Infatti davanti al Tribunale di Brescia la pubblica accusa ha chiesto una condanna a 16 mesi di reclusione (con sospensione della pena) per rivelazione di segreto d’ufficio nei confronti di Piercamillo Davigo, colui che considerava il Cavaliere un incidente del destino, una iattura per l’Italia intera. Ma ora altri magistrati stanno cercando di tirarlo giù dal piedistallo e di ottenere la prima condanna per il Robespierre delle toghe.

I sostituti procuratori Donato Greco e Francesco Carlo Milanesi contestano a Piercavillo di aver distribuito atti riservati per regolare i suoi conti personali all’interno della corrente che guidava, Autonomia & indipendenza, e di aver cercato di condizionare con la vicenda della cosiddetta e inesistente loggia Ungheria le decisioni del Consiglio superiore della magistratura. 

Infatti nella primavera del 2020 diffuse in modo carbonaro all’interno di Palazzo dei marescialli il contenuto dei verbali del faccendiere Piero Amara, carte che si sarebbe fatto consegnare dal collega milanese Paolo Storari. 

La Procura bresciana […] ritiene che la divulgazione più grave sia stata quella all’allora senatore M5s Nicola Morra per la quale ha chiesto una condanna a 6 mesi di reclusione, a cui ha aggiunto, riconoscendo la continuazione, un mese per tutti gli altri episodi (una decina) contestati nel capo d’imputazione.

Ieri per Davigo […] si è aggiunta una nuova contestazione di rivelazione a favore dell’ex primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, ultimo testimone del processo. 

L’integrazione del capo di imputazione è stata fatta dopo l’audizione dell’ex ermellino, il quale ha raccontato che nel settembre del 2022 Davigo lo aveva aspettato nel parcheggio del Csm per spifferagli la notizia coperta da segreto: «Volle preannunciarmi che un Csm che già aveva passato vicissitudini molto impegnative sarebbe stato ancora sottoposto a un ulteriore trauma». La presunta «violazione dell’obbligo di segretezza» si estende così temporalmente, essendo adesso l’ipotetico reato «commesso da aprile a settembre 2020».

«Si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l’unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po’ di tempo vanno a finire sui giornali pregiudicando una delicatissima indagine» ha detto Greco nella sua requisitoria, ricordando che nell’appartamento di Davigo c’è stato il passaggio della chiavetta Usb con i verbali. 

«Non è vero che il segreto era inopponibile a lui. Lo ha ammesso lo stesso Davigo nel suo esame. Davigo ha detto a Storari il falso. Se Davigo gli avesse detto il vero, Storari non avrebbe commesso il reato. Non c’è nulla di potenzialmente legittimo nella loro comunicazione».

Per Greco le notizie al Csm «devono passare da un canale ufficiale, non nel corso di un colloquio con un singolo consigliere», lo stesso Davigo, il quale ha «allargato la platea dei destinatari di quella rivelazione», ricorrendo a una «giustificazione bizzarra»: «Il Csm non sa tenere i segreti». Una scusa che Greco ha liquidato così: «Se anche fosse non è che si può violare una norma ed è gravissimo che un’affermazione del genere arrivi proprio da Davigo». 

Il collega di Greco, Milanesi, ha rincarato la dose sostenendo che Davigo avrebbe una «concezione privata di prerogative e funzioni» del parlamentino dei giudici. Una posa da Marchese del Grillo: «Siccome io sono membro del Csm, posso sempre e comunque esercitare le prerogative dell’organo di cui faccio parte». Per il pm «sarebbe consolante affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti», ma «purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa».

Non è finita. Se il problema era «riportare quel procedimento sui binari della legalità», come sostenuto da Davigo, «che necessità c’era di dare delle trascrizioni e delle registrazioni?» ha chiesto Milanesi. Che si è dato questa risposta: «Si è scelta una via privata a un problema pubblico», anche «per la sfiducia personale» di Davigo nei confronti del magistrato della Procura generale di Milano a cui avrebbe dovuto rivolgersi. 

[…] il pubblico ministero […]ha accusato Davigo di aver commesso il reato «per esigenze private di gestione e influenze di rapporti e dinamiche all’interno del Csm». Il comportamento dell’ex campione di Mani pulite non avrebbe «evitato alcun danno», ma solo consentito di selezionare «chi e quando doveva sapere» con un «chiacchiericcio» incontrollato.

«L’unico fine di Davigo non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita» ha attaccato l’avvocato Fabio Repici, legale dello stesso Ardita, parte civile nel processo e in passato amico e coautore di libri con Davigo prima che i due si dividessero nel marzo del 2020 sul voto al Csm per il successore di Giuseppe Pignatone alla guida della Procura di Roma. Davigo inizialmente, come Ardita, perorava la discontinuità, poi, dopo l’esplosione del caso Palamara, si era accodato al cartello dei magistrati progressisti di Area.

Per la parte civile il «movente» di Davigo appare plasticamente nelle chat della sua segretaria, Marcella Contrafatto, laddove, il 24 settembre 2019, commenta con una collega il comportamento dei consiglieri di A&i: «Vabbé salverei Marra (Giuseppe, ndr), solo lui lo ascolta. Ardita va per conto suo, è un ribelle, proprio un talebano».

Alla vigilia del voto per la Procura di Roma, il 4 marzo 2020, la donna scrive a Marra: «Il presidente ha litigato di brutto con Ardita. Ieri. Urla dalla stanza. […]. Ha detto che non ci vuole più parlare. È nero. Molto serio. Non lo ho mai visto così. C’è completa rottura. Lui dice che Ardita ha qualche scheletro nell’armadio». Come se già a marzo sapesse delle dichiarazioni di Amara. Alla fine il presidente della prima sezione penale di Brescia, Roberto Spanò, ha rinviato a martedì prossimo, 20 giugno, le arringhe dei difensori di Davigo e le eventuali repliche. Dopo ci sarà la camera di consiglio prima della decisione. L’ex presidente dell’Anm ha annunciato che non sarà in aula, dopo aver presenziato a tutte le udienze del processo, per impegni già programmati. Un «legittimo impedimento» che potrebbe risparmiargli l’onta di assistere in diretta alla sua prima condanna.

Estratto dell'articolo di Luigi Ferrarella per corrirere.it il 13 giugno 2023.

Ancor più della richiesta finale di condanna a 1 anno e 4 mesi per rivelazione di segreto d’ufficio (nella primavera 2020 dentro e fuori al Consiglio Superiore della Magistratura) dei verbali milanesi dell’avvocato esterno Eni Piero Amara sulla presunta associazione segreta «loggia Ungheria», consegnati al membro Csm Piercamillo Davigo dal pm milanese Paolo Storari che lamentava l’impasse dei suoi capi nell’indagare per distinguere in fretta tra verità e calunnie di Amara, nella requisitoria di martedì dei pm bresciani suona sanguinoso per Davigo un sottotesto: l’accusa di «aver scelto una via privata alla soluzione di problemi pubblici, per sfiducia personale nelle procedure istituzionalmente preposte a eventualmente trattarle.

Ce lo ha detto Davigo qui in aula - riassume il pm bresciano Donato Greco  -: in quel momento per lui il procuratore milanese Francesco Greco era un superficiale, l’allora procuratore generale vicario milanese era un incapace, il procuratore generale di Cassazione Salvi non avrebbe mai ricevuto Storari, il Csm non era capace di tutelare i segreti, e così guarda caso l’unica strada che Davigo percorre è proprio quella illecita» del propalare a consiglieri del Csm notizie sui verbali di Amara, cioè la via «del chiacchiericcio e dell’utilizzo (stavolta  privato) di atti della pubblica autorità». 

Ma «dire (come fa Davigo) che, siccome il Csm non sarebbe in grado di tutelare il segreto, allora non andrebbe seguita la legge, lo fa somigliare all’evasore fiscale che dice di non pagare le tasse perché non si fida di quelli che poi spenderanno le sue tasse», affonda il colpo il pm Francesco Milanesi. 

«La verità è che i verbali di Amara sono stati usati da Davigo mai in vista dell’esercizio eventuale di prerogative istituzionali del Csm, ma sempre e solo per mettere in guardia altri componenti del Csm dell’esistenza di un potenziale massone»: cioè «per tentare di abbattere Sebastiano Ardita», come sostiene l’avvocato Fabio Repici parte civile per Ardita, uno dei due membri Csm evocati calunniosamente da Amara nei verbali, grande amico e compagno di corrente di Davigo prima di una brusca rottura. 

[…]

«Il nostro ufficio - ammette infine il pm bresciano Greco - non ha approfondito tutte le questioni e si è accontentato delle dichiarazioni di Davigo e Storari, ritenendole già di per sé confessorie», ed è tema lamentato più energicamente dall’avvocato Repici, che per conto di Ardita addita la stranezza della permuta del telefonino in un centro di assistenza Apple a seguito della quale Davigo ha riferito di non avere più i messaggi e le mail dell’epoca, utili a collocare con certezza la data dell’incontro tra Davigo e Storari.

Repici […]  soprattutto addebita a Davigo di aver «indotto il vicepresidente Csm David Ermini ad andare al Quirinale sull’onda delle balle di Amara», nel tentativo di «fare scoppiare la trappola» e «trasformare il Grande Imbroglio in Grande Ricatto» ai danni di Ardita e di un Csm condizionabile. Martedì prossimo 20 giugno le arringhe dei difensori Francesco Borasi e Domenico Pulitanó, e la sentenza.

CASO VERBALI. «Davigo si erge a paladino della legalità, ma fu lui a violarla...» Chiesta la condanna ad un anno e quattro mesi per l’ex pm di Mani Pulite imputato a Brescia. Il legale di parte civile: «Suo obiettivo abbattere Ardita». Simona Musco su Il Dubbio il 13 giugno 2023

Piercamillo Davigo fece «un uso privato» dei verbali segreti di Piero Amara, ex legale esterno di Eni e autore della bufala sulla loggia Ungheria. Obiettivo: colpire il suo ex amico Sebastiano Ardita, svelando agli altri consiglieri del Csm la sua presunta appartenenza a quella che lui stesso ha definito la nuova P2.

È questa la convinzione della procura di Brescia, che ha chiesto la condanna ad un anno e quattro mesi - pena sospesa - per l’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione e utilizzazione di segreto. Sua colpa quella di aver fatto circolare i verbali di Amara, consegnatigli dal pm milanese Paolo Storari per “sbloccare” le indagini, a suo dire, tenute ferme strumentalmente dai vertici della procura meneghina. Un’arringa pesante, quella pronunciata dai magistrati di Brescia nei confronti dell’ex magistrato. Che, ha affermato il pm Donato Greco, «si erge a paladino della giustizia per tutelare una legalità che a suo dire è stata violata, ma l'unica legalità violata è quella nel salotto di casa dove sono usciti dal perimetro investigativo atti coperti da segreto che dopo un po' di tempo vanno a finire sui giornali».

Sarebbe stato lui, secondo la procura, ad indurre in errore Storari, convincendolo a dargli una copia di quei verbali grazie alla bufala dell’inopponibilità del segreto investigativo ai consiglieri del Csm. «Davigo dice a Storari il falso», ha affermato il pubblico ministero rivolgendosi ai giudici della prima sezione penale, presieduta da Roberto Spanò: «Se gli avesse detto la verità - ha continuato il pm -, e cioè che nel 99 per cento dei casi gli atti di indagine non vengono mai resi ostensibili al Csm prima della discovery degli stessi, Storari non avrebbe commesso il reato», dal quale comunque è stato assolto in abbreviato. Tant’è che è stato lo stesso imputato, nel corso del suo esame, ad ammettere tale circostanza, ha spiegato il pm, secondo cui «non c'è nulla di potenzialmente legittimo» nella tra Davigo e Storari.

L’ex consigliere del Csm avrebbe dunque agito sulla base di una «concezione privata di prerogative e funzioni dell'organo» consiliare di Piazza Indipendenza, ostentando la convinzione che «“siccome io sono membro del Csm, posso sempre e comunque esercitare le prerogative dell'organo di cui faccio parte”», ha spiegato il pm Francesco Milanesi. «Sarebbe consolante - ha aggiunto - affermare che si sia trattato di una mera superficialità della persona coinvolta o della scarsa ponderazione degli interessi costituzionali coinvolti. Purtroppo il dibattimento ha dato una risposta diversa».

La procura ha chiesto di ritenere Davigo colpevole per tutti gli episodi di rivelazione uniti dal vincolo della continuazione, dando però parere favorevole alle attenuanti generiche per «l'irreprensibile comportamento processuale». Che non toglie, secondo la procura, la responsabilità per un reato grave per un magistrato d’esperienza con lui, ritenendo il fatto più grave quello di aver rivelato il contenuto dei verbali all'ex parlamentare del Movimento 5 Stelle Nicola Morra, allora presidente della Commissione parlamentare antimafia.

Se anche, infatti, fosse plausibile l’inopponibilità del segreto agli altri membri del Csm, ai quali Davigo ha svelato la presunta appartenenza di Ardita - parte civile nel processo - alla fantomatica loggia, niente motiverebbe l’aver rivelato anche a Morra, amico di entrambi, tale circostanza. Il comportamento di Davigo non avrebbe, secondo l’accusa, «evitato alcun danno» alle indagini o al Csm, ma sarebbe consistito nella scelta di «chi e quando doveva sapere» con «chiacchiericcio» incontrollato. «Un'interpretazione arbitraria» delle circolari dietro le quali si è trincerato sin dall’inizio per ottenere risultati «che non hanno servito le istituzioni». E in presenza di un grave pericolo per la Repubblica, «la risposta deve essere il più profondo e leale attaccamento alle norme: c'è chi ne ha fatto il rispetto una ragione di vita».

Nel caso di Davigo, lo scopo non era l’esercizio di poteri pubblici, ma quello di assecondare «esigenze private di gestione e influenze di rapporti e dinamiche all'interno del Csm», mettendo in guardia i colleghi «da un potenziale massone», ovvero Ardita. Concetto ribadito dal difensore di quest’ultimo, Fabio Repici, secondo cui l'unico fine dell’imputato «non era la giustizia o salvaguardare le indagini, ma abbattere Sebastiano Ardita - ha detto il legale -. Per Davigo si vuole evitare che Ardita apprenda dei verbali di Amara. Lo hanno saputo tutti tranne lui e il suo “gemello diverso” Nino Di Matteo. La verità è più semplice del gioco di luci stroboscopiche tentato dall'imputato. O la legge è uguale per tutti - ha concluso - oppure quello che vi si chiede dall'imputato è l'assoluzione del reo confesso. Non fate fare questo salto degenere alla giurisdizione. Non ho mai creduto ai giudici che sostengono che gli “imputati assolti sono colpevoli che l'hanno sfangata”, però almeno i reo confessi, seppur con una toga addosso, si deve avere il coraggio di condannarli».

Prima della requisitoria, è stato ascoltato l’ex primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, che ha raccontato di aver saputo anche lui della Loggia - ma non dei verbali - da Davigo, tanto da far valere all’imputato un nuovo capo di imputazione. Agli inizi di settembre 2020, ha raccontato, Davigo «mi aspettò nel parcheggio all'interno del Csm e mi parlò della vicenda Amara spiegandomi che stava collaborando con la giustizia, di questa cosiddetta Loggia Ungheria e che venivano indicate una serie di persone tra le quali due componenti del Csm: Mancinetti e Ardita - ha raccontato -. Mancinetti si dimise poco dopo mentre verso Ardita tenni un atteggiamento di prudenza, di considerazione attenta verso le sue scelte, ascoltare con attenzione quello che diceva e nei rapporti personali con lui per un po' di tempo fui più trattenuto mentre con altri ero più sciolto».

Davigo, nell’ottica di Curzio, all’epoca appena insediato nel ruolo di primo presidente, «volle preannunciarmi che probabilmente il Csm sarebbe stato ancora sottoposto a un ulteriore trauma. Interpretai questa cosa come un gesto di attenzione nei miei confronti qualora avessi dovuto affrontare la questione». Nonostante fosse componente del Comitato di presidenza, Curzio mantenne il silenzio su quei fatti, «per evitare di compromettere le indagini». Tant’è che Davigo «non mi sollecitò a formalizzare in alcun modo la situazione, questo me lo spiego con il fatto che formalizzandola avrebbe voluto dire passare la questione a una serie di persone, tutte serie e sottoposto a riserbo investigativo, ma tante e in una fase così iniziale di verifica della credibilità» delle rivelazioni di Amara, «formalizzarla avrebbe creato grossi problemi a quello che a mio parere era l'interesse base: l'efficacia delle indagini». Efficacia compromessa proprio da quel chiacchiericcio incontrollato provocato dalle rivelazioni di Davigo.

Non mentiva, ricordava male...Davigo e il caso Loggia Ungheria, chissà cosa penserebbe il Piercamillo pm del Davigo imputato. Iuri Maria Prado su L'Unità il 26 Maggio 2023

Siamo sicuri che il dottor Piercamillo Davigo, nel processo che lo vede imputato per rivelazione di segreti intorno al pasticcio della c.d. Loggia Ungheria, non sta esercitando la facoltà riconosciuta a quelli che si trovano nella sua condizione: e cioè la facoltà di dire bugie.

Dunque non mentiva tempo fa, ma semplicemente ricordava male, quando diceva di aver maneggiato i file relativi ai presunti verbali segreti, a lui consegnati dal Pm Storari, all’inizio di aprile del 2020: e non mentiva poi, ma semplicemente si affidava a un ricordo diverso, quando, l’altro giorno, diceva di averne fatto uso il 3 o il 4 maggio, inviando a sé stesso una email contenente quei documenti, che avrebbe stampato per portarli al Csm. Lì, come sappiamo, ha discusso della faccenda con una pluralità di persone, compreso l’ex presidente della Commissione Antimafia, Nicola Morra, col quale si sarebbe intrattenuto – così dice Morra medesimo – “nella tromba delle scale” (naturalmente il dottor Davigo non è responsabile delle eventuali inesattezze né dell’italiano perturbato di quel parlamentare).

Dice: ma che importa se quei file li aveva un mese prima o un mese dopo? Beh, importa perché l’ipotetico reato si sarebbe consumato dal momento della consegna dei file: e sapere quando e tramite quale mezzo un reato si è consumato forse ha qualche importanza. Ma poi importa per la somma di cose strane che rendono impossibile accertarlo.

E infatti. Non si può accertare, lo abbiamo visto, affidandosi ai ricordi dell’imputato Davigo: che sono divergenti. Non si può accertare esaminando la chiavetta Usb su cui erano caricati quei file, perché il dottor Davigo dice: a) che non sa dove sia finita, “siccome le pen drive si perdono sempre”; b) che comunque potrebbe averla riutilizzata e, riutilizzandola, avrebbe cancellato i file, ”per fare spazio”. Non si può accertare esaminando le email che Davigo avrebbe mandato a sé stesso, con dentro quei file, perché aveva usato l’account a disposizione dei magistrati (@giustizia.it), che nel frattempo è stato chiuso, lui essendo andato in pensione. Non si può accertare esaminando i messaggi WhatsApp scambiati con il suo interlocutore, perché, spiega Davigo: a) il telefono si è rotto; b) lo ha “rivenduto” a un concessionario Apple, che gliene ha dato un altro a buon prezzo; c) il concessionario gli ha fatto bensì un backup dei dati, ma solo di quelli “importanti” (tra i quali, dunque, non i messaggi riguardanti i verbali segreti, che erano cose evidentemente irrilevanti). Che poi il backup delle chat di WhatsApp non c’entri nulla e sia autonomo rispetto al backup del dispositivo è un dettaglio tecnico che conosciamo solo noi adolescenti, e non si può pretendere che se ne abbia conto in un processo penale.

Ora: noi siamo assolutamente certi, lo ripetiamo, che il dottor Davigo dica la verità e che, dunque, non menta come pure la legge gli consentirebbe di fare. Siamo persino dalla sua parte, perché per noi l’imputato è per definizione parte debole. Ci domandiamo solo che cosa penserebbe il pubblico ministero Piercamillo Davigo di un imputato che dicesse le verità dell’imputato Piercamillo Davigo. Iuri Maria Prado

Loggia Ungheria, parla Pedio: consegnare i verbali al Csm ha distrutto l’indagine. GIULIA MERLO su Il Domani il 12 maggio 2023

Nel processo per rivelazione d’atti d’ufficio a carico di Davigo, l’aggiunta milanese Laura Pedio ha dato la sua versione dei fatti sul caso dei verbali consegnati da Storari al Csm: «Mandare quei verbali al Consiglio superiore che, nell'ipotesi di Amara, era l'organo che la Loggia segreta voleva condizionare, avrebbe significato distruggere l'indagine»

Prosegue a Brescia il processo contro l’ex consigliere del Csm, Piercamillo Davigo, imputato di rivelazione di segreto d’ufficio in merito ai verbali di Piero Amara sull’esistenza della presunta Loggia Ungheria.

Il processo, per cui Davigo ha scelto il rito ordinario con l’esatta intenzione di rende pubblico il dibattimento, sta facendo emergere il quadro delle posizioni interne alla magistratura in una vicenda ramificata e complessa.

Da una parte Davigo e il pm milanese Paolo Storari, che gli ha consegnato i verbali per sollecitare un’accelerazione dell’inchiesta; dall’altra la procura di Milano con gli aggiunti Fabio de Pasquale e Laura Pedio che invece ritenevano di procedere in altro modo.

Fino ad oggi è emersa soprattutto la posizione di Storari e quella dei consiglieri del Csm, che hanno raccontato la loro versione dei fatti e il passaggio di mano dei verbali. Ora però, durante il processo, ha preso la parola come testimone l’aggiunta Laura Pedio, raccontando come la vicenda è stata vissuta dall’interno della procura meneghina.

LA VERSIONE DI PEDIO

Pedio ha parlato per circa un'ora e mezza nell'aula di Assise del tribunale di Brescia, presieduta dal giudice Roberto Spanò e ha raccontato il clima di quei mesi a cavallo tra il 2019 e il 2020.

Pedio ha spiegato perchè nell’ufficio non era emersa alcuna intenzione di trasmettere i verbali al Csm, cosa che Storari invece ha fatto di sua iniziativa perchè, secondo lui, l’inchiesta era ferma e si ritardavano le iscrizioni nel registro degli indagati.

«Perché mai avremmo dovuto trasmettere i verbali al Csm? Non c'era alcun motivo. Mandare quei verbali al Consiglio superiore che, nell'ipotesi di Amara, era l'organo che la Loggia segreta voleva condizionare, avrebbe significato distruggere l'indagine», è stata la versione di Pedio. Amara, infatti, aveva indicato alcuni componenti del Csm come possibili membri della loggia, oltre che numerosi magistrati. «Nessun collega era stato iscritto - ha spiegato Pedio con riferimento alla prassi che vuole il Csm a conoscenza dei giudici finiti sotto indagine - e nessuno è stato mai iscritto neppure dalla Procura di Perugia», infatti «c'erano 47 magistrati indicati come appartenenti alla Loggia eppure Perugia non ha iscritto nessuno, esattamente come non ha mai trasmesso durante la fase di indagine i verbali al Csm». E «anche quando quel Consiglio li ha chiesti, il procuratore Cantone ha opposto il segreto istruttorio».

L’ipotesi di Storari era che si ritardasse la partenza dell’indagine sui verbali per tutelare Amara, che era teste chiave nel processo Eni-Nigeria e una sua eventuale iscrizione nel registro degli indagati per calunnia ne avrebbe minato la credibilità.

Pedio, però, ha negato qualsiasi timore: «Erano dichiarazioni delicate in cui si faceva riferimento a più di cento persone delle più alte cariche dello Stato, civili e militari. Non ho una storia di timore nell'affrontare le indagini, quello che più mi preoccupava era che si trattava di dichiarazioni un po' vaghe e quindi di capire se avessero contenuti per procedere alle iscrizioni. La natura delle dichiarazioni induceva a una prudenza tecnica».

I VERBALI TRAFUGATI

Quanto al momento in cui il giornalista del Fatto Quotidiano Antonio Massari arriva in procura a consegnare la copia senza timbri dei verbali di Amara, che aveva ricevuto in plico anonimo, Pedio ha raccontato di essersi «molto spaventata e ho pensato che ci fosse stato un accesso abusivo al sistema informatico, l'ho chiesto a Storari, eravamo assieme, lui pensava che non ci fosse stato ma che fossero i verbali in pdf che erano stati modificati. Mi disse di non preoccuparmi, era convinto che quella circolazione fosse imputabile ad Amara o ad Armanna che in qualche modo se ne fossero appropriati».

Invece, come si scoprirà in seguito, i verbali erano gli stessi che Storari stesso aveva consegnato a Davigo e che poi vennero inviati anonimamente a due quotidiani e al togato del Csm, Nino Di Matteo. «Non ho mai sospettato di Storari all'epoca - ha detto Pedio - Abbiamo cominciato a chiederci chi li aveva, se nella stampante magari era rimasto qualcosa in memoria e se c'era stato un accesso abusivo».

IL MURO DI GOMMA

Pedio ha anche risposto in proposito del “muro di gomma” che Storari aveva detto di aver trovato dentro la procura di Milano, quando aveva sollecitato di agire rispetto alle notizie contenute nei verbali di Amara. «Tutto il disappunto, il contrasto insanabile, il “muro di gomma” che Storari ha riferito sono venuti fuori dopo il 9 aprile 2021, quando è emerso che era stato lui ad aver consegnato i verbali e ha raccontato queste storie», con «spiegazioni date dopo che è partita l'indagine sulla consegna dei verbali».

Nella ricostruzione temporale, Pedio ha detto che la mail che Storari le ha mandato in cui predisponeva le iscrizioni sul registro degli indagati è «successiva alla consegna dei verbali a Davigo. E’ il primo, se vogliamo, riscontro documentabile che poteva esserci un contrasto». Tradotto: Storari si sarebbe mosso per manifestare l’intenzione di accelerare le indagini solo dopo aver dato i verbali a Davigo e non prima. «E' possibile che, avendo consegnato i verbali, si sia sentito di dover fare pressioni maggiormente sulle iscrizioni nel registro degli indagati». 

GIULIA MERLO

Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Giallo Davigo, nel processo qualcuno non la racconta giusta: le testimonianze diverse dei pm. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 10 Maggio 2023 

Qualcuno non la racconta giusta alla Procura di Milano a proposito dell’indagine sulla loggia Ungheria che poi terremotò il Consiglio superiore della magistratura facendo finire sul banco degli imputati Piercamillo Davigo con l’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio. Durante il processo in corso a Brescia nei confronti dell’ex pm di Mani pulite, la procuratrice aggiunta di Milano Laura Pedio, nel 2019 titolare del fascicolo sulla loggia insieme al pm Paolo Storari, sentita ieri come testimone ha smentito le ricostruzioni che in questi mesi erano circolate circa una ‘inerzia’ dei vertici dell’ufficio milanese ad effettuare accertamenti dopo le rivelazioni dall’avvocato esterno dell’Eni Piero Amara.

Fino a ieri, infatti, la tesi era che Storari si sarebbe rivolto a Davigo per cercare aiuto in quanto ‘impedito’ a svolgere le indagini. A tal proposito, Storari aveva deciso di consegnare i verbali degli interrogatori di Amara dove si facevano i nomi di alte personalità dello Stato e di un quarantina di magistrati, tutti legati al sodalizio paramassonico finalizzato ad aggiustare i processi e pilotare le nomine dei vertici delle procure e dei tribunali. “Per me scoprire tutto è stata una sorpresa incredibile, non c’era un clima di contrasto, mai avrei potuto pensare che il collega di cui mi fidavo potesse fare una cosa di questo tipo”, ha detto invece Pedio.

E alla domanda sul perché avesse agito, la risposta è stata: “Non lo so dire, mi sono interrogata tante volte”. Di questi presunti contrasti, poi, “non si è trovato traccia neppure negli atti, il fascicolo è stato tutto condiviso, tutti gli atti sono a doppia firma”. Pedio ha anche sottolineato che alla sua richiesta di aggiungere un pm per affrontare un’inchiesta delicata, Storari “non volle, lui si trovava molto bene a lavorare con me e voleva proseguire con me. lo avevo dei segnali che andava tutto bene”. Il processo riprenderà il prossimo 23 maggio con l’interrogatorio di Davigo. Forse si capirà qualcosa in più su questo che è ormai un vero giallo.

Paolo Pandolfini

La clamorosa rivelazione nel processo di Brescia. “Forze oscure imposero Prestipino capo a Roma”, la rivelazione di Ardita nel processo contro Davigo. Paolo Comi su Il Riformista il 7 Marzo 2023

Nella nomina del procuratore di Roma sarebbero intervenute delle non meglio precisate “forze oscure”. Potrebbe trattarsi, ma sono ovviamente solo supposizioni giornalistiche in attesa di riscontri ufficiali, di soggetti legati ad ambienti massonici o dei servizi deviati.

A fare la clamorosa rivelazione, ignorata da tutti i media, è stato il pm antimafia Sebastiano Ardita, ex togato ‘davighiano’ del Consiglio superiore della magistratura.

Ardita è stato sentito come teste all’ultima udienza il mese scorso nel processo che si sta celebrando davanti al tribunale di Brescia a carico di Piercamillo Davigo, accusato di rivelazione del segreto di ufficio in relazione alla divulgazione dei verbali resi dall’avvocato siracusano Piero Amara sulla loggia massonica denominata Ungheria. Ardita ha ripercorso le ragioni di contrasto con l’ex pm di Mani pulite, a partire dai noti fatti dell’hotel Champagne del maggio 2019 a seguito dei quali Davigo intendeva allearsi con la sinistra giudiziaria della corrente di Area. Una scelta che lo stesso Ardita e gli altri consiglieri davighiani, il pm Nino Di Matteo ed i giudici Giuseppe Marra e Ilaria Pepe, non condividevano, intendendo mantenere una posizione distante da Area, per decidere di volta in volta la linea da sostenere.

Tale condotta venne mantenuta fino a febbraio del 2020 quando si dovette votare, prima in Commissione per gli incarichi direttivi e poi in Plenum, per la nomina del procuratore di Roma. Rispetto a tale nomina i davighiani di Autonomia&Indipendenza decisero all’unanimità di votare per Giuseppe Creazzo, allora procuratore di Firenze, che aveva molti più titoli del concorrente Michele Prestipino, procuratore aggiunto a Roma. Davigo, però, componente della quinta commissione, disattendendo la posizione assunta dal gruppo, anziché votare per Creazzo votò per Prestipino.

Continuando la testimonianza, Ardita ha sottolineato che subito dopo dovette registrare che anche i colleghi Marra e Pepe avevano mutato opinione, comunicandogli che avrebbero votato in plenum per Prestipino. A quel punto, decise di chiedere spiegazioni alla collega Pepe con la quale era in maggiore confidenza. “Cominciò a dire – racconta Ardita – che c’erano in quel momento delle forze che si contrapponevano alle questioni di giustizia, parlò anche di forze oscure, non mi guardava in faccia, guardava dritto da un’altra parte del tavolo, sulla sua sinistra, la guardavo sbalordito perché fino al giorno prima aveva detto che non avrebbe votato per Prestipino”. Quali fossero queste “forze” che si contrapponevano alle “questioni di giustizia” all’interno del Csm e che hanno poi determinato la nomina di Prestipino quale procuratore della Repubblica di Roma non è stato però esplicitato da Ardita e il pur loquace presidente del collegio Roberto Spanò non ha fatto, in proposito, alcuna domanda.

La consigliere Pepe, del resto, quando era stata sentita come testimone nel medesimo procedimento il 13 ottobre scorso, nulla aveva riferito circa le “forze oscure” che avevano imposto la nomina di Prestipino. Sarebbe, allora, quanto mai opportuno che Spanò la riconvocasse per chiarire cosa accadeva in quel periodo all’interno del Csm. E ciò, soprattutto, dopo la recente sentenza del gup del tribunale di Roma Nicolò Marino il quale, assolvendo l’ex segreteria di Davigo Marcella Contrafatto, ha esplicitamente parlato di “congiure di palazzo”, e della deposizione, sempre a Brescia, di Di Matteo che ha fatto dichiarazioni in linea con quanto riferito da Ardita a proposito del mutamento di indirizzo in favore di Prestipino da parte di Pepe e Marra. Paolo Comi

Ardita contro Davigo in aula: «Sapeva che Amara mentiva». L’ex consigliere del Csm testimone al processo a Brescia che vede imputato l’x pm di Mani Pulite per rivelazione: «Contro di me una vendetta per le mie indagini». Simona Musco su I Dubbio il 23 febbraio 2023.

«Davigo ha capito perfettamente che le dichiarazioni nei verbali erano false. In tre anni, dal 2017 al 2019, ho operato sull'arresto dell'avvocato Amara, quelli consegnati a Davigo erano verbali con affermazioni sgangherate in cui non combaciava nulla». Sebastiano Ardita, ex membro del Csm, è durissimo nel corso della sua testimonianza al processo a Brescia a Piercamillo Davigo, imputato per rivelazione del segreto d'ufficio nell'inchiesta sulla presunta loggia massonica Ungheria.

Parole, le sue, pronunciate in una giornata dal clima surreale, da resa dei conti, che ha visto oggi nello stesso palazzo di Giustizia due ex amici camminarsi vicino senza mai rivolgersi uno sguardo. E nella stessa stanza, devastata da due anni di gogna, c’era anche Marcella Contrafatto, ex segretaria di Davigo, indicata come «il corvo del Csm» e assolta a Roma dall’accusa di calunnia nei confronti dell’ex procuratore Francesco Greco, accusato, sui verbali spediti anonimamente alla stampa e all’ex consigliere del Csm Nino Di Matteo, di voler insabbiare le indagini sulla loggia. Contrafatto ha scelto di non rispondere alle domande, dato il procedimento pendente a Roma per rivelazione d’ufficio e favoreggiamento, indagine per la quale la procura ha chiesto una proroga. E appena messo piede in aula è impallidita alla vista delle telecamere, che per mesi l’hanno inseguita per tormentarla. «Avevano trovato il capro espiatorio - ha sussurrato poco prima dell’inizio dell’udienza -. Chi me li ridà questi anni?».

L’attesa, però, era tutta per Ardita. Che ha di fatto attribuito all’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara - che lo ha falsamente indicato tra gli appartenenti alla presunta loggia Ungheria - un tentativo di vendetta nei suoi confronti, per le indagini e le attività investigative condotte su di lui «in tre anni e in tre funzioni diverse». Ovvero come aggiunto a Messina e Catania e anche al Csm, dove avrebbe voluto far audire il pm di Roma, Stefano Fava, che si era rivolto a lui proprio per problemi e ostacoli nel condurre indagini su Amara, al punto da voler presentare un esposto contro l’allora procuratore Giuseppe Pignatone. Ma non solo: secondo Ardita, Davigo sarebbe venuto a conoscenza delle affermazioni di Amara ben prima di quando il pm Paolo Storari gli ha consegnato i verbali, ad aprile del 2020.

Dopo la grande amicizia che li aveva legati, i rapporti tra i due - fondatori di Autonomia & Indipendenza, frutto della scissione da Magistratura Indipendente - cambiarono drasticamente. Il contesto era quello dello scandalo dell’Hotel Champagne, a seguito del quale Davigo «assunse un atteggiamento non coerente con la nostra linea iniziale», decidendo di «non far toccare palla» alle correnti che avevano partecipato alle trame del Palamaragate. «Un’affermazione fuori dal mondo», perché la ratio del gruppo era quella di rimanere indipendenti. Ed escludere a priori qualcuno significava adeguarsi alle scelte degli altri, facendosi così «risucchiare» dal sistema che volevano combattere. «La divergenza era politica, ma divenne più dura quando iniziò a prendere le distanze da Stefano Fava», che Ardita avrebbe voluto coinvolgere nelle attività di A&I. «Davigo lo considerava un pezzo dello Champagne, cosa che non era», ha dichiarato. E ciò in virtù di quell’esposto che avrebbe colpito anche l’aggiunto Paolo Ielo, amico di Davigo e chiamato in causa da Fava per i rapporti professionali del fratello con Amara. Ardita avrebbe voluto sentire Fava in Commissione, scelta non gradita a Davigo, che dietro vi vedeva un complotto contro Ielo, considerato colpevole dei guai di Palamara.

Uno dei punti di non ritorno, per la fine della loro amicizia, fu la scelta del procuratore di Roma, da rifare dopo lo scandalo del Palamaragate. E Davigo tentò di imporre una scelta al gruppo: aderire alla linea di Area. «Io scelsi la linea dell’indipendenza», ha spiegato Ardita. Scelta condivisa, inizialmente, anche dagli altri membri del gruppo, Di Matteo - che «Davigo non stimava» -, Ilaria Pepe e Giuseppe Marra, salvo poi essere rinnegata da questi ultimi. Inizialmente d’accordo con l’idea di votare l’allora procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo per il dopo Pignatone, per poi virare su Michele Prestipino, così come voluto da Davigo. Alla riunione di febbraio 2020, che precedette il voto in plenum, Davigo parlò dunque «di forze oscure. Non mi guardava in faccia - ha spiegato Ardita -. Disse che il gruppo doveva rimanere unito e votare Prestipino. Mi affrontò e perse le staffe, chiedendomi perché non volessi farlo. Le mie erano ragioni tecniche. Così cominciò ad urlare e mi disse “mi nascondi qualcosa”».

