Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2023

LA GIUSTIZIA

TERZA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 


 

LA GIUSTIZIA

INDICE PRIMA PARTE


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY. (Ho scritto un saggio dedicato)

Una presa per il culo.

Gli altri Cucchi.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Un processo mediatico.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Senza Giustizia.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Qual è la Verità.

SOLITA ABUSOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli incapaci.

Parliamo di Bibbiano.

Scomparsi.

Nelle more del divorzio.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Mai dire legalità. Uno Stato liberticida: La moltiplicazione dei reati.

Giustizia ingiusta.

L’Istituto dell’Insabbiamento.

L’UPP: l’Ufficio per il Processo.

Perito Fonico Trascrittore Dattilografo Stenotipista Forense e Tecnico dei Servizi Giudiziari.

Le indagini investigative difensive.

I Criminologi.

I Verbali riassuntivi.

Le False Confessioni estorte.

Il Patteggiamento.

La Prescrizione.

I Passacarte.

Figli di “Trojan”.

Le Mie Prigioni.

Il 41 bis.


 

INDICE TERZA PARTE


 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione.

Riservatezza e fughe di notizie.

Il tribunale dei media.

Ingiustizia. Il caso Tangentopoli - Mani Pulite spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Il Caso Eni-Nigeria spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Consip spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Monte Paschi di Siena spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso David Rossi spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Chico Forti spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Giulio Regeni spiegato bene.

Ingiustizia. Il caso Mario Biondo spiegato bene.

Piccoli casi d’Ingiustizia.

Casi d’ingiustizia: Enzo Tortora.

Casi d’ingiustizia: Mario Oliverio.

Casi d’ingiustizia: Marco Carrai.

Casi d’ingiustizia: Paola Navone.


 

INDICE QUARTA PARTE


 

SOLITA MANETTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

I Giustizialisti.

I Garantisti. 


 

INDICE QUINTA PARTE


 

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)

Comandano loro.

Toghe Politiche.

Magistratopoli.

Palamaragate.

Gli Impuniti.


 

INDICE SESTA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero di Marta Russo.

Il mistero di Luigi Tenco.

Il Caso di Marco Bergamo, il mostro di Bolzano.

Il caso di Gianfranco Stevanin. 

Il caso di Annamaria Franzoni 

Il caso Bebawi. 

Il delitto di Garlasco

Il Caso di Pietro Maso.

Il mistero di Melania Rea.

Il mistero Caprotti.

Il caso della strage di Novi Ligure.

Il caso di Donato «Denis» Bergamini.

Il caso Serena Mollicone.

Il Caso Unabomber.

Il caso Pantani.

Il Caso Emanuela Orlandi.

Il mistero di Simonetta Cesaroni.

Il caso della strage di Erba.

Il caso di Laura Ziliani.

Il caso Benno Neumair.

Il Caso di Denise Pipitone.


 

INDICE SETTIMA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il caso della saponificatrice di Correggio.

Il caso di Augusto De Megni.

Il mistero di Isabella Noventa.

Il caso di Pier Paolo Minguzzi.

Il Caso di Daniel Radosavljevic.

Il mistero di Maria Cristina Janssen.

Il Caso di Sana Cheema.

Il Mistero di Saman Abbas.

Il caso di Cristina Mazzotti.

Il caso di Antonella Falcidia.

Il caso di Alessandra Matteuzzi.

Il caso di Andrea Mirabile.

Il caso di Giulia e Alessia Pisanu.

Il mistero di Gabriel Luiz Dias Da Silva.

Il caso di Paolo Stasi.

Il mistero di Giulio Giaccio.

Il mistero di Maria Basso.

Il mistero di Polina Kochelenko.

Il mistero di Alice Neri.

Il mistero di Augusta e Carmela.

Il mistero di Elena e Luana.

Il mistero di Yana Malayko.

Il caso di Luigia Borrelli.

Il caso di Francesca Di Dio e Nino Calabrò.

Il caso di Christian Zoda e Sandra Quarta.

Il caso di Massimiliano Lucietti e Maurizio Gionta.

Il mistero di Davide Piampiano.

Il mistero di Volpe 132.

Il mistero di Giuseppina Arena.

Il Caso di Teodosio Losito.

Il mistero di Michelle Baldassarre.

Il mistero di Danilo Salvatore Lucente Pipitone.

Il Caso Gucci.

Il mistero di «Gigi Bici».

Il caso di Elena Ceste.

Il caso di Libero De Rienzo.

La storia di Livio Giordano.

Il Caso di Alice Schembri.

Il caso di Rosa Alfieri.

Il mistero di Marina Di Modica.

Il Caso di Maurizio Minghella.

Il caso di Luca Delfino.

Il caso di Donato Bilancia.

Il caso di Michele Profeta.

Il caso di Roberto Succo.

Il caso di Pamela Mastropietro.

Il caso di Luca Attanasio.

Il giallo di Ciccio e Tore.

Il giallo di Natale Naser Bathijari.

Il giallo di Francesco Vitale.

Il mistero di Antonio Calò e Caterina Martucci.

Il caso di Luca Varani.

Il caso Panzeri.

Il mistero di Stefano Gonella.

Il caso di Tiziana Cantone.

Il mistero di Gilda Ammendola.

Il caso di Enrico Zenatti.

Il mistero di Simona Pozzi.

Il caso di Paolo Calissano.

Il caso di Michele Coscia.

Il caso di Ponticelli.

Il caso di Alfonso De Martino, infermiere satanico.

Il caso di Sonya Caleffi, la serial killer di Lecco.

Il caso di Rosa Bronzo, la serial killer di Vallo della Lucania.

Il mistero di Marcello Vinci.

Il mistero di Ivan Ciullo.

Il mistero di Francesco D'Alessio.

Il caso di Davide Cesare «Dax».

Il caso di Tranquillo Allevi, detto Tino.

Il caso Shalabayeva.

Il Caso di Giuseppe Pedrazzini.

Il Caso di Massimo Bochicchio.

Il giallo di Grazia Prisco.

Il caso di Diletta Miatello.

Il Caso Percoco.

Il Caso di Ferdinando Carretta.

Il mistero del “collezionista di ossa” della Magliana.

Il Milena Quaglini.

Il giallo di Lorenzo Pucillo.

Il Giallo di Vincenzo Scupola.

Il caso di Vincenzo Mosa.

Il Caso di Alessandro Leon Asoli.

Il caso di Santa Scorese.

Il mistero di Greta Spreafico.

Il Caso di Stefano Dal Corso.

Il mistero di Rkia Hannaoui.

Il mistero di Stefania Rota.

Il Mistero di Andrea La Rosa.

Il Caso Valentina Tarallo.

Il caso di Vittoria Nicolotti e Rosa Vercesi.

Il caso di Terry Broome.

Il caso di Giampaolo Turazza e Vilma Vezzaro.

Il Mistero di Giada Calanchini.

Il Caso di Cinzia Santulli.

Il Mistero di Marzia Capezzuti.

Il Mistero di Davide Calvia.

Il caso di Manuel De Palo.

Il caso di Michele Bonetto.  

Il mistero di Liliana Resinovich.

Il Mistero del Cinema Eros.

Il mistero di Sissy Trovato Mazza.

I delitti di Alleghe.

Il massacro del Circeo.

Il mistero del mostro di Bargagli.

Il mistero del Mostro di Firenze.

Il Caso di Alberica Filo della Torre.

Il mistero di Marco Sconforti.

Il mistero di Giulia Tramontano.

Il mistero di Alvise Nicolis Di Robilant.

Il mistero di Maria Donata e Antonio. 

Il caso di Sibora Gagani.

Il mistero di Franca Demichela.

Il mistero di Stefano Masala.

Il mistero di Luca Orioli Marirosa Andreotta.

Il caso di Emanuele Scieri.

Il caso di Carol Maltesi.

INDICE OTTAVA PARTE


 

I SOLITI MISTERI ITALIANI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il mistero di Pierina Paganelli.

L’omicidio Donegani.

Il mistero di Mario Bozzoli.

Il mistero di Fabio Friggi.

Il giallo della morte di Patrizia Nettis.

La vicenda di Gianmarco “Gimmy” Pozzi.

La vicenda di Elisa Claps.

Il mistero delle Stragi.

Il Mistero di Ustica.

Il caso di Piazza della Loggia.

Il Mistero di piazza Fontana.

Il mistero Mattei.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA. (Ho scritto un saggio dedicato)

I nomi dimenticati.

 

 

LA GIUSTIZIA

TERZA PARTE



 

SOLITA GIUSTIZIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Diffamazione. La crisi del sistema giustizia nelle diffamazioni. Se la certezza del diritto dipende da chi denuncia. Paolo Pandolfini su Il Riformista l'11 Agosto 2023 

Da tempo ormai le decisioni giudiziarie in tema di diffamazione stanno creano grande disorientamento. Se paragonare l’allora presidente del Senato Maria Elisabetta Casellati ad Adolf Hitler non è ‘antigiuridico’, criticare in maniera ironica, come fece Maurizio Costanzo, il giudice che non aveva disposto una misura restrittiva per l’ex fidanzato di Jessica Notaro, poi sfregiata da costui con l’acido, ha determinato la condanna del conduttore televisivo oltre al pagamento di una maxi provvisionale di 40mila euro.

Si è creata, in altre parole, una giurisprudenza quanto mai imprevedibile che rende difficilissimo ricondurre ad un ordine sistematico tali decisioni giudiziarie. E non è certamente un bel segnale. La discrezionalità del giudicante in questo ambito è massima e ciò determina, inevitabilmente, la crisi del sistema giustizia. Solo al giudice, ed alla sua valutazione e sensibilità, compete infatti acclarare se una dichiarazione rientri nell’alveo della libertà di espressione, della critica o della satira, o invece è idonea a ledere i diritti della personalità altrui, come l’onore e la reputazione. I criteri per assicurare, almeno sulla carta, una certa uniformità negli importi risarcitori da liquidare al danneggiato comunque ci sarebbero.

Al primo posto, in ordine di importanza, vi è la natura del fatto falsamente attribuito alle parti lese. Segue quindi l’intensità dell’elemento psicologico dell’autore ed il mezzo di comunicazione utilizzato per commettere la diffamazione e la sua diffusività sul territorio. Infine, vi è il rilievo attribuito dai responsabili al pezzo contenente le notizie diffamatorie all’interno della pubblicazione in cui lo stesso è riportato e l’eventuale eco suscitata dalle notizie diffamatorie.

Una analisi di circa settecento sentenze depositate negli anni 2015/2020 presso il Tribunale di Roma è stata pubblicata su Diritto dell’informazione e dell’informatica, periodico edito da Giuffrè, da parte dei professori di diritto privato comparato Pieremilio Sammarco e Vincenzo Zeno-Zencovich. I due docenti hanno acquisito, dopo essere state previamente anonimizzate nella identità delle persone fisiche attrici e convenute, queste pronunce dalla banca dati del Tribunale della Capitale. In taluni casi però la notorietà delle parti ha reso tale misura superflua. Sono invece rimaste identificate le persone giuridiche.

Il dato che balza subito all’occhio riguarda l’accoglimento: solo in tre casi su dieci. Delle oltre quattrocento sentenze di rigetto, poi, tutte decidono nel merito negando l’illecito. Vi sono poche decisioni su questioni preliminari, tipicamente per la competenza territoriale, ovvero di inammissibilità del giudizio oppure sulla sua estinzione.

Nel caso si tratti di magistrati, ed è questo l’aspetto che non può non suscitare sorpresa, la domanda viene accolta in ben sette casi su dieci. Esattamente il contrario, dunque tre accoglimenti su dieci, quando il denunciante appartiene ad una qualsiasi altra categoria professionale (giornalista, politico, professore, imprenditore, ecc.). Per quanto concerne invece gli importi, la media è di circa ventimila euro, esattamente il doppio per le toghe. Difficile non pensare, considerato il differente esito processuale, all’esistenza di una “giustizia domestica” fra i magistrati per questo genere di cause: il giudice che decide sulla denuncia per diffamazione del collega sa che quest’ultimo un domani potrà fare altrettanto. Un magistrato, ex Pm di Mani pulite, nel quinquennio in questione è riuscito ad imbastire oltre venti cause ottenendo un risarcimento complessivo di quasi seicentomila euro. Il convenuto è quasi sempre un mezzo di comunicazione di massa, quotidiano o programma televisivo, che poi corrisponde l’importo liquidato in quanto debitore di ultima istanza, anche rispetto ai propri giornalisti. 

La ricerca si è soffermata anche sulla presenza di non poche decisioni in cui la contesa ha riguardato persone fisiche, generate da offese diffuse attraverso i social media. Si tratta di un fenomeno in grande aumento nell’ultimo periodo. Tenendo conto delle regole sulla competenza territoriale, e quindi che i procedimenti analizzati hanno riguardato per la maggior parte vicende in cui l’editore aveva sede nella Capitale, i dati forniti da Sammarco e Zeno-Zencovich sono meramente indicativi in quanto non riportano gli importi liquidati da altri Tribunali, sede della persona giuridica convenuta, ovvero dove uno dei convenuti è residente, ovvero ancora del luogo di residenza dell’attore. Sarebbe interessante una analisi di queste decisioni sull’interno territorio nazionale. “In estrema sintesi si può affermare che tutto è rimesso all’apprezzamento discrezionale del giudice: è molto difficile, se non impossibile, stabilire in linea di massima come potrà concludersi una causa risarcitoria per diffamazione”, sottolinea sconsolato il professor Sammarco, ricordano che in molti casi scatta anche la condanna alle spese. Della serie, oltre il danno la beffa. Altro dunque che certezza del diritto: in questo caso siamo veramente nell’ambito della cabala. Paolo Pandolfini

Qualcuno sanzionerà quei magistrati che abusano dei social? Non esiste ancora un codice che regolamenti l’uso del web da parte delle toghe. Pierantonio Zanettin (Forza Italia): «Non sono cittadini come gli altri, devono avere misura». Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 10 maggio 2023.

«Il magistrato non è un cittadino come tutti gli altri: il suo ruolo gli impone di non lasciarsi andare a commenti e giudizi sconvenienti che possano comprometterne la terzietà ed imparzialità», afferma il senatore Pierantonio Zanettin, capogruppo di Forza Italia in Commissione giustizia a Palazzo Madama, a proposito dell'ennesima polemica che ha riguardato una toga che si era lasciata prendere la mano, postando sul proprio profilo Facebook commenti molto duri nei confronti di alcune parlamentari, considerate “peggiori di Wanna Marchi”. Una di esse, la deputata dem Laura Pinotti, era stata anche additata come “guerrafondaia”.

Questi post erano quindi finiti sul tavolo della Procura generale che aveva deciso di aprirgli un procedimento disciplinare. La toga, che nel frattempo aveva chiuso il proprio profilo, si era allora scusata, riconoscendo “l’inopportunità dei toni dei post pubblicati senza una particolare riflessione”. Giustificazione che non era stata comunque ritenuta sufficiente. Zanettin, quando era componente laico del Consiglio superiore durante la consiliatura 2014-18, chiese l'apertura di una pratica per individuare delle linee guida volte a garantire che la comunicazione sui social da parte dei magistrati avvenisse nel rispetto dei principi deontologici e con forme e modalità da non arrecare pregiudizio alla credibilità della funzione.

«Ricordo bene, chiesi l’apertura di questa pratica nell’estate del 2017. Poi terminò la consiliatura e non seppi più nulla. L’anno scorso ho scoperto che la pratica era rimasta inevasa per anni e che il Csm aveva deciso di archiviarla ritenendo che non ci fossero provvedimenti da prendere. Mi auguro adesso che il rinnovato Csm, sotto la guida di Fabio Pinelli, la riprenda, fissando dei paletti», aggiunge Zanettin, sottolineando che «non si può sempre invocare come giustificazione il diritto alla libertà di espressione».

L’utilizzo dei socialnetwork da parte di personaggi pubblici, soprattutto se questi personaggi sono dei magistrati, rimane un tema sempre attuale. In Italia, poi, da tempo i social sono diventati l'unico mezzo con cui le persone si informano su ciò che accade. Le ultime ricerche annotano che circa 15 milioni di italiani si informano esclusivamente sui social, non ricordando l'ultima volta che hanno letto un giornale. In un simile scenario è fondamentale pertanto che i personaggi pubblici diano informazioni corrette, non diventando dei divulgatori di fake news o lasciandosi andare a commenti e giudizi sfavorevoli.

Le pagine social di alcuni magistrati hanno avuto ultimamente una crescita esponenziale di follower. L'ex consigliere del Csm Sebastiano Ardita, ad esempio, ha un pagina Fb con oltre 100mila follower. Il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, la cui pagina è gestita dal giornalista Antonio Nicaso, coautore di alcuni suoi libri, supera addirittura i 300mila follower. Numeri importanti che dimostrato come i magistrati occupino uno spazio sempre più rilevante nel dibattito pubblico.

Tanto per fare un confronto, il presidente del Senato Ignazio La Russa, non arriva a 100mila follower. Per la cronaca, comunque, tutti i magistrati finiti fino ad oggi sotto disciplinare per un post “sopra le righe”, sono sempre stati assolti per “scarsa rilevanza” del fatto.

Responsabilizzare i pm sulle “fughe di notizie”: la giusta risposta di Nordio. Tutelare davvero il segreto d’indagine: il ministro ha inserito l’obiettivo tra le priorità del proprio disegno riformatore. Ed è opportuno che punti a chiarire i ruoli, piuttosto che prolungare (a danno della difesa) i termini di inaccessibilità degli atti. Alessandro Parrotta su Il Dubbio il 9 maggio 2023.

Uno degli interventi di riforma prefigurati recentemente dal ministro Nordio, che compongono un complessivo disegno di revisione di tutti quei meccanismi processuali nei quali quotidianamente si calpestano il diritto di difesa e la presunzione di non colpevolezza, concerne la proposta di estendere quanto più possibile il momento temporale di vigenza del segreto di indagine, ovvero di inasprire le sanzioni del divieto di pubblicazione degli atti (coperti o non più da segreto di indagine).

Tutto ciò a seguito della presa d’atto di come la fase più delicata dell’intero procedimento penale, quella delle indagini, sia ormai alla mercé di tutti, contribuendo tale anticipazione delle risultanze investigative a minare alla radice i diritti e le garanzie difensive della persona sottoposta a indagini. Problema ulteriormente e drammaticamente acuito dall’ormai inarrestabile fenomeno della massmediatizzazione della giustizia penale, che ha trasformato la (legittima) domanda di informazione sulla giustizia da parte dell’opinione pubblica (pur sempre amministrata in nome del popolo) in un bisogno ossessivo e compulsivo di celebrare il processo penale nei salotti televisivi, con l’ausilio di esperti ed elementi di prova che in quei salotti non dovrebbero in alcun modo circolare (stralci di intercettazioni, copie di richieste di misure cautelari e ordinanze applicative, decreti di perquisizione, verbali di “sit” o di interrogatori etc...).

Attualmente, infatti, il Codice di rito, unitamente alla disciplina sostanziale, prevedono, il segreto e il contestuale divieto di pubblicazione degli atti di indagine compiuti dagli inquirenti (pm o ufficiali di polizia giudiziaria) fino a quando l’imputato non ne possa avere conoscenza e, comunque, non oltre la chiusura delle indagini preliminari (obbligo di segreto e divieto di pubblicazione sono eventualmente prorogabili dal pubblico ministero in caso di necessità). Ugualmente e in via più generale – anche caduto il segreto di indagine sui singoli atti – si pone comunque il divieto di pubblicazione degli atti, eccetto alcuni, finché non siano concluse le indagini preliminari o fino al termine dell’udienza preliminare, così come è sempre vietata la pubblicazione degli stralci e dei contenuti delle intercettazioni.

L’apparato sanzionatorio di tale complessa disciplina si divide a seconda che sia violato il (solo) divieto di pubblicazione ovvero (anche) quest’ultimo unitamente alla diffusione di notizie inerenti atti coperti da segreto di indagine.

Nel primo caso, infatti, l’ordinamento sanziona a mero titolo contravvenzionale (con una minaccia di pena del tutto irrisoria) la diffusione di atti o documenti di un procedimento penale dei quali sia vietata la pubblicazione, oltre alla possibilità di commettere un illecito disciplinare (che andrebbe perseguito dall’organo titolare del relativo potere disciplinare). Nel secondo caso, si prevede la punibilità per il delitto di rivelazione di segreto d’ufficio per i pubblici ufficiali che rivelino notizie dell’ufficio che debbano rimanere segrete. Una disciplina – nel complesso – apparentemente esaustiva ma che, tuttavia, ha da sempre mostrato (soprattutto sul fronte della pubblicazione degli atti coperti da segreto di indagine) tutte le sue criticità e lacune in materia di efficacia preventiva, prima, e sanzionatoria, poi, delle condotte vietate.

Da qui si inserisce l’idea del ministro Nordio – al di là di alcune proposte, apprezzabili nel loro intento ma foriere di riserve (come quella che vorrebbe estendere anche oltre la fase delle indagini l’obbligo di segretezza fino al dibattimento, potenzialmente controproducente per le stesse difese e parti private, ovvero quella che vorrebbe dare nuova linfa al divieto di pubblicazione degli atti, potenzialmente pregiudicando il diritto di cronaca) – di introdurre, sulla falsariga dei procedimenti amministrativi, un “responsabile del segreto” per ciascuno dei segmenti di sviluppo delle attività investigative e di indagine.

Una proposta – come la maggior parte di quelle sino ad ora avanzate dal guardasigilli – che, prima ancora dei fini meccanismi di diritto sottesi, richiama una riflessione sulle derive che la giustizia penale ha assunto in Italia. La ratio, infatti, non può che trovare piena condivisione da parte di chi – come chi scrive – avvocato penalista, si trova quotidianamente a dover raccontare ai propri assistiti che la legge, di per sé sola, non può tutto quando chi quella legge deve applicare si dimostra accondiscendente ad altri valori o principi ritenuti maggiormente meritevoli di tutela.

L’intento della proposta del ministro Nordio – al netto delle riflessioni “operative” che necessariamente si imporranno, per capire le modalità del controllo da parte di questo responsabile del segreto (per evitare che lo stesso possa essere sanzionato a mero titolo di responsabilità di posizione), i suoi poteri e i suoi doveri – si inserisce, dunque, nella univoca e quanto mai necessaria prospettiva di riequilibrare il sistema di valori che, per Costituzione, deve governare il processo penale: primo e solenne tra tutti, la presunzione di non colpevolezza, che dev’essere garantita – a maggior ragione – sin dalle primissime battute di inizio di un’indagine penale, con una decisa selezione di quanto può o non può essere divulgato o pubblicato.

La storia della Colonna infame: la gogna spiegata da Manzoni. Il diritto e la giustizia piegati alla ragione politica, la frettolosa condanna di un colpevole purchessia: il saggio racconta l’eterna foga populista che travolge tutto e tutti in tempi di crisi. Filippo La Porta su L'Unità il 3 Novembre 2023

“La storia della colonna infame” di Manzoni è, nella modernità, la critica più radicale del complottismo, e poi dell’intolleranza, del giustizialismo, dell’isteria popolare, della superstizione. Il male nasce, in questo caso, dall’ “usanza antica, e mai abbastanza screditata, di ripetere senza esaminare”.

Nata all’interno di Fermo e Lucia (1823), sotto l’influenza di Walter Scott (ma con una diffidenza verso il romanzesco, verso l’invenzione, che non abbandonerà mai lo scrittore milanese), la Colonna infame acquista poi la fisionomia di un vero e proprio saggio storico posto in appendice ai Promessi sposi (1842). Ma meglio sarebbe considerarlo una anticipazione dell’“odierno racconto-inchiesta di ambiente giudiziario” (Sciascia). Ne esce ora una nuova edizione Einaudi, con denso saggio introduttivo di Adriano Prosperi.

Ispirato in parte alle Osservazioni sulla tortura di Pietro Verri, che aveva citato la vicenda, il libro racconta il processo a due presunti untori a Milano durante l’epidemia di peste del 1630. I due erano il commissario di sanità Guglielmo Piazza, accusato da una “donnicciola” del popolo e da una sua amica di lasciare con le mani dei segni gialli sui muri, e il barbiere Giangiacomo Mora (da lui vergognosamente coinvolto con la vana speranza di salvarsi: è la eterna storia del pentitismo), che si diceva stessa preparando un unguento curativo.

Entrambi torturati, confessarono quello che non avevano fatto e che volevano sentirsi dire i giudici, proprio come nei processi staliniani, nelle grandi “purghe” degli anni 30 del secolo scorso. I giudizi che nel 1630 condannarono i due (falsi) untori a “supplizi atrocissimi” ritennero di aver fatto cosa così memorabile che al posto della casa demolita di uno dei due sventurati, il Mora (in zona della Vetra, oggi via Mora) si ergesse una colonna.

Il testo si precisa via via e al “tono emozionato di denuncia” si sostituisce una cronaca asciutta, basata rigorosamente sugli atti processuali. In particolare Manzoni mostra di rifiutare il diritto quando sacrifica pretestuosamente la giustizia in nome della ragion di stato, come osserva Ermanno Paccagnini, che ha rivisto questa edizione, tenendo conto delle osservazioni di Salvatore Silvano Nigro.

Ma qual è il vero bersaglio polemico del libello? Certo la paranoia collettiva – è uno straordinario saggio di psicologia delle masse -, la voglia di capri espiatori su cui scaricare ansie e paure, dunque il popolo visto come animale feroce (il “Grosso animale” di Platone), e proprio nella sua componente femminile, la più fragile. Ma soprattutto i giudici, “burocrati del male” che quella voglia accolgono per quieto vivere, per calmare cioè la rabbia popolare.

Assai più di Verri Manzoni sottolinea la responsabilità dei magistrati, i quali per trovare colpevoli i due innocenti sventurati, “per respingere il vero che ricompariva ogni momento, in mille forme, e da mille parti, con caratteri chiari allora com’ora, come sempre, dovettero fare continui sforzi d’ingegno, e ricorrere a espedienti, de’ quali non potevano ignorar l’ingiustizia.”

Il libello venne condannato da Croce per il suo moralismo e storicismo: la Storia infatti, secondo il filosofo, va studiata e non giudicata. E dopo di lui Fausto Nicolini, per il quale i giudici si limitarono ad applicare le leggi e poi i rei erano probabilmente colpevoli, con parecchi precedenti (argomento questo pericolosissimo!). A loro obietta giustamente Sciascia che invece abbiamo il dovere di giudicare il male del passato poiché sempre si ripropone nel presente. Difendendo ad oltranza proprio il “moralismo” di Manzoni, più prepotente delle sue credenze religiose. “Il fascismo c’è sempre”, chiosa Sciascia.

Prosperi ci aiuta a ricostruire i moventi del saggio manzoniano, lo stupore di fronte alla “diceria degli untori in mezzo alla popolazione milanese del 1630”, tale da provocare una epidemia mentale, uno scenario irreale, da incubo. Lo incorpora in Fermo e Lucia, superando i suoi pregiudizi verso la invenzione romanzesca, perché sa che il romanzo è un genere popolare che arriva a tutti, e che dunque ciò ne aumenta la “pubblica utilità”. Si trattava per lui di un delirio collettivo, di un improvviso “accecamento delle menti”, che ogni volta si ripete nella Storia – in quel momento pensava anche al Terrore della rivoluzione francese – e che mette in pericolo la convivenza umana.

Anche il Terrore giacobino infatti, sfociato in dispotismo e stragi, si era nutrito di complottismo. E i suoi tribunali popolari ricordano il tribunale della Colonna infame. Affiora qui la posizione moderata, certamente non reazionaria, dello scrittore, timoroso che la ribellione al potere producesse un disordine tale, “che la stessa popolazione soggetta ne abbia a patire più che per quel governo medesimo” (stava citando san Tommaso). Di qui la sua avversione allo spettro del ‘48, un sistema che vuole raggiungere “una giustizia nuova, inaudita, portentosa, in ciò che pretende come in ciò che promette”.

Insomma una critica della politica come palingenesi umana, come trionfale uscita dalla preistoria, che proprio perciò non si arresta di fonte a qualsiasi mezzo. La riflessione sulla Grande Rivoluzione, accaduta in Francia, non si interruppe mai: ad esempio, pur respinto dai suoi esiti cupi e violenti (come Tocqueville) dovette difenderla contro Rosmini in quanto esprimeva almeno “una tendenza di riforma giusta e legale”. Costante dei suoi studi storici era l’indagine “sulla verità umana delle sofferenze dei vinti e degli oppressi”.

E, come annota Prosperi, Manzoni si conferma “il grande narratore delle pene di perseguitati, di contadini analfabeti alle prese con le prepotenze di nobili, con la viltà di un parroco dimentico del suo ministero…”. Siamo lontani dalle ingiuste accuse di paternalismo che volle rivolgergli Gramsci.

La introduzione conclude poi sulle imbarazzanti analogie con la storia dell’epidemia del Covid nel nostro paese: resistenza a riconoscere la realtà dell’epidemia e diffusione di teorie del complotto (ricordando che tra gli accusati di complottare per asservire l’umanità coi finti vaccini c’era Soros, filantropo e banchiere ungherese, naturalizzato americano, ebreo, definito dalla Meloni nel 1919 “un usuraio”, almeno così leggo in Rete).

Infine, una notazione personale. Rileggendo la Colonna infame mi sono sentito orgoglioso di essere italiano! Rivendico un patriottismo culturale. Siamo il paese dei Beccaria, dei Verri e dei Manzoni. L’opera manzoniana si è inspiegabilmente ricoperta di nobile polvere – fissata una volta per tutte in quell’unico ritratto senile che ne abbiamo – specie a causa degli studi e obblighi scolastici. Ma è lì che dobbiamo tornare quando il diritto si separa dalla giustizia. Filippo La Porta 3 Novembre 2023

Il Paese dei processi in piazza. Fabrizio Corona è il risultato della voglia di gogna che c’è in Italia: dove l’ipotesi accusatoria è già condanna. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 21 Ottobre 2023

Se ci sono calciatori ludopatici, spiace per loro naturalmente; come per qualunque ludopatico, aggiungo. Né mi parrebbe giusto trascurare il dramma degli alcolisti, dei tossicodipendenti, insomma di tutte le storie di solitudine, disagio, difficoltà nell’affrontare la vita. Ma nessuna persona dotata di un po’ di buon senso sarà in grado di individuare una sola buona ragione che possa giustificare questo circo osceno che è stato messo su in questi giorni intorno a questa storia dei calciatori scommettitori. Tanto più che nulla è emerso che abbia a che fare con il regolare svolgimento delle partite, al momento: dunque di cosa stiamo così freneticamente parlando? Ma è molto semplice: gogna, gogna, gogna.

Ormai la gogna, il processo sommario, il godimento incontenibile della messa all’indice riempie le nostre giornate, incendia i social, alimenta il mondo della informazione pubblica e privata. C’è un signore che promette anticipazioni, si accredita come depositario di verità esplosive, opera in una non chiara sincronia con chi le indagini deve farle di mestiere, promette mirabolanti impennate dell’audience a chi lo inviterà nelle sue trasmissioni, a prezzi tutt’altro che scontati, e tutti se lo contendono eccitati. Fa qualche nome, ne lascia intendere altri, sa ma dirà a puntate, un po’ alla volta s’intende, qui e là distrattamente ritratta, tanto che importa; e nel contempo rivendica l’incremento verticale del valore del proprio sito.

Non ha remore, non ha freni, nessuno glieli pone neppure quando dice di madri che lo chiamano cento volte scongiurandolo di non sputtanare il figlio, ma lui purtroppo, seppure con dispiacere, proprio non potrà tacere. Per deontologia professionale, si intende, è il giornalismo, bellezza.

Lo racconta, se ne compiace, e tutti dietro ad investigare su chi sarà quella povera madre, ma soprattutto chi sia il figlio da crocefiggere. Dobbiamo stupirci di questa indecenza, di questa oscenità? Non possiamo.

Sappiamo bene dove è nata, di cosa si è alimentata, come ha fatto a diventare normalità. Siamo il Paese dei processi in piazza, della gogna come strumento di lotta politica, della irrisione e della messa all’indice di diritti fondamentali quali la presunzione di innocenza, il diritto alla riservatezza (delle indagini, delle conversazioni private). Siamo il Paese dove ciò che conta per distruggere una persona è l’ipotesi accusatoria, non la sentenza; dove i Pubblici accusatori sono le star, e i giudici dei superflui comprimari, probabilmente collusi o imbelli se assolvono. Siamo il Paese che ha promosso con lode gli inquirenti e i giudici di Enzo Tortora. Siamo il Paese che si inebria per le indagini con 400 arresti, e non si interessa degli esiti finali di quelle indagini. Siamo il paese dove può esistere, senza che si batta ciglio, un quotidiano che arriva a presentare candidati ad elezioni amministrative con la dicitura “indagato per corruzione, prosciolto”. E ora dovremmo scandalizzarci per Fabrizio Corona? Questo si semina, questo si raccoglie.

Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane

Vite distrutte e una costante gogna mediatica: gli errori e la spettacolarizzazione della giustizia. Abbiamo chiesto ad alcuni dei ragazzi che hanno partecipato alla scuola di formazione politica “Meritare l’Europa” di scrivere gli articolo che vorrebbero leggere più spesso sui quotidiani. Uno sguardo al mondo degli under 35. Marzia Amaranto su Il Riformista il 17 Ottobre 2023 

“Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi”. È proprio con queste drammatiche parole pronunciate da Enzo Tortora che voglio portare l’attenzione del lettore sul dramma degli errori giudiziari, che per chi è appassionato di numeri nel solo anno 2022, conta ben 547 persone detenute ingiustamente in carcere in Italia, salvo poi rivelarsi innocenti e costare allo Stato italiano, quasi un miliardo di euro di risarcimenti a favore delle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari. Ebbene l’errore giudiziario rappresenta un dramma per le vittime che lo subiscono e per i loro familiari che vengono risucchiati in un labirinto senza fine, trovandosi coinvolti in vicende giudiziarie di cui sono totalmente all’oscuro.

Ma effettivamente sono tanti e troppi i casi celebri di malagiustizia, non solo a livello mediatico, le vittime accertate da Rocco Scotellaro, a Enzo Tortora, a Daniele Barillà, sino ai giorni nostri Raffaele Sollecito, Amanda Knox e Michele Padovano. Tuttavia ai casi eclatanti si accostano gli ancora più numerosi casi di cui in alcun modo si parla. Ed effettivamente perché così tanti innocenti finiscono in carcere subendo errori giudiziari? È indubbia la divergenza tra il fatto storico e l’accertamento processuale, dovuto all’alterazione del quadro probatorio e dunque alla ricostruzione del fatto. Purtuttavia ci sono addirittura casi in cui il giudice è conscio della falla processuale, ma non può porvi rimedio, dovendo decidere sulla base della verità processuale, ossia delle risultanti processuali e non delle proprie convinzioni.

Tutto questo fa sì che la sentenza consacri una verità processuale difforme dalla verità storica, con conseguenze ingiuste.

Ebbene il drammatico fenomeno della malagiustizia rappresenta una vera piaga sociale, al più non mancano gli errori giudiziari ai danni di persone fragili che data la particolare condizione di vita, non riescono a godere di un’adeguata difesa. E proprio per superare la situazione il più delle volte causata dalla particolare complessità della ricostruzione probatoria, è ammessa la revisione delle sentenze di condanna, quale mezzo straordinario di impugnazione, in ottica di favor rei.

Scuole di formazione politica: un momento, per i giovani, in cui unirsi per raccogliere il testimone e proporre idee

Attacco terroristico in Kosovo, quando il ritorno alla normalità?

Ma tra i danni da ristorare non ci sono solo la sofferenza e il dolore come conseguenza dell’ingiusta privazione della libertà e della condanna stessa, bensì anche il danno biologico alla salute, dovuto alla lesione dell’integrità psicofisica della persona. Il dato certo e inconfutabile è che l’esistenza di coloro i quali subiscono un errore giudiziario rimane stravolta.

Nessun tipo di ristoro economico può mai davvero risarcire le ripercussioni sulla vita personale della vittima e dei suoi familiari, le relazioni, i progetti, gli interessi compromessi. Per non dimenticare poi la difficoltà di “ricominciare a vivere” e ricostruire una vita sociale, una reputazione, una vita lavorativa, una vita sentimentale. Il tutto aggravato dall’ingiuria mediatica, pressoché sempre “giustizialista” di cui il Nostro Paese è affetto da sempre, con spettacolarizzazione dei giudizi penali. Non si riesce a comprendere perché a prevalere non sia il garantismo proprio dello stato di diritto.

Un processo drammatico amministrato in nome del popolo mediatico, mediante la scarna conoscenza dell’attività dibattimentale fatta dagli show televisivi.

In questo scenario il ruolo dei mass media è quello di fungere come cassa di risonanza, utilizzata per piegare il consenso o il dissenso sociale, falsando con effetti notevoli la stessa gestione del processo da parte degli operatori “tecnici”. La “spettacolarizzazione” dei processi penali costituisce una vera preoccupazione nel drammatico “mondo” degli errori giudiziari. La costante ricerca di maggiore consenso che crea la “verità mediatica” alternativa a quella processuale. A tal proposito la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ammesso che la violenta campagna mediatica nuoce ai processi, privando così gli imputati delle garanzie procedurali e diffondendo un “diffuso desiderio” di condanna, sfocando nell’inevitabile errore. Troppo spesso l’arresto crea clamore, mentre la “correzione” dell’errore resta in silenzio, ignorata.

E allora la rete web viene in “soccorso” con la diffusione di associazioni di cittadini destinate alle vittime degli errori giudiziari, un evidente segno che il problema merita di essere affrontato in maniera strutturale. Una delle più note e che offre sostegno gratuito è l’AIVM (Associazione Italiana Vittime di Malagiustizia), nata per volontà del commercialista Caizzone, vittima per oltre 20 anni di un vortice giudiziario dai tratti surreali, prima che fosse dichiarato innocente.

L’AIVM si avvale di professionisti quali psicologi, sociologi, medici e avvocati i quali offrono sostegno alle persone che ritengono di aver subito un torto penale, civile, amministrativo e tributario. La maggior parte di chi si rivolge a queste associazioni sono persone che non hanno disponibilità economiche per garantirsi un’adeguata difesa. Persone disperate che hanno perso tutto e non hanno neppure le minime conoscenze tecnico giuridiche per comprendere la situazione reale. Compito di queste associazioni è fornire un appoggio morale oltre che riappropriarsi della dignità.

Ma è ormai improrogabile e necessario un intervento a livello istituzionale che sia concreto, nella spinosa problematica degli errori in ambito giudiziario e con più idonee oltre che adeguate garanzie di tutela. Dovrebbe essere cura delle Istituzioni, la previsione di una giusta ricollocazione in ambito lavorativo, oltre che un adeguato supporto psicologico per tutto il tempo necessario al pieno recupero. E infine non meno importante l’incentivo alla nascita di associazioni speculari all’AIVM che siano radicate su tutto il territorio nazionale e in modo capillare, atte allo scopo di supportare le vittime di errori giudiziari e malagiustizia. Marzia Amaranto

L'interrogazione parlamentare. Processo mediatico, così i giudici aggirano il divieto. Nordio risponde all’interrogazione di Costa sulla norma sulla presunzione di innocenza e ammette: “Violazioni a cui non sono seguite azioni disciplinari”. Angela Stella su L'Unità il 14 Settembre 2023 

“Il monitoraggio al quale lei, collega, fa riferimento è già ovviamente iniziato. Sono state anche già iniziate alcune azioni disciplinari: una su segnalazione del nostro Ispettorato e tre su esercizio della procura generale della Corte di Cassazione, per violazione di quest’ultima norma”. Lo ha detto ieri alla Camera il Ministro della Giustizia Carlo Nordio, rispondendo ad un’interrogazione del responsabile giustizia di Azione Enrico Costa sullo stato di attuazione della normativa in materia di tutela della presunzione di innocenza.

Il deputato ha segnalato che a suo parere ci sono violazioni rispetto alla legge: dal mancato rispetto del divieto di assegnare ai procedimenti penali denominazioni lesive della presunzione di innocenza alla violazione della norma che impone al procuratore della Repubblica di mantenere i rapporti con gli organi di informazione esclusivamente tramite comunicati ufficiali oppure, nei casi di particolare rilevanza pubblica dei fatti, tramite conferenze stampa, alla norma che stabilisce che la determinazione di procedere a conferenze stampa sia assunta con atto motivato in ordine alle specifiche ragioni di pubblico interesse che la giustificano; “enormi violazioni si sono palesate, inoltre, in merito alla diffusione di informazioni sui procedimenti penali da parte delle forze di polizia”.

Costa ha ricordato che il Governo si è impegnato a prevedere che l’ispettorato generale del Ministero effettui un monitoraggio degli atti motivati dei procuratori della Repubblica in ordine alla sussistenza dell’interesse pubblico che giustifica l’autorizzazione a conferenze stampa e comunicati degli organi inquirenti. Quindi ha chiesto “quale sia lo stato di attuazione della normativa”, “se sia stato effettuato il monitoraggio” e se “siano state avviate azioni disciplinari nonché se, anche sulla base degli esiti del monitoraggio, intenda avvalersi della facoltà di adottare, entro il 14 dicembre 2023, un decreto legislativo recante correttivi e integrazioni al decreto legislativo” prevedendo persino il divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare.