In questo contesto fu Pepe a ricordare «quelli dello Champagne», che a suo dire «stavano continuando a fare cose». Un’affermazione preoccupante, secondo Ardita, che faceva intendere che sapessero qualcosa a lui non noto. «Davigo mi disse: se voti Creazzo stai con quelli dello Champagne. Che però avevano svolto attività contro Creazzo. E mi disse che sarei stato fuori dal gruppo, come se l’avesse creato lui. Quelli dello Champagne mi definivano un talebano da tenere sotto controllo. Come poteva credere a queste cose contrarie alla realtà, conoscendomi perfettamente?». Ardita non scoprì mai cosa volesse dire Davigo, nonostante l’invito a dirlo davanti a tutti. «Si limitò a rimproverarmi il fatto che Antonio Lepre (uno dei consiglieri presenti all’Hotel Champagne e dimissionario dopo lo scandalo, ndr) venne a trovarmi. Venne da me per dirmi che avevano sbagliato e lo fece quando ancora non sapevamo nemmeno della sua partecipazione alla riunione. Dopo lo scandalo dello Champagne non lo vidi più». Ed è stato in questo momento che il presidente Spanò ha citato Davigo, che in aula aveva affermato che tale incontro sarebbe avvenuto dopo che la vicenda era ormai diventata di dominio pubblico. «Sarebbe molto grave se l'avesse detto», ha dunque replicato Ardita. Suscitando la reazione di Davigo: «Ci sono i testimoni», che il pm catanese ha invitato a portare in aula. «Quella di Davigo fu una chiara minaccia. Era fuori di sé - ha raccontato l’ex consigliere del Csm -, tremava, urlava, era rosso. E le cose che diceva erano incomprensibili per me». Secondo Ardita - che è parte civile al processo - fu proprio quell’atteggiamento a condizionare il Csm. «Mi trovai isolato. Diverse persone mi parlavano a stento». A sapere della loggia, infatti, erano tutti i consiglieri con i quali Ardita aveva rapporti di stima. «Mi ha provocato molti danni - ha aggiunto -. Non avrei voluto che circolassero cose che non definirei nemmeno calunnie, ma pattumiere. Era una cosa per me incomprensibile». Nonostante questo, Ardita votò a favore della permanenza di Davigo al Csm, quando si discusse del suo pensionamento. «Da mesi non mi salutava e mi stava anche infamando davanti alla procura di Perugia. Ma a me hanno insegnato che è onestà morale non fare nulla per interesse proprio. Io ho agito per onestà intellettuale. E non ho cambiato idea. Davigo ha altri canoni di ragionamento: evidentemente vede le cose in base ai rapporti che ha con le persone».

Ardita ha infine smentito l’affermazione di Davigo secondo cui è normale che il Csm conosca atti coperti da segreto. Consapevolezza che deriva anche dal suo ruolo di ex presidente della prima Commissione, che si occupa dei procedimenti disciplinari. «Gli atti coperti da segreto non vengono mai a conoscenza del Csm. Il Consiglio - ha evidenziato - viene a conoscenza quando ci sono le iscrizioni. Ma ancora più spesso, quando le indagini sono delicate, solo alla fine delle indagini, con la proroga o con la chiusura. E comunque questo atto spetta alla procura generale. Se fossero arrivati dei verbali il comitato avrebbe dovuto chiudere il plico e rispedirlo indietro».

A parlare oggi in aula anche Giuseppe Marra, compagno di corrente di Davigo e Ardita e indagato per omessa denuncia e distruzione di corpo di reato a seguito della trasmissione degli atti da parte del gup di Roma che ha assolto Contrafatto. «Ho appreso la notizia dai giornali», ha puntualizzato l’ex consigliere del Csm, accompagnato dal difensore, Roberto Borgogno. Marra ha spiegato di aver saputo dei verbali l’8 giugno: una volta al Csm, l’ex pm di Mani Pulite - che si premurò di far spegnere i telefoni - gli mostrò una cartellina contenente dei fogli, senza timbro né sottoscrizioni, nei quali si parlava anche di Ardita. Un incontro breve, quello, che poi riprese a pranzo, dove Davigo raccontò della visita di Storari e dello stallo nelle indagini a Milano. «Capii che era un procedimento penale in fase di indagini. Era impossibile non capirlo», ha sottolineato. Ma Marra non pose il tema della segretezza al collega. E ciò perché «il Csm riceve quotidianamente atti di indagine coperti da segreto», in quanto «deve essere informato immediatamente se una procura sta indagando o abbia una notizia di reato su un magistrato». Ma mai, ha puntualizzato, era avvenuto tramite queste modalità, rese necessarie, a suo dire, dalla presenza di Ardita in prima Commissione. Marra chiese comunque a Davigo se la modalità seguita da Storari fosse corretta, dal momento che la circolare prevede l’invio di un plico riservato al Comitato di Presidenza. «Mi disse che comunque il segreto investigativo non è opponibile al Csm in base alle circolari e quindi nemmeno al singolo consigliere - ha sottolineato -. Inoltre aveva informato il procuratore generale e il vicepresidente, che a sua volta aveva informato il Capo dello Stato».

Ma perché Davigo informò proprio Marra? In virtù dei rapporti confidenziali con Ardita e proprio per tale motivo gli consigliò cautela. «Mi disse: fa attenzione alle comunicazioni con Ardita, perché non sappiamo se quello che c’è scritto è vero», ha raccontato. Sulla veridicità del racconto di Amara c’erano dubbi, ma Davigo «mi disse che sembrava inverosimile che una persona per nulla sprovveduta, com’era sulla carta Amara, si inventasse tutto rischiando di commettere una calunnia clamorosa nei confronti di persone importanti all’interno delle istituzioni. Impressione che io condivisi dal punto di vista logico». Nonostante la convinzione che la procedura seguita da Davigo fosse corretta, i verbali di Amara non finirono mai in prima commissione. Se non dopo l’inoltro della procura di Perugia, che nel frattempo stava indagando per corruzione Mancinetti. Inoltre, Ardita non sponsorizzò in alcun modo un altro dei nomi indicati da Amara - quello di Alessandro Centonze -, candidato a diventare membro della Scuola superiore della magistratura. «Dissi a Davigo che mi sembrava strano che se entrambi facevano parte di questa loggia massonica Ardita non si fosse mai avvicinato a me per sponsorizzarlo», ha evidenziato Marra. Che in ogni caso seguì il consiglio di Davigo, allontanandosi da Ardita, col quale ebbe anche motivi di scontro per questioni legate alla corrente. Prima di andare via dal Csm, Davigo portò la cartellina coi verbali di Amara nell’ufficio di Marra, comunicandoglielo a pranzo. «Non mi disse perché - ha spiegato Marra -, ma so che Davigo ha dichiarato che in precedenza mi aveva detto che qualora lui fosse stato dichiarato decaduto me le avrebbe lasciati qualora qualcuno del Comitato di presidenza ne avesse voluto copia. Ma questa frase non me la ricordo». Una circostanza strana, dal momento che era stato lo stesso Davigo a consegnare i verbali ad Ermini. Marra, in ogni caso, distrusse quei documenti poche settimane dopo. «Erano cose che preferivo non avere. Nessuno me le chiese e non ne potevo parlare con nessuno - ha evidenziato -. Erano documenti che scottavano. Ho cercato di starne fuori».

La sinistra.

La sinistra ha il buonismo ed il Politicamente Corretto su immigrazione ed LGBTI, la destra il proibizionismo ed il punizionismo moralista sul sesso e la droga. Il Giustizialismo per entrambi è per gli altri, il garantismo per se stessi.

Antonio Giangrande: IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.

Nel libro scritto da Antonio Giangrande, “IMPUNITOPOLI, LEGULEI ED IMPUNITA’”, un capitolo è dedicato al garantismo.

Su questo Antonio Giangrande, il noto saggista e sociologo storico che ha pubblicato la collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", ha svolto una sua inchiesta indipendente. Giangrande sui vari aspetti dell’impunità in Italia ha pubblicato un volume ““IMPUNITOPOLI, LEGULEI ED IMPUNITA’”.

L'excursus. La sinistra e la tradizione ormai persa dei veri avvocati del popolo. Il “fare giustizia” diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare. Oggi invece, chi grida “resistenza” mira a tutelare i suoi eterni privilegi corporativi e di casta. Claudio Velardi su Il Riformista il 3 Ottobre 2023 

Agli albori, in materia di giustizia, la sinistra tifava per l’avvocatura, la più nobile delle professioni liberali. Molto spesso erano avvocati i primi e più importanti dirigenti del movimento dei lavoratori, a partire da Filippo Turati. Da allora, anche in epoche meno lontane, si trattasse di sostenere operai che occupavano fabbriche o studenti che facevano manifestazioni, c’era sempre un avvocato (dal latino ad-vocatus, chiamato in aiuto) pronto a combattere contro i soprusi del potere, per ergersi a protagonista acclamato di vibranti arringhe nelle aule di giustizia, in difesa dei diritti di ogni singolo individuo. Mentre la magistratura era per definizione un potere odioso e lontano, che presidiava in maniera occhiuta – a volte ottusa – le leggi vigenti, l’impianto istituzionale dato, la tutela dell’ordine costituito.

Accadde qualcosa di imprevisto, ma di sostanziale, a seguito del cambio epocale della fine degli anni ’60. Avendo preso rapidamente atto che la rivoluzione per via politica era una strada impraticabile e illusoria, nelle nuove generazioni si cominciò a pensare che bisognava penetrare nei gangli cruciali del sistema, per scardinarlo da dentro. E il “fare giustizia” (non parlo ovviamente delle orribili minoranze combattenti) diventò una parola d’ordine – e un percorso di carriera – per molti ragazzi imbevuti di ideologia, animati dalla sincera voglia di cambiare, meno consapevoli di quei principi sacri della separazione dei poteri che sono a fondamento dello Stato di diritto, e lo tengono da alcuni secoli in equilibrio.

Fu questo il corto circuito che portò alla “rivoluzione dei giudici” dei primi anni ‘90, alla conseguente alterazione strutturale dei rapporti tra i poteri e all’uso da allora permanente della giustizia come un grimaldello, non per “amministrare la legge”, ma per brandirla, per piegarla alle proprie convinzioni. Fino all’approdo ultimo, esibito con candore nella Carta dei valori dell’Area democratica per la Giustizia (che non è una componente del Pd, ma l’ormai nota corrente di sinistra dei magistrati italiani), che intende battersi per “l’interpretazione… come strumento essenziale… di promozione sostanziale dell’eguaglianza tra le persone”. Un programma che più eminentemente politico non si potrebbe, a quanto pare condiviso dalla premiata coppia Schlein e Conte.

Ed è così che la sinistra del terzo millennio archivia definitivamente il suo glorioso percorso, iniziato con veri “avvocati del popolo” che difendevano braccianti sfruttati, e si chiude con una grottesca genuflessione nei confronti dei nuovi potenti, quelli che invocano ogni giorno “resistenza” solo per tutelare i loro eterni privilegi corporativi e di casta. Chissà cosa ne penserebbe il povero Filippo Turati. Claudio Velardi

Le due sinistre. La sinistra che ispira Schlein è stata l’anticamera di giustizialismo e populismo, oggi è sottomessa alle Procure. La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista. Stefania Craxi su Il Riformista il 5 Ottobre 2023 

Velardi ha ragione quando dice che agli albori la sinistra era quella degli avvocati che difendevano gli indifesi al cospetto dello Stato dei giudici. Per la giustizia sociale, per poi diventare la sinistra dei giudici per la giustizia politica. Che in quanto politica non è più giustizia.

Ha ragione quando partendo da Turati descrive la trasformazione verso l’abisso di Conte e Schlein.

Ha ragione, ma ha anche torto.

Perché è apprezzabile quello che scrive, ma non scrive, non dice, tutto.

La sinistra, dice Velardi, di una volta, ma quale sinistra, di quale sinistra parla?

Avrei apprezzato ancor di più se avesse detto il non detto. Che invece va detto. Tutto.

La sinistra che stava con gli avvocati, che era degli avvocati, per la giustizia sociale e non politica, da Turati a Matteotti, sino a Vassalli, passando per mio nonno, era socialista.

Non era tutta la sinistra. Bisogna distinguere, sarebbe onesto distinguere. Era la sinistra alla quale un’altra sinistra, quella che è stata di Velardi, dichiarò guerra, sino a vincerla con le armi della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere, alla quale pochi comunisti si opposero, Gerardo Chiaromonte ad esempio, perdendo.

Quando le diciamo queste cose, caro Velardi?

E la sinistra di Turati, di Matteotti, veniva accusata di social fascismo, dalla sinistra alla quale si ispira Elly, Ella, Schlein, da Gramsci in giù. Gramsci che definiva Turati uno “straccio mestruato”, o un “putrido riformista”, come lo definiva Togliatti. O social fascista come era definito Matteotti, martire del fascismo.

Il riformista avvocato del Polesine Matteotti che la sinistra alla quale si ispira la Schlein considerava quasi di destra, di una ideologia minore, il riformismo “putrido”, appunto, perché si occupava, da avvocato e politico, di difendere i braccianti, di cercare soluzioni concrete, piccole anche, ma ora, società di mutuo soccorso, diritti per chi non ne aveva alcuno, con gradualità, in continuazione, giustizia sociale. Anche con compromessi con il Governo esistente.

E invece c’era un’altra sinistra, che Velardi conosce meglio per averla frequentata, che predicando la rivoluzione è arrivata alla sottomissione al potere costituito delle Procure.

Passando dalla diversità morale, la superiorità morale, di Berlinguer e del vecchio capo di Velardi, che in Italia è stata l’anticamera del giustizialismo che poi è diventato populismo.

Il principio di superiorità che ha alimentato il diritto morale della giustizia politica. Della via giudiziaria al potere.

Caro Velardi, apprezzo. Ma se la dicessi tutta, la verità, sarebbe ancora più apprezzabile.

Stefania Craxi

IL GARANTISMO E’ DI SINISTRA, MA DA LORO E’ RINNEGATO.

Il giovane Pippo Civati, giovane piddino intelligente e scaltro, ha rilasciato una intervista a “Repubblica” per dire due o tre cose che – a suo giudizio – renderanno più forte la sua posizione dentro il partito, e magari daranno fastidio a Renzi. Per essere esatti ha detto cinque cose. Ha detto che la riforma della giustizia va fatta senza Berlusconi. Che la riforma della giustizia va fatta, invece, insieme ai magistrati. Poi ha detto anche che la riforma della giustizia va fatta con Grillo. E infine si è scagliato contro indulto e amnistia, giudicandole iniziative demagogiche, e si è detto invece soddisfatto del decreto carceri che – a suo giudizio – alleggerisce la condizione dei carcerati, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Dei carcerati stipati nelle celle: come lo alleggerisce, onorevole? Con gli otto euro al giorno, che sono l’equivalente di 8 secondi della sua diaria da parlamentare? Il giovane Pippo Civati, che politicamente è nato insieme a Renzi, alla Leopolda, ma poi si è distaccato dal fiorentino scegliendo di diventare – così mi dicono – il leader dell’ala sinistra del Pd, probabilmente sa poco della storia della sinistra e della destra in Italia, e non è il solo. E ignora – a occhio – che le sue posizioni favorevoli alle galere, contrarie alle amnistie, e desiderose di lasciare che siano i magistrati a riformare la giustizia, assomigliano parecchio a quelle che furono di un certo Mario Scelba e pochissimo a quelle che furono di un certo Umberto Terracini. Visto che il giovane Civati, come è logico, è giovane, è possibile che non sappia nulla di Scelba e Terracini (del resto molti intellettuali di sinistra più anziani di lui ne sanno pochissimo, o vogliono saperne pochissimo, o fingono di saperne pochissimo). Dunque riassumo: Mario Scelba, siciliano, nato nel 1901. Fu il segretario particolare di don Sturzo, poi legò con De Gasperi che lo fece ministro dell’Interno. Comunisti e socialisti lo chiamavano ministro di polizia. Usò la mano dura, seminò le piazze di morti e feriti e le prigioni di militanti politici, pensò la legge-truffa e la difese, poi divenne presidente del Consiglio dopo De Gasperi in un governo nel quale il vicepresidente era Saragat, e che Nenni, scherzosamente ma non tanto, usando le iniziali dei due leader, definì il governo “S.S”. Poi Scelba fece una legge che stabiliva che il fascismo fosse un reato d’opinione, per fortuna mai applicata, ma questa legge non gli conquistò –come lui si aspettava – simpatie a sinistra, perché le sinistre intuivano che nella sua testa c’era l’idea di fare una legge successiva, che trasformasse anche il comunismo in reato d’opinione. Insomma, onorevole Civati, capito che tipo era questo Scelba? A lui non piacevano indulto e amnistia, amava le celle ben stipate e voleva che la giustizia fosse forte e salda nelle mani dei magistrati. Umberto Terracini invece era un avvocato ebreo genovese – il padre si chiamava Jair, come la mitica ala destra dell’Inter – di sei anni più vecchio di Scelba, era nato nel 1895, amico di Gramsci, fondatore del partito comunista, antistalinista, espulso dal Pci negli anni trenta e poi riammesso, sempre anticonformista, sempre libertario, e quando era già vecchio, negli anni Settanta, si batté ferocemente contro la legge Reale e altre leggi speciali e liberticide volute dal governo e appoggiate dal Pci per colpire il dissenso di sinistra (e anche un po’ di destra). Terracini – oratore fantastico – è quel signore che nel dicembre del 1947 firmò la Costituzione Repubblicana. Capito? Terracini si batté contro Scelba nelle piazze, si batté contro Scelba nei tribunali, si batté contro la legge truffa, fu sempre favorevole alle amnistie e agli indulti, combatteva all’arma bianca contro le sopraffazioni dei magistrati, si trovò a battagliare spalla a spalla con Marco Pannella. Scelba mise in prigione molte persone. Terracini andò lui in prigione, per una decina d’anni. Ora torniamo un momento alle sue tesi. Fare la riforma della giustizia escludendo Berlusconi – cioè l’opposizione liberale – ed includendo i magistrati, è qualcosa di terrificante. Lei pensa che affidando ai magistrati il compito di autoriformarsi si difende l’indipendenza tra i poteri? Lei pensa che non esista un conflitto di interessi se una riforma viene decisa da chi dovrebbe essere l’oggetto di questa riforma? Lei pensa che escludere i liberali dalla riforma della giustizia sia una cosa saggia? E poi, posso farle un’altra domanda che nasce da una pura curiosità): ma come mai non le è neanche venuto in mente, allora, di chiamare gli avvocati a collaborare? I magistrati sì, gli avvocati no. Forse perché gli avvocati non sono un potere? Quanto a Grillo, e alla proposta di collaborare con lui sul terreno della giustizia, mi sembra proprio una bella idea: ieri Grillo ha detto che preferisce Pinochet al partito democratico, ed effettivamente se l’Italia diventasse come il Cile di Pinochet, il problema giustizia sarebbe risolto e anche il problema carceri (magari si porrebbe una nuova questione: dove far giocare la seria A di Tavecchio, con tutti gli stadi occupati dai prigionieri…). Vabbè, Onorevole, veda un po’ lei. Io però torno per un attimo alle biografie di quei due padri della patria dei quali le parlavo, per porle un’ultima domanda: Scelba o Terracini? Lei chi preferisce? Perché il partito democratico, sarà un paradosso, ma è così: è erede di entrambi. Di uno dei massimi leader della Dc e di uno dei massimi leader del Pci. Si tratta di decidere il proprio punto di vista. Quello che un po’ mi preoccupa è che lei, che vuole fare il capo della sinistra del Pd, mi sembra molto più vicino a Scelba che a Terracini. Non so spiegarmi perché. Forse perché ormai il modo è girato tutto alla rovescia, i valori si sono invertiti, i pensieri aggrovigliati. O forse invece è per calcolo politico. Perché qualcuno immagina che per essere di sinistra bisogna essere coi giudici contro Berlusconi, e dunque per le galere contro la libertà, e poi per Grillo e tutto il resto, e anche se a Grillo piacciono Le Pen e i golpisti cileni va bene lo stesso…si, si, però voi siete sicuri che questa sia ancora sinistra?

Il garantismo è di sinistra, scrive Piero Sansonetti su “Il Garantista”. Può esistere il garantismo di sinistra? Può esistere, per una ragione storica: è esistito, ha pesato, ha avuto una influenza notevole sulla formazione degli intellettuali di sinistra. Tutto questo è successo molto, molto tempo fa. Soprattutto, naturalmente, quando la sinistra era all’opposizione, o addirittura era “ribelle”, e quando i magistrati – qui in Italia – erano prevalentemente legati ai partiti politici conservatori o reazionari, e in gran parte provenivano dalla tradizione fascista. Allora persino il Pci, che pure aveva delle fortissime componenti staliniste, e quindi anti-libertarie, coltivava il garantismo. Il grande limite del garantismo, in Italia – e il motivo vero per il quale oggi quasi non esiste più alcuna forma vivente di garantismo di sinistra – sta nel fatto che non è mai stato il prodotto di una battaglia di idee – di una convinzione assoluta – ma solo di una battaglia politica (questo, tranne pochissime eccezioni, o forse, addirittura, tranne la unica eccezione del Partito radicale). La distinzione tra garantismo e non garantismo oggi si determina calcolando la distanza tra un certo gruppo politico – o giornalistico, o di pensiero – e la casta dei magistrati. Il “garantismo reale”, diciamo così, non è qualcosa che si riferisce a dei principi e a una visione della società e della comunità, ma è soltanto una posizione politica riferita a un sistema di alleanze che privilegia o combatte il potere della magistratura. Per questo il garantismo non riesce più ad essere un “valore generale” e dunque entra in rotta di collisione con il corpo grosso della sinistra – moderata, radicale, o estremista – che vede nella magistratura un baluardo contro il berlusconismo, e al “culto” di questo baluardo sacrifica ogni cosa. Tranne in casi specialissimi: quando la magistratura, per qualche motivo, diventa nemico. Per esempio nella persecuzione verso il movimento no-tav. Allora, in qualche caso, anche spezzoni di movimenti di sinistra diventano “transitoriamente” garantisti, e contestano il mito della legalità, ma senza mai riuscire a trasformare questa idea in idea generale: quel garantismo resta semplicemente uno strumento di difesa. Di difesa di se stessi, del proprio gruppo delle proprie illegalità, non di difesa di tutta la società. Il garantismo può essere di sinistra, per la semplice ragione che il garantismo è una delle poche categorie ideal-politiche che non ha niente a che fare con le tradizionali distinzioni tra di sinistra e destra. La sinistra e la destra – per dirla un po’ grossolanamente – si dividono sulle grandi questioni sociali e sulla negazione o sull’esaltazione del valore di eguaglianza; il garantismo con questo non c’entra, è solo un sistema di idee che tende a difendere i diritti individuali, a opporsi alla repressione e a distinguere tra “legalità” e “diritto”. Può essere indifferentemente di destra o di sinistra. A destra, tradizionalmente, il garantismo ha sempre sofferto perché entra in conflitto con le idee più reazionarie di Stato- Patria- Gerarchia- Ordine- Obbedienza- Legalità. A sinistra, in linea teorica, dovrebbe avere molto più spazio, con il solo limite della scarsa “passione” della sinistra per i diritti individuali, spesso considerati solo una variabile subordinata dei diritti collettivi. E quindi, spesso, negati in onore di un Diritto Superiore e di massa. Ed è proprio in questa morsa tra destra e sinistra – tra statalismo di destra e di sinistra – che il garantismo rischia di morire. Provocando dei danni enormi, in tutto l’impianto della democrazia e soprattutto nel regime della libertà. Perché il garantismo ha molto a che fare con la modernità. Ormai si stanno delineando due ipotesi diverse di modernità. Una molto cupa, ipercapitalistica. Quella che assegna al mercato e all’efficienza il potere di dominare il futuro. E questa tendenza – che a differenza dalle apparenze non è affatto solo di destra ma attraversa tutti gli schieramenti, compreso quello grillino – passa per una politica ultra-legalitaria, che si realizza moltiplicando a dismisura le leggi, i divieti, le regolazioni, le punizioni, le confische e tutto il resto. L’idea è che moderno significhi “regolato”, “predeterminato” e che per fare questo si debba separare libertà e organizzazione. E anche, naturalmente, libertà e uguaglianza (uguaglianza sociale o uguaglianza di fronte alla legge, o pari opportunità eccetera). E che la libertà sia “successiva” agli altri valori. Poi c’è una seconda idea, del tutto minoritaria, che vorrebbe che il mercato restasse nel mondo dell’economia, e non pretendesse di regolare e comandare sulla comunità; e vorrebbe organizzare la comunità su due soli valori: la libertà piena, in tutti i campi, e il diritto, soprattutto il diritto di ciascuno. Questa idea qui è l’idea garantista. E non ha nessuna possibilità di decollare se non riesce a coinvolgere la sinistra. Rischia di ridursi a un rinsecchito principio liberista, o individualista, che può sopravvivere, ma non può volare, non può prendere in mano le redini del futuro. E’ la sfida essenziale che abbiamo davanti. Chissà se prima o poi qualcuno se ne accorgerà, o se continuerà a prevalere la sciagurata cultura reazionario-di-sinistra dei girotondi.

Pubblichiamo ancora qui di seguito l’intervista che il direttore Piero Sansonetti ha rilasciato a editoria.tv e ripubblicata da “Il Garantista”. “La sinistra non ha un’idea di libertà”. In un editoriale di due anni fa su Gli Altri, Piero Sansonetti sintetizzava così la sua posizione. Hanno scelto il liberismo, diceva, perchè è l’unica via possibile, quando non sai – tu, Stato – governare il mercato, indirizzarlo, farci i conti. Altro che “liberal” americani. Da noi non esistono. Quelli lì, oltreoceano, sono chiamati in questo modo dai conservatori “con lo stesso sdegno con cui Berlusconi dà ogni tanto a qualcuno del comunista”. Qui da noi è un’altra storia. Qui la sinistra è fuori da tutto, non esiste, e quella che si spaccia per tale “è di destra”, come recita il titolo del suo ultimo libro. E allora che si fa? Come s’articola il discorso politico nuovo? Con quali voci, con quali forze? Sansonetti, giornalista d’altri tempi, da una vita ai vertici dei quotidiani “rossi” storici (dall’Unità, a Liberazione, al Riformista, fino a Gli Altri) mette in riga le questioni e porta in edicola una nuova testata. Un foglio di carta di nome Garantista. Uscirà il prossimo 18 giugno 2014 (tra poco scoprirete con che formula) e nasce dalle ceneri di Liberal (a volte il destino…) del forzista Ferdinando Adornato e andrà a giocare la sua partita in questo mare impazzito che è il mercato di oggi, con la pubblicità che è una bestia in estinzione, i lettori (o clienti) che hanno scoperto l’eden del gratuito sul web e i fondi pubblici che sono diminuiti fino quasi scomparire. Il Garantista riparte senz’altro dal contributo pubblico, ma quello – si sa – ormai ti può dar sangue per vivere un po’. E poi?

Direttore, ci vuole coraggio a fondare un giornale di carta in questo caos di oggi. Dove lo ha trovato?

«Nella consapevolezza che esiste uno spazio, sebbene non vasto, dove poter affermare dei ragionamenti diversi. Delle idee.»

E perché crede di potercela fare? In fondo i numeri dicono che il mercato dell’editoria è un disastro.

«Sì, ma la questione è più complessa. Io credo che la crisi dei giornali vada indagata a partire da due ragioni. La prima è senz’altro l’avvento di internet. Il web ha dato una direzione diversa al mercato, della quale si deve prendere atto e sulla quale non si ha potere di intervento. La seconda ragione è che in Italia si è smesso di pensare. Non ci sono idee. Non ci sono novità da decenni. L’ultimo caso “innovativo” è forse Repubblica, ed era il 1976. Poi più niente, a parte il Fatto Quotidiano, forse.»

Perché forse?

«Perché per me non è una grande novità. E’ la diretta conseguenza di una via giustizialista, sulla quale camminano anche gli altri, dal Corriere in giù.»

E il Garantista? In un’intervista rilasciata proprio al sito del giornale di Padellaro e Travaglio, Adornato, l’editore di Liberal, dice che lei ha proprio in mente un anti-Fatto. E’ vero?

«Ma no. Noi siamo molto più di un anti-Fatto, siamo un anti-tutto. Vogliamo affermare un giornalismo che va alla verità. E la parola stessa Garantismo suona come un insulto di questi tempi. Noi però quest’idea la portiamo sul mercato ben sapendo che è minoritaria. Siamo sicuri, tuttavia, che conquisteremo il nostro spazio sapendo che di voci nuove c’è bisogno.»

Ma facciamo un po’ di storia. Quand’è che la sinistra s’accoda ai magistrati? Quand’è che nasce quest’amore?

«Di certo negli anni ’70. Quando si decide di cancellare la lotta armata. Anzi, si può dire di più. C’è una data precisa che è la legge Reale (la legge 152 del 1975, Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico, ndr).»

Poi?

«Il giustizialismo nasce lì e poi l’idea si consolida. Il giustizialismo è la realizzazione di un’alleanza che si salda, ancora di più, con Tangentopoli, quando si decide di cacciare quelli che fino ad allora avevano governato con la clava.»

Ma da dove nasce questa tendenza? Quale origine culturale ha?

«E’ un rigurgito stalinista. E’ da lì che proviene questo metodo. E’ lì che affonda la sua radici.»

Lei, nei suoi pezzi, differenzia i liberal dai liberisti. I primi sono tipica espressione della sinistra americana: pensano che lo Stato debba intervenire sul mercato per garantire le libertà di tutti. I secondi sono di destra, e pensano che il mercato si debba autoregolamentare, e che sia questa la vera libertà. Detto questo: Renzi è un liberal o un liberista?

«Lui bisogna aspettarlo al varco. Non lo so che sarà. Ma di certo l’andazzo è lo stesso. Se così non fosse, Renzi non parlerebbe usando termini come “li cacciamo tutti a calci”. Non le pare? Ho l’impressione che siamo sempre lì: la sinistra non sa scegliere e piega l’idea di libertà al mercato. E’ più facile così.»

A proposito di questioni immanenti. Lei dopo Liberazione è andato a dirigere dei giornali in Calabria. Che idea s’è fatto del Sud?

«Il Mezzogiorno è la parte più povera del Paese. I meridionali non hanno strumenti di potere. E in quell’area non c’è stata alcuna affermazione della cultura dei diritti. Le condizioni attuali sono il risultato di questo.»

E allora? Che si fa?

«Si deve ripartire dallo stato di diritto. Non ci sono altre vie. Il Nord ha portato al Sud le prigioni, le manette, nient’altro. Ma alla modernità s’arriva con un’altra cultura. Quella che noi, soprattutto in quelle aree, cercheremo di proporre. Anche se – ripeto – la nostra è una battaglia minoritaria.»

Che macchina state mettendo in piedi? Che giornale sarà?

«Dei contenuti ho già parlato. Per quanto attiene all’organizzazione, le redazioni saranno distribuite a Reggio Calabria, a Cosenza, a Catanzaro e poi a Roma. Il giornale nazionale avrà 24 pagine. E le redazioni locali 20 pagine, per ognuno dei posti che ho menzionato. Puntiamo molto sulla dimensione locale.»

A Cosenza ci sarà dunque un giornale diverso rispetto a quello di Reggio Calabria.

«Esatto. E sarà un giornale di 44 pagine. Avremo, poi, 16 pagine in più per Napoli e Salerno. Quindi i posti dove avremo una presenza più capillare, all’inizio, saranno la Calabria e la Campania.»

E sul web?

«Sarà online il sito del giornale e sarà possibile scaricare il pdf, abbonarsi e acquistare le copie, come è ormai consuetudine. La nostra sfida, ripeto, si gioca sulle idee non sulle tecniche.»

IL GARANTISMO E' DI SINISTRA, scrive Simonetta Fiori su “La Repubblica”.

«Perché tanta resistenza all'indulto, soprattutto tra gli elettori democratici? Credo si tratti di un meccanismo perverso, che porta a sospettare sempre e comunque della politica. Un pregiudizio che naturalmente può essere spiegato con l'ultimo ventennio della storia italiana. Quello proposto dal presidente della Repubblica è un atto sacrosanto, che andrebbe illustrato nella sua banale umanità».

Settantatré anni, fiorentino, Luigi Ferrajoli è il filosofo del diritto italiano più conosciuto all'estero, forse più famoso nella scena internazionale che nel nostro paese. Ha scritto saggi fondamentali che hanno definito una nozione complessa di garantismo, non solo come sistema di divieti e obblighi a carico della sfera pubblica a garanzia di tutti i diritti fondamentali (dunque sia i diritti di libertà che i diritti sociali), ma anche come sistema di divieti e obblighi a carico dei poteri privati del mercato. Il suo percorso intellettuale è cominciato alla scuola di Norberto Bobbio, di cui è considerato tra gli eredi più autorevoli, ed è proseguito negli anni Sessanta in veste di giudice dentro Magistratura democratica, dove confluivano culture politiche diverse. Ferrajoli s'identifica nel "costituzionalismo garantista" che poi significa «una scelta di campo a sostegno dei soggetti più deboli, come impongono i principi di giustizia sanciti dalla Costituzione». Le sue posizioni - anche nel terreno delicatissimo della riforma della giustizia - sfidano alcuni tabù della sinistra. Difende la separazione delle carriere tra giudice e Pm, ferma restando l'assoluta indipendenza dei pubblici ministeri dal potere politico («La sinistra è caduta in un equivoco, anche perché all'epoca di Craxi la separazione fu proposta con l'intento di assoggettare i pm all'esecutivo»). E questo suo ultimo prezioso libro-intervista con Mauro Barberis, filosofo del diritto altrettanto competente, contiene giudizi originali sulla crisi della politica e della democrazia, di cui il tema della giustizia è parte essenziale. A cominciare dal "populismo penale" in voga nel dibattito pubblico (Dei diritti e delle garanzie, il Mulino).

Professor Ferrajoli, che cos'è il populismo giudiziario?

«È il protagonismo dei pubblici ministeri poi passati alla politica. Sono rimasto colpito dall'esibizionismo e dal settarismo di alcuni magistrati, sia durante i processi che in campagna elettorale. Ho proposto anche una sorta di codice deontologico che richiama ai principi di sobrietà e riservatezza, oltre che al dubbio come costume intellettuale e morale. Temo molto quando il magistrato inquirente è portato a vedere nella conferma in giudizio delle ipotesi accusatorie una condizione della propria credibilità professionale. Cesare Beccaria lo chiamava "il processo offensivo", nel quale il giudice anziché essere un "indifferente ricercatore del vero" diviene "nemico del reo"».

Lei sottolinea il carattere "terribile" del potere giudiziario.

«Sì, carattere "terribile" e "odioso", dicevano Montesquieue Condorcet. È il potere dell'uomo sull'uomo, capace di rovinare la vita delle persone. Purtroppo i titolari di questo potere possono cedere alla tentazione di ostentarlo. Cosa sbagliatissima. Quanto più questo potere diventa rilevante, tanto più si richiede una sua soggezione alla legge e al principio di imparzialità. Un obbligo che è a sua volta fonte di legittimazione del potere giudiziario».

Il populismo penale, le fa notare Barberis, è di fatto l'opposto del garantismo.

«Sì, in realtà l'opposto del garantismo è il dispotismo giudiziario, che è presente in tutte le forme di diritto penale con scarse garanzie, in particolare caratterizzate - come avviene in Italia - da una legalità dissestata».

Cosa intende?

«È il vero problema oggi. Disponiamo di leggi incomprensibili perfino ai giuristi, mentre la chiarezza è l'unica condizione della loro capacità regolativa, sia nei confronti dei cittadini che nei confronti dei giudici. Per prima cosa il Parlamento dovrebbe far bene il proprio mestiere, ossia scrivere le leggi in modo chiaro e univoco. È questo il solo modo per contenere l'arbitrio del potere giudiziario. Un obiettivo che non si raggiunge certo riducendo l'autonomia dei giudici e dei pubblici ministeri a vantaggio del potere esecutivo».

Forse è anche per difendere la propria autonomia minacciata che alcuni magistrati sono arrivati ad eccessi.

«Non c'è alcun dubbio. Derisi e pressati da un potere irresponsabile, alcuni talvolta hanno agito per autodifesa. Anche la martellante campagna diffamatoria promossa dalla destra sull'uso politico della giustizia ha finito per inquinare la stessa cultura giuridica dei magistrati che hanno reagito in modo corporativo all'accusa. Non dimentichiamoci che in tutti questi anni la riforma della giustizia ha ruotato esclusivamente attorno ai problemi personali di Silvio Berlusconi, riducendosi a un assurdo corpus iuris ad personam. E la parola garantismo ha finito per significare la difesa dell'impunità dei potenti».

Un'accusa che viene rivolta alla sinistra, anche da parte non strettamente berlusconiana, è di aver cavalcato quel potere terribile a cui alludeva prima, sostituendo Marx con le manette.

«Mi sembra una ricostruzione ingiusta. La caratterizzazione "giustizialista" - parola che detesto - di una parte della sinistra è stata provocata dallo scandalo dell'anomalia di questo ventennio. Non la giustifico, ma posso spiegarla. Siamo stati governati da una persona che è al centro di una quantità enorme di processi, una parte dei quali forse infondata ma altri fondatissimi. Da qui anche l'enorme aspettativa verso il diritto penale, da cui si pretende che assicuri l'eguaglianza delle persone davanti alla legge».

Non è così?

«Purtroppo da luogo dell'eguaglianza formale il diritto penale è diventato il luogo della massima diseguaglianza. Quella che viene più facilmente colpita è la delinquenza di strada, con la sostanziale impunità dei potenti. Quasi il 90 per cento delle condanne per fatti di corruzione negli ultimi vent'anni è stato inferiore ai due anni, con conseguente sospensione condizionale della pena. Anche l'evasione fiscale di fatto resta impunita».

Forse questo spiega perché l'opinione democratica tema l'indulto. Per una volta che viene applicato il principio dell'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge, si teme che l'indulto possa cancellarlo.

«Sì, ma si tratta di un sospetto tanto velenoso quanto infondato. Naturalmente spetta al Parlamento evitare che a beneficiare dell'indulto siano i reati di corruzione o frode fiscale, reati che non sono mai entrati nella tradizione dell'amnistia. E, per le ragioni che ho ora esposto, a chi si oppone al provvedimento bisognerebbe ricordare che la criminalità dei colletti bianchi è di fatto assente dalle carceri. Le celle sono piene di povera gente, tossicodipendenti e immigrati clandestini. Sarebbero loro a trarne vantaggio».

Anche per snellire la macchina giudiziaria, lei ha proposto la soppressione di alcuni reati come l'immigrazione clandestina. Pochi giorni fa è cominciato in Senato l'iter per la sua abolizione.

«I nostri tribunali sono paralizzati da un marasma di figure di reato che si potrebbero cancellare. Quello di immigrazione clandestina è poi un'assoluta vergogna. Teorizzato nel 1539 da Francisco de Vitoria, per giustificare conquista e colonizzazione del nuovo mondo, lo ius migrandi è rimasto per secoli, fino alla Dichiarazione universale del 1948, un principio fondamentale del diritto internazionale. Oggi che il processo s'è invertito - sono le popolazioni povere da noi depredate a venire nei nostri paesi - il diritto s'è capovolto in reato. Il risultato è una terribile catastrofe umanitaria. Potrei definirle "le leggi razziali" di questi anni».