La risposta del Guardasigilli non è stata altrettanto dettagliata perché il monitoraggio è iniziato da poco. Purtroppo, forse indirizzato dai magistrati fuori del Ministero, non ha fatto alcun accenno riguardo ai correttivi al divieto di pubblicazione dell’ordinanza di custodia cautelare: “È un discorso un po’ difficile da fare dal punto di vista tecnico, però vorrei ricordare che ancora oggi il nostro codice di procedura penale è estremamente ambiguo sul fatto che alcune comunicazioni perdano la loro segretezza, ma ciononostante non siano pubblicabili. In realtà la giurisprudenza, come sapete, ha interpretato questa norma nel senso che una volta che un atto non ha più segreto anche se non è pubblicabile, quantomeno può essere divulgato”.

Nordio ha ammesso che “ci sono state effettivamente delle violazioni di questa norma a suo tempo e non sono state esercitate azioni disciplinari, in questo momento noi stiamo monitorando con grande attenzione queste eventuali violazioni così come stiamo predisponendo eventuali correttivi per correggere le ambiguità di questa normativa, e ci riserviamo di dare dei dati ulteriori e più specifici magari durante il prossimo colloquio”. Costa nella sua replica ha detto: “Avremmo voluto una puntuale affermazione in ordine all’inserimento e all’introduzione, in questo decreto correttivo, di una modifica dell’articolo 114 del codice di procedura penale, nel senso che non si può pubblicare testualmente l’ordinanza di custodia cautelare. Perché, cosa succede? Succede che, da un lato, la legge sulla presunzione di innocenza impedisce al procuratore della Repubblica di parlare dell’indagine, salvo che ci siano questioni di interesse pubblico. Cosa fanno il procuratore della Repubblica o il PM? Nella propria richiesta cautelare infilano tutto quello che vorrebbero dire, ma non possono dire. Poi, l’ordinanza di custodia cautelare viene emanata e viene pubblicata su tutti i giornali: quello che è uscito dalla porta rientra dalla finestra”. Angela Stella il 14 Settembre 2023

Se fosse successo oggi: Gabriella Bisi. Redazione su L'Identità il 30 Agosto 2023 

di ELISABETTA ALDROVANDI

Architetto, giovane e vedova: era particolare la condizione di Gabriella Bisi, milanese di nascita, che lavorava nell’azienda del padre. Nonostante studiasse ancora, si era sposata giovanissima con un uomo che un destino nefasto le portò via un terribile giorno del 1978, in un incidente stradale. Ma la vita doveva andare avanti, e Gabriella cercò di mettere una toppa su quel dolore indelebile, anche godendo del mare e del sole della riviera ligure, dove andava in vacanza ogni anno, nella sua casa di Rapallo.

Così fece anche sabato primo agosto 1987, quando vi si recò per passare qualche giorno con alcune amiche milanesi. Ma la sera del suo arrivo Gabriella aveva programmi speciali: uscire a cena con il suo amante Mauro Gandini, imprenditore alberghiero di Santa Margherita Ligure, e passare la notte insieme, come raccontato da Gabriella a un’amica il mattino successivo, quando si fece accompagnare da Gandini nella villa di costei a San Lorenzo in Costa. Gabriella passò poi la giornata con le amiche, ricevendo due telefonate da Gandini, in cui l’uomo annullava il loro appuntamento serale poiché doveva uscire con la moglie.

Libera da impegni, la sera del 2 agosto, Gabriella decise di andare a cena con le amiche, ma prima volle tornare a casa sua a Rapallo per cambiarsi. Un’amica si offrì di accompagnarla, ma lei rifiutò dicendo che avrebbe fatto l’auto stop (cosa assai insolita), anche se prima si fece una doccia e si cambiò d’abito, per poi uscire diretta a casa sua verso le 19. Quella, fu l’ultima volta che Gabriella venne vista viva. La sera non si presentò al ristorante. Verso le 22 un’amica le telefonò a casa ma non rispose nessuno. Il giorno dopo Gandini cercò di rassicurarla, dicendole che Gabriella era andata a Corniglia da altri amici. Le amiche, tuttavia, non credettero a questa risposta, perché Gabriella Bisi era solita avvertire dei suoi spostamenti. Passavano i giorni e della donna nessuna traccia: il 6 agosto venne dato l’allarme per la scomparsa. Lo stesso Gandini e un’amica di Gabriella, Silvia Albini, si recarono a Corniglia dove scoprirono che non era attesa da nessuno. Le perquisizioni della polizia nella casa di Rapallo trovarono la porta chiusa non a chiave, una finestra aperta, due milioni di lire in contanti, una sveglia impostata per le 8.10, del caffè non finito: indizi che fecero pensare a una certa fretta da parte di Gabriella, probabilmente sopravvenuta, che le aveva scombinato impegni precedentemente programmati.

Giovedì 13 agosto 1987, poco più di dieci giorni dalla scomparsa, una telefonata anonima alla polizia rivelò il luogo del cadavere di Gabriella: rinvenuto il corpo, fu facile constatare che la donna era stata strangolata lì tra la sera del 2 e la mattina del 3 agosto. Dopo di che, l’assassino aveva cercato di liberarsi del corpo, tentando di bruciarlo. L’attenzione degli investigatori si concentrò subito su Gandini. L’imprenditore non nascose la relazione che lo univa alla vittima ma fu anche in grado di fornire un alibi di ferro per la serata di domenica: era a una festa in una villa di amici proprio a Santa Margherita, alla presenza di almeno venti invitati che testimoniarono in suo favore. Non trovando altri possibili indiziati e moventi, data la vita cristallina della vittima, il caso venne definitivamente archiviato il 15 agosto 1990, restando irrisolto. Una storia, quella di Gabriella Bisi, che se trasferita ai giorni nostri avrebbe avuto molte più possibilità di soluzione: basti pensare alle tracce che sarebbero state lasciate da un cellulare, alle registrazioni della video camere di sorveglianza lungo le strade, al fatto di poter essere rintracciati più facilmente proprio grazie ai dispositivi mobili. L’impossibilità o l’estrema difficoltà di individuare il colpevole di un reato dipende, a volte, anche dall’epoca in cui è stato commesso. E questo, purtroppo, è uno di quei casi.

 Si vomita fango. La cronaca giudiziaria italiana: caccia alle scandalose assoluzioni (e mai condanne) senza leggere le sentenze. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 5 Agosto 2023 

Da alcune settimane due sentenze del Tribunale di Roma in materia di violenza sessuale (collegio di sole donne) sono diventate, nei media e sui social, motivo di scandalo. Secondo questa indistinta cagnara di parole in libertà, le giudici avrebbero assolto gli imputati in un caso perché il palpeggiamento sarebbe “durato solo dieci secondi”, ed in un secondo caso perché la vittima era “una complessata” in ragione del suo fisico non esattamente longilineo.

Ho letto con attenzione le due sentenze e – ovviamente – non ho trovato traccia in esse né dell’uno, né dell’altro sproposito. Si tratta di due sentenze molto articolate, molto dettagliate nella ricostruzione della prova, tecnicamente molto ben scritte. Condivisibili o meno è altro discorso, ci penserà la Corte di Appello a stabilirlo.

Nel caso dei “dieci secondi” la sentenza, nella ricostruzione minuziosa della prova dibattimentale, si limita a riportare tra virgolette null’altro che le testuali parole della denunziante. Il Tribunale riconosce senza esitazioni la piena credibilità del racconto della ragazza e la oggettiva sussistenza di una condotta materiale di violenza sessuale. Ciò che la sentenza non ritiene sufficientemente provata è la volontà del bidello di compiere non uno scherzo di pessimo gusto – come da lui sostenuto – ma un atto di “concupiscenza sessuale”, come si suole dire in giuridichese.

E tanto afferma sulla base (oltre che di consolidata giurisprudenza della Suprema Corte) di numerosi elementi circostanziali ricostruiti dai testimoni (abituale comportamento del bidello, accadimento del fatto in luogo pubblico ed in presenza di decine di persone, modalità del “sollevamento da terra” della ragazza etc). Tra queste articolate ragioni, ovviamente, rientra anche la natura “fugace” del toccamento, da sempre in giurisprudenza potenzialmente sintomatico di una assenza di volontà concupiscente.

Nell’altra sentenza, invece, leggiamo una impietosa ricostruzione di testimonianze di colleghi e colleghe di lavoro che letteralmente demoliscono la versione fornita dalla parte offesa, indicata anzi come essa esplicitamente attratta sessualmente dall’imputato. Una debacle processuale della querelante, quasi a giustificare la quale il Collegio azzarda una qualche spiegazione (“probabilmente mossa dai complessi di natura psicologica sul proprio aspetto fisico”); forse – azzardo – per salvarla da conseguenze più severe (trasmissione degli atti alla Procura per calunnia), non certo per motivare l’assoluzione!

Morale della favola? Questo è il livello e la qualità della cronaca giudiziaria nel nostro Paese, alla famelica caccia di scandalose assoluzioni (mai di scandalose condanne), per aizzare indignazione, viralità sui social, kermesse forcaiole, numero di lettori e di like, senza sentire non dirò il dovere, ma almeno il decoroso bisogno di leggere un rigo delle sentenze sulle quali si vomita fango.

Gian Domenico Caiazza. Presidente Unione CamerePenali Italiane

La giustizia di Abele non è la gogna di Caino. E il processo non può trasformarsi nella pena. Lo schierarsi pregiudiziale a favore della vittima e contro il reo rende fragile la ricerca di un equilibrio tra garantismo e giustizialismo. Alberto Cisterna su Il Dubbio il 30 luglio 2023

In un pregevole intervento su Avvenire di ieri il filosofo Eugenio Mazzarella argomenta da par suo sulla necessità di superare la contrapposizione, irriducibile al momento, tra posizioni giustizialiste e posizioni garantiste e per farlo suggerisce di muovere dalla pietas che deve sempre volgere lo sguardo e assicurare ristoro ad Abele, alla vittima innocente. Non c’è dubbio che, dopo decenni di ingiusto oblio, le vittime dei reati abbiano assunto un ruolo mediatico e politico di grande rilievo nel dibattito pubblico sulla giustizia. Questa centralità stenta, ancora, a conquistarsi pari spazio e dignità nelle anguste rime del processo, ma è indubbio che la voce delle vittime e dei loro sfortunati congiunti abbia assunto un peso notevole nel dibattito pubblico sui temi della giustizia. Al punto da dare a volte l’impressione - con accurate interviste “preventive” e addolorate esortazioni mediatiche in prossimità delle aule di giustizia - di voler condizionare l’esito dei processi o di volerlo sconfessare se contrario alle proprie convinzioni e aspettative.

Le sconvenienti prese di posizione sulla recente assoluzione di un imputato di violenza sessuale da parte di stimati giudici del Tribunale di Roma sono solo l’ultima rappresentazione che alla vittima e alle associazioni che intendono rappresentarla sia stata assegnata una posizione pubblica di assoluto rilievo. Il peso di queste incursioni mediatiche, la blanda efficacia delle norme sulla tutela della presunzione di innocenza, lo schierarsi pregiudiziale di tanti media a favore della vittima e contro il reo sono tutti elementi che rendono fragile, se non impossibile la ricerca di un punto di equilibrio tra garantismo e giustizialismo. Anche perché un dibattito quasi sempre annegato in un mare di polemiche non consente quel giusto distacco dalle cose che è il presupposto per una valutazione serena e per una ponderazione ragionevole dei fatti. Eppure, etimologicamente finanche, il processo è appunto un divenire, un percorso dinamico governato da regole. Tre gradi di giudizio, anzi quasi quattro, sono la dimostrazione evidente della profonda convinzione che attraversa la stessa Costituzione secondo cui la giurisdizione sia perennemente esposta al rischio dell’errore, all’alta probabilità dell’abbaglio, alla frequenza della svista. C’è, alla base dei principi che reggono il nostro processo penale, una sorta di insanabile e incomprimibile scetticismo verso la capacità del giudice di pervenire a una conclusione euristicamente validata, a un risultato convincente e rassicurante. Lo scorrere dei gradi di giudizio è nient’altro che il metodo che ci siamo dati per giungere alla meno provvisoria e parziale delle verità, certi che solo il pluralismo delle decisioni, il policentrismo delle corti e dei tribunali possa almeno in parte rassicurarci sulla colpevolezza o sull’innocenza.

In altri sistemi, negli Usa in primo luogo, vige la regola che la saggezza della giuria, la sua matrice popolare e non professionale, possano rappresentare la migliore soluzione al problema complesso e incerto della responsabilità dell’imputato; al punto tale che l’appello è una mera, rarissima eventualità. La battaglia tra giustizialismo e garantismo in quel paese praticamente non esiste nella ciclica virulenza con cui si consuma in Italia e per la semplice ragione che un unico grado di giudizio esaurisce la partita e quel che i giurati hanno deciso è percepito come l’unica verità praticabile e possibile. Una follia e basterebbe per tutti ricordarsi del caso di O. J. Simpson. Ma lì va bene così, anche se percentuali altissime di accusati patteggiano la pena proprio per il timore di finire sotto le grinfie di giurie manipolabili e prive di ogni competenza giuridica. È un costo che quel sistema paga. A noi è toccato in sorte di vedere processi che partono con dozzine di arresti, pompose conferenze stampa che coniano verdetti mediaticamente promulgati a distanza addirittura di ore dai fatti e che si concludono con assoluzioni a distanza di anni nell’imbarazzato silenzio di quei media che pure li avevano enfatizzati e sostenuti in principio. Da questo punto di vista la contrapposizione tra chi ritiene di doversi fideisticamente affidare all’accusa e ai suoi coreuti (giustizialismo) e chi, invece, considera doveroso proteggere l’imputato dal linciaggio mediatico sino alla condanna definitiva ( garantismo) è non solo irriducibile, ma addirittura indispensabile e vitale.

Lo scontro è solo in apparenza processuale, perché invero ha alla base una precisa visione del mondo e una precisa etica pubblica che separa nettamente chi ripone affidamento sui sospetti, sulle accuse, sulle ipotesi investigative – spesso perché danno conferma alla propria visione antropologica dei rapporti umani e alla propria percezione della stessa interiorità negativa degli uomini - e chi, invece, laicamente considera non il peccato, ma l’errore la più grave minaccia alla retta conoscenza dell’uomo e delle sue condotte. Si è giustizialisti o garantisti in forza di una precisa concezione assiologica dell'uomo e del mondo, della sua caducità o della sua incomprimibile dignità e ricchezza.

Il sangue di Abele pretende giustizia, è vero. Senza dimenticare tuttavia che «la via dell’inganno nasce stretta, ma troverà sempre chi sia disposto ad allargarla, diciamo che l’inganno, ripetendo la voce popolare, è come il mangiare e il grattarsi, tutto sta a cominciare» ( José Saramago, Caino, Feltrinelli 2010).

Dagospia mercoledì 9 agosto 2023. FANCULO LA LEGGE: I PISCHELLI CERCANO VENDETTA - COS'HANNO IN COMUNE LE MORTI DI MICHELLE CAUSO (A ROMA), SOFIA CASTELLI (A MILANO), GIUSEPPE TURCO (A CASAL DI PRINCIPE) E CHRIS ABOM (A NEGRAR)? GLI AMICI DELLE VITTIME VOGLIONO ERGERSI A GIUDICI, GIURIA E BOIA - IL RAID NELL'APPARTAMENTO DEL GIOVANE CHE HA UCCISO MICHELLE CAUSO, QUELLO A CASA DI DAVIDE BEGALLI ACCUSATO DI AVER INVESTITO IL 13ENNE ABOM, LA PROTESTA DEGLI AMICI DI SOFIA CASTELLI SOTTO LA CASERMA DOVE ERA RINCHIUSO ZAKARIA ATQAUOI, REO CONFESSO DELL'OMICIDIO DELLA 20ENNE ("CE LO DEVONO LASCIARE QUA DUE MINUTI") E L'ASSALTO ALL'AMBULANZA DOVE ERA A BORDO C'ERA A BORDO ANASS SAAUD, ACCUSATO DELLA MORTE DI GIUSEPPE TURCO...

Ascanio Moccia per Dagospia mercoledì 9 agosto 2023.  

Cos'hanno in comune le morti di Michelle Causo (a Roma), Sofia Castelli (a Milano), Giuseppe Turco (a Casal di Principe) e Chris Abom (a Negrar)? Il fatto che gli amici delle vittime pensano di potersi ergere a giudici, giuria e boia. I pischelli hanno fame di vendetta.  

Durante un corteo nel quartiere di Primavalle, in memoria della 17enne Michelle Causo accoltellata a morte per mano di un coetaneo, un gruppo di ragazzi ha fatto irruzione nella casa dell'assassino, devastando tutto.

A Milano, un gruppo di persone si è presentato davanti alla caserma dove era rinchiuso Zakaria Atqauoi, reo confesso dell'omicidio dell'ex compagna Sofia Castelli, per esprimere la loro rabbia contro il killer: "Ce lo devono lasciare qua due minuti, na bastano due, e poi vediamo...”. 

Non sempre si tratta di azioni motivate dalla rabbia o dalla vendetta: lo scorso 31 Luglio, una banda di ragazzi ha accerchiato e preso d'assalto l'ambulanza dove c'era a bordo Anass Saaud, il presunto killer di Giuseppe Turco, 17enne ucciso a Casal di Principe.

In questo caso, il sospetto è che l'incursione fosse finalizzata a un tentativo (poi fallito) di evasione: il giovane avrebbe ingerito candeggina per poter essere trasportato fuori dal carcere per le cure, non prima di aver comunicato la sua uscita ad amici e parenti, probabilmente tramite cellulari, illecitamente in possesso di altri detenuti. 

Altro caso di cronaca, altro assalto rabbioso. Davide Begalli, il 39enne veronese accusato di aver investito e ucciso il 13enne Chris Abom e di non essersi fermato a soccorrerlo, ha denunciato di aver subìto una “spedizione punitiva” da parte di amici e parenti del ragazzo. Una cosa è certa. I teenager non hanno ben chiara la differenza tra "vendetta" e "giustizia". Sarà l'effetto perverso delle serie tv, dei "cattivi maestri" come i trapper criminali, della pessima educazione in famiglia o dell'ignoranza civica, fatto sta che si diffonde l'idea di poter agire impunemente, in barba alla legge. 

Estratto dell'articolo di Laura Tedesco per corrieredelveneto.corriere.it mercoledì 9 agosto 2023.

«Erano una trentina, tutti neri, la maggior parte con il volto travisato da bandane e t-shirt. Lanciavano sassi contro la porta d’ingresso, la prendevano a calci, pugni e bastonate. Urlavano “Vieni fuori che ti ammazziamo, dopo la morte di Chris non abbiamo più niente da perdere”». 

Pomeriggio di «vero terrore, è stata una scena allucinante» per il veronese Davide Begalli, che poco dopo le 18 di martedì si è ritrovato bersaglio di una autentica «spedizione punitiva, con insulti e minacce di morte» nella casa della compagna dove sta scontando i domiciliari: artigiano edile del comune di Negrar in Valpolicella, 39 anni da compiere a Ferragosto, Begalli è il «pirata» della strada arrestato per la morte di Chris Obeng Abom, calciatore 13enne di origini ghanesi travolto alle 21.34 di lunedì 31 luglio dalla Renault Espace dell’artigiano, che non ha prestato soccorso. 

[...]

Proprio lunedì mattina Begalli aveva appena ottenuto dal gip di poter scontare l’arresto nell’abitazione della compagna, che risiede sempre a Negrar: ed è proprio a casa della donna che alle 18.10 «improvvisamente siamo stati raggiunti da un manipolo di almeno trenta uomini, tutti neri e con il volto camuffato da magliette e bandane, che gridavano “vieni fuori, ti uccidiamo”». 

A raccogliere il racconto di Begalli (che essendo in arresto non può comunicare con l’esterno fatta eccezione per il suo legale) è l’avvocato Massimo Dal Ben: «In quel momento il mio assistito si trovava nella casa della compagna insieme al figlio minorenne della donna, è stato un autentico raid punitivo, gridavano di volerlo uccidere, Begalli e il ragazzo hanno cercato in ogni modo di bloccare la porta dall’interno per impedire a quelle persone di buttarla giù. Il mio cliente adesso ha la spalla dolorante, alla fine quegli uomini se ne sono andati sentendo che Begalli stava chiamando i carabinieri».  

[...]

Sull’episodio stanno ora indagando polizia locale e carabinieri, giunti dopo la chiamata d’allarme di Begalli: a portarlo in arresto e nel mirino della «gogna mediatica» è stato negli ultimi giorni un dramma, quello costato la vita al povero Chris, che ha sconvolto l’opinione pubblica, soprattutto perché il ragazzino «si sarebbe potuto salvare se l’allarme fosse stato dato immediatamente» hanno denunciato i medici dell’ospedale di Borgo Trento dove Chris è giunto oltre due ore dopo l’incidente, quando già versava in condizioni disperate per un doppio arresto cardiaco.

«Quell’uomo che l’ha investito ce l’ha lasciato morire come un cane» sono esplosi di dolore i genitori del 13enne: soltanto alle 23.30, due ore dopo essere stato travolto da Begalli mentre camminava sul ciglio della strada provinciale per Negrar rientrando a casa dopo un allenamento di calcio, il povero Chris riverso a terra è stato visto da due passanti che hanno subito chiamato il 118. [...] 

All’arrivo dei militari, l’Espace del 39enne mostrava ancora i pesanti segni dell’incidente costato la vita a Chris la sera prima: metà parabrezza sfondato, uno specchietto divelto, il fanalino distrutto, addirittura tracce di sangue e di capelli del 13enne. «Devo ancora capire come sia potuto succedere - ha cercato di spiegare Begalli 48 ore fa al gip, rendendo spontanee dichiarazioni -. Non mi sono assolutamente reso conto di aver investito una persona, mi sono fermato due volte quella sera, sia dopo l’impatto che nel tragitto di ritorno, non ho visto nulla. Prima del colpo mi ero abbassato un attimo per cambiare stazione radio [...]». 

Secondo la gip Carola Musio che ne ha ordinato l’arresto Begalli invece «non poteva non rendersi conto di aver investito una persona, ha dimostrato un totale spregio della vita umana» e deve restare ai domiciliari perché se, nonostante il sequestro dell’auto e il ritiro della patente, dovesse «rimettersi alla guida, potrebbe commettere altri fatti allarmanti al volante». [...]

Estratto dell’articolo di Pierpaolo Lio per il “Corriere della Sera – Edizione Milano” il 30 luglio 2023.  

«È lui. Ma no, fra’, ti dico che è lui. Non lo riconosci quella me..a? È lui, è lui. Fidati. C’ha pure il codino alto». Un volto sbircia per un istante dalle finestre al primo piano della caserma dei carabinieri di Cologno Monzese. […] è Zakaria Atqauoi, 23enne italo-marocchino. Prende coraggio. Torna ad affacciarsi. 

[…] ogni tanto gira il capo, a guardare quella piccola folla di giovanissimi arrabbiati. Sono gli amici di Sofia Castelli, la 20enne uccisa all’alba da quel ragazzo che li affronta a distanza. Sono ormai da ore che presidiano gli ingressi, che avrebbero voglia di vendetta. «Ma va che arrogante. Ce lo devono lasciare qua due minuti, na bastano due, e poi vediamo...».

Zakaria ha ucciso Sofia nella casa in cui era stato accolto, come uno di famiglia. Ha accoltellato la studentessa ventenne, la sua ex, colpendola alla gola e in altre parti del corpo con un coltello preso dalla cucina che conosceva. Tra i due c’era stata una relazione stretta, […] Pare che il giovane di Vimodrone — che orbitava però più che altro ai palazzoni del quartiere Stella di Cologno —, difeso dall’avvocato Marie Louise Mozzarini, fosse in possesso di un mazzo di chiavi dell’appartamento della ragazza in corso Roma.  

Di sicuro all’alba di ieri, quando la vittima era tornata da poco da una nottata al «The Beach», locale milanese di via Corelli, è riuscito a introdursi all’interno, e l’ha aggredita in camera da letto, mentre dormiva. In casa c’era anche l’amica con cui Sofia Castelli aveva passato la serata, che però non si sarebbe accorta di nulla, fino all’arrivo delle forze dell’ordine.

Dopo l’aggressione, è stato il ragazzo stesso a confessare il delitto[…] A indagare sono i carabinieri, coordinati dal pm di Monza Emma Gambardella, che hanno trattenuto in caserma il giovane fino a sera in stato di fermo, prima di trasferirlo in carcere. […] 

Gli inquirenti stanno valutando l’eventuale aggravante della premeditazione del gesto. Ieri Atqaoui ha risposto alle domande del magistrato. «Posso dire soltanto che ho trovato un giovane molto provato e disorientato, che ha avuto un atteggiamento collaborativo con le forze dell’ordine», ha detto l’avvocato Mozzarini. Un ritratto diverso da quello che ne danno molti amici di Sofia, che raccontano di un tipo che aveva «problemi con tutti», che campava di espedienti, con un atteggiamento da spaccone. 

Estratto da lastampa.it il 29 luglio 2023.

Una spedizione punitiva per vendicare Michelle . Un gruppo di adolescente amici delal vittima è entrato in casa del 17enne accusato dell'omicidio della coetanea e hanno distrutto tutto, uralndo minacce. In tutto circa 15 i ragazzi che sono stati poi identificati per l'incursione […] Mentre era in corso la manifestazione per ricordare la ragazza, un gruppo di cento persone si è materializzato sotto casa dell'assassino, […]

(ANSA il 31 luglio 2023) - Un inquietante episodio ha coinvolto il 20enne di origini marocchine Anass Saaud, presunto killer del 17enne di Villa Literno (Caserta) Giuseppe Turco - ucciso a coltellate il 28 giugno scorso a Casal di Principe - la cui ambulanza è stata circondata da un gruppo di persone male intenzionate mentre stava per entrare al pronto soccorso dell'ospedale di Aversa, e solo l'intervento della polizia penitenziaria ha evitato il peggio. 

A denunciare l'episodio Donato Capece, segretario generale del Sappe (sindacato di polizia penitenziaria), che ipotizza che dietro l'accerchiamento del mezzo di soccorso vi sia un tentativo di evasione. "Lo scorso 29 luglio - spiega Capece - il personale di Polizia Penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere, dove il 20enne è recluso dal giorno del delitto, era impegnato nel ricovero urgente del detenuto, naturalizzato italiano di origini marocchine. 

Il giovane era scortato dal personale del nucleo operativo Traduzioni e Piantonamenti, che ha dovuto fronteggiare con professionalità e senso del dovere una emergenza che lascia molti interrogativi. La scorta si è infatti accorta che all'arrivo al pronto soccorso del presidio sanitario aversano, l'autoambulanza veniva circondata da un folto numero di persone (10-15) che aspettavano il detenuto. A questo punto, non conoscendo le possibili conseguenze che potevano evolvere anche per una questione di sicurezza pubblica, il capo scorta della Polizia Penitenziaria, sentito il comando, disponeva un repentino rientro in Istituto". "

Tutto lascia pensare - aggiunge Capece - ad una simulazione di malessere del detenuto che ha dichiarato in carcere di aver ingerito candeggina per poter uscire dall'istituto: probabilmente veniva comunicato a parenti e amici o a male intenzionati l'uscita di quest'ultimo all'esterno a mezzo di un cellulare in possesso di altri detenuti occultati illecitamente. Al riguardo ci sono accertamenti in corso. L'episodio è emblematico per comprendere i rischi derivanti dai facili ricoveri cosiddetti a vista nonché dal pericolo dell'utilizzo illecito dei cellulari nell'ambito Penitenziario. Cmq - conclude Capece - va un plauso ai poliziotti".

Francesco Bellomo, Vittorio Feltri: perseguitato e infamato ingiustamente. Vittorio Feltri Libero Quotidiano il 26 luglio 2023

È notizia di pochi giorni fa (ovviamente ignorata dai media) che l’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo è stato archiviato anche a Torino. I magistrati del capoluogo piemontese hanno evidenziato, per l’ennesima volta, la “regolarità” del contratto tanto discusso e la piena liceità delle sue relazioni. Definito “porco” in diretta televisiva, attaccato da giornalisti e opinionisti che lo hanno considerato fin dal principio reo oltre ogni ragionevole dubbio dei reati contestatigli, bersaglio di ogni genere di insulto, infamato in maniera crudele, deriso, beffeggiato, disonorato, argomento di cronaca giudiziaria quotidiano per mesi e mesi, addirittura anni, e sempre con toni assolutamente colpevolistici e spietati, il brillante magistrato è stato definitivamente prosciolto da ogni accusa, senza mai essere neppure rinviato a giudizio. Ed è stato assolto non da un tribunale, bensì da sei procure distribuite da Nord a Sud. Anzi, specifico che il tribunale di Milano, la cui serietà è arcinota, già agli albori di questa faccenda, provvide ad archiviare il procedimento, dal momento che era evidente che Bellomo, accusato di avere imposto un dress-code agli studenti, sia maschi sia femmine, i quali partecipavano ai suoi corsi in magistratura, non si fosse macchiato di alcun crimine.

Il magistrato è stato poi dichiarato innocente dai tribunali di Bari, Piacenza, Roma, Bergamo, Torino. I giudici, insomma, hanno in maniera incontrovertibile appurato che Francesco Bellomo è – lo ripetiamo – innocente. E se non è colpevole, allora egli è vittima. Dunque, egli è stato perseguitato, ingiustamente screditato, colpito, massacrato dalla stampa, divorato da questi personaggetti tristi che popolano i talk-show e che pretendono di insegnarci la morale, pur non possedendone una. Quello che Bellomo ha patito è stata una iniquità. Lo ha riabilitato e rinfrancato proprio quella Giustizia cui egli stesso si è votato dedicandole la propria intera esistenza e la propria carriera. Bellomo fu un pubblico ministero giovanissimo, il più fresco d’Italia.

Questa vicenda dovrebbe essere conclusa, eppure Bellomo attende ancora di essere reintegrato nel suo ruolo, ossia quello di consigliere di Stato, che gli fu indebitamente tolto anni fa a causa dei procedimenti in corso. Cosa stiamo aspettando a restituire a Cesare quel che è di Cesare? Insomma, non soltanto abbiamo tormentato questo giudice, quest’uomo, dai cui corsi di diritto sono usciti decine e decine di magistrati che operano all’interno dei nostri palazzi di Giustizia, ma lo abbiamo anche privato del suo mestiere, che era la sua vita, e non glielo abbiamo mai più restituito. Il tutto senza giustificazione, come hanno dimostrato gli esiti dei vari processi.

Mi domando: in uno Stato di diritto è ammissibile che accada un fatto del genere? Io ritengo che tutto questo non si sarebbe mai dovuto verificare, o che, quantomeno, una volta emersa l’innocenza di Bellomo, questi avrebbe dovuto immediatamente riavere il suo posto all’interno del Consiglio di Stato. Cosa che ancora non si è realizzata, purtroppo.

Questo vuole essere un appello al nostro ministro della Giustizia, Carlo Nordio, anch’egli ex magistrato, affinché le istituzioni si sensibilizzino nei confronti dell’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo, processato e assolto da ben sei procure, il quale meriterebbe quindi che il suo status quo ante venisse ripristinato subito.

Nessuno può rendere a Bellomo gli anni che gli sono stati portati via, insieme a parte della salute e dei soldi persi, dilapidati in spese legali che egli non avrebbe dovuto sostenere, però possiamo riconsegnargli le sue funzioni. Sarebbe il minimo che gli dobbiamo. Colgo l’occasione per esprimere la mia stima nei confronti di quei giudici che lavorano nei nostri tribunali con zelo, impegno, passione, rispondendo, tra mille difficoltà, alla domanda di giustizia che proviene dai cittadini. Non condivido affatto l’idea che la magistratura sia marcia, politicizzata, ostile, impegnata a triturare le persone. E la questione Bellomo ne è dimostrazione. La giustizia non agisce seguendo schizofrenici parametri di tipo moralistico che oggi sembrano dominare più che mai la società, bensì applicando la legge, che ha una sua razionalità. 

Estratto dell’articolo di Giuseppe Legato per “la Stampa” giovedì 27 luglio 2023.

Nessuna violenza privata e nemmeno minaccia. Sta per cadere anche l'ultimo procedimento penale rimasto in capo all'ex giudice del Consiglio di Stato Francesco Bellomo balzato agli onori delle cronache per il dress code (e non solo) imposto alle allieve del suo corso di preparazione all'esame in magistratura e destituito dalla stessa «per condotte incompatibili – ha stabilito il Tar nell'aprile 2022 (pende pronuncia del Consiglio di Stato) – con il rispetto dell'obbligo in capo a un magistrato». 

Il pubblico ministero di Torino Paola Stupino ha chiesto l'archiviazione nei giorni scorsi «poiché non si ravvede – si legge agli atti – alcuna fattispecie di reato per la quale si debba procedere» accogliendo - anche le memorie difensive prodotte dal legale di Bellomo, Claudio Strata.

Le altre accuse – stalking e violenza privata su tre allieve - sono cadute rispettivamente a Piacenza, Brescia e Bergamo. Restava Torino dove gli atti erano confluiti – da Massa – perché la potenziale persone offesa, sostituto procuratore negli uffici giudiziari toscani che non aveva presentato querela formale – era emigrata da due anni nell'ufficio del capoluogo piemontese. 

L'inchiesta, nata dalla più ampia indagine di Bergamo, si basava su un assunto articolato. La dottoressa Alessia I. ricercatrice a tempo determinato (un anno, dall'ottobre 2015) della srl Diritto e Scienza (nella quale Bellomo era direttore scientifico) legata fino ad allora da una relazione sentimentale al professore da lei stessa troncata, non avrebbe rispettato i suoi adempimenti. Avrebbe così ricevuto prima un messaggio di Bellomo che prefigurava una causa civile se non avesse ripreso la collaborazione seguita da una vera e propria diffida della srl con relativa «azione di adempimento».

Per il gup di Bergamo, primo incaricato di vagliare l'ipotesi di reato, i due fatti erano correlati nella misura in cui «alla prospettazione di azioni civili da parte di Bellomo seguivano citazioni in giudizio della società "Diritto e Scienza" segno questo dell'evidenza, della concreta capacità dell'imputato di influire sulla gestione amministrativa della stessa srl». Insomma: «erano finalizzati a un ricongiungimento» sentimentale con l'indagato. 

Tentata violenza privata insomma Il magistrato di Torino – nel chiedere un'archiviazione di fatto nel merito e non solo per improcedibilità vista l'assenza di querela della parte offesa – «non condivide – scrive - questi assunti». 

[…] Bellomo adesso attende l'esito del ricorso al Consiglio di Stato presentato (questa volta da legale Angelo Clarizia) contro la pronuncia del Tar che lo ha espulso dal mondo delle toghe. […] Classe 1970, originario di Bari, Bellomo è un ex giudice del Consiglio di Stato Vincitore di cinque concorsi in magistratura (tre ordinaria, Tar e Consiglio di Stato), caso unico nella storia italiana.

Direttore della scuola di formazione giuridica avanzata "Diritto e Scienza", nel 2017 è stato denunciato da alcune studentesse che lo accusavano di imporre un dress code provocante in cambio di borse di studio. Nel 2018 è stato espulso dalla magistratura con una votazione quasi unanime del Csm. In passato è stato anche arrestato con l'accusa di maltrattamenti ed estorsione aggravata.

Caso «dress code», cade l’ultima accusa all’ex giudice Bellomo. Il gip di Torino archivia l’ipotesi di tentata violenza privata. GIOVANNI LONGO su La Gazzetta del Mezzogiorno il 28 Luglio 2023

Da Bari a Milano; da Roma a Piacenza; da Bergamo a Torino. L’ex consigliere di Stato Francesco Bellomo è uscito immacolato dal giro d’Italia tra uffici giudiziari. L’ultima pendenza, quella relativa a una presunta tentata violenza privata ai danni di una ricercatrice della scuola Diritto e Scienza, fucina di aspiranti magistrati, si è chiusa con un’archiviazione disposta dal gip del Tribunale di Torino. Accolta una motivata richiesta avanzata dalla Procura piemontese che, come anticipato ieri da La Stampa, anziché limitarsi a constatare l’improcedibilità dell’azione penale in ragione dell’assenza di querela della (presunta) persona offesa (una delle modifiche previste dalla tanto discussa riforma Cartabia, ma questa è un’altra storia), è entrata nel merito delle ipotesi di reato ritenendole, appunto, inconsistenti.

Ancora una volta, dunque, come già accaduto da quando lo scandalo, da mediatico, è entrato di prepotenza nei Palazzi di Giustizia, le accuse a suo carico praticamente si sono smontate senza neanche mai entrare in aula. Insomma, al clamore mediatico provocato dal «dress code» imposto dal magistrato barese alle sue ex borsiste, al netto delle valutazioni sulla opportunità di certi comportamenti sul piano morale, non è corrisposta alcuna violazione del codice penale. Lo dicono più magistrati.

Quanto alla vicenda torinese, tutto ruotava intorno ad alcuni messaggi che Bellomo aveva inviato a una ricercatrice della scuola in cui si prefigurava -questa l’originaria impostazione accusatoria - una causa civile se la ricercatrice non avesse ripreso la collaborazione con la scuola che ha formato decine di magistrati. Il fascicolo sulla paventata «azione di adempimento» era arrivato a Torino proveniente da Bergamo per competenza territoriale, ultima tappa del giro d’Italia tra sedi giudiziarie, ma (anche) per la Procura torinese quei messaggi, con ogni probabilità inopportuni, non posso avere una valenza intimidatoria.

E pensare che Bellomo, assistito a Torino dall’avvocato Claudio Strata e a Bari dagli avvocati Beniamino Migliucci e Gianluca D'Oria, finì ai domiciliari per ipotesi, stalking e violenza privata, entrambe ritenute insussistenti ma che comunque gli sono costate la destituzione dalla magistratura. Un altro tassello che si aggiunge alla lunga lista di sentenze di «non luogo a procedere» o decreti di archiviazione pronunciati dalla magistratura, dunque prima di un dibattimento che non c’è mai stato. Nel mirino, all’inizio, c’era la «richiesta» di Bellomo rivolta a borsiste e corsiste di indossare minigonne e tacchi a spillo. C’erano anche prove di coraggio, persino test sui fidanzati delle borsiste e monitoraggio dei profili social. Con tanto di contratto firmato da chi aspirava a diventare magistrato. Per Bellomo, prima l’archiviazione a Milano nel 2018, poi il proscioglimento a Piacenza, quindi accuse che cadono anche a Bari, Bergamo e ora anche Torino. Oltre alle vicende che riguardavano il suo rapporto con le donne, inoltre, Bellomo è stato anche accusato di calunnia e minaccia nei confronti dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte, nella sua veste di presidente della commissione disciplinare chiamata a pronunciarsi sul magistrato barese nel 2017. Neanche a dirlo, anche quel procedimento penale si è chiuso, questa volta a Roma, con una archiviazione.

E allora, cosa resta dell’intera vicenda? Al momento solo la «condanna» disciplinare costata la destituzione dalla magistratura, anche se ormai da tempo Bellomo ha ripreso a insegnare nella sua scuola per formare altri aspiranti magistrati in vista del concorso. Ma sulla rimozione pende un ricorso di Bellomo: i suoi ex colleghi del Consiglio di Stato dovranno decidere se il magistrato barese ha il diritto oppure no di rientrare nei ranghi.  

Intanto, sul suo profilo facebook (con un cognome diverso), l’ex giudice commenta l’archiviazione torinese: «La prima volta che andai sui giornali e in televisione (TG3) avevo 14 anni e fu per gli scacchi, poi per qualche indagine criminale. Mai avrei pensato che ci sarei finito molto più spesso per un contratto e che da lì - dopo aver segnato una performance probabilmente imbattibile come pubblico accusatore - mi sarei ritrovato dall’altro lato. Dove però - quando ho sentito qualche assurdità - ho fatto la stessa identica cosa con lo stesso identico esito».

Le “sentenze choc” che non piacciono all’opinione pubblica. Dall’omicidio di Carol Maltesi al bidello prosciolto dall’accusa di molestie. Assoluzione uguale vergogna: l’assurda equazione che da anni distorce il senso del processo penale. Guido Stampanoni Bassi su Il Dubbio il 19 luglio 2023

Capita ormai con regolarità, per lo più nell’ambito di vicende di cronaca particolarmente sentite, che sentenze che si discostino – magari anche solo leggermente – dalle aspettative dell’opinione pubblica vengano definite «choc» o «vergognose».

Il fenomeno non è nuovo e, negli ultimi anni, si trovano decine di casi: sentenze magari impeccabili da un punto di vista giuridico, che vengono però trasmesse all’opinione pubblica come inaccettabili.

Uno dei casi più noti degli ultimi anni è quello della strage di Viareggio, con riferimento alla quale la pronuncia della Cassazione – laddove ha escluso l’aggravante delle norme antinfortunistiche ( con conseguente prescrizione di alcuni reati) – ha suscitato grandi polemiche al grido di «Viareggio senza colpevoli». Oppure pensiamo alla sentenza che, nel processo sulla strage di Rigopiano, ha assolto 25 dei 30 imputati. Anche qui solito copione: «Rigopiano, strage senza colpevoli» con ministri che hanno twittato: «Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna».

Complice una narrazione giornalistica che spesso alimenta aspettative di condanna – facendo circolare il messaggio secondo cui gli indagati devono certamente essere colpevoli – ogni provvedimento che osi poi discostarsi da tale narrazione finisce con lo scatenare polemiche. Il semplice fatto che vi possano essere delle assoluzioni non viene tollerato.

Celebre, ancora, la vicenda dell’uomo assolto a Brescia per aver ucciso la moglie in preda a un “delirio di gelosia”. Anche in quel caso, aspre

polemiche nei confronti dei giudici accusati di aver derubricato un femminicidio in un effetto collaterale da malattia mentale e di aver fatto tornare il nostro paese ad una situazione peggiore di quando esisteva il delitto d’onore.

Eppure, il presidente della Corte – il magistrato che ha recentemente condannato Davigo – aveva scritto una cosa tanto elementare, quanto illuminante: non si vuole riservare all’imputato un salvacondotto, ma semplicemente applicare un elementare principio di civiltà giuridica, quello della funzione rieducativa della pena, secondo cui non può esservi punizione laddove l’infermità mentale abbia obnubilato la capacità di comprendere il significato del proprio comportamento.

In questi giorni oggetto di critiche sono state due pronunce molto diverse tra loro: quella del bidello accusato di aver toccato i glutei di una studentessa e quella dell’omicidio di Carol Maltesi.

Sebbene gli esiti siano stati diametralmente opposti ( assoluzione nel primo grado e condanna a 30 anni nel secondo), il trattamento è stato il medesimo: vergogna. La colpa? Sempre la stessa: essersi discostati dalle aspettative dell’opinione pubblica, la quale si aspettava ( anzi, pretendeva) una condanna nel primo grado e l’ergastolo nel secondo.

Nel primo caso, le polemiche sono state alimentate da quella che è a tutti gli effetti una fake news, ossia quella secondo cui la palpata breve – sotto i 10 secondi – non sarebbero reato. La sentenza non ha mai affermato tale principio, avendo assolto l’imputato perché non vi era prova del fatto che lo stesso avesse effettivamente sfiorato volontariamente la studentessa. La possibilità che un Tribunale, in presenza di dubbi sulla colpevolezza dell’imputato, possa assolverlo ha mandato in cortocircuito il circo mediatico- giudiziario, facendo passare un messaggio esattamente opposto a quello su cui si fonda il nostro processo: ossia quello secondo cui, nel dubbio, il Tribunale deve (e non può) assolvere.

Infine, nella vicenda di Carol Maltesi, la Corte è stata accusata di aver emesso una sentenza “vergognosa” che “offende le donne”. Leggendo le motivazioni, ci si accorge però che sulle aggravanti che tanto hanno fatto discutere (premeditazione, futili motivi e crudeltà), la Corte ha richiamato principi affermati dalla Cassazione. Per quanto possa lasciare l’amaro in bocca, si deve accettare l’idea che esistano concetti che non hanno, sul piano giuridico, lo stesso significato che hanno nella vita di tutti i giorni.

Pensiamo alla aggravante della crudeltà, su cui i giudici, dopo aver ricordato che una certa quota di crudeltà è inevitabilmente insita in qualunque delitto cruento (quale omicidio volontario non è crudele?) e che la prova della crudeltà non può essere ricavata dalle condotte successive sul cadavere, ha applicato i principi secondo cui è crudele, da un punto di vista tecnico- giuridico, quel comportamento eccedente rispetto alla normalità, che sia finalizzato a determinare sofferenze aggiuntive alla vittima. Per quanto certe decisioni possano essere difficili da accettare, occorre tenere a mente che i Tribunali sono chiamati ad applicare le leggi e non a soddisfare le aspettative dell’opinione pubblica.

La morbosità dei media. Il culto discreto per Stefano Nazzi: la cronaca nera lontana dalla spettacolarizzazione. Il giornalista ricostruisce casi noti e meno noti al grande pubblico in un podcast premiato agli Italian Awards. Sobrietà e precisione. Un piccolo cult. Antonio Lamorte su L'Unità il 30 Giugno 2023

Michelle Causo racconta: “Mi ha accoltellata e lasciata in un carrello. Avevo diciassette anni e una vita davanti”. E raccontano anche Giulia Tramontano, Diana Pifferi, Elisa Claps, Yara Gambirasio, Denise Pipitone e via dicendo. Le vittime che parlano su TikTok. Deepfake, intelligenza artificiale al servizio della morbosità, soltanto l’ultimo step dell’attenzione pornograf*ca che pubblico e media dedicano alla cronaca nera. Altro che Truman Capote, altre che Emmanuel Carrère. E il giornalismo cavalca, la televisione specula. Non si butta via niente dei dettagli più insignificanti purché raccapriccianti, di vite spezzate da violenze efferate, della quotidianità marginale dei mostri che devono diventare sempre più mostri.

C’è un’altra audience che più silenziosa ascolta, che pur appassionandosi alla cronaca nera, ai casi snocciolati giorno per giorno come fossero feuilleton, presta un’attenzione meno macabra e più accurata. Stefano Nazzi ha vinto con Indagini de Il Post il premio dell’anno nella categoria True Crime agli Italian Podcast Awards. Giornalista di cronaca, ha collaborato per anni con importanti testate nazionali, seguito casi di enorme risonanza mediatica e vicende meno note al grande pubblico. Ha appena pubblicato Il volto del male per Mondadori. È diventato un piccolo cult.

Nazzi ripercorre casi noti e meno conosciuti. Ricostruisce le indagini, i processi, gli errori giudiziari, i riflessi sui media e l’influenza dei media, le reazioni della società. Storie diventate familiari agli italiani, che ne hanno dettato sensibilità e percezioni. Non ammicca, non aggiunge particolari succosi utili soltanto alla spettacolarizzazione. Precisione, sobrietà. Un lungo apprendistato. “Nei giornali in cui ho lavorato ho imparato come si scriveva – ha raccontato a Il Libraio – , ma anche come non si scriveva. Ho imparato come non volevo più scrivere. Quindi ho abbandonato, man mano che andavo avanti con gli anni, tutta una serie di linguaggi, di espressioni, di aggettivazioni, di frasi fatte, che adesso mi viene abbastanza naturale tralasciare”.

Nessuno stratagemma per aggiungere sensazionalismo all’emotività già ispirata dai fatti, dalle carte giudiziarie. Nazzi non dà mai per scontato che la gente sappia cosa sia un incidente probatorio o un rito abbreviato. Spiega, corre il rischio di risultare noioso. Contestualizza. Indagini, da marzo 2022, racconta quello che sono le scale mobili per Potenza e cosa hanno significato le scale mobili per Potenza. Spiega cosa si intende per “stato crepuscolare orientato”. Non c’è moralismo, non si improvvisano tribunali. Nessuna traccia degli aspetti più morbosi che hanno fatto giudicare la cronaca nera una specie di giornalismo di serie B, gli stessi che hanno alimentato una religione dozzinale, tempestata di domande e opinionismo spicciolo.

Il critico letterario Matteo Marchesini ha scritto che oggi “quasi tutti siamo delle tricoteuses della nera, che ci raggiunge con una potenza e capillarità inaudite. Non per caso è dilagata a partire dagli anni 90, col crollo delle grandi narrazioni ideologiche e la drastica diminuzione della vita attiva, militante: le semplificazioni del giallo, che non finisce mai di complicare paradossalmente le cose per aggiungere una puntata in più, sono diventate la nostra Weltanschauung (e alcuni magistrati ne hanno preso atto)”. E anche i grandi giornali: ma esiste un altro modo, nonostante i commenti sulle pagine social seguitissime che tramite deepfake e intelligenza artificiale fanno parlare vittime trucidate risultano entusiasti, molto empatici, di utenti che sembrano sinceramente coinvolti.

Antonio Lamorte 30 Giugno 2023

L'assassino di Giulia. Alessandro Impagnatiello, il mostro e la gogna dei carabinieri per mostrarlo come un trofeo. Dieci lunghi minuti è rimasto Alessandro fermo nelle sua auto bloccata davanti al garage dalle forze dell’ordine, assediato dai giornalisti che gli urlavano ”vuoi dire qualcosa?”, bersagliato dai flash e dalle telecamere. Passerella indegna. Tiziana Maiolo su L'Unità il 4 Giugno 2023

No, la gogna non si fa. Non c’è bisogno di ricordare Enzo Tortora, perché il paragone sarebbe offensivo nei confronti di chi è diventato suo malgrado il simbolo dell’ingiustizia italiana. Ma quello che è stato inflitto l’altra sera a Alessandro Impagnatiello, assassino e reo confesso, ricorda troppo l’arresto di Massimo Bossetti, che si è sempre dichiarato innocente, e che fu braccato come un animaletto impaurito ed esibito come trofeo di caccia dalle forze dell’ordine.

I carabinieri l’hanno rifatto, e non va bene. Dieci lunghi minuti è rimasto Alessandro fermo nelle sua auto bloccata davanti al garage dalle forze dell’ordine, assediato dai giornalisti che gli urlavano ”vuoi dire qualcosa?”, bersagliato dai flash e dalle telecamere. Indegna passerella. Potevano far sgomberare e non l’hanno fatto. L’hanno lasciato lì, mezzo incappucciato con le mani sul volante, preda di ogni indecente curiosità.

Volete che vi diciamo bravi perché avete risolto il caso? Era vostro dovere. E il Caino che avevate tra le mani lo dovevate rispettare. Il pezzo più difficile da scrivere. Perché quel barman fighetto che lavora da Armani, che viene chiamato “lurido” dai colleghi e poi ammazza la compagna e il bambino, è quello che noi donne vorremmo strozzare con le nostre mani. Una vera pena di morte da applicare direttamente e subito. Poi però c’è il mondo con le sue regole, e la giustizia che deve applicarle. Parrebbe sfortunato (ma non lo è) Alessandro l’assassino, a ritrovarsi dentro un mondo ostile fatto tutto di donne.

Sembra la nemesi, pronta a colpire uno che le donne non le ama, che forse le teme, ma che non gli piacciono davvero. Il fatto che lui paia voler lasciare sempre una traccia di sé nel loro corpo è lì a dimostrarlo. Ne incontra una a vent’anni circa e lei è subito incinta. Sta con Giulia e lei porta avanti una gravidanza fino a oltre il settimo mese, prima che lui tolga la vita a tutti e due, a lei e al bambino. La tradisce con un’altra, ed ecco ancora una gravidanza, che lei decide di interrompere. Tre donne e le loro scelte. E lui pare solo uno che si esibisce ma non decide.

“Un mostro”, lo definisce la madre, che non riesce neanche a tenere in vita quel cordone ombelicale che tutto capisce e perdona. E poi gli cascano addosso tre magistrati, tutte donne, le due pm, procuratore aggiunto Letizia Mannella e Alessia Menegazzo, e poi la gip Angela Minerva. E tutte fanno giustizia, con immediate differenze di giudizio e la prefigurazione di uno scontro processuale, che si giocherà tutto sulla premeditazione del delitto. E’ possibile che tutte queste donne, prima di tutto la sorella e la mamma di Giulia, la ragazza assassinata con il suo bambino (ora più che mai “suo” e di nessun altro), e poi l’”altra” che ha saputo essere solidale con la rivale d’amore, e poi queste tre magistrate e anche la madre del “mostro”, siano le più titolate all’odio, almeno in un angolino dei propri sentimenti.

Pure non sono loro ad andare sopra le righe, a uscire dalle regole della società civile. Anche quando nella conferenza stampa la pm Alessia Menegazzo sottolinea con forza la (controversa) questione della premeditazione, e Letizia Mannella si rivolge alle donne invitandole a non accettare mai l’ultimo appuntamento, quello del “chiarimento”. E poi anche nell’ordinanza della gip Angela Minerva, la quale accetta la spiegazione di Alessandro e della sua condizione di stress per una situazione -la doppia vita sentimentale e la disistima dei colleghi che ne erano a conoscenza- e non ne fa oggetto di giudizio moralistico, ma si attiene freddamente alla norma e alla giurisprudenza. Tutto questo mostra il clima di rispetto.

Il rispetto delle regole e il rispetto della persona. Ancora una volta ci troviamo al cospetto di un Caino. Di un trentenne destinato a passare dai locali alla moda della Milano più scintillante a una possibile condanna all’ergastolo. In mezzo ci saranno i processi, naturalmente. Per ora c’è una piena ammissione dell’omicidio, che prelude in genere a una condanna. Che non significa soltanto la cella e il carcere, ma la vita, i prossimi venticinque-ventisei anni. Questo va rispettato. Tutte queste donne lo hanno fatto. Ma non possiamo apprezzare il trattamento da preda che gli hanno riservato i carabinieri con la gogna mediatica dell’altra sera. Questo non si fa.

Tiziana Maiolo 4 Giugno 2023

«Anche oggi il “tribunale del popolo” non assolve e condanna l’indagato alla pena della vergogna».Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna-

Parla Vittorio Manes: «Il saggio di Manzoni è un'opera straordinaria per molte ragione, ed è un "classico" perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati». Gennaro Grimolizzi Il Dubbio l'8 maggio 2023

A distanza di circa duecento anni, la “Storia della Colonna infame” di Alessandro Manzoni continua a essere attuale. Errori da parte di chi giudica, abusi e pregiudizi si sono verificati anche dopo il capolavoro manzoniano, fino ai nostri giorni. Cambiano le epoche, ma alcuni strumenti per stritolare la dignità umana esistono ancora. Ne abbiamo parlato con Vittorio Manes, avvocato e ordinario di Diritto penale presso l’Alma Mater Studiorum-Università di Bologna, autore del libro “Giustizia mediatica. Gli effetti perversi sui diritti fondamentali e sul giusto processo” (Il Mulino).

Professor Manes, due secoli fa Alessandro Manzoni, nella “Storia della Colonna infame”, affrontò il tema dell’errore giudiziario e dell’abuso di potere. La storia insegna tanto o niente?

Il saggio di Manzoni è un’opera straordinaria per molte ragioni, ed è un “classico” perché ha come nota caratterizzante la inesauribile attualità e persistenza dei temi e dei problemi trattati: anzitutto, il rischio sempre vivo che un innocente sia condannato, come appunto capitò in sorte ai due protagonisti, Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, accusati di essere “untori” all’epoca della peste del 1630 e per questo ingiustamente sottoposti a tortura e quindi condannati a morte. La storia insegna tanto, ma purtroppo non ha memoria.

A cosa si riferisce?

La storia insegna tanto perché tutta l’evoluzione del diritto penale, sostanziale e processuale, non è altro se non la sedimentazione secolare di errori giudiziari, null’altro che una “trama secolare di disavventure”, parafrasando Borges. Da questi “errori” e “disavventure”, e dall’urgenza di evitare il loro ripetersi, sono stati progressivamente generati i principi e le garanzie in materia penale, prima fra tutte la garanzia primordiale della presunzione di innocenza. Diritti e garanzie sono “antidoti” generati da errori (giudiziari), come recita il titolo di un fortunato saggio di Alan Dershowitz, “Rights from wrongs”. Però, purtroppo, la storia non ha memoria, o meglio, nessuna esperienza della memoria è davvero in grado di sterilizzare il ripetersi di errori giudiziari, che restano tristemente attuali, per le più disparate ragioni, come mette bene in luce una preziosa recente ricerca guidata dal professor Luca Luparia, (“L’errore giudiziario”, Milano, 2021, ndr), “un viaggio al termine della giustizia” alla ricerca di “anticorpi per la condanna dell’innocente”. Questa ricerca deve ancora compiere molti passi avanti, anche nei sistemi di democrazia matura, come testimonia dolorosamente l’attività dell’Innocence project negli Usa sulle più disparate “wrongful convictions”. Del resto, lo stesso Manzoni ammoniva che «la menzogna, l’abuso del potere, la violazione delle leggi e delle regole più note e ricevute, l’adoprar doppio peso e doppia misura…non furor purtroppo particolari a un epoca», ma sono esperienze tristemente vive in ogni tempo e in ogni luogo.

Manzoni mise in guardia i suoi lettori sui danni che può provocare la giustizia ingiusta con il “sacrificio” di persone innocenti anche per compiacere la folla. Una situazione che si è verificata anche nei giorni nostri?

Credo sia difficile negare l’influenza che l’opinione pubblica esercita sul giudizio, anche se non ci sono rilevazione empiriche che possano dimostrarlo. Oggi come ieri, i giudici che non seguano, con la loro decisione, un diffuso pregiudizio colpevolista, possono avvertire «il timor di mancare a un’aspettativa generale, di parer meno abili se scoprivano degl’innocenti, di voltar contro di sé le grida della moltitudine, col non ascoltarle», proprio come scriveva Manzoni. Del resto, quando si crea un determinato “orizzonte di attesa” nel pubblico, il rischio è che chi giudica si senta chiamato non a giudicare bensì a “dire da che parte sta”, se sta dalla parte dell’opinione pubblica, o se sta dalla parte di imputati che la vox populi considera già colpevoli. E questo rischia di contaminare, di fatto, l’imparzialità del giudicante. Quanto più forte e massiva è questa influenza, tanto più coraggio serve per assolvere, perché la decisione di assoluzione inevitabilmente delude le aspettative delle presunte vittime, con le quali l’opinione pubblica tende ad identificarsi: le parti civili, infatti, non chiedono giustizia, ma chiedono condanna.

Dalla colonna infame alla gogna e alla giustizia mediatica. È cambiato lo strumento per spettacolarizzare certi metodi e per presentare all’opinione pubblica il “mostro”?

È cambiato, e molto, assumendo dimensioni ben più pervasive e contundenti, vista la enorme capacità diffusiva che l’informazione on line e i mass media oggi hanno, anche nel martellante rimpallo con i social network e con i mezzi più informali di veicolazione delle notizie nell’universo apocrifo dell’infosfera. Di fatto, se una vicenda penale entra nel circuito mediatico, un semplice “indagato” viene colpito da una “lettera scarlatta” che lo perseguiterà per sempre, una sorta di “pena della vergogna” (shame sanction) che implica la degradazione pubblica dell’individuo, e che non sarà mai cancellata anche dopo una eventuale sentenza di assoluzione, visto che la perpetuazione della “esposizione pubblica”, la public exposure che ha sostituito la gogna medievale, sarà di regola assicurata dalla conservazione della notizia nello sconfinato campo dell’infosfera, con buona pace del diritto all’oblio.

Il tribunale mediatico non assolve mai?

Il tribunale mediatico non assolve mai, o mai davvero del tutto. Nella pubblica opinione resta insinuato il “sospetto”, perché, come si dice,“if there’s smoke there’s fire”, e nel migliore dei casi residua un giudizio morale negativo o un “etichettamento” negativo anche solo per essere stato coinvolto e travolto dallo scandalo, a prescindere dall’esito del processo. Aveva ragione Sciascia: tutto è non cadere nell’ingranaggio, ma «per come va l’innocenza, tutti potremmo cadere nell’ingranaggio».

Quali sono gli strumenti e i soggetti in grado di attenuare – per non dire neutralizzare - la forza dirompente della giustizia mediatica?

Non ci sono strumenti risolutivi, purtroppo. Ma la deontologia di ogni operatore può fare molto, sia sul versante giudiziario, e in specie degli organi inquirenti e degli operatori di polizia giudiziaria, sia sul versante dell’informazione. La neutralità nel presentare la notizia, l’attenzione alla presunzione di innocenza nel dar spazio anche alla versione della difesa, il rispetto per la dignità della persona, nel non divulgare dati sensibili dell’indagato-imputato come dei terzi “coinvolti”, sono tutti accorgimenti che possono ridurre l’impatto del problema. Ma è un problema culturale, e andrebbe affrontato anzitutto su quel piano: con una massiva campagna di “educazione civica”, sin dalle scuole superiori, che sappia spiegare e trasmettere i valori della civiltà del diritto, le ragioni alla base dei principi e delle garanzie costituzionali in materia di giustizia, spiegate anche attraverso quelle terribili esperienze di ingiustizia che Manzoni, nel suo fulminante saggio, ha consegnato a noi tutti ed alla storia.

Benno Neumair, parte il processo contro «Chi l'ha visto?» e la conduttrice Sciarelli. Chiara Currò Dossi su Il Corriere della Sera il 28 Aprile 2023 

Un servizio del programma sosteneva come gli avvocati avessero consigliato al loro assistito di mentire sui tempi del delitto: autori e conduttrice in aula il 9 maggio. Omicidi in famiglia, il sondaggio: «Evitabile uno su due» 

Inizierà il 9 maggio, davanti alla giudice Julia Dorfmann, il processo per diffamazione aggravata a carico degli autori di un servizio televisivo trasmesso il 10 marzo 2021 su Chi l’ha visto?: il giornalista Giovanni Loreto Carbone e la responsabile del programma, Federica Sciarelli. A denunciarli erano stati gli avvocati di Benno Neumair, Flavio Moccia e Angelo Polo. Nodo del contendere il non detto della frase: «Nei vari interrogatori, sicuramente su consiglio degli avvocati, Benno restringe sempre di più l’intervallo di tempo tra lo strangolamento del padre e l’arrivo in casa della madre». Gli avvocati gli avrebbero cioè suggerito di mentire, per nascondere il fatto che il secondo delitto sarebbe stato premeditato. La Procura aveva chiesto l’archiviazione, ma il gip aveva disposto l’imputazione coatta.

Il sondaggio

Intanto sono stati diffusi i dati di un sondaggio diffuso da Astat, l’istituto di statistica provinciale. Per quasi la metà degli altoatesini (il 47%) i parenticidi sarebbero evitabili, almeno in alcuni casi. Per uno su tre (il 33%), il rischio di macchiarsi di questo tipo di crimine aumenta nei casi di persone affette da disturbi mentali. Ma quanto, nello stigmatizzarli, abbiano influito gli organi di informazione, nel riportare l’andamento del processo Neumair, uno su quattro (il 26%) non se la sente di dare un’opinione: «Non eravamo presenti in aula». Sono queste le conclusioni alle quali è arrivato l’Astat in un panel (un procedimento di raccolta continuativa di informazioni statistiche su un campione di popolazione) realizzato a marzo per sondare l’opinione della popolazione rispetto al caso Neumair. Non c’è dubbio sul fatto che il duplice omicidio di Laura Perselli e Peter Neumair, strangolati il 4 gennaio 2021 dal figlio Benno (condannato in primo grado all’ergastolo), sia stato uno dei principali argomenti di discussione degli ultimi due anni. Così come sul fatto che abbia trovato ampio spazio sugli organi di informazione, locali e nazionali. Quanto questo abbia influito sull’opinione pubblica, in termini di stigma sui disturbi mentali, è diventato argomento di studio tra gli addetti ai lavori.

I sentimenti suscitati dal delitto Neumair

 I primi a muoversi erano stati gli esperti del Servizio di psichiatria dell’Azienda sanitaria (Asl), che avevano elaborato un questionario online (ancora disponibile) del quale il primario, Andreas Conca, aveva detto di aver «informato e coinvolto» la famiglia Neumair: circostanza smentita a stretto giro di boa. Di qui la (caldeggiata) entrata in scena dell’Astat che, come si legge in testa alla pubblicazione, «ha risposto a un’esigenza di ricerca del Servizio psichiatrico». Le domande sono diverse sia nel numero (6 per l’Astat, 27 per l’Asl) che nel contenuto. Il quadro che emerge è sfaccettato. Il principale sentimento suscitato dal delitto Neumair è di rabbia (54%), seguito da disgusto (22%), sorpresa (14%), indifferenza (11%) e paura (6%). Sul fatto che i parenticidi possano essere evitati, l’opinione è «letteralmente» divisa a metà, spiegano gli esperti Astat: il 47% degli intervistati lo ritiene possibile, il 53% che sia difficile dare una risposta o preferisce non darla. Parallelamente, la metà degli intervistati ritiene sia possibile individuare dei segnali premonitori (per l’8% spesso, per il 44% talvolta), ma c’è un’alta percentuale (21%) di «non so», ovvero «di chi lascia tale giudizio agli esperti del settore». 

Malattia mentale ed episodi criminali

Rispetto a un possibile legame tra malattia mentale e aumentato rischio di episodi criminali, oltre la metà (51%) sospende il giudizio, mentre uno su tre (33%) sostiene che ci sia. Per quel che riguarda il quotidiano, due persone su tre sarebbero disposte ad avere una persona con disturbi mentali come collega di lavoro (71%), come vicino di casa (70%) o come amico (68%), ma solo una su tre (33%) a viverci insieme. E poi c’è il ruolo dei media. L’Astat ha chiesto di valutare «il modo di riportare l’andamento del processo»: il 33% degli intervistati li ritiene affidabili, il 41% sensazionalistici e il 26% dichiara di non poterlo sapere, in quanto non presente in aula (e quindi impossibilitato a confrontare quanto riportato e quanto accaduto). Conca, invece, aveva insistito sull’affidabilità delle notizie (da «insufficiente» a «ottima»), sulla loro quantità, sull’utilizzo dei termini psichiatrici e sul grado di manipolazione «ponendo l’accento su possibili aspetti negativi correlati a disturbi mentali (ad esempio la pericolosità sociale)». Dando l’impressione, come aveva scritto l’allora presidente dell’Ordine dei giornalisti, Lissi Mair, «che la manipolazione fosse già data per scontata. Lo scopo reale della ricerca sembra essere quello di dire che il malato mentale non è pericoloso, ma che se lo si pensa la colpa è di chi fa informazione».

Da Sara Scazzi a Elisa Claps: quando la cronaca nera (di Puglia e Basilicata) diventa fiction. Davide Grittani su Il Corriere della Sera il 26 aprile 2023

Diverse le pellicole ispirate ai fatti di cronaca pugliesi e lucane girate negli ultimi tempi. Tra le altre il delitto di "Avetrana - Qui non è Hollywood" e "Ti mangio il Cuore", entrambe firmate da Pippo Mezzapesa 

Dall'alto, le riprese ispirate al delitto di Avetrana, a quello di Elisa Claps, sotto Elodie in "Ti mangio il cuore" e "Colpo di Ferragosto"

Toh, la cronaca. Chi non muore si rivede. Rieccola, in una forma così smagliante come non succedeva dagli anni Ottanta. Quando non dettava solo la scaletta dei tiggì, ma come un pendolo scandiva la vita del Paese. Dopo aver subito le umiliazioni di fiction, fantasy, gialli (che avrebbero dovuto riabilitare un genere, mentre l’effetto ottenuto è stato abituarci alla mediocrità) e docufilm, la cronaca sembra essersi ripresa giornali e palinsesti, «il mostro che nulla concede» – come la chiamava Ennio Flaiano – ma che riempie le nostre vite col racconto di ciò che ci vergogniamo di ammettere di essere diventati. E come spesso succede basta il termometro del rione per misurare la febbre della piazza, ovvero potrebbe bastare l’osservazione delle sole produzioni Made in Puglia per commentare il cambio di storytelling del Paese.

Le produzioni «made in Puglia»

Solo negli ultimi due anni si registrano una dozzina tra produzioni, progetti in attesa di approvazione e trattamenti al vaglio di finanziatori. Dal successo del film «Ti mangio il cuore» di Pippo Mezzapesa (basato sulla storia dell’impossibile relazione sentimentale tra esponenti di clan rivali nella faida di Monte Sant’Angelo, che deve il titolo alle cronache di nera redatte per trent’anni da Gianni Rinaldi sulla Gazzetta del Mezzogiorno) alla serie «Avetrana – Qui non è Hollywood», firmata dallo stesso regista (incentrata sul delitto di Sarah Scazzi, il cui principale merito autoriale è stato riproporre la profonda ignoranza in cui è covata quella tragedia), da «Sei donne – Il mistero di Leila» diretta da Vincenzo Marra (mistery di Ivan Cotroneo e Monica Rametta, prodotto da Ibc Movie con Rai Fiction, realizzato con risorse del Prr Puglia Fesr-Fse 2014/20) a «Per Elisa» di Marco Pontecorvo (tre episodi prodotti da Fast Film e Cosmopolitan, prossimamente su Rai Uno, ispirati al delitto di Elisa Claps e alla pavidità culturale di una comunità che ha preferito favorire per decenni l’impunità del pluriomicida Danilo Restivo). Questo solo per rievocare il recente passato, perché per l’immediato futuro sarebbero al vaglio progetti che riguardano alcuni tra gli episodi più controversi avvenuti in Puglia dal 1990 a oggi.

I progetti per il delitto di Nadia Roccia

Potrebbe diventare fiction (il progetto è al vaglio di una importante produzione internazionale) anche il delitto avvenuto a Castelluccio dei Sauri il 14 marzo 1998, quando la studentessa Nadia Roccia fu attirata in trappola e uccisa dalle compagne di classe Anna Maria Botticelli e Mariena Sica: un caso che sconvolse l’Italia perché tutte le protagoniste erano donne, legate dal macabro rondò di esistenze – la cronaca dell’epoca mitizzò l’eventuale coinvolgimento di pratiche sataniche – in cui solitudine, noia paesana e follia bastano (e avanzano) per giustificare anche l’abisso. Così come potrebbe diventare fiction anche il barbaro assassinio di Antonio Perrucci Ciannamea, un ragazzo di Cerignola rapito il 7 novembre 1999 e ritrovato incaprettato 13 giorni dopo in un pozzo nelle campagne alla periferia della città ofantina: l’intenzione era quella di estorcere del denaro alla famiglia, ma poi la situazione è sfuggita di mano ad Angelo Caputo, al figlio Leonardo e al loro complice Damiano Russo (della condanna dei quali, in appello, si occupò l’ex magistrato e oggi presidente della Regione, Michele Emiliano). Sembrerebbe più avanzato lo stato dei lavori per la realizzazione di una serie tratta dalla testimonianza di tre vedove famiglie del rione Tamburi di Taranto, le prime a denunciare la connessione tra il cancro che ne aveva ucciso i mariti (2003, tutti operai all’ex Ilva) e l’esposizione alle polveri respirate nello stabilimento. Dalle prime indiscrezione trapelate la firma sarebbe quella di un regista italiano molto impegnato nel sociale, per una co-produzione Lucky Red e Rai Fiction: cinque puntate molto intense e sofferte, in cui la necessità di sfamare una famiglia sarebbe stata posta sullo stesso piatto (della bilancia, fatale ma vero) della vita, sul filo di un equilibrio così precario eppure così incontrovertibile, soprattutto per Taranto. 

Non si tratta di una serie, ma di un possibile lungometraggio, il trattamento in stesura molto avanzata – per una regia a quattro mani – che avrebbe l’obiettivo di raccontare il cosiddetto «Colpo di ferragosto»: quello che si consumò nel caveau dell’allora Banca di Roma a Foggia (14 Agosto 1997), quando furono ripulite 300 cassette di sicurezza per un bottino di 40 miliardi di vecchie lire (quasi 20 milioni di euro di oggi), uno dei più consistenti mai messi a segno nella storia d’Italia, con una lunga serie di basisti e «menti raffinatissime» nessuna delle quali realmente individuata. Perché interessa così tanto un colpo in banca? Perché il 7 luglio 2016 (quasi vent’anni dopo), facendo dei lavori in strada, fu scoperto il tunnel lungo 30 metri che dalla superficie stradale portava alle viscere della banca: sulla scia de Lo spietato (girato a Foggia, perlopiù nel quartiere fieristico), l’idea sarebbe quella di un’unica ambientazione in cui allestire una sorta de La casa di carta in salsa pugliese.

Insomma, la cronaca è tornata a prendersi i palinsesti delle nostre vite. Quando succede, solitamente, è sempre per lo stesso motivo. Perché quello che accade là fuori, dentro le nostre giornate, è diventato talmente noioso che il passato finisce per interessare molto più del presente.

Gli omicidi di Benno Neumair e il problema del male. Aldo Grasso CorriereTv su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2023

Crime investigation, il canale 119 di Sky, ha trasmesso un documentario sul caso di Benno Neumair: il ragazzo che ha ucciso i due genitori. C’è già stata una sentenza della Corte d’Assise ce ha stabilito l’ergastolo. Se ne sono occupate molte trasmissioni tv, perché ci torniamo sopra? Perché la ricostruzione meticolosa che la televisione fa con casi come questo ci porta sempre a un’unica domanda essenziale: ma il male è dentro o è anche fuori?

Benno è un ragazzo che si porta dietro delle turbe fin da giovanissimo che poi a poco a poco crescono, esplodono fino a uccidere i propri genitori, oppure c’è anche qualcosa di esterno, che condiziona la vita di questo ragazzo e che fa sì che queste turbe esplodano? Non chiediamo alla televisione di risolvere questo enigma fondamentale, però ogni volta che vediamo casi come questo è un enigma che viene fuori. Non abbiamo risposte ma soltanto domande che si ripetono. (Aldo Grasso)

"Ecco come un'inchiesta diventa un caso mediatico". Claudio Brachino - già direttore di Videonews Mediaset e Sport Mediaset sarà tra i super ospiti della masterclass di The Newsroom Academy di video giornalismo investigativo diretta da Alessandro Politi e organizzata da Il Giornale e InsideOver -spiega quali sono i meccanismi per cui un'inchiesta ottiene grande risonanza nei media e cosa questo significhi per il giornalismo. Martina Piumatti il 3 Aprile 2023 su Il Giornale.

Possono fuorviare le indagini. Condannare innocenti e assolvere colpevoli. Rovinare vite e contribuire a clamorosi errori giudiziari. Ma, a volte, i media sono decisivi per dare voce alle “tante storie che aspettano” e per dissotterrare le “tante verità che devono ancora essere trovate”. Ne abbiamo parlato con Claudio Brachino, già direttore di Videonews Mediaset e Sport Mediaset, attualmente direttore de Il Settimanale, editorialista de Il Giornale, tra i super ospiti della masterclass in videogiornalismo investigativo di The Newsroom Academy.

In che modo il giornalista d’inchiesta può aiutare ad arrivare alla verità senza invadere il campo di chi indaga?

Un'inchiesta giornalistica seria va per la sua strada e basta. Risponde ai suoi stessi codici di verità e di onestà. Poi, certo, anche i tradizionali codici deontologici rimangono presenti, anche se certe volte, per certi temi, si può andare in un territorio delicato. Si può, insomma, spingere purché il mezzo, come si dice, non prenda il sopravvento sul fine. Il rapporto con le autorità va mantenuto soprattutto nel caso in cui la rivelazione, anche parziale, di alcune notizie, possa compromettere delle indagini o il successo di un'intera operazione, come ad esempio la cattura di un importante boss mafioso.

Mi fai qualche esempio in cui i media hanno contribuito a svolte importanti nelle indagini?

Il giornalismo d'inchiesta italiano raramente ha risolto dei casi importanti. Sono tantissimi i grandi misteri della storia repubblicana rimasti irrisolti: Ustica, Moro, Pasolini, Borsellino, solo per dirne alcuni. Spesso, poi, le verità giornalistiche non corrispondono a quelle giudiziarie, molte volte insoddisfacenti. Eppure, sono proprio i magistrati a riaprire i casi, nella storia di Emanuela Orlandi addirittura il Vaticano. Certo, battere il tasto su un storia, non farla dimenticare dai media e dall'opinione pubblica, continuare a scavare, crea le condizioni per arrivare alle cosiddette verità nascoste. Un caso clamoroso in cui le verità nascoste sono finite in un libro, specificamente di Nuzzi, è stato quello dell'epistolario di Ratzinger (che forse si è dimesso anche per questo). Però, più che un'inchiesta contro il potere, è stato uno scoop, una password rivelata da un complotto interno, senza togliere alcun merito ovviamente all'autore.

Accendere i riflettori serve per mantenere alta l’attenzione, ma ha i suoi rischi.

Accendere i riflettori, anche per i motivi già enunciati, è sempre un merito. È il sale della democrazia, è il sale del giornalismo in una democrazia. La comunicazione, anche il suo eccesso, è sempre la vittoria illuministica della luce sul buio, sul mistero, sull'occulto in senso tecnico. Il rischio della spettacolarizzazione certo esiste, vouyerismo, processi paralleli, morbosità, narrazioni incontrollate. Un marasma da cui si esce sempre seguendo le elementari, ma essenziali, regole del buon giornalismo.

Claudio Brachino è tra i super ospiti della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi. Scopri la masterclass

L’interesse del pubblico per certe storie, però, precede o comunque alimenta la spettacolarizzazione dei media. Perché, e come, un caso diventa mediatico?

Come nei romanzi d'appendice dell'Ottocento un caso diventa mediatico per la natura del tema, per la tipologia dei personaggi e per la capacità narrativa di cogliere l'orizzonte d'attesa sociologico dell'opinione pubblica, anche se la realtà offre intrighi superiori a qualsiasi mente. Poi, oggi i media sono tanti e si rincorrono ampliandosi a vicenda, dalla tv ai giornali, ai social. Ma non è vero che fuori dai media c'è il nulla. Ci sono tante storie che aspettano, tante verità che devono ancora essere trovate.

Vi spiego perché il delitto perfetto non esiste”. Martina Piumatti il 7 Aprile 2023 su Inside Over

Dall’omicidio di Serena Mollicone e Meredith Kercher al delitto di Cogne, al caso del serial killer Bilancia, a quello di Liliana Resinovich. Spesso è proprio chi per primo analizza i reperti e la scena del crimine a condizionare inevitabilmente indagini e verdetti. Ma se l’investigazione scientifica è decisiva per ricostruire i fatti e incastrare i colpevoli, a volte può anche indirizzare verso clamorosi errori giudiziari. Luciano Garofano – già comandante dei RIS di Parma, presidente dell’Accademia Italiana di Scienze forensi, consulente di serie televisive (“R.I.S.-Delitti imperfetti”) e di programmi tv (“L’altra metà del crimine”, La7d, “Quarto Grado”, Rete4), tra i super ospiti della masterclass in giornalismo investigativo di The Newsroom Academy – ci ha spiegato perché non esiste il delitto perfetto, ma solo “l’indagine imperfetta” in grado di comprometterne la soluzione.

Lei si è occupato dei più importanti, e più mediatici, casi di cronaca nera. In quali, l’investigazione scientifica è stata la chiave per la risoluzione?

Sicuramente molti, ma tra i più noti l’omicidio di Samuele Lorenzi, il delitto di Cogne, e il caso Bilancia. Perché in entrambi è grazie a tecniche analitiche abbastanza sofisticate per l’epoca che si è arrivati a una soluzione. Nel caso di Donato Bilancia, con l’individuazione di un serial killer atipico, esterno a qualsiasi schema del cosiddetto profiling. Quello di Samuele Lorenzi, invece, è un difficile omicidio avvenuto all’interno delle mura domestiche che soltanto l’utilizzo della Bpa, la Bloodstain pattern analysis, cioè la scienza che studia la forma, la dimensione e la distribuzione delle macchie di sangue, ha consentito di individuare il colpevole.

C’è un caso in particolare, dove secondo lei c’è stato un errore clamoroso e dove c’è margine per ulteriori analisi scientifiche in grado di riscrivere la verità?

Ce ne sono tantissimi, alcuni, purtroppo, ancora oggi. Vedo commettere errori soprattutto nelle fasi iniziali, quando intervengono la prima pattuglia delle forze dell’ordine o i soccorritori. Basti pensare al caso di Liliana Resinovich. L’avvocato del marito Sebastiano mi ha incaricato di rivedere tutti gli atti e mi sono accorto che gli indumenti esterni, a differenza di quelli intimi, della signora Resinovich non erano stati analizzati. E questo, con tutto il rispetto che posso avere per gli inquirenti, è un errore, perché sugli indumenti più esterni ci possono essere le tracce di chi l’ha aggredita, di chi l’ha portata fin lì, di chi ha passato con lei gli ultimi istanti.

Luciano Garofano è tra i super ospiti della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi. Scopri il programma e tutti gli ospiti della masterclass

Anche nei grandi casi del passato non sono mancati errori grossolani di procedura.

Lì ancora di più, perché allora le conoscenze erano meno radicate. Pensi, per esempio, all’omicidio di Serena Mollicone: sono stati fatti tanti sbagli che, come nei casi analoghi, si pagano perché l’alterazione dei reperti e la contaminazione diffusa sono state tali da non aver consentito, poi, di dare un senso alle analisi. Altro caso eclatante è l’omicidio di Meredith Kercher, dove alcune tracce non sono state analizzate opportunamente, perché le attività di sopralluogo e di repertamento non avevano rispettato i protocolli e le buone pratiche di attività di laboratorio.

Esiste un delitto perfetto o c’è sempre il dettaglio trascurato che tradisce il colpevole?