Dr Antonio Giangrande

Estratto dell’articolo di Giovanni Sallusti per “Libero quotidiano” domenica 6 agosto 2023. 

Venerdì mattina ci siamo svegliati con lo sfogone di un garantista a ventiquattro carati, una versione millennial di Cesare Beccaria, un emulo di Tortora, persecuzione compresa. Il piatto forte l’ha servito L’Unità sotto forma di una lenzuolata interminabile, due paginate che non costituivano esattamente un invito alla lettura. Quel che conta, del resto, era il format: nientemeno che un appello al presidente della Repubblica. E la firma: Michele Santoro.

Proprio così, Michele Santoro. Colui che ha costruito la propria carriera sul giustizialismo televisivo e fin sacerdotale, colui che ha menato le danze del circo mediatico-giudiziario come nessun altro, colui che ha avallato in diretta qualunque patacca accusatoria contro l’avversario politico (do you remember Massimo Ciancimino eretto a star catodica?), improvvisamente si accorge di una serie di quisquilie della civiltà del diritto italica. 

I magistrati, a volte, diffondono atti coperti da segreto. I magistrati, a volte, imbastiscono campagne che attengono più all’organo politico che a quello giudiziario […] Perfino, udite udite, i magistrati a volte s’innamorano dei propri teoremi. 

[…] Strabiliante. Santoro demolisce il santorismo, in pratica, creatura ibrida giornalistico-partitica che in questo Paese ha spesso fatto le veci della sinistra ufficiale. E a cosa è dovuta, cotanta presa di coscienza lievissimamente fuori tempo massimo? Ma al fatto che a Michelone è toccato di subire le storture del “sistema” in toga sulla propria pellaccia, è ovvio.

Come successo di recente a Piercamillo Davigo, che ha scoperto il garantismo a settant’anni in quanto oggetto di una condanna per rivelazione di segreto d’ufficio, gli idoli giustizialisti cadono solo quando sono colpiti dalla loro stessa furia. 

Nella fattispecie, Santoro si lamenta con il senso della misura che gli è proprio, quindi scrivendo a Mattarella, delle indagini che la procura di Caltanissetta ha condotto sul pentito di mafia Maurizio Avola, fonte principale del libro Nient’altro che la verità, che il giornalista ha scritto con Guido Ruotolo. I due, Santoro e Ruotolo, hanno finito quindi per essere concretamente coinvolti in quanto “raccoglitori” delle confidenze di Avola, secondo i pm finalizzate a innescare un depistaggio sull’attentato a Paolo Borsellino.

[…]  «Prima ancora che Nient’altro che la verità venisse distribuito nelle librerie», stigmatizza Santoro nella lettera-appello «la stessa Procura, a indagini ancora aperte, in maniera del tutto irrituale e certamente non conforme ai principi codificati, aveva emesso un comunicato che si spingeva a ipotizzare un depistaggio a cui il collaboratore di giustizia aveva partecipato con la complicità dei giornalisti». 

Mentre, è storia patria, i magistrati a cui Santoro ha offerto negli anni pulpiti in serie per distribuire, ad esempio, patenti di mafiosità a Silvio Berlusconi, da Antonino Ingroia a Luigi De Magistris, agivano sempre sobriamente e in maniera “conforme ai principi codificati”.

Continua il nostro: «Negli atti d’indagine, finalmente a mia disposizione, sono venuto a conoscenza di attività investigative estremamente invasive, quali l’uso del trojan nei miei confronti». Povero Michele, i cattivoni delle procure gli hanno messo il trojan. Quando però si trasformavano in guardoni compulsivi, radiografando quel che accadeva durante libere cene tra liberi adulti consenzienti in quel di Arcore, […] lui ci montava sopra trasmissioni intere. In ogni caso, nella sua vicenda «si ricava la sensazione che tutto sia stato generato per confermare un teorema». Notevole, l’inventore del teorema come manganello tivù […] che disconosce l’invenzione. […] Uno scandalo a cui deve porre rimedio il Colle più alto. Michele, va bene tutto, benvenuto nel club, ma non eccedere, non prenderci sempre e comunque per fessi.

Gli ideali e le intenzioni. Il Pci era garantista, come si è diffuso il culto delle procure. Il suo ultimo atto in materia di giustizia fu l’adesione al referendum sulla responsabilità civile dei magistrati nel 1987. Giuliano Cazzola su L'Unità il 30 Giugno 2023 

L’eutanasia del Pci cominciò il 12 novembre del 1989 nella storica sezione della Bolognina in Piazza dell’Unità, a Bologna, la capitale del comunismo d’Occidente. Il Muro di Berlino non era ancora crollato del tutto dopo la notte del 9 novembre (il 7 novembre si era celebrato l’anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, ricorrenza abolita da Putin). Achille Occhetto fu veloce a compiere la “svolta’’, ancor prima che il gallo cantasse tre volte.

L’agonia (che fu ripresa da servizi televisivi, film e documentari come se riguardasse tutti gli italiani) si protrasse fino all’ultimo congresso del PCI che si aprì il 31 gennaio 1991 a Rimini. E si concluse con la vittoria della mozione di Achille Occhetto, accompagnata dalle sue calde lacrime. Il 3 febbraio nacque il Partito Democratico della Sinistra, avente come simbolo una quercia e, notevolmente ridotto, il vecchio simbolo del PCI della falce e martello posto simbolicamente alla base del tronco dell’albero, vicino alle radici. La scelta naturale sarebbe stata quella di rientrare nel filone europeo del socialismo democratico che – pur con tutte le Bad Godesberg attraversate – manteneva un solido pensiero politico, uno spessore culturale ed una visione di società.

Del resto il PCI nelle zone in cui governava (come l’Emilia Romagna) era un grande partito socialdemocratico. I grandi sindaci comunisti – tranne che a Milano – erano i veri successori dei sindaci socialisti degli anni ’20, buoni amministratori, pragmatici, in linea con la dottrina di Olaf Palme per il quale il capitalismo era una pecora da mantenere in buona salute per tosarne la lana. Si prenda il caso del più grande sindaco che Roma ha avuto nel dopoguerra, quel Luigi Petroselli, funzionario di partito, che in pochi anni costruì dei quartieri popolari laddove sorgevano delle baracche – vere e proprie favelas – senza acqua corrente, servizi e fognature.

Fu il ripudio delle radici storiche a incamminare gli eredi del PCI – fino a coronare il sogno dell’amore impossibile con la sinistra democristiana – in un deserto in cui non vi erano non solo ideologie, ma dove persino gli ideali si riducevano a buone intenzioni, a fioretti, a letterine di Natale per quanto riguarda i problemi dello Stato, le politiche economiche e sociali, mentre veniva in primo piano una subcultura “radicale’’ dei diritti civili, estranea alle priorità del movimento operaio. Ci fu un tempo – per fortuna superato da mezzo secolo – in cui i dirigenti del PCI definivano il divorzio “un lusso borghese”. Ma è singolare che oggi nessuno del PD si chieda se la maternità surrogata fa perdere voti o acquisire consensi. Ma questo è tutto un altro discorso rispetto alle questioni che intendo affrontare.

Può sembrare strano, ma il Pci era persino garantista. Forse perché non aveva contratto alcun debito con le procure come avvenne da Tangentopoli in poi. Il culto delle procure si diffuse a tal punto nella sequela PDS, DS e PD da effettuare addirittura dei sacrifici umani, di abbandonare al loro destino fior di militanti incappati nella rete delle procure. Si pensi ad un dirigente come Antonio Bassolino, processato e assolto per 19 volte, o a Filippo Luigi Penati, stretto collaboratore del segretario in carica e a tanti altri che dopo essere stati assolti hanno lamentato l’ostracismo e l’assenza del partito.

La situazione attuale rasenta in paradosso. Sull’abolizione del reato di abuso d’ufficio Elly Schlein vorrebbe rinchiudere il partito nel “ridotto della Valtellina” della ANM, in compagnia dei partiti, dei quotidiani e dei talk show manettari, anche a costo di non raccogliere “il grido di dolore” dei suoi sindaci. Sarebbe il caso che il gruppo dirigente antipartito del PD riflettesse su due questioni. Parlando nei giorni scorsi ai magistrati in tirocinio il presidente Mattarella li ha invitati a rifuggire “da ricostruzioni normative arbitrarie, dettate da impropri desideri di originalità o, peggio, di individualismo giudiziario”.

Io credo– posso sbagliarmi – che in questo riferimento sia compreso quell’abuso giuridico, estrapolato dalla giurisprudenza, che viene definito “concorso esterno in associazione mafiosa’’. Ma anche l’abuso d’ufficio, pure essendo un reato tipizzato nella legge, è una specie di passepartout che consente molte malversazioni (lo dimostrano le implacabili statistiche sulle archiviazioni). L’altra questione ha un rilevo storico. L’ultimo atto del Pci in materia di giustizia fu l’adesione al referendum (promosso da radicali e socialisti) sulla responsabilità civile dei magistrati svoltosi l’8 e 9 novembre 1987.

Il SI prevalse con più dell’80% dei voti validi (la partecipazione fu del 65%). Certo, ci fu il traino dello sciagurato referendum contro il nucleare, ma la scelta dell’elettorato fu netta. Successivamente, il Pci votò anche a favore della legge Vassalli che dava attuazione, sul piano normativo, agli esiti della consultazione. Responsabile per la segreteria (di Berlinguer prima; di Natta, poi) sui temi dello Stato era Aldo Tortorella, già partigiano combattente ed esponente della sinistra del partito.

Allora, peraltro, l’ordine giudiziario esponeva – giustamente – le stimmate del martirio, nella lotta contro il terrorismo e la mafia. Si ritenne tuttavia che non si violasse nessun principio se – nei casi previsti – i magistrati fossero chiamati a rispondere anche personalmente. Si disse allora che la legge Vassalli fosse troppo cauta. In effetti non impedì le degenerazioni che hanno annichilito la giustizia in tutti questi anni.

Giuliano Cazzola 30 Giugno 2023

Fine di un’era: Repubblica scopre le virtù del garantismo. Le riflessioni di Monda, che mette a confronto il conflitto tra potere politico e ordine giudiziario in Italia e negli Stati Uniti, sono un piccolo e prezioso manifesto su cosa significhi essere garantisti oggi. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 4 luglio 2023

Che Repubblica offra spazio di tribuna dello scrittore Antonio Monda con un articolo dall’inequivocabile titolo Ma io sto con Nordio e che lo faccia proprio nel giorno in cui il sindacato dei giornalisti chiama a manifestare contro «il bavaglio» delle norme anti-intercettazioni, è una sorprendente e piacevole mirabilia. Ma forse anche il segno che la grande muraglia del giustizialismo, o del “colpevolismo” in senso lato, sta iniziando a sgretolarsi. E che quella “rivoluzione” avviata trent’anni fa dalla procura di Milano con l’inchiesta di Mani Pulite, sospinta dalla furia manettara dei giornali, dall’impeto del processo mediatico permanente, comincia anche lei a perdere la cosiddetta spinta propulsiva.

Anche perché le riflessioni di Monda, che mette a confronto il conflitto tra potere politico e ordine giudiziario in Italia e negli Stati Uniti, sono un piccolo e prezioso manifesto su cosa significhi essere garantisti oggi. Mettendo subito a fuoco i mostri creati dal basso commercio che avviene da anni tra redazioni e procure, Monda si chiede: «Quante volte abbiamo conversazioni che non avevano nulla a che fare con le indagini in corso e hanno umiliato, a volte distrutto la dignità delle persone? Non vi sembra aberrante la possibilità di intercettare le conversazioni tra l’imputato e il proprio avvocato?». Se un’intercettazione non contiene alcuna notizia criminis non deve finire sui deschi dei caporedattori, ma andare direttamente al macero. E la libertà di stampa, il diritto a sapere, a essere informati garantito dalla Costituzione?

Qui lo scrittore tocca uno degli aspetti centrali, quasi filosofici, del diritto liberale, ricordando la centralità dell’habeas corpus: «Anche il più utile e informativo degli articoli non vale il rischio di ledere la dignità di un essere umano», paragonando poi «l’enfasi con cui si viene buttati in pasto ai lettori» con il risalto ridicolo dato agli articoli di «riabilitazione» quando gli accusati alla fine vengono assolti. «Ci sarà chi si avvantaggerà dalle riforme. Garantismo non deve significare impunità, ma la dignità di un cittadino è un valore superiore a ogni rischio». Le parole di Monda sono una boccata di aria fresca e il fatto che siano apparse nella cornice di Repubblica, un quotidiano che, un po’ per convinzione, un po’ per vocazione pop, da Tangentopoli in poi ha sempre cavalcato l’onda giustizialista conferisce ancora più valore al suo bell’intervento.

Il corteo a Milano e gli irriducibili del giustizialismo. Manifestazione dell’antimafia per la verità, ma i processi hanno già detto tutto…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 23 Marzo 2023

Vogliamo la verità sui delitti di mafia. Il grido sale dal corteo che attraversa il centro di Milano per poi concentrarsi in piazza Duomo, dove la voce dei parenti delle vittime di Cosa Nostra cede la voce, e il palco, ai politici di sinistra invitati da Libera, il cartello di associazioni fondato da don Ciotti. Erano tredici anni che non veniva celebrata questa giornata rievocativa. E sono datate a dieci e anche venti anni fa le grandi inchieste sulla criminalità organizzata al Nord condotte dall’ex responsabile della Dda milanese Ilda Boccassini. Inchieste come “Infinito” o “I fiori di San Vito” con le loro alterne risultanze processuali e la costante, purtroppo inutile, denuncia degli avvocati del fatto che nei processi su reati di mafia regolarmente saltano le regole dello Stato di diritto, quelle che in genere governano i dibattimenti “normali”. Più che politica del doppio binario, veri binari morti, per le garanzie degli imputati. Ma siamo a Milano, e si sa quale sia stato, fino a poco tempo fa, il rito ambrosiano, non solo nelle indagini su Tangentopoli.

L’anno 2023 segna per il capoluogo lombardo l’anniversario di una data tragica, quella della bomba di via Palestro, il 27 luglio del 1993. Non è chiaro se l’associazione Libera e il suo promotore don Ciotti abbiano scelto questa ricorrenza piuttosto che il 1992 con le uccisioni di Falcone e Borsellino, per scendere in piazza. Ma la connotazione tutta politica, con la presenza, non solo quella doverosa del sindaco Beppe Sala, ma in particolare anche quella di Elly Schlein, presente a Milano due volte di fila in pochi giorni, e gli interventi contro il governo, lasciano intravedere qualcosa di diverso. Lo ha ben intuito Silvio Berlusconi che, con la sua proverbiale marcia in più, si è affrettato a prendere posizione, con un’uscita sincera, ma anche opportuna, e forse preoccupata per una certa piega che stano prendendo certe indagini che corrono da Firenze a Reggio Calabria. Così, con le parole che sono patrimonio di tutti, il “pensiero commosso” per le vittime e i loro familiari e “l’omaggio a due figure emblematiche” come Falcone e Borsellino, compare anche il riconoscimento alle forze dell’ordine e alla magistratura “che ogni giorno rischiano la vita per la legalità e la sicurezza di tutti”.

È vero che nel commemorare le due più famose vittime delle bombe mafiose l’ex presidente del Consiglio ha tenuto a distinguere il loro “profondo rispetto delle garanzie e dello stato di diritto”, ma il riconoscimento alla magistratura come corpo in sé, rimane. E va a cadere, non casualmente, sulla manifestazione indetta da Libera, “cartello di associazioni contro le mafie” nato su iniziativa di don Ciotti nel 1994. Non nel 1992 con le sue stragi di Capaci e via D’Amelio, e non nel 1993 con le bombe di Milano Firenze e Roma, ma a pochi mesi dall’insediamento del primo governo Berlusconi. Nasce e diventa da subito un potente partito politico. Il successore naturale della “Rete” di Leoluca Orlando, padre Pintacuda e Nando Dalla Chiesa, con il sostegno forte di un pm di Mani Pulite come Gherardo Colombo. Nemici di Leonardo Sciascia e delle garanzie, cui preferivano il loro credo: “Il sospetto è l’anticamera della verità”.

Il gruppo di Libera si è impadronito del prezioso timbro di ceralacca dell’antimafia nella sua veste più ideologica e furibonda, “contro la mafia e la corruzione”, anticipando di molti anni le degenerazioni giuridiche del Movimento cinque stelle e della legge “spazzacorrotti” voluta dal ministro Bonafede. A questa base teorica di chi guarda la realtà in chiave moralistica per dividere il mondo in buoni e cattivi e poi processando questi ultimi in tribunali speciali, Libera ha accompagnato anche un aspetto economico. Favorendo la dissennata politica delle confische fondate sul sospetto più che sulle responsabilità penali, ha cominciato da subito a rivendicare per sé la primogenitura e il “bollino blu” per le assegnazioni ai propri aderenti degli immobili confiscati. Nel nome dell’antimafia, naturalmente, non dell’interesse commerciale. Abbiamo già raccontato quell’esempio di Buccinasco e del sindaco lapidato perché si era permesso di offrire gli spazi confiscati a diverse associazioni e non a una sola. Mancava poco che qualcuno desse del mafioso a quel sindaco, perché aveva preferito un atteggiamento pluralistico nei confronti di tanti piuttosto che far aprire la pizzeria “antimafia”.

E la storia pare ripetersi, dopo gli attacchi di Nando Dalla Chiesa e Giancarlo Caselli al libro L’Inganno di Alessandro Barbano, che ha stracciato il velo dell’omertà di chi viola costantemente le regole nel nome di un bene superiore e della lotta a una mafia che viene dipinta sempre come eterna e invincibile. E intanto tutti i magistrati “in lotta” (obbrobrio in uno Stato di diritto) contro il crimine organizzato, dal procuratore calabrese Nicola Gratteri alla responsabile della Dda milanese Alessandra Dolci, si affannano a spiegare che non importa se la mafia non spara più, ma che si è trasformata in comitati d’affari. “Operatore economico e agenzia di servizi”, la definisce la dottoressa Dolci. Senza mai spiegare, né lei né i suoi colleghi, perché ancora esista nel codice penale quell’articolo 416 bis che pone l’assoggettamento e il con-trollo del territorio come requisiti fondamentali perché un certo comportamento possa rivelare l’esistenza di un’associazione criminale di tipo mafioso. Ma il retroscena delle manifestazioni “antimafia” sono le inchieste giudiziarie sul passato, sugli anni Novanta.

Che cosa significa, al di là dei sentimenti dei parenti delle vittime, cui va sempre rispetto, quel grido “vogliamo la verità”? Se intendiamo parlare di verità storica, ma anche di verità processuale, dobbiamo dire che sulla mafia di Cosa Nostra, ma anche sulla ‘ndrangheta e sulla camorra, si sa ormai tutto. Giovanni Falcone non credeva nel “terzo livello”, e ha avuto ragione. I processi, da quello contro Giulio Andreotti in avanti, hanno dimostrato i limiti politici e culturali proprio di movimenti come la Rete e Libera. E la natura vera di inchieste come quella che ha portato al processo “’ndrangheta stragista” di Reggio Calabria e le forsennate ( e già fallite nelle tre versioni precedenti) indagini fiorentine su Berlusconi e Dell’Utri come mandanti di stragi. In questo modo non si cercano né verità né giustizia, ma capri espiatori al fine di prolungare all’infinito il ruolo dell’ ”antimafia”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Garantista con se stesso, giustizialista con il centrodestra: la metamorfosi di Cozzolino. Cozzolino ha sempre cavalcato le inchieste giudiziarie contro gli avversari politici. Domenico Ferrara il 12 Febbraio 2023 su Il Giornale.

«A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura», diceva Pietro Nenni. Ma se il puro e l'epurato sono la stessa persona la situazione diventa ancora più paradossale. È il caso di Andrea Cozzolino, arrestato su mandato della procura belga nell'ambito della cosiddetta inchiesta Qatargate e da ieri agli arresti domiciliari dopo aver passato una notte al carcere di Poggioreale. All'europarlamentare vengono contestati i reati di organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio per regali e denaro ricevuto per favorire il Marocco nella sua attività politica. Lui si professa innocente e sostiene di confidare nell'operato della magistratura. Eppure, non è sempre stato così garantista. Infatti, c'era un tempo non troppo lontano in cui Cozzolino vestiva quasi i panni del giustizialista e si ergeva a simbolo della legalità. Naturalmente nei confronti degli avversari politici. Per carità, ancora le accuse contro di lui sono tutte da dimostrare e l'udienza sulla richiesta di estradizione si terrà il prossimo 14 febbraio, però colpisce il doppiopesismo con cui Cozzolino nel 2017 affrontava lo scandalo che coinvolse l'allora sindaco di Torre del Greco (Napoli), Ciro Borriello, sostenuto da una maggioranza di centrodestra. Fin dal giorno seguente al suo arresto per l'accusa di corruzione e truffa, Cozzolino iniziò subito a scagliarsi contro l'avversario politico. Era l'8 agosto 2017 e Cozzolino tuonava: «L'arresto del sindaco di Torre del Greco è un episodio gravissimo. Al di là delle presunte responsabilità dei singoli, questa vicenda deve spingerci ad aprire una profonda riflessione rispetto al tema della corruzione. Un cancro che si annida nel sottobosco delle istituzioni e che mina dalle fondamenta la credibilità della politica». Alla faccia del garantismo, della presunzione di innocenza e della fiducia nell'operato della magistratura. Fa un certo effetto rileggere queste dichiarazioni roboanti e così nette. Dichiarazioni che Cozzolino dovrebbe allora rivolgere a se stesso, seguendo quantomeno una coerenza di pensiero. Troppo facile essere indulgenti con se stessi e inflessibili giustizialisti con gli altri.

Dopo aver lodato le dimissioni in blocco dei consiglieri, Cozzolino si rivolgeva poi al Partito Democratico e alle forze migliori della società civile torrese che «hanno ora il dovere politico-morale di costruire una credibile proposta alternativa al malaffare e alla malapolitica. L'augurio è che dopo una stagione di bonifica commissariale si possa tornare al voto cancellando così una delle pagine più tristi e buie della storia di una città gloriosa e importante, anche a livello europeo, come Torre del Greco».

Come se non bastasse, due giorni dopo, Cozzolino rincarava la dose, chiedendo ufficialmente al ministero dell'Interno «di accelerare le procedure relative alla nomina del commissario prefettizio chiamato a guidare la città di Torre del Greco» per uscire presto da questo «vortice del malaffare che ha caratterizzato, secondo gli inquirenti, una delle stagioni più nere della storia politica campana».

Insomma, la cautela non era proprio all'ordine del giorno. Fino a quando di mezzo non c'è stato lui. Come sta succedendo adesso in uno dei principali scandali che ha colpito la sinistra e in cui regna la corruzione, la stessa che Cozzolino definiva «un cancro che si annida nel sottobosco delle istituzioni».

Giustizia, il metodo golpista della sinistra contro la svolta. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 25 gennaio 2023

È tecnicamente golpista il modo prescelto dalla sinistra per contrastare gli intendimenti di riforma della giustizia riaffermati l’altro giorno nel discorso parlamentare del Guardasigilli. Buoni o cattivi, infatti, quei propositi di cambiamento non dovrebbero essere abbandonati al tirassegno della magistratura: il quale, prima e oltre che colpire questa o quella specifica azione riformatrice, interferisce con l’esercizio dei poteri costituzionali delle assemblee legislative e del governo. Non il potere delle assemblee legislative a maggioranza di centrodestra: ma quel potere, e cioè il potere rappresentativo, punto e basta.

 Non il potere del governo formato sull’esito delle ultime elezioni politiche: ma il potere di governo in quanto tale. E sono beni e prerogative cui dovrebbe tenere anche, forse soprattutto, l’opposizione: la quale invece non solo non vede nulla di male nella reazione giudiziaria, ma pure se ne compiace facendo mostra di credere che il veto minaccioso e inibitorio elevato dai ranghi togati sia segno di vitalità democratica.

È semmai l’opposto: è la illegittima costituzione della magistratura militante in una specie di contro-governo, con la pretesa menzognera e antidemocratica per cui l’interesse di quella corporazione coinciderebbe con l’interesse generale. E con il corollario che qualunque riforma sgradita a quel potere illegittimo sarebbe per ciò solo contraria alle ragioni della collettività. Se fosse una sinistra costituzionale, anziché questo rancoroso e pericoloso assemblaggio di istanze impazzite per la perdita del potere, l’opposizione difenderebbe il diritto della maggioranza e del governo di mettere mano alla giustizia bene o male, questo è un altro discorso - senza la prepotente sorveglianza della cupola giudiziaria.

"Nel Pd poco coraggio e troppa subalternità a certa magistratura". L'ex sindaco dem condannato e assolto. "Qualcuno è rimasto fermo al passato". Nicolò Rubeis il 23 Gennaio 2023 su Il Giornale.

«Il tema di una giustizia giusta dovrebbe unire. Nel Pd c'è un dibattito articolato: tanti dirigenti hanno una sufficiente padronanza della materia, ma ci vorrebbe maggior coraggio da parte loro». Simone Uggetti, ex sindaco dem di Lodi, nel 2016 fu arrestato e condannato a 10 mesi di reclusione con l'accusa di turbativa d'asta. Nonostante l'assoluzione in secondo grado nel 2021 la sua battaglia con la giustizia non è ancora finita. La Cassazione ha annullato la sentenza e Uggetti dovrà presentarsi di nuovo in Aula. «E andrò avanti. Ma tutto questo prescinde da me». Per questo «sono molto importanti» le prese di posizione del ministro Nordio. «Il vero banco di prova sarà la tenuta della sua maggioranza».

Uggetti, nel Pd non tutti la pensano come lei.

«Ci sono due macro argomenti. Intanto non tutti hanno superato culturalmente i fatti del 1992. Non solo quelli di scuola comunista, e questo riguarda anche Enrico Letta che non ha quella provenienza. C'è ancora subalternità rispetto a un certo modo di fare magistratura».

E l'altro?

«C'è la paura di non marcare le distanze dai 5 Stelle. Per qualcuno allearsi con loro è come un percorso obbligato per ricreare un campo di centrosinistra. Ma un partito come il nostro deve dimostrare di avere una propria cultura e autonomia anche sulle posizioni più difficili. E sono sicuro che questo non sia un tema che riguardi solo il Pd».

Si rischia di lasciare il garantismo al Terzo polo?

«Il problema è che il loro vero ispiratore è Matteo Renzi, che quando era premier ha fatto dimettere la ministra Federica Guidi che non risultava neppure indagata. È facile fare i formidabili quando non si è al potere ed è più difficile resistere agli attacchi politici e giudiziari quando si è al governo. Renzi ha avuto una vicenda personale robusta ma se avesse tenuto il punto sulla questione Tempa Rossa non so dire come staremmo oggi. Ha perso un'occasione, era all'apice del potere».

E ora la sta perdendo anche il Pd?

«C'è una fase di transizione e questi non sono temi che si definiscono in un giorno. C'è spazio, però, per un confronto tra sensibilità differenti. Mi auguro, a prescindere dal segretario che spero sarà Stefano Bonaccini, che ci sia la costruzione di una cultura garantista che non abbia il retropensiero dell'impunità».

Il 1992 come lo spartiacque per la sinistra?

«Diciamo che la sinistra ha una responsabilità politica duplice: nei confronti di Bettino Craxi, che ebbe un coraggio incredibile con quel famoso discorso in Parlamento. Con lui i magistrati non cercavano i reati ma la persona. Ma anche nei confronti di Silvio Berlusconi, che non è e non passerà alla storia come un santo, ma ha avuto decine di inchieste subito dopo il suo ingresso in politica. E non è normale. Ma c'è un'altra cosa da sottolineare».

Quale?

«Noto uno strumentale riposizionamento di Matteo Salvini che l'anno scorso ha promosso dei referendum sulla giustizia. La concomitanza con l'arresto di Messina Denaro l'ha portato a posizioni più caute che non si ricordavano così frequentemente nelle sue parole. E pure dentro Fratelli d'Italia ci sono sensibilità diverse, anche se Giorgia Meloni sta tenendo il punto difendendo Nordio».

Come commenta il dibattito sulle intercettazioni?

«Al di là di quello che si può pensare sulla persona, può essere utile la lettura del libro di Palamara. Identifica chiaramente come la triangolazione tra un partito, un magistrato e un giornale possa distruggere la vita di una persona. E le intercettazioni sono uno strumento formidabile che viene utilizzato da questa triade. Il tema non è come va il giudizio, ma la condanna preventiva a mezzo stampa che riporta spesso dichiarazioni parziali e decontestualizzate».

Quindi Nordio promosso fin qui?

«In pagella gli do un otto alle intenzioni, ma è ancora senza voto sugli esiti».

Il diritto del sospetto. La balla della decadenza morale dell’Occidente: così i pm chiedono più giustizialismo. Alberto Cisterna su Il Riformista il 5 Gennaio 2023

«Il decadimento etico e morale della società civile, soprattutto di quella del mondo occidentale, è palese e riguarda tutte le categorie». A recitare il de profundis della nostra società, anzi dell’intera società occidentale, non è stato né Putin né qualche ayatollah iraniano né qualche patriarca ortodosso filorusso. Vedremo alla fine a chi appartenga la frase, ma un nome e un cognome in fondo non hanno alcuna importanza.

La crisi dei valori in Occidente non è cosa che si scopra oggi ed evocare scenari così cupi dopo la presunta corruzione nell’Europarlamento non sembra il modo più appropriato né proporzionato per affrontare un tema cruciale nel funzionamento della democrazia. Il fatto che un’istituzione così importante sia macchiata dal sospetto di tangenti è grave, ma insomma non si può pensare che sia qualche malandrino a rappresentare la metrica dell’etica occidentale e della sua asserita decomposizione. Volumi e studi hanno scandagliato da qualche decennio il tema in ogni direzione, ma in verità solo alcuni filoni dell’estremismo religioso e politico ritengono che sia in corso una sorta di irrefrenabile decadenza morale all’interno delle democrazie. E’ vero che le società che popolano il variegato mondo dell’Ovest si stanno profondamente evolvendo; che antichi schemi di rappresentazione della realtà si stanno modificando; che plessi valoriali una volta ritenuti indistruttibili si stanno disgregando sotto il peso di nuovi costumi, di nuove visioni antropologiche, di culture improntate alla tolleranza più che all’identità.

Ma che l’Occidente cambi non vuol dire che sia sull’orlo del precipizio morale, che nuove Sodoma e Gomorra attendano di essere rase al suolo da immacolati catari rimasti a presidio dei costumi di società contagiate dal vizio. Dispiace che queste parole le abbia pronunciate – proprio in esordio alla classica intervista di fine anno sui problemi della giustizia in Italia – un magistrato tra quelli più in vista della Repubblica e sia pure in un contesto per molti altri versi meritevole di attenzione. Il nome del magistrato non importa. Se si trattasse di un nome, la questione sarebbe addirittura irrilevante: il punto è che quella frase condensa ed esplicita una convinzione profondamente diffusa in settori tutt’altro che marginali di una certa magistratura e di segmenti influenti della società italiana che la sostiene e fiancheggia.

Si denuncia il decadimento etico e morale di una società che, se ben si comprende, soffrirebbe di endemiche corruzioni e irreparabili cedimenti sul versante dei costumi individuali e collettivi. E rispetto a questa sconfinata distesa di macerie appare inevitabile che si debba mettere mano alla spada e menar fendenti a destra e manca per tentare di arginare le orde di infedeli che minacciano l’etica e la morale pubblica. E’ il punto d’attrito, forse il vero punto di irrecuperabile frizione, che corre tra una visione laica, mite, moderna, proporzionata della funzione giudiziaria, e un modo cupo, rancoroso, misantropo di concepire gli uomini, le loro debolezze, le fragilità dell’esistenza che guida talvolta le opzioni investigative e securitarie di un ceto sacerdotale che si sente assediato dal male.

Due le questioni in campo. E’ legittimo avere qualunque opinione sull’etica collettiva e sulla morale individuale; si può anche assecondare la tempesta ideologica che da ogni parte sta aggredendo le fondamenta della cultura occidentale e delle sue democrazie. Per certo non è lecito valutare le vicende giudiziarie, anche le più gravi, sotto il prisma di una visione eticizzante e moraleggiante che cerchi nel reo l’infedele e nel reato il tradimento. La corruzione sta letteralmente divorando l’Africa, il Sud-centro America, buona parte dell’Asia, Cina inclusa, gli oligarchi russi hanno accumulato ricchezze enormi; corruzione e democrazia non stanno a braccetto, né sono l’una il frutto avvelenato dell’altra. Basterebbe, d’altronde, aver fatto studi quanto meno regolari per ricordarsi di quanto funesta fosse la corruzione nei tempi più antichi, persino nell’età d’oro della Roma caput mundi (come ricordava Luciano Perelli, La corruzione politica nell’antica Roma. Tangenti malversazioni malcostume illeciti raccomandazioni, Milano, Rizzoli, 1994).

Il secondo punto è tentare di stabilire quanto questa visione retriva, eticizzante, segregazionista della società che si vuole scomporre a fil di spada in buoni e cattivi, abbia inciso e incida sui protocolli di interpretazione della realtà, di punizione delle condotte, di ricostruzione dei reati; soprattutto di quelli a maglie larghe e ad alto tasso di elasticità e indeterminatezza. Affiora il sospetto che il precipitato processuale di questa impostazione siano inferenze, deduzioni, supposizioni, indizi che si incistano nelle sentenze, nelle ordinanze, nei decreti di prevenzione, nelle interdittive antimafia invocando la dignità di prove sol perché fondate su una interpretazione della società, dei suoi mali, delle sue devianze che non tollera obiezioni, né dubbi.

Il mondo occidentale sta cambiando rapidamente in ogni suo volto sinora noto; se il cambiamento è un decadimento non è questione che qualcuno può arrogarsi di fissare come precondizione della propria azione di purificazione pubblica. Almeno che non si sottoponga al voto degli elettori e ne consegua il consenso, come pure accade talvolta per alcuni politici. Certo è un linguaggio che incoraggia l’idea di un pubblico ministero inserito nella compagine del governo (come accade in altri civilissimi paesi) perché da quella posizione chiara ed evidente l’accusa risponda di ogni propria scelta che sia ideologicamente, moralmente o eticamente guidata.

Alberto Cisterna

L'Iran del terrore è figlio del pensiero teocratico nato in Occidente. Otello Lupacchini su Il Tempo il 14 gennaio 2023

Non v'è dubbio che in Iran sia in atto una vera e propria rivolta: da settembre, il popolo lotta contro un regime oscurantista e sanguinario. Uccisi nelle strade, morti nelle mani della polizia ed esecuzioni capitali, sono inequivocabile indice della durezza del braccio di ferro tra regime e piazza: tutto quel che è diverso dall'omologazione imposta e, dunque, rappresenta e insegue il sogno della libertà, è represso e sterminato dal regime. Simbolo del crollo di consenso popolare nei confronti della teocrazia islamica iraniana, le donne scendono in piazza, si strappano platealmente il velo e lo sventolano al mondo intero, si tagliano pubblicamente ciocche di capelli; e muoiono: in strada sotto i colpi degli sgherri degli ayatollah, nei posti di polizia per le torture loro inflitte, per mano del boia, in un Paese in cui la forca miete vite come in nessun altro luogo al mondo: vite di donne, vite di ragazzi minorenni, vite di persone la cui unica colpa è di essere o sentirsi diversi dal modello imposto da una visione distorta della fede e delle sue regole.

È senz'altro doveroso che i nostri Governi, vieppiù dopo le numerose esecuzioni capitali di giovanissimi, tutti accusati di muharebeh, ossia di fare «guerra contro Dio», facciano sentire forte la loro voce di condanna per le violenze e le repressioni di persone inermi; che venga sospeso ogni accordo con il regime teocratico, nucleare compreso; che venga inasprito l'embargo economico-commerciale; che vengano sanzionati i membri della struttura di potere della Repubblica islamica in Iran, che siano attivate le procedure giudiziarie internazionali per procedere nei confronti di coloro che si macchiano di crimini contro l'umanità; che non abbiano paura, se del caso, di richiamare gli ambasciatori.

Altrettanto importante, però, è capire e denunciare, senza alcuna ipocrisia, come in Iran accada né più né meno quel che è tipico di tutti i regimi che, in qualche modo, nel corso della storia, sentendosi investiti da Dio, si sono lasciati andare a ogni sorta di nefandezze. Un male di cui la civiltà occidentale, non è restata immune: solo in tempi relativamente recenti le nostre società sono faticosamente riuscite a distinguere tra Dio e Cesare, tra politica e religione, riducendo al minimo e non senza strascichi le interferenze reciproche

. Per rendersene conto basterà ripartire dalla Lettera ai Romani di san Paolo che, nei primi due versetti del 13° capitolo, raccomanda: «Ciascuno sia sottomesso alle autorità costituite. Infatti non c'è autorità se non da Dio: quelle che esistono sono stabilite da Dio. Quindi chi si oppone all'autorità, si oppone all'ordine stabilito da Dio. E quelli che si oppongono attireranno sudi sé la condanna».

La visione paolina del mondo segna il vertice del quietismo reazionario: rinnegato il nazionalismo della teocrazia giudaica, San Paolo conserva il principio teocratico identificando tanti mandati terreni di Dio quanti sono sulla crosta terrestre i governi in arcione. Dicendo che l'autorità viene da Dio, Paolo si colloca nel punto in cui il cinismo quietistico confina con l'infatuazione teocratica, cioè li combina: il cinico fa il verso della scimmia se le autorità lo prescrivono, pur di lucrare un vantaggio o scongiurare un danno; il fanatico, invece, o affronta il patibolo o ci manda gli altri piuttosto di disubbidire al comandamento piovuto dal cielo. Su questo terreno, anche nel nostro presente, si colgono rigurgiti di «terrore giudiziario meritorio».

Del resto, che la ferocia giudiziaria piace in ogni tempo e a ogni latitudine ai patiti del principio teocratico, lo dimostra la famosa pagina sul boia, in cui Joseph de Maistre, nel bodoire di Saint-Pétersbourg, espone i meccanismi repressivi occulti o almeno discreti, che società chiuse lavorano nelle società chiuse: nessun elogio morale può essere tributato al boia, «perché ogni elogio morale presuppone un rapporto con gli uomini, mentre egli non ne ha alcuno; ogni grandezza, ogni potere, ogni subordinazione dipendono, però, da lui: egli è l'orrore e il legame dell'associazione umana; togliete dal mondo questo agente incomprensibile, e nello stesso istante l'ordine lascia il posto al caos, i troni si inabissano e la società scompare. E ogni luterologo sa quali conclusioni ne siano state dedotte sulla pelle dei contadini ribelli: mentre un assassino offende questo o quel membro della società, il rivoltoso aggredisce il fondamento stesso della convivenza sociale; col primo bisogna rispettare le regole del gioco, processo e garanzie della difesa, il secondo va abbattuto sul posto come un cane idrofobo, se no ammazza te e tutto un Paese: «Non si deve attendere che l'autorità giudichi e agisca, visto che non è in grado di farlo (...) ogni suddito fedele deve andarle in soccorso pugnalando, decapitando, sgozzando, e arrischiando corpo e beni per salvarla» (Lutero, Lettera sul libretto contro i contadini, in Scritti politici, Torino 1959, 322); perché niente eguaglia un rivoltoso quanto a veleno diabolico: in tempi convulsi, «un signore si guadagna il cielo versando sangue», meglio che se pregasse. Inutile dire che la rottura rivoluzionaria e il conseguente incivilimento dei costumi hanno avuto un'impronta antiecclesiastica: in Germania, a chiedere per primi l'abolizione della pena di morte, furono i contadini in rivolta; in Francia fu con la rivoluzione che sopravvenne la condanna del sadismo giudiziario.

Quando c'è di mezzo la salute dell'anima, il rogo, la ruota lo squartamento, i mille modi d'infierire su un poveraccio inerme sono espedienti pedagogici appena adeguati. Bisogna poi tener conto della malignità naturale dell'uomo di chiesa e del gusto festoso dello spettacolo: la gente va all'esecuzione in piazza come andrebbe a teatro. Se ne prenda atto senza ipocrisie e non si potrà allora restare inerti, silenti, indifferenti, di fronte al grido che proviene dalle strade e dalle piazze iraniane, lasciando che Khamenei ed i suoi scagnozzi si sentano liberi di procedere «nel nome di Dio» con il terrore, le violenze, gli stupri e le esecuzioni di massa.

Parla l'ex parlamentare torinese. “Il Pd è un covo di giustizialisti”, parla Stefano Esposito. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 24 Dicembre 2022

L’ex parlamentare torinese Stefano Esposito, deputato del Pd nella XVI legislatura e senatore nella XVII legislatura, si distingue sui social per la posizione garantista, a sinistra: guarda all’inchiesta del Qatargate con tutte le perplessità e i dubbi che gli stessi dem non riescono a esprimere. «Sono un libero cittadino perseguitato dalla giustizia», dice. «E questo mi dà una doppia libertà di parlare».

Qatargate. Che idea si è fatto?

Conoscevo poco Panzeri e Cozzolino, ma difendo il beneficio del dubbio per due che vengono appesi per i piedi già oggi, senza uno straccio di documento processuale. Non sappiamo di che reati sono accusati. Non sappiamo se hanno mai ceduto alla corruzione. Di certo non c’è niente: si parla di servizi segreti, di accordi opachi. Di ong. Nessun atto parlamentare preso in favore del Qatar, per quanto ne sappiamo.

Dicono solo che Panzeri fosse il regista di una rete di soft power qatarino.

Adesso risulta quasi un Richelieu. Nessuno di noi lo sapeva, ma scopriamo che Panzeri era un finissimo stratega, uno che praticamente avrebbe tenuto, lui da solo, in pugno l’intero Parlamento europeo. Lui che non era più stato eletto, poteva davvero condizionare, fino a un mese fa, tutte le scelte europee in politica internazionale? Passavano per lui gli accordi di protocollo con il Qatar? Conoscendo un po’ i meccanismi, tendo a dubitarne.

Perché ci sono articoli di stampa che riporterebbero affermazioni che direbbero: ‘Non abbiamo certezze, ma forse anche Cozzolino era vicino al Qatar’. Comunque vada a finire questa vicenda, Cozzolino è già finito. Non ci sarà modo di riabilitarlo anche se tra poco verrà fuori che non aveva alcuna responsabilità. Il Pd insegue il momento, senza con questo frenare la perdita di consensi. Quando la macchina del fango parte, non si ferma più.

Cosa suggerisce ai candidati segretario del partito?

Dobbiamo incidere nel nostro Dna che non esistono presunti colpevoli, ma presunti innocenti. Ricordo loro che coltivare il dubbio è il primo comandamento di un garantista. E invece oggi l’unico dubbio che viene coltivato è sul grado di colpevolezza dell’indagato. E per me questo è un livello di barbarie inaccettabile.

Il Pd sta diventando grillino?

Questa è una cosa che è iniziata dal 2013: rincorre la cultura grillina. Per il Pd il M5S non è una spina nel fianco, è una spina nel cuore. E purtroppo su questo terreno ha vinto quella cultura lì, e lo dico con grandissimo dolore. Lo dico con dolore: il Pd non difende mai i suoi. Nessuno dei suoi.

Vero. Ma perché, qual è la ratio?

Perché in fondo il Pd non è mai diventato una comunità. È nato da una fusione a freddo che non ha mai prodotto il calore di una comunità. È un brand, ragiona come le aziende in termini di reputazione del marchio a prescindere dalle storie delle persone che lo incarnano.

Chi viene anche solo sfiorato dalle inchieste, porta lo stigma e viene messo al bando.

Se parli con i singoli, è diverso. Ti danno tutti ragione. Però rispondono a una logica perversa, e le azioni del partito sono altre: l’abbandono, la messa al bando. Quando in un gruppo una persona ha bisogno di una mano, e invece di un braccio teso si vede arrivare una pedata, non la si può più definire comunità. Il Pd è una cordata. Quando uno può diventare un peso, perché preso di mira da un magistrato, gli altri tagliano la corda. Lo fanno come riflesso di sopravvivenza, sempre. La lista sarebbe lunga.

Qualche nome merita di essere fatto: Antonio Bassolino, Catiuscia Marini, Simone Uggetti, Filippo Penati, Marcello Pittella… Forse Nordio aggiusterà il tiro sull’abuso d’ufficio, meglio tardi che mai.

Oltre alla riforma dell’abuso d’ufficio, segnalo l’urgenza di mettere mano al traffico di influenze.

Altro mostro giuridico. Quello che ha colpito anche lei.

Il traffico di influenze in Italia può essere applicato a chiunque, per qualunque cosa. Chi ha un ruolo politico non può venir meno alla richiesta di qualche cittadino.

Sull’anarchico Cospito, leader No-Tav, lei che era il portabandiera della Tav, chiede un atto di clemenza. Perché?

Io sono stato un forte propugnatore della Tav e dai comitati ho ricevuto minacce e intimidazioni. Cospito è la mia antitesi, da un certo punto di vista. E dico che su di lui stanno sbagliando tutto. Lo Stato non può agire con cinismo e cattiveria, altrimenti i piani si invertono. Credo che Cospito sia colpevole, ma va messo in condizione di scontare la sua pena con dignità e umanità. Chiunque si dica di sinistra dovrebbe pensarla come me. Ecco, quello che mi stupisce. Che la sinistra, persino davanti al rischio che la vicenda Cospito si traduca in tragedia, perché andrà avanti con lo sciopero della fame, non dica niente. Il silenzio della politica è il segno che siamo morti noi, prima di lui.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 15 Dicembre 2022.

Dite a Saviano (scrittore che pensa che uno scrittore non debba ricevere querele, anche se lo scrittore fosse solo un giornalista che ha messo degli articoli in un libro) e dicevamo: dite a Saviano (che fu querelato nel 2020 da Giorgia Meloni e che dice che la prima udienza è stata fissata velocemente già nel 2022) e insomma: dite a Saviano che le sole querele che corrono ufficialmente più veloci sono quelle intentate dai magistrati, come prevede la circolare del Csm n. 5245 (11 giugno 1981) che ne teorizza «la trattazione più sollecita».

Dite a Saviano, per fare un esempio, che Antonio Di Pietro querelò un'intervista del 5 febbraio 1997 e il rinvio a giudizio fu il 3 aprile successivo, ossia due mesi dopo, non due anni. Dite a Saviano che, in data 12 gennaio 2011, fu lui a querelare due articoli del quotidiano Liberazione (sostenevano che lo «scrittore» si era inventato una propria telefonata con Felicia Impastato, madre di Giuseppe, vittima di mafia) e che la decisione sul rinvio a giudizio fu il 6 luglio 2012, solo un anno a mezzo dopo, e che la decisione d'Appello fu il 21 gennaio 2013, fanno due anni per due gradi di giudizio.

Il problema è che Saviano li perse entrambi: archiviazione in primo e secondo grado. Dite quindi a Saviano che il suo status, ora, è quello di «scrittore» condannato per plagio, querelante fallito e rinviato a giudizio come diffamatore.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 17 dicembre 2022. 

«Spero quereli» ha scritto una poveretta abituata a querelare ogni venti minuti: voleva che un politico denunciasse un direttore di giornale. Ormai è modus straccionesco che nell'era della suscettibilità (copyright Guia Soncini) vede querelare ogni scemenza dal primo che passa. Voi prendete un motore di ricerca, digitate «querela» od «offeso» e poi ci risentiamo l'anno prossimo.

Per quel che conta, io la penso come i nobili del medioevo: ricorrere ai tribunali è da infami (a meno che si rappresenti qualcosa che vada oltre un nome e un cognome, o che si attribuisca un fatto infamante e falso) e il duello resterebbe la miglior risposta, ma l'hanno proibito. Giorgio Bocca si vantava di non aver mai fatto una querela in vita sua: resta un modello. 

Noi invece ci stiamo sempre più «giudiziarizzando»: sempre più cause penali e civili, e contenziosi per lesione della personalità, richieste di risarcimento, denunce di cittadini contro altri cittadini, soprattutto querele automatiche da parte di associazioni specializzate in rappresentanza delle più svariate categorie. Servirebbe una punizione per chi fa querele inutili.

Tempo fa, in prima pagina, difesi strenuamente una Rom (mica facile, con certi lettori) e poi ebbi notizia che mi aveva querelato. Chiesi spiegazioni e scoprii che lei non ne sapeva nulla: aveva fatto tutto un'associazione che difende i Rom. La querela è rimasta.

Saviano, il paradosso: un giustizialista che si sente al di sopra della giustizia. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 15 dicembre 2022.

Roberto Saviano si crede al disopra della legge. È a processo per aver dato, due anni fa, della «bastarda» a Giorgia Meloni per le sue posizioni sull'immigrazione clandestina, peraltro attribuendole, con un salto logico incomprensibile, la responsabilità di un bambino morto in mare. L'agit-prop della sinistra non ha mai chiesto scusa, anzi ha rivendicato orgogliosamente l'insulto, sostenendo che con quell'espressione, forte quanto sgradevole, intendeva sancire un postulato, un punto fermo non in discussione.

Oggi che è alla sbarra, il giustizialista Saviano si lamenta dei tempi troppo rapidi della giustizia. raccoglie la solidarietà di quasi tutta la sinistra, che definisce questo processo una sorta d'attentato alla democrazia, perché vede un povero letterato contro una potente premier. Si rammarica che i giudici non abbiamo convocato la Meloni come testimone, negando la possibilità di un dibattito in aula; lo stesso che lui aveva dichiarato di voler escludere utilizzando l'espressione incriminata.

In sostanza, l'autore di Gomorra vorrebbe trasformare il suo giudizio in un processo alla premier e alle sue opinioni in tema di immigrazione clandestina. Sogna di ribaltare i ruoli, diventando da imputato a pubblica accusa. 

Siccome è in difficoltà, monta la panna o, se si preferisce, butta escrementi nel frullatore. Si atteggia a perseguitato politico, neanche fosse un giovane iraniano. Invece no, lo scrittore preferito da Fabio Fazio non è una vittima ma solo un gran maleducato, un insultatore seriale. Questo suo processo non ha alcuna dignità politica e chi vorrebbe conferirgliela è in malafede, perché sodale dell'imputato. È tipico delle organizzazioni camorristiche e mafiose, che Saviano conosce bene, affibbiare ai nemici delle etichette, che li squalifichino a prescindere, prima di ogni discussione. È un metodo che lo scrittore usa abitualmente nei confronti degli esponenti del centrodestra, con la complicità di chi confonde l'aggressività dell'uomo con l'incontestabilità del suo pensiero. Siccome ha un tono sprezzante, ha ragione, è l'equazione. Non so come finirà il processo, perché le vie della clemenza giudiziaria sono infinite quando sulla graticola c'è un mammasantissima della sinistra. Però un'eventuale condanna, più che giovare alla Meloni, farebbe bene alla sinistra. Le insegnerebbe a non ritenersi unica depositaria della verità e ad assumere toni meno presuntuosi e più civili nel dibattito politico. Che anche le cronache recenti ci dicono che i progressisti e affini hanno poco di cui vantarsi.

Francesco Storace per “Libero quotidiano” il 14 dicembre 2022.

Strano tipo questo Roberto Saviano. Ogni giorno alza il prezzo del suo martirio tutto personale. Ci crede solo lui, interprete solitario di una sceneggiata che continua ad alimentare in proprio. Ieri ha frignato persino sulla mancanza di Giorgia Meloni, nel processo per la querela che lei, cattivona, ha presentato nei confronti di lui, poverino. 

Non sarà testimone, il pm non l'ha convocata per deporre come parte civile. La querela è chiarissima, evidentemente: si tratta solo di capire se si può impunemente sparare un «bastardo» in diretta televisiva verso un avversario politico e non pagare dazio in tribunale. Non ci sarà «confronto», si lamenta lui, ovvero la sceneggiata che sognava.

Ma l'imputato è lui, non la Meloni. 

Sembra quasi che Roberto Saviano confidi nella prescrizione. Quella parola sparata dalla televisione in faccia alla Meloni gli è costata una querela ma non gli basta. E ora che a processo ci si ritrova perché lo ha deciso un giudice e non Palazzo Chigi, piange persino ogni giorno che c'è un'udienza. Con argomenti abbastanza patetici. 

Lo chiama processo Meloni, invece è lui l'imputato che frigna ogni giorno. In tribunale per la terza udienza si è lamentato pure perla velocità del processo che lo riguarda: «Tre udienze in meno di un mese: pare che la giustizia italiana abbia messo il turbo», in pratica offendendo il magistrato che fissa le date.

E poi minaccioso: «Questo è un processo importantissimo in cui chi mi porta alla sbarra ha da perdere molto più di me». Un modo di argomentare coerente con i suoi insulti via tv e che certo non aiuta la sua causa... 

In realtà, a Saviano sarebbe bastato assumersi le responsabilità che ha, asciugandosi le lacrime finte che mostra in pubblico. Mostrarsi come un uomo che sa di aver sbagliato, insomma, e magari scusarsi con chi ha offeso. Invece insiste con lo show: quella frase, gli chiedono i giornalisti? «Assolutamente, la userei ancora e dinanzi a quelle immagini che tra l'altro portarono alla morte di un bimbo in mare». Come se fosse colpa della premier e non degli scafisti. 

No, con un atteggiamento più umoristico che eroico, Saviano va avanti ad insolentire, manifestando pure sfiducia nei confronti del giudice terzo che dovrà pronunciare la sentenza di cui ha terrore. Anche questo è un condizionamento. O almeno un tentativo.

«Giorgia Meloni non sarà testimone in questo processo, è incredibile, non è stata chiamata né dal pm né dalla parte civile», borbotta «e io mi ritroverò a dover rispondere alle accuse senza la possibilità del confronto con il primo ministro che probabilmente teme una debolezza in questo processo».

E allora perché non lo ha suggerito al suo legale, se è così importante il faccia a faccia come se si trattasse di un altro ring televisivo? «Qualora ascoltati, ha detto anche riferendosi a Salvini, dovrebbero rispondere delle scelte politiche fatte in questi anni, che sono poi la materia del mio giudizio nei loro confronti. Io da scrittore rispondo delle mie parole, loro no», ha detto Saviano fuori dalla città giudiziaria. «Si sente un peso importante, che in quest' aula c'è da una parte lo scrittore e dall'altra il primo ministro. E quindi probabilmente si tende a tutelare la funzione del primo ministro. In quale altro processo chi presenta querela e si dichiara parte civile poi non viene sentito come testimone? Lo trovo singolare e sento una pressione enorme».

Il piagnisteo di Saviano sta davvero diventando insopportabile; nessuno oserebbe mai lamentarsi per la velocità di un processo. E nemmeno indosserebbe i panni del pubblico ministero e del tribunale su quali testi proporre di ascoltare. Ma siccome tocca a lui essere imputato, non vorrebbe celerità, non si sa mai dovesse essere considerato colpevole. 

Scrivono le persone comuni sui social: «Avesse evitato di dire "bastarda" alla Meloni non ci sarebbe stata nessuna terza udienza, nemmeno la prima e la seconda». Ma se si pretende di rivendicare il diritto ad offendere una persona, è evidente che si finisce in tribunale. Anche perché dovrebbe essere giusto sapere piuttosto se certo intellettualismo è al di sopra della legge e nel "diritto" di offendere chiunque non abbia idee di sinistra.

Elly Schlein e la lezione garantista (dimenticata) di suo nonno: l’avvocato Agostino Viviani. Schlein parla di vergogna, chiede fermezza ed evoca l’eterna “questione morale”. Così allineandosi immediatamente al mainstream “giustizialista” sull'inchiesta in Ue. Davide Varì su Il Dubbio il 15 dicembre 2022.

Fa un certo effetto ascoltare le parole di Elly Schlein sulla presunta corruzione che ha investito l’Europarlamento. Schlein ha infatti scelto la via più facile e si è immediatamente allineata al mainstream “giustizialista”, a tutti coloro, cioè, che chiedono pulizia senza neanche aspettare, non una sentenza (non pretendiamo tanto), ma almeno un rinvio a giudizio.

Schlein parla di vergogna, chiede fermezza ed evoca l’eterna “questione morale” – ormai svuotata di qualsiasi significato reale e trasformata in vuota formula – come un qualsiasi funzionarietto di partito. Il tutto – vale la pena ripeterlo – come se il processo fosse stato già celebrato e non si trattasse di semplici avvisi di garanzia o misure cautelari che, al momento, coinvolgono solo una eurodeputata. Insomma, se davvero Schlein avesse voluto presentarsi con discontinuità – che poi è la cifra della sua candidatura alle primarie dem – , avrebbe semplicemente potuto sfogliare la biblioteca di famiglia e spolverare i vecchi libri di suo nonno, Agostino Viviani. Resistente, avvocato – grande avvocato – , e poi membro laico del Csm, Viviani, per quei pochi che non lo sapessero, ha fatto della battaglia garantista una ragione di vita.

Parlò senza mezzi termini di “degenerazione del processo penale”, perché era convinto che le vittime della “giustizia ingiustizia” fossero altrettanto fragili delle vittime che non ottengono giustizia. E parlò di mediatizzazione del processo penale mettendo al centro i diritti degli indagati presentati come colpevoli. Intendiamoci, Schlein ha usato parole molto meno forti di altri campioni delle manette che, come l’ex ministro Speranza, hanno chiesto pulizia rifiutando categoricamente “qualsiasi forma di garantismo” (sic!). Ma Speranza, ahilùi, probabilmente non ha mai sfogliato un libro di Agostino Viviani. Per questo ci saremmo aspettati che lei, Schlein, avesse deragliato dal mainstream degli indignati di professione per affrontare la questione in modo serio, magari raccogliendo e rilanciando l’allarme della presidente Roberta Metsola che ha descritto senza mezzi termini una Europa sotto attacco: “La democrazia europea è sotto attacco; e il nostro modo di essere società aperte, libere e democratiche è sotto attacco». E ancora: «I nemici della democrazia, per i quali l’esistenza stessa di questo Parlamento è una minaccia, non si fermeranno davanti a nulla. Questi attori maligni, legati a Paesi terzi autocratici, hanno presumibilmente armato Ong, sindacati, individui, assistenti e deputati nel tentativo di soffocare i nostri processi».

Insomma, anche Schlein avrebbe potuto scegliere di difendere l’Europarlamento senza sacrificare la presunzione di innocenza e mettendo in guardia dagli effetti collaterali di una inchiesta che rischia di delegittimare l’ultima istituzione credibile, e nello stesso tempo dar fiato ai “piccoli” Orban che popolano le “nazioni” del vecchio continente e la cui deriva illiberale può essere arginata solo da una Europa forte e credibile. Certo, non siamo ingenui e sappiamo bene che la candidatura alle primarie del Pd spinge chiunque verso una normalizzazione e un’omologazione. Eppure, il punto di forza di Schlein è proprio la sua bella diversità: una naturale distanza, quasi una estraneità, rispetto ai bizantinismi correntizi del Pd e all’appiattimento politicista di tutti gli altri candidati. E sarebbe un peccato se perdesse questa sua diversità per diventare una copia sbiadita del candidato “ideale” e gradito dall’establishment dem. Sarebbe un peccato per lei, ma anche per lo stesso Pd, un partito che ha bisogno come il pane di una voce garantista in grado di aprire una breccia nella fortezza giustizialista nel quale è incastrato da anni.

Estratto dell’articolo di Saul Caia per “il Fatto quotidiano” il 13 Gennaio 2023.

La riforma Cartabia rischia di esporre in prima persona le vittime di mafia: senza querela, molti reati non sono più perseguibili d'ufficio anche in presenza di aggravante mafiosa. In Sicilia è successo: dopo che le vittime si sono rifiutate di querelare gli autori del reato, la Dda di Palermo è stata costretta a chiedere la revoca della misura cautelare per tre condannati in primo grado per sequestro e pestaggio attuati con il metodo mafioso.

 La vicenda si riferisce all'operazione antimafia "Brevis" che nell'aprile 2021 ha portato all'arresto di cinque persone, tra cui Giuseppe Calvaruso, Giovanni Caruso, Silvestro Maniscalco e Francesco Paolo Bagnasco.

 […] Con l'entrata in vigore della riforma, le accuse sono perseguibili solo se c'è una querela di parte. L'inchiesta "Brevis" è avvenuta prima che la legge diventasse applicabile, quindi le vittime sono state chiamate a sporgere querela contro gli aggressori, ma nessuno ha voluto denunciare.

 Né Calvaruso né Caruso saranno scarcerati, perché la loro condanna riguarda anche reati di mafia. Il discorso potrebbe cambiare per Maniscalco, al momento detenuto, che risponde solo delle lesioni e del sequestro. […] Persino al ministero della Giustizia si sono accorti del problema. Fonti ministeriali fanno sapere che "ci sono due anni di tempo per tutti gli eventuali necessari correttivi".

Francesco Grignetti per “la Stampa” il 12 gennaio 2023.

Topi d'auto che non si possono arrestare anche se colti in flagrante perché il proprietario non è in città e non può firmare la denuncia. Stupratori che potrebbero farla franca perché irreperibili. Borseggiatori seriali che finiranno fuori dal carcere in quanto le vittime sono turisti stranieri, tornati a casa dopo le Festività.

 Addirittura sequestratori che non finiranno a processo se manca la denuncia del sequestrato. Al decimo giorno di applicazione della riforma Cartabia, dai palazzi di Giustizia arrivano molte segnalazioni e proteste. L'intera macchina giudiziaria scricchiola sotto il peso delle novità. Si stanno verificando persino problemi ai sistemi informatici.

In particolare, si temono contraccolpi perché la riforma ha spostato alcuni reati dalla procedibilità d'ufficio alla procedibilità a querela. E non è una novità indolore.

Nel campo dei reati che si possono perseguire soltanto a seguito di querela, ci sono il furto, ma anche la rapina semplice, le lesioni stradali gravi o gravissime, le lesioni personali, la minaccia.

 Alcuni reati di quelli che hanno cambiato veste sono oggettivamente minori, tipo "il disturbo delle occupazioni e del riposo delle persone". Ma non è così per la "turbativa violenta del possesso di cose mobili" oppure la "violenza privata", che in aree ad alta densità mafiosa può essere un reato spia di comportamenti molto pericolosi. E non è prevista una deroga nemmeno se c'è l'aggravante mafiosa.

In pratica, se un mafioso minaccia un cittadino, o anche gli procura lesioni, o la vittima firma la denuncia oppure nemmeno si istruisce la pratica. Lo Stato lo lascia solo con la sua coscienza. A questo meccanismo, che si sta concretizzando nei primi giorni di applicazione della riforma, la maggior parte dei magistrati si ribella. Dice il presidente dell'Anm, Giuseppe Santalucia, a nome di tutti: «Non siamo contrari al principio in astratto, ma ci voleva più prudenza nello stilare l'elenco dei reati. E bisogna prevedere una deroga per l'aggravante mafiosa».

 La riforma era stata approvata dal Parlamento nell'agosto scorso; subito dopo l'allora ministra Marta Cartabia emanò un decreto legislativo che stabiliva quali reati dovessero cambiare registro.

 Ma ora il nuovo governo vuole rovesciare tutto. «Premesso che noi di Fratelli d'Italia non abbiamo votato a favore e l'abbiamo criticata duramente in Parlamento - dice il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro - oggi scopriamo che i sequestratori non verranno nemmeno indagati se manca la querela della vittima, ed è uno scandalo, ma domani scopriremo che in appello scatterà l'improcedibilità, e cioè finiranno al macero, una massa di processi. Non subito, ma nel corso della legislatura questa riforma noi la riscriveremo di sana pianta».

Il vizio di fondo, secondo il partito di Giorgia Meloni, è dovuto all'eterogeneità della maggioranza che reggeva il governo Draghi. «Sappiamo bene - continua Delmastro - che questa era una delle riforme concordate con l'Europa, per velocizzare la giustizia, e ottenere il Pnrr. Ma tecnicamente è un disastro perché cerca di tenere insieme visioni molto diverse».

 I magistrati imputano alla riforma soprattutto la fretta di abbattere l'arretrato e ridurre il numero dei processi. D'altra parte, lo stesso consulente della ministra, Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale, è esplicito sugli obiettivi. Sulle pagine della sua rivista "Diritto penale", scrive: «Tra il 2016 e il 2020, sono stati denunciati quasi sei milioni di furti, e aperti altrettanti fascicoli. L'effetto deflattivo della riforma è potenzialmente notevole in ragione, vuoi del numero di casi in cui non sarà presentata una querela, vuoi del numero di casi in cui potrà essere rimessa a seguito di condotte risarcitorie delle quali la persona offesa potrà beneficiare in tempi brevi».

Il disastro della legge Cartabia: migliaia di sequestratori, ladri e aggressori impuniti. Stefano Baudino su L'Indipendente l’11 gennaio 2023.

Con l’avvento del nuovo anno, migliaia di processi per reati puniti fino a due anni di carcere, tra cui il sequestro di persona, le lesioni personali dolose, le molestie e il furto potrebbero andare rapidamente in fumo. Dall’inizio del 2023, per effetto della riforma Cartabia, approvata nella scorsa legislatura sotto il “cappello” del governo guidato da Mario Draghi, le indagini penali per tali reati scattano infatti soltanto se i pm ricevono la querela di parte. I magistrati, insomma, non possono più agire d’ufficio come accaduto finora: se la querela non viene prodotta direttamente dalla vittima oppure viene successivamente ritirata, i fascicoli decadono automaticamente, così come le misure cautelari già applicate. 

L’obiettivo primario della legge in questione sarebbe – almeno sulla carta – quello di velocizzare le tempistiche dei processi, così come richiesto dall’Ue affinché l’Italia possa usufruire dei denari del Pnrr. Ma la riforma nasconde numerose crepe che hanno già da tempo sollevato le lamentele di numerosi ed autorevoli esponenti della magistratura: basti pensare al nuovo meccanismo della “improcedibilità”, che “uccide” quei processi che in Appello e in Cassazione si prolungano oltre il tempo limite stabilito dalla norma.

Gli effetti nefasti della riforma Cartabia sono già ampiamente visibili nella cornice di numerosi casi di cronaca che stanno facendo discutere. A Savona, ad esempio, due persone con precedenti penali sono alla sbarra per avere rapito, legato ed imbavagliato un giovane che veniva terrorizzato dai suoi aguzzini con richieste di denaro continuative e costretto a salire su un’automobile per essere condotto in un appartamento dove veniva chiuso a chiave per molte ore. Per i pm, i due imputati avrebbero dimostrato “una sorprendente pervicacia nelle condotte criminose”, ma dal momento che la vittima ha nel frattempo ritirato la querela saranno prosciolti. E lasceranno l’istituto penitenziario in cui sono ristretti.

Altro episodio indicativo è avvenuto poi in provincia di Venezia, precisamente a Jesolo, dove alcuni ladri hanno razziato il Pineta Aparthotel nella notte tra il 4 e il 5 gennaio. Non potendo il titolare sporgere denuncia nei loro confronti, gli autori del furto sono rimasti in libertà. Poco lontano, a Vicenza, nella medesima data un 21enne romeno è stato fermato per avere rubato tre automobili, ma rilasciato subito dopo: le denunce-querele erano state infatti presentate dal padre di una delle vittime del reato e da una dipendente dell’azienda cui era intestata la vettura e non direttamente dai proprietari delle macchine rubate.

Negli scorsi giorni, inoltre, sono stati scarcerati alcuni membri di una gang milanese, tra cui il trapper Simba La Rue, che erano stati arrestati per aver sequestrato Baby Touché, altro trapper della zona. Lo scorso 9 giugno, dopo averlo accerchiato, il gruppo lo aveva colpito con calci e pugni e chiuso dentro una macchina per due ore. Gli aggressori avevano ripreso con i loro smartphone la vittima con il volto tumefatto, dileggiandolo e trasmettendo il video sui social. Nonostante tutto, Touché aveva negato le responsabilità di Simba e dei suoi sodali, sostenendo che si fosse “inscenata una finta faida per fare spettacolo” con l’obiettivo di farsi “pubblicità”. Il gip le aveva ritenute “menzogne finalizzate a non far emergere l’esistenza di una faida tra le due bande, nell’ambito della quale lui stesso è coinvolto per la commissione di gravi fatti di sangue”. Ma ora, dato che la vittima non ha presentato querela, “liberi tutti”.

In questi giorni, i magistrati di tutta Italia stanno correndo ai ripari, cercando di contattare le vittime di tali reati per spingerle a sporgere querela in tempi brevi. Spesso non riuscendo a concretizzare il proprio intento a causa del considerevole lasso di tempo trascorso dalla consumazione del reato ad oggi, oppure perché vittime di altre nazionalità, avendo subito il reato in Italia in veste di turisti, avevano presentato una semplice denuncia e non una querela formale, facendo poi immediato ritorno al proprio paese.

Nei mesi scorsi ho invitato i miei sostituti a sollecitare le querele delle parti offese, altrimenti a Belluno sono centinaia di fascicoli che potrebbero rivelarsi improcedibili. – ha affermato il procuratore della città veneta Paolo Luca, mettendo in luce le criticità della norma –. È un lavoro che passa attraverso le segreterie dei pubblici ministeri, ma a complicare tutto c’è la cronica carenza di personale: su ventisei dipendenti amministrativi previsti dalla pianta organica, ne abbiamo appena sedici. La riforma Cartabia ci chiede, comprensibilmente, prestazioni performanti, ma se alla macchina della Giustizia manca il carburante, diventa difficile ottenere i risultati prefissati”. 

Lo scenario si dimostra però estremamente preoccupante per motivi ancora più problematici. Molto spesso, infatti, si verificano casi in cui la vittima non denuncia un determinato reato perché ha il timore di possibili rappresaglie da parte di chi l’ha aggredita o vessata: “A differenza dei ‘furtarelli’, spesso gli autori di questi reati sono criminali di alto spessore, in grado di intimorire le vittime, che quindi molte volte non denunciano per evitare ritorsioni – ha spiegato la giudice Francesca Zancan, che fa parte della giunta dell’Associazione nazionale magistrati del Veneto –. Di recente mi sono occupata di un caso di questo tipo: la parte lesa ha avuto molti dubbi se venire a testimoniare in aula contro l’imputato. L’ha fatto, ma le si leggeva in faccia la paura. Per questo motivo, temo che molto presto si rassegnerà a ritirare la querela”. 

Tutti gli occhi sono ora puntati sull’azione del governo, chiamato a dare risposte. A questo proposito, è intervenuto il deputato di Fratelli d’Italia e sottosegretario al Ministero della Giustizia Andrea Delmastro: “È evidente che anche se la vittima non sporge querela lo Stato deve tutelarla e deve tutelare tutte le altre ipotetiche vittime del sequestratore. Non si può non perseguire un reato gravissimo come il sequestro di persona. Noi abbiamo intenzione di rivedere una riforma che sicuramente ottiene il vantaggio della velocizzazione della giustizia penale attraverso l’improcedibilità in Appello e la procedibilità per molti reati solo a querela ma lo fa a scapito della sicurezza dei cittadini. Dobbiamo, però tenere conto degli impegni presi in Europa in vista del Pnrr”. Vedremo se alle promesse seguiranno i fatti. E, soprattutto, come gli azionisti di maggioranza, che sul tema giustizia paiono “sparpagliati”, prenderanno posizione rispetto a questa emergenza. [di Stefano Baudino]

L'attacco alla riforma. La bufala dei reati a querela, esistono da sempre ma per stalking e stupro nessuno si indignava. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 14 Gennaio 2023

Quello che sta accadendo riguardo al tema dei reati che, riqualificati dalla riforma Cartabia come procedibili a querela e non più di ufficio, sarebbero da oggi impuniti, perfino se commessi da boss mafiosi, è letteralmente surreale. Facciamo un passo indietro. Sono decenni che tutti concordano sul fatto che la giustizia penale nel nostro Paese sia soffocata da un numero di procedimenti penali talmente esorbitante da risultare fisicamente ingestibile. Anni addietro il problema si risolveva con le periodiche amnistie; dopo la riforma costituzionale di quell’istituto, si è usata la prescrizione, salvifica soluzione per le Procure, che determinando a propria discrezione le priorità di trattazione, la lasciavano maturare per una grande parte dei procedimenti relativi ai reati ritenuti di gravità minore.

Le sfiancanti discussioni sulle possibili soluzioni di questa anomalia, senza intaccare il sacro principio della obbligatorietà dell’azione penale, portano immancabilmente a due indicazioni: ampia depenalizzazione, ed allargamento del catalogo dei reati perseguibili a querela. La prima delle due strade viene osteggiata dal fanatismo pan- penalista che pervade la nutrita popolazione di politici e giornalisti di schietta ispirazione giustizialista e populista. A costoro viene l’orticaria solo se provi ad avviare un ragionamento sul restringimento del numero dei reati, ipotesi vissuta come una resa dello Stato alla criminalità. La seconda strada è parsa allora l’unica ragionevolmente praticabile agli architetti di una riforma cui l’Europa, in cambio di una consistente quantità di denari, ha chiesto di rendere meno pachidermica la paralizzata giustizia penale italiana.

Naturalmente, i reati a querela di parte non sono stati inventati da Marta Cartabia: esistono da quando esistono i codici penali. La logica è chiarissima: è vero che l’azione penale è obbligatoria, ma per i reati di minore o media gravità l’impegno dello Stato nel perseguirli è condizionato alla esplicita richiesta della persona offesa. Dunque dovrebbe essere facilmente comprensibile che fissare l’obbligo di querela non equivale ad affermare l’impunità per quei reati, ma solo a subordinarne il perseguimento e la punizione alla espressa volontà della parte offesa. Ovviamente, se l’autore di un reato a querela viene colto in flagranza (o quasi flagranza) di reato, intanto potrà essere fatto oggetto -ad esempio- di misura cautelare, in quanto sia stata attivata quella condizione di procedibilità (si chiama così).

Il crimine contro l’umanità che con crescente esagitazione si addebita alla riforma Cartabia è dunque di aver implementato il catalogo -da sempre esistente- dei reati a querela. Naturalmente si può discutere, come sempre, della scelta di questo o quell’altro reato, o della mancata scelta di qualche altro. Per esempio, indigna che sia stato compreso il sequestro di persona (semplice). Opinione legittima, ma è bene ricordare che, prima della riforma Cartabia, sono perseguibili a querela -chessò- la violenza sessuale, o lo stalking, reati non certo meno gravi di un sequestro di persona semplice (che è infatti punito con una pena molto contenuta). E come mai fino ad ora non ha fiatato nessuno? Ma qui la polemica è esplosa, come sempre accade, su fatti di cronaca rilanciati a casaccio, quando non in modo intellettualmente disonesto. I tifosi che hanno dato luogo alla indegna gazzarra in quell’autogrill autostradale, si sono resi responsabili di reati tutti ricadenti nella riforma: danneggiamento, lesioni personali, violenza privata: di qui, la esplosione di questa isteria collettiva.

Naturalmente, costoro sono stati identificati: saranno le persone offese dai vari reati a decidere se debbano essere puniti. La discussione che si è scatenata sembra presupporre invece che la riforma abbia sancito la impunità di questi comportamenti, il che è semplicemente falso, salvo a non attribuire questo stigma a tutti i reati a querela, a cominciare dalla violenza sessuale.

Addirittura surreale è poi il tema dell’aggravante mafiosa di questi reati, cui la riforma Cartabia avrebbe la sanguinosa colpa di non aver attribuito l’effetto di escludere la perseguibilità di ufficio. Si può certamente discutere della opportunità di introdurre questo nuovo meccanismo, ma si tratterebbe appunto di una assoluta novità, giusta o sbagliata, opportuna o superflua che la si voglia giudicare.

Cosa c’entra la riforma Cartabia? Mai le modalità mafiose di commissione di reati a querela di parte (nemmeno per il reato di minacce!) ha trasfigurato il reato stesso in termini di perseguibilità di ufficio! Eppure leggiamo incredibili titoli che addebitano a questa riforma addirittura responsabilità di imbelle fiancheggiamento in favore dei boss mafiosi. Infine, quando si rende perseguibile d’ufficio un reato che era a querela, la nuova norma, in nome del generale principio della retroattività delle norme più favorevoli agli imputati, si applica anche ai procedimenti in corso, dandosi alle parti offese un termine per mantenere in vita il procedimento. Ancora una volta, del tutto a prescindere dalla vituperata riforma Cartabia. Quando sarà possibile parlare in modo serio e civile di giustizia penale, in questo Paese?