Assolutamente no, non esiste. E oggi più che mai. Pensiamo alla quantità di tracce, dirette e indirette, che lasciamo di noi stessi, sia attraverso i telefoni che i vari dispositivi informatici o le autovetture munite quasi sempre di GPS e quant’altro. E se il delitto perfetto non esiste, dobbiamo concludere che allora esiste un’indagine imperfetta. Spesso la mancanza di tempestività, la non osservanza dei protocolli, la fretta di concludere e arrivare a una soluzione e il concentrarsi su un’unica pista senza fare tutte le verifiche portano a degli sbagli imperdonabili. Che, poi, si traducono in errori giudiziari.

Qual è la traccia per eccellenza che incastra il colpevole di un delitto?

Oggi l’errore è più difficile, perché l’informazione è tale, sia attraverso i social che le serie tv o i libri, che anche il delinquente improvvisato è sempre ben informato. Indubbiamente, le tracce biologiche sono quelle che sfuggono di più perché sono invisibili, ma anche se si provvede a lavarle, possono essere comunque evidenziate, come per esempio quelle ematiche con il luminol. Sono proprio le tracce biologiche, che più delle altre, conducono ancora a un’individuazione certa del colpevole.

Un cold case del passato che le tecniche di investigazioni scientifica di oggi avrebbero risolto?

Sono tantissimi. Bisognerebbe mettersi lì e controllare con grande pazienza solamente una cosa: tutti quei cold case che hanno ancora dei reperti o delle tracce non ancora analizzate e, quindi, tutte potenzialmente utili per riaprire quei casi, questo perché il Dna una volta secco si conserva. Così, potremmo anche riaffrontare casi di trenta o quarant’anni fa.

Dalla celebre serie “R.I.S.-Delitti imperfetti” alle trasmissioni dedicate, l’analisi scientifica della scena del crimine continua ad avere successo in tv, e non solo. Perché questo aspetto, in apparenza tecnico e da addetti ai lavori, affascina così tanto?

Perché ha costituito un’alternativa al contrasto del crimine. A un certo punto abbiamo preso coscienza che in laboratorio, con delle tecniche più o meno sofisticate, potevamo dare delle risposte fino a quel momento impensabili. La stessa cosa è accaduta con i reperti informatici. Tutto questo affascina perché attraverso delle tracce impercettibili è possibile ricostruire qualcosa che sembrava apparentemente impossibile da rilevare. Poi, lo scienziato che si mette lì al microscopio e che con grande pazienza scopre una tecnica in grado di dare una soluzione..beh ha un fascino incredibile. Ed è lo stesso motivo per cui vorrei fare in eterno questo mestiere.

"Dalle indagini al processo: dove può arrivare il potere dei media". Martina Piumatti il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.

La pressione esercitata dai media può indirizzare le indagini e condizionare i verdetti dei processi. Gianluca Zanella, ospite della nuova masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi, ci spiega come e perché

La pressione esercitata dai media può indirizzare le indagini, anticipare svolte e colpi di scena, arrivando, a volte, persino a condizionare i verdetti dei processi. Di questo e del ruolo decisivo, nel bene e nel male, del giornalista d’inchiesta ne abbiamo parlato con Gianluca Zanella, giornalista, editor e agente letterario, che, dopo aver diretto il corso di giornalismo investigativo di The Newsroom Academy nell’autunno scorso, sarà tra gli ospiti della nuova masterclass, tenuta da Alessandro Politi e organizzata da Il Giornale.it e InsideOver.

Nei grandi casi di cronaca nera che potere hanno i media di condizionare l’attività degli investigatori?

"Il potere dei media è immenso e, fin troppo spesso, sottovalutato dagli stessi giornalisti. Con un articolo si può davvero rovinare la vita alle persone. Mi è capitato diverse volte di dover fare i conti con me stesso prima di parlare di qualcuno – anche se deceduto – in un mio articolo. E quando lo faccio, è perché ho verificato attentamente quello che vado a scrivere e sarei pronto a difendere il mio lavoro a testa alta. Venendo alla risposta: il potere dei media è talmente forte da poter, in alcuni casi, condizionare anche lo svolgimento delle indagini. Quando un caso di cronaca nera sale agli onori delle cronache – per i motivi più disparati – si innesca un meccanismo tanto umano quanto perverso: la necessità di trovare un colpevole presto e subito".

Mi fai qualche esempio eclatante in cui è successo, in negativo.

"Di casi, in Italia, ne abbiamo purtroppo molti. Mi sto occupando del delitto di Garlasco da diversi mesi e sono fermamente convinto che qui si tratti di uno di quei casi in cui i media hanno influenzato negativamente non tanto le indagini, quanto l'andamento del processo".

Cos’è che accende i riflettori su un caso e non su un altro?

Quale sia il meccanismo non lo so. Posso fare delle ipotesi. Intanto credo di poter dire che a colpire l'immaginario collettivo sono principalmente gli episodi di sangue. Più l'omicidio è efferato, più l'attenzione del pubblico è garantita. Se ci sono dei minori coinvolti l'attenzione poi sale alle stelle (pensiamo al delitto di Cogne, a Novi Ligure, a Yara Gambirasio, alla strage di Erba). Panem et circenses dicevano i latini. Questo per dire che il pubblico ha bisogno di intrattenimento. E più un caso di cronaca nera è sconvolgente, più l'intrattenimento - brutto dirlo, ma è così - è garantito".

Cosa, invece, può spegnere l'attenzione dei media?

"Una confessione. Non credo ci sia molto altro".

Gianluca Zanella è tra gli ospiti della masterclass di videogiornalismo di inchiesta di Alessandro Politi.

Scopri il programma e gli altri ospiti della masterclass

Quali dettagli nella “versione ufficiale” di una storia fanno capire che c’è qualcosa che non torna, e che per il giornalista c’è margine per scavare?

"I dettagli escono fuori non per magia, ma per uno studio attento, lungo e rigoroso della documentazione disponibile. È questo, a mio avviso, il primo passo necessario. Ancor prima di andare a intervistare i protagonisti delle vicende, bisogna studiare le carte. Altrimenti come puoi sperare di farli cadere in contraddizione? Per venire al margine d'azione concesso a un giornalista, se si rispettano le regole del gioco (e deontologiche) è comunque molto ampio. Se non si rispettano le regole è sconfinato, ma poi se ne pagano le conseguenze".

Per fare il giornalista investigativo bisogna un po’ essere attratti da quello che non torna, da quei “pezzi” di una storia che non sono al loro posto. Quindi, giornalista d’inchiesta si nasce o no?

"Credo ci voglia un piglio innato, quindi sì, per certi aspetti ci si nasce. Di certo non basta il piglio, ci vuole tanta forza di volontà, tanta convinzione e la consapevolezza che non sempre c'è un risultato garantito alla fine del lavoro. A volte non c'è nemmeno la fine del lavoro!".

Tu hai già tenuto un corso di giornalismo investigativo organizzato da The Newsroom Academy. Perché è il posto giusto per cominciare davvero a fare questo mestiere?

"Corsi come quello che ho tenuto nel 2022 e come quello che partirà presto sotto la guida del bravo Alessandro Politi sono utili non solamente a fornire gli strumenti di base per capire come muoversi sul campo e come non incappare in problemi di natura legale; corsi come quelli della Newsroom Academy consentono agli iscritti di entrare in contatto con un parterre di ospiti di altissimo livello che altrimenti difficilmente avrebbero potuto avvicinare in altro modo. E il fatto che poi ci sia la possibilità di iniziare una collaborazione, beh, non è assolutamente una cosa scontata".

Giusto proteggere i giudici di Cospito. Ma la scorta serve anche al gup che ha assolto a Rigopiano...

C’era davvero bisogno, per giustificare questa richiesta, di indicare i nomi di chi, in questi mesi, ha legittimamente e in modo del tutto pacifico sostenuto la richiesta di revoca del 41bis per l’anarchico in sciopero della fame? Davì su Il Dubbio il 28 febbraio

I consiglieri togati di Magistratura Indipendente, la corrente di “destra” dell’Anm, hanno chiesto al governo di proteggere tutti i magistrati che “nelle diverse funzioni e sedi si sono occupati della vicenda Cospito”. Richiesta giusta, giustissima. In tempi non troppo distanti questo paese ha visto scorrere troppo sangue. Sangue di togati e non.

Dunque, bene così. Ci viene un solo dubbio: davvero per giustificare questa richiesta c’era bisogno di indicare i nomi di chi, in questi mesi, ha legittimamente e in modo del tutto pacifico sostenuto la richiesta di revoca del 41bis dell’anarchico Alfredo Cospito? Davvero c’era bisogno di additare il suo avvocato difensore sottolineando le di lui frasi a difesa del suo cliente?

E davvero c’era bisogno di far riferimento a Luigi Manconi, “colpevole” di aver osato criticare la sentenza con cui la Cassazione ha respinto il ricorso di Cospito contro il 41bis? “Leggeremo le motivazioni della sentenza ma fin da ora posso dire che siamo di fronte ad un verdetto iniquo”, ha scritto Manconi nell’esercizio del suo legittimo diritto di espressione. Un diritto costituzionale che i consiglieri del Csm conoscono senz’altro.

Perché il rischio è quello di ricreare involontariamente il fronte dei buoni e quello dei cattivi, e riproporre schemi manichei che dilaniano la società civile e dividono le coscienze. E questo sì sarebbe molto, molto pericoloso.

P.s. Siamo inoltre certi che i consiglieri di Mi chiederanno protezione anche per quel giudice che qualche giorno fa ha assolto 25 dei 30 imputati della tragedia di Rigopiano, e che per questo è stato pesantemente minacciato.

Marcello Basilico, consigliere togato del Consiglio Superiore della Magistratura. Il consigliere togato: «Nel nuovo corso della magistratura, la funzione delle correnti non svanisce: la priorità è battersi in difesa dei colleghi che decidono senza lasciarsi condizionare dall'opinione pubblica». Errico Novi su Il Dubbio l’1 marzo 2023

«Siamo chiamati a molte sfide. Tra le più urgenti c’è la tutela di tutti i giudici, che decidono secondo coscienza e senza lasciarsi condizionare dal sentire comune, dalle aspettative dell’opinione pubblica». Marcello Basilico è una figura di rilievo nel panorama della magistratura associata e istituzionale: presidente della sezione Lavoro al Tribunale di Genova, ora togato al Csm, è esponente di Area, corrente progressista delle toghe, e ha fatto parte del direttivo Anm. Sa bene che il nuovo corso di Palazzo dei Marescialli, di cui fa parte, sarà impegnativo, non foss’altro per gli sguardi severi con cui è osservato. Il che non vuol dire che le correnti, nel Consiglio superiore, debbano essere messe al bando: «Possono esserci diverse idee, nella magistratura, sul nuovo modello di giudice, ed è utile che possano confrontarsi. Che affrontino, innanzitutto, il nodo delle reazioni suscitate a volte dalle sentenze dentro e fuori le aule di tribunale».

Partiamo dal rapporto fra voi magistrati e il vostro ormai ex collega Nordio: può essere condizionato dai giudizi spesso severi che l’attuale ministro esprimeva quando era in toga, soprattutto su Csm e Anm?

No, non credo che il passato di Nordio possa incidere sui giudizi relativi alla sua attuale azione da ministro. Penso davvero di poterlo affermare a nome della gran parte dei colleghi. D’altronde in passato abbiamo visto figure che hanno rivestito cariche nell’ambito della giustizia e che hanno rivelato inclinazioni assai diverse da quanto si potesse immaginare, soprattutto riguardo alla capacità di rappresentare l’ordine giudiziario.

E lei dice che i vecchi contrasti fra Nordio e i vertici della magistratura non faranno innalzare la tensione sulle riforme, per esempio sulla separazione delle carriere?

Direi proprio di no. Anche perché, a maggior ragione se parliamo di riforme costituzionali, eventuali critiche della magistratura non potrebbero appuntarsi solo specificamente sul ministro: entrerebbero in gioco l’intero governo, il Parlamento. Basti pensare a quanto accadde all’epoca della Bicamerale, quando il conflitto fra l’ordine giudiziario e la politica fu aspro e certo non si concentrò sulla sola figura del ministro. Si può fare anche l’esempio della riforma Cartabia: un conto è stata la proposta della guardasigilli, altro è il punto di caduta a cui ha condotto il dibattito parlamentare e che abbiamo appunto criticato.

Ora che le cosiddette degenerazioni del correntismo vanno archiviate, servono ancora le correnti, al Csm?

Intanto c’è un nuovo modello di magistrato da definire in base alle riforme da poco introdotte, alle aspettative che ne derivano in termini di efficacia della risposta di giustizia. Ma pesa anche una società mutata da cui emerge la richiesta di nuove tutele, recepite e segnalate al Parlamento dalla Corte costituzionale. Rispetto a tutto questo è importante eccome che la magistratura si confronti al proprio interno, tra le sue varie componenti. Pensiamo soltanto alla invadenza presente e futura della tecnologia nella giustizia, agli algoritmi e alle sollecitazioni della cosiddetta predittività. E poi c’è una questione ancora più delicata delle altre.

Quale?

A volte manca, nella politica, la consapevolezza che il magistrato deve sapersi distaccare dalle aspettative dell’opinione pubblica.

Cioè la politica “tifa” per la sentenza del processo mediatico anziché per i giudici veri?

Noi come magistrati ci misuriamo di continuo con la complessità, e siamo chiamati a dare risposte complesse. Il punto è che non sempre la società moderna è pronta ad accettarle. È necessario che a tutti i livelli istituzionali si sia disposti a rispettare la decisione di un giudice anche quando non coincide con quella che il sentire comune sollecitava.

E far passare questo messaggio è una sfida per le correnti?

Certamente compito della magistratura associata è far comprendere che le risposte di giustizia, nella loro complessità, non possono assomigliare a un tweet, a un lapidario messaggio sui social.

Magistratura indipendente, in una nota diffusa poche ore fa, chiede tutela per tutti i giudici che si occupano del caso Cospito. Non sarebbe giusto invocarla anche per il giudice aggredito a Rigopiano mentre leggeva la sentenza?

Condivido in pieno l’idea che tutti i magistrati esposti in vario modo a forme di reazione incontrollata da parte dell’opinione pubblica meritino lo stesso grado di tutela. E credo che il discorso valga a maggior ragione quando si tratta di un giudice monocratico, come a Pescara. Il magistrato non decide per il popolo ma in nome del popolo, e lo fa in base alla propria coscienza e agli elementi acquisiti nel processo. Sono questi i suoi riferimenti, non un’aspettativa pubblica di condanna o assoluzione. Poi, a verificare se la sua pronuncia è corretta o sbagliata, potranno essere i successivi gradi di giudizio. Ma sarebbe bello se, sul rispetto di questa idea basilare, tutti gli organi dello Stato facessero quadrato.

Si riferisce anche al tweet diffuso da Matteo Salvini dopo la sentenza su Rigopiano?

Semplicemente, mi aspetto che le istituzioni dello Stato, di qualsiasi grado, si conformino all’unisono a questi principi. In tempi recenti o meno recenti ci sono stati diversi esempi di distrazione.

Caso Sinatra: è giusto, intanto, che nella miriade di chiacchiere intercorse fra magistrati, debba essere incolpata proprio una pm donna che si sfoga per aver subito una molestia, considerato che quelle conversazioni tra lei e Luca Palamara avrebbero dovuto restare segrete, sul piano processuale?

Premessa: mi astengo da qualsiasi commento sulla sentenza disciplinare in questione. Faccio parte dello stesso Csm che l’ha emessa e comunque non ho elementi per stabilire se si tratta di un decisione giusta o sbagliata. Riguardo l’imponderabile meccanismo che finisce per far emergere una certa notizia criminis fra tante condotte, va detto che questa è una dinamica inevitabile, e che ad essere determinante è il comportamento portato, seppur in modo casuale, in evidenza.

Cosa risponde a chi considera paradossale che proprio dalla magistratura sembra arrivare, con la sentenza sulla dottoressa Sinatra, un segnale dissuasivo per tutte le donne che denunciano molestie o violenze di genere?

Si deve ricordare, innanzitutto, che nel caso specifico la molestia non era stata denunciata. E che dunque la vicenda va ricondotta ai suoi connotati effettivi. Anche nel senso di segnalare come non si sia trattato di una molestia consumata all’interno del rapporto di lavoro, cioè tra un procuratore e una sua sostituta: lo dico perché nell’opinione pubblica sembra essere passata un’idea diversa. Detto questo, è inevitabile, su un piano generale e astratto, che una persona vittima di una molestia o di una violenza sia chiamata a rispondere nel momento in cui commette a propria volta un’azione illecita non scriminata dalla legge. In altre parole, un illecito va perseguito comunque, ma certamente la storia di quel fatto rileva rispetto all’entità della sanzione, cioè sul piano delle attenuanti. Nella violenza di genere, è indispensabile tutelare la vittima in modo che sia restituita alla dignità della propria esistenza, ma non nel senso di giustificare eventuali comportamenti illeciti successivi.

Il caso e la gogna. Caso Soumahoro e l’editorialismo inquirente. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 27 Gennaio 2023

C’è un solo motivo per cui a destra e a manca si son rivoltati come vipere calpestate quando qualcuno ha denunciato che era la componente classista e razzista – e questa più che quella – a mobilitare la piazza del linciaggio contro Aboubakar Soumahoro. E il motivo è molto semplicemente questo: perché era così; perché era vero. E perché la vicenda scopriva un disturbo della nostra società, del nostro giornalismo, della nostra giustizia, e insomma del nostro generale tenore civile, ben più profondo rispetto a quello esploso intorno al caso del “talentuoso ivoriano”, per usare una delle definizioni dell’editorialismo inquirente che ha guidato la campagna.

Se non fosse stato così, se non fosse stato vero, se non fosse stata quella componente a motivare in modo magari subdolo ma effettivo quell’aggressione, e se la cosa non avesse implicazioni ben più vaste e significative, il fronte razzial-giustizialista avrebbe trattato quella denuncia come si fa con una gratuita boutade, e soprattutto non avrebbe fatto ricorso al più classico degli espedienti difensivi in argomento: vale a dire la raccolta delle prove a sostegno della pretesa equanimità e neutralità delle requisitorie contro il balordo che cianciava di diritti dei deboli mentre il suo clan familiare affamava i migranti e i lavoratori e ci faceva pure i soldi. Quali prove? Voilà: il fatto che ad accusarlo fossero anche – anzi soprattutto! – persone con il suo stesso tono di epidermide. I braccianti neri che lui stesso avrebbe dovuto rappresentare e difendere.

I migranti di cui avrebbe dovuto occuparsi. Infine (questa è l’ultima puntata) la giornalista nera – quella sì una brava persona, perché non si infila populistici stivali fangosi e non ha parenti con le borse di lusso – che ha fatto un’onorata carriera in Rai dopo un’infanzia migrante di lavori umili: e che ora – lo vedi, tu che blateri di razzismo? – rimprovera a Soumahoro di aver tradito la causa e di aver semmai pregiudicato, altro che difeso, le ragioni degli ultimi della società. Un armamentario probatorio e di giustificazione che assomiglia come una goccia d’acqua a quello dell’antisemita che non è tale perché ha tanti amici ebrei, o chiama al convegno neonazista l’ebreo che sottoscrive il manifesto contro la multinazionale giudaica. O, per star più vicini, è la stessa riprova di non razzismo offerta dal partito politico il cui senatore dà di “orango” a una ministra di colore, il cui capo annuncia le ruspe contro la “zingaraccia”, il cui candidato alla presidenza della regione vagheggia di difesa della “razza bianca”: ma senza nessun razzismo, appunto, com’è comprovato dal fatto che hanno candidato e portato in parlamento un nero.

Solo che dare di razzista a certa destra in questo Paese ancora si può, anzi è quasi facile, mentre se quel pregiudizio lambisce gli intendimenti e produce gli automatismi di un milieu non etichettabile, e investe la natura intima di un atteggiamento diffuso, allora non si può più. Perché il razzismo in Italia non c’è, salvo quello protocollare a braccio teso o a rosario agitato. Perché dare addosso a reti e a giornali unificati a un parlamentare che non ha ripudiato la moglie griffata, e non vive in una baracca ma si è pure preso l’appartamento, e non rinuncia allo stipendio pur avendo una suocera trafficona, è quel che ordinariamente si fa con qualsiasi politico accusato di incoerenza. E lo confermano anche tanti neri perbene, signori miei.

Iuri Maria Prado

La gogna non è giustizia, per nessun reato. Ridurre le intercettazioni a uno scontro tra manettari e simpatizzanti dei delinquenti è la mortificazione della civiltà sociale e giuridica. Pier Luigi del Viscovo il 20 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ridurre le intercettazioni a uno scontro tra manettari e simpatizzanti dei delinquenti è la mortificazione della civiltà sociale e giuridica. La gogna sulla pubblica piazza non è l'atto finale della giustizia, ma solo l'appagamento della peggiore anima popolare. D'accordo che la folla ha sete di nemici su cui scaricare le paturnie, ma dopo trent'anni la misura può ritenersi anche colma. Tanto più che la vagheggiata superiorità morale politicamente colorata non è stata trovata. Ci sono solo e dovunque onesti e disonesti, i secondi a loro volta ripartiti tra chi ha facoltà di approfittarsi e chi invece non è riuscito a entrare nel giro, o non ancora.

In punto di civiltà giuridica, non essendo in discussione la persecuzione del crimine, il dibattito è sulla scelta del bene da privilegiare. Da un lato, massimizzare la capacità di intercettare e combattere i piani criminosi. Dall'altro, proteggere la riservatezza, su fatti non attinenti all'indagine, di chi non è indagato. Qualsiasi opzione comporta una perdita.

La soluzione che stiamo ascoltando è di quelle dettate dagli appetiti del popolo. Il mafioso o il terrorista sono talmente esecrabili da valere la rovina della vita di un povero cristo e l'umiliazione dei suoi familiari. Viceversa, gli altri reati non meriterebbero tale sacrificio. Quali reati? E se poi ci scappa il morto o la violenza? Dal campo, magistrati e forze dell'ordine fanno notare che alcuni reati pubblicamente ritenuti minori, come la corruzione, possono essere essenziali per contrastare mafie e terrorismo. Insomma, cercare la soluzione al dilemma nella classificazione dei reati non pare la via migliore.

Allora c'è chi sostiene che non vadano limitate le intercettazioni bensì la loro diffusione. Vero, ma come? Questa strada porta dritta alla libertà di stampa: apriti cielo! No, se una cosa esiste può finire sui giornali. Se non oggi, domani. Anche perché il processo è pubblico. Ricapitolando: le intercettazioni sono necessarie, va bene, ma dentro ci sono frasi e persone estranee all'indagine e se finiscono negli atti processuali poi diventano pubbliche, non va bene. È da questo percorso che deve uscire la soluzione. Filtrare frasi e dichiarazioni per eliminare e cancellare quelle non pertinenti? Facile a dirsi. La tecnologia e l'intelligenza artificiale possono aiutare? Forse sì. Ecco, di questo si dovrebbe ragionare con un pubblico civile. La sfida tra giustizialisti e presunti favoreggiatori no, è solo umiliante. Per chi la agita e per chi la segue.

Da Garlasco, alla Brembate di Yara, fino ad Avetrana: in paese c'è un reality del dolore. Stefania Parmeggiani su La Repubblica il 4 gennaio 2023.

Il 13 agosto del 2007 una chiamata al 118 dà il via al giallo sulla morte di Chiara Poggi. Nella foto, le troupe televisive di fronte alla villetta dell’omicidio

Garlasco è tornata in prima serata. Così altre cittadine teatro di crimini. Ma l’invasione mediatica innesca scenari imprevisti, anche economici. Come spiega lo scrittore Piergiorgio Pulixi 

Un anno nerissimo. O meglio, ad alto consumo di cronaca nera. Nel 2022 molti vecchi delitti sono tornati sotto i riflettori: una docuserie su Yara Gambirasio (e, ora, la nuova nuova indagine per depistaggio sul Dna di Massimo Bossetti in cui è coinvolta la pm del caso Letizia Ruggeri), un’altra serie in preparazione da Avetrana sull’omicidio di Sarah Scazzi, un’ondata di servizi su Erba, quando gli avvocati di Rosa e Olindo hanno annunciato di volere presentare istanza di revisione del processo ("Io e Rosa siamo stati incastrati. Si doveva approfondire la pista dello spaccio" ha dichiarato Olindo Romano dal carcere) e anche su Garlasco dopo che Alberto Stasi, ad agosto, a quindici anni dall’omicidio dell’ex fidanzata Chiara Poggi, ha ribadito a favore di telecamere la sua innocenza. Di questi delitti sappiamo tutto, o almeno così crediamo perché da tempo ascoltiamo le dichiarazioni di avvocati, criminologi e testimoni più o meno attendibili. Ma alla fine, di cosa ci parlano veramente? Delle vittime e dei loro assassini o della nostra attrazione morbosa per la cronaca nera? E soprattutto, quando i delitti vengono trasformati in reality show del dolore, che ripercussioni ci sono sulle cittadine divenute teatro del crimine?

A riflettere su queste domande è Piergiorgio Pulixi, autore di noir che ha ambientato La settima luna, il suo ultimo romanzo con protagonista l’investigatore Vito Strega, tra la Sardegna e le terre paludose del Ticino. Pura fiction? Non proprio perché se tutto è inventato, dalla trama alle vittime, di vero ci sono Garlasco e i suoi fantasmi.

Pulixi, perché coinvolgere in un thriller la città dove un omicidio è stato realmente commesso?

Al di là del genere, della trama e dei personaggi, cerco sempre di inoculare nei miei romanzi un virus di realtà, un’analisi e una critica sociale. In questo caso volevo raccontare il fenomeno dell’industria necrofila dello spettacolo”.

Ovvero?

Quando avvengono dei delitti in Italia, soprattutto nelle piccole province - penso a Cogne, Erba, Garlasco, Perugia e così via… - i media, soprattutto televisivi, danno vita a un assedio quasi militare. Le troupe stazionano fuori dalle caserme, dai tribunali, dalle case delle vittime e inizia lo choc che se va bene si protrae per mesi e se va male addirittura per anni. Ma cosa accade dopo? Cosa accade a una città che è stata invasa mediaticamente quando le telecamere si spengono? Come convivono gli abitanti con l’aura del delitto, con i fantasmi, i pregiudizi, l’anima improvvisamente oscura di una cittadina che fino a quel momento era stata sonnolenta, quasi noiosa? E poi volevo raccontare anche un altro aspetto, brutto ma reale”.

Dica.

I casi mediatici innescano un’economia parallela, soprattutto nel settore dell’ospitalità. Ci sono bar, ristoranti, alberghi che hanno impulso da una improvvisa notorietà del luogo, ma quando questi omicidi perdono di attrazione l’economia collassa. E a quel punto le organizzazioni criminali - in particolare in Lombardia, nella zona della Lomellina, l’ndrangheta - vanno a caccia di questi esercizi commerciali in difficoltà, li rilevano, iniettano tanta liquidità e li utilizzano come delle lavatrici di denaro sporco”.

È successo a Garlasco?

E' testimoniato da verità processuali incontrovertibili”.

Non è un rischio concreto ogni volta che una realtà diventa marginale rispetto al mercato?

Certo, ma a me interessava il doppio meccanismo: dal crimine al crimine, un percorso circolare, quasi junghiano”.

Quello che accaduto a Garlasco sarà successo anche in altri luoghi. Perché allora ha scelto per il suo romanzo proprio Garlasco?

Perché ha fatto scuola: l’industria dello spettacolo, il fast food della violenza servita in prima serata ha raggiunto lo stato dell’arte perfetto. Si è creata una drammaturgia con i plastici del luogo del delitto, con i vari esperti che facevano il processo in tv prima ancora che le indagini fossero chiuse”.

Con quali conseguenze?

Meccanismi del genere sono pericolosi dal punto di vista della democrazia. Se una trasmissione televisiva insiste continuamente su un delitto e ne propina una tesi, lo spettatore ne sarà condizionato. E se poi lo chiamano come giudice popolare in Corte d’Assise? Riuscirà a spogliarsi dei pregiudizi? Poi c’è un’altra questione che su Garlasco ha avuto un peso determinante: quando tu ti getti con tanta prepotenza su un caso, costringi gli inquirenti a ballare al ritmo della televisione e spesso la fretta induce all’errore”.

La puntata delle Iene di agosto su Garlasco con il ritorno in tv di Stasi 

Quando ha avuto per la prima volta sentore che stesse accadendo qualcosa del genere?

Con il delitto di Cogne. C’era una casa, una vittima e una presunta assassina. Io ero un ragazzo, osservavo quel macabro spettacolo televisivo, attratto come tutti dal delitto della camera chiusa, ma iniziai a pormi delle domande: dov’era il rispetto per le vittime? Non c’era più garbo, tutto veniva utilizzato per fare più audience e lo si avvertiva nitidamente”.

Si era perso quello che nel giornalismo è una condizione indispensabile, la continenza.

Una delle cose più trash è che a mettere in scena questi spettacoli spesso non sono giornalisti, ma conduttori televisivi, persone che si mettono a revisionare casi senza competenza e senza deontologia”.

Ha scelto Garlasco perché era un caso da manuale, ma una volta sul posto cosa ha trovato?

La normalità. Come se le persone volessero dimenticare. Poi, improvvisamente, un mese prima che il libro uscisse, si è tornati a parlare di Garlasco per uno speciale delle Jene, l’intervista a Stasi. E allora di nuovo, il pesce più grande ha mangiato il pesce più piccolo. In questo caso il pesce più grande è il delitto che si è mangiato letteralmente una città”.

Non tutti cercano la normalità, c’è anche chi fa a gara per rilasciare interviste.

E' un gioco di ruolo, ognuno cerca una parte da recitare. Non tutti però sono attori e non tutti vogliono fare parte di questa tragedia o commedia del dolore. Un evento così dirompente attira personaggi di qualsiasi genere anche all’interno delle forze dell’ordine. C’è chi vorrebbe lavorare a bocce ferme, senza pressioni, e chi invece ama le telecamere, l’attenzione”.

Come fa uno scrittore a non ricadere nello stesso meccanismo nel momento in cui sceglie di mettere al centro della scena Garlasco?

Raccontando le dinamiche. Ho scelto due personaggi, un magistrato e una giornalista televisiva, che rappresentano il mondo della legge e quello dei media. Come lavorano sul nuovo delitto? I media cominciano a chiamare questa ragazza l’angelo di Garlasco e quindi a soffiare su tizzoni che sembravano spenti e in realtà erano accesi. Il pubblico magistero sfrutta il caso per avere più popolarità”.

Dunque, mettendo in scena i vizi umani?

Esattamente. Sono convinto che il delitto sia il sassolino che si lancia su una superficie di acqua, i cerchi concentrici che si dipanano sono comunque delittuosi, anche se sono perpetrati da altri, nel mio romanzo dai media e da questo pm che fa indagini un po’ spericolate. Poi ci sono i protagonisti come Vito Strega e gli altri della squadra che provano empatia nei confronti della vittima e sono mossi dal desiderio di giustizia. Ho quindi cercato di rappresentare tutta la commedia umana nel bene e nel male”.

Quali sono gli elementi che trasformano un delitto in un eterno giallo, oggetto di crime serie in televisione ma anche su YouTube?

Intanto il profilo della vittima: più è la ragazza della porta accanto e ha una immagine illibata, più assomiglia a Laura Palmer di Twin Peaks meglio è, così scatta subito l’empatia. Poi il rapporto sentimentale o di sangue tra vittima e potenziale assassino perché, se questo c’è, parla direttamente alle viscere del pubblico. C’è anche un aspetto morboso per cui più un delitto è cruento meglio è per la drammaturgia. E infine il mistero: se è molto complesso non ci faccio solo una puntata, ma una serie di podcast”.

Quanto conta che il delitto avvenga in provincia?

Molto. Nella grande metropoli il delitto viene presto oscurato da altri problemi e poi le piccole cittadine hanno qualcosa di idilliaco, come i villaggi di Agatha Cristie. Quando l’ordine viene sovvertito, si scatenano suspence e paura. Se non ti puoi fidare neppure del tuo vicino di casa, di chi ti puoi fidare?”.

Nel romanzo c’è un altro virus di realtà: l’inquinamento ambientale.

Per uno scrittore è quasi un obbligo morale parlare di inquinamento e cambiamenti climatici. Stiamo andando tutti incontro a una grande tragedia, il vero noir è questo mentre i delitti mediatici sono armi di distrazione di massa. Garlasco, Cogne, Perugia, Erba inoculano la paura del mostro, che in realtà è statisticamente irrilevante e distolgono l’attenzione da problemi ben più reali come la corruzione, le infiltrazioni criminali, i reati ambientali e il cambiamento climatico”.

Sul Venerdì del 30 dicembre 2022

I processi tv come reality show: quando la giustizia è tradita. su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2022.

Il caso di Denise Pipitone, scomparsa quando aveva solo tre anni e mai più ritrovata, ha infiammato tantissimi programmi, generando preoccupanti fenomeni da un punto di vista comunicativo

«A chi dobbiamo dare ragione, al Tribunale o alla Televisione?»: è una domanda che ci siamo posti più volte assistendo agli interminabili processi paralleli che i programmi televisivi si arrogano il diritto di istruire, con il rischio di influenzare indagini e creando un pericoloso corto circuito mediatico-giudiziario. È dell’altro ieri la notizia che Maria Angioni, l’ex pm che indagò sulla scomparsa di Denise Pipitone, la piccola sparita a Mazara del Vallo nel 2004, è stata condannata a un anno di reclusione, pena sospesa, dal giudice monocratico di Marsala. Era imputata di false informazioni al pubblico ministero. Non è nostro compito entrare nei dettagli di un processo; è interessante, però, notare che ad Angioni si contestava l’apparizione in numerose trasmissioni televisive: «Era proprio il magistrato – si legge nella requisitoria del pubblico ministero Roberto Piscitello – a far assumere alla vicenda i connotati di un giallo, la cui mancata positiva soluzione riferiva essere dipesa da errori, da depistaggi, da interessi particolari di questa o quella consorteria criminale e soprattutto dalla infedeltà dell’organo di polizia che aveva condotto quelle indagini (senza dire sotto la sua direzione): il commissariato di Mazara del Vallo».

Il caso di Denise Pipitone, scomparsa quando aveva solo tre anni e mai più ritrovata, ha infiammato tantissimi programmi, generando preoccupanti fenomeni da un punto di vista comunicativo, quali la serializzazione della tragedia, la riduzione del caso a reality show. Se poi a sfruttare l’esposizione televisiva c’è anche un magistrato, che era stato titolare del fascicolo, con accuse e informazioni ritenute devianti, il rapporto fra media e giustizia rischia di deflagrare. La sede dei processi è il Tribunale non la Televisione. Ora temo un programma con Maria Angioni protagonista.

"La sinistra giudiziaria usa i brogliacci per far fuori i nemici". Felice Manti il 21 Dicembre 2022 su Il Giornale.

L'ex pm Palamara evocato dal Guardasigilli: "La civiltà giuridica è calpestata, da lui parole di speranza"

«Avete visto a Bruxelles? Il caso insegna, non esce nessuna notizia estranea all'inchiesta. Non come da noi...». Luca Palamara è in macchina, la telefonata con Il Giornale dura poco, giusto il tempo di riaprire i cassetti della memoria e l'ex pm tirato in ballo dal Guardasigilli Carlo Nordio snocciola il suo punto di vista sulla vicenda delle intercettazioni che lo riguardano: «La pubblicazione indebita di una serie di intercettazioni coperte dal segreto che non riguardavano l'indagine penale è servita soltanto a cecchinare chi la pensava diversamente, facendo saltare una nomina e dando alla sinistra giudiziaria un ruolo nel Csm».

Nomi Palamara non ne fa, e non ce n'è bisogno. La vicenda è quella dell'ex procuratore della Corte di Cassazione, Riccardo Fuzio. La pubblicazione di alcune conversazioni tra lui e Palamara valsero per entrambi l'accusa di rivelazione di segreto d'ufficio - ipotesi di reato contestata dalla Procura di Perugia, competente sulla Capitale - dalla quale Fuzio e Palamara sono stati entrambi prosciolti lo scorso 6 dicembre perché quello che si erano detti il 3 aprile 2019 Csm non era coperto da segreto d'ufficio, in quanto ancora non secretato dal Csm.

Intanto Fuzio si è dimesso, al suo posto è arrivato Giovanni Salvi che l'altro giorno ha criticato il ministero della Giustizia e il governo per la vicenda delle intercettazioni degli 007 in mano a Palazzo Chigi. Coincidenze? «Con i miei legali e grazie al prezioso supporto dei consulenti tecnici informatici - dice Palamara al Giornale e poi alle agenzie di stampa - da tempo stiamo raccogliendo tutta la documentazione per dimostrare tutto ciò che è realmente accaduto dal 7 al 22 maggio 2019 in concomitanza con la nomina del procuratore di Roma. Quella indebita rivelazione ebbe la conseguenza di rinforzare la componente della sinistra giudiziaria a scapito delle altre. Il tempo è galantuomo la battaglia per la verità continua».

Che la vicenda Palamara sia servita a dimostrare il marcio nel sistema delle correnti è evidente, come dimostra anche il successo dei libri Il Sistema e Lobby&Logge scritti con Alessandro Sallusti, che oggi una parte della magistratura si ribelli a qualsiasi riforma delle intercettazioni dimostra come le dinamiche non siano cambiate poi molto. «La mia vicenda fu la dimostrazione plastica di come le intercettazioni furono usate come regolamento di conti interno alle correnti, qualcuno si dimise e il posto tornò alla sinistra giudiziaria come due anni prima. Oggi il clamore sulle intercettazioni e gli strepiti di una parte della stampa e della magistratura sul fatto che non si possano utilizzare per mafia e corruzione è strumentale - dice ancora Palamara - perché nessuno ha mai detto di voler indebolire l'attività di indagine ma semplicemente di mettere un argine all'utilizzo indebito. Mi riferisco tanto per fare un esempio a quello che sulla base delle esperienze da me vissute accade quando in virtù di rapporti privilegiati i soliti giornalisti ricevono dai soliti pubblici ufficiali materiale riservato non per informare ma per sfregiare questo o quel nemico politico così strumentalizzando il processo e trasformandolo in una clava. Non è un problema personale ma di civiltà giuridica - conclude - per questo le parole di Nordio sono un messaggio di speranza per tutti quelli che vogliono battersi per una giustizia giusta».

"Porcherie anche nel caso Palamara". Nordio tranchant sulle intercettazioni. L’analisi tagliente del ministro della Giustizia in commissione al Senato: “Le intercettazioni del trojan sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva”. Massimo Balsamo il 20 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Le riforme annunciate sono state bocciate dall’Anm, ma Carlo Nordio tira dritto. Il ministro della Giustizia ha le idee chiare sul percorso liberale da seguire e, intervenuto in commissione al Senato, non ha lesinato stoccate. Riflettori accesi sulla disciplina delle intercettazioni, sin qui utilizzate come metodo di delegittimazione personale e politica. Il Guardasigilli non ha utilizzato troppi giri di parole: le intercettazioni devono essere solo uno strumento per la ricerca della prova, non la prova in sé.

L’analisi di Nordio

"Questa porcheria è continuata anche dopo la legge Orlando basta vedere il sistema Palamara, cosa è uscito che non aveva niente a che fare con l'indagine e cosa non è uscito", l’opinione del titolare della Giustizia nel suo intervento a Palazzo Madama. Nordio ha poi posto un quesito provocatorio: “Credete che tutte le intercettazioni del trojan di Palamara siano state trascritte nella forma della perizia?”. Lui non ha titubanze: “Sono state selezionate, pilotate e diffuse secondo gli interessi di chi le diffondeva, e non sono ancora tutte state rese pubbliche”.

Nordio si è poi soffermato sull’emendamento del governo inserito nella manovra che riguarda le intercettazioni preventive legate alle attività di intelligence: “È un equivoco che l'emendamento nella legge di bilancio sulle intercettazioni preventive sia rivoluzionario, è esattamente la stessa cosa, ha solo aumentato le garanzie, e trasferito un piccolo capitolo di spesa". Il ministero ne era a conoscenza, ha ribadito, e ha dato parere favorevole.

Abuso d’ufficio e codice degli appalti

Uno dei dossier più roventi riguarda l’abuso d’ufficio, Nordio ha ribadito ancora una volta la posizione del governo sul tema. Il ministro ha sottolineato di aver ascoltato attentamente le richieste dell’Anci:“È intenzione mia e del governo rivedere completamente i reati contro la pubblica amministrazione che ispirano la cosiddetta paura della firma. Le opzioni riguardano essenzialmente l'abuso d'ufficio e il traffico di influenze, si può andare dall'abrogazione di uno o di entrambi i reati fino a una rimodulazione integrale degli stessi. Questo sarà oggetto di confronto e di dibattito in Parlamento”. La strada è tracciata.

L’ex magistrato ha ribadito la sua posizione sulla separazione delle carriere – “non faccio un passo indietro” – ma ha anche spiegato che si tratta di un problema divisivo che richiede una revisione costituzionale, un cammino piuttosto lungo. “Oggi non è la priorità”, ha chiosato. Poi, ancora, il codice degli appalti, a stretto giro di posta oggetto di discussione:“Una semplificazione normativa, se fatta bene, non significa né un regalo alle mafie né alcuna forma di impunità per la corruzione. Significa semplificare le procedure e individuare le competenze”, il monito di Nordio.

"Io magistrato rovinato dai colleghi". Luca Fazzo su Il Giornale il 22 Dicembre 2022.

Intercettazioni a strascico e assoluzione impugnata. "Ora so di cosa sono capaci"

«Faccio il magistrato da più di trent'anni - dice Andrea Padalino - e non avevo capito di cosa fossero capaci alcuni miei colleghi. Facevo il mio dovere, rispettavo e applicavo la legge, davo per ovvio che tutti lo facessero. Le lamentele, le denunce di abusi, le ho sempre guardate con un po' di sufficienza. Invece adesso è toccata a me. E ho scoperto di cosa sono capaci quando hanno deciso di distruggerti». Pochi giorni fa il processo a Padalino è finito. In niente. Era stato assolto con formula piena in primo grado, la Procura di Milano ha fatto appello, in aula la Procura generale ha annunciato: il ricorso è ritirato. Nessuna delle accuse ha mezza prova a sostegno. L'assoluzione diventa definitiva. Padalino ora chiederà di tornare a Torino, dove per le sue indagini sulle violenze anti-Tav era finito sotto scorta. E dove i suoi stessi colleghi lo hanno preso di mira, indagando su di lui per storie inesistenti di abusi e favori. Gli abusi, quelli veri, erano dall'altra parte.

Quelli dei pm che indagavano su Padalino senza averne il diritto e la competenza. E quelli di chi per distruggerlo ha usato l'arma di cui in queste settimane si parla di più sul fronte della giustizia: le intercettazioni. Andavano a strascico, i pm di Torino. Quando il nome di Padalino compariva in una intercettazione, immediatamente la carta finiva ai giornali. La peggiore? «Quando hanno scoperto che avevo chiesto a un carabiniere che passava davanti alla scuola dove avevo iscritto mia figlia alla prima elementare se poteva chiedere in che sezione l'avevano messa. Nessuna pretesa, nessuna pressione.

Qualcuno l'ha fatta arrivare ai giornali. Mia figlia a sei anni ha iniziato la scuola col marchio addosso della raccomandata, della figlia del giudice maneggione. Non si sono fermati neanche davanti a una bambina». Lo stillicidio delle intercettazioni va avanti per anni. «Le intercettazioni - dice Padalino - servono, sono uno strumento fondamentale per le indagini. Ma io ho toccato con mano qualcosa di ben diverso: le intercettazioni fatte per massacrarti non solo con l'inchiesta ma anche a mezzo stampa. E quanto più l'indagine non arriva a nulla, quanto più non riescono a trovare niente di rilevante contro di te, tanto più scelgono di distruggerti mediaticamente grazie al filo diretto tra magistrati e giornali. Vieni additato al pubblico ludibrio sapendo che contro il giudizio della gente non esiste appello possibile». Il sistema è sempre quello: brogliacci senza tracce di reato che vengono inseriti comunque negli atti, e transitano da un atto all'altro fino a diventare di pubblico dominio. «Non sono - dice ancora Padalino - incidenti di percorso, sono operazioni pianificate per distruggere la reputazione delle persone utilizzando fatti privati, ricostruiti con spezzoni di frasi trascritte in qualche modo e interpretate a comodo». Appena il suo nome era comparso nelle intercettazioni, prima ancora di iniziare a indagare su di lui la procura di Torino avrebbe dovuto fermarsi, inviando tutti gli atti a Milano. Ha continuato a farlo col sistema consueto: indagava sui presunti complici, e intanto raccoglieva carte sul collega nel mirino. Sulla porta del suo ufficio nel tribunale di Vercelli, il giorno della assoluzione definitiva Padalino ha affisso un messaggio: «Grazie a chi mi ha aiutato a resistere in questa tempesta». Tra i messaggi di affetto che gli sono arrivati subito dopo, quello di una sua vecchia compagna di scuola, figlia di uno dei più importanti magistrati italiani del Dopoguerra.

Fine dell’incubo per Davide Nalin: «La gogna è pena senza appello». Chiusa dopo 5 anni la vicenda giudiziaria del magistrato coinvolto nel caso Bellomo: «Sono finito nel tritacarne mediatico, ma continuo ad avere fiducia nella giustizia». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 21 dicembre, 2022

Cinque anni fa, nel dicembre 2017, gli organi di stampa dedicarono ampio risalto al caso del giurista Francesco Bellomo. L’ex consigliere di Stato venne accusato di stalking e violenza privata ai danni di tre borsiste che frequentavano i corsi della scuola per magistrati “Diritto e scienza”. Bellomo fu sottoposto agli arresti domiciliari (si veda anche Il Dubbio del 30 settembre scorso).

Tutto ebbe origine da un’inchiesta della procura di Bari: dal capoluogo pugliese si volle far luce su alcuni aspetti dei corsi diretti da Bellomo, il quale era solito chiedere alle aspiranti magistrate, presenti alle sue lezioni, di rispettare un codice di comportamento ed un dress code.

Nel tritacarne mediatico finì pure il magistrato Davide Nalin, da qualche mese di nuovo in servizio presso la Procura di Venezia. Nalin è stato allievo di Bellomo. Le indagini e le accuse che l’hanno riguardato hanno provocato clamore mediato, indignazione, attenzione morbosa da parte di alcuni media. Sono state poi smontate pezzo per pezzo in tutte le sedi giudiziarie.

La vicenda giudiziaria di Davide Nalin è stata scandita da varie tappe. La prima di queste si è aperta davanti al Csm, dove su richiesta della procura generale della Corte di Cassazione il magistrato venne sospeso dallo stipendio e dalle funzioni. Contemporaneamente, il magistrato padovano venne accusato dalla procura della Repubblica di Piacenza per aver concorso con Bellomo nel reato di atti persecutori e lesioni psichiche dolose in danno di una ex borsista - un unicum, fanno sapere i suoi difensori, nella storia della giurisprudenza italiana - e dalla procura di Bari (il processo poco dopo è stato trasferito per incompetenza territoriale a Bergamo) per aver concorso nel reato di maltrattamenti in danno di altre quattro ex borsiste.

In tutte le vicende giudiziarie, comprese quelle più intricate e dolorose, viene scritta sempre la parola fine. Non fa eccezione quella che ha riguardato Nalin, sempre assolto con formula piena dalle accuse con sentenze passate in giudicato.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con sentenza n. 36994 del 2022, hanno confermato la sentenza di proscioglimento della sezione disciplinare del Csm del febbraio 2022. I giudici di piazza Cavour hanno chiarito che a carico di Nalin non vi è nessun addebito. Ma, soprattutto, il famoso contratto che veniva presentato all’inizio dei corsi della scuola Bellomo non conteneva alcuna pattuizione illecita, era stato liberamente sottoscritto dalle borsiste, e il “timore reverenziale” che alcune di loro adducevano non poteva essere ricondotto ad un abuso della qualità di magistrato.

Le Sezioni Unite si sono spinte oltre, pronunciandosi sull’altro addebito mosso: quello riguardante la partecipazione alla gestione di una scuola privata, attività non consentita ai magistrati ordinari, diversamente da quanto è previsto per i magistrati amministrativi. La Cassazione ha annullato la sanzione comminata originariamente dal Consiglio superiore della magistratura (sei mesi di sospensione dalle funzioni). Palazzo dei Marescialli dovrà pronunciarsi in diversa composizione.

Nalin adesso cerca di voltare pagina. «A distanza di cinque anni dall’inizio di questa vicenda – dice al Dubbio - che mi ha travolto, devastando la mia vita personale e professionale e quella della mia famiglia, la pronuncia delle Sezioni Unite torna a farmi vedere la luce. La sofferenza, i costi, in termini anche umani, sono incalcolabili, ma non ho mai smesso di credere in quelle “verità e giustizia” su cui ho giurato solennemente il giorno in cui entrai in magistratura».

Il magistrato fa i conti con un grande rammarico ed una assenza importante. «La sentenza, emessa il 25 ottobre scorso - commenta amareggiato -, è stata pubblicata, seppur nei termini di legge, solo la scorsa settimana, due giorni dopo la scomparsa di mio padre. Saperne l’esito, avrebbe sollevato la sua pena di questi ultimi anni, in cui ha sempre combattuto accanto a me, accompagnandomi a tutti i concorsi che abbiamo vinto assieme e a tutti i processi. Dedico a lui questo e tutte le conquiste che verranno».

Davide Nalin non perde la fiducia nella giustizia. «Il mio approccio – aggiunge - non è tecnicamente cambiato, perché l’applicazione del diritto deve prescindere dalle vicissitudini personali del magistrato. Posso, però, dire che dietro un fascicolo ho sempre visto un essere umano e che, oggi, ancor più, so quanto sia fondamentale non lasciarsi influenzare dal pregiudizio e dal clamore dei processi mediatici, che possono compromettere la neutralità del giudizio e hanno effetti devastanti sulla vita di una persona, sulla sua dignità, fino a decretarne la morte civile e sociale. La gogna mediatica è una pena che non conosce appello».

Ecco come non sbattere il mostro in prima pagina. Negli ultimi mesi è tornato di grande attualità il tema della giustizia spettacolo e, più in generale, del rapporto fra processo penale e informazione. Michele Partipilo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Dicembre 2022

Negli ultimi mesi è tornato di grande attualità il tema della giustizia spettacolo e, più in generale, del rapporto fra processo penale e informazione. Un peso l’ha avuto la cosiddetta «riforma Cartabia», soprattutto attraverso la nuova normativa sulla presunzione di innocenza. Ma un peso l’hanno avuto anche le «normali» vicende giudiziarie, trasformate però dai media in casi eccezionali e, troppo spesso, spettacolari. Sicché si spiega l’ondata di pubblicazioni su un campo già arato in passato a partire dal fondamentale (e citatissimo) Processo penale e informazione del prof. Glauco Giostra.

Nel Pantheon dei testi mandati in libreria un posto di primissimo piano è occupato dal volume collettaneo Informazione e giustizia penale – Dalla cronaca giudiziaria al «processo mediatico» per i tipi dell’editore barese Cacucci, sempre attento al mutare dei venti e dei tempi. Il ponderoso testo (678 pagine, 65 euro) è curato dal prof. Nicola Triggiani dell’Università di Bari che si è avvalso di esperti di prim’ordine nelle singole questioni affrontate nell’ambito del vasto e quanto mai controverso tema generale. Citiamo a mo’ di esempio – ben sapendo di fare torto agli altri – la prof. Marina Castellaneta; la prof. Giulia Mantovani; il prof. Francesco Perchinunno; il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Trani; Renato Nitti; la professoressa Maria Vittoria dell’Anna e, perché no? Anche un giornalista: il collega Luigi Ferrarella del «Corriere della Sera».

Il volume risulta quanto mai interessante e non solo per lo studioso del diritto. Con linguaggio per una volta carico dei soli tecnicismi indispensabili affronta i mille aspetti presenti nel singolare rapporto fra l’amministrazione della giustizia e l’informazione giornalistica. Un rapporto quasi sempre conflittuale, ma che talvolta diventa «collaborativo» ed è forse in questi momenti che la società si avvantaggia al meglio del lavoro degli operatori del diritto quanto dei giornalisti.

Non è immaginabile che nelle attuali democrazie l’amministrazione della giustizia possa sfuggire al «controllo pubblico» esercitato dai giornalisti, in quanto «cani da guardia del sistema», in nome e per conto dei cittadini. Su questo sacrosanto principio nessuno degli autori nutre dubbi. Ciò che inquieta, che agita, che preoccupa e che alla fine richiede interventi è il modo sovrabbondante in cui l’informazione – anche a fini di intrattenimento e di spettacolo – si è impossessata delle vicende giudiziarie. Nel sistema mediatico l’attenzione è ormai concentrata per intero e molto spesso in maniera spasmodica sulla fase delle indagini, quella parte che una volta prendeva il nome di «cronaca nera» e che era ben distinta dalla confinante «cronaca giudiziaria», tanto da essere curata da giornalisti diversi con diverse sensibilità e competenze.

Questo delle competenze dei giornalisti è uno dei nervi scoperti della questione che i vari autori – ciascuno per la sua parte – non esitano a mettere in evidenza. E poiché il rilievo è comune a tutti i giuristi che affrontano il tema, sarebbe opportuno che l’Ordine intervenisse per migliorare la cultura professionale in materia di diritto e processo penali. Così come sarebbe utile una più puntuale applicazione delle norme deontologiche che i giornalisti dovrebbero rispettare. Ne fa una disamina lo stesso prof. Triggiani nel suo saggio introduttivo. Ma spesso le notizie sul processo e del processo non sono veicolate da giornalisti, sempre più spesso sono utilizzate nei pomeriggi televisivi per produrre a costi modesti ore e ore di programmazione. E su questo la deontologia dei giornalisti non può intervenire.

L’aspetto che più preoccupa, tuttavia, è dato dal cosiddetto processo mediatico, richiamato anche nel titolo del volume. Quasi sempre in tv si allestiscono «tribunali» di «esperti» e giornalisti che analizzano, senza alcuna garanzia né dal punto delle procedure né dal punto di vista della fondatezza degli elementi proposti, l’avvio di un’indagine giudiziaria. I toni, nonostante le incertezze su cui si fonda la discussione, sono sempre perentori e trasmettono all’utente un giudizio che risulterà inappellabile e sul quale nulla potrà alcuna sentenza della magistratura, a prescindere che sia di condanna, di assoluzione o di proscioglimento. Anzi, se e quando qualcuno porrà attenzione alle risultanze del vero processo, se queste non saranno in linea con il verdetto televisivo nasceranno dubbi sull’operato della magistratura e, in qualche caso, s’innescherà un nuovo processo mediatico.

In tutto questo non si può dimenticare che ne va di mezzo la vita delle persone che, appena raggiunte da un avviso di garanzia – trasformato dai media in un avviso di condanna – finiscono in un tritacarne che non risparmierà nulla della loro vita e dei loro affetti. Senza contare le possibili influenze su chi nel processo vero è chiamato a giudicare, siano essi giudici popolari o professionali. In realtà ne vanno di mezzo tutte le garanzie apprestate dall’ordinamento affinché la giustizia sia amministrata nel modo più giusto: secoli di grandi e piccoli progressi del diritto calpestati e ignorati in nome degli ascolti e dei risparmi sulla programmazione. Non a caso in uno dei saggi si sottolinea come, concentrando tutta l’attenzione mediatica sulla fase iniziale delle indagini e trasformandola in un’anticipazione del giudizio e della pena si sia tornati al Medio Evo, quando c’era l’esposizione del presunto colpevole al pubblico ludibrio. Ma da allora la civiltà giuridica ha fatto passi enormi trasformando la società da luogo di soprusi a luogo di diritti. Si tratta ora di compiere ulteriori passi per creare una civiltà nei media.

Plotoni d’esecuzione mediatica, un libro per dire basta. Redazione su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

Al Riformista lo diciamo da sempre: il giornalismo dei plotoni di esecuzione mediatico-giudiziaria sono il male assoluto. Bisogna usare cautela, verifica, dubbio e non pretendere di scrivere ogni giorno un romanzo criminale. “La Condanna mediatica”, un pamphlet uscito in questi giorni per Licosia editore, prova a mettere ordine. L’intreccio tra bene e male, potere e corruzione, ambizione e denaro sono la miscela ideale per una narrazione di successo. E perché una storia con questi ingredienti stia in piedi, è necessario che poggi su un colpevole. Il Mostro piace, tira sempre.

Il colpevole, il reo, l’imputato (e spesso anche il semplice indagato) è la figura di riferimento dello storytelling. E quando non c’è un colpevole vero, bisogna trovarne uno verosimile. Far ballare un’ombra: un sospettato sul quale gettare fango, magari sperando che qualcosa di illecito l’abbia commesso davvero. Il paese che ha condannato Enzo Tortora non ha ancora imparato niente da quella lezione. Il popolare conduttore televisivo venne messo nel tritacarne dell’informazione senza che nessuno, tra i professionisti dei giornali, realizzasse di essere caduto in una trappola.

La condanna mediatica arriva prima e va sempre oltre quella giudiziaria. Il “tribunale della stampa”, per non parlare di quello della rete, giudica con sentenza inappellabile e definitiva il Colpevole (che poi spesso si rivela innocente). Il sospettato diventa indiziato, e molto prima che vi sia una sentenza definitiva ecco che la campagna di demolizione della reputazione parte con le armi affilatissime dello shitstorming. Il malcapitato non riuscirà – se non dopo mille peripezie – a scrollarsi il fango di dosso. Mentre si cerca di declinare in legge il principio della presunzione di innocenza, tra le proteste del sindacato dei giornalisti, la crisi di vendite dell’editoria tramuta lo strumento di analisi dell’informazione in una lente che deforma la realtà: ogni giorno esige un suo mostro in prima pagina, un caso criminale che faccia moltiplicare i clic. L’innocenza non rileva. Interessa poco. Come le buone notizie, che non a caso nei film arrivano per ultime.

In questo volume, curato dal nostro collega del Riformista, Aldo Torchiaro, insieme al giornalista si occupano della questione quattro interlocutori che affrontano il prisma della character assassination secondo angolature e competenze diverse. Si confrontano l’avvocato Giorgio Varano, dell’Unione delle Camere Penali; la giornalista Valentina Angela Stella, che scrive per Il Riformista e per Il Dubbio; il civilista Salvatore Ferrara, esperto in questioni legate ai reati dell’informazione; il deputato Enrico Costa, già Viceministro della Giustizia nel governo Renzi, “padre” della legge sulla presunzione di innocenza.

Le loro considerazioni fanno da cornice al focus di un caso che secondo Torchiaro rappresenta oggi uno dei più eloquenti, nella sua semplicità: un cittadino incensurato, Antonio Velardo, che viene riconosciuto innocente dai tribunali e contemporaneamente colpevole dalla rete. Un caso rappresentativo della deriva che ha preso l’informazione: il giovane imprenditore è entrato e uscito in una inchiesta del Procuratore Gratteri, che lo ha scagionato. Ma rimane nel mirino dei sospetti e viene dipinto nelle inchieste giornalistiche con coloriture gratuite, farcite di stereotipi e di pregiudizi. Ed ecco che il libro diventa un manuale di fact-checking: esamina le accuse contro Velardo e punto per punto, le mette a confronto con la realtà.

L’avvocato Giorgio Varano lancia una serie di stimoli per il legislatore: “Un Garante dei diritti delle persone sottoposte ad indagini e processo sarebbe realmente quel soggetto “terzo” capace di tutelare i diritti di chi viene sottoposto ad un processo mediatico e di chi viene potenzialmente esposto allo stesso da atti della magistratura violativi dei principi declinati dalla direttiva europea e dalle norme nazionali, ma anche da tutta quella serie di “atti extraprocessuali” di cui vengono inondati i media e i social network. Al Garante dovrebbe essere dunque riconosciuta anche la legittimazione attiva nel richiedere al giudice la correzione dei provvedimenti, anche d’ufficio e non solo su segnalazione dell’interessato, e la possibilità di adire in via diretta l’Autorità garante per le comunicazioni, le cui competenze andrebbero ampliate”.

Professione indignati. Il Qatargate e l’eterno ritorno dello scoop populista e giudiziario. Cataldo Intrieri su L’Inkiesta il 16 Dicembre 2022.

Ad alcuni bastano le foto delle banconote sequestrate per gridare alla corruzione. Ma a un tribunale serve molto di più: capire chi ha dato i soldi a quale funzionario e soprattutto per fare che cosa. Senza queste risposte può essere una normale attività di lobbying o al massimo un traffico di influenze

Ogni volta che esplode un qualsiasi straccio di scandalo, fioriscono articoli densi di sdegno, reprimende e autodafé. Lo stesso vale anche per l’ultimo arrivato: il Qatargate. Pensate: un paese semidesertico di poco più di due milioni di abitanti che vuole papparsi il Parlamento europeo, 705 membri, senza contare assistenti e personale amministrativo, in rappresentanza di oltre quattrocento milioni di cittadini.

L’indignato speciale che dorme in ogni animo di benpensante “de sinistra” non va mai in vacanza, al massimo si appisola in attesa di potersi risvegliare al primo refolo. E che sollievo, vuoi mettere, liberarsi di certo estenuante garantismo per far sfogare il forcaiolo dentro di noi, per gridare vergogna (sempre agli altri) e per minacciare di costituirsi parte civile in un processo che ancora deve iniziare?

E poi diciamo la verità: cosa vuoi difendere di fronte alle foto di mazzette, debitamente impilate, alle intercettazioni dove il sapiente dispensatore di verbali si è preso la briga pure di tradurre il termine combine in intrallazzo, che suona meglio? Ma anche di fronte alle prime notizie di confessioni come si può reagire? In fondo sono tutte “voci di dentro”, beninteso, ma sono anche le uniche che abbiamo finora, e ci si arrangia con quelle.

Vogliamo mettere l’antropologia criminale che i volti, il tenore di vita, il sito Instagram degli inquisiti  suggeriscono come assolutamente sovrapponibile a quello di un qualsiasi elettore di destra? E invece è gente “de sinistra”. E addirittura, come nel caso di Antonio Panzeri, a sinistra della sinistra.

Il can can è sempre lo stesso, lo abbiamo visto già in altre inchieste, alcune coronate da successo, altre no, ma tutte accomunate dagli stessi iniziali toni trionfalistici. Il che dovrebbe far pensare che il garantismo, ancorché vigorosamente sputtanato (è il caso di dirlo) dal berlusconismo e dalla parentela di una prosperosa ragazza marocchina (guarda un po’ la coincidenza) col rais Mubarak, altro non è che un sano smagato scetticismo verso l’eterno ritorno del sempre uguale scoop giudiziario, uno dei pochi pilastri su cui si regge l’esangue stampa di casa nostra (sui giornali stranieri come il Financial Times e il Guardian di Qatar e Marocco non se ne trova traccia se non nelle pagine dedicate al mondiale).

Non si tratta di negare la realtà quanto di porsi allo stato delle cose qualche domanda e almeno un preoccupante interrogativo.

Innanzitutto, ferme restando le vivide immagini delle mazzette impilate, non è dato sapere a che cosa concretamente servissero i soldi in questione oltre ad arricchire gli indagati che li percepivano come mediatori di ulteriori illeciti favori che sarebbero dovuti essere concessi da parlamentari europei. al comprensibile e nobile moto d’indignazione, le foto dei pacchi di soldi servono a ben poco se non si individua il pubblico ufficiale quale utilizzatore finale e soprattutto la specifica attività legata alla sua funzione e oggetto della corruzione.

In Italia si tratterebbe si è no di “traffico di influenze illecite” (articolo 346 bis del codice penale) punito con pene assai modeste (fino a quattro anni e sei mesi). 

Un reato che non consentirebbe neanche le intercettazioni e che punisce l’intermediazione tra un privato che chiede e un pubblico ufficiale che dispone. Inoltre si tratta di un reato di difficile applicazione perché a mezza strada tra quello più grave di corruzione (i soldi dati al pubblico ufficiale) e una normale e lecita attività di lobbying

Qui subentra il secondo quesito: a chi erano destinati quei soldi e cosa si doveva ottenere dalle istituzioni europee? Ebbene, un altro mistero allo stato delle cose. Il Parlamento europeo è un’assemblea che non ha iniziativa legislativa (che è della assai più potente Commissione), ma è responsabile dell’adozione della legislazione dell’Unione insieme al Consiglio, l’organo che riunisce i ministri dei governi dei 27 Stati membro. Cioè può agire in concerto con il Consiglio e modificare norme europee, ma non può presentarle da sola.

Se, come leggiamo, con quei soldi così ben impilati, si doveva “modificare una percezione” verso un qualche illiberale paese arabo, piaccia o meno siamo nell’ambito di un’attività di lobby, opaca ed eticamente censurabile, ma nulla più di questo. Roba da indignati in servizio attivo, appunto.

Meriterebbe invece una più attenta riflessione la singolare modalità dell’indagine originata, a quanto leggiamo, da un’iniziativa dei servizi segreti belgi, che hanno agito senza dare notizia all’autorità giudiziaria, intercettando e perquisendo le abitazioni degli indagati senza alcuna preventiva autorizzazione prima di investire la magistratura ordinaria.

Il Belgio ha un’efficiente e dedicata agenzia specificamente destinata alla lotta contro la corruzione, l’OCRC (l’Ufficio centrale per la repressione della corruzione, una branca della polizia giudiziaria federale) sicché non è ozioso chiedersi come mai siano intervenuti i servizi e cosa cercassero per potere giustificare delle eccezioni così eclatanti allo Stato di diritto (capirei atti di terrorismo ma avrei difficoltà ad accettarlo, confesso, per una storia di lobbying prezzolato).

Appartengo a una generazione abituata a diffidare dei servizi segreti (per capirne i motivi suggerisco di rivedere su RaiPlay le puntate straordinarie de La Notte della repubblica di un giornalista vero, Sergio Zavoli). Il segreto non va bene con la trasparenza della democrazia. Soprattutto rilevo che un’indagine come questa, condotta da un giudice che è una via di mezzo tra Di Pietro e Carofiglio (e già questo…) ancor prima di individuare possibili colpevoli singoli, ha già buttato discredito sulle istituzioni europee, le stesse che hanno mantenuto salda l’Unione europea negli anni terribili della pandemia e oggi della guerra.

Si cerchino, ci mancherebbe, le responsabilità singole, si eviti cortesemente, per amore di scoop, vieto moralismo e rancore politico di fare l’ennesimo favore ai sovranismi nemici della democrazia. Non ce n’è bisogno, se non per i nemici dell’Europa libera. Si cessi di alimentare, una buona volta, il populismo demolitorio che poi ipocritamente si condanna quando ormai è troppo tardi.

Tangentopoli fu un colpo di Stato.

Gherardo Colombo.

Antonio Di Pietro.

Enzo Carra.

Gabriele Cagliari.

Giorgio Moroni.

Raul Gardini.

Tangentopoli fu un colpo di Stato.

«Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». La cupa profezia di Craxi. Ora che persino Davigo è stato condannato in primo grado, quelle parole tornano alla mente. Paola Sacchi su Il Dubbio il 22 giugno 2023

«Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Ora che Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, è stato condannato in primo grado per rivelazione d’atti di ufficio, e il garantismo deve valere per tutti, quindi anche per lui dalle posizioni estreme sui politici, non può non risuonare in testa quella tagliente profezia di Bettino Craxi, nei giorni di Hammamet. Lo statista socialista, che aveva fatto esposti contro Davigo, per il quale usò parole durissime difendendosi da quelle altrettanto trancianti che l’esponente del pool di Mani pulite aveva usato per lui, quella cupa profezia la ripeteva spesso fin dal 1994, quando iniziò il suo esilio.

Quelle parole le diceva ai pochi ormai che lo andavano a trovare e gli stavano vicini, oltre alla sua famiglia, come l’ex capo dei giovani socialisti, Luca Josi, e pochi altri del suo stesso Psi. Giustificava solo Gianni De Michelis per non averlo lì con lui. Disse alla cronista: «Povero Gianni, lo capisco, lo hanno messo in croce sul piano giudiziario, però lui come può mi chiama sempre da una cabina telefonica».

Erano gli anni in cui lui diceva, preoccupandosi quasi più degli altri: «Attenzione, chi tocca i fili muore». E questo persino per riguardo dei pochi giornalisti, come la sottoscritta, che pur scrivendo allora per un giornale avversario, l’Unità, durante i periodi di ferie lo andava a trovare in forma privata per un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, I conti con Craxi (MaleEdizioni con prefazione di Stefania Craxi). Erano i giorni in cui già stavano emergendo le prime crepe nel pool milanese, Craxi aveva denunciato in uno dei suoi libretti clandestini, diffusi da Critica social”, dal titolo Giallo, grigio, turchino, la violazione allo stato di diritto che era stata fatta per la sua persona, il suo partito e la sua famiglia. E sperava che qualche verità emergesse dal processo di Brescia contro Di Pietro. Craxi non piangeva, lo fece platealmente in un’intervista a Carlotta Tagliarini, per la tv tedesca, solo per il suicidio di Sergio Moroni. Ma, quando lo incontravamo sul terrazzo dello Sheraton hotel si vedeva che i suoi occhi trattenevano dignitosamente e con fierezza le lacrime dell’amarezza per la sua fine. Per il fatto di essere stato trattato «peggio dei peggiori criminali, mentre io ho sempre servito solo il mio Paese e spero di averlo fatto bene». «Ma, non mi hanno neppure lasciato fare il pensionato», è scritto in uno degli appunti notturni di Hammamet, raccolti dallo storico Andrea Spiri, nel libro L’ultimo Craxi- Diari di Hammamet, per Baldini e Castoldi. Sempre Spiri nel libro

Io parlo e continuerò a parlare (Fondazione Craxi per Mondadori) ricorda le denunce ai colpi dati allo stato di diritto: «Giustizieri, protagonisti, forcaioli mostreranno tutta la corda della loro falsità». Craxi fu il primo a denunciare il perverso circuito mediatico- giudiziario. Lo stigmatizzò più esattamente così: «Clan politici, mediatici, giudiziari». Ma guardava lontano, non si fermava al suo personale calvario giudiziario, tragedia politica per un intero Paese, guardava al futuro dell’assetto tra i poteri, denunciava il colpo inferto al primato della politica da quell’uso politico della giustizia sotto il quale cadde un’intera, storica classe dirigente che aveva ricostruito il Paese nel dopoguerra, fatto importanti riforme e raggiunto successi, come i suoi, dalla scala mobile al nuovo Concordato, all’Italia nel G7. Il terremoto di quella che definì «la falsa rivoluzione» salvò solo gli ex Pci poi Pds e Ds e la sinistra della Dc. Dall’archivio della Fondazione Craxi, in suo schema autografo, riportato da Spiri in Nell’ultimo Craxi, emergono in modo spietatamente chirurgico tutti i nodi di quella stagione, alcuni dei quali ancora oggi irrisolti: «L’uso violento del potere giudiziario. Gli arresti illegali ( le modalità ingiustificate agli arresti), per esempio l’uso illegale delle manette. Gli incredibili Tribunali della Libertà. Il ruolo del Gip. Le detenzioni illegali. I trucchi adottati per allungare le detenzioni. Le discriminazioni negli arresti. La orologeria politica rispetto alle scadenze politiche. Il rapporto con il potere legislativo, con l’istituzione parlamentare. Esibizionismo logorroico. Politicismo nelle valutazioni e nella condotta».

Infine, uno dei punti più dolenti, ancora oggi alla ribalta: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Conclusione: «Violazioni sui diritti dell’uomo». Forse, Craxi aveva ben intuito con la sua profezia che un sistema politico, schiacciato e che aveva in parte avallato «la falsa rivoluzione», gioco forza, per contraccolpo, avrebbe prima o poi generato spinte e controspinte tra aree in lotta in quella stessa parte di magistratura allora dominante. «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Craxi azzeccò anche la profezia su di sé: «Io parlo e continuerò a parlare» .

Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 giugno 2023. 

All'inizio del millennio, al Foglio, dove allora lavoravo, avevamo oltrepassato il centinaio di querele ricevuto dal Pool di Mani pulite. Poi assolti in blocco ma mica male come intimidazione […]. 

In una di esse […] Piercamillo Davigo aveva individuato una prova di dileggio in un banale refuso – mi uscì un "Pircamillo" – e lì si si consolidò il sospetto che il Dottor Sottile si stesse lasciando un po' prendere la mano, quanto a sottigliezze.

Ma ieri, dopo la condanna in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, sono stato contento di […] leggere anzi qualche articolo nel quale si osservava che l'onestà di Davigo rimane fuori discussione. 

Infatti non ho mai pensato che l'onestà delle persone sia misurabile coi codici e le sentenze […]. Altrimenti non avrebbe nessun senso i Miserabili, il capolavoro di Victor Hugo nel quale Jean Valjean è un pregiudicato latitante eppure sta moralmente tre spanne sopra a Javert, il poliziotto da cui è braccato, l'incorruttibile che pretende da sé il rigore preteso dagli altri poiché crede nella perfetta coincidenza fra legge e morale, ed è questa la sua condanna.

Tra l'altro Javert nel romanzo non ha nome, soltanto il cognome, come se fosse soltanto un ruolo, una maschera: Javert. E a distanza di tanti anni confermo il refuso: se avessi voluto irriderlo, non avrei scritto "Pircamillo", avrei scritto semplicemente Davigo.

Davigo, Colombo e Di Pietro? Giardinetti, trattori e processi: che brutta fine. Libero Quotidiano il 22 giugno 2023

Gherardo Colombo porta il cane a spasso nel centro di Milano e va in giro dicendo, nonostante abbia firmato quando era in servizio decine di richieste di custodia cautelare, che il carcere «non serve a nulla e rende la società pericolosa». Antonio Di Pietro, dopo aver gettato la toga alle ortiche ed essere stato candidato nel 1996 da Massimo D’Alema nel collegio blindato del Mugello, ha fondato e chiuso un partito, l’Italia dei valori. Adesso è su un trattore in Molise e prepara il terreno per la semina delle patate. Francesco Greco, pur sotto scorta anche quando andava in bagno, è riuscito nell’impresa di perdersi il telefono che i colleghi di Brescia gli avevano chiesto per verificare se si fosse scritto con il pg della Cassazione Giovanni Salvi a proposito della condotta del pm Paolo Storari. Per la cronaca anche Salvi si era perso il telefono nello stesso giorno. Nonostante questa distrazione, il sindaco di Roma, il piddino Roberto Gualtieri, lo ha nominato responsabile della legalità del Campidoglio. Davigo, il più famoso di tutti, ha cercato di far passare come massone il collega antimafia Sebastiano Ardita, con cui aveva scritto libri e fondato- addirittura- una corrente della magistratura italiana che solo il nome mette timore: Autonomia&indipendenza.

È una fine quanto mai impietosa quella degli idoli di Mani pulite che vollero fare la rivoluzione spalancando le porte al giustizialismo più becero e volgare. Per trent’anni, come le vecchie rock band che propongono sempre lo stesso repertorio, i magnifici pm di Mani pulite sono riusciti nell’impresa di monopolizzare tv e giornali per raccontare quella stagione eroica. Scomparsi da tempo i procuratori dell’epoca, Gerardo D’Ambrosio e Francesco Saverio Borrelli, Davigo, Di Pietro, Colombo e Greco, come un disco incantato, hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto. Sconfinata l’aneddotica. Chi potrà dimenticare gli interrogatori “multitasking” di Di Pietro? Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, egli era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati, politici o membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette.

Questo stratagemma sarebbe servito ad impedire che venissero concordate le deposizioni. Una volta, come nei migliori film polizieschi degli anni ’70, Di Pietro prese invece dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una caso?». Cosi facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto. La gente, ascoltandolo, rideva, ma non c’era nulla da ridere. Davigo, che venne eletto anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non perdeva occasione per affermare che la magistratura italiana è la migliore del mondo occidentale e i magistrati italiani sono i più produttivi ed efficienti. «Citofonavamo e già cominciavano a confessare le tangenti», ripeteva Davigo.

Di quel periodo che ha cambiato la storia, però, nessuno tranne un paio di anni fa il giudice Guido Salvini, ha raccontato il “trucco” escogitato dal pool per evitare incidenti di percorso. Si trattava del fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere da gestite dal pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 8655 del 1992, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool. Un paio gli anni dopo, nel 1994, Ghitti divenne consigliere del Csm. «Un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato il “gip di Mani pulite” senza rivali». Adesso è calato il sipario. 

Le origini dello strapotere delle toghe rivelate in “La repubblica giudiziaria” di Ermes Antonucci. Molti credono che nasca col terremoto di Mani pulite, ma non è così. Frank Cimini su L'Unità il 6 Giugno 2023

Vale davvero la pena di leggere La Repubblica Giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio) frutto del lavoro di Ermes Antonucci soprattutto per un motivo spiegato nella controcopertina: “Molti credono che la preminenza della magistratura sulla politica sia stata innescata dal terremoto provocato da Mani pulite, ma solo un ingenuo può pensare che questa rottura sia avvenuta all’improvviso”.

“Lo strapotere della magistratura è il risultato del sommarsi di tensioni tra diverse faglie istituzionali” si spiega. Chi scrive queste poche righe per invogliare a leggere il libro di Antonucci aggiunge che tutto comincia con la madre di tutte le emergenze, quella rubricata con l’etichetta di terrorismo ma che fu in realtà un tentativo di rivoluzione fallito. Decine di migliaia di persone passate per le carceri rappresentarono un problema politico che la politica non volle affrontare direttamente delegando la questione della sovversione interna alla magistratura che ne approfittò per aumentare il proprio potere e per andare a riscuotere il credito acquisito nel 1992.

Le leggi premiali utilizzate per risolvere il problema furono pretese e ottenute dalla magistratura sempre storicamente interessata alle scorciatoie come poi andrà in epoca successiva con l’utilizzo smodato delle intercettazioni fino al trojan che continua a fare danni irreparabili ai diritti dei cittadini. Con le leggi premiali non vale più quello che un imputato ha fatto ma ciò che pensa delle sue azioni e soprattutto se fa l’autocritica agli altri.

La catena di Sant’Antonio delle chiamate di correo finirà per fare danni agli stessi politici in occasione della falsa rivoluzione di Mani pulite. Quando la politica si suicida abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere. E con quella scelta la politica non ha mai voluto fare i conti fino in fondo, salvo lamentarsi che la magistratura ha un potere eccessivo che esercita tuttora.

Con la differenza che in passato lo faceva soprattutto svolgendo indagini e ora, quando le conviene, lo fa evitando di compiere gli accertamenti che sarebbero doverosi secondo il codice. Basta ricordare il caso di Expo quando l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ringraziò la procura di Milano per avere dimostrato responsabilità istituzionale.

E a questo proposito basta riportare il passaggio in cui nel libro si ricorda “il lungo percorso culturale, politico e ideologico di una istituzione divisa fra la fedeltà a valori comuni e visioni della giustizia contrastanti. In una accurata ricostruzione storica che svela luci e ombre di un ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’, la parabola di un sistema controverso, tra interessi personali e rappresentanza delle istanze collettive”. Frank Cimini 6 Giugno 2023

Ma la Repubblica giudiziaria nasce prima di tangentopoli. Nel suo libro, Antonucci spiega che il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto che esercita funzioni requirenti, ha origini assai lontane. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 15 giugno 2023

La Repubblica giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio, 288 pp. 19 euro) scritto dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci è il primo libro sulla storia della magistratura nel periodo repubblicano. «Uno strumento utile per capire le varie tappe che hanno portato allo strapotere delle toghe», ricorda l'autore che si è cimentato in questa inedita ricerca storica». «La maggior parte delle persone pensa che la magistratura abbia sostituto la politica dopo Tangentopoli. Ma non è così. Il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto chi esercita funzioni requirenti, ha origini lontane», prosegue Antonucci che ha suddiviso il suo libro in capitoli, uno per ogni decennio, dall'entrata in vigore della Costituzione, agli anni del terrorismo, alla P2, a Tangentopoli, alle picconate di Cossiga, al berlusconismo. Grande spazio nel libro hanno, ovviamente, le correnti delle toghe. Nate come centri di elaborazione culturale, le correnti, sulla carta delle associazioni di carattere privato, condizionano (vedasi il Palamaragate) in maniera profonda il Consiglio superiore della magistratura.

Va ricordato che in nessun altro Paese occidentale esistono, come in Italia, le correnti dei magistrati. «Il primo gruppo all'interno dell'Anm fu, nel 1957, Terzo potere ( Tp) che sostenne le domande di cambiamento dei magistrati più giovani contro la struttura gerarchica dell’ordinamento giudiziario e il sistema di carriera», sottolinea Antonucci. Per contrastare il progressismo di Tp, nel 1962 nacque Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice, poi in contrapposizione con Magistratura democratica (Md), nata nel 1964. Md fin da subito influenzerà il dibattito sulla giustizia dentro e fuori la magistratura. Di Md si ricorda la giurisprudenza alternativa, fondata su una visione marxista della giustizia come lotta di classe contro lo Stato borghese. I magistrati di Md ritenevano che il «diritto avesse natura discrezionale e che la decisione giudiziaria era un atto politico». L’interpretazione della norma doveva essere a favore della classe deboli Nel convegno 1971, Giovanni Palombarini, uno dei padri fondatori di Md, propose il diritto “diseguale' finalizzato proprio ad interpretare le norme per le classi subalterne.

Era necessario partecipare insieme ai lavoratori al processo di formazione della coscienza di classe, con l'obiettivo finale di rovesciare la struttura capitalistica «attraverso l'affermazione dell'egemonia proletaria nella società, la crisi dell'ideologia dominante e degli apparati repressivi». Negli anni successivi i collegamenti con i partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare si fecero sempre più intensi, favoriti anche da un diverso atteggiamento del Pci nei confronti della magistratura a seguito di un ricambio generazionale. Il collegamento magistratura- politica era fondamentale nel quadro di una strategia unitaria «per sconfiggere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista”. Una immagine rende bene il clima di quegli anni. Ed è quella durante i funerali di Ottorino Pesce, pm romano, toga di Md, morto d'infarto a gennaio del 1970. Al termine della cerimonia, militanti comunisti e magistrati di Md, fra lo sventolio delle bandiere rosse, decisero di salutare il feretro con il pugno chiuso.