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

Tutti contro la riforma Cartabia. Colpevole di sfidare il panpenalismo. Adesso FdI e Lega si uniscono al coro di giornali, pm e opposizioni che reclamano l’incenerimento delle nuove norme. Che la maggioranza voglia evitare di rispondere per il precedente governo ci può stare. Ma la verità è che l’indignazione per i pochi casi di reati improcedibili nasconde la difesa di quel moloch in cui si è trasformato il processo. Errico Novi su Il Dubbio il 13 gennaio 2023

Adesso Fratelli d’Italia e Lega giocano in difesa. Di fronte al tiro al bersaglio in corso contro la riforma Cartabia, i sottosegretari che rappresentano i due partiti al ministero della Giustizia, Andrea Delmastro e Andrea Ostellari, annunciano «interventi correttivi al decreto penale, prodotto dal precedente governo su impulso della ministra Cartabia», perché, per citare l’esponente della Lega, «non devono ripetersi episodi come quelli a cui abbiamo assistito in queste ore, con la messa in libertà di alcuni soggetti colti in flagranza di reato, per mancanza di querela da parte della persona offesa». È una reazione in parte comprensibile. Di un governo, e di una maggioranza, scossi dall’uragano scatenato contro la riforma di un precedente esecutivo. Ma l’attacco concentrico è sospetto: vi partecipano gran parte dei media, pm come Nicola Gratteri, che parla ancora una volta del testo Cartabia come di un «disastro», partiti ora all’opposizione come i 5 Stelle ma che votarono eccome la legge delega quand’erano in maggioranza. Da giorni la stampa cita sempre gli stessi tre o quattro casi: il furto in albergo di Jesi, il furto d’auro in Veneto e certo, il fatto più grave, il sequestro di persona attuato da tre «presunti mafiosi» (definizione di Gratteri) del rione Pagliarelli di Palermo nei confronti di due rapinatori “indisciplinati”. Proclami di abbattimento della riforma basati su vicende che si contano sulle dita di una mano, un paio bagatellari, un’altra da considerarsi un caso limite. Ed è difficile allontanare l’impressione che il vero problema sia la piccola rivoluzione prodotta dall’intervento dell’ex ministra, che apre al superamento del panpenalismo, all’idea del processo, anzi delle iniziative inquirenti, come antidoto a qualsiasi emergenza, Non una depenalizzazione, ma almeno un tentativo di abbattere quel moloch in cui si è trasformata la repressione dei reati.

Boss e ladruncoli in libertà. Riforma Cartabia, altre accuse. La denuncia di Scarpinato (M5s): serve una modifica. Magistrati divisi, ma per tanti reati non cambia nulla. Felice Manti il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La (complessa) applicazione della riforma Cartabia diventa l'alibi delle toghe «politicizzate», che si servono dei giornali e dei partiti amici per mandare pizzini al governo in vista della prossima riforma della giustizia. C'è molta confusione in questa prima fase di applicazione, forse si sarebbe dovuta fare una seria depenalizzazione, come promette il Guardasigilli Carlo Nordio. Ma prima bisogna insediare il nuovo Csm con un vicepresidente «non ostile» al centrodestra, impresa difficile ma non impossibile.

Che la Cartabia sia discutibile è opinione bipartisan, ma su certi reati non è cambiato nulla. «Anche per quelli perseguibili a querela è doveroso che autorità giudiziaria e polizia compiano di propria iniziativa indagini preliminari e raccolgano elementi probatori ai sensi dell'articolo 346 del codice di procedura penale», spiega l'avvocato Ivano Iai, che sottolinea come senza querela depositata nei termini previsti il pm dovrà chiedere l'archiviazione al Gip «sempre che il reato perseguibile a querela non concorra con altro reato procedibile d'ufficio».

Fa sorridere pensare che molti magistrati si strappano le vesti per ladruncoli e scippatori potenzialmente in libertà (quanti ne abbiamo visti in cella in questi anni?) dopo anni a sentire le toghe rosse vagheggiare quanto fosse ingiusto «condannare un esercito di miserabili» e di come fosse necessaria una «giurisprudenza alternativa, organica al movimento di classe». Il problema è che in Italia l'obbligatorietà dell'azione penale è una barzelletta. Ci sono processi che si sa già finiranno prescritti che non dovrebbero nemmeno iniziare, ci sono indagini delicate che spesso vengono frettolosamente archiviate o riaperte troppo tardi. Grazie alla «giustizia di classe» la discrezionalità dei pm e dei giudici è massima. Lo si è visto per gli ultras daspati e armati rimessi in libertà nonostante i precedenti violenti. O per l'automobilista di 63 anni che l'altro giorno, dopo aver travolto due ragazzini miracolosamente illesi e aver aggredito un vigile, è stato rimandato a casa dal giudice «purché vada a piedi» e senza neanche l'ergastolo della patente previsto dalle norme sull'omicidio stradale. Come conferma l'avvocato Domenico Musicco, che lamenta l'ipocrisia dei Cinque stelle: «Anche prima per la violenza privata serviva la querela di parte, le donne dovevano fare mille denunce eppure restavano inascoltate e ammazzate».

Il sostituto procuratore a Rimini Stefano Celli, intercettato nell'intervallo di una riunione «operativa» con colleghi e personale di cancelleria sulla Cartabia, ragiona con il Giornale: «Due settimane sono poche, il problema di fondo di tutte le riforme importanti è che non ne verifichiamo mai gli effetti. Vale per le modifiche alla prescrizione di Alfonso Bonafede o a quelle sulle intercettazioni di Andrea Orlando». «Ci sono due anni di tempo per tutti gli eventuali necessari correttivi alla riforma Cartabia», dicono fonti di Via Arenula. «Sì, ma rubare una ruota bucata o un bancomat significa commettere lo stesso reato, punibile in astratto con la stessa pena sebbene il primo possa essere considerato di irrilevanza penale», insiste Celli, che rappresenta Md nel cosiddetto Parlamentino Anm della magistratura. «Il problema non sono le singole disposizioni, per la maggior parte apprezzabili perché rispondono a esigenze di diritto condivisibili - sottolinea Cesare Parodi di Magistratura indipendente, procuratore aggiunto a Torino - manca una valutazione attenta sulla ricaduta della riforma, che va correttamente metabolizzata, sui problemi organizzativi, amministrativi e sulle piante organiche, certamente da rivedere».

Anche l'allarme sui reati mafiosi lanciato dall'ex pm M5s Roberto Scarpinato con l'annuncio di un disegno di legge ad hoc è tutto da decifrare. A Palermo la Procura ha chiesto e ottenuto l'inefficacia della misura cautelare per tre mafiosi, arrestati prima dell'entrata in vigore della legge per aver picchiato due rapinatori colpevoli di un colpo «sbagliato». I boss restano in cella per altri reati, il presidente del tribunale di Palermo Antonio Balsamo chiede di «ripristinare la procedibilità d'ufficio per i sequestri di persona realizzati da organizzazioni mafiose». «Ma il problema dell'aggravante mafiosa esiste da trent'anni», lamenta Gian Luigi Gatta, professore di Diritto penale all'Università di Milano e ortodosso «custode» della riforma. E Scarpinato dovrebbe saperlo bene...

Uno spauracchio in mano alle procure. Si può polemizzare con tutto, tranne che con i numeri. Luca Fazzo il 13 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Si può polemizzare con tutto, tranne che con i numeri. E i numeri sui processi per abuso d'ufficio, diffusi ieri dal ministero della Giustizia, dimostrano una realtà indiscutibile: il reato di abuso non è solo una tagliola micidiale messa sul cammino di ogni amministratore pubblico; non è solo un reato-omnibus, il passepartout con cui - in assenza di qualunque altro indizio di colpevolezza - i pubblici ministeri possono iniziare a scavare sul conto di sindaci e assessori, sperando di imbattersi in qualcosa di più rilevante; è anche, e soprattutto, una formidabile macchina che ingolfa i tribunali, un macigno micidiale sulla strada per l'efficienza della giustizia.

Come finiscono le inchieste per abuso d'ufficio? Diciotto condanne su 455 processi. Trecentosettanta rinvii a giudizio contro 4.613 archiviazioni. Non esiste un solo reato in tutto il codice penale che abbia numeri neanche lontanamente paragonabili di insuccessi dell'accusa. Non è un caso. I numeri dimostrano che l'abuso è in realtà un reato-non-reato, privo di quei requisiti di chiarezza che in ogni Paese civile servono per dettare al cittadino le regole da seguire nel suo honeste vivere. Eppure migliaia di amministratori pubblici, dal piccolo travet al sindaco di una metropoli, al dirigente apicale di un ministero, sono costretti quotidianamente - ad ogni firma, ad ogni delibera - a chiedersi se sarà l'atto che lo farà finire alla sbarra.

Non è un caso, leggendo attentamente le cifre, che a fare archiviare la grande parte delle accuse sia stata la legge che nel 2020 (governo Conte 2, ministro della Giustizia Bonafede) ha ristretto sensibilmente l'area di applicazione del reato. Togliendo di mezzo la violazione di regolamenti secondari e restringendo l'area dell'abuso alle violazioni di legge, l'entrata in vigore della norma ha fatto dissolvere migliaia di inchieste. È la dimostrazione che a fare scattare l'incriminazione dei pubblici amministratori era nella stragrande parte dei casi la difformità dei loro atti da qualche pandetta evanescente, e non da leggi degne di questo nome.

Eppure, nonostante la drastica riduzione dell'area di applicazione, il reato di abuso ha continuato a essere contestato a man bassa dalle Procure, e anche l'anno scorso per ogni vecchio fascicolo finito in niente se ne è aperto un altro, continuando a intasare le aule. È la prova che nessuna riforma - e tantomeno i due avverbi in più che il ministro Nordio vorrebbe aggiungere all'articolo per depotenziarlo - impedirà al fatidico articolo 323 di essere usato come spauracchio in mano alle Procure. Alcuni magistrati hanno già fatto sapere che, se verrà abolito il reato di abuso, contesteranno reati più gravi. Ma - tono ricattatorio a parte - forse è arrivato il tempo di andare a vedere il bluff.

Le linee di intervento alla riforma. “Criminali liberi”, tutte le balle sulla riforma Cartabia: giornalisti, basta intervistare i citofoni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Gennaio 2023

Quando il ministro Carlo Nordio, nel mese di ottobre, accogliendo il “grido di dolore” di ventisei procuratori generali, aveva convinto il nuovo governo a deliberare, fin dalla prima riunione del consiglio dei ministri, la proroga della riforma Cartabia sulla giustizia, la data del 30 dicembre era parsa forse lontana. Invece è arrivata, e le norme sono entrate in vigore. Brusco risveglio, dopo il torpore natalizio, per tribunali e corti d’appello. I magistrati per il momento non osano mostrarsi impreparati, e tacciono persino i sindacalisti dell’Anm. Parla solo qualcuno, ma rigorosamente in forma anonima. Tanto provvedono i quotidiani di riferimento delle toghe a fare il lavoro per loro. E a strillare che i delinquenti usciranno di galera.

Una delle più rilevanti linee di intervento della riforma Cartabia è quella che riguarda una consistente estensione del regime di procedibilità a querela su una serie di figure di reato contro la persona e contro il patrimonio, la cui pena edittale prevista non sia superiore nel minimo a due anni di reclusione. Inutile nasconderselo, incidere la carne viva della procedibilità d’ufficio, in un sistema di obbligatorietà dell’azione penale aggravato oltre tutto da un numero di procedimenti penali ormai insostenibile, indica una strategia riformatrice di politica criminale lungimirante e rivoluzionaria, di cui il ministro Nordio ha già detto essere la strada giusta. E non soltanto è in linea con gli obiettivi del Pnrr e la riduzione del 25% dei tempi del processo entro il 2026. Ma apre anche la strada a ridurre in maniera significativa il numero dei procedimenti penali. È vero, ci stiamo avviando a un primo temperamento del principio di obbligatorietà dell’azione penale.

L’ex ministra Cartabia non ha smentito il proprio pragmatismo. Non ha infatti privilegiato la via della depenalizzazione, togliendo tout court una serie di reati del codice penale. Una delle possibili vie per deflazionare il sistema processuale e di conseguenza anche quello penitenziario. Ma ha messo nelle mani delle parti la scelta se far permanere o meno l’illecito nella sfera penale. Sarà soprattutto la vittima a scegliere che cosa sia concretamente nel proprio interesse. Nella relazione introduttiva alla norma approvata dal Parlamento nel giugno scorso ed entrata in vigore il 30 dicembre si sottolinea come l’estensione del regime di procedibilità a querela di parte sia stato voluto in modo “significativo”, soprattutto per reati “che si presentano con una certa frequenza nella prassi e che si prestano a condotte risarcitorie e riparatorie”. Si tratta di una vera rivoluzione culturale, di cui forse non si è ancora capita la portata. Tanto che in una dichiarazione anonima (colleghi, ma quando la pianterete di intervistare i citofoni?) al Foglio, un esponente di Fratelli d’Italia pareva preoccupato di “contemperare” le esigenze deflattive del carico di procedimenti penali con l’esigenza di sicurezza del Paese. È chiaro che la sicurezza non c’entra niente con questo provvedimento. Qui non si tratta di garantire l’impunità ai delinquenti.

Al contrario, proprio perché i magistrati abbiano la possibilità di indagare e processare i responsabili dei reati più gravi, quelli che davvero destano allarme tra i cittadini, è opportuno abbiano le mani libere dallo sperperare tempo fatica e denaro per comportamenti illeciti che potrebbero trovare soddisfazione per le vittime in modo diverso e alternativo all’intervento penale e al processo. Nella stessa relazione alla norma si legge che sono state scelte fattispecie “di frequente contestazione”, e che l’estensione della procedibilità a querela sarà un “incentivo alla riparazione dell’offesa nonché alla definizione anticipata del procedimento”. Anche perché il temperamento dell’obbligatorietà dell’azione penale verrà realizzato in modo da tener conto delle “esigenze di tutela della persona offesa e della collettività”, pur considerando che si tratta pur sempre di illeciti che offendono interessi individuali, di natura privatistica. Ma il risultato risponderà alle esigenze di efficienza non più rinviabili.

Se poi consideriamo che questa parte della riforma si inserisce in una cornice più complessa, finalizzata non solo a deflazionare il processo riducendo il numero dei procedimenti, ma anche a valorizzare le condotte riparatorie, ritroviamo intatto lo spirito della giustizia riparativa dell’ex ministro Cartabia. Ed è molto positivo che quello spirito sia stato fatto proprio anche dal guardasigilli Nordio. Se questa strada resterà aperta, e se ne verranno compresi l’importanza e il significato sia da tutte le forze politiche che anche dagli stessi magistrati, ci aspetterà un periodo di veri cambiamenti. Si tratta di trovare forme alternative al procedimento penale che siano nell’interesse di tutti i soggetti. Degli indagati e imputati che potranno uscire dal percorso penale tramite il risarcimento del danno e la riparazione. Ma soprattutto per le persone offese, che potranno avere una concreta e tempestiva soddisfazione alla propria sacrosanta domanda di giustizia attraverso il risarcimento e anche altre condotte riparatorie. Sarà un vantaggio anche per l’intera società e il suo bisogno di sicurezza e armonia. Lo capiranno?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Principi minimi.

I Liberali.

Carlo Nordio.

Principi minimi.

La battaglia per la presunzione di innocenza. Il garantismo in Italia non esiste ma si identifica con i nemici dei magistrati e dei giornalisti trasformati in mostri e sciacalli. Stefano Vinti su Il Riformista il 4 Giugno 2023 

Siamo abituati a percepire senza sfumature la differenza tra garantisti e colpevolisti, spesso commettendo l’errore di identificare i garantisti con i nemici dei magistrati inquirenti o dei giornalisti e del loro diritto di informare.

Certo, a tutti farebbe piacere essere giudicati da un giudice davvero terzo, la cui naturale aspirazione alla nomina ad incarichi direttivi non possa nemmeno potenzialmente essere incisa dalla presenza degli inquirenti all’interno del CSM (basterebbe un ordine distinto con le stesse garanzie di autonomia e indipendenza), così come a tutti farebbe piacere un po’ meno clamore e rispetto per la propria persona e la propria famiglia, allorquando ci si vede sbattuti in prima pagina perché sottoposti ad indagine, con la pubblicazione di intercettazioni totalmente svincolate dal contesto se non addirittura manipolate nel significato. Ma la battaglia per il garantismo non si ferma qui, anzi non può cominciare da qui.

Tutto il nostro ordinamento non è capace di essere garantista; non lo è quando legifera, non lo è quando amministra. Non lo sono i soggetti pubblici e privati che assicurano servizi di interesse generale come, ad esempio, la tutela del risparmio. Non lo è il legislatore perché in una serie innumerevole di casi considera il mero rinvio al giudizio od anche la sola condanna in primo grado quale fattore, tal volta automaticamente, preclusivo dell’esercizio di una serie di diritti che vanno dall’elettorato passivo alla capacità di contrarre con la Pubblica Amministrazione. Non lo sono le amministrazioni e i soggetti economici, perché infarciscono le loro policy e talvolta i loro contratti rispettivamente di clausole preclusive o di clausole risolutive espresse che operano automaticamente al ricorrere di un mero rinvio a giudizio.

Così che un imprenditore si vede risolvere un contratto a metà dell’opera per la sola circostanza di essere sottoposto ad un processo che nulla ha a che vedere con l’opera che sta realizzando né tantomeno con la procedura a mezzo della quale gli è stata affidata. Non lo sono le banche, che concedono e soprattutto revocano fidi già concessi avendo come faro prevalente l’informazione sommaria che gli arriva dai giornali, con l’effetto di trasformare un mero avviso di garanzia in uno strumento che porta al fallimento dell’impresa; il tutto con l’aggravante di essere svincolate da ogni forma di controllo giudiziario sulla logicità e giustezza delle scelte adottate.

È così che molte realtà istituzionali, pubbliche o private che siano, ma fortemente incidenti sulla vita economica di cittadini e imprese, finiscono per rincorrersi l’un l’altra per dimostrare quanto abbiano a cuore la questione morale. Ma non è mostrando di calpestare persone e principi che si assicurano comportamenti virtuosi. Così come non è prendendosela solo con giudici e giornalisti che si assicura il rispetto del principio costituzionale di presunzione di non colpevolezza. Il decreto legislativo n. 188 dell’8 novembre 2021, in recepimento della direttiva europea del 2016/343 sulla presunzione di innocenza, si occupa esclusivamente delle autorità pubbliche e non di tutti soggetti privati, quali enti, stazioni appaltanti e istituti di credito, capaci di incidere sulla vita di persone e imprese in modo assai più significativo; peraltro se ne occupa sanzionando le sole dichiarazioni delle autorità pubbliche e non anche i comportamenti di queste, perpetrati e sbandierati a mezzo di protocolli di legalità; che di legale hanno solo il titolo, se ancora nel nostro paese la Costituzione deve rappresentare il parametro primo della conformità di un atto all’ordinamento giuridico vigente.

L’attesa del processo e il processo medesimo continuano così a determinare un effetto anticipato ed espulsivo dalla vita sociale ed economica con effetti frequentemente drammatici. Occorre partire dunque dal legislatore e vietare ogni forma di discriminazione che si fondi sulla mera pendenza di un procedimento penale; passare alle stazioni appaltanti, ai grandi enti economici e agli esercenti il credito per liberarli dall’errata convinzione che per essere virtuosi occorra allontanare arbitrariamente, senza contraddittorio e senza forme di tutela, chi è sotto processo e non ha tuttavia ricevuto dall’autorità giudiziaria competente alcuna inibizione all’esercizio dell’attività economica, anch’essa garantita costituzionalmente.

Se non siamo capaci di fare questo, finiamo per legittimare l’irrogazione anticipata di sanzioni gravi, foriere spesso di danni irreversibili, ad opera di soggetti cui questa prerogativa non è riconosciuta dall’ordinamento e senza che nessuno attenda il vaglio definitivo di un giudice. Così facendo siamo noi e solo noi che trasformiamo i giudici in mostri e i giornalisti in sciacalli. 

Stefano Vinti

Questioni da non confondere. Garantismo e abolizionismo due facce di medaglie diverse. Massimo Donini su L'Unità il 28 Maggio 2023

Una delle espressioni sotterranee, sempre più emergenti, della dialettica destra-sinistra, riguarda il rapporto fra garantismo e abolizionismo delle pene o del carcere. Prospettive molto diverse. Il garantismo, infatti, non ha contrassegnato le politiche della sinistra, ma semmai più quelle centriste, dell’ultimo trentennio. L’abolizionismo, invece, è affiorato solo in qualche stagione delle politiche di depenalizzazione. Per garantismo si intende, tradizionalmente, il rispetto delle garanzie processuali e sostanziali dell’indagato o accusato nei confronti dello Stato e dei suoi organi: di qui il rispetto di tutti i principi costituzionali in materia penale (riserva di legge, divieto di retroattività, sussidiarietà e offensività, responsabilità penale personale e colpevolezza, finalità rieducativa e umanità delle pene, divieto di sproporzione ecc.), e processuale penale (presunzione di innocenza con conseguente trattamento anche mediatico degli indagati; terzietà e imparzialità del giudice; diritto di difesa; “giusto processo”: durata ragionevole, parità delle armi, diritto al contraddittorio; ne bis in idem etc.). Principi che riguardano l’uso delle indagini, dei giudizi e delle pene, e sottendono altresì un atteggiamento culturale neutro rispetto a ideologie, posizioni politiche, sociali, economiche, religiose, nazionali, etniche etc. degli accusati.

Il garantismo ha un volto giuridico-costituzionale cogente, non è né di destra, né di sinistra, e anzi vieta di usare i processi per “giustiziare” avversari politici, o per attuare e perpetuare odiose disuguaglianze. Esso si oppone al giustizialismo e all’ideologia punitivista che chiede la penalizzazione di tutto perché “se non è penale si può commettere”; esso si oppone inoltre all’uso del diritto penale come etica pubblica al posto delle giuste critiche morali o politiche dei comportamenti pubblici che devono essere possibili al di fuori dei processi; non ha passioni punitive, e non attribuisce a procure e giudici funzioni salvifiche della società, né chiede loro di accertare verità storiche collettive.

Di questo garantismo hanno bisogno tutti, ma in particolare alcune componenti della “sinistra” e della “destra”, tradizionalmente attratte da maggiori spinte populiste, punitiviste e dall’uso dei processi penali per combattere avversari politici, fenomeni generali, o tipi d’autore pericolosi, trattati come “nemici”, oppure per eliminare avversari di classe. Questo tipo di garantismo diremmo classico o tradizionale ha ancora oggi un bisogno estremo di diffusione nelle menti e nelle prassi dei governanti e dei politici, della magistratura penale, nonché dell’opinione pubblica. Non è un tema di élite o per oligarchie. La passione garantista deve diventare un romanzo popolare perché ci riguarda tutti. Siamo tutti garantisti è la premessa del nostro dire e fare: è un discorso di “unità” nazionale e di umanesimo della civiltà del diritto. Peraltro, il garantismo è oggi triadico, deve contemplare anche i diritti delle vittime, mirando a forme di riconciliazione o di riparazione, riducendo non solo le sofferenze inutili, sproporzionate o ingiuste per gli autori, ma anche quelle delle persone offese.

L’abolizionismo, invece, è una prospettiva del tutto distinta. Se il garantismo ci può unire, l’idea abolizionista può facilmente dividere in questo momento storico, essendo molto più radicale, se la si collega alla disuguaglianza della popolazione carceraria e dunque a politiche di incriminazione di tipi d’autore a rischio detenzione, che appaiono spesso inevitabilmente di classe negli esiti, anche se non nelle intenzioni. Per abolizionismo si possono peraltro intendere opzioni molto diverse: abolire il diritto penale e le pene, oppure abolire il carcere o le pene carcerarie, oppure aggredire tanta cultura e legislazione punitivista sino ad arrivare a una sorta di minimalismo penale, come lo slogan che dagli anni ’80 del secolo scorso ha animato minoranze di sostenitori di un diritto penale minimo. Ognuno comprende che sotto queste alternative ci sono scenari diversissimi, per nulla tutti desiderabili o praticabili in blocco. Vi aleggia una certa dose di indistinta utopia. Il tema carcere, per esempio, diventa il ‘luogo’ attorno al quale si coalizzano tutti i malesseri verso una società repressiva-punitiva, sì da simboleggiare un bisogno di rivolta o di cambiamento per chi se ne faccia portatore.

Si tratta di istanze “di moda” poco costruite in progetti concreti, sostenute da voci minoritarie non solo dell’opinione pubblica, ma anche degli addetti ai lavori. Viceversa, il garantismo, nel significato prima descritto, può dirsi sicuramente recepito nella coscienza collettiva odierna, anche in quella politica, in modo trasversale, ma è una conquista che deve ancora essere consolidata e rafforzata. Appare perciò confondente, sul piano della comunicazione, mescolare tematiche così distinte: una di garanzie giuridico-costituzionali, come tali cogenti e giustiziabili, e una di prospettive politiche di più libera discussione anche partitica, ma per nulla consolidate. Ci sono affinità tra queste distinzioni e l’idea di rifondare una cultura “di sinistra” partendo da Gramsci. Il martire del Tribunale speciale per la difesa dello Stato è l’autore delle Lettere dal carcere, testimonianza autobiografica di una vittima umanissima di un “delitto di Stato” contro la sua persona, ma è anche l’autore dei Quaderni del carcere, una monumentale raccolta dei taccuini coltissimi sui temi più diversi di cultura, letteratura, politica, filosofia, storia, religione, economia, etc. redatti grazie alla possibilità che un detenuto per delitti politici aveva di usufruire (con ridotte limitazioni) di una letteratura straordinaria e amplissima, mentre oggi giusto la Bibbia o poco più (almeno nella prassi) pare venga consegnato a chi è sottoposto al regime dell’ art. 41-bis.

Orbene, eleggere Gramsci a simbolo dell’uso del diritto penale come braccio violento dello Stato per sopprimere, anziché proteggere, diritti fondamentali, può essere istruttivo: anche a livello internazionale il potere punitivo diviene spesso strumento di oppressione, anziché di protezione, dei diritti. Tuttavia, se si vuole rifondare la politica “della sinistra” richiamandosi a Gramsci, anche chi si può ritenere incompetente o esterno di fronte a un tale obiettivo, è indotto ad avvertire che questo è un tema che occorre inserire nella democrazia costituzionale contemporanea: si impongono nuove analisi culturali e politiche, una mappatura del sapere e dei suoi esponenti della quale i Quaderni offrono un metodo di analisi originalissimo, ma che non riflette l’attualità, né è inserito nel recinto dei diritti costituzionali come garanzie di tutti e di una società aperta. Grandi distanze ci separano da quegli anni, da quel secolo e da quella sinistra (anche allora divisa).

Per esempio, l’idea di una egemonia culturale (di destra o di sinistra) degli intellettuali segue oggi percorsi ben differenti dal passato: i vincoli sovranazionali permanenti sulle politiche interne e le continue pronunce giurisdizionali di varie Corti pongono limiti di rilievo alle politiche nazionali; d’altro canto, gli appuntamenti elettorali permanenti e le diffusioni globali massmediatiche di saperi incontrollati rendono difficile costruire consensi di massa che siano di tipo non populista. Quando gli intellettuali non siano ridotti a meri interpreti (Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, tr. it. Bollati Boringhieri, 2007), è comunque difficile che ritornino legislatori.

Invece, oggi come nel passato, rispettare le garanzie costituzionali minime non significa disporre di un diritto necessariamente liberale, e tanto meno avere realizzato l’uguaglianza sociale, che schiude a programmi politici potenzialmente assai divisivi. Se una società è disuguale, riprodurrà facilmente questa situazione nella popolazione carceraria, anche se la dogmatica giuridica nasconde tale dato. Parimenti, è illusorio pensare che il rispetto dei principi di garanzia sopra ricordati produca di per sé un diritto penale liberale. Solo se si attuasse veramente l’ultima ratio ciò potrebbe accadere, producendosi meno pene e carcere, ma si tratta in tal caso del principio più “politico” di tutti, quello che neppure la Corte costituzionale riesce a rendere normalmente giustiziabile, perché richiede troppe scelte discrezionali.

Se dunque ci si prefigge un obiettivo reale di maggior libertà dalle pene (criminali) e anche (prospettiva non identica) di maggiore uguaglianza sociale, sono altri i mezzi da attivare: politico-economici, in primo luogo, e poi di diritto civile, del lavoro, tributario, uso di sanzioni amministrative efficaci ma non oppressive, o esercizio di diritti scriminanti (che rendono addirittura leciti i fatti). Quanto agli strumenti punitivi in senso stretto, la stessa limitata decarcerizzazione vigente (d. lgs. 150 del 2022), favorita da molte pene sostitutive e dalle riforme sanzionatorie appena attuate, è oggetto di malumori politici. Ecco perché, mentre il garantismo giuridico-costituzionale può produrre più facilmente consenso, un discorso che affronti il rapporto tra carcere e disuguaglianza, o qualche forma più forte di abolizionismo (riduzionismo, minimalismo, depenalizzazione, decarcerizzazione), dovrebbe andare ben oltre il limite dei ‘vincoli’ o dei paradigmi costituzionali penali classici, spingendosi verso interpretazioni massimaliste o più intense dell’uguaglianza sostanziale (art. 3 cpv. Cost.) o dei diritti positivi.

Il costituzionalismo penale resta dunque una condizione della democrazia, ma rischia di affidarsi ancora troppo ai controlli giurisdizionali in chiave carcerocentrica, finché non abbia fatto propri i programmi della giustizia sociale o del riduzionismo punitivo. Si tratterebbe allora di intenderlo come garantismo di tutti i diritti sociali, in un significato politico-costituzionale (così ora L. Ferrajoli, La costruzione della democrazia. Teoria del garantismo costituzionale, Laterza, 2021): e a questo punto il suo contenuto sarebbe diverso, andando ben oltre le dimensioni giuridico-costituzionali della società “punitiva”. Massimo Donini 28 Maggio 2023

Il garantismo è lotta di classe: le nostre prigioni sono piene di poveri e di emarginati. Iuri Maria Prado su L'Unità il 18 Maggio 2023

Vittime del nostro sistema penale e carcerario sono perlopiù le persone povere ed emarginate. E, salvo credere che una genetizzata attitudine criminale contrassegni i ranghi derelitti della società, quell’evidenza statistica dimostra che, tra le tante sciagure, la pretesa di giustizia sociale perseguita per via giudiziaria produce anche questa: la povertà e l’emarginazione in galera.

È questo un profilo dell’ingiustizia italiana di cui si fa fatica a parlare così a destra come a sinistra. A destra, in primo luogo, perché si tratterebbe di rivendicare (e sarebbe imbarazzante) un modello che dopotutto è abbastanza aderente all’idea di giurisdizione simpaticamente diffusa da quelle parti, e cioè che il carcere è penoso e bisogna semmai andarci cauti quando c’è di mezzo la gente dabbene, ma è il posto giusto per la canaglia. E a sinistra, dove spesso si trascura che la mancata tutela dei diritti individuali e di libertà ha un ricasco primario e tanto più devastante proprio a carico dei più bisognosi.

A sovraffollare le carceri non è l’emergenza di una pericolosità sociale opportunamente messa in condizione di non nuocere: è in gran parte un’altra specie di “carico residuo”, il prodotto di normative – non solo, ma innanzitutto in materia di droga e di immigrazione – che con il proposito di proteggere la società dal male in realtà lo producono e poi se ne assolvono chiudendolo in una cella. La riduzione del carcere a quel che si dice una discarica sociale non è un’aberrazione del sistema: è il sistema, cioè il frutto della sistematica incapacità di cui fa mostra un ordinamento sociale quando costruisce immense zone di illegalità e poi si lamenta se ad occuparle va chi è escluso da qualsiasi altra parte.

I delitti legati all’immigrazione clandestina non sono dovuti all’immigrazione, ma alle norme che la fanno clandestina: e in carcere non ci sono i cosiddetti trafficanti di esseri umani, ma i senza-diritti sbarcati qui e ai quali si offre l’alternativa di essere smistati verso le piantagioni schiaviste o, appunto, verso gli uffici di collocamento della criminalità. I reati connessi alla droga non dipendono dalla droga, ma dal regime proibizionista che la presidia: e in prigione non c’è il plenipotenziario del cartello, ma il ragazzo magrebino preso in un parco con una manciata d’erba. L’adolescente emarginato pizzicato a rubare ha un omologo che invece rispetta la legge, ma rinfacciare al primo la probità del secondo non ha nessun senso quando l’uno e l’altro vivono in un ambiente in cui si può solo “sperare” che un giovane non delinqua.

Garantismo, in una situazione come questa, è anche più che ripristino di una giustizia decente: è lotta di classe. Iuri Maria Prado

Perché essere garantisti significa stare dalla parte di imputati e condannati. Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 16 Gennaio 2023.

L’individuo diventa il soggetto debole nel momento in cui è sottoposto alla forza dello Stato. Per cui è importante proteggerlo non perché non ha commesso delitti o perché è innocente, ma perché è assoggettato a questo potere, che in quanto tale potrebbe essere esercitato male

A volte anche il più convinto garantista risponde male, e cioè negando, se gli si addebita di essere amico dei delinquenti: insomma di stare dalla parte dei ladri anziché da quella delle guardie. È comprensibile, ma è appunto un errore perché la risposta dovrebbe essere quest’altra: «Sì, certo».

Il garantista sta sempre dalla parte dei corrotti, dei tangentisti, dei disonesti, quando essi sono sottoposti alle cure di giustizia e alla pretesa punitiva del potere pubblico: perché essendovi sottoposti essi sono la parte debole, quella che perciò, e cioè per quello stato di soggezione, tanto più merita l’attenzione garantista.

E l’esigenza è tanto più urgente quando la giustizia e il potere pubblico si giustappongono al poco di buono, al mariuolo, al criminale, con fare non solo inquisitorio, ma moraleggiante, nell’ostentazione dell’onestà giudiziaria e delle mani pulite, intestandosi la difesa delle vittime proprio mentre ne fanno altre, ma con violenza legittimata dal sigillo di Stato.

E siccome l’andazzo è pressoché sempre questo, con quella giustizia e quel potere pubblico posti a usurpare una posizione di supremazia morale che non ha conferito proprio nessuno, e certamente non la legge cui essi in primo luogo dovrebbero essere subordinati, occorre parteggiare per principio in favore della controparte: la persona, l’individuo che diventa il soggetto debole per il sol fatto di essere soggetto alla forza dello Stato.

La presunzione di innocenza, la guarentigia per il fatto che quell’individuo possa in realtà non essere responsabile di ciò che il potere pubblico gli imputa, sono pur importantissimi criteri protettivi ma in realtà semplici corollari di un principio superiore, il quale non ha nulla a che fare con la colpa, con la fondatezza o no dell’accusa e via discorrendo: vale a dire che l’ordinamento democratico e liberale, quello che qui non è vigente, si predispone al proprio contenimento, si auto-limita e dunque protegge, oltre e anzi prima che sé stesso, le vittime della propria forza, garantendo loro diritti non perché non hanno commesso delitti, non perché sono innocenti, ma perché sono assoggettati a quell’imperio.

Il garantista tiene in sospetto il potere pubblico, e quello giudiziario in particolare, non perché esso è esercitato male, ma perché è potere, il quale in sé reca il pericolo di essere esercitato male, tanto più quando si ammanta di bene: e lo tiene in sospetto perché, anche se quello si esercita correttamente, lo fa in ogni caso sui diritti degli individui, per i quali occorre avere simpatia non perché sono buoni ma perché sono individui.

Quindi, sì, c’è caso che il garantista sbagli: sbaglia quando non si pone per principio, sempre e in ogni caso, dalla parte degli imputati e dei condannati, cioè i deboli.

I Liberali.

Ed ecco perché (almeno noi liberali) non possiamo non dirci garantisti. Giuseppe Benedetto, presidente della Fondazione Luigi Einaudi. Il giustizialista pone priorità agli aspetti securitari di ordine sociale. Giuseppe Benedetto (presidente Fondazione Luigi Einaudi) su Il Dubbio il 15 agosto 2023

Cercherò nel breve spazio concesso da un articolo di spiegare perché sono garantista e perché un liberale non può che essere garantista. Lo farò partendo dalla etimologia del termine garantismo, ovviamente “garanzia”. Così come in contrapposizione analizzerò l’etimologia del termine giustizialismo che non può che essere “giustizia”. Partendo da questo assunto è subito da rilevare come la garanzia non può che attenersi al singolo, al cittadino, all’individuo. Così come la giustizia non può che rivolgersi alla società nelle sue articolazioni “giustizia sociale”.

Orbene per chi come me, come per chiunque si dica e sia effettivamente liberale, “la più piccola minoranza al mondo è l’individuo, chiunque neghi i diritti dell’individuo non può sostenere di essere un difensore delle minoranze” ( Ayn Rand), le garanzie per l’individuo vengono prima di tutto. Anche prima delle pur comprensibili esigenze della società. Senza disturbare, sol per motivi di spazio, il maestro di tutti noi Friedrich von Hayek, a me pare che su questo aspetto tra liberali si possa essere d’accordo. La società è un insieme di individui.

Prima ancora dunque dei sacri principi del Diritto penale liberale, di Cesare Beccaria, dell’afflato verso una giustizia giusta, equilibrata, non inutilmente afflittiva, noi liberali non possiamo che dirci garantisti in quanto difensori dell’individuo, nel caso di specie di quello speciale individuo che è il cittadino.

Il giustizialista pone priorità agli aspetti securitari di ordine sociale, che possono giustificare la limitazione delle garanzie per l’individuo in nome di interessi superiori: lo Stato, la sicurezza, l’esemplarità della pena, la punizione del colpevole sino all’odiosa frase “gettare la chiave”. Appare del tutto ovvio che lo Stato etico, le dittature di destra e di sinistra, facciano del giustizialismo la loro stessa ragion d’essere. Sarebbe ben strano dunque trovare un liberale giustizialista, una vera e propria contradictio in terminis.