Nel 1972 il segretario generale di Md Generoso Petrella venne eletto in Parlamento nel liste del Pci. Qualche anno più tardi toccò ad un altro esponente di punta di Md, Luciano Violante, essere eletto, aprendo così la strada delle toghe che dalle aule di giustizia andavano in Parlamento con il Pci- Ds- Pds- Pd.

Dopo le rivelazioni dell'ex Mani Pulite. “Di Pietro propose a Craxi un patto: lasciare la politica in cambio dell’uscita dall’inchiesta”, la rivelazione di Bobo Craxi. Aldo Torchiaro su il Riformista il 14 Aprile 2023

Bobo Craxi, ha letto le parole di Gherardo Colombo? “I politici che avessero accettato di collaborare e si fossero fatti da parte, rispetto alla vita pubblica, sarebbero usciti dalle indagini”, ha scritto nel libro che ha pubblicato con Enzo Carra. Siamo davanti alla prova generale di colpo di Stato? Il potere giudiziario ha tentato di sopraffare il potere politico e di sostituirvisi. È nelle carte. Il Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli a un certo punto uscì allo scoperto. Con un messaggio pubblico rivolto all’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, fece sapere di essere pronto. “Sono a disposizione”. Mentre mettevano fuori gioco la classe politica, si candidavano a sostituirla.

Attuarono un golpe bianco, e neanche tanto bianco, se pensiamo al “tintinnar di manette”…

C’è stato un meccanismo preciso con cui il colpo di Stato ha provato ad avere successo: quando hanno provato ad attuare una “rivoluzione morale”, evocando la piazza, surriscaldando gli animi. Il sovvertimento può avvenire attraverso le armi, con la presa del potere militare. Oppure con la politica, come nelle rivoluzioni gentili. Oppure, ed è una via di mezzo, con l’arma giudiziaria. Una rivoluzione in parte armata e in parte gentile. Questo meccanismo si palesò ad un certo punto delle inchieste.

Quale fu la dinamica?

Fu un’escalation. La trattativa tra l’accusa e la difesa prima del processo, nella fase istruttoria, avvenne in un momento in cui la cupola giudiziaria si era arrogata poteri straordinari. Questo le ha consentito di parlare di politica con i politici, trascendendo dal ruolo naturale del giudice per ergersi a elemento regolatore dell’ordine istituzionale. In quella fase mio padre, Bettino Craxi, incontrò una serie di volte Antonio Di Pietro. In maniera assolutamente irrituale e informale.

Fu Di Pietro a chiedergli di incontrarlo?

Sì. In maniera del tutto extra legem.

Dove?

Mai al Palazzo di Giustizia, sempre in modo informale, discreto, in territorio neutro. Alla presenza dell’avvocato di mio padre, Nicolò Amato, senza altri testimoni; non vi sono eloquenti tracce verbali riprodotte nei processi a suo carico.

Quanti furono quegli incontri?

Furono una serie. Almeno tre. Tutti lontano da occhi indiscreti.

In quale fase dell’indagine di Mani Pulite avvennero?

Nel 1993, prima del processo Cusani.

Sa cosa si dissero? Suo padre gliene avrà parlato…

Certo, ne rimase particolarmente interdetto. Mi ricordo che tra le prime cose mi raccontò di un Di Pietro diverso da quello che si vedeva in pubblico, più accomodante, perfino mite. D’altronde i rumori su di lui si erano fatti assordanti.

Cosa gli chiese?

Di Pietro chiese a mio padre di restituire i denari illecitamente percepiti dal Psi, facendogli capire che se avesse collaborato con le indagini e fatto un passo indietro rispetto alla politica, il suo coinvolgimento nell’inchiesta penale sarebbe finito lì.

Cosa rispose suo padre?

Lo mandò a stendere. Per la procedura irrituale, inaccettabile. E per la premessa stessa, che lo offendeva: i finanziamenti illeciti non finirono mai nella disponibilità personale di mio padre. Non li aveva lui, non li aveva mai avuti. E dunque non poté che rifiutare quell’approccio, quell’apertura di trattativa.

Finanziamenti che pure vi furono, come disse lui stesso alla Camera, in quel discorso del 29 aprile ’93…

Non negó mai la conoscenza di finanziamenti illeciti. Né tantomeno si è mai negato il suo utilizzo nella maggioranza dei casi palese anzi palesissimo visto che un partito nazionale affrontava elezioni a rotta di collo, che le sue strutture territoriali erano ben evidenti ed altrettanto evidente il collateralismo politico. Un po’ più occulto era il finanziamento in direzione di partiti o movimenti politici esteri sovente in lotta per la libertà e la democrazia; pratica che continuo a considerare ancora molto nobile.

Fece delle ammissioni, rispetto ai reati contestati, in camera caritatis?

Craxi diede una serie di elementi di natura sistemica. Come poi fece in pubblico, parlando quell’ultima volta in Parlamento, chiarì come tutti i partiti avevano pattuito un finanziamento non lecito, al fine di tenersi in piedi. Lo ribadì anche a Di Pietro, che però aveva una missione unica: non quella di capire il fenomeno in generale, ma quella di recuperare quello che definiva “bottino”.

Dal rifiuto di arrendersi di suo padre nacque la necessità di arrestarlo, di metterlo a tacere con l’arma delle manette. Iniziò quella che Vittorio Feltri aveva chiamato “caccia al Cinghialone”, espressione di cui poi si è pentito.

Già, serviva un trofeo di caccia. E il trofeo più importante da esibire per le carriere di ciascuno degli attori. Questo accadde più tardi, quando si capì che mio padre non sarebbe stato al gioco. Quando rifiutò la resa. E allora inforcarono le armi, provando ad arrestarlo. Siamo dopo il 30 aprile 1993. Ci provò un Pm di Roma, Misiani. Ne incaricarono un ufficiale di polizia, il maggiore Francesco D’Agostino, che venne a fare delle incursioni anche ad Hammamet, senza riuscire a portare a casa il trofeo. Ed è poi finito sotto inchiesta a sua volta…

Torniamo al Di Pietro della trattativa. Era latore di una direttiva, era parte di una strategia?

Da parte della Procura di Milano ci fu una duplice tentazione. Quella di incidere sulla politica e sulle istituzioni, costituendo una barriera tra il vecchio e il nuovo, ma anche quella di trovare una onorevole via d’uscita per una inchiesta che si estendeva a macchia d’olio ogni giorno di più. A un certo punto fu chiaro agli inquirenti che se avessero applicato con metodo quella indagine a tutti, partiti, aziende, enti pubblici, si sarebbero dovute celebrare infinite serie di maxiprocessi.

E provarono a tirare una riga?

Provarono a offrire una sorta di indulto coperto per chi avesse accettato di cambiare vita, rinunciando alla politica. Lo hanno dovuto proporre a tanti, se non a tutti, se sono arrivati a parlarne perfino con Bettino Craxi.

C’è stato un precedente giudiziario?

C’è stato nell’ambito della stessa inchiesta Mani Pulite. Nella prima parte, dal 1992 all’inizio del 1993. La formula aveva funzionato con alcune delle aziende coinvolte, dove i manager si erano dimessi, avevano collaborato dando informazioni ed elementi e avevano accettato di ritirarsi e di non proseguire nelle rispettive carriere, o di andare a vivere per un periodo all’estero. Ci sono molti casi.

Ma chiedere la stessa cosa ad un politico eletto democraticamente, ad un rappresentante delle istituzioni è ben diverso…

Ed emerge oggi in tutta la sua gravità. Ma all’epoca a quei magistrati doveva sembrare normalissimo. La classe dirigente viene rimossa quando c’è una rivoluzione o quando arriva un esercito invasore. Quei giudici si comportarono così: come rivoluzionari di piazza o meglio, come un esercito armato che conquista la capitale, entra nei palazzi e spodesta con la forza chi guida le istituzioni.

La politica ha provato a resistere. Suo padre Bettino non si consegnò mai, da vivo.

Mio padre aveva un senso delle istituzioni che non gli consentiva di scendere a patti sulla tenuta democratica, sulla legittimità degli eletti. Denunciò da subito gli eccessi della barbarie giustizialista.

Il golpe riuscì, però, in parte.

Sul piano politico di fatto imposero un ricambio forzato di classe dirigente. Diedero all’avviso di garanzia la valenza della condanna, impallinando questo e quello fino a smontare il Parlamento e a distruggere cinque partiti. Quando costrinsero Scalfaro a sciogliere le Camere si capì che per un verso stavano vincendo loro.

E per altri versi?

Beh, dal punto di vista tecnico l’inchiesta Mani Pulite fu un fallimento. Non portò mai ad una conclusione chiara, accontentandosi di seminare il panico. Alcuni indagati si suicidarono. Altri se la cavarono con l’abiura. Alcuni processi sono durati dieci anni e oltre, portando anche a tante assoluzioni.

 Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Facciamo un gioco. Cosa avremmo detto se a guidare Mani pulite cinfosse stata una junta e non il pool? Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 14 Aprile 2023

I protagonisti di quell’epopea erano dei signori intabarrati di seta nera, le loro ambizioni erano acclamate dai girotondi e i giornalisti erano embedded. Ma le loro parole d’ordine erano una pericolosa compromissione dello stato di diritto

Facciamo un gioco. Siamo sempre negli anni ’90 del secolo scorso e siamo sempre in Italia. Solo che a convocare i giornali e le televisioni per contestare un provvedimento legislativo non sono quattro pubblici ministeri in toga, in un Palazzo di giustizia: ma quattro militari, in divisa, nel piazzale di una caserma. Fuori c’è la stessa folla, ma appunto non sta sotto al balcone della procura: sta oltre i cancelli di quella caserma, e urla a quei militari impettiti di far sognare il popolo onesto mettendo in prigione gli indagati finché non confessano. I giornalisti sono sempre embedded, ma in fureria anziché in cancelleria, e da lì quotidianamente riportano le gesta della junta che ripulisce la società di tutto il marciume che la soffoca. Quello ritratto a cavallo in una fotografia pubblicata dal magazine del primo quotidiano d’Italia non è un magistrato del cosiddetto Pool che coordina la cosiddetta inchiesta Mani Pulite, ma un colonnello, lo stesso che non davanti a un Tribunale, ma ancora davanti a una caserma, dice che se il presidente della Repubblica lo chiama per riporre in riga l’Italia corrotta lui si mette a disposizione.

Che cosa si sarebbe detto a proposito della vicenda in quello scenario trasfigurato? Che cosa si sarebbe detto se a rendersi protagonisti di quell’epopea non fossero stati dei signori intabarrati di seta nera, ma un manipolo di soldati in mimetica, con pistola alla cintola e con i girotondi che ne acclamavano le ambizioni? Si sarebbe detto probabilmente, e probabilmente con appropriatezza, che quella era una vicenda di pericolosa compromissione dello Stato di diritto, e chi avesse denunciato il clima eversivo di quel periodo non sarebbe passato per una specie di bestemmiatore.

Non fu mai in discussione, almeno da parte degli osservatori spassionati e giudiziosi, il lavoro per così dire curricolare di quei magistrati, insomma il fatto che i loro provvedimenti fossero buoni o cattivi, corretti o sbagliati, legittimi o no. Fu in discussione, almeno da parte dei pochi che lo denunciarono, il pubblico straripamento di quel corso giudiziario, il fatto che esso aberrasse in una pretesa moraleggiante e di riordino sociale che non compete alla magistratura e che alla magistratura non può essere consentito di esercitare.

Dire, come disse uno di quei pubblici accusatori, che il compito del magistrato è di «far rispettare la legge», significa fraintendere la funzione del potere giurisdizionale e, ciò che è peggio, significa istigare il pubblico a quel fraintendimento: perché a far rispettare la legge è comandato il poliziotto, o appunto il militare con funzioni di polizia, non il magistrato, il quale è chiamato al compito del tutto diverso di applicarla.

Disporsi al governo del Paese, come fece qualcuno, dopo aver diffidato i partiti politici dal candidare gente con gli scheletri negli armadi, significa credere che il potere di arrestare le persone costituisca un’arma diversissima, mentre è solo succedanea, rispetto al fucile imbracciato dal militare che reclama investitura civile.

E attenzione. Il fatto che i protagonisti di quella vicenda, e i tanti che ne celebravano il comportamento indebito, potessero essere in buona fede, se possibile aggraverebbe la loro responsabilità. Perché la loro presunzione di operare a fin di bene avrebbe reso più facile commettere il male che hanno fatto al Paese.

Estratto da ilfattoquotidiano.it il 6 aprile 2023.

Negli anni ’90 Draghi ha svenduto l’argenteria del nostro Paese”. Domenico De Masi, ospite de La Confessione di Peter Gomez, [...] ripercorre la storia dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale [...].

 [...] Dal punto di vista storico [...], secondo De Masi, “l’Iri era una bestemmia economica. Non solo molte aziende erano di Stato, non solo l’80% delle banche erano di Stato, ma c’era il più grande partito comunista d’Occidente. Quindi, l’Italia era un’eresia, non solo in Europa, ma in tutto l’Occidente”.

E cosa accadde quindi? Qui il sociologo colloca l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi [...]. “Fu mandato un giovane economista, un brillantissimo italiano, che aveva studiato al Mit, si era specializzato lì, fior fiore del neoliberismo. – ha spiegato De Masi – Fu mandato lì dal ’91 al 2001.

Per dieci anni fu il segretario generale del ministero del Tesoro, poi presidente della Commissione per le privatizzazioni. Il 2 giugno del 1992 arrivò a Civitavecchia il Britannia della regina Elisabetta con sopra il fior fiore dei finanzieri mondiali. – ha proseguito lo studioso –Il nostro giovane segretario generale del Tesoro salì sullo yacht, fece un discorso bellissimo in cui in sintesi disse: ‘Avete l’argenteria del nostro Paese a vostra disposizione. Approfittatene‘.

L’astuzia di questo giovane, che io ammiro proprio per la sua astuzia quasi luciferina, è che fece fare la cosa più di destra, cioè le privatizzazioni, a quattro governi di sinistra: il governo Amato, due governi D’Alema, un governo Prodi”, ha concluso De Masi.

La vittima dimenticata del pool. Riccardo Misasi fu vittima del pool, così fu fatto fuori. Ilario Ammendolia su Il Riformista l’11 Aprile 2023

Il Riformista ha riportato a tutta pagina la notizia secondo cui la cosiddetta stagione di “Mani pulite” fu in realtà un golpe. A svelare ciò non sono gli archivi dei servizi segreti ma lo si deduce dalla prefazione dell’ex pm Gherardo Colombo al libro dell’on. Enzo Carra. La tesi mi sembra suggestiva e bisognerebbe trovare “prove” significative su tutto il territorio nazionale. Mi è capitato di riflettere su ciò che in quegli anni successe in Calabria ed in particolare sulla storia dell’uomo politico più importante di quel momento storico: l’on. Riccardo Misasi.

Un politico intelligente, brillante e potentissimo che occupò incarichi nazionali importanti come quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; ministro alla Pubblica istruzione e sottosegretario alla Giustizia. Per oltre trenta anni Misasi fu parlamentare della Repubblica eletto in Calabria con vagonate di voti. Nelle elezioni del 1968 affrontò la “concorrenza” manciniana da sottosegretario alla Giustizia e sembra che proprio in quel periodo molti detenuti siano stati messi in libertà provvisoria. Potrebbe essere questa una cattiveria della stampa di estrema sinistra di allora o dei partiti concorrenti ma quello che è certo che le basi strategiche di quella campagna elettorale di Misasi furono appunto i tribunali disseminati in tutto il territorio calabrese nei quali il sottosegretario alla Giustizia incontrava magistrati, forze dell’ordine e capi elettori.

È superfluo aggiungere che molti tra quest’ultimi non erano proprio degli stinchi di santo. La storia corre veloce e i rapporti di forza cambiano radicalmente con l’arrivo della stagione di “mani pulite” tanto che nel giro di qualche mese avviene la trasfigurazione di Misasi che da uomo politico più potente della Calabria si trasforma in preda inseguita dai “segugi” e su cui le procure aprono un fuoco concentrico. Quello che era stato un intoccabile diventa un malfattore. Viene chiesta l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso, gli viene arrestato un figlio, viene indagato come capo del sistema delle tangenti in Calabria e addirittura indicato come mandante dell’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, on.Vico Ligato. Misasi è ancora parlamentare, la Camera con l’astensione del Pds nega l’autorizzazione ma è ormai un uomo braccato. Il 17 marzo del 1993 Misasi rilascia un’intervista al giornalista del Corriere della Sera Paolo Graldi che viene pubblicata col titolo “Don Riccardo in lacrime”.

Il “don” richiama quello di don Calò registrato all’anagrafe come Calogero Vizzini capo della mafia siciliana e non era stato affatto stato messo a caso. Molti magistrati, già alleati e subalterni al potere democristiano, assunsero su di loro il compito si seppellire il cadavere politico di don Riccardo che piange a dirotto e quelle lacrime non erano un segnale di umana debolezza ma di resa politica. Misasi conosceva molto quel mondo torbido già subalterno al potente ministro calabrese e affamato di potere che dominava nei tribunali e comprendeva che, anche se innocente, per sfuggire alle accuse che gli venivano mosse, le “lacrime” sarebbero state il viatico del “perdono”.

E perdono è stato! Doveva piangere ed ha pianto perché Lui sapeva meglio d’ogni altro di cosa sarebbe stato capace quel “potere” di cui era stato sicuro punto di riferimento. Così Misasi si allontanò dalla politica e dalla Calabria e per rendere plastico il suo disinteresse per le vicende calabresi scrisse un bel libro sulla storia di Orvieto. Non della Calabria e non di Cosenza ma di Orvieto. Un libro che oggi potrebbe apparire come un messaggio in bottiglia che venne subito “apprezzato” e recepito perché scritto con il linguaggio che i poteri utilizzano parlando fra di loro, soprattutto in Calabria. Misasi cede il posto che, nel bene e nel male, era frutto d’un consenso popolare che gli consentiva di essere protagonista sulla scena nazionale.

Ilario Ammendolia

I veri obiettivi e la regia internazionale. Tangentopoli fu eversione: partiti distrutti, beni svenduti. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l’11 Aprile 2023

Come ha già messo in evidenza Il Riformista con la sua prima pagina del 5 Aprile dedicata al sostanziale colpo di Stato avvenuto in Italia attraverso Mani Pulite, quasi tutte le vicende giudiziarie di maggior rilievo avvenute in Italia in questi 30 anni, hanno un forte rilievostorico-politico. In questo quadro è stato del tutto fuorviante e paradossale che da parte di Di Pietro, Colombo e Davigo ci sia stata la tendenza a ridurre in una sorta di grottesca partita a guardie e ladri sminuzzate in tante vicende processuali la storia di Mani Pulite del ‘92-’94 attraverso la quale proprio loro hanno addirittura provocato un totale rivolgimento del sistema politico italiano con la distruzione di ben 5 partiti fondamentali nella vita politica italiana.

Il fatto è che tutta la storia del finanziamento irregolare dei partiti non può essere banalizzata sotto la fattispecie della corruzione individuale come purtroppo ha fatto anche Luigi Zanda nella sua peraltro interessante intervista resa al Riformista. È avvenuto invece qualcosa di molto rilevante non appena fra l’89 e il ‘91 è finito il pericolo comunista. Allora in Italia i cosiddetti poteri forti, cioè quelli che detengono il potere finanziario e editoriale hanno valutato che i partiti non servivano più e anzi, poiché la Dc e il Psi erano i proprietari di fatto delle industrie a partecipazioni statali che invece dovevano essere smantellate e privatizzati a prezzi stracciati, allora proprio questi partiti (e quindi il loro leader Craxi, Andreotti, Forlani, andavano messi fuori gioco). Prima che l’operazione partisse, Cuccia fece, tramite Salvatore Ligresti, l’offerta a Craxi di prendere la guida della operazione neogollista, presidenzialista, antipartitocratica. Craxi rifiutò di svolgere questo ruolo, ritenendo che i partiti rimanevano un elemento essenziale per la democrazia italiana.

Allora, stando a quanto ha raccontato Massimo Pini, amico e biografo del leader socialista, quando Cuccia seppe che Craxi respingeva l’ipotesi di svolgere quel ruolo affermo’: “Peccato, era la sua ultima occasione”. Così nello spazio di un anno e mezzo Craxi da candidato a premier divenne “il cinghialone”, da braccare e sbranare. L’antipolitica, il populismo, l’antiparlamentarismo nascono da lì, altro che quegli untorelli dei grillini, arrivati molto dopo che molte cose erano già accadute. A quel punto dai poteri forti venne un input che arrivò ai magistrati di Milano, cuore del potere economico ai quattro giornali fondamentali, alle tv, in primo luogo quelle di Berlusconi che pensava così di mettersi al riparo: e infatti nel ‘92-’93 il Cavaliere non fu neanche sfiorato da un avviso di garanzia ma l’uragano è arrivato dopo, quando egli ha deciso di scendere in politica.

Non è che precedentemente fino ad allora magistrati e giornalisti non sapessero niente: fra l’altro dagli anni Cinquanta in poi don Sturzo ed Ernesto Rossi avevano riempito giornali e pubblicato libri in cui parlavano dei finanziamenti irregolari dei partiti. Né i magistrati né gran parte dei giornalisti accolsero allora quelle denunce perché, a monte di tutto il finanziamento irregolare dei partiti, c’era la divisione del mondo in due blocchi. Ora in Italia De Gasperi e Togliatti esclusero che lo scontro fra i partiti filo-occidentali e il Pci potesse finire con una guerra civile. Di conseguenza tutti sapevano come era combinato il finanziamento irregolare della Dc (a partire dalla Cia fino ai soldi provenienti dal “Quarto partito” di carattere confindustriale) e quella del Pci (a partire dal KGB, alle società di import-export alle cooperative rosse). Invece, finito il pericolo comunista, la musica cambiò totalmente. Ad opera del pool di Mani Pulite, dei quattro principali giornali, delle televisioni, la denuncia del finanziamento irregolare fu il grimaldello per far saltare il sistema politico e per realizzare l’operazione rivoluzionaria- eversiva di cui ha parlato Il Riformista qualche giorno fa.

A un certo punto si pensò anche, come risulta da una dichiarazione del procuratore generale Borrelli, che il presidente della Repubblica Scalfaro potesse dare ai magistrati anche una diretta investitura politica. Questa operazione però risultò impraticabile e allora il pool ebbe bisogno di un “braccio politico” identificato nel Pds e nella sinistra democristiana. All’interno del Pds i miglioristi sostenevano l’alleanza o addirittura l’unità socialista con il Psi per lanciare un’alternativa riformista. I “ragazzi di Berlinguer” che avevano la maggioranza del partito scartarono però quell’ipotesi sia perché essi erano stati allevati dallo stesso Berlinguer all’antisocialismo e all’anticraxismo sia perché essi erano terrorizzati dalla possibilità di finire che anch’essi sotto il tritacarne del pool visto che il Pci-Pds aveva il finanziamento più irregolare di tutti i partiti. Così, a quel punto, rivelatosi del tutto velleitario, il sogno di Occhetto di fuoriuscire da sinistra dal comunismo reale cavalcando l’ingraismo, in nome della Real Politik, sia pure con sfumature diverse, D’Alema e Veltroni fecero del Pds il “braccio politico” delle procure e dei poteri forti.

Il cosiddetto “governismo” del Pds e poi del Pd nasce da qui, da questa piena subalternità ad alcune procure e ad alcuni poteri, venendo ripagato con una totale impunità (limitata al nucleo ristretto del gruppo dirigente del vertice del partito, non certo da un inesistente neo liberismo). Così al centro Nord il circo mediatico giudiziario penetrò come un coltello nel burro delle imprese comprese le cooperative, dei partiti e delle loro correnti mentre a loro volta Fiat e Debenedetti contrattarono un compromesso fondato su lettere che contenevano parziali confessioni, profonde genuflessioni al pool (vedi le lettere di Romiti e di Debenedetti) ricambiate con il sostanziale salvataggio del sistema Fiat, di quello Mediobanca, di quello Cir, di una parte di quello Iri (Prodi) e di quello Eni (Bernabè), mentre interi settori industriali come l’edilizia e la farmaceutica e Gardini venivano massacrati.

Invece ben altra musica è stata suonata in Sicilia. Il fascicolo mafia-appalti messo insieme dal Ros di Mori, De Donno e altri (che per questo sono stati perseguitati nel corso di almeno 20 anni), qualora fosse stato tradotto in indagini giudiziarie del tipo di quelle svolte al Nord, avrebbe messo allo scoperto la versione siciliana di Tangentopoli diversa da quella esistente nel settentrione del Paese. Infatti, mentre al Nord il sistema di Tangentopoli riguardava questi soggetti: le imprese, comprese le cooperative, le istituzioni locali e nazionali, i partiti, in Sicilia il sistema aveva un altro soggetto, un convitato di pietra costituito dalla mafia. Ebbene, lì, prima la strage di Capaci e poi quella di Borsellino a via d’Amelio hanno avuto questo obiettivo di fondo: liquidare sul nascere una versione siciliana di Mani Pulite.

Tutto si è svolto con agghiacciante rapidità. Cosi non appena la mafia ha liquidato il principale pericolo rimasto su pizza dopo Falcone costituito da Paolo Borsellino, subito il procuratore Giammanco, con la controfirma di Scarpinato, ha archiviato le indagini sul filone mafia-appalti. Ovviamente, avendo questo retroterra, il processo Borsellino è stato depistato ad opera in primis del questore La Barbera, ma per ben altre ragioni di quelle citate nelle motivazioni del processo che parlano dell’obiettivo di un avanzamento di carriera. La Barbera non aveva problemi di carriera tant’è che lo ritroviamo qualche anno dopo al G8 di Genova come punta di diamante del capo della polizia De Gennaro. Come si vede, quindi, le cose presentano aspetti assai seri che vanno molto al di là delle mistificazioni orchestrate da alcuni gestori di talk show che concentrano la loro attenzione sul dito e non sulla luna. Fabrizio Cicchitto

Come nasce Mani Pulite. Tutte le tappe di Tangentopoli: dall’arresto di Mario Chiesa alle elezioni del ’94. Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2023

17 febbraio 1992 – Il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano ed esponente del Partito socialista italiano. A breve ci sarebbero state le elezioni e il segretario del Psi Bettino Craxi nega l’esistenza di pratiche e condotte fraudolente all’interno del suo partito.

5 e 6 aprile 1992 – L’Italia va al voto. Alta l’astensione, in calo i democristiani, che restano comunque il primo partito, stabile il Psi. La rivelazione è la Lega, partito nascente che accusa il “governo ladro” di Roma. Gli avvisi di garanzia arrivano a Carlo Tognoli e a Paolo Pillitteri, ex sindaco e sindaco in quel momento di Milano, tutti e due socialisti. Il 12 maggio è il turno di Severino Citaristi, tesoriere della Dc. Il 16 maggio viene arrestato il segretario milanese Pds, Roberto Cappellini. L’inchiesta prende ufficialmente il nome di Mani Pulite.

23 maggio 1992 – Strage di Capaci, sono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta.

25 maggio 1992 – Oscar Luigi Scalfaro eletto presidente della Repubblica.

28 giugno 1992 – Si insedia il governo Amato I: il 49esimo esecutivo della Repubblica Italiana e primo dell’XI legislatura.

23 agosto 1992 – Craxi comincia su l’Avanti! i corsivi contro Mani Pulite e preannuncia un dossier su Di Pietro.

2 settembre 1992 – Si uccide il parlamentare socialista Sergio Moroni, coinvolto nelle indagini. Uomo vicino a Craxi, prima del suicidio lascia una lettera a Napolitano che la legge in aula. Il segretario del Psi attacca la magistratura e la stampa. Il 15 dicembre Craxi riceve un avviso di garanzia, accusato per la tangente Enimont, che lo porta a dimettersi l’11 febbraio 1993.

5 marzo 1993 – Palazzo Chigi vara il Decreto Conso che prevede la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Il capo dello Stato Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare e il decreto viene ritirato.

21 aprile 1993 – Il governo Amato si dimette e una settimana dopo nasce l’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, il primo non politico alla guida dell’Italia repubblicana.

29 aprile 1993 – Il Parlamento vota contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Si scatenano proteste in tutta Italia. Rimane nella storia dei linciaggi, il lancio di monetine contro Craxi mentre esce dall’Hotel Raphael di Roma. Una delle pagine più buie.

20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, presidente Eni precedentemente arrestato, si suicida. Tre giorni dopo, venerdì 23, si toglie la vita anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, informato dal suo avvocato dell’avvio delle indagini su di lui. Vengono successivamente arrestati l’ad di Montedison Carlo Sama e il manager Sergio Cusani, consulente finanziario di Gardini accusato di falso in bilancio e di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti.

17 dicembre 1993 – Nell’ambito del processo Cusani si tiene l’interrogatorio pubblico di Bettino Craxi e dell’ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani.

1994 Elezioni politiche – È la prima volta in cui il popolo italiano vota senza il simbolo della Democrazia Cristiana sulla scheda. La stessa tornata elettorale è caratterizzata dalla discesa in politica di Silvio Berlusconi annunciata il 26 gennaio di quell’anno.

La scalata della magistratura. Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022

Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.

La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.

Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro  impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».

Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».

Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.

Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.

Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.

Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo. Paolo Liguori

Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022

Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.

In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.

Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.

Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.

Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022

Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce

L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».

Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».

Piercamillo Davigo – Sottile? Macché

Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.

Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?

Gherardo Colombo – Fonzie tormentato

Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».

E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.

Tiziana Parenti – L’intrusa

L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.

Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.

Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro

Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .

Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.

Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso

Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.

Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.

Antonio Di Pietro – Il testimonial

Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.

Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Sentire dai protagonisti come andarono i fatti. Mani Pulite e il ricatto ai politici: i magistrati a chi proposero quel patto scellerato? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2023

Nessuno sarebbe andato in carcere, a partire dal 1992, se il mondo della Prima Repubblica avesse accettato il ricatto degli uomini di Mani Pulite: resa incondizionata, consegna delle armi e uscita dai processi. La rivelazione sconvolgente di Gherardo Colombo, uno degli uomini che nel luglio del 1992 avrebbero avanzato la proposta ai leader dei partiti di governo di allora, parla oggi di un progetto politico mai realizzato che avrebbe cambiato il corso della storia.

Lo avevamo già intuito dalla dichiarazione di Saverio Borrelli, quando, dopo la quarta vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, aveva detto candidamente: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. L’ammissione del fatto che Mani Pulite era stata un’operazione politica e solo politica. Niente moralizzazione, niente obbligo dell’azione penale. Ma oggi Gherardo Colombo non solo conferma, ma aggiunge qualcosa di più drammatico. Un ricatto che equivale a un moto rivoluzionario. Qualcosa di violento e immorale come un push, preparato da toghe anziché da divise militari. Questa sarebbe stata l’attività di Mani Pulite. Tanto che, qualora si fosse arrivati a un accordo, la proposta del 1992 di cui parla Gherardo Colombo avrebbe comportato la rinuncia da parte dei pm all’obbligatorietà dell’azione penale in cambio di una trasformazione della politica nell’esercito dei “pentiti” e il riconoscimento del nuovo assetto di potere, quello giudiziario. La dittatura delle toghe. Sarebbe stata questa dunque la “soluzione politica” per uscire in modo indolore da Tangentopoli, lo “scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo”.

Non c’è motivo di dubitare della sincerità di Gherardo Colombo, che sta vivendo il successo della sua terza vita, dopo quella di magistrato garantista di sinistra e poi quella della passione per le manette fino alla scoperta dell’inutilità del carcere. Se quel che dice oggi corrisponde alla realtà dei fatti, vuol dire che c’è stato da parte del pool di Milano un tentativo segreto di avvelenare i pozzi. Cioè che fin da subito, da prima ancora che i leader politici del tempo, il segretario della Dc Arnaldo Forlani e del Psi Bettino Craxi ricevessero un’informazione di garanzia, i pubblici ministeri non avevano a cuore il trionfo della giustizia, ma solo la presa del potere.

E proprio perché lo dice una persona molto stimata come Gherardo Colombo, e se la proposta ci fu, vorremmo sapere non solo da chi, ma anche a chi il pactum sceleris fu avanzato. Perché tutti gli accadimenti di quell’anno sono stati distillati e centellinati in ogni angolatura, in ogni sospiro, per trent’anni in libri e giornali. E ripensandoci, e con angoscia, vien da dubitare che se l’accordo non ci fu è solo perché provvidero gli uomini di Totò Riina a portare altrove l’attenzione del mondo politico. Così l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo precede di appena un mese le elezioni politiche del 5 aprile che segneranno il primo segnale politico dell’influsso di tangentopoli sul pentapartito di governo. E poi tutto quel che seguì, con le dimissioni del Presidente Cossiga e subito dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. E poi in sequenza la prima informazione di garanzia al tesoriere della Dc Severino Citaristi e la sorte di Bettino Craxi con la sua invettiva in Parlamento mentre si votava la fiducia a un governo che non sarà presieduto da lui perché nel frattempo la sua immagine dalle parti del palazzo di giustizia di Milano non era del tutto cristallina.

Da una parte c’erano le bombe di Cosa Nostra, dall’altra i siluri di Mani Pulite. Questo era il 1992. Con Scalfaro alla Presidenza della repubblica al posto di Cossiga, due giorni dopo la strage di Capaci, e anche questo fu un cambiamento storico, e non certo positivo. Mentre a commento dei primi tre suicidi di Tangentopoli il procuratore aggiunto di Milano Gherardo D’Ambrosio diceva “A volte si muore anche di vergogna”. Ma il patto, almeno in quell’anno, non ci fu. E loro andavano avanti. E ci vorrebbe una sorta di grande Csm della storia per sentire da Gherardo Colombo come andarono i fatti e quali fossero le loro intenzioni. Per esempio, la domanda pare legittima: volevano solo un ricambio di classe politica, mandando semplicemente un D’Alema al governo (cosa poi accaduta negli anni successivi), come pensano alcuni, o volevano invece fare loro direttamente le valigie e prendere l’aereo per Palazzo Chigi? Non l’aveva del resto detto lo stesso procuratore Borrelli “se il Presidente ci chiama” siamo a disposizione?

Ma questo della resa della politica, della consegna delle armi, resterà sempre un tarlo nella mente del gruppo dei magistrati coraggiosi. Lo dimostra tutto il loro modo di procedere, lo sprezzo con cui trattavano i politici negli interrogatori, le minacce, il tono ricattatorio, l’uso del carcere preventivo. Orpelli non indispensabili nelle normali procedure della giustizia. Importanti invece nel clima di vera guerra che il Pool aveva dichiarato. I primi ad arrendersi furono comunque gli imprenditori. Non solo Romiti e De Benedetti, che evitarono il carcere con trattative condotte nei principali studi legali italiani, che diedero ai magistrati niente di più che piccole mance, una paginetta di modeste ammissioni di colpevolezza in cambio dell’impunità. Ma anche gli altri, quanto meno a partire dal 1993, quando il Presidente di Assolombarda Ennio Presutti indisse l’assemblea generale degli industriali, con la presenza dei Moratti, dei Pirelli e i Tronchetti Provera ma anche dei tanti Brambilla esasperati, e disse “Occorre chiudere con tangentopoli” e infine “Dobbiamo rassegnarci”, e fu l’inizio della resa.

Anche il mondo della politica ci provò. Ma l’interlocutore – era ormai nato il circo mediatico giudiziario – pareva insaziabile, assetato del sangue di partiti ormai in ginocchio. Due ministri per bene come Giovanni Conso e Alfredo Biondi furono uno dopo l’altro messi alla berlina come delinquenti. E intanto gli uomini del pool, quelli che contavano davvero, mandavano avanti un Tonino Di Pietro tutto elegante in abito fumo di Londra e cravatta berlusconiana a piccoli pois, a presentare una vera proposta di legge in quella cornice da “liberté égalité jet privé” che è sempre stato l’incontro promosso ogni anno dallo Studio Ambrosetti a Cernobbio sul lago di Como. Era la solita proposta capestro per umiliare la politica e l’imprenditore Berlusconi – si era ormai nel 1994 – l’unico del mondo industriale a non essersi mai piegato, mentre la Confindustria di Luigi Abete aveva dato subito il proprio consenso.

Il ceto politico seppe allora ribellarsi, il mondo era cambiato e nessuno, compreso il Presidente Scalfaro, accettò quello stravolgimento della Costituzione che si sarebbe avverato se l’ordine giudiziario si fosse impadronito del potere legislativo. Velenoso fu in quei giorni il pm Gherardo Colombo, mentre molti politici avevano accusato la proposta dei magistrati di voler creare un mondo di ”pentiti”. “Non vorrei – aveva sibilato – che chiamare delatore chi fa il suo dovere svelando la corruzione sottintendesse la convinzione che rubare ai cittadini non è così grave”. Ipse dixit. Ieri come oggi.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Colombo ha avuto grande onestà intellettuale". Mani Pulite, il racconto di Giulio Di Donato: “Sconti ai politici, a me fu chiesto di convincere Craxi a consegnarsi”. Aldo Torchiaro su Il riformista l’8 Aprile 2023

Le rivelazioni che Gherardo Colombo, ex pm del pool Mani Pulite, ha fatto a Enzo Carra fanno discutere. Alcuni magistrati avrebbero offerto un salvacondotto ai loro inquisiti, a cui avrebbero promesso l’immunità penale in cambio di informazioni e di qualcosa di più: della promessa di “uscire dalla vita pubblica”. Da Gherardo Colombo, che d’altronde lo ha scritto nero su bianco, nessuna smentita. Arrivano invece le conferme. I protagonisti di quegli anni iniziano a parlare, a ricordare le irricevibili proposte che alcuni magistrati gli formulavano. «Pentitevi e saltate un turno dalla politica, avrete la fedina penale pulita»: Giulio Di Donato, a lungo parlamentare socialista e oggi presidente dell’associazione Socialismo Oggi, conferma nella sostanza quella che definisce “una prassi, una offerta regolare”.

E sottoscrive le parole di Gherardo Colombo, «cui va dato atto di una grande onestà intellettuale. Ha capito gli errori e anche gli orrori di una inchiesta che ha sommerso di fango la storia del Paese, e ha iniziato a scavare nel fango per rimettere qualche cosa a posto». Di Donato, napoletano, è stato l’ultimo vice segretario del Psi di Bettino Craxi, dal 1990 al 1992. Ed in quanto tale è rientrato in una trentina di procedimenti per un totale di 44 capi di imputazione. A Milano lo chiamarono in causa per una questione di sponsorizzazioni al Festival de L’Avanti. «Mi dissero che lo sapevano, che io non ne sapevo niente. Ma che da vice segretario del partito avevo delle responsabilità. E giù ore a interrogarmi, certe sere fi no allo sfi nimento». I modi sono quelli che solo l’eloquenza di Antonio Di Pietro ha saputo restituire fedelmente: “Io a quello lo sfascio”, disse di Silvio Berlusconi. I primi arrestati confessavano, denunciavano il denunciabile. Poi il clima cambiò, e mutò lo scenario.

Prima c’era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori… ma la situazione si è modifi cata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fi no a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». A quelli che consegnavano la propria carriera politica, annunciando pubblicamente di uscire dalle istituzioni, dai partiti, dalla pubblica amministrazione “almeno provvisoriamente”, come scrive Colombo, si iniziavano a fare sconti anche molto importanti. Perdonando alla fi ne anche tutto. Giulio Di Donato rievoca quegli anni e un episodio in particolare. Finisce un interrogatorio – siamo nel 1994 – e gli sequestrano il passaporto. Così, per fargli capire che non può lasciare il Paese, sospeso in quel limbo tra attesa di giudizio e attesa di giustizia in cui vengono messi a rosolare, ogni anno, mezzo milione di italiani.

Poi successe una cosa strana: l’allora Pm di Milano, Francesco Greco, mi fece chiamare in via informale. Disse ai miei legali di voler fare una chiacchierata amichevole con me. Ero a Napoli, presi il treno con i miei legali, Greco mi incontrò nel suo ufficio senza più usare i toni dei due anni precedenti. Un pacchetto di sigarette aperto sul tavolo richiama la sua attenzione: erano Gitanes senza filtro”. Che strano, proprio le sigarette abituali di Di Donato. Una coincidenza. E quando l’ex numero due di Craxi si siede, voilà, dal primo cassetto del Pm Greco ecco che salta fuori il passaporto di Di Donato. “Eccolo, glielo volevo riconsegnare io stesso”, gli dice il magistrato. Quanta premura. E gli allunga l’accendino. Si parla di politica, di famiglia. “Pensa di fare un viaggio, adesso che può?”, gli chiede l’inquirente. E l’esponente socialista: “Non so ancora, non ci ho pensato. E a dire la verità non ricordavo neanche di non avere il passaporto”.

Allora mi permetta di darle un suggerimento”, incalza Greco. “Perché non va ad Hammamet a trovare Bettino Craxi? Lei ci parla, gli fa capire che faremo un giusto processo, che la cosa migliore è farsi vedere in aula, e se lo convince a tornare in Italia gliene saremo tutti grati”. Non serviva aggiungere altro. Di Donato ha intuito il senso, l’obiettivo delle cortesie riservategli. E ha capito che i magistrati hanno nel mirino Bettino Craxi, “il Cinghialone”. Vogliono il trofeo di caccia da esporre. Varrebbe oro, quel trofeo. Di Donato quel viaggio lo farà, andando a salutare il leader socialista in esilio, ma si guarderà bene dal farsi messaggero delle Procure.

Né rivedrà quel Pm, al ritorno. «Una cosa però me la faccia aggiungere: c’era un disegno politico ben preciso, nell’operazione Mani Pulite. Non è vero che si voleva colpire tutta la politica. Si voleva colpire il Pentapartito, che rappresentava il nodo di potere stabile del nostro sistema politico. Si indagarono con particolare pervicacia quelli vicini a Forlani e a Andreotti, nella Dc, risparmiando quasi del tutto la sinistra democristiana. Si indagò con il microscopio fi n nelle piccole federazioni provinciali del Psi. Da noi misero a soqquadro tutto, ripetutamente». Un capitolo a parte riguarda Berlusconi. «Le Procure guardavano con simpatia a Berlusconi che ne ossequiava il lavoro con i suoi inviati di Mediaset a documentare il lavoro febbrile al Palazzo di giustizia di Milano. Nel 1994, quando entra lui in politica, sconfi ggendo Occhetto, ecco che le Procure dirigono tutte le indagini su di lui. All’improvviso. Dimostrando una regìa politica che dirigeva senza esitazioni le sue armi sul nemico di volta in volta da abbattere».

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Tangentopoli fu un colpo di Stato, la rivelazione del Pm Colombo del pool di Mani Pulite. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2023

Gherardo Colombo, l’ex Pm che è stato nei primi anni novanta uno dei cinque grandi protagonisti dell‘inchiesta “Mani Pulite” – quella che rase al suolo la prima Repubblica – ha scritto una introduzione al libro di Enzo Carra (uscito postumo in libreria in questi giorni) nella quale ci svela un aspetto finora sconosciuto di quella stagione. Sconosciuto e sconvolgente. Ci dice che nel luglio del 1992, quando le indagini erano ancora alle prime battute, fu suggerito ai politici di confessare i propri delitti e di uscire dalla vita pubblica in cambio dell’impunità.

Colombo dice esattamente che se i politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto “a che fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta Stato-Tangentopoli . Ovviamente del tutto illegale. Dal punto di vista del codice penale, se Colombo racconta il vero, il pool commise un reato piuttosto serio. Violò l’articolo 338 che punisce severamente la “minaccia a corpo politico”. Nella sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parta di singoli politici, o di imputati: parla di “politica”, al singolare, cioè si riferisce esattamente del “soggetto collettivo” al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la minaccia del carcere. L’articolo 338 del codice penale prevede pene fino a sette anni di reclusione. Ovviamente i reati sono caduti in prescrizione, però resta la ferita allo Stato.

Se davvero la procura di Milano chiese a quella che allora era la classe dirigente, legittimamente eletta, di farsi da parte, minacciando altrimenti l’arresto e il carcere, compì un atto che è difficile non considerare un vero e proprio colpo di Stato. Non in senso metaforico, simbolico: nel senso pieno e letterale della parola. L’accordo non ci fu. La politica si dimostrò migliore della magistratura. Il ricatto non funzionò. E però la Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano – sempre se è vero quello che dice il dottor Colombo – fu comunque portato avanti, con gli arresti sistematici, con l’aggiramento del Gip, con i mandati di cattura a rate, col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni o con nuovi mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi. Ed eliminò dalla scena tutta la classe politica di governo, più o meno come succedeva spesso in America Latina.

Naturalmente dal punto di vista strettamente politico, le ammissioni di Colombo non cambiano niente. La prima repubblica è morta sotto le picconate della procura di Milano e poi di altre procure. Nessuno la risusciterà. La democrazia cristiana non esiste più, non esiste più il vecchio e glorioso partito socialista, non esiste il Psdi, né il Pri, né i il partito liberale. Però è importante ricostruire quegli avvenimenti. Sapere che almeno una parte della magistratura si mosse violando in modo clamoroso la legalità. Ed è importante accertare come nella storia della repubblica c’è stata una rottura determinata non dal normale svolgimento democratico ma da un Putsch.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il tentato golpe nel 1992. Cosa ha rivelato Gherardo Colombo su Tangentopoli, il ricatto dei Pm ai politici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Aprile 2023

Un tentato golpe nel 1992 tentò di rovesciare la democrazia. A denunciarlo oggi è Enzo Carra. Sì, perché Enzo Carra parla. Parla ancora. A tutti. L’oscenità delle manette con cui lo volevano umiliare non lo ha messo a tacere. È morto lo scorso 2 febbraio, l’ultimo portavoce della Democrazia Cristiana. Ma poco prima di morire ha affidato all’amico Vincenzo Scotti, patron della Link Campus e della casa editrice Eurilink, un testo. Un manoscritto denso di rivelazioni, informazioni, ricostruzioni. Un memoriale inestimabile, soprattutto perché costruisce un terreno di confronto con la controparte – i magistrati della Procura di Milano – che ci permette di leggere anche i disegni dei Pm senza più tanti filtri. Senza infingimenti.

L’Ultima Repubblica – è il titolo che ha dato Carra – ricorda tutto, con una lucidità puntuale. E per puntellare il suo racconto di quel periodo di legalità sospesa ha invitato a dialogare uno dei suoi accusatori. Una figura sui generis: quella di Gherardo Colombo. Integrato nel gruppo di punta e dunque tra i Pm più direttamente coinvolti nel clamoroso arresto di Carra, Colombo è stato anche tra i pochi protagonisti di quegli anni a saperli rileggere con sguardo critico. Fu senz’altro sua una delle firme che condussero dietro le sbarre l’allora portavoce di Arnaldo Forlani, appunto Enzo Carra, a nome del pool milanese di Mani Pulite il 19 febbraio 1993. Bisognava celebrare il primo anniversario di Tangentopoli. Ci voleva più di un brindisi. Un brindisi “col botto”. Fu allora che la storia di quell’inchiesta assunse i contorni di qualcosa d’altro. Di più oscuro. Ed è lo stesso Gherardo Colombo a rivelarlo. A scriverlo. Rispondendo al dialogo con Carra, l’ex Pm rievoca gli eventi di quei giorni di Mani Pulite, gli errori e gli eccessi.

Quello in epigrafe: quando il colto, acuto, placido Carra venne arrestato (e ammanettato, come se fosse socialmente pericoloso e aggressivo) per essere mostrato come un trofeo di caccia davanti allo sguardo famelico delle telecamere. Un arresto insostenibile, gratuito. Come quello di molte altre vittime di quella furia giacobina. Che si può meglio interpretare con una dichiarazione disarmante di Gherardo Colombo, che nella sua introduzione squarcia il velo sul segreto dell’operazione Mani Pulite: “Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi di quegli eventi) della nomina di Martinazzoli, la politica avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale”. Lette queste parole, abbiamo chiuso gli occhi e inspirato. Poi abbiamo riletto: e sì, è tutto vero. A pagina 13 del libro di Enzo Carra il giornalista fa dire a Colombo come funzionava il meccanismo del golpe. Lo spinge ad un controinterrogatorio gentile che lo porta ad ammettere.

Veniamo a sapere che il meccanismo dello scambio – come lo definisce lo stesso Colombo – funzionava con il do ut des tra due poteri: gli eletti che avessero ricostruito notizie eventualmente possedute e avessero fatto oltre alla delazione anche un’abiura, disconoscendo il proprio mandato democratico e accettando di dimettersi “temporaneamente” (sic) nelle mani del potere giudiziario, avrebbero ricevuto dai Pm di Mani Pulite un salvacondotto capace di farli attraversare indenni l’Acheronte di Tangentopoli. Nessun problema avrebbero più avuto con la giustizia coloro i quali avessero accettato di “abdicare” alla vita pubblica. E che cos’è, la vita pubblica, se non la partecipazione democratica, il confronto elettorale, il dibattito culturale che secondo la Costituzione viene organizzato con il mezzo principale di quei pilastri della democrazia che sono i partiti? I sospetti tratteggiati nei discorsi di Bettino Craxi e nelle lettere di alcuni dei condannati a morte dal pool parlano chiaro. “Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”, scriveva Sergio Moroni all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, prima di spararsi.

Ne L’Ultima Repubblica quei fantasmi prendono forma, assumono le sembianze umane di quel pool che abbiamo imparato a conoscere bene. Come a dover aderire a un disegno sinistro, i Pm provano a buttare giù un sistema, un architrave democratico composto di partiti. Di scuole politiche. Colombo prova poi, nel testo, a rifiutare la responsabilità della storia: “I partiti sono morti da soli”, glossa a pagina 13. Poi ci torna a pagina 17: “Abbiamo pensato che la fine dei partiti italiani, avvenuta tra il 1993 e il 1994, sia stata una condanna della storia e non dei tribunali. Abbiamo pensato che la cancellazione del nostro quadro politico, creatura della guerra fredda, fosse la conseguenza positiva dello spegnersi di un lungo dopoguerra. Sì, certo, c’era stata anche la Grande Inchiesta a rendere impresentabili partiti corrotti o addirittura covi di personaggi dediti a pratiche previste come reati dalla legge italiana. ‘Finalmente ce ne siamo liberati’, gli italiani salutarono così l’insperato addio dei partiti”. Ci sarebbe da fare un’analisi filologica attenta, su tutto il passaggio di Colombo: “la politica”, sempre tra virgolette, a sminuirla.

La cancellazione del quadro politico definita solo come “positiva”. La Grande Inchiesta con le iniziali maiuscole, a sottolinearne la sacralità. Torniamo a Carra: il talento giornalistico, il fiuto politico, l’umanità profonda dell’ultimo portavoce della prima repubblica – da qui L’Ultima Repubblica – tornano a far parlare i suoi amici, riuniti per un ennesimo saluto fatto di idee e di rinnovate intese. Al primo evento di presentazione del libro, ospitato lunedì scorso dalla Lumsa a Roma, a moderare c’erano i due più grandi confidenti di Carra, i giornalisti Paolo Franchi e Stefano Folli. Riformista il primo, repubblicano il secondo. Sono loro a rievocare gli anni in cui il potere politico dovette cedere l’egemonia al potere giudiziario. Davanti agli occhi lucidi del giovane Giorgio Carra, che ha assistito suo padre nel portare a termine questo suo memoriale, sfilano i ricordi di un pezzo di storia. Vincenzo Scotti “quasi commuove”, come chiosa Franchi.

In prima fila, Mario Segni e Luigi Zanda. Dietro di loro c’è Flavia Piccoli Nardelli, appena nominata a capo dell’Associazione delle istituzioni culturali italiane, accanto a Michele Anzaldi (Iv). Uomini e donne che hanno contribuito con senso dello stato a costruire quell’ossatura della democrazia, i partiti politici, le istituzioni democratiche, che qualcuno forse avrebbe preferito vedere morte. “I corpi intermedi… esisteranno ancora i corpi intermedi?”, si chiede Gherardo Colombo a pagina 18 dell’introduzione. “Chissà che non si arrivi a una forma assai più diretta di democrazia o all’affermazione di una forma di dittatura della massa, sulla falsariga di quel che accadeva ai tempi di Ponzio Pilato”. Per ora, il potere è nelle mani degli elettori. Il pool non colpisce più. E non c’è più Enzo Carra, ma rimangono le sue parole a illuminarci: il golpe armato di toga e maglietto ha disarcionato una classe dirigente e l’ha provata a sostituire con populisti e giustizialisti. Prenderne atto è essenziale per farsi gli anticorpi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Gherardo Colombo.

Gherardo Colombo: «Da ragazzino mi bocciarono due volte. Agli inizi della mia carriera giravo con un revolver». Luca Mastrantonio su il Corriere della Sera il 23 febbraio 2023

L’ex magistrato, 76 anni: «Prima di Mani Pulite ero un milanista accanito, poi mi sono calmato»

Nel salotto della casa milanese di Gherardo Colombo, un golden retriever (Luce) ci osserva dal divano, la testa poggiata sul bracciolo coperto da un lindo fazzoletto bianco. Colombo ha l’aria di aver finito da poco un esercizio di fatica domestica (un rubinetto da sistemare). L’occasione del nostro incontro è l’uscita del nuovo libro Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Garzanti).

Lei è classe 1946, brianzolo, mamma casalinga, papà medico. Primo ricordo?

«La scossa di corrente elettrica, per le dita in una presa elettrica. Da lì sono venuti i capelli ricci... (ride). Ero piccolo e sperimentavo. I miei non si arrabbiavano, erano accoglienti».

A scuola come andava?

«Bocciato in seconda media e quarta ginnasio, ho recuperato l’anno in entrambe le occasioni. Avevo difficoltà a entrare in relazione con gli altri. Ero obeso... Finalmente al liceo ho capito che la libertà passa per lo studio. Poi scelsi Giurisprudenza...».

Si immaginava già giudice?

«Mio padre faceva il medico generico, girava di giorno e di notte, curava, faceva partorire. Volevo essere utile come lo era lui, e a mio parere verificare il rispetto delle regole lo era. A differenza del medico non avrei dovuto mettere le mani sulle persone. L’alternativa era Fisica, mi piace capire il perché dei fenomeni».

Nella Giustizia ha individuato qualche legge fisica?

«Non è una legge fisica, ma poco ci manca. L’importanza dell’ambiente nelle scelte che le persone fanno anche nel campo della trasgressione. Sa, la storia in cui l’imputato è davanti al giudice, chiuso nel posto degli imputati e dice: “Signor giudice, se lei fosse nato dove sono nato io e io dove è nato lei, qui ci starebbe lei e io sarei lì”. Una regola che soffre poche eccezioni».

Ci sono ambienti in cui uno sceglie di stare. La P2. Cosa ricorda di quando nel 1981 con Giuliano Turone scopriste le liste di Licio Gelli?

«Stupore e indignazione. C’erano i capi dei servizi segreti, c’era chi aveva inquinato le indagini sulle stragi, ministri, imprenditori, giornalisti, magistrati, la catena di comando del Corriere della Sera ... C’erano buste sigillate che contenevano inquietanti notizie di reato...».

Quale fu la prima reazione?

«Preoccupazione, che i servizi segreti potessero venire a riprendersi le carte. Fotocopiare 5 mila fogli era impossibile, allora incominciammo a selezionare, fotocopiarne le più importanti, descriverle accuratamente, nasconderle in un fascicolo che riguardava altre indagini».

Lei agli inizi della sua carriera girava armato.

«Qualche volta mi capitava di portare la pistola. Il 19 marzo 1980 venne ucciso Guido Galli, con cui lavoravo. E nei gironi immediatamente precedenti erano stati ammazzati altri due giudici. Prima linea rivendicò l’omicidio di Guido. Alcuni colleghi scapparono nei Paesi di origine. Io sono rimasto, ma per una settimana ho dormito fuori casa, finché la mia moglie di allora mi ha aiutato a riprendermi. Ma ogni volta che mi fermavo con la moto ad un semaforo e qualcuno attraversava dietro, mi aspettavo il colpo. Nonostante le armi non mi siano mai piaciute mi sono obbligato ad andare in armeria, ma a comperare una pistola non ce l’ho fatta. Ci ho sono tornato un’altra volta, niente. Alla terza volta mi sono costretto ed ho preso un revolver».

Cos’ha provato?

«Quando mi sembrava d’essere più esposto dava una sensazione di sicurezza. Ma è irrazionale. Un antidoto, un’esorcizzazione della paura e basta. L’anno dopo, scoperta la P2, m’hanno assegnato la scorta, e l’arma l’ho messa in cassaforte, in ufficio. Dimessomi dalla magistratura nel 2007, l’ho consegnata in Questura chiedendo venisse distrutta. Non volevo che qualcuno usasse contro qualcun altro l’arma che era stata mia».

Molto cauto. Lei si è mai sentito tradito da qualcuno?

«Durante Mani Pulite avevamo scoperto un grande giro di corruzione nella Guardia di finanza di Milano, un corpo con cui avevo lavorato tanto e bene. Un imprenditore, interrogato, coinvolse un colonnello con cui avevo lavorato e di cui mi fidavo, temevo potesse fare un gesto estremo. La lettera che Sergio Moroni aveva scritto decidendo di suicidarsi mi aveva colpito profondamente, per cui ho disposto che, una volta arrestato, il colonnello venisse portato subito da me per l’interrogatorio, per evitare che potesse compiere atti insani, precisando che lo avrei atteso fino al giorno dopo. Arrivò alle 4 di notte e mentre aspettavamo il suo avvocato mi chiese: “Dottore mi dice lei cosa fare? Patteggio la pena? Dico che sono innocente o confesso? Mi dica lei...” Mi sono stupito, pensavo fosse disperato, non era nemmeno imbarazzato».

Lei non si arrabbia mai?

«Con le parole reagisco al momento, se percepisco un’ingiustizia. Ma conto fino a dieci e non vado oltre. Comunque mi arrabbio».

L’ultima volta?

«L’altro giorno, attraversavo sulle strisce pedonali con Luce, un’auto quasi ci ha investito. Che caspita!»

Ha urlato «che caspita»?

«Purtroppo a volte mi scappa anche qualche parola “turpe”».

Difficile immaginarla.

«Allo stadio, fino agli anni '90, ero un tifoso accanito del Milan».

Smise durante Mani Pulite?

«È che allo stadio qualche volta mi lasciavo coinvolgere, e magari dietro di me qualcuno non la prendeva bene».

È restato tifoso?

«Sì, ormai all’acqua di rose. Mi ha fatto ricordare che quando interrogammo Adriano Galliani, ad del Milan, sul caso di Lentini, per il possibile falso in bilancio, lui a un certo punto, vedendo che eravamo Davigo, Di Pietro ed io disse: “Addirittura in tre per questa vicenda?”. E Davigo: “Sa, l’indagine l’ha fatta Colombo, ma siccome è milanista non ci fidiamo tanto”. Era ovviamente una battuta, ma Piercamillo non sa resistere».

Nel 2022, a 30 anni da Mani Pulite, ha fatto un incontro pubblico con Sergio Cusani, che fu condannato.

«Ci conoscevamo anche prima della vicenda. Ci vediamo con una certa frequenza, ci sentiamo spesso».

Sente più Cusani dei suoi ex colleghi del pool?

«Sicuramente. Con una certa costanza vedo e sento Piercamillo Davigo, abbiamo un rapporto di amicizia. Però sento più frequentemente Sergio Cusani, del quale pure sono amico».

Un colpevole redento le dà più soddisfazione?

«Non è questione di soddisfazione, è questione del riconoscersi, di riconoscere le persone, distinguere le persone dai loro atti. E magari considerare, cosa che vale particolarmente per Sergio, il percorso che hanno fatto».

Antonio Di Pietro.

Antonio Di Pietro, Vittorio Feltri: "I 3 cadaveri dietro al muro. Diede la notizia a me..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 agosto 2023

Ho conosciuto Antonio Di Pietro nel 1983: io ero direttore di “Bergamo Oggi”, lui era Sostituto Procuratore nella mia città. Di Pietro è sempre stato un personaggio. Di origini molisane, è nato a Montenero di Bisaccia, ha modi abbastanza burini ed è arrivato alla magistratura dopo una disparata serie di lavori: è stato operaio in una segheria, lucidatore in un’azienda metalmeccanica in Germania. Infine, dopo la laurea in Giurisprudenza, è stato commissario di Polizia e poi responsabile di un distretto alla Questura di Milano. Insomma, Di Pietro è arrivato a Palazzo di giustizia a forza di braccia, facendo uno a uno tutti gli scalini. Forse per questo, in un ambiente snob come quello delle toghe, i colleghi lo detestavano, sostenevano che fosse inadeguato. Ma si sbagliavano. Mi sono detto: «Io divento suo amico».

Lui era stato abbandonato da tutti e in me aveva trovato una sponda, un giornalista che lo prendeva in considerazione, così ha cominciato a darmi notizie interessanti. Ricordo un fatto di cronaca eclatante, a quarant’anni di distanza ancora se lo ricordano tutti: il caso del mostro di Leffe, un piccolo Comune bergamasco della Val Seriana. Un bancario del paese, Giovanni Bergamaschi, aveva ucciso la suocera, la moglie e la figlia.

La suocera, Annunciata Brignoli, l’aveva ammazzata nel 1978 e l’aveva sepolta sul Monte Croce, mentre tre anni dopo era toccato alla moglie Giannina Pezzoli e alla figlia Aurora di quattro anni, che poi l’uomo aveva murato dietro una parete eretta appositamente nel sottoscala di casa. Bergamaschi se n’era poi andato in Germania e per anni aveva inviato a casa cartoline falsificando la firma della moglie e della figlia, lasciando intendere che tutta la famiglia era emigrata e viveva là felicemente.

GLI OMICIDI - I tre omicidi furono scoperti solo il 13 febbraio del 1984: nel paese si parlava della vicenda, ma la popolazione era sospettosa, Annunciata Brignoli non si vedeva più da anni, era difficile ricostruire i fatti. Di Pietro seguì il caso e andò a perquisire la villetta della famiglia scomparsa: c’erano tracce di sangue sulla scala ma si accorse che le gocce si interrompevano nel sottoscala, che era stato murato. Notò subito che la parete era stata tirata su malamente, di fretta. Bussò e sentì che dietro suonava il vuoto. Gli agenti sfondarono a picconate la parete e trovarono due sacchi dell’immondizia, dentro i quali si trovavano i corpi della moglie e della figlia di Bergamaschi.

Di Pietro diede la notizia solo a me. Mandai un cronista a Leffe, ma al tempo in provincia non si era abituati a trattare fatti di questo rilievo, così quando tornò scrisse un pezzo, me lo portò e io mi accorsi che era un articolo breve, nel quale non dava valore alla vicenda: gli tirai dietro la mia Lettera 22 e mi misi a riscrivere di mio pugno la storia. Facemmo un titolone in prima pagina e il giorno successivo andammo in Val Seriana con i tir pieni di giornali, in edicola non se ne trovava più una copia: Bergamo è piccola, se capita qualche cosa nei paesi è come se succedesse in città e la provincia vibra subito per i fatti di sangue, perché le persone si conoscono o sanno per sentito dire, una notizia del genere chi non la legge?

Due settimane dopo mi chiamò Gian Antonio Stella, che era stato mio collega al Corriere della Sera: mi diede la notizia che stavano arrestando Bergamaschi a Roma, alla stazione Termini, mentre si recava a trovare il fratello, docente universitario. Lo scongiurai di scrivermi trenta righe, dovetti insistere perché lui lavorava ancora per il Corriere. Alla fine produsse le trenta righe che volevo e io le pubblicai: di nuovo fui l’unico a Bergamo ad aver pubblicato l’avvenuto arresto e, con mio sommo godimento, L’Eco di Bergamo bucò la notizia. Di nuovo vendemmo tutto il vendibile. Mi telefonò il direttore dell’Eco, monsignor Andrea Spada, e mi disse: «Te Vittorio, quando te ne vai fora da i bal? Te me fe diventà mat». Non ne poteva più di avermi al giornale concorrente.

Bergamaschi ammise tutto, fece ritrovare il corpo della suocera che aveva seppellito in montagna, confessò di aver ucciso la moglie perché lei aveva sospetti sulla morte della madre e di aver ucciso anche la figlia perché sarebbe stata testimone. Poi si era trasferito in Germania Est, dove era rimasto per oltre due anni. «Quel caso resta l’emblema delle indagini tradizionali», racconterà poi Di Pietro, «Oggi dominano gli algoritmi, allora invece era fondamentale l’intuito. Fu quella la chiave di tutto». L’ex bancario scontò dieci anni in un manicomio giudiziario, come persona «incapace di intendere e di volere».

La mia strada incrociò di nuovo quella di Di Pietro quando lui stava lavorando nel pool di Mani Pulite, era stato traferito alla Procura di Milano e io ero direttore dell’Indipendente. Mi fece chiamare da comuni amici di Bergamo e disse che avrebbe voluto rilasciarmi un’intervista. Mi precipitai al quarto piano del palazzo di Giustizia, era il 5 giugno del 1992: Tonino era già un eroe popolare, l’angelo sterminatore di Tangentopoli, un “marchio” il cui valore venne valutato, secondo Gavino Sanna, al tempo uno dei massimi esperti pubblicitari, dieci miliardi di lire.

TANGENTOPOLI - Di Pietro era adorato dall’opinione pubblica, tra scritte sui muri (“Forza Di Pietro”, “Signore, dacci un Di Pietro”), striscioni (“Di Pietro sei meglio di Pelé”) e poesie di Alda Merini (“Conosce benissimo Di Pietro/ le cose vinte dalla nostra Italia”). Era adorato pure dai giornalisti della cronaca giudiziaria milanese, che gli affibbiarono decine di soprannomi: “Belva”, “Zanzone”, “Padrepio”, “La Madonna”, “Dio”, “L’Onnipotente”.

Indro Montanelli diceva che Di Pietro era “uomo della provvidenza” e questa mansione il magistrato la svolgeva con gusto. Quando lo incontrai nel suo ufficio di via Freguglia, il pm lavorava in una stanza ingombra di faldoni, con una luce triste, da film neorealista. Viveva lì dieci, dodici ore al giorno. Davanti al suo tavolo c’erano due sedie, una era occupata da una pila di documenti. Mi sedetti. Mi raccontò come aveva preso l’avvio il procedimento: «Nulla di romanzesco», mi disse, «da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l’altro siamo andati lontano». Si lasciò andare sulle sue impressioni: «Mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, a me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l’indagine».

Da quel momento ebbi da Di Pietro tutte le notizie su Tangentopoli, navigammo sulla marea di sdegno che inondò quei due anni. L’inchiesta infuriava, mezza Milano tremava, tutti i politici italiani tremavano. Quel magistrato inviso ai colleghi era riuscito a fare in tre mesi ciò che a loro non era riuscito in quarant’anni. Alla fine litigammo perché aveva eseguito indagini su tutti i partiti e le uniche infruttuose erano state quelle sul Partito Comunista. «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure», si giustificò il magistrato, ma per me non bastava. Alcuni, fin troppi, di coloro che furono risucchiati dalle indagini non ressero alla pressione, oppure si videro senza scampo, e si uccisero. Ho sempre avuto l’impressione che a Di Pietro non importasse nulla, nonostante una volta abbia detto che la morte di Raul Gardini sia stata per lui una sconfitta terribile e che lo avrebbe potuto salvare. Raccontò infatti che la sera prima del suicidio i carabinieri lo chiamarono a casa, a Curno, per chiedergli se dovessero arrestarlo: «Dottore, che facciamo, lo prendiamo?».

Tonino però aveva dato la sua parola agli avvocati dell’imprenditore che non avrebbe fatto scattare le manette, a patto che Gardini la mattina seguente si fosse presentato in Procura spontaneamente. Quindi ai militari rispose di lasciar perdere. «Se l’avessi fatto arrestare subito», racconta Di Pietro, «sarebbe ancora qui con noi». Di Pietro si disse convinto che quello del finanziere fosse stato un «suicidio d’istinto, un moto d’impeto, non preordinato». Io sono invece dell’idea che Gardini non premette il grilletto all’improvviso, ma dopo aver covato il proposito per almeno 36 ore. Di Pietro avrà certamente fatto il suo mestiere secondo coscienza, ma al tempo si usava la galera come scorciatoia per arrivare in fretta a una confessione. Si rivelò un sistema spesso efficace. Ma la coercizione, in persone che non sono delinquenti abituati a passare attraverso le porte del carcere, può provocare disastri. E infatti ne ha provocati. 

Enzo Carra.

Quell’ “accanimento funerario” di Travaglio contro Enzo Carra...Carra è stato un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone o piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito? Francesco Damato su Il Dubbio il 6 febbraio 2023

In un prevedibile e perciò puntuale accanimento persino funerario – trattandosi di un morto – al Fatto Quotidiano non hanno gradito la generosità o l’ignoranza, o entrambe, di quanti scrivendo nei giorni scorsi di Enzo Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani alla segreteria della Dc, hanno scambiato per assoluzione la riabilitazione da lui ottenuta dal tribunale di sorveglianza di Roma il 26 marzo del 2004, una ventina d’anni fa..

Essa, in effetti, non annullò né capovolse la condanna definitiva ricevuta da Carra per false dichiarazioni nel 1995, a conferma della condanna in appello, dell’anno prima, a un anno e 4 mesi correttiva dei due anni comminatigli in primo grado, nel 1993, con la sospensione condizionale della pena. La riabilitazione si limitò a cancellare completamente dal casellario giudiziale gli effetti della condanna, a fargli riacquistare le capacità perdute e ad ottenere l’estinzione delle pene accessorie. Già nel 2001, del resto, Enzo era stato eletto deputato nelle liste della Margherita, confermato nel 2006, rieletto nel 2008 nelle liste del Pd, dove la Margherita di Francesco Rutelli era confluita.

Come ho già ricordato scrivendone dopo la morte, Enzo – nel frattempo uscito dal Pd per collocarsi più propriamente al centro con l’omonima Unione di ex o post-democristiani praticamente offertasi alle improvvise ambizioni politiche dell’allora presidente “tecnico” del Consiglio Mario Monti – sarebbe stato probabilmente rieletto ancora se non fosse incorso nel veto opposto dal senatore a vita alla candidatura di chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie negli anni di Tangentopoli, anche se riabilitato. Enzo si aspettava una difesa di Pier Ferdinando Casini che mancò. O non avvenne con la convinzione, la forza e soprattutto il risultato ch’egli si aspettava.

Oltre a contestare il Carra “assolto” e “innocente” di troppi articoli scritti in sua memoria, al Fatto Quotidiano hanno voluto riassumerne almeno il primo processo: quello al quale l’imputato fu portato con gli schiavettoni ai polsi contestati persino da Antonio Di Pietro, che lo prelevò personalmente dalla gabbia per portarselo accanto a mani libere. «Nel 1993 – ha raccontato testualmente il giornale ancora convinto, temo per altri passaggi del pezzo, della opportunità di quegli schiavettoni – Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 del codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima».

Sembra di capire, insomma, che Carra fosse stato arrestato e persino portato con gli schiavettoni al processo, attraversando così i corridoi del tribunale di Milano, anche per onorare la memoria di Falcone, trucidato l’anno prima con la moglie e quasi tutta la scorta a Capaci. Poiché non dispongo – lo confesso senza vergogna o disagio – degli archivi del Fatto Quotidiano e della memoria specialistica di quanti vi scrivono, mi sono limitato a navigare per qualche minuto in internet ed ho trovato di quella vicenda giudiziaria una cronaca dell’insospettabile Repubblica. Che faceva parte del giro dei giornali di cui l’amico Piero Sansonetti, allora all’Unità, ha onestamente raccontato che si scambiavano informazioni e titoli su Mani pulite per uscire all’unisono a favore degli inquirenti e contro gli imputati.

Ecco il racconto di Repubblica: «Processo in tempi rapidi per l’ex portavoce di Arnaldo Forlani. Enzo Carra, l’unico imputato di Tangentopoli arrestato con l’accusa di aver mentito davanti al pubblico ministero (il dottor Di Pietro), entrerà in aula giovedì mattina. L’udienza, per direttissima, è stata fissata davanti alla prima sezione penale e, quasi certamente, sfileranno testimoni d’accusa d’eccezione, come i democristiani Graziano Moro, ex presidente dell’Eni Ambiente, e Maurizio Prada, “raccoglitore” delle mazzette per lo Scudocrociato a Milano da più di dieci anni. L’arresto di Carra era scattato quando Moro era insorto: “Voi lo sapevate benissimo, delle tangenti per l‘affare Enimont”, aveva detto al forlaniano doc. Ma se quel “voi” indicasse la corrente o la Dc nazionale, non si è mai appreso con certezza. Gli avvocati di Carra, che è in carcere da oltre dieci giorni, hanno annunciato che rinunceranno a chiedere “i termini a difesa” per consentire l’immediata celebrazione del processo». 

Da questa cronaca giudiziaria, ripeto, dell’insospettabile Repubblica non risulta il Carra del Fatto Quotidiano che si procura l’arresto con non so quante versioni delle rivelazioni attribuitegli da Graziano Moro, peraltro collega di partito. Nei cui riguardi, peraltro, nella sentenza d’appello si riconosce al pur condannato Carra “un raro senso della dignità” non avendo mai rinnegato, anzi confermando sentimenti di amicizia. Vi sembra questo Carra del 1993 un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone? O non piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito?

La guerra di Travaglio non finisce mai: si accanisce su Carra. Il direttore del "Fatto" più manettaro dei pm. Nessuna pietà per l'ex dc persino da morto. Marco Gervasoni su Il Giornale il 5 febbraio 2023

Leo Longanesi amava dire che in Italia le rivoluzioni cominciamo in piazza ma finiscono a tavola ma forse l'animo degli italiani non è così benevolo come credeva il grande romagnolo. Al contrario, essi tendono a non dimenticare e a riprodurre quasi in eterno le loro piccole guerre civili. Niente pietà, anche per i vecchi protagonisti che, quando defungono, continuano a essere trattati senza alcuna misericordia e soprattutto senza alcuna distanza. Forse la premessa è troppo aulica per parlare di Marco Travaglio ma calza a pennello per il suo ricordo di Enzo Carra, il giornalista ed ex parlamentare scomparso il 2 febbraio, pubblicato sul Fatto quotidiano di ieri.

Per Travaglio, come per la «signora» di Loredana Berté in una famosa canzone di Ivano Fossati, «la guerra non è mai finita». Anzi, i nemici, i corrotti, spuntano da ogni dove e dopo trent'anni siamo punto daccapo perché la rivoluzione giudiziaria non è andata fino in fondo, la ghigliottina non ha lavorato abbastanza e i «contro rivoluzionari» hanno rialzato la testa. Per questo, non bisogna avere pietà alcuna, né verso i reduci vivi, né tanto meno per i morti. Così Carra, giornalista, portavoce di Forlani, arrestato da Di Pietro nel 1993 e esposto in manette, può ben essere definito una delle tante vittime di Tangentopoli. E non solo per quel trattamento da gogna. Come ricorda Gherardo Colombo, autore della introduzione all'ultimo libro di Carra, Ultima repubblica (Eurilink University press) le cui bozze sono state consegnate pochi giorni prima della morte, il pool di Mani pulite poteva evitare di incarcerarlo. Colombo, pubblico ministero di quel gruppo, negli anni successivi era diventato amico di colui che aveva fatto arrestare. E oggi, su quella vicenda di Tangentopoli, ha uno sguardo lucido. «Anche la magistratura (meglio, qualche magistrato)», scrive Colombo, «anche inconsapevolmente ha dato allora una mano a scaricare sulla sua categoria responsabilità non sue», cioè è stato tentato di svolgere un ruolo politico. Ma Travaglio, no, resta tetragono nelle sue certezze di allora e inneggia ancora e sempre al Di Pietro, alle manette, contro un Carra defunto, che per lui resterà in eterno corrotto. Carra ebbe una seconda vita: fu parlamentare della Margherita e poi del Pd. Ma per Travaglio questo non fu un merito; anzi, lascia intendere, fu piuttosto un premio elargito tra politici conniventi. E quindi niente, ecco cancellata tutta la vita successiva all'arresto, ecco Carra fotografato in eterno con gli schiavettoni, con le manette, che per Travaglio era giusto si stringessero ai suoi polsi. Non serve che Carra sia stato un fine giornalista, prima e dopo l'arresto, se abbia scritto dei libri, se sia stato in definitiva una persona, resta il simbolo della santità della rivoluzione giudiziaria: il politico ai ceppi, il massimo dell'orgasmo. Capirà il lettore che quando noi garantisti parliamo di «manettari», non è quindi un linguaggio figurato. Colpisce un altro aspetto nel ritratto al veleno di Travaglio, un termine che appare alla fine, l'evocazione della «giustizia di classe». Carra, spiega il direttore del Fatto quotidiano, si meritava le catene perché in catene finiscono anche i normali arrestati, i poveracci. Invece di essere coerente, e di scrivere che gli schiavettoni erano e sono umilianti, e quindi chiederne un uso moderato, Travaglio lancia il suo slogan: manette per tutti, che siate tossici o politici, imprenditori o clandestini, finanzieri o ladruncoli da strada. Tutti in manette, tutti in galera, come da tormentone di Giorgio Bracardi. In galera anche i defunti e, non potendoli più tenere in cella, almeno incarcerare la loro memoria.

Enzo Carra e la toccante celebrazione del suo funerale. Il racconto di Anzaldi. Di Michele Anzaldi il 05/02/2023 su Cultura/formiche.net.

I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori. Lettera di Michele Anzaldi sui funerali di Enzo Carra

Mortui non mordent” (un uomo morto non fa più la guerra). Mai come in quest’occasione si è rivelato appropriato il proverbio latino. Oggi, sul Giornale di Augusto Minzolini, Marco Gervasoni risponde al fondo infamante – non dimentichiamo la tempistica – pubblicato ieri dal Fatto quotidiano giornata dei funerali di Enzo Carra.

Tralasciando gli aspetti umani e il rispetto del dolore dei suoi cari e delle persone amiche, per capirne l’inappropriatezza e infondatezza invito a leggere Gervasoni. O forse sarebbe meglio leggere l’ultimo libro scritto da Carra (l’ok alla pubblicazione è stato dato dal letto dell’ospedale Gemelli), uscito proprio in queste ore col il titolo “Ultima Repubblica”, edito da Eurilink University Press.

A dimostrazione di come è stata superata e rivalutata la vicenda rievocata in maniera inutilmente polemica da Travaglio, il libro si apre con un dialogo tra Carra e proprio uno dei magistrati del pool di Mani pulite, Gherardo Colombo, conseguenza di un rapporto che si è creato e consolidato dopo la il dibattito nato anche dalla famosa foto degli schiavettoni.

Ma lasciando da parte queste risposte giornalistiche, rimane il dolore per la perdita inaspettata di Carra.

E allora vorrei pubblicamente fare i complimenti alla moglie, la signora Olga, e al figlio Giorgio per il toccante funerale che si è svolto nonostante la situazione: la moglie costretta su una sedia a rotelle per la frattura di femore e anca, ricoverata a Torino e giunta a Roma di notte appena in tempo per l’ultimo saluto; il figlio colpito non solo dal dolore ma anche dalla burocrazia funeraria. La bellissima chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, progettata da Lorenzo Bernini, grazie alla pianta ellittica ha trasmesso ai tanti partecipanti la sensazione di vicinanza o addirittura di una riunione di redazione, come le tante presenziate da Carra nella sua lunga carriera giornalistica. Un ringraziamento al parroco Alessandro Manaresi, che nell’erudirci sulla bellezza della chiesa museo e dell’eccezionalità di celebrare un funerale in quel luogo, ha spiegato che ciò era possibile perché era il luogo abituale di incontro e di confronto tra lui ed Enzo.

Una celebrazione bella e toccante, che a causa della grande partecipazione ha dovuto limitare gli interventi solo a tre. Il primo fatto dal giornalista Francesco Giorgino, in rappresentanza dei numerosi allievi giornalisti cresciuti in redazione con Enzo. Il secondo in rappresentanza dei colleghi giornalisti fatto da Paolo Franchi. L’ultimo, il più toccante, dell’artista, cantautore, poeta, intellettuale e tanto altro David Riondino, che letteralmente ha rapito tutti recitando una poesia di Antonio Machado, Retrato, da “Campos de Castilla”.

Poesia molto bella e toccante che nella parte finale dice: “Al mio lavoro adempio con i miei soldi, pago l’abito che mi copre e la dimora che abito, il pane che mi nutre e il letto dove giaccio. E quando giungerà il dì dell’ultimo viaggio, e salperà la nave che non ritorna mai, mi troverete a bordo leggero di bagaglio, quasi svestito, come i figli del mare”.

Caro Giorgio, devi essere orgoglioso di tuo padre e dell’ultimo saluto che sei riuscito a organizzare.

Anzi mi permetto di proporti, alla luce di certe miserie, di rendere pubblico il “Libro delle Condoglianze”. Non avevo mai visto una partecipazione così ampia di grandi giornalisti, direttori, opinionisti, editorialisti di sinistra e di destra, politici, rappresentanti delle più alte istituzioni e belle e oneste persone normali.

È stato veramente un bel funerale, tutti in semi cerchio intorno a quell’inaspettata bara. “I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori.

Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano Pubblicato il 4 Febbraio 2023 

La scomparsa di Enzo Carra a 79 anni e i coccodrilli della stampa italiana che lo dipinge come un martire della malagiustizia, addirittura un “assolto”, sono un’ottima cartina al tornasole del “Paese di Sottosopra” (Giorgio Bocca). Nel 1993 Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 bis del Codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima.