Sono dunque scettico, stante l’evidente posizione minoritaria di noi liberali, che questo come altri Governi, di destra o di sinistra, possano giungere a riforme della Giustizia effettive, non solo declamate, che mettano al centro innanzi tutto l’individuo. Troppo forte è in loro il richiamo della foresta, la foresta oscura del “lo vuole il popolo”, da cui “populismo”. Tutto torna.

Per questi Governi li popolo indistinto, non il cittadino, vuole pene sempre più dure (sino alla pena di morte); vuole punire e basta, poco interessa il 3° comma dell'articolo 27 della Costituzione, il quale sancisce che «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”; giustifica ogni intrusione nella vita del cittadino ( sino alla sua camera da letto) in nome della superiore esigenza del bene comune. I liberali si accontentano di vivere senza essere vessati, senza sentirsi controllati dal grande fratello.

John Stuart Mill nel suo Saggio sulla libertà scriveva “lo scopo dei cittadini era di porre dei limiti al potere sulla comunità concesso al governante: e questa delimitazione era ciò che essi intendevano per libertà”. Per i liberali ancora ora questa è la Libertà.

Carlo Nordio.

Le carceri. La giustizia secondo Nordio: classista, retrograda e poliziesca. Iuri Maria Prado su L'Unità il 10 Agosto 2023

Sarebbe ingeneroso attribuire alla responsabilità del Guardasigilli, Carlo Nordio, l’organizzazione dell’orgia forcaiola che via via è venuta a istituzionalizzarsi nei provvedimenti della maggioranza in materia di giustizia. Ingeneroso sarebbe fare il conto delle pernacchie e degli sberloni con cui l’azione di governo ha dato riscontro ai vagheggiamenti da convegno e da salotto di quel liberale a parole. Né gli si può rinfacciare la scelta, dopotutto legittima, di militare in una formazione parlamentare ed esecutiva anti-liberale, interprete di una giustizia classista, retrograda, esclusivamente afflittiva, poliziesca. È la tradizione del liberalismo italiano: disinibito in cenacolo e recessivo in auto blu ministeriale; Beccaria sul comodino e pena di morte in emergenza.

Ma dire che non è colpa esclusiva di Nordio, responsabile semmai di concorso interno all’associazione carcerista di centrodestra, serve soprattutto a tenere dritta la barra del giudizio contro una cultura e una prassi dell’amministrazione della giustizia che da quelle parti è ampiamente collegiale: ed è messa tutt’al più in bella copia dal giurista veneziano, ma nella sostanza sarebbe uguale senza di lui. L’estensione dello spionaggio giudiziario, tramite intercettazione, su ulteriori ettari della legislazione penale, con cimici e trojan posti a presidiare le zone contigue alla galassia antimafia sino a trasformarla nel buco nero che ingurgita tutto, dal traffico di rifiuti al sequestro di persona, non è meglio di uno sputo in faccia al pluridecennale tentativo garantista di limitare il ricorso a quei mezzi invasivi e di sistematica violazione dei diritti individuali.

La previsione di “condizioni meno stringenti per l’autorizzazione e la proroga delle intercettazioni stesse”, trasfusa nei manifesti e nei post social della presidente del Consiglio che rivendica di aver in tal modo “difeso la legalità antimafia”, non è altro che una delega supplementare al potere sconfinato dell’accusa pubblica e al dovere di compiacenza del giudice nell’assoggettarvisi. “Ora i servitori dello Stato”, dice Giorgia Meloni, “sanno di avere un governo che sta dalla loro parte”. Vuol dire dalla parte di chi reclama più reati, più carcere, più rastrellamenti giudiziari, più cittadini esposti all’occhio inquirente del potere pubblico, più libertà tentacolare della piovra giudiziaria.

Gli slogan come quello, messi insieme a margine del Consiglio dei ministri dell’altra sera, fieri nella riaffermazione delle virtù del carcere duro e dei rimedi ostativi, altra faccia della moneta governativa che enuncia le ragioni del proprio sdegno per l’imputazione di un sottosegretario e per l’affronto indiziario ai danni delle gentildonne ministeriali, sono i facili e osceni esperimenti con cui questo esecutivo si fa ventriloquo della piazza che chiede le solite cose di piazza, sicurezza e onestà e tutela delle vittime: cioè le cose perseguite (e non ottenute) con gli strumenti che da decenni fanno e assolvono l’ingiustizia italiana. Disastrata com’è l’amministrazione della giustizia, e ormai in irrimediabile derelizione lo Stato di diritto in questo Paese, magari qualcuno poteva pensare che fosse impossibile fare peggio. Sbagliava. Iuri Maria Prado 10 Agosto 2023

Il decreto del Guardasigilli. La legge ascondo Nordio: se sei povero non puoi difenderti. Il ministro impone nuovi limiti di lunghezza degli atti: ottantamila caratteri per cause inferiori a 500mila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare. Iuri Maria Prado su L'Unità il 17 Agosto 2023

Con un decreto dell’altro giorno il ministro Nordio ha emesso un regolamento che stabilisce fino a che punto e in quale misura i cittadini possono far valere i propri diritti per iscritto: massimo ottantamila caratteri, ma proprio quando si tratta di inquadrare la causa, insomma all’inizio, quando bisogna spiegare al giudice di che cosa si tratta.

Per le fasi successive del processo, penitenza a scalare, cinquantamila, diecimila. E cara grazia. Dove mai possa reperirsi un argomento decente per considerare giustificata e costituzionale una simile follia, che calpesta la libertà del cittadino di difendersi a proprio giudizio, senza un giudice o un ministro con il potere di sorvegliarne le eventuali verbosità, è un mistero. E ad attenuare il carattere smaccatamente autoritario e dirigista della misura non sta certo la previsione che consente di spiegare al giudice che lo spazio non basta, e ne occorre di più perché la faccenda è complessa: che in pratica è l’implorazione con cui il suddito chiede al sovrano di potersi difendere compiutamente, e quello valuta, vede un po’ come gli gira, chissà che non si tratti di qualcuno che pensa di poter annoiare il tribunale con troppe pagine su inutili fregnacce.

Ma il gioiello eminente nel castone di questa giustizia a frasi predeterminate è quest’altro: che quel contingentamento del diritto di difendersi e di esporre le proprie ragioni mica è indiscriminato, nossignori, vale solo per le cause di valore inferiore ai cinquecentomila euro. Al di sopra, uno fa quello che gli pare, sbatte sul tavolo del giudice diecimila pagine di fesserie in colletto bianco e quello zitto, perché la tutela di un dritto milionario non vorrai davvero restringerla agli ottantamila caratteri. L’idea che un’ingiustizia enorme, bisognosa di un contrasto difensivo abbondante, possa riferirsi anche a un caso apparentemente minuto, non sfiora i redattori di questi spropositi normativi.

Se un pensionato deve difendere dalla predazione illegittima di una multinazionale il proprio diritto su un orto di qualche metro quadrato, di poche migliaia di euro di valore, è giusto che si becchi il bavaglio di Stato, che scriva poco e non rompa le scatole. Se invece la causa è “ricca”, liberi tutti. Il fatto che poi queste limitazioni riguardino non solo le difese dei cittadini, ma anche gli atti dei magistrati, insomma le sentenze, non è segno di equanimità legislativa ma: è solo l’altra faccia di un’idea di giurisdizione “a punti”, a slide, a crocette; l’idea che la giustizia, per essere efficiente, debba ridursi a un’attività compilativa di formulari, uno, due, ics, la giustizia-totocalcio nell’attesa che l’intelligenza artificiale consenta al magistrato di dedicarsi alle cose importanti, cioè gli stipendi e le ferie e i convegni contro la politica corrotta, altro che queste balle dei diritti dei cittadini.

Non cito neppure, anche se non è un dettaglio, il palese svilimento che questa bella novità rappresenta per il ruolo dell’avvocato, ridotto a un questuante da educare ai riti della giustizia a difesa calmierata. Lasciamo perdere questo profilo della questione, che pure c’è. Quel che allarma è il ricasco, appunto, sulle libertà e sui diritti del cittadino, che se non ha cause a sei zeri da far valere è esposto al riduttore ministeriale che gli taglia la richiesta di giustizia, e buonanotte al principio costituzionale secondo cui la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del processo. Diventa un diritto a numeratore di caratteri, diciamo. Iuri Maria Prado 17 Agosto 2023

Uno, nessuno e Carlo Nordio: tutte le contraddizioni del Guardasigilli. Liberale, ma eletto con FdI. Ex magistrato, ma spesso in contrasto con i colleghi (e con le sue passate opinioni) da quando è nel governo Meloni. Ne denuncia le ingerenze, ma ha riempito il dicastero di toghe. Tra bocconi amari e scivolini imperdonabili, ecco le due facce del ministro. Sergio Rizzo su L’Espresso il 18 agosto 2023.

«Sono iscritto all’Associazione Luca Coscioni e credo che la vita sia un diritto disponibile del singolo. Credo che ognuno abbia il diritto di morire in pace e come preferisce». Parola di Carlo Nordio, 76 anni da Treviso, ex magistrato e ministro della Giustizia del governo di Giorgia Meloni: liberale, ma eletto con Fratelli d’Italia. Nel suo caso i «ma» sono tanti. Così tanti da rischiare di diventare troppi.

Il governo vuole la legge per far istituire il reato universale di maternità surrogata, «ma» l’Associazione Coscioni, cui il ministro rivendica con orgoglio l’appartenenza, è radicalmente contraria.

Nordio si professa – nella stessa intervista a Domenico Basso del Corriere del Veneto, dalla quale sono tratte queste dichiarazioni – «visceralmente nemico di ogni forma di dittatura» al punto da avere scritto un libro «sulle ragazze del Soe, che hanno organizzato la Resistenza in Francia e sono state uccise dalla Gestapo», «ma» è stato eletto in un partito che tracima di nostalgici del Ventennio e sta in un governo la cui presidente fatica a pronunciare la parola «antifascista».

Si potrà dire che in Italia non è poi così inusuale passare sopra alle convinzioni personali quando c’è di mezzo la ragion politica. Giusto. Se non ci fossero ben altri «ma» decisamente più pesanti, almeno per un magistrato considerato tutto d’un pezzo che, da quando ha la toga, non cessa di denunciare lo strapotere dei pubblici ministeri, le inefficienze della giustizia e la presunta incongruenza della carriera unica dei giudici.

«Nordio lamenta in continuazione l’ingerenza dei magistrati nel processo legislativo della giustizia», ricorda Enrico Costa, figlio di quel Raffaele Costa liberale e pioniere ormai più di trent’anni fa della guerra agli sprechi pubblici. «Poi però», aggiunge il parlamentare di Azione (partito di opposizione che, peraltro, ha avuto talvolta parole di apprezzamento per Nordio), «è lui stesso che alimenta quella ingerenza». E fa il caso dei decreti delegati della riforma del Csm della precedente responsabile del ministero, Marta Cartabia, ancora da emanare.

C’è da rivedere il meccanismo anacronistico con cui si valuta il lavoro dei magistrati? E c’è pure da stabilire come si riduce il numero assurdo dei magistrati (200) che si possono collocare fuori ruolo per ricoprire altri incarichi istituzionali meglio pagati e soprattutto esterni da procure e tribunali? Roba indigeribile per il corpaccione della magistratura, che non ne vuole sapere. E così i decreti, che dovevano essere pronti entro giugno, slittano di altri sei mesi e vengono affidati a una commissione di 26 persone: di cui 18 magistrati. Con una decina di loro già fuori ruolo, che facendo parte di una commissione che deve decidere di tagliare i fuori ruolo, non sono esattamente nel campo dell’imparzialità.

Per non parlare della bozza che riguarda la revisione del sistema di valutazione dei magistrati, il 96 per cento dei quali oggi ha il bollino di bravo bravissimo. Dice che le «gravi anomalie» per cui un magistrato è passibile di valutazione negativa si producono solo quando c’è una «marcata preponderanza» di fallimenti della sua attività giudiziaria. Significa che per meritarsi una macchiolina sul curriculum un magistrato dovrebbe toppare almeno metà dei procedimenti. Complimenti.

La riforma Cartabia concede poi due anni per rivedere le nuove norme sul processo penale. E anche qui, affonda Costa, «ecco pronta una commissione ministeriale con più di 40 persone, di cui ben 29 magistrati». Alla faccia del famoso rischio d’ingerenza…

Il succo è che un ministro-magistrato con il proposito di allontanare quanto più possibile i magistrati dal ministero ha invece rimpinzato il ministero di magistrati. Su Repubblica, Liana Milella ha dato conto lo scorso maggio dell’intenzione di ingigantire ancora il plotone dei togati fuori ruolo in servizio al ministero, nel tentativo di non perdere i finanziamenti del Piano nazionale di ripresa e resilienza destinati alla giustizia. Anche perché – se è vero ciò che denuncia Costa, secondo cui dei 411 milioni destinati all’edilizia giudiziaria non sarebbe stato utilizzato nemmeno un euro – la situazione è tutt’altro che rosea. Per giunta, l’obiettivo della riduzione dell’arretrato, una delle condizioni principali poste dall’Europa per dare il via libera agli interventi in questo settore, sembra molto lontano dall’essere raggiunto. Soprattutto nella giustizia civile, dove a fronte di un abbattimento delle cause pendenti del 40 per cento, nel 2022 non si è arrivati che a un misero 6 per cento.

Così, per cercare di recuperare i ritardi nell’utilizzo dei fondi, ora si ingaggia un altro direttore generale in forza nello staff di Nordio, presumibilmente con i galloni da vicecapo di gabinetto. E siamo a quattro. Un capo e tre vice. Il capo si chiama Alberto Rizzo, magistrato e tecnico: manda avanti la macchina del ministero e i maligni sospettano che sia ormai sazio dell’esperienza. La vicaria è Giusi Bartolozzi e a lei spetta la responsabilità politica del gabinetto, anche perché, oltre a essere magistrata, è anche politica. Nella scorsa legislatura, infatti, era seduta alla Camera con Forza Italia. Sua una proposta di legge per trasferire il potere disciplinare nei confronti dei magistrati dal Csm a un organismo nominato in maggioranza dalle Camere, cioè dalla politica. Con Nordio c’è quindi una sintonia perfetta.

Il secondo vicecapo di gabinetto, Francesco Comparone, invece, è decisamente più in sintonia con il sottosegretario Andrea Delmastro Delle Vedove, ex giovane missino e figlio d’arte: il padre Sandro è stato deputato di An. È l’uomo forte del ministero, Comparone l’ha imposto lui. E questo la dice lunga sui rapporti di potere anche ai vertici del palazzone di via Arenula. Dove il peso del partito di Fratelli d’Italia è tutt’altro che marginale.

Per carità: Carlo Nordio è figura di grande prestigio nel centrodestra ed è stato eletto nelle liste FdI. Ma con il partito e l’apparato meloniano il magistrato che al tempo di Tangentopoli mise sotto inchiesta Massimo D’Alema e Achille Occhetto, guadagnando l’apprezzamento della destra, c’entra come i cavoli a merenda. E infatti la marcatura nei suoi confronti è sempre più stretta.

I bene informati dicono che volesse nominare Garante dei detenuti l’ex deputata radicale Rita Bernardini, già fra i fondatori dell’Associazione Luca Coscioni. Ma invano. Il posto dovrebbe andare a Felice Maurizio D’Ettore, ex deputato forzista non ricandidato alle politiche con Coraggio Italia e traslocato prima delle elezioni nelle schiere di Giorgia Meloni. La solita storia.

Pure sulla inquietante vicenda delle notizie riservate sul caso Cospito – usate per attaccare la sinistra dal deputato meloniano del Copasir, Giovanni Donzelli, cui le aveva a quanto pare spifferate il sottosegretario meloniano Delmastro – ha dovuto masticare amaro. L’informativa al Parlamento era assolutoria ben oltre l’accettabile, per un magistrato della sua esperienza.

La stessa esperienza che avrebbe dovuto evitargli uno scivolone imperdonabile come quello del paragone fra i suicidi a ripetizione nel carcere di Torino, dove le condizioni di detenzione sono disumane, e quelli dei gerarchi nazisti Hermann Göring e Robert Ley. Pensando forse di chiudere così un'altra pagina vergognosa per la giustizia italiana. Sentite qua. L'ultima suicida alle Vallette, una nigeriana di 43 anni che si è lasciata morire di fame, era secondo Nordio "sotto strettissima sorveglianza". Ma in questi casi, dice il ministro, "non c'è sorveglianza che tenga. Anche al processo di Norimberga due persone si sono suicidate nonostante avessero lo spioncino aperto 24 ore su 24".

E c’è stato pure chi non ha mancato di sottolineare l’apparente contraddizione fra la sua riforma della giustizia appena presentata al Senato, che limita la pubblicazione delle intercettazioni telefoniche, e il decreto con cui il governo renderebbe invece più agevoli le intercettazioni a carico di mafiosi e terroristi. Contraddizione che a ben vedere, in effetti, non esiste. Mentre esiste un suggeritore del decreto governativo che, però, non è Nordio. Si tratta del sottosegretario alla Presidenza, Alfredo Mantovano, magistrato, ex deputato di An, potente alter ego di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi.

Definirlo ministro-ombra della Giustizia sarebbe troppo. Ma quando Nordio ha proposto di riformulare con la sua riforma anche il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, da lui ritenuto troppo fumoso, è bastato il niet di Mantovano («Ci sono altre priorità») per far evaporare istantaneamente l’idea. Facile trarre le conclusioni.

Nella riforma dell’ex magistrato veneto – liberale e socio della Fondazione Casa dei liberali che porta il nome di Luigi Einaudi – resta l’abolizione dell’abuso d’ufficio. Vero. Ma su quello Meloni & c. non hanno niente da dire. Quanto alla mitica separazione delle carriere, per cui il Nostro ha quasi perso la voce, siamo ancora sulla Luna.

Estratto dell'articolo di Giovanni Tizian per “Domani” il 30 giugno 2023.

C’è chi la chiama zarina, chi addirittura la eleva a ministra ombra. Di certo Giuseppa Lara Bartolozzi, meglio nota come “Giusi” Bartolozzi, è la donna più potente al ministero della Giustizia di via Arenula. Influente, ma soprattutto temutissima, perché da mesi gode della stima incondizionata del guardasigilli Carlo Nordio. 

Fiducia mai messa in discussione, neppure quando Bartolozzi ha mostrato, a detta di chi conosce bene le dinamiche degli uffici dell’ex pm, di aver gestito faccende delicatissime con esiti non troppo felici. 

Bartolozzi, o “la ministra” come la definiscono anche a Palazzo Chigi, è una magistrata. Giudice in Sicilia, è passata pure dalla sezione fallimentare del tribunale di Palermo. La zarina è una tecnica, ma è l’unica del gruppo di collaboratori di Nordio ad aver avuto anche esperienze politiche, visto che in passato è stata eletta con Forza Italia.

Una passione per la politica attiva, e per un politico che è suo compagno: cioè Gaetano Armao, avvocato, siciliano, ex assessore regionale e vicepresidente della regione ai tempi di Nello Musumeci presidente. Armao è una figura di relazioni profonde con il sistema politico, giudiziario e finanziario siciliano e nazionale. 

Oltre alla relazione sentimentale, i due hanno fatto parlare di loro per una vicenda poi finita pure al Consiglio superiore della magistratura nel 2018. Tutto era nato da un esposto firmato dall’ex moglie di Armao, che avrebbe dovuto ricevere gli alimenti dopo la separazione.

Tuttavia, intervenne il tribunale di Palermo con il pignoramento dello stipendio del politico a favore proprio della nuova compagna Giusi, con cui aveva firmato una scrittura privata. La decisione del tribunale impedì così alla prima moglie di ottenere quanto le sarebbe spettato. 

[…] Il caso fu sottoposto all’attenzione del Csm, senza però conseguenze sull’attuale vice capo di gabinetto del ministro Nordio. Non risultano, infatti, procedimenti avviati dopo la consegna dell’esposto.

[…]  Di certo però non è la prima volta che Bartolozzi finisce all’attenzione della commissione disciplinare: Domani ha scoperto che è stata assolta nel 2012 applicando l’articolo 3 bis, che recita: «L’illecito disciplinare non è configurabile quando il fatto è di scarsa rilevanza». 

Bartolozzi non aveva infatti indicato quale causa di incompatibilità, dopo la nomina al tribunale di Palermo, la professione della sorella, avvocata del foro della città. Non lo ha fatto, questo è stato accertato e c’è scritto in sentenza. Tuttavia è vero che la condotta di Bartolozzi, secondo i membri della commissione disciplinare, ha violato la norma ma solo formalmente. Perché in quel periodo la sorella non aveva trattato fascicoli in conflitto con la giudice ora potente dirigente del ministro Nordio.

Ora Bartolozzi è al fianco di Nordio. L’incarico di vice capogabinetto con funzioni di vicario le è stato conferito il 24 ottobre 2022: compenso annuale lordo di 151mila euro più un trattamento economico accessorio di quasi 38mila euro. 

Berlusconi come mito, critica nei confronti della categoria a cui lei stessa appartiene, la sua propensione per la politica è forse il suo punto debole da “tecnica”: i suoi nemici malignano che molti dei suggerimenti offerti a Nordio siano frutto di calcoli per un suo eventuale ritorno nella politica attiva, questa volta nelle file di Fratelli d’Italia.

Fonti interne al ministero e al partito di Giorgia Meloni accostano Bartolozzi al sottosegretario Andrea Delmastro: a lui si sarebbe avvicinata la magistrata siciliana, che su Nordio ha un’ascendente assoluto. 

Anche se i consigli della donna a volte lo fanno andare a sbattere. Come nel caso della guerra alle intercettazioni, che non piace né alla Meloni né alla Lega […] 

Di certo le questioni che hanno allarmato maggiormente la maggioranza per la gestione che ne è stata fatta sono due: caso Cospito e caso Uss. Su entrambi, dicono da Palazzo Chigi, Nordio sarebbe stato «mal consigliato da Bartolozzi».

Partiamo dalla gestione del 41 bis per Alfredo Cospito, l’anarchico insurrezionalista autore della gambizzazione del manager di Ansaldo Nucleare, Roberto Adinolfi. Nel dibattito che è seguito sono accadute molte cose, alcune si sono caratterizzate per l’utilizzo di metodi ampiamente oltre il limite della lotta parlamentare. 

Il campione di tale strategia è stato Giovanni Donzelli, vicepresidente del Copasir e deputato di Fratelli d’Italia: durante il dibattito in aula del 31 gennaio 2023, a Montecitorio, ha letto passaggi integrali di una relazione del gruppo speciale della polizia penitenziaria che opera all’interno delle sezioni di carcere duro, il 41 bis. 

È noto che quei documenti, contenenti informazioni sensibili sul detenuto anarchico e un gruppo di boss mafiosi, sono stati così sfruttati da Donzelli per colpire l’opposizione. Chi aveva fornito quelle informazioni a Donzelli era Delmastro, suo coinquilino che da sottosegretario ha la delega alla polizia penitenziaria. 

[…] Il 2 febbraio, due giorni dopo l’azzardo di Donzelli, il ministro Nordio ha lanciato il salvagente al suo sottosegretario. Il tentativo, però, si è rivelato maldestro: quegli atti, ha sostenuto il guardasigilli, non erano segreti, ma solo a “limitata divulgazione”. L’inchiesta della procura di Roma dimostrerà esattamente il contrario. 

[…] Più fonti all’interno del palazzo di via Arenula indicano nella vice capo di gabinetto Bartolozzi la persona che ha gestito il complesso dossier Donzelli-Delmastro. «Ha scavalcato tutti», ripetono, «e la comunicazione che è passata ha messo il ministro in difficoltà».

In pratica la vice capo di gabinetto ha scelto per Nordio la strada più impervia, e lui ha accettato il rischio. Nonostante più persone dello staff erano contrari, e avrebbero suggerito un profilo più basso per evitare a Nordio di esporsi su una vicenda scivolosa e di sicura trattazione della procura di Roma. 

Anche perché i ben informati sostengono che il ministro avesse ricevuto pure una telefonata della presidente Giorgia Meloni: voleva sapere dal guardasigilli se qualcuno dei suoi si era macchiato di condotte irregolari sulla gestione del dossier. Nordio, invece, ha preferito altri consigli e coperto le responsabilità di Delmastro, finché non sono emerse con l’indagine della procura di Roma.

Tra i corridoi di via Arenula è noto poi un altro episodio rivelatore del metodo Bartolozzi. Nei giorni caldi del caso di Artem Uss, il cittadino russo fuggito dai domiciliari nel Milanese, Nordio – sempre suggerito da Bartolozzi, i due per definire le strategie fanno lunghe riunioni a due nella stanza del ministro - ha infatti scelto lo scontro con la magistratura della procura di Milano. 

A tal punto che l’associazione nazionale magistrati reagì all’avvio dell’azione disciplinare da parte del ministero nei confronti della corte d’appello di Milano, accusando i giudici di grave negligenza. Un atto durissimo, non condiviso da tutti all’interno del ministero. Una linea che ha scatenato non solo la guerra con la magistratura, ma che è stata criticata perfino dagli avvocati. 

Contattata da Domani più volte per una replica, la magistrata ha con garbo rimandato per via di una riunione. Richiamata dopo diverse ore, era ancora impegnata seppure avesse garantito di ricontattarci. Il giorno successivo abbiamo tentato un’ultima volta. Alla fine non ha più risposto. 

Al ministero del resto accadono cose straordinarie dal giorno in cui si è insediato l’ex magistrato che sognava di fare il ministro. Sono triplicate le scorte. Oltre al ministro, naturalmente obbligatoria, troviamo altre otto persone con la tutela: cioè protetti da un agente e dotati di un’auto non blindata. Dal capo di gabinetto ai vice capi. Inclusa Bartolozzi, per la quale già prima del pericolo anarchico era stato disposto un dispositivo di protezione. […]

Quarant’anni dopo l’arresto di Enzo Tortora, arriva la riforma della giustizia giusta. La giustizia è un bene comune che riguarda tutti e la Riforma Nordio propone finalmente un approccio diverso. Un fatto che lascia sperare che si possa restituire a tutte le cittadine e i cittadini una giustizia giusta. A quarant’anni dal caso Tortora, una riflessione. Gaia Tortora su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Quarant’anni dopo di anni ne ho 54 e alle 8.00 di mattina mi trovo in uno studio televisivo, ironia della sorte per condurre il dibattito di Omnibus che verte sulla giustizia. In Consiglio dei Ministri sono appena passati i primi provvedimenti della Riforma Nordio tanto attesa.

Alla stessa ora, quarant’anni fa uscivo di casa quattordicenne per fare il mio esame di terza media e in poche ore la mia, la nostra vita veniva stravolta. Sono andata a scuola che avevo un padre perbene e onesto. Sono tornata a casa che era diventato per tutti un mostro sbattuto senza pietà in TV ad aprire l’edizione straordinaria.

Tra quei 14 anni e i miei 54 di oggi è passato di tutto. Dolore, rabbia, paura. Mai vergogna. E soprattutto, abbiamo combattuto contro un immondo sistema di macelleria giudiziaria e di un sistema di certa informazione che a quanto pare non vedeva l’ora di contribuire a distruggere una vita e a segnarne profondamente altre.

La riforma della giustizia da sempre è divisiva. Se sei garantista sei ladro, se non lo sei un forcaiolo. Ora io non entro nel merito dei piccoli provvedimenti introdotti dalla prima parte della Riforma Nordio ma reputo che siano segnali culturali importanti. Non cristallizziamoci ancora una volta sul dibattito tra tifoserie.

A me piace pensare che questa sia l’occasione di un approccio diverso perché la giustizia è un bene comune che riguarda tutti. Anche quelli che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle maglie non solo di un errore ma anche di un meccanismo perverso, dove devi dimostrare non di non essere colpevole ma di essere innocente. Questo non è l’inizio della Riforma della giustizia di Berlusconi o di Tortora. Questa deve essere la riforma della giustizia giusta di tutte le cittadine e i cittadini. Restituiamola a loro. Gaia Tortora

E' stato il ministro più bersagliato. Nordio più forte del fuoco amico, una riforma non si scrive in un giorno. Benedetta Frucci su Il Riformista il 16 Giugno 2023 

Fin dalla nascita del Governo Meloni Carlo Nordio è stato il ministro più bersagliato. Dalla magistratura, democratica o meno che sia, come Paolo Pandolfini ci racconta nell’articolo di oggi.

Da buona parte del Pd e dal Movimento Cinque Stelle, in ossequio alla ormai consolidata regola che li vede braccio armato di alcune correnti. Da una certa stampa giustizialista, che di queste correnti è portavoce.

Soprattutto però, quello che ha dovuto subire Carlo Nordio è stato il fuoco amico, non solo dell’ala giustizialista di Fratelli d’Italia ma anche da quelli che non hanno avuto la pazienza di aspettare. No, non parlo dei giusti rilievi delle Camere Penali, quanto piuttosto di prese di posizione di alcuni politici che gli rimproveravano debolezza e incapacità decisionale.

E invece, da uomo con la schiena dritta quale è, il Ministro sapeva bene che una riforma non si scrive in un giorno. Si ascoltano le parti coinvolte, si studiano i dossier e poi, la si porta in Consiglio dei Ministri. L’atteso giorno è arrivato. Non è la fine di un percorso, ma solo l’inizio. Un ottimo inizio. Benedetta Frucci

La carica di alcuni Pm alla riforma garantista. Perché la riforma della giustizia di Nordio non è un “liberi tutti”: la lotta al copia e incolla con il collegio dei giudici. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 16 Giugno 2023

Carlo Nordio ha presentato ieri in Consiglio dei ministri la riforma della giustizia di stampo “liberale” e “garantista” e subito è scattata, come da copione in questi casi, la controffensiva delle toghe di sinistra di Magistratura democratica. I primi giudici progressisti ad intervenire sono stati Giuseppe Santalucia, presidente dell’Associazione nazionale magistrati, e Nello Rossi, ex Avvocato generale dello Stato e attuale direttore di Questione giustizia, la rivista di Md.

Sia Santalucia – l’ottava sul punto da quando si è insediato il governo Meloni – sia Rossi hanno rilasciato un’intervista. Le modifiche proposte da Nordio (vedasi Il Riformista di ieri, ndr), e per alcuni esponenti della maggioranza di governo fin troppo blande per arginare lo strapotere dei pm, sarebbero per Rossi, «guanti di velluto per i colletti bianchi in una logica da Far West». Per il magistrato, in passato critico con i colleghi che hanno contestato l’associazione a delinquere agli imbrattatori di Ultima generazione, la politica penale del governo è gestita addirittura dal «Ministero dell’interno». Lo scopo, per Rossi, sarebbe «creare un doppio binario: pugno duro per la criminalità di strada, trattamento di riguardo per i reati economici e amministrativi, quelli dei ‘galantuomini’».

Il lettore poco informato potrebbe essere portato a pensare che la riforma di Nordio rappresenti una sorta di ‘liberi tutti’ per tangentisti e corruttori. La riforma, è bene ricordarlo, non incide sul catalogo dei reati, che continuano ad avere pene altissime, contro la Pubblica amministrazione, a parte l’abolizione dell’abuso d’ufficio, un grimaldello utilizzato pur di contestare qualcosa, e blande modifiche al traffico d’influenze.

Prendiamo il reato ‘simbolo’, la corruzione. Bene. La pena inizialmente era della reclusione da 2 a 5 anni. Con la riforma del 2012 del governo Monti venne aumentata da 4 ad 8 anni. Nel 2015 un ulteriore aumento, passando da 6 a 10 anni di reclusione. Dunque, in nemmeno tre anni la pena aumentò due volte ed in misura più che doppia. Si tratta, ovviamente, di sanzione edittale, quindi soggetta ad ulteriori aumenti in sede di giudizio, in caso di aggravanti fino ad un terzo, arrivando tranquillamente ai 16 anni. Per fare un confronto, il sequestro di persona è punito con la reclusione da 6 mesi ad 8 anni.

Ma non è finita. Con il governo giallo-verde, nel 2019, la corruzione e gli altri reati contro la pa vennero equiparati a quelli di mafia e terrorismo, i più gravi in assoluto, anche più dell’omicidio. Risultato? Assenza di qualsiasi beneficio, nessuna misura alternativa o sconto di pena, per coloro che riportano una condanna. Inoltre, essendoci stata l’equiparazione è possibile utilizzare il trojan, il virus informatico che trasforma il cellulare in microspia. Dove sarebbe, quindi, l’allarme per Md? Aver previsto che serva un collegio e non un giudice monocratico per firmare i provvedimenti cautelari. La ratio della norma, che nessuno ufficialmente può dire, è evitare la prassi del “copia e incolla”. Adesso il pm utilizza la richiesta cautelare della polizia giudiziaria ed il gip spesso la fa propria, lasciando anche i refusi o gli errori ortografici del maresciallo estensore.

Con un collegio di tre giudici – si spera – qualcuno si leggerà con più attenzione il fascicolo. La riforma ha anche previsto, prima della custodia cautelare e nei casi dove non ci sia pericolo di fuga o inquinamento delle prove, l’interrogatorio preventivo. Quindi, il politico o l’amministratore continueranno ad essere arrestati ‘a sorpresa’ in quanto l’incarico ricoperto gli permette di inquinare il quadro indiziario a suo carico. Il sospetto, dunque, è che Md non abbia abbandonato la sua visione marxista della giustizia intesa come lotta di classe. Per raggiungere lo scopo, ed abbattere gli odiati rappresentanti dello Stato borghese, vale tutto. Paolo Pandolfini

Estratto dell’articolo di Ugo Magri per “la Stampa” il 16 giugno 2023.

Il caso ha voluto che Sergio Mattarella intervenisse sulla giustizia proprio mentre il governo si apprestava a metterci mano […] Per cui s'è avuta quasi la sensazione che il presidente volesse rammentare i confini entro cui la riforma targata Carlo Nordio dovrà contenersi, se vorrà ottenere un via libera dal Quirinale. 

Ma […] non è andata così: l'incontro con i giovani magistrati tirocinanti era fissato da tempo, così com'era scritto in anticipo il discorso presidenziale rivolto alle future toghe che contiene una sfilza di raccomandazioni tra cui quella (più volte ripetuta) a comportarsi in modo irreprensibile e riservato, per esempio senza esagerare coi social.

Quanto al perimetro tracciato dal presidente, sarebbe una forzatura considerarlo un altolà indirizzato al Parlamento o al governo, alla maggioranza o all'opposizione. L'unico monito, se tale possiamo considerarlo, riguarda il rispetto della Carta costituzionale, a cominciare dall'articolo 104 che riconosce autonomia e indipendenza all'ordine giudiziario. I magistrati sono soggetti, rammenta Mattarella, «soltanto alla legge».

Il che comporta due conseguenze […] La prima: giudici e pubblici ministeri non debbono sentire sul collo il fiato della politica. Il loro compito è applicare le norme per quel che c'è scritto, senza piegarsi ai potenti di turno e tantomeno agli umori delle piazze. L'altra conseguenza, citata dal presidente, è che nessuno deve sentirsi al di sopra della legge, tantomeno un magistrato. Forte e chiaro è il no di Mattarella alla cosiddetta «giustizia creativa», secondo cui in assenza di norme chiare tocca al giudice supplire dando sfogo a «impropri desideri di originalità».

Altrettanto fermo è il richiamo […] al senso di responsabilità cui ogni operatore di giustizia dovrebbe attenersi rifuggendo sempre dalle «tesi precostituite», vale a dire dai classici teoremi giudiziari, e ancor di più dall'«accanimento» contro gli imputati per tigna o per partito preso. L'accusa deve poter reggere nei vari gradi di giudizio. […] Nella sintesi che […] raccomanda, il magistrato non sarà mai un giustiziere solitario, ma nemmeno un braccio armato al servizio di qualcuno.

Estratto dell’articolo di Francesco Grignetti per “la Stampa” il 16 giugno 2023.

Questo di oggi è solo l'antipasto di quel che verrà. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, lo annuncia con aria sicura: «Abbiamo fatto il minimo del minimo». Il consiglio dei ministri licenzia il suo primo pacchetto di norme. […] : abrogazione del reato d abuso d'ufficio; impossibilità dei pubblici ministeri di fare appello in secondo grado per tantissimi processi; il divieto di inserire i nomi di terze persone negli atti salvo casi necessarissimi; un interrogatorio "di garanzia" per chi vogliono arrestare, svelando le loro carte in largo anticipo (ma non per i reati gravi, per fortuna).

C'è anche il divieto imposto ai giornalisti di pubblicare intercettazioni, salvo quelle contenute negli atti di perquisizione o arresto, prima che si apra un dibattimento.

Spiega: «Non è un bavaglio alla stampa, ma un'enfatizzazione del diritto all'onore e alla riservatezza». […] L'Associazione magistrati contesta le novità punto per punto. Sottolinea problemi, incongruenze. E il Guardasigilli s'inalbera: «Basta interferenze», reagisce Nordio.

Nella sua visione del mondo, la magistratura deve stare al suo posto e non contestare le scelte della politica. «È patologico - dice - che la politica abbia spesso ceduto alle pressioni della magistratura nella creazione delle leggi. I magistrati non possono criticare le leggi allo stesso modo in cui i politici non possono criticare le sentenze». Già, perché «il governo propone e il parlamento decide. Questa è la democrazia».

Il suo obiettivo ultimo è ripristinare un equilibrio che secondo lui è in frantumi da tre decenni. E infatti trent'anni di conflitto tra politica e giustizia, per l'ex magistrato che ora veste i panni di parlamentare di Fratelli d'Italia, sono riconducibili a un peccato d'origine delle toghe. Ovvero la fuga di notizie dalla procura di Milano che nel 1994 mise in grande imbarazzo Silvio Berlusconi, a Napoli quei giorni a presiedere il G7. […] È anche per questo motivo che Nordio e l'intero governo dedicano a Silvio Berlusconi il pacchetto odierno di norme.

[…] è solo l'antipasto della grande riforma che Nordio ha in mente. Annuncia subito che è in preparazione una «riforma radicale». La rivoluzione totale che ha in animo comporta separazione delle carriere, Csm sdoppiati, discrezionalità dell'azione penale. Tutto il resto ne discenderà. 

Sulle intercettazioni: «Se ne fa una miriade di inutili, per reati piccoli, che costano 200 milioni all'anno e non servono a nulla. Siamo giganti ad aggredire la vita dei normali cittadini e nani contro le grandi organizzazioni criminali che dialogano su reti criptate». 

[…] non solo la maggioranza si mostra compatta, ma il Terzo Polo esulta e mostra un'opposizione divisa. Il Pd, poi, è spaccato. […]

Estratto da Corriere della Sera il 22 giugno 2023.

«Efficienza e garanzie devono crescere assieme: non deve esserci alcun arretramento nel ricorso alle intercettazioni, personalmente non ne conosco di inutili, essendo tutte disposte da un giudice». 

Lo ha detto ieri il procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo Giovanni Melillo nel corso dell'audizione davanti alla Commissione parlamentare antimafia. Melillo, a proposito degli appalti, dice che «da un lato sono pronto a riconoscere che l'azione dell'antimafia deve fare i conti con le esigenze di rapidità dell'attuazione del Pnrr, sono esigenze alla base di interventi normativi che appartengono alla responsabilità del legislatore e che per quanto riducano gli spazi dell'azione di prevenzione non possono non essere condivisi. 

Ma dall'altra non è possibile pensare che l'azione di prevenzione possa avere effetti paralizzanti sul Paese, io non credo alla possibilità di una macchina dei controlli lenta e farraginosa». Per Melillo «chiunque riceve soldi dallo Stato dovrebbe avere il dovere di rendicontazione. L'impresa che accede a finanziamenti pubblici perché non deve utilizzare strumenti che consentano la tracciabilità dei flussi finanziari?».

(...)

Telefono senza fili. Giovanni Maria Flick difende Nordio sulle intercettazioni. Linkiesta il 19 Giugno 2023.

«L’assoluta indispensabilità mal si concilia con le frequenti richieste di proroga» che fanno sorgere il sospetto della «pesca a strascico: prima o poi qualcosa entra nella rete, magari del tutto diversa da quella ipotizzata», dice l’ex ministro di Prodi. Che si chiede se il mondo dell’informazione sia preoccupato «non per la minore libertà, ma per il menù meno ghiotto servito dai giornali» 

Il testo della riforma della giustizia, approvato dal consiglio dei ministri la scorsa settimana, dovrebbe approdare domani alla Camera. Ma nel vivo della discussione si entrerà la prossima settimana. E l’iter della riforma si preannuncia complicato con una parte dell’opposizione che promette battaglia e un’altra pronta a dialogare con il governo. I distinguo si sono visti in particolare tra i sindaci del Pd. Mentre Matteo Renzi e Carlo Calenda hanno fatto sapere che voteranno a favore della riforma.

Su uno dei punti più discussi della riforma Nordio, cioè le intercettazioni, interviene sulla Stampa l’ex ministro della Giustizia del governo Prodi ed ex presidente della Corte Costituzionale Giovanni Maria Flick, che dichiara di essere d’accordo con quanto proposto dal governo Meloni.

«Che il problema intercettazioni esista ne sono convinto da almeno 25 anni (e anche dopo la riforma Orlando, prima rinviata; poi, ancor prima di entrare in vigore, modificata dal governo Conte con l’estensione ai delitti contro la pubblica amministrazione)», scrive Flick. «Da ministro della Giustizia proposi una riforma che naufragò in Parlamento e che in parte somigliava proprio a quella del mio successore Orlando. Grazie a questa siamo finalmente arrivati alla selezione delle intercettazioni rilevanti, da parte del Pm, e all’istituzione di un archivio riservato posto sotto la sua sorveglianza e responsabilità».

Il tema intercettazioni ha due aspetti critici, secondo Flick. «Uno riguarda le condizioni per poterle effettuare (regole processuali, metodi di indagine del Pm, autorizzazione del Gip e presupposti per la loro proroga che, almeno fino alla riforma Cartabia, rappresentano la regola); l’altro i tempi e i modi per la loro divulgazione, ovvero per vietarla nelle parti non rilevanti per il processo (e questo, oltre alle regole e alla professionalità dei magistrati e, talvolta, degli avvocati, riguarda il diritto di cronaca e il lavoro dei giornalisti)».

Fin da allora, Flick ricorda anche «la volontà di limitare il ricorso alle intercettazioni ai soli casi di assoluta indispensabilità, quando sia impossibile proseguire con altri mezzi un’indagine già in corso. In altre parole: prima deve esistere una notizia di reato, con una fattispecie ben delineata e gravi indizi, anche contro ignoti. Non è stato così in passato e mi auguro che oggi lo sia. Ma sarebbe interessante verificare, su un campione di procedimenti penali pervenuti a sentenza, quali fossero i reati ipotizzati nella richiesta del Pm al Gip, quali quelli contestati (dallo stesso Pm) al momento di esercitare l’azione penale, e quali quelli effettivamente riconosciuti o negati in sentenza. Certamente l’assoluta indispensabilità mal si concilia con le frequenti richieste di proroga. Se alcune settimane di captazione e di ascolto non sono sufficienti a dare riscontro all’ipotesi di accusa, il sospetto è che si stia procedendo con la cosiddetta ‘pesca a strascico’: prima o poi qualcosa entra nella rete, magari del tutto diversa da quella ipotizzata».

Dunque la posizione di Flick è la seguente: «Sono convinto che le intercettazioni siano indispensabili, ma sono preoccupato per il loro abuso (sia nelle intercettazioni, sia nella pubblicazione)».

Certo, dice Flick, «comprendo le ragioni che rendono l’argomento incandescente». In primis, «sono in gioco interessi primari dell’ordinamento: la libertà personale, la riservatezza, la sicurezza, il diritto di informazione e di cronaca. Decidere quale debba prevalere sull’altro non è facile. Un’indicazione, però, proviene dalla Costituzione: quando si comprimono – per legge e con provvedimento dell’autorità giudiziaria – i diritti e le libertà fondamentali, si devono rispettare i criteri di proporzionalità e adeguatezza. E su questo dobbiamo porci delle domande, i magistrati per primi».

Poi, prosegue, «non sempre è questione di norme, ma di comportamenti. La legge già prevede il requisito della ‘assoluta indispensabilità’ delle intercettazioni: la regola è che non si possano utilizzare in altri procedimenti (salvo casi particolari) o per aprirne di nuovi o per la ricerca indiscriminata di elementi di prova (pesca a strascico). Nella prassi, a volte, tali limiti vengono forzati o elusi, anche al nobile fine di soddisfare esigenze di sicurezza collettiva. Ma lo strumento penale serve per punire fatti criminali avvenuti e di cui si abbia notizia, non per reprimere (o risolvere) fenomeni sociali».

Infine, «l’evoluzione tecnologica ha coinvolto tutti i mezzi di ricerca della prova, dalle analisi del Dna, alle qualità delle riprese video, alla geolocalizzazione, agli strumenti di forensic. Per le comunicazioni e le conversazioni private, alle intercettazioni telefoniche o ambientali tradizionali si è aggiunto il captatore informatico (trojan). Uno strumento molto invasivo la cui utilizzazione incontrollata si pone in contrasto con l’articolo 15 della Costituzione».

Il giro di vite proposto consiste nel «rimettere al giudice la valutazione sulla rilevanza processuale delle singole intercettazioni già selezionate dal pubblico ministero. Sul piano processuale, dell’efficacia degli strumenti d’indagine e dell’accertamento dei reati, della tutela dei mezzi di prova e dell’indipendenza della magistratura inquirente e giudicante, non mi sembra una deriva, anche in relazione al bilanciamento dei valori costituzionali. Resta da chiedersi se la diffusa contrarietà del mondo dell’informazione sia il legittimo campanello d’allarme per il timore di un attacco all’autonomia della giurisdizione e alla libertà di stampa, di un rafforzamento della criminalità e di impunità per la casta (timori che, almeno in questo caso, reputo infondati) o se l’informazione sia solo (pur legittimamente) preoccupata per sé: non per la minore libertà, ma per il menù meno ghiotto servito dai giornali», si chiede Flick.

L’attività giudiziaria – ricorda l’ex ministro della Giustizia – «fornisce materiali appetibili per il mondo dell’informazione, con finalità che trascendono questo stesso mondo: agevolano il controllo sociale e sui pubblici poteri da parte dei giornalisti, compito primario dell’informazione in un paese libero; permettono di conoscere e approfondire le attività e i comportamenti della criminalità organizzata, rilevante per la sicurezza pubblica e la tenuta delle istituzioni democratiche; soddisfano curiosità e prurigini umanamente comprensibili, ma che dovrebbero essere sottoposte a un vaglio critico e a un rigoroso filtro deontologico, personale ed eventualmente degli organi della professione. In tempi di magra, la fonte giudiziaria è per il giornalismo d’inchiesta, e per i rischi anche economici di chi lo pratica, un palco in prima fila a teatro o allo stadio: un minimo di cautela, molta narrazione, nessun rischio. In questo giornalismo c’era poca inchiesta. Forse si dovrà fare più fatica».

Giustizia stereotipata. Perché il topolino garantista partorito da Nordio per la sinistra è il mostro di Loch Ness. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 17 Giugno 2023

In Italia conservatori e progressisti si somigliano più di quanto non sembri e hanno spesso hanno idee speculari e identiche. Non a caso entrambe pensano che il sistema penale sia la continuazione della lotta politica con altri mezzi 

C’è una ragione per cui la destra si attizza a invocare e procurare galera per drogati, immigrati, disastrati e zingaracce e la sinistra invece per evasori, corruttori, inquinatori e per i colletti bianchi del cettolaqualunquismo politico-burocratico. E la ragione non è che destra e sinistra sono diverse, ma che sono uguali, per quanto opposte appaiano le predilezioni dei destinati ai ceppi o alle celle di punizione.

Grosso modo la destra vuole mandare in galera quelli che identifica con la sinistra e viceversa. È peraltro una identificazione più ideologica e antropologica, che effettivamente politico-elettorale. Ha a che fare con il cliché del nemico, non con la sua realtà spirituale e materiale. È molto dubbio che i poveracci e i disperati votino prevalentemente a sinistra e lo è altrettanto che i capitani dell’economia, diciamo così, informale e della pirateria istituzionale trovino posto esclusivamente a destra.

A destra come a sinistra la rappresentazione stereotipata del nemico serve però essenzialmente alla rappresentazione idealizzata di sé. Noi di destra siamo persone serie, mica come i drogati e i pervertiti del gender (anche se la cocaina si ammassa a cumuli sotto il tappeto del loro moralismo e le mignotte o gli “amici speciali” affollano i retrobottega dei Family Day). Noi di sinistra siamo persone oneste, mica come i faccendieri e i trafficanti di influenze (anche se quel che esiste ancora della sinistra, sul piano del potere, è una rete di interessi e relazioni più massoniche, che politiche e ha più a che fare con i consigli di amministrazione delle fondazioni bancarie che con il volontariato laico e religioso).

Destra e sinistra hanno quindi politiche sulla giustizia speculari e sostanzialmente identiche, perché pensano che il sistema penale sia la continuazione della lotta politica con altri mezzi e dunque sia tanto più giusta, quanto più volta a completare un disegno di giustizia politica perseguito primariamente con gli strumenti della legge e del governo, e poi appaltato, per quanto di competenza, a tribunali e galere.

Salvini che in campagna elettorale citofona a un magrebino a favore di telecamere per dargli dello spacciatore è la versione uguale e contraria dei Fratoianni e Bonelli che in campagna elettorale vanno in pompa magna alla procura di Roma a denunciare i colossi energetici per evasione e frode fiscale sugli extra-profitti. Due esempi di presunzione di colpevolezza fondata sul cosiddetto diritto penale d’autore – un simpatico cascame della Germania nazista – dove la responsabilità di un sospettato viene dimostrata dalla sua stessa identità. Sei arabo, spacci. Guadagni miliardi, evadi.

Su queste premesse, per tornare allo scandalo politico di giornata, cioè il topolino legislativo partorito dalla montagna di demagogia garantista del ministro Nordio, si capisce perfettamente perché la sinistra non abbia potuto che raffigurarlo come un feroce mostro di Loch Ness, che emerge dagli abissi di via Arenula, sguinzagliato a mietere ovunque ingiustizia. E si capisce anche perché la destra possa oggi esibirsi in questo modesto esercizio di garantismo variabile, senza dismettere, neppure per un istante, un’inclinazione panpenalistica ampiamente dimostrata anche in questa legislatura, per non dire delle precedenti.

Ovviamente, per chi ha un’idea meno inquisitoriale e vendicativa della giustizia penale, ha torto marcio la sinistra, come aveva torto marcio la destra quando si inventava decreti legge per spezzare le reni ai ravers o ai presunti scafisti.

Altrettanto ovviamente, per chi ha della politica un’idea meno settaria e tribale e per la teppaglia manettara dell’eterno girotondismo italiano un giudizio meno succubo ai riflessi pavloviani dell’o-ne-stà, non c’è nulla di sorprendente nell’operazione suicidaria con cui il Partito democratico e i suoi alleati, anziché chiedere di allargare il perimetro del “garantismo da lorsignori” del Ministro Nordio, inizieranno a berciare contro il regalo a corruttori, malfattori e malagente per l’abolizione dell’abuso di ufficio o per i timidissimi limiti imposti alla custodia cautelare.

Limitarne ruolo e funzione è pericoloso. Sbagliato limitare le intercettazioni, la legge vigente va bene già così: questo è bavaglio all’informazione. Walter Verini su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sulla riforma della giustizia e nello specifico sulla limitazione delle intercettazioni. Favorevole alla linea del ministro Carlo Nordio è il magistrato Paolo Itri secondo cui “limitare le intercettazioni tutela la privacy delle persone non coinvolte nelle indagini”. Contrario invece il senatore Walter Verini che considera la limitazione delle intercettazioni un errore perché “la legge vigente va bene già così: questo è bavaglio all’informazione”.

Qui il commento di Walter Verini:

«Per anni abbiamo subito l’ossessione delle gogne mediatiche...oggi però il pendolo è sbilanciato ai danni della libertà di informazione». Sono parole di Carlo Nordio in una intervista rilasciata al Messaggero qualche settimana dopo la sua nomina a ministro. Le cito a memoria. Ma le ricordo perché gliele abbiamo ripetute due volte: in aula, al Senato, e in Commissione Giustizia, invitandolo ad essere coerente con le affermazioni e auspicando conseguenti provvedimenti.

Perché, allora, il Ministro rinnega queste sue parole nel pessimo pacchetto di proposte sulla Giustizia e, in particolare, con una nuova stretta alla pubblicabilitá delle intercettazioni? Io penso che “gogne mediatiche” ci siano state. Penso che troppo spesso si siano letti sui giornali contenuti e intercettazioni di nessuna rilevanza penale e di scarsissima o inesistente connessione allo stesso procedimento. Assecondando anche voyeurismi, gossip lesivi della dignità delle persone. Per questo Governo e Parlamento sono intervenuti.

La prima volta nel 2017, con una iniziativa del Governo e del Ministro Orlando. Con un provvedimento molto netto, che escludeva dalla pubblicazione frasi e conversazioni senza rilievo penale. E responsabilizzando il lavoro degli uffici giudiziari requirenti. È una norma vigente. Successivamente il Parlamento ha ratificato la Direttiva Europea sulla presunzione di innocenza, rendendo ulteriormente stringenti i limiti della pubblicabilitá di intercettazioni, definendo ulteriori confini e restrizioni e maggiori responsabilizzazioni di Procure e Polizia giudiziaria (e ulteriori modulazioni vennero definite nelle riforme durante il Governo Draghi, con Cartabia Ministro della Giustizia).

Qualche mese fa, in audizione al Senato, il Garante della Privacy ha affermato infatti di non avere registrato – dopo queste misure adottate – nessun caso di pubblicazione di intercettazioni relative a “terze persone”, questione contenuta su questo punto del pacchetto Nordio.

Le restrizioni – e le proteste di FNSI, Ordine dei Giornalisti, tante associazioni di cittadini – hanno portato anche alcune Procure a formulare con rappresentanze del mondo dell’informazione e della stessa Avvocatura, tentativi ed esperienze di protocolli per provare a tenere insieme (nel rispetto delle nuove norme approvate) il diritto alla privacy, al rispetto della dignità delle persone, con l’altro diritto costituzionale alla libertà di informazione. Non solo dei giornalisti, ma dei cittadini di essere informati. Sta di fatto, insomma, che le “gogne mediatiche”, dopo questi provvedimenti, non esistono più.

Il tema, allora, è oggi quello di rispettare le norme in vigore, ma di non aggiungere ulteriori limiti e restrizioni. Sarebbe un’ulteriore, pericolosa oscillazione di quel pendolo (Nordio dixit) ai danni della libertà di informazione. C’è la sensazione che questo Governo provi fastidio per regole e controlli. L’aumento del contante, l’innalzamento delle soglie per affidamenti diretti e gare d’appalto, l’abolizione di misure e paletti di prevenzione e contrasto alla corruzione nel codice degli appalti, il fastidio per i controlli concomitanti della Corte dei Conti sul PNRR.

Con la motivazione, spesso, di semplificare e velocizzare. Anche noi vogliamo questo, ma velocità deve andare insieme a trasparenza. Semplificazione deve andare insieme a rispetto di regole e legalità. La sfida è questa. La soluzione non deve essere abbassare i controlli e alert di legalità. Si rischia di favorire corruzione e penetrazioni mafiose. E tra i controlli un Paese democratico e liberale deve avere l’informazione, un vero e proprio contropotere.

Limitarne ruolo e funzione è pericoloso. Ci sono diverse sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo, del resto, che considerano lecita la pubblicazione di notizie segrete riguardanti personaggi pubblici. Combattendo – come abbiamo fatto – le “gogne mediatiche”, dobbiamo garantire ai cittadini un ruolo molto forte dell’informazione. E chi fa politica, chi svolge un ruolo pubblico al servizio dei cittadini, ha secondo me, molti doveri in più in questa direzione. Walter Verini

Una materia che tocca un nervo scoperto della politica. Limitare le intercettazioni tutela la privacy delle persone non coinvolte nelle indagini. Paolo Itri su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sulla riforma della giustizia e nello specifico sulla limitazione delle intercettazioni. Favorevole alla linea del ministro Carlo Nordio è il magistrato Paolo Itri secondo cui “limitare le intercettazioni tutela la privacy delle persone non coinvolte nelle indagini”. Contrario invece il senatore Walter Verini che considera la limitazione delle intercettazioni un errore perché “la legge vigente va bene già così: questo è bavaglio all’informazione”.

Qui il commento di Paolo Itri:

Con il nuovo disegno di legge, tra le altre cose, il governo interviene ancora una volta sulla tormentata disciplina delle intercettazioni telefoniche e ambientali, introducendo alcune norme che in realtà incidono ben poco sul tema della loro utilizzabilità processuale, e che riguardano piuttosto la tutela della privacy e il divieto di pubblicazione delle conversazioni. In particolare, con la riforma, il predetto divieto – che fino ad oggi era limitato alle sole intercettazioni che non fossero state ritualmente acquisite e dichiarate utilizzabili nel procedimento penale – viene esteso fino a essere consentita la pubblicazione delle sole intercettazioni il cui contenuto sia stato riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento.

Per chi ha un minimo di dimestichezza con le indagini e i processi, si tratta, tutto sommato, di ben poca cosa, visto che difficilmente – e solo con un certo sforzo di fantasia – è possibile immaginare un caso in cui una certa intercettazione, una volta acquisita e dichiarata utilizzabile dal giudice, non finisca per essere prima o poi riprodotta in una ordinanza cautelare o in una sentenza, ovviamente dopo che è stata effettivamente utilizzata dallo stesso giudice ai fini della decisione. Quanto alla utilizzabilità processuale delle intercettazioni (problema che precede, come si è detto, quello della pubblicazione), viene poi stabilito il divieto per il giudice di acquisire le registrazioni e i verbali che riguardino soggetti diversi dalle parti (ovvero gli imputati e le persone offese dal reato), sempre che non ne sia dimostrata la rilevanza.

Anche in questo caso la riforma è destinata a incidere ben poco, in quanto la norma attualmente in vigore già oggi prevede che il giudice possa disporre l’acquisizione delle sole intercettazioni che non appaiano irrilevanti (senza quindi distinguere le conversazioni intercorse tra soggetti imputati e terzi interlocutori), escludendo quelle di cui è vietata per legge l’utilizzazione o che riguardano categorie particolari di dati personali, sempre che, anche per queste ultime, non ne sia dimostrata la rilevanza. Di notevole importanza – oltre che innovativo e altamente opportuno – è invece il divieto per la polizia giudiziaria, pure introdotto dalla riforma, di riportare nei verbali di intercettazione i “dati personali” dei soggetti diversi dalle parti, salvo che risultino rilevanti ai fini delle indagini; nonché il divieto, posto a carico del pubblico ministero e del giudice, di indicazione – con il conseguente divieto di pubblicazione – dei predetti dati nella richiesta e nella ordinanza di misura cautelare, salvo che l’indicazione sia indispensabile per la compiuta esposizione dei fatti.

Per chi non lo sapesse, sono “dati personali” le informazioni che identificano o rendono identificabile una persona e che possano fornire informazioni sulle sue caratteristiche, le sue abitudini, il suo stile di vita, le sue relazioni personali, il suo stato di salute e la sua situazione economica. Se il disegno di legge verrà approvato, avremo quindi una disciplina più rigorosa a tutela della privacy delle persone non coinvolte nelle indagini, disciplina che non inciderà minimamente né sulla efficienza delle stesse indagini, e né sul diritto-dovere di cronaca, che a seguito della riforma permarranno sostanzialmente immutati rispetto alla situazione attuale. In effetti, la delicatezza della materia richiedeva un intervento al fine di riempire un vuoto legislativo non più tollerabile, non apparendo razionalmente giustificabile che la tutela della privacy debba sempre e comunque cedere di fronte al “muro” del processo penale, anche laddove non vi siano, in concreto, particolari esigenze investigative da salvaguardare.

Questo il quadro normativo delineato dalla riforma. Quadro che francamente non appare tale da giustificare particolari levate di scudi da parte di chi, come anche lo scrivente, oltre ad avere a cuore l’efficienza delle indagini, di cui le intercettazioni restano uno strumento indubbiamente insostituibile e necessario, non ha però nemmeno interesse ad alimentare polemiche in una materia che tocca un nervo scoperto della politica. Paolo Itri

Ma quale bavaglio, la riforma sulle intercettazioni non cambia nulla. Il ddl Nordio non incide affatto sulla pubblicabilità: la sanzione rimane ridicola. Simona Musco su Il Dubbio il 16 giugno 2023

La riforma sulle intercettazioni? Tante parole e pochi fatti. Eppure, all’indomani dell’approvazione del ddl Nordio in Consiglio dei ministri, la stampa è scesa in campo per gridare ad un nuovo tentativo di bavaglio. Bavaglio che, di fatto, non ci sarà e non c’è mai stato, considerando che tutte le riforme approvate fino ad oggi non hanno impedito la pubblicazione di qualsiasi cosa, in spregio al codice di procedura penale e ad ogni deontologia. Perché sfidare la legge - giusta o sbagliata che sia - in questo caso costa pochissimo: una sanzione minima, che spesso - anzi, la maggior parte delle volte - non viene nemmeno irrogata.

Le cronache sono piene di voci preoccupate circa le conseguenze di questa riforma, con un dettagliato elenco di notizie «che non avremmo letto». Come lo scandalo Qatargate - le cui intercettazioni sono state lette dagli stessi indagati prima sui giornali, poi negli atti - o quelle relative all’arresto dei poliziotti accusati di tortura, solo per fare due esempi. Una conclusione affrettata, dal momento che rimane pubblicabile tutto ciò che viene riversato dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso di un processo. E le intercettazioni choc dei poliziotti di Verona, ad esempio, sono contenute nell’ordinanza di custodia cautelare: sui giornali ci sarebbero finite comunque.

La norma, ha evidenziato il presidente dell’Unione delle Camere penali Gian Domenico Caiazza a Omnibus, impedisce dunque solo «di andare a ravanare nell’immondizia», cosa che rimane comunque possibile, per chi volesse farlo, dal momento che chi viola questi divieti dovrà pagare solo 300 euro. «Chi strepita di “bavaglio” - ha commentato ieri sul Riformista - sfida temerariamente il senso del ridicolo».

Le norme, hanno tuonato le testate del gruppo Gedi, esistevano già: la legge Orlando, ad esempio, poi i codici deontologici e quelli delle varie autorità a tutela di privacy e riservatezza. Un appunto preciso, che però ignora il dato di fatto principale: tali norme non hanno mai spaventato nessuno, tant’è che vengono quotidianamente violate. Già all’epoca della legge Orlando si parlò di bavaglio, concetto smentito dalla Cassazione, secondo cui «la peculiare natura delle intercettazioni non divulgabili» ai sensi di quella norma «parrebbe difficilmente riconducibile al canone della rilevanza sociale della notizia che, unitamente alla verità della stessa ed alla continenza espressiva, è tradizionalmente valutato dalla giurisprudenza ai fini del riconoscimento della scriminante del diritto di cronaca».

Queste norme, spiega al Dubbio Beniamino Migliucci, già presidente dell’Ucpi, «non rappresentano alcun bavaglio. Ho sempre sostenuto che il problema non sono i giornalisti, ma chi passa informazioni che non dovrebbero essere pubblicate. C’erano già nel nostro codice delle norme che vietavano la pubblicazione sia di intercettazioni sia di atti che riguardano le parti del processo - sottolinea -. Non si comprende per quali ragioni si dovrebbero pubblicare dialoghi che riguardano estranei al processo, soprattutto se non hanno alcuna attinenza con le indagini, che è quello che poi prevede la riforma. Le intercettazioni sono un mezzo di ricerca della prova, molto invasivo, e devono essere riservate esclusivamente ai reati e non a spiare le pubbliche virtù dei cittadini e dei politici per fare indagini di altro tipo».

Le modifiche previste dal ddl Nordio, in ogni caso, non colgono il tema fondamentale: «Per un mezzo così invasivo sono ancora troppe, dovrebbero essere riservate ai fatti davvero più gravi e anche concesse non come reti di scandaglio per trovare dei reati, ma quando già ci sono degli elementi per cui si deve cercare una prova. E poi bisognerebbe tutelare le conversazioni tra l’assistito e il difensore, spazio che dovrebbe rimanere sacrale e ancora oggi non lo è», aggiunge Migliucci. Secondo cui le norme vanno nel senso giusto, ma senza incidere troppo, date le modeste sanzioni. «Abbiamo delle norme che tutelano il segreto, che puniscono la rivelazione o utilizzazione di segreti d’ufficio, abbiamo un reticolo di leggi che intendono evitare la pubblicizzazione degli atti del procedimento penale, soprattutto scandendo alcuni momenti processuali - evidenzia -. L’articolo 114 prevedeva che gli atti del fascicolo del pm non potessero essere pubblicati prima della sentenza di secondo grado, per tutelare la verginità cognitiva del giudice. Se fosse stato applicato ci sarebbe stata una tutela non solo per i terzi estranei, ma anche per le parti del processo. Queste norme, nel tempo, non sono state osservate. Le violazioni sono tantissime, le sanzioni pochissime. Anche se i penalisti mai invocherebbero sanzioni». In ogni caso, saranno sempre le toghe a gestire la mole di informazioni che verranno rese note. E tutto viene rimesso al controllo del giudice, ultimo filtro a ciò che arriverà in mano al giornalista.

«Bavaglio? Si tratta di una clamorosa esagerazione - spiega un magistrato che preferisce rimanere anonimo -. Siamo ben lontani dal confiscare il diritto all’informazione, perché anche nel progetto Nordio è sempre il giudice il garante dell’equilibrio tra informazione e rispetto della dignità dell’indagato, attraverso il parametro della rilevanza. Che cosa c’è di scandaloso? Forse i miei colleghi dell’Anm dovrebbero spiegare perché hanno così poca fiducia nei magistrati». Ed il livello di sanzioni è così modesto «che equivale ad un divieto di sosta». Questa norma, dunque, «non mette minimamente il giudice con le spalle al muro ma lo invita ad esercitare il suo potere con prudenza, sulla base di un criterio di rilevanza che sarà comunque lui a decidere. Per molti versi è solo un principio di civiltà - conclude il magistrato -. Il giornalismo dovrà solo smetterla di essere procurocentrico».

Grande spot pubblicitario. La riforma della giustizia è berlusconiana solo all’apparenza. Cataldo Intrieri su L'Inkiesta il 17 Giugno 2023

La svolta «garantista» annunciata dal ministro Nordio si appresta a un lungo cammino, denso di incognite: segue la linea del Cavaliere sull’abuso d’ufficio, ma alla magistratura fa il solletico ed è a serio rischio di incostituzionalità in molti passaggi

La prima micro-riforma garantista della giustizia – sino ad oggi solo grida manzoniane, reati universali e di nuovo conio, stop – firmata Nordio-Sisto sarà pure dedicata a Silvio Berlusconi, ma il Cavaliere, sia detto con il dovuto rispetto, l’avrebbe rispedita al mittente.

Non che l’uomo fosse uno spregiudicato riformatore: come di recente ha ricordato l’ex presidente delle camere penali italiane Valerio Spigarelli, si guardò bene dall’attivare ogni serio e radicale cambiamento dell’ordinamento giudiziario, procedendo per rattoppi e aggiustamenti delle leggi (falso in bilancio, prescrizione, legittimo sospetto, etc.) a uso proprio, senza un vero disegno complessivo.

Perfino di fronte alla possibilità di appoggiare un referendum dall’esito probabilmente favorevole sulla separazione delle carriere – promessa da Nordio e mai varata – il fondatore del centrodestra italiano, autoproclamatosi «garantista», preferì farlo fallire invitando gli elettori ad andare al mare. Per non parlare dell’intenzionale naufragio della bicamerale, tutte circostanze che gli guadagnarono il titolo di “toga rossa” onoraria da parte dei penalisti italiani.

Il fatto era che Berlusconi, nella sua veste politica, il radicalismo lo riservava alle campagne elettorali, ma poi giunto al governo cercava solo la trattativa sottobanco con la magistratura associata.

Ora, il disegno di legge che si appresta a un lungo cammino, denso di incognite (e la scelta dell’iter parlamentare più lungo dice tutto sulla convinzione e determinazione del governo sulla materia). Certamente si muove nel solco berlusconiano, quanto meno rispetto al piatto forte dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio, e per il resto si limita a fare il solletico alla magistratura.

Per l’abuso d’ufficio il refrain sembra chiaro: «Se il controllore indica problemi, il problema da eliminare è il controllore». La strategia è del tutto analoga a quella adottata dal secondo governo Berlusconi in tema di falso in bilancio. Come per il morente reato di abuso, la norma che punisce l’alterazione dei bilanci costituì durante l’epopea di Mani Pulite il cavallo di troia con cui la procura di Milano accertò l’esistenza di fondi neri destinati alla corruzione politica.

Analogamente, come candidamente ammesso dall’ex direttore dell’Anac Raffaele Cantone, l’illecito che punisce i favoritismi a titolo gratuito e le prepotenze dei pubblici amministratori, è spesso solo la spia di sotterranee concussioni e corruzioni, e ciò spiega l’anomalia dello spropositato numero di procedimenti aperti e il basso tasso di condanne. Se non si scopre un passaggio di denaro si archivia, perché è difficile provare – senza di esso – l’interesse personale.

Come gli imprenditori per il falso in bilancio, i sindaci patiscono i controlli asfissianti e il sospetto che essi celano, ma c’è da dire che – dopo il tentativo berlusconiano di rendere innocuo il reato contabile limitandone la perseguibilità ai casi più rilevanti in chiave contabile – esso è stato reintrodotto nella sua prima versione in quanto è apparso chiaro che la cancellazione del reato aumentasse i problemi anziché risolverli.

L’abolizione del reato di abuso d’ufficio si muove nel medesimo solco, ma c’è da dire ancora che ben difficilmente andrà in porto, nonostante la necessità di impiegare senza ostacoli i fondi del Pnrr la rendano necessaria agli occhi di Giorgia Meloni.

Come per altre questioni, il problema è ancora una volta l’Europa: stavolta si manifesta sotto forma della convenzione di Merida contro la corruzione, che festeggia addirittura il ventennale e della sua ratifica da parte della Camera risalente nientemeno che al 2009 (proprio durante l’ultimo governo Berlusconi che godeva della schiacciante maggioranza di cui diede prova nel proclamare Ruby nipote di Mubarak).

Leggendo il testo della ratifica si apprende che l’Italia ha assunto «l’obbligo di conferire carattere penale a una grande diversità di infrazioni correlate ad atti di corruzione, qualora esse non siano già nel diritto interno definite come infrazioni penali». Non ci crederete ma tra esse esplicitamente la convenzione di Merida ha inserito nell’art. 19 l’abuso del pubblico ufficiale, come bene ha spiegato Cristiano Cupelli, ordinario di Diritto penale all’Università Tor Vergata di Roma. Il che rende la strombazzata riforma a serio rischio di incostituzionalità visto che l’art. 117 della Carta impone l’osservanza dei trattati internazionali sottoscritti dall’Italia.

Sarà pure «un bel segnale culturale», come sostiene l’attuale presidente dell’Unione Camere Penali Giandomenico Caiazza, in sollecito soccorso del discusso ministro e del suo vice, ma il tutto sembra più l’ennesimo spot pubblicitario che una concreta possibilità di cambiamento.

La finalità propagandistica emerge invece nella sua pienezza negli altri provvedimenti che costituiscono l’ossatura del provvedimento.

Sono a serio rischio di incostituzionalità anche le proposte che riguardano il divieto impugnazione delle sentenze assolutorie da parte del pm e la nuova procedura di controllo sulle misure detentive in sede di indaginem che si vorrebbe affidata a un collegio di giudici e non a uno solo come avviene oggi.

A tacere dei problemi tecnici (di grazia, che fine farebbe il tribunale del riesame che già oggi in tempi brevi verifica la necessità e fondatezza dei provvedimenti restrittivi e che rischia di diventare un inutile duplicato?) vi è l’ingiustificata sperequazione che riserverebbe la procedura più garantita solo ad alcuni reati e non ai più gravi.

A farla breve: la presunzione di non colpevolezza, che è valore costituzionale, e che costituisce la ragione della maggior tutela che si vorrebbe introdurre, riguarda tutti gli imputati, anche i vari “mostri”, mafiosi, narcotrafficanti e così via, e non solo alcuni reati. Molto probabilmente la nuova normativa non supererebbe indenne il vaglio costituzionale.

Ovviamente sia Carlo Nordio che Francesco Paolo Sisto lo sanno benissimo, e pur animati, sono sicuro, dalla voglia di lanciare «un bel segnale culturale» sono impaniati dall’insanabile contraddizione di far parte di un governo reazionario e populista, costituzionalmente incapace di capire il garantismo se non come espediente per sottrarre il proprio ceto politico agli stringenti controlli di legalità, per cui la necessità di spendere i soldi del Pnrr va di pari passo con quella di garantire la copertura legale dei propri fidi amministratori. Intendiamoci, non che non sia magari opportuno allargare le maglie di un controllo spesso occhiuto e paralizzante come quello della magistratura, ma il concetto inaccettabile è che per Meloni e co. le garanzie si applicano solo agli amici, per tutti gli altri invece vale la versione giustizialista.

Restano invece lettera morta (guarda caso) la nuova normativa sulla giustizia riparativa e una seria riforma carceraria che costituisca un’alternativa alla vergognosa condizione detentiva di migliaia di detenuti cui vengono negati i diritti elementari. Qui nessun segnale di bel cambio culturale.

In conclusione, dovrà presto capire la premier cosa vuol fare con la corporazione delle toghe: se emulare i tremebondi predecessori limitandosi ai rattoppi arraffazzonati, o seguire l’esempio della signora Thatcher con le Trade Unions dei minatori. Lo scontro duro per le riforme vere come la separazione delle carriere, non quelle abborracciate e populiste.

Se invece continuerà sull’attuale rotta il governo finirà in rotta di collisione con l’Europa anche sul tema giustizia: bene che la sinistra lo sappia e ci ragioni, magari con gente che tra le sue fila capisca il diritto.

PS: Per ragioni di spazio rimandiamo le riflessioni sull’altro pasticcio delle intercettazioni, che merita un capitolo a parte.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per il “Fatto quotidiano” il 16 giugno 2023.

A funerali avvenuti, il governo Melusconi seppellisce anche la Giustizia e fa sapere che B. è morto, ma il berlusconismo è vivo e lotta insieme a loro. […] il ceto politico-giornalistico-prenditoriale […] più che al defunto, bada agli affari propri. Santifica l’uomo dei delitti passati per giustificare i propri, presenti e futuri. 

Se passa l’idea che ci si può iscrivere a una loggia occulta, finanziare la mafia e tenersela in casa, frodare il fisco, falsificare bilanci, pagare premier, ministri, finanzieri, giudici, testimoni, senatori e minorenni, entrare in politica per depenalizzare i propri reati, dimezzare la prescrizione, minacciare toghe, cambiare 60 leggi per non doverle più neppure violare, usare i propri avvocati per scriverle e moltiplicare i legittimi impedimenti, mandare in galera gli amici al proprio posto e riempirli di soldi, beccarsi una condanna definitiva e passare pure per santo, vale tutto per tutti.

Infatti il Melusconi coglie la salma al balzo, prima che si freddi troppo, per partorire una schiforma della giustizia che è persin peggio di quelle di B.. […] gli affaristi da salvare sono un esercito. Via l’abuso d’ufficio, così gli amministratori pubblici possono regalare i miliardi del Pnrr a parenti e amici (degli amici). Via l’appello del pm, ma non dell’imputato: l’unica sentenza giusta è l’assoluzione. Via le intercettazioni dai giornali: così, oltre a farla franca, i ladri di Stato passano per gigli di campo e la stampa può dedicarsi alle rubriche di giardinaggio.

Poi un tocco di classe […]: per arrestare uno bisogna avvisarlo cinque giorni prima convocandolo per interrogarlo. Così i furbi scappano e i processi si fanno solo ai fessi, […] Il mondo alla rovescia creato da B. a sua immagine e somiglianza diventa democratico e tutti possono approfittarne. […]

Estratto dell’articolo di Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 16 giugno 2023. 