Il mattino dell’udienza viene tradotto dal carcere al tribunale in fila con altri 50 detenuti, tutti ammanettati e legati a una catena: i famosi “schiavettoni”, previsti dalla legge (voluta tre mesi prima dai socialisti) per evitare evasioni. L’aula è gremita e i carabinieri lo sistemano nella gabbia degli imputati. Di Pietro e Davigo lo fanno uscire e sedere accanto agli avvocati. Carra stringe la mano a Di Pietro e a Moro. Ma la sua foto in manette scatena la bagarre in Parlamento con urla e strepiti contro gli aguzzini di Mani Pulite: le manette si addicono agli imputati comuni, non ai signori. L’indomani alcuni detenuti del carcere di Asti scrivono alla Stampa: “Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Oggi ci siamo domandati quali differenze esistano fra noi e il signor Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà”. Carra viene condannato a 2 anni per false dichiarazioni al pm, poi ridotti in appello a 1 anno e 4 mesi per lo sconto del rito abbreviato e confermati in Cassazione. Il Tribunale ritiene che, avendo depistato le indagini sulla più grande tangente mai vista in Europa, “furono quantomai opportuni il suo arresto, la direttissima e la pena non confinata ai minimi di legge”. I giudici d’appello censurano il suo “poco apprezzabile sentimento di omertà”. Nel 1995 destra, centro e sinistra cancellano la legge Falcone sull’arresto dei falsi testimoni. Carra, che da incensurato non era deputato, lo diventa da pregiudicato nel 2001 con la Margherita. E, oggi come trent’anni fa, la legge uguale per tutti fa scandalo: meglio la vecchia, lurida giustizia di classe. Sorgente: Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano

Estratto dell'articolo di Alberto Giannoni per “il Giornale” il 7 febbraio 2023.

Giorgio Carra, giornalista, 39 anni, 5 giorni fa è scomparso suo padre Enzo, portavoce Dc alla fine degli anni Ottanta.

«Sono stordito. Nell’ultimo anno aveva avuto problemi, ma niente faceva presagire un precipizio così rapido» […]

 Com’era Enzo Carra privato?

«[…] Colto, era abbonato a due teatri, leggeva sempre. Quando ha avuto la crisi, gli avevo portato lo zainetto con i-pad e cellulare per leggere. Era una biblioteca vivente. Amava la politica e conservava molte amicizie. Gli chiedevano consigli, la politica per lui era visione».

Che idee aveva?

«Era e restava un giornalista, notista politico del Tempo, poi portavoce Dc, non deputato, quello dopo, con la Margherita, nel 2011. Era profondamente credente, ma aveva idee molto moderne».

 La foto del suo arresto in catene è rimasta nella storia.

«Avevo 9 anni. Quella foto è l’emblema di come non devono andare le cose. Poche settimane prima era stato arrestato Riina, che se la rideva, non certo con quegli schiavettoni a favore di camera».

 E poche settimane fa Messina Denaro, senza manette. «È civiltà» è stato detto.

«Giusto. E Carra invece sì. Un giornalista, messo alla gogna per uno show, a mio avviso per far sì che si capisse chi comandava, chi aveva il potere in quel momento. Era il simbolo della politica vinta dal pool. Ed era uno che non poteva dire niente, se non inventandoselo. Accusato da qualcuno che al momento dell’accusa è stato liberato. Trattato come una bestia».

Ne parlava?

«Tranquillamente, sì, si era tolto qualche sassolino ma non era capace di rancori. Una consolazione ora è che sia morto dopo aver visto, anche se solo on line, il suo ultimo libro, L’Ultima repubblica. Il cartaceo è uscito il giorno della morte.

L’introduzione è un dialogo con Gherardo Colombo, del pool, che si era pentito di alcune cose. Sono diventati amici, una delle ultime telefonate che ha ricevuto era sua».

 Era un episodio chiuso.

«Il 99% delle persone ha capito. E che il Capo dello Stato abbia usato quelle parole dice tutto. Era tornato a fare il giornalista, aveva intervistato Madre Teresa. L’ultima cosa che voglio è che resti inchiodato a quella foto».

 Il giustizialismo […] C’è ancora.

«Ha avuto seguito, pensi a Grillo, e al suo fedelissimo che si è distinto anche stavolta, non lo cito neanche, è stato l’unico».

 Marco Travaglio?

«Non scendo su certi livelli. Non l’ha mai fatto mio padre e non lo farò nemmeno io» [...]

 Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.

Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.

 Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.

Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.

 (…)

 E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».

Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.

(ADNKRONOS il 2 Febbraio 2023) - È morto nella notte a Roma Enzo Carra, giornalista, portavoce della Dc tra il 1989 e il 1992, poi deputato prima della Margherita e poi del Pd. Era ricoverato da una settimana nel reparto di Terapia intensiva del Policlinico Gemelli a causa di una crisi respiratoria. Avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 8 agosto.

Da www.cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

Enzo Carra, nato a Roma l’8 agosto 1943. Politico. Giornalista. Leader teodem. Eletto deputato con la Margherita nel 2001, l’Ulivo nel 2006 e il Partito democratico nel 2008, passato all’Udc il 14 gennio 2010. Non è stato ricandidato per le elezioni politiche di febbraio 2013 «Casini nel darmi la notizia della mia esclusione l’ha motivata con il no di Monti il quale non ha ammesso eccezioni al codice etico, ma la mia condanna di vent’anni or sono per false o reticenti dichiarazioni al pm riguardava vicende della Dc alle quali ero totalmente estraneo».

Nel 1993, da portavoce dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, fu chiamato a testimoniare sulla tangente Enimont alla Democrazia cristiana (vedi Sergio Cusani): accusato per «dichiarazioni reticenti» dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, processato per direttissima e tradotto in aula con schiavettoni e catene, la drammatica immagine fece il giro del mondo e suscitò i primi dubbi su certi metodi del pool Mani Pulite.

 • «Ti chiedevano una cosa, gli rispondevi che non ne sapevi nulla, ma loro volevano comunque che tu accusassi qualcuno. Io mi rifiutai di partecipare a questo gioco al massacro e pagai a caro prezzo, anche se tutti i condannati per Enimont, da Cusani a Severino Citaristi, confermarono che non ne sapevo nulla. Vissi quel dramma come la prova della mia vita. E se riuscii a superarla fu perché, anche grazie alla violenza che mi fu riservata, il clima nel Paese cominciò a migliorare e i garantisti trovarono finalmente spazio sui media».

È favorevole a una riforma della giustizia: «In Italia si è creato un corto circuito che è dato dall’assenza di immunità, dal fatto che non si possono sospendere i processi per le alte cariche e che i magistrati hanno l’obbligo dell’azione penale. Questo è un problema obiettivo, che rende debole la politica rispetto alla magistratura. Discutiamone».

 • «Da portavoce di Arnaldo Forlani entrava in Transatlantico chiedendo: "Ahò, che gli faccio dì oggi ad Arnaldo?". Mitico» (Luca Telese) [Grn 19/10/2007].

«Di amici politici vedo solo Enzo Carra, di razza e surreale» (Carlo Degli Esposti, produttore televisivo).

 • «Con Tremonti è tra i miei clienti più esigenti. Chiede tagli pettinabili e pratici» (Riccardo Balestra, parrucchiere).

Addio al portavoce Dc. Chi era Enzo Carra, il forlaniano ridotto in schiavettoni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2023

Ciò che gli avevano messo ai polsi, a Enzo Carra, quel giorno di marzo del 1993 in piena Tangentopoli per esporlo alla gogna dei giornalisti, erano gli schiavettoni, non le manette. Attrezzi del genere usato sulle navi negriere: due pezzi di ferro con anelli per tenere i polsi legati da una catena. Un oggetto che si poteva usare per i briganti dell’Aspromonte, i celebri mafiosi.

E invece si trattava di un innocente catturato dal gruppo dei procuratori di “Mani Pulite”, nome originario dell’operazione “Clean hands”.

Più tardi, quando Enzo Carra e Antonio di Pietro si incontrarono, il famoso procuratore negò di avere chiesto per lui l’uso di questo strumento medievale che aveva come unico scopo quello di umiliare e rendere l’imputato penoso, ridicolo, e certamente colpevole di fronte a un’opinione pubblica e un giornalismo incline al linciaggio in un’epoca assetata di simboli carcerari. Mancavano soltanto le palle al piede con la catena e il pigiama a strisce degli ergastolani.

E onestamente non è vero affatto che a quei tempi un fremito d’indignazione spingesse tutti i giornali e i giornalisti ad aver cura o almeno rispetto dei diritti dell’accusato sottoposto alle umiliazioni più cocenti non perché fosse certamente colpevole, ma perché l’ideologia del gruppo di magistrati precedeva l’umiliazione simbolica della politica e dei politici, anzi aprendo la strada al vilipendio sistematico delle istituzioni attraverso il vilipendio dei singoli imputati. Enzo Carra era innocente, fu riconosciuto innocente, nessun indizio e nessuna prova, ma gli fu detto che non era in questione la sua innocenza ma il suo ruolo politico. L’umiliazione degli imputati politici era stata già usata con successo nei processi staliniani e poi in quelli nazisti, in cui si faceva largo uso di abiti e strumenti di detenzione che mettessero in ridicolo l’accusato. Così, quando Enzo Carra fu arrestato ed esposto ai fotografi con una messinscena degna della polizia franchista in Spagna, veramente in pochi si indignarono, mentre i più risero o almeno sorrisero.

In fondo, il giornalista Enzo Carra faceva ridere messo ai ferri ed esposto in catene. Faceva ridere quell’uomo con la barba, vecchio giornalista passato alla politica dalla parte sbagliata: quella di Arnaldo Forlani e accusato a causa di quello schieramento. Secondo molti, dietro la disgrazia di Carra c’era stato il ritorno nella corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, il quale però si trovò la porta sbarrata da Forlani e Craxi con cui prima aveva formato una sorta di triumvirato detto “Caf” dalle iniziali dei protagonisti. Ma il terzetto si era rotto, Andreotti era rimasto indietro e voleva tornare in prima linea a Forlani gli sbarrava la strada. E Enzo Carra era forlaniano.

Tutta la stampa liberal era schieratissima contro il Caf per avversione radicale contro Craxi che aveva finito con assorbire anche Andreotti. E quindi acciuffare un giornalista come Carra che era considerato un portavoce del “Coniglio mannaro” (nomignolo corrente per Arnaldo Forlani) e dunque un perfetto bersaglio per una operazione politica che troncasse gli eventuali progetti di Craxi. Più tardi Carra fu tra i fondatori della Margherita e poi partito unico fatto di democristiani e comunisti da cui però si scostò. Ma ai tempi di Forlani, Carra fu eletto deputato nelle file della Dc dove ebbe l’importantissimo ruolo di portavoce della segreteria del partito diventò dunque un uomo di peso rilevante.

Quale moto di indignazione volete che portasse un democristiano per di più “forlaniano” cioè aderente membro attivo del gruppo di Craxi Andreotti e Forlani. Oggi è tutto dimenticato. Restano solo gli schiavettoni contro i quali protestò anche Francesco Cossiga. Ma non dimentichiamo che più di metà del paese di fronte a quello spettacolo immondo si sentì rallegrata e mormorò: “Ben gli sta, forlaniano di merda”.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.

Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 3 Febbraio 2023.

Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.

 Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.

Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.

 (…)

 E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».

Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.

Enzo Carra, solo poco prima di morire ha visto la copertina del suo libro su «L'ultima Repubblica». Paolo Franchi  su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023

Da uomo della Prima Repubblica, ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, ha provato a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie

Del suo ultimo desiderio non mi aveva mai parlato esplicitamente, Enzo Carra, nonostante fossimo amici più che fraterni. Ma ci giurerei su lo stesso. Sperava di vivere abbastanza a lungo – sto parlando di mesi, di settimane, di giorni – per vedere pubblicato il suo ultimo libro, e godersi il dibattito pubblico (lui lo avrebbe voluto impietoso e serrato) che avrebbe suscitato. Ci aveva lavorato per anni, scrivendo, correggendo, tagliando, e poi riscrivendo, ricorreggendo e ritagliando ancora. Poi, finalmente, si era convinto di aver portato a compimento il lavoro. 

In non so più quale convegno sui rapporti tra politica e magistratura aveva conosciuto Gherardo Colombo. Non posso dire che cosa l’ex Pm di Mani Pulite pensasse e pensi di Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani arrestato e trascinato in aula con gli schiavettoni ai polsi a dimostrazione che un’intera classe politica era stata sgominata dai magistrati: penso che ne abbia stima. Ma so per innumerevoli testimonianze dirette che, per Enzo, Colombo era stato una scoperta politica, intellettuale e soprattutto umana. Si erano visti e sentiti molte volte, in pubblico e in privato. E da questa frequentazione era nata l’idea di far precedere il testo del libro da un dialogo tra i due, fitto, ricco e, per quanto è soprattutto sereno. L’idea si è realizzata, l’ultimo desiderio di Carra no: Enzo ha fatto appena in tempo ieri, poche ore prima di andarsene, a farsi passare dal figlio Giorgio il cellulare per vedere la copertina del libro, che sta per arrivare in libreria, pubblicato da Eurilink, e ha per titolo «L’ultima Repubblica». È già qualcosa, ma l’autore avrebbe meritato di più. 

Non capita spesso (anzi, per essere più precisi, fin qui non è capitato mai) che un uomo della Prima Repubblica, a suo tempo sbrigativamente e del tutto ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, provi sulla scorta della sua esperienza non solo a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie, ma pure i perché e i come del disastro cui il Nuovo ha consegnato, nel trentennio successivo, il Paese. Carra ci ha provato, secondo me con successo, restando uomo di parte anche quando la sua parte non c’era più, ma senza cedere per questo all’indulgenza e all’autoindulgenza: di questo, credo, gli va dato atto e merito. 

Carra è stato un giornalista raffinato e colto, i suoi primi passi nel mestiere li ha fatti occupandosi di cinema e di teatro, ma non è mai stato, come si dice, «prestato alla politica». La politica, quella interna come quella internazionale, sono stati da sempre, ben prima di entrarvi in primissima persona, e ben oltre il momento in cui la ha lasciata, o è stato costretto a lasciarla, il suo pane quotidiano. Della politica (quella vecchia e, sempre che sia mai esistita, quella nuova) conosceva a menadito la scena e i retroscena, i piani alti i piani bassi e pure i sottoscala, anche perché li aveva praticati tutti. Senza politica (politica fatta, non solo pensata) non sapeva stare, o almeno stava molto male. 

Finché gli fu possibile, appena gli si presentò l’occasione continuò a farla, prima nella Margherita, poi nel Pd e infine, per qualche tempo, nell’Udc. E coltivò pensiero politico senza disdegnare, anzi, la cosiddetta politique politicienne. Dei tempi antichi ricordo un verbo, «accarrarsi», coniato da noi giovani cronisti parlamentari che gli chiedevamo lumi sulle manovre interne alla Dc, e ne avevamo in cambio oscure metafore e dotte citazioni. Di tempi più recenti l’amicizia con Francesco Cossiga. Dei tempi nostri, la cena quasi settimanale con Olga e Gabriella. E un’infinità di interminabili telefonate, zeppe di chiacchiere giornalistiche, politiche e calcistiche (era un uomo di stadio come me, Enzo, ma tutto all’opposto di me di incrollabile fede laziale). Già mi mancano, e ancora più mi mancheranno nei giorni a venire.

Addio a Carra, vittima di Mani Pulite. Quelle manette come arma di tortura. Fu fatto sfilare in tribunale con gli schiavettoni ai polsi per un reato poi cancellato. Di Pietro voleva che accusasse Forlani. Stefano Zurlo il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Quell'immagine borbonica di un uomo sfilacciato è una delle foto simbolo di Mani pulite. L'icona di una stagione in cui le manette venivano prima della giustizia e la giustizia si misurava col metro del pentimento. È il 4 marzo 1993 e Enzo Carra, potente portavoce della ormai moribonda Dc, sfila con le manette ai polsi attraverso i grandi saloni del Palazzo di giustizia di Milano.

Antonio Di Pietro e il Pool gli contestano un reato cucito come un abito di sartoria su di lui: le false informazioni al pubblico ministero. Un illecito per cui dal 94 sarà impossibile arrestare.

Di Pietro l'ha interrogato come persona informata sui fatti, più o meno nel primo anniversario della rivoluzione giudiziaria cominciata il 17 febbraio 1992 con la cattura di Mario Chiesa, e gli ha chiesto spiegazioni su una tangente da 5 miliardi di lire incassata dal partito: il nome che tutti si aspettano è quello di Arnaldo Forlani, uno dei tre lati del Caf, il triangolo che comanda l'Italia.

Bettino Craxi in quel momento è già nel mirino della magistratura ambrosiana e viene bersagliato da avvisi di garanzia, uno dopo l'altro; Giulio Andreotti invece sembra schivare i colpi, che gli arriveranno da Palermo, e sul perché di quel galleggiamento girano nel Paese infinite leggende, tutte più o meno di matrice complottistica. Resta quell'obolo sostanzioso che potrebbe portare al segretario della Dc, ma Carra dice di non saperne nulla e finisce a San Vittore.

Il 4 marzo va in scena quello spettacolo avvilente: il prigioniero con i ferri, gli schiavettoni che diventeranno un'icona, fissati con una lunga catena stretta nelle mani di un carabiniere.

È tutto feroce, è tutto senza umanità, è tutto sproporzionato ma quella è la metrica di Mani pulite, forse all'apogeo in quei mesi.

«Prima dell'udienza - mi raccontó un giorno - mi tennero una mezz'ora in una stanza dei sotterranei, poi finalmente si decisero a spedirmi in aula. Stavano per mandarmi con le mani libere, ma ci fu una telefonata e mi misero gli schiavettoni».

Carra, che ieri è scomparso a 79 anni, riviveva quei giorni cupi cercando di descrivere tutti i dettagli, come fa un giornalista, e lui era nato con la penna in mano: dopo un esordio nella critica cinematografica, approda al Tempo dove rimane fino al 1987, firma di punta della cronaca politica; nell'89 diventa lo speaker del partito e dunque l'ombra del potere ma la caduta del Muro e l'esplosione di Tangentopoli mandano in pezzi quel mondo.

L'inverno 93 è quello decisivo: ormai il Pool è sulle tracce della tangente Enimont, la maxitangente che segnerà i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini.

La procura di Milano è una catena di montaggio: arresto, confessione, scarcerazione. Detenzioni lampo, spesso, o addirittura nemmeno quelle: basta un avviso di garanzia per correre a vuotare il sacco con un effetto domino che coinvolge imprenditori e politici.

Però non sempre va così, anche se obiettivamente è difficile resistere alla pressione che spinge sempre nella stessa direzione: c'è chi contesta quei metodi, ma i provvedimenti sono spesso confermati dai giudizi nei gradi successivi.

Succede anche con lui: Carra viene condannato a 2 anni, poi ridotti a 1 anno e 4 mesi, pena confermata in cassazione. E peró quel fotogramma scioccante e umiliante segna un punto di non ritorno: molti Tg si rifiutano di trasmettere quella sequenza così umiliante e le standing ovation per le toghe si affievoliscono.

«Io - spiegava lui - mi rimisi in carreggiata solo grazie a un amico psichiatra e ricominciai a lavorare solo dopo due anni, grazie a Minoli».

Alla Rai, Carra confeziona alcune clamorose interviste: a Gheddafi e a Madre Teresa, forse l'ultima prima della sua morte. Ma il demone della politica lo riafferra di nuovo: sta con la Margherita e il centrosinistra nell'Italia bipolare e per tre legislature è parlamentare, colto e ironico, mai cinico, con quella ferita sempre pronta a riaprirsi.

Alla fine torna al suo primo amore: ci siamo incrociati l'ultima volta tre anni fa a Radio3, nel programma di Edoardo Camurri e Pietro Del Soldà Tutta l'umanità ne parla: in un gioco semiserio io impersonavo Craxi e lui Andreotti. Anche quella volta si rivelò rigoroso, come sempre.

Il mio amico Enzo Carra, vittima di quella sua grande passione politica. Dell’ex portavoce della Dc, morto a 79 anni, si continuerà a ricordare non tanto la lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta foto in manette nel tribunale di Milano. Francesco Damato su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.

Di Enzo Carra, del mio amico Enzo Carra, morto a 79 anni, temo che si continuerà sfortunatamente a ricordare non tanto la sua lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta fotografia che negli anni terribili di Tangentopoli - o di Mani pulite, come i magistrati di Milano vollero chiamare le loro indagini sul finanziamento illegale dei partiti- lo riprese barbaramente in manette nei corridoi del tribunale ambrosiano mentre raggiungeva l’aula del suo processo.

Egli era stato accusato, e infine condannato, non di corruzione o simili ma di reticenza: per non avere detto della Dc e del suo segretario politico Arnaldo Forlani, di cui era portavoce, ciò che gli inquirenti si aspettavano. O -come lui poi mi raccontò- pretendevano che dicesse per stringere ancora di più al collo della Dc e di Forlani il cappio gemello di quello che stavano stringendo attorno al Psi e a Bettino Craxi. Del quale Forlani era amico ed alleato avendone favorito negli anni 80 la scalata a Palazzo Chigi, ed avendo collaborato con lui come vice presidente del Consiglio: veste nella quale, fra il 1983 e il 1987, il mio amico Arnaldo si trovò spesso, volente o nolente, a proteggerlo dagli agguati non tanto della forte e dichiarata opposizione comunista quanto dell’altrettanto forte ma non del tutto esplicita avversione dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che era salito anni prima al vertice del partito proponendosi come argine all’avanzata del pur alleato leader socialista, giunto ad un palmo da Palazzo Chigi già nel 1979, incaricato dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini ma fermato dalla direzione della Dc all’ultimo momento con una votazione alla quale Forlani aveva partecipato astenendosi, cioè non approvando lo stop.

Proprio a Palazzo Chigi da vice presidente del Consiglio di Craxi, dopo un turno elettorale nel quale la Dc guidata da De Mita aveva perso in un colpo solo ben sei punti percentuali, Forlani chiamò Enzo Carra a fargli da portavoce. Nel dirimpettaio palazzo dell’Inps, in Piazza Colonna, affittato al Tempo, Enzo aveva seguito sino ad allora la politica con meticolosità e convinzioni moderate in linea con quella testata.

La lunga collaborazione con Forlani, tornato alla guida della Dc nel 1989, dopo averla già guidata fra il 1969 e il 1973, rafforzò in Enzo Carra la simpatia per lo scudo crociato, tanto da tentare l’elezione a deputato nelle sue liste a Roma, purtroppo inutilmente. Ma né la delusione per quella mancata elezione, né il coinvolgimento del partito nel terremoto giudiziario e politico di Tangentopoli, o -ripeto- Mani pulite, né il suo personale impatto con quella tragedia da imputato di reticenza, trattato con quegli schiavettoni ai polsi come un criminale peggio che comune, lo distolsero da quella che era ormai diventata una sua passione politica. Al contrario -sia detto a suo merito- la rafforzarono.

Una volta passati, davvero o a parole, dalla cosiddetta prima Repubblica alla seconda, Enzo non si lasciò scappare nessuna occasione per partecipare ai tentativi di salvaguardare la memoria della Dc e di raccoglierne valori e tradizioni nei movimenti dove ciò era possibile: per esempio, nella Margherita, dove alla fine confluirono i resti della Dc contrari o impossibilitati, secondo le circostanze, a intrufolarsi nel centrodestra berlusconiano. E Carra riuscì, nella sua ostinata passione diventata ormai militanza, anche ad essere finalmente e ripetutamente eletto deputato grazie anche alle nove leggi elettorali che risparmiavano ai candidati il pesantissimo onere di cercarsi i vecchi voti di preferenza della prima Repubblica. Egli segui la Margherita nel 2007 anche nella pur controversa confluenza nel Pd, nelle cui liste fu rieletto nel 2008 ma da cui tuttavia uscì per aderire all’Unione di Centro nel 2010.

La sua esperienza parlamentare sarebbe continuata anche dopo le elezioni del 2013 se, fra i candidati post-democristiani, chiamiamoli così, raccoltisi sostanzialmente attorno alle liste improvvisate da Mario Monti non fosse incorso nello sbarramento posto dallo stesso Monti contro chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie risalenti a Tangentopoli. Il colpo fu durissimo per lui, pur riabilitato dal tribunale di sorveglianza di Roma nel 2004. Da quella delusione praticamente non si riprese più, prendendosela tuttavia più che con Monti, in pubbliche dichiarazioni, con Casini. Dal quale, nel ricordo della comune collaborazione avuta con Forlani nella penultima segreteria della Dc, prima di Martinazzoli, Enzo si aspettava una difesa a oltranza dalle forbici giustizialiste del presidente del Consiglio succeduto a Berlusconi nell’autunno del 2011.

Addio, Enzo, amico mio. O arrivederci, nella nostra comune fede religiosa, pur dopo le incomprensioni che non sono mancate fra di noi all’epoca, per esempio, della mia direzione al Giorno. Dove mi rimproveravi, a tuo modo, tra telefonate e bigliettini, di privilegiare nella linea politica i socialisti e Craxi rispetto ai democristiani e a Forlani. Del quale, a un certo punto, volli verificare personalmente gli umori scoprendo che non erano quelli del suo portavoce.

L’ultima intervista a Enzo Carra, il giornalista simbolo degli orrori di Mani Pulite. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.

E’ morto oggi a Roma il giornalista ed ex deputato Enzo Carra. Arguto, brillante, coltissimo, è stato un maestro per i giornalisti che hanno avuto la fortuna di frequentarlo. Sempre gioviale, aveva per il suo lavoro e per il dovere della corretta informazione un rispetto rigoroso. Divenuto, suo malgrado, l’immagine di una delle pagine più buie dell’inchiesta ‘Mani pulite’, nel 1993 venne arrestato e trascinato in tribunale con gli schiavettoni ai polsi a favore di fotografi e cameramen, simbolo dei danni che può procurare il perverso circuito mediatico-giudiziario.

Enzo Carra ha raccontato la politica come giornalista per vent’anni, prima di diventarne un protagonista come portavoce della Dc e quindi come parlamentare di area centrista, eletto nel 2001 con la Margherita di Rutelli.

Quella di Carra, lucidissimo interprete della politica – inventò la comunicazione politica moderna, negli anni Ottanta – fu una carriera interrotta dalla brutalità di una inchiesta giudiziaria dissennata: gli vennero ascritte colpe di cui non era responsabile usando l’atroce sillogismo del “non poteva non sapere“. Ha pagato un prezzo altissimo sull’altare della condanna mediatica.

Riabilitato dalla giustizia nel 2004, faticherà a reinserirsi nel mondo dell’informazione, a parte una collaborazione con la Rai richiestagli da Giovanni Minoli. L’ultima intervista pubblica di Enzo Carra è stata con il Riformista Tv. A margine dell’intervista rivelò di aver scritto un memoriale sulle vicende misteriose e irrisolte della prima repubblica, viste da dietro le quinte della Democrazia Cristiana. Quel manoscritto è rimasto inedito: nessun editore lo ha voluto pubblicare.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.

“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.

Che ricordo ha di quegli anni?

“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.

Non sono stati, quindi, tempi semplici?

“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.

Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?

“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.

Chi è stato più penalizzato?

“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.

Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?

“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.

Quali sono state le conseguenze?

“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.

Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…

“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.

Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022. 

Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.

All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?

Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.

Un nome profetico…

Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.

Torniamo a quando diventa giornalista politico.

Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.

Nell’ 89 cambiava il mondo.

E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.

Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?

Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.

Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.

E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.

Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.

Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.

Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?

Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.

Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?

Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.

Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.

E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.

Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?

Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Trent’anni fa un’inchiesta sull’Eni distrusse i partiti, oggi colpisce la procura più importante d’Italia. Enzo Carra su tpi.it il 20 Settembre 2021. “I politici non riusciranno a cambiare la giustizia.” Non ha dubbi il vecchio cronista che negli anni di Mani Pulite batteva i corridoi della Procura di Milano a caccia di poveri cristi tramortiti dagli interrogatori del Pool e spulezzava quando quelli non gli rispondevano. Ha ragione Andrea Pamparana (Libero del 20 settembre), fin qui la politica ha fatto poco, in compenso il caso e la necessità hanno provveduto al resto. Il caso si chiama Eni. Sono state infatti due inchieste intitolate alla stessa multinazionale a innalzare prima la procura milanese a Sancta sanctorum del diritto e a quartier generale nella lotta alla corruzione in politica, per trasformarla adesso nel luogo dove si sta consumando un’incredibile vicenda che divide e annebbia gli eponimi di Mani Pulite. Prima viene la tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti”: una “provvista” di 140 miliardi di lire, oltre 70 milioni in euro, per partiti di governo e d’opposizione e per faccendieri sciolti e in pacchetti. La scoperta rappresenta il punto di svolta, definitivo, di Mani Pulite, il suo trionfo. Antonio Di Pietro e Francesco Greco sono i due sostituti che hanno lavorato su Enimont, ma il merito è di tutto il pool e il risultato è che le mura già pericolanti di un sistema politico figlio della Resistenza crollano tra le lacrime di pochi e la gioia di tanti. La Magistratura italiana ha sconfitto il malaffare politico. Corsi e ricorsi. Poco meno di trent’anni dopo, alla Procura di Milano torna a bussare l’Eni. È il processo Eni-Nigeria, ovviamente per corruzione. Se ne occupa Francesco Greco, il quale si avvale delle dichiarazioni di un dipendente dell’Eni e di un ex legale “esterno” – qualunque cosa voglia dire “esterno” – della nostra multinazionale, Pietro Amara. Questi, secondo il pm Paolo Storari è troppo importante per quel processo, la procura “lo tiene in palmo di mano” e quindi non si procede per appurare se ha detto o no la verità anche su altre questioni: affari, logge segrete, promozioni, insomma il paroliere italiano. Storari quindi decide di tirare le orecchie a Greco e, in modo quantomeno “irrituale”, muove le carte che giacciono in procura a Milano e le consegna a Davigo, che a quel tempo è ancora componente del Csm. Lui ne parla con alti rappresentanti delle Istituzioni, contando forse sulla loro collaborazione nella sua campagna contro Greco e comunque sul loro silenzio: ma come fai a tenere a lungo un segreto così a Roma? A far casino ci pensa la sua ex segretaria la quale, per impedire il pensionamento del suo capo, diffonde le carte ad alcuni giornali “amici”. Lo scandalo, si illude, potrebbe prolungare la permanenza di Davigo al Palazzo dei marescialli. E che scandalo, a tanti anni dalla P2 ecco a voi un’altra loggia, più piccola, esclusiva, ma potente, parola di Amara. La nuova loggia si chiama Ungheria, ma ha sede in Roma ed è responsabilità di Greco aver tenuto nascoste quelle preziose informazioni per tanto tempo. Eppure, lì per lì, niente: i giornali non pubblicano le carte della ex segretaria, chissà perché. Mesi dopo, però, uno di loro, Il Fatto quotidiano, ci ripensa ed esce. Nel consueto “c’era questo e c’era quello” di ogni rubrica mondana: tanti bei nomi. Prevedibilissimi, sembra la short list di un ricevimento per “pochi ma buoni” in un palazzo del potere. I fratelli di Amara. Certo però se trent’anni prima un’inchiesta targata Eni aveva distrutto i partiti, oggi un processo che assolve l’Eni colpisce duramente la procura più importante d’Italia e l’immagine della magistratura italiana. Perché Amara può aver raccontato qualche verità in mezzo a un sacco di balle, ma le querele tra Greco e Davigo, l’affanno televisivo di quest’ultimo e lo smarrimento dell’opinione pubblica restano, e pesano. Corsi e ricorsi.

ENZO CARRA. Enzo Carra è un giornalista e politico italiano. Redattore capo del mensile "Il Dramma" ha successivamente lavorato per molti anni al quotidiano romano "Il Tempo" e ha scritto per il cinema e la TV. Ha realizzato alcuni reportage per la TV, tra questi un ritratto di Gheddaffi e uno di Madre Teresa di Calcutta. Dal 2021 collabora con TPI

Gabriele Cagliari.

Il suicidio dell'ex presidente. Marco Travaglio è un contraffattore: Gabriele Cagliari non era in cella “perché rubava”. È un’impostazione volgarmente plebea e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. Che bassezza. Iuri Maria Prado su L'Unità il 25 Luglio 2023

Le polemiche tra giornali costituiscono un genere classico, tuttavia frequentato molto da chi li scrive e molto poco da chi li legge. Roba noiosa e perlopiù, come si dice, autoreferenziale. A volte, però, non si tratta di “cicca cicca”, “non mi hai fatto niente faccia di serpente, non mi hai fatto male faccia di maiale”, e cioè della desolante tigna tra colleghi buona a riempire una colonna altrimenti vacua.

A volte c’è sostanza: di quale pasta, è un altro discorso. Ma c’è. Vedi, per esempio, un titolo di questo quotidiano nell’edizione di qualche giorno fa: “Gabriele Cagliari, mio padre, morto in cella perché non volle denunciare Craxi”. Che ti fa Marco Travaglio? Ieri, sul suo giornale (Il Fatto Quotidiano), smozzica quel titolo e, virgolettandolo, lo riporta così: “Gabriele Cagliari morto in cella perché non volle denunciare Craxi” (scompare quel “mio padre”, e cioè l’elemento che denunciava la fonte dell’affermazione: vale a dire il figlio di Cagliari, non il giornale, l’Unità, che semmai ne raccoglieva le dichiarazioni).

Il taglio da magliaro adempie a due scopi, entrambi vigliacchi. Il primo: lasciare intendere, appunto contro il vero, che l’affermazione fosse de l’Unità, mentre in realtà era del figlio intervistato. Il secondo: consentire all’articolista e contraffattore, cioè Travaglio stesso, di attenuare l’impatto della porcata immediatamente successiva, lì dove questo impudente si abbandona a scrivere che Gabriele Cagliari non è morto in carcere per quel motivo, ma “perché rubava”. Dire direttamente al figlio che il padre si è ammazzato perché era un ladro avrebbe fatto schifo lo stesso, ma almeno la sfrontatezza sarebbe stata piena: invece no, falta de huevos.

Che poi Gabriele Cagliari, raggiunto da tre ordini di custodia cautelare in carcere, due dei quali revocati (il terzo no: parere negativo del pm in partenza per le ferie), non fosse indagato per “furto”, è un dettaglio fastidiosamente incompatibile con la retorica macellaia di questo disinvolto violentatore della verità. Il quale, ne siamo certi, invocherebbe il diritto alla sintesi delle piazze del vaffanculo di cui è punto di riferimento fortissimo se qualcuno gli facesse osservare che Cagliari neppure se fosse stato condannato avrebbe meritato quella definizione, ladro: e figurarsi ricordare a Travaglio che Cagliari stava in galera e si ammazzava prima del processo, dunque quando le sue responsabilità (non per aver “rubato”) dovevano ancora essere accertate.

Il dramma è che piace un sacco questa impostazione volgarmente plebea, e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. E il fatto che piaccia, che abbia tanto riscontro, racconta bene la bassezza di chi vi ricorre. Perché è ancora ammissibile ascoltare la plebe violenta, è ammissibile persino mischiarvisi: ma farsene forza, no, questo è imperdonabile.

Ed esattamente questo si fa quando si scrive che un uomo si è suicidato in carcere perché era un ladro: si stimolano le trippe della turba che reclama onestà sfilando sotto ai balconi delle procure della Repubblica, lì dove i pubblici ministeri lavorano di manette nell’attesa delle collaborazioni con il Fatto Quotidiano e delle vacanze sotto l’ombrellone con il direttore.

Iuri Maria Prado 25 Luglio 2023

30 anni dal suicidio. “Ecco perché Gabriele Cagliari si è tolto la vita”, la verità del figlio Stefano. «Dava fastidio ai suoi concorrenti di tutto il mondo, alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane. Bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando». Graziella Balestrieri su L'Unità il 20 Luglio 2023 

Il 20 Luglio del 1993 Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, si toglie la vita in carcere. Siamo all’inizio di Tangentopoli. Gabriele Cagliari ammette le sue colpe ma si rende conto che quella condizione a cui lui viene sottoposto e alla quale sono sottoposti gli altri detenuti non è una condizione umana. Scriverà in una delle sue numerose lettere che in carcere si è “come cani in un canile”. E allora un gesto estremo, calcolato, quando ormai capisce che la speranza gli viene tolta dall’atteggiamento dei magistrati.

Il figlio Stefano, dopo aver pubblicato nel 2018 il libro Storia mio padre (edito da Longanesi, curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna e con prefazione di Gherardo Colombo) continua a portare avanti una missione che per lui è un impegno civile, anche se dolorosissimo, sul sito gabrielecagliari.it, ricordando le numerose lettere di suo padre, i fatti, i personaggi e quel tempo di Tangentopoli che ancora rimane una ferita aperta per tutti nel nostro paese.

Tangentopoli. Che momento era quello in Italia?

L’Italia era in una situazione difficile dal punto di vista economico e finanziario. Nel 1992 i tedeschi ci avevano abbandonato e c’era stata la svalutazione della lira, il malcontento cominciava a crescere. La Lega Nord interpretava questo malcontento, era un fenomeno assolutamente nuovo, anche per l’uso aggressivo e finanche volgare del linguaggio nel discorso politico. Era un paese che si era abituato a vivere di mazzette, di favori, di tangenti, un sistema diffuso a tutti i livelli, mentre il grande mito di Tangentopoli è che solo il ceto politico ne fosse coinvolto.

Tangentopoli travolse sostanzialmente una buona parte della classe dirigente, anche di quella imprenditoriale non solo quella politica, con tutte le conseguenze che ci sono state successivamente, che devo dire un po’ stiamo ancora pagando. Era un’Italia in cui, come ho scritto in Storia di mio padre, tutti incitavano all’uso delle manette, come se mandare in galera i politici risolvesse il problema della corruzione nel paese. All’asilo i bambini si inseguivano urlando “in galera, in galera!”

Non più giustizia ma giustizialismo dunque?

Certo, a quel punto si è scatenato il giustizialismo.

Il suo libro parte da un sogno (suo padre che in realtà non si era suicidato ma era fuggito fuori dall’Italia e comunicava solo con lei). Fa ancora quel sogno dopo 30 anni?

No. Ho sognato spesso mio padre ma non più in quella situazione. In realtà alla fine chi voleva fuggire ero io, come se volessi nascondermi per non dover continuamente ritornare a quella situazione così dolorosa. Con il libro e le molte interviste non mi sono più nascosto e ora, quando sogno mio padre, sono in situazioni diciamo così di serena vita familiare.

Se dovesse raccontare suo padre a chi non ha vissuto quegli anni e a chi ignora completamente la sua vicenda che cosa direbbe?

Quello che posso dire è che era un uomo estremamente intelligente, estremamente generoso, molto corretto, molto ambizioso. E tutte queste sue qualità mi sono state manifestate in parte anche dopo la sua morte. Per esempio, sul sito gabrielecagliari.it continuiamo a caricare contenuti e ultimamente abbiamo caricato le lettere dei detenuti che lo avevano conosciuto in carcere: emerge la personalità di un uomo che aiutava tutti quelli che ne avevano bisogno, chi non aveva i soldi per l’avvocato, chi non aveva strumenti per difendersi. Ed è stato un uomo di una visione straordinaria dal punto di vista della politica industriale. All’Eni aveva fatto cose che nessuno aveva fatto prima e che per venticinque anni nessuno ha più fatto. In questi mesi in Europa sono in corso degli studi sulla sua presidenza da cui risulta che allora l’Eni era l’unica società petrolifera che si occupava di sviluppo sostenibile. Fu l’unica major che partecipò a Rio, alla conferenza del 1992, e che mise nel suo piano strategico la difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Una società che era all’avanguardia nello studio delle tecnologie di difesa ambientale. Dopo di lui si è fermato tutto, è come se avessero cancellato lui e tutto quello che stava cercando di fare e che stava proponendo. Immagini: che cosa sarebbe stata l’Eni e l’Italia se quella politica fosse andata avanti? Ma era una politica che evidentemente dava un fastidio enorme alle grandi multinazionali del petrolio, che in quel momento negavano il problema dell’esaurimento delle risorse, negavano i problemi ambientali, negavano il riscaldamento climatico. Adesso questi temi sono quasi una moda, ma questo le fa capire che mio padre aveva una visione strategica lungimirante e unica. D’altronde quelle lettere che lui ha scritto, dove già descrive quello che sarebbe successo a causa di Tangentopoli vedono lontanissimo: tutto quello che lui ha scritto poi è successo.

In famiglia vi aspettavate che venisse arrestato?

Un po’ me l’aspettavo, perché avevo visto dei segnali sui giornali e diciamo che in quel periodo, ma diciamo non solo in quel periodo, c’era un filo diretto tra magistratura e determinati quotidiani. Il fatto che avevano cominciato a tirar fuori il suo nome voleva dire che c’era burrasca nell’aria. E anche papà se lo aspettava. L’ultima volta che ha visto suo nipote, mio figlio di tre anni, quando l’ha preso in braccio, il bambino ha cominciato ad urlare “in galera, in galera!”. Mesi prima erano telefonate continue, gente che voleva favori, perché in questo paese i favori erano all’ordine del giorno, mentre in quelle ultime settimane era calato il silenzio, tutti gli stavano alla larga.

Anche l’Eni lo ha abbandonato?

Il personale, i dipendenti, hanno