[…] la riforma sulla Giustizia di Carlo Nordio non è ancora una vera riforma, e questo per due ragioni […] La prima è che è solo un assaggio delle modifiche più radicali che interverranno con un nuovo Codice di procedura penale; la seconda è che, […] le stesse norme, e il nuovo Codice, serviranno […] a rendere inequivoca l’applicazione del Codice vecchio, quello del 1989, che andava già benissimo […] ma che la stessa Magistratura dagli anni Novanta fece a pezzi con la trasformazione del carcere preventivo in regola, con l’ultima parola che rimaneva sempre in mano alle toghe, con fantasiose interpretazioni di legge, giurisprudenze creative, neo invasività delle intercettazioni […]

[…] L’Italia […] dovrebbe chiedersi  […] come sarebbe andata se Berlusconi […] non fosse sceso in campo quando la magistratura debordò e si attribuì un ruolo, quando l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, quando, in pratica, si tentò di processare un sistema […] con una sola forza politica ad averla scampata: dopodiché, preso l’abbrivio, la Magistratura non ha più smesso di farlo, non si è più fermata […] Un potere che è rimasto l’unico mai riformato. […] Ora la politica è tornata […] e a […] riprendere il primato della democrazia e della politica, è un integerrimo ex magistrato […] Per chi vuole che nulla cambi, è l’ultima e definitiva umiliazione.

Mattia Feltri per “La Stampa” il 17 giugno 2023.

C'è qualcosa che non torna nel dibattito sulla riforma della giustizia voluta da Carlo Nordio. Intanto non torna che il ministro non tolleri critiche al suo lavoro così come, dice, la politica non critica le sentenze: ognuno ha il diritto di criticare una sentenza e ognuno ha diritto di criticare una legge: è quella roba lì, la democrazia. 

Non torna che si parli dell'abolizione dell'abuso d'ufficio, seppure discutibile, come dello sprofondo nella bolgia del crimine dei colletti bianchi (sul serio il sindaco di Basaluzzo o di Trebisacce sono colletti bianchi?), quando ventisette condanne e trentacinque patteggiamenti su cinquemila e 418 indagini (dati del 2021) dimostrano quanto prevalga il danno, nel contributo alla paralisi delle pubbliche amministrazioni e nei tribunali, sul vantaggio d'aver rifilato uno o due anni di reclusione all'uno virgola uno per cento degli indagati.

Non torna, poi, che si ricominci con la storia del bavaglio per il divieto di pubblicare le intercettazioni sinché non le avrà valutate il gip, depennando quelle irrilevanti: questione di aspettare qualche mese, ma delle inchieste, degli addebiti e dei vari dettagli intanto si potrà scrivere comunque. 

Non torna, soprattutto, la nota dolente dell'Ordine dei giornalisti, allarmato dalla conseguente restrizione "del diritto dei cittadini a essere pienamente informati". Curioso: i cittadini hanno diritto a essere informati, e il nostro dovere di informarli passa attraverso il dovere dei magistrati di elargirci il materiale a noi gradito, ma da loro raccolto, e fino all'ultima delle carte e subito? È davvero questo, di copisti, il nostro mestiere?

Strilli a mezzo stampa. Il fantasma di Berlusconi agita i giustizialisti, ma non tutto è perduto. Mario Lavia su L'Inkiesta il 17 Giugno 2023

I toni usati da Repubblica, e in particolare da Carlo Bonini, sulla proposta di Nordio chiamano alle armi le truppe giustizialiste. Ma il direttore Molinari apre un inedito dibattito dentro il suo giornale con un intervento serio e nobile di Antonio Monda

Dopo Silvio Berlusconi c’è il fantasma di Silvio Berlusconi ad agitare i sonni di Repubblica, questo grande giornale che da quando è nato si è sempre autoassegnato il ruolo del duellante politico – contro Bettino Craxi e poi Silvio Berlusconi, soprattutto. Ora che se n’è andato anche quest’ultimo, come nella tragedia di Shakespeare, resta la sua ombra ad agitare i sonni di un quotidiano che sente il dovere morale di partire con una crociata delle sue. Il che in un Paese democratico va benissimo.

E nessuno pretende che Repubblica cambi linea, semmai di cambiare tono: ne guadagnerebbe la qualità del dibattito pubblico. Ora, il progetto di riforma di Carlo Nordio non è evidentemente un provvedimento fascista che nega le libertà costituzionali (nel caso provvederà la Consulta ad abrogarlo), ma un insieme di norme che paiono quantomeno una buona base di discussione. Sottrarsi al dibattito con un pregiudiziale è il miglior regalo che la sinistra può fare al governo.

Siamo ancora nella primissima fase, per cui teorizzare una costituenda “maggioranza Berlusconi” è un giochetto per rinverdire la teoria su Matteo Renzi e Carlo Calenda organicamente già dentro il centrodestra (anzi, la destra), facendo di una singola questione una teoria generale. E urlare, poi, come fa Carlo Bonini, cronista di vaglia nonché leader dell’ala più giustizialista del giornale, a una riforma che altro non sarebbe che una «sciagurata vendetta contro la magistratura penale e contro il giornalismo», equivale allo squillo di tromba che chiama alla battaglia le truppe giustizialiste armate di ideologia tanto quanto sono ideologiche certe prese di posizione dei favorevoli a Nordio.

Invece servirebbe più razionalità. E toni misurati. Come quelli che adopera oggi proprio su Repubblica – in dissenso dal “boninismo” – uno degli intellettuali più brillanti che collabora a quel giornale, Antonio Monda.

E fa benissimo il direttore Maurizio Molinari ad aprire una discussione plurale sul suo giornale: Repubblica non è Il Fatto. Non entriamo più di tanto nel merito. Ci limitiamo alla questione del presunto “bavaglio” che verrebbe a tappare le bocche dei giornalisti. Monda spiega giustamente che «anche il più nobile e informativo degli articoli non vale il rischio di ledere la dignità di un essere umano. Se sulla bilancia ci sono queste due alternative, personalmente propenderò sempre per la seconda, e chiunque scriva su un giornale sa quanto sia ipocrita affermare che la stampa rettifica nel caso una persona risulti poi innocente: basta leggere l’enfasi con cui una persona viene buttata in pasto ai lettori e poi “riabilitata” da articoli di impatto estremamente inferiore».

Insomma, a parte che il giornalismo investigativo migliore e più antico – quello inglese – non ha mai avuto bisogno di origliare e spiattellare le intercettazioni in prima pagina, ciò che deve prevalere è il diritto dei cittadini che non c’entrano nulla ma vengono travolti dalla furia giornalistica a caccia di clic o di qualche copia venduta in più proprio a causa della divulgazione delle intercettazioni che li vedono coinvolti.

Qui bisogna che il “fronte del No” – che fa riferimento a certi magistrati, alcuni giornali e poche forze politiche – si metta d’accordo: la proposta Nordio è come «la montagna che ha partorito il topolino» (Elly Schlein) o è una legge liberticida? Perché nel primo caso si fa una battaglia parlamentare, nel secondo si va in montagna a organizzare la Resistenza. Però è possibile che dopo le reazioni delle prime ore adesso subentri un di più di oggettività.

Nel Partito democratico i toni sono già un po’ cambiati anche grazie alla pressione dei sindaci dem, assolutamente favorevoli all’eliminazione dell’abuso d’ufficio. Repubblica ospita, come detto, un parere diverso rispetto alla linea prevalente del giornale. Monda, che com’è noto vive negli Stati Uniti e ha una cultura un po’ più aperta di altri commentatori, chiarisce bene il punto tutto politico della questione, cioè quello che abbiamo definito «il fantasma di Berlusconi», perché è evidente che il governo sta facendo un’operazione politica intestando la riforma all’ex premier appena scomparso, e che specularmente le opposizioni per la stessa ragione hanno subito visto rosso come il toro sceso nell’arena. Ma – osserva lo scrittore – non è che poiché esistono notevoli assonanze con le battaglie del Cavaliere allora di per ciò stesso il principio garantista della tutela della libertà delle persone possa essere ignorato. Così come sembra ragionevole ribadire un concetto di fondo richiamato da Monda: «Garantismo non deve significare in alcun modo impunità, ma la dignità di un cittadino è un valore superiore ad ogni rischio». Come si fa a non essere d’accordo?

Cara Repubblica, noi siamo garantisti da sempre. E voi? Il quotidiano fondato da Eugenio Scalfari accusa il Riformista di fare “campagne quotidiane contro la malagiustizia”. La scoperta dell’acqua calda: questo quotidiano è da sempre l’organo ufficiale del garantismo italiano. Ma la Repubblica quando inizierà ad essere garantista? Matteo Renzi su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Ieri il quotidiano “la Repubblica” ha attaccato duramente la riforma Nordio. L’editoriale a firma di Carlo Bonini era molto chiaro fin dal titolo “Una vendetta chiamata riforma”. E fin qui tutto legittimo. A pagina 3 il quotidiano fondato da Scalfari dà atto con Antonio Fraschilla dell’appoggio del Terzo Polo alla riforma. E fin qui tutto corretto.

Poi arriva l’attacco sul Riformista, “ora in mano all’ex premier”, Riformista accusato di fare “campagne quotidiane contro la malagiustizia”. Era dai tempi della scoperta dell’acqua calda che non si registrava una notizia così strepitosa. Questo quotidiano è da sempre l’organo ufficiale del garantismo italiano. E ne siamo fieri.

Noi cerchiamo di rimanere nel solco della storia di questo giornale con una linea forse addirittura meno dura di quella dell’amico e predecessore Piero Sansonetti. Ma le campagne quotidiane contro la malagiustizia non dovrebbe farle solo Il Riformista, cari amici di Repubblica. La malagiustizia e il giustizialismo hanno inquinato i pozzi della politica italiana, hanno distrutto la vita di migliaia di persone innocenti e delle loro famiglie, hanno concorso ad azzerare la fiducia nelle istituzioni.

Può sembrare curioso che questo concetto debba essere esplicitato e ribadito il 17 giugno 2023, esattamente quaranta anni dopo lo scandalo mostruoso della vicenda Enzo Tortora. Combattere la malagiustizia dovrebbe essere un obiettivo di tutti. Invece anche i media in questi anni si sono divisi. Non tutti hanno rispettato i principi costituzionali del garantismo. E chi per vendere più copie ha soffiato sul fuoco del giustizialismo ne paga oggi le conseguenze in termini di minore autorevolezza.

Dal canto nostro consideriamo un onore che la Repubblica scriva che facciamo campagne quotidiane contro la malgiustizia.

Continueremo a farle e non abbiamo nulla di che vergognarci: lo ribadiamo in una settimana in cui abbiamo registrato ancora assoluzioni importanti quali quelle di Tullio Del Sette e Chiara Appendino, rispettivamente già Comandante Generale dell’Arma dei Carabinieri e Sindaca di Torino.

Noi non smetteremo di essere garantisti. Sarebbe bello che iniziassero a esserlo quelli di Repubblica.

Matteo Renzi 

Poca sostanza. Abuso d’ufficio e carcere, cosa prevede la riforma Nordio. Ora si attende il dibattito parlamentare. Siamo sicuri che filerà tutto liscio? Angela Stella su L'Unità il 17 Giugno 2023 

Il primo pacchetto di riforma della giustizia targato Nordio ha superato due giorni fa – senza problemi ovviamente – il vaglio del Cdm. Ora si attende il dibattito parlamentare. Siamo sicuri che filerà tutto liscio? Tralasciando la spaccatura all’interno del Pd tra i sindaci che festeggiano per l’abolizione dell’abuso di ufficio e la segretaria Schlein che auspicava solo un rimaneggiamento della norma, non sono da escludersi anche frizioni all’interno delle forze di maggioranza, le quali sul tema della giustizia non si sono mostrate sempre allineate.

Altra incognita è rappresentata da quello che potrebbe uscire dalle possibili audizioni che dovrebbero tenersi in commissione Giustizia. Da un lato la magistratura che sta criticando aspramente la riforma ma anche sta ingaggiando un duro scontro a distanza con il Guardasigilli sulla possibilità o meno di criticare la riforma, dall’altro lato l’avvocatura che con l’Unione Camere penali ha sì espresso un parere favorevole ma più che altro sui principi espressi, non tanto sull’impatto effettivo che la riforma avrà.

Insomma, i penalisti si aspettano passi più coraggiosi, più incisivi dal responsabile di Via Arenula considerate le aspettative che aveva creato in questi mesi. Sulla sfondo c’è un dettaglio da non sottovalutare: questo primo step di riforma è stato presentato quasi come un omaggio a Silvio Berlusconi e alle sue battaglie garantiste, che però lui in tre governi non è riuscito a portare a termine. Tale accostamento potrebbe minare il dibattito già infuocato, perché le norme riformate potrebbero essere percepite come una rivalsa nei confronti della magistratura per i processi subiti dal Cavaliere. Insomma il puzzle è complicato. Ma rivediamo di cosa stiamo parlando effettivamente.

Collegialità e misure cautelari

Si propone di introdurre la competenza di un organo collegiale, formato da tre giudici, per l’adozione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Attualmente, è sempre disposta dal giudice monocratico. La collegialità riguarda solo la più grave delle misure cautelari, quella in carcere; non è estesa ad un’ordinanza per arresti domiciliari, per valorizzare il carattere di extrema ratio della misura restrittiva in carcere. Dato l’impatto sull’organizzazione dei Tribunali, soprattutto per le incompatibilità dei tre giudici rispetto alle successive fasi del processo, si prevede un aumento dell’organico con 250 nuovi magistrati, da destinare alle funzioni giudicanti.

Per consentire le necessarie assunzioni, l’entrata in vigore è differita di due anni. Contraddittorio e misure cautelari Si introduce il principio del contraddittorio preventivo. Nel ddl, si prevede che il giudice proceda all’interrogatorio dell’indagato prima di disporre la misura. Le situazioni in cui non sarà possibile una previsione di contraddittorio sono quelle in cui esiste il pericolo di fuga o di inquinamento delle prove o quando, per tipologia di reati, non è possibile rinviare la misura cautelare (quando, ad esempio, vi sia il rischio di reiterazione di gravi delitti con uso di mezzi di violenza personale o in tutti i casi in cui si è in presenza di delitti gravi).

Inappellabilità delle sentenze di assoluzione

Il ddl propone di ridisegnare il potere del pm di proporre appello contro le sentenze di assoluzione di primo grado, rispettando però le indicazioni della Corte costituzionale. La limitazione alla possibilità per il pm di proporre appello non riguarda i reati più gravi (compresi quelli contro la persona che determinano particolare allarme sociale), non è né “generalizzata” né “unilaterale”, come stabilito dalla Corte (sentenza n.26 del 6 febbraio 2007).

Limiti all’appello, di fatto, solo per i reati a citazione diretta a giudizio (ex art. 550 cpp). Di fatto, come fanno notare diversi avvocati, già adesso in caso di assoluzione per quei tipi di reati il pm non propone appello. Quindi questa proposta ha più un significato simbolico che effettivo, potrebbe essere la breccia per estendere in futuro l’inappellabilità anche ad altri reati. La proposta infatti era stata inserita già dall’ex presidente della Corte Costituzionale Giorgio Lattanzi nella riforma Cartabia.

Abuso di ufficio

L’articolo 323 è abrogato”. L’abolizione è motivata “dalla applicazione minimale da parte delle corti italiane” e dallo “squilibrio tra iscrizioni della notizia di reato e decisioni di merito, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi” che “è indicativo di una anomalia”, spiega la relazione illustrativa alla bozza del ddl.

Traffico di influenze

Viene modificato anche l’articolo 346-bis, che viene meglio definito e tipizzato e “limitato a condotte particolarmente gravi”.

Intercettazioni

Verrà escluso il rilascio di “copia delle intercettazioni di cui è vietata la pubblicazione”, quando “la richiesta è presentata da un soggetto diverso dalle parti e dai loro difensori”; si modifica l’articolo che attualmente vieta la pubblicazione del contenuto delle intercettazioni sino a quando esse non siano state “acquisite ai sensi degli articoli 268, 415-bis o 454”; tale limitazione viene ora resa più stringente prevedendo che il divieto di pubblicazione cada solo allorquando il contenuto intercettato sia “riprodotto dal giudice nella motivazione di un provvedimento o utilizzato nel corso del dibattimento”. Lo scopo – si legge nella bozza – è “rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate”.

Angela Stella 17 Giugno 2023

Riforma, il vero e il falso su corruzione e processi. La norma sull'abuso d'ufficio non incide sui reati. L'inappellabilità dei pm? Costituzionale. Felice Manti il 17 Giugno 2023 su Il Giornale.

«L'Italia si allontana dall'Europa sulla lotta alla corruzione». Ma è proprio vero? Quante fake news circolano sulla riforma della giustizia appena varata da Palazzo Chigi? Ne abbiamo parlato con Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto Penale già componente del Csm e oggi ascoltatissimo consigliere del ministro della Giustizia Carlo Nordio. È falso dire che agevola la corruzione, l'abolizione dell'abuso d'ufficio ha visto esultare sindaci di tutti gli schieramenti, segno che la misura era necessaria. «Lo dimostrano i numeri, solo 18 condanne nel 2021 a fronte di ben 4.745 iscritti nel registro degli indagati, con 4.121 archiviazioni», spiega Romano. «Persone cui è stata stravolta la vita, sindaci o amministratori riconosciuti innocenti eppure sottratti al vero loro giudice: il corpo elettorale», sottolinea il consigliere di via Arenula. E il traffico di influenze? È vero che questa riforma servirà a circoscrivere meglio la fattispecie di reato? «È vero, è una norma indeterminata e generica, inserita dalla legge Severino e poi modificata dalla cosiddetta legge spazza-corrotti», due interventi connotati entrambi da un forte intento repressivo. «Il tentativo è quello di tipizzare la fattispecie, tenendo conto delle critiche di parte della dottrina e delle letture restrittive dovute alla giurisprudenza della Corte di Cassazione, che ne ha sottolineato i difetti alla luce dell'articolo 25 della Costituzione, sotto il profilo del rispetto del principio di legalità».

Una delle misure più criticate da sinistra, grillini e Anm è l'inappellabilità di alcune sentenze di assoluzione: è vero quel che dice l'Anm? La norma prevista dalla riforma è incostituzionale? «Non credo proprio. Abbiamo tenuto ben presente quanto stabilito dalla Corte costituzionale con la sentenza numero 26 del 6 febbraio 2007. Così, abbiamo previsto che i limiti all'appello del pm non riguardino tutte le sentenze, ma solo quelle relative ai reati meno gravi, e cioè quelli per i quali l'articolo 550 del codice di procedura penale prevede la citazione diretta a giudizio - spiega ancora Romano - Inoltre, si è proceduto per bilanciare i limiti del potere di appello dell'imputato, già dovuti alla recente riforma Cartabia». Altra bugia sulle intercettazioni. È vero che la stretta sulla pubblicazione dei brogliacci è un attentato alla libertà di stampa? «La libertà di stampa è il sale della democrazia. Ma vi sono anche altri beni di rilievo costituzionale da rispettare». A lamentarsi sono soprattutto i cronisti voyeur che vivono di brogliacci e avvisi di garanzia. «Il ddl Nordio - sottolinea il consigliere di Nordio - interviene solo al fine di rafforzare la tutela del terzo estraneo al procedimento rispetto alla circolazione delle comunicazioni intercettate. Se il giudice ha riprodotto il contenuto della intercettazione nella motivazione di un provvedimento o se lo stesso è stato utilizzato nel corso del dibattimento non vi è alcun divieto. Inoltre, di regola, si devono eliminare dati personali sensibili o relativi a soggetti diversi dalle parti. Mi sembrano regole di buon senso».

Quanto al tema del gip collegiale, da più parti la magistratura lamenta che, a regime, questa riforma intaserà ancor di più il lavoro dei tribunali. È davvero cosi? «Penso, invece, che spingerà a ponderare meglio le richieste di custodia cautelare in carcere e a sottolinearne il carattere di extrema ratio. Il disegno di legge prevede un incremento del ruolo organico della magistratura nella misura di 250 unità, da destinare alle funzioni giudicanti di primo grado. E per consentire una preparata attuazione, si è previsto un differimento di due anni dell'applicazione delle disposizioni in materia».

Ultimo tassello, l'avviso di garanzia «parlante»: è vero che garantirà maggiormente la segretezza dell'indagine e la riservatezza degli indagati? E perché? «L'informazione di garanzia doveva essere un istituto attuativo del diritto di difesa costituzionalmente garantito, ma ha costituito spesso uno strumento che ha prodotto danni all'indagato in ragione della sua esposizione mediatica. Abbiamo, dunque, previsto di arricchire la funzione di garanzia dell'informazione, specificando che in essa debba essere contenuta una descrizione sommaria del fatto, oggi non prevista. Al contempo - conclude Romano - abbiamo cercato di garantire che la notificazione avvenga con modalità che garantiscano la riservatezza del destinatario».

De Luca è una furia con il Pd: “Supponenti”. E loda il governo sulla riforma della Giustizia. Il Tempo il 17 giugno 2023

Importante e positiva l’iniziativa assunta dal Governo in tema giustizia”. Non ha paura di dirlo il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, durante la consueta diretta social del venerdì. Il governatore campano è furioso con l’atteggiamento di alcuni esponenti del suo partito nei confronti della riforma portata avanti dal ministro Carlo Nordio: “Mi è capitato di ascoltare ancora in queste ore esponenti del Partito Democratico che sono, per la loro storia politica, degli esempi di trasformismo e di opportunismo. Mi è capitato di ascoltare, anche ieri, qualche esponente del Pd, che è uno dei principali responsabili del disastro elettorale del Pd e che si è riciclato come sponsor di Elly Schlein, parlare dei temi della giustizia con una supponenza davvero insopportabile”. 

A giudizio di De Luca, invece, ci sono “due elementi che caratterizzano la serietà e la correttezza degli esponenti politici nazionali. Il primo è l’atteggiamento che hanno nei confronti di quelli che subiscono iniziative giudiziarie sbagliate. Nel caso dell’abuso in atti d’ufficio, sono dieci anni che mi batto contro questa ipotesi di reato e contro la legge Severino, abbiamo sentito in queste ore che vi sono stati 5mila procedimenti giudiziari aperti e 18 condanne. Il problema è parlare dei 5mila cittadini italiani, amministratori pubblici, governanti, che hanno visto la propria vita rovinata perché il livello di imbarbarimento del sistema giudiziario in Italia è tale che un avviso di garanzia ti rovina l’esistenza. Il rapporto malato che si è costruito tra alcune procure e il mondo dell’informazione. Possibile non sentire una parola di solidarietà o di consapevolezza rispetto a 5mila cittadini italiani cui è stata rovinata la vita”. 

Quindi, per De Luca, è “insopportabile l’ipocrisia di chi, come quell’esponente politico trasformista e opportunista di cui facevo cenno, parla della tutela dei diritti in relazione all’omotransfobia, cosa giusta, ma la totale indifferenza alla tutela dei diritti di chi si vede la vita rovinata da un avviso di garanzia per il sistema malato che si è creato in Italia. Un’altra unità di misura della correttezza degli esponenti politici nazionali quando si parla di giustizia - osserva nuovamente il ‘governatore’ campano - è la proposta di applicare la legge Severino anche per i deputati, i senatori, i sottosegretari, i viceministri e i ministri. La legge Severino per tutta questa varia umanità non vale, vale solo per gli amministratori pubblici e non è possibile. Chi non propone di applicare la Severino anche per i parlamentari è un cialtrone”. De Luca ricorda però che si tratta di “una proposta” della quale “bisogna vedere la sua conclusione a livello parlamentare”. A Schlein e al nuovo corso Pd fischieranno le orecchie.

La riforma della giustizia spacca il Pd. I sindaci dem d’accordo con Nordio. GIULIA MERLO su Il Domani il 16 giugno 2023

Per i primi cittadini la cancellazione del reato voluta dal governo è «una vittoria», i parlamentari sono contrari.

La segretaria è per l’opposizione al ddl del governo, ma così la conflittualità interna al partito cresce ancora

Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, con cui è in corso una guerra a distanza, ha affondato il colpo: «Credo che l'iniziativa assunta dal Governo sia importante e positiva»

Sindaci dem contro parlamentari Pd, nel mezzo la cancellazione dell’abuso d’ufficio. Così il governo è riuscito nella duplice impresa: commemorare Silvio Berlusconi con un ddl sul tema che gli è sempre stato caro ma soprattutto spaccare il Pd.

La distanza tra gruppo parlamentare e primi cittadini è evidente e nessuno prova nemmeno a dissimularla, tanta e tale è la pioggia di dichiarazioni discordanti. La questione è annosa: da dieci anni i sindaci chiedono una revisione del reato, che considerano vessatorio e tra le principali cause della cosiddetta paura della firma. Per questo per loro la cancellazione è «una vittoria», come la definisce senza mezzi termini il sindaco di Pesaro e coordinatore dei sindaci del Pd Matteo Ricci.

Che poi argomenta: «Capiamo che abolirlo può aprire qualche contraddizione giuridica, ma noi abbiamo sempre espresso la necessità di una revisione radicale». Quindi portare avanti una posizione di contrarietà rispetto alla scelta del governo non è sostenibile, è l’ovvia conclusione.

Anche a costo di essere l’ennesima spina nel fianco – sempre proveniente dall’area del partito più vicina a Stefano Bonaccini – della segretaria Elly Schlein, che invece è allineata al giudizio negativo sul ddl espresso dai gruppi parlamentari dem. «Siamo contrari», ha detto Schlein, aprendo tuttavia «all’idea che si possa riformare la fattispecie per evitare alcuni effetti distorsivi».

Per il gruppo dem che si occupa di giustizia, infatti, il rischio di abolire l’abuso d’ufficio è quello di aprire la strada a rischi ben più gravi: «Capiamo i nostri sindaci, che hanno sempre chiesto la rimodulazione dell’articolo, alla luce di quelle che erano evidenti storture. Va detto che l’ultima modifica ha ridotto in modo significativo il numero dei rinvii a giudizio e delle condanne», ha detto la responsabile Giustizia, Debora Serracchiani, «la nostra preoccupazione però è che, eliminando del tutto l’abuso, si riespandano le fattispecie di reati più gravi, come la corruzione». Una sorta di eterogenesi dei fini, insomma.

OBIETTIVO SBAGLIATO

Fuori dal lessico ufficiale, la sensazione tra i parlamentari è che «i sindaci sbaglino obiettivo», anche perchè una cucitura tra le diverse posizioni in seno al partito – quella dei primi cittadini esasperati e sempre più rumorosi e i parlamentari più cauti – era stata trovata nel cosiddetto “pacchetto sindaci”, la proposta organica che prevedeva la riforma del testo unico degli enti locali, la modifica della legge Severino e delle norme sui reati omissivi.

La questione però è come uscire dall’angolo. Per tutta la giornata ci sono stati contatti trilaterali tra sindaci, parlamentari e segreteria in ruolo di mediazione: i primi avrebbero chiesto di astenersi sull’abrogazione della difesa d’ufficio, nel caso in cui il disegno di legge si voti articolo per articolo, ma la risposta sarebbe stata negativa. Comprensibile, perché «siamo pur sempre all’opposizione», dice una fonte vicina ai sindaci «ma questo non toglie che il cento per cento dei sindaci del Pd è d’accordo con l’abrogazione».

Il gruppo parlamentare vicino alla segreteria, però, prende tempo: il disegno di legge dovrà essere incardinato in una delle due camere, poi il Pd presenterà i suoi emendamenti ripresi dal “pacchetto sindaci” e la speranza è che qualche crepa nasca anche dentro la maggioranza. Non è detto infatti che il testo approvato in cdm passi indenne il percorso d’aula, visto che la Lega era contraria all’abrogazione.

La strategia di Schlein, dunque, sarebbe di far passare la proverbiale nottata. Accogliendo il suggerimento del sindaco di Milano, Beppe Sala, di non rincarare la dose contro l’abuso d’ufficio e di concentrarsi piuttosto su altre parti controverse della riforma. Con la consapevolezza che prima di lei anche Enrico Letta aveva dovuto scontrarsi con lo stesso ostacolo.

Tuttavia, ogni crepa rischia di diventare una voragine che i nemici interni di Schlein sono pronti a sfruttare, soprattutto quando la leader dem mostra di non padroneggiare bene la materia del contendere. Il governatore della Campania Vincenzo De Luca, con cui è in corso una guerra a distanza, ha affondato il colpo: «L'iniziativa assunta dal Governo è importante e positiva. Ho ascoltato invece esponenti del Pd, che sono per la loro storia politica esempi di trasformismo e opportunismo, dire altro». Mentre nel Pd infiamma lo scontro, il centrodestra si gode lo spettacolo. 

GIULIA MERLO. Mi occupo di giustizia e di politica. Vengo dal quotidiano il Dubbio, ho lavorato alla Stampa.it e al Fatto Quotidiano. Prima ho fatto l’avvocato.

Abuso difesa d’ufficio. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 24 Gennaio 2023

Nessuno tocchi Carlo Nordio: la maggioranza difende compatta il ministro della Giustizia e il premier Giorgia Meloni guarda avanti, al cronoprogramma chiesto ai suoi ministri. “Mi piacerebbe lavorare su una calendarizzazione dei lavori del governo nel 2023. Sto organizzando un giro con i diversi ministri. Ci tengo a dire che oggi mi alzo e vedo che, secondo i giornali, ho mille problemi con tanti ministri, anche con Nordio. Con lui ho un rapporto ottimo e ho lottato per averlo al ministero della Giustizia. Le due cose non sono collegate”. La linea del Guardasigilli – a partire dalla riforma delle intercettazioni – è quella della maggioranza. Con buona pace dell’opposizione, dove si vocifera persino una (inutile) mozione di sfiducia.

Per “mettere mano” alle intercettazioni “non c’è bisogno di uno scontro tra politica e magistratura, credo anzi che si debba lavorare insieme per capire dov’è il meccanismo dello Stato di diritto che non funziona e cercare le soluzioni più efficaci. Questo il ministro Nordio, la magistratura, e gli operatori del settore lo sanno meglio di me – sottolinea la Meloni -, io provo a metterci il buon senso: non credo che quando si affrontano queste materie ci si debba scontrare. Le persone di buona volontà capiscono quali sono i problemi e le risolvono, tra persone capaci che hanno a cuore gli interessi della nazione e i suoi valori fondamentali”.

forma sbagliata non il contenuto

Certo è che Nordio non ha usato le parole giuste. Anzi, è stato improvvido nel suo attacco ai pm – “Il Parlamento “non sia supino e acquiescente a quello che sono le affermazioni dei pubblici ministeri” – a ridosso dell’arresto di Matteo Messina Denaro, possibile soprattutto grazie alle intercettazioni. Ma al di là della forma, il contenuto resta. E il ministro ha anche chiarito in Aula che il governo non ha alcuna intenzione di limitare le intercettazioni “per reati di mafia e di terrorismo”. Né quelle per i reati “satellite”. Quello che vuole fare il Guardasigilli è intervenire rispetto agli abusi dell’uso delle intercettazioni. Non limitarne l’utilizzo, ma la pubblicazione. “L’importante – afferma il vicepremier Matteo Salvini – è che non ci siano polemiche con un intero corpo come quello della magistratura, che ha a lavoro migliaia di persone per bene, che sono in tribunale non per fare politica, che sono in ufficio non per intercettare a casaccio. L’importante è individuare e sanzionare eventuali abusi senza nuovi scontri tra pezzi dello Stato”.

Quando il ministro era pm in Veneto

Peraltro – vale la pena ricordarlo – da pm, proprio grazie all’uso delle intercettazioni, Nordio portò avanti l’indagine sulla tangentopoli veneta e quella sulle magagne circa i fondi pubblici al Mose. Insomma, il Guardasigilli sa bene che senza l’ausilio delle intercettazioni è di fatto impossibile fare indagini su episodi di corruzione, vista la complicità dei coinvolti. Ma è altrettanto vero che l’abuso di tale strumento ha rivelato intenti spesso tutt’atro che nobili. Così come è innegabile che una volta pubblicate sui giornali, le intercettazioni fanno emettere all’opinione pubblica una condanna del malcapitato prima ancora che inizi il processo.

Giustizialismo e garantismo

Altro andazzo che va corretto è mettere alla gogna chiunque intenda correggere tali distorsioni, causate dalla pubblicazione delle intercettazioni: non mette a rischio la giustizia o la legalità. Anzi, al contrario, le tutela dal giustizialismo. Nordio per primo non si stanca di ricordare che le intercettazioni non sono una prova ma un indispensabile strumento d’indagine alla ricerca di una prova. Eppure in molti processi gli unici elementi di prova presentati dall’accusa sono intercettazioni. Questo è il problema.

Il ministro della Giustizia andrebbe giudicato sui fatti. E non sulle parole, più o meno travisate, più o meno opportune. Altrimenti il fondato sospetto è che chi si scaglia contro di lui in realtà stia cercando di ostacolare una riforma dall’impianto garantista. Quindi (più che) giusta…

Nordio contro l’Anm. Un duello rusticano che dura da 30 anni. Per farsi un’idea di questo conflitto bisogna tornare al 1994 e allo scontro che la toga veneziana ebbe con la procura di Milano, in particolare con il celebre pool di Mani Pulite. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 24 gennaio 2023

«Le anime belle della magistratura». Per questa irriverente espressione mutuata dal romantico Wolfgang Goethe Carlo Nordio nel 1997 viene deferito ai probiviri dall’Associazione nazionale magistrati. A dirla tutta Nordio citò anche il Mercante di Venezia, attaccando quei Pm che «vogliono ancora la loro quotidiana libbra di carne da gettare al popolo».

Parole che l’Anm, non gradì affatto considerandole addirittura «denigratorie e lesive per l’intera categoria, che superano i limiti della libertà di espressione». Così scattò la convocazione dell’allora procuratore di Venezia che, va da sé, ignorò del tutto quella che ancora oggi definisce «una grossolana forma di intimidazione di stampo stalinista». E non a torto.

La faccenda si risolse con un netto passo indietro dell’Anm per bocca del segretario generale Wladimiro De Nunzio e soprattutto della presidente Elena Paciotti che criticò «l’eccesso di zelo dei probiviri». Perché Nordio, seppur in punta di citazioni letterarie, aveva il dente così avvelenato con parte della magistratura in termini peraltro molto simili a quelli dello scontro attualmente in corso tra Via Arenula e le procure?

La lettura “politica” è quanto di più fuorviante possa essere tirato in ballo, perché se è vero che più volte la destra (Forza Italia e Lega) lo ha difeso dagli attacchi dei colleghi e dei partiti di sinistra, lui si definisce da sempre un «liberale», un magistrato indipendente al quadrato, che detesta le conventicole e la squallida roulette delle correnti che ammorba la nostra giustizia. Anche i suoi più feroci detrattori gli riconoscono questa istintiva diffidenza nei confronti delle confraternite di togati.

Per farci un’idea più concreta di questo duello che va ormai avanti da un quarto di secolo dobbiamo tornare indietro ancora di tre anni, al 1994 e allo scontro che la toga veneziana ebbe con la procura di Milano, in particolare con il celebre pool di Mani Pulite, una vicenda che ha a che fare con Bettino Craxi, all’epoca in esilio a Hammamet.

Il nome di Nordio spunta fuori nell’intercettazione tra l’ex segretario del Psi e un certo “Salvatore” che gli avrebbe suggerito di incontrare il pm lagunare (che all’epoca indagava sulle presunte tangenti del Pci-Pds) con cui aveva preso contatti. Chi era dunque il fantomatico interlocutore di Craxi su cui la stampa, tutta schierata con gli “eroi” di Tangentopoli ricamò articoli complottisti dai risvolti fantasy?

Quasi sempre come spiegava Guglielmo da Occam ottocento anni fa, la soluzione più semplice è anche la più giusta. Si trattava infatti dell’avvocato di Craxi, Salvatore Lo Giudice con cui Nordio aveva avuto dei colloqui privati in merito all’opportunità di ascoltare il suo assistito come testimone nell’ambito dell’inchiesta sulle Coop rosse.

Il problema è che quell’intercettazione, che non aveva alcun valore processuale, venne divulgata ai media che linciarono Nordio, dipingendolo come un fiancheggiatore del latitante Bettino Craxi, intenzionato ad aiutare il sodale perseguitando i vertici del Pds (Achille Occhetto e Massimo D’Alema) per alleggerire la posizione del leader socialista. La storia ci dice che le cose non stavano affatto così e che fu lo stesso Nordio ad archiviare l’inchiesta ritenendo «inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere».

Il problema è che i responsabili della pubblicazione dell’intercettazione, ovvero i colleghi della procura di Milano Francesco Saverio Borrelli e Paolo Ielo erano perfettamente a conoscenza dell’identità di Salvatore come spiegò lo stesso Nordio: «In una conversazione telefonica ho detto al collega Ielo che tale Salvatore era molto probabilmente proprio il difensore di Craxi, l' avvocato Salvatore Lo Giudice, con il quale pochi giorni prima avevo avuto, su sua richiesta, un colloquio riservato ed urgente in merito all' invito a comparire e alla opportunità di sentire quanto prima l' indagato. Ho anche aggiunto che nell' ambito di quel colloquio erano state fatte delle considerazioni che avrei preferito chiarire a voce proprio con i colleghi di Milano». Un’intercettazione illegittima, che. oltre a gettare fango sull’interessato violava il diritto di riservatezza tra un avvocato e il suo cliente. Nordio era invec convinto che Ielo sapesse perfettamente chi fosse Lo Giudice, nonostante il pm milanese sostenesse il contrario, spiegando di aver utilizzato l’intercettazione per “tutelare” lo stesso Nordio, mentre il suo capo Borrelli si giustificò spiegando che la divulgazione di colloquio tra Lo Giudice e Craxi non era da addebitare al suo ufficio. Chi fornì allora le trascrizioni ai giornali? Non si è mai saputo..

Lo scontro finì poi davanti al Csm che come spesso accade archiviò il tutto senza però chiarire la vicenda e senza riuscire a mettere pace tra le due procure.

Intercettazioni, processi mediatici, spirito corporativo e di casta, a un quarto di secolo di distanza siamo ancora al punto di partenza e i titoli dei media di oggi potrebbero tranquillamente sovrapporsi a quelli di 25 anni fa. Perché, al di là delle circostanze specifiche, dei colpi bassi, delle piccole bugie, è dai tempi di Mani Pulite che nel nostro paese è in corso uno scontro culturale profondo tra garantisti e giustizialisti, tra chi a costo di essere impopolare protegge i diritti della difesa e chi vuole offrire al popolo la famosa «libbra di carne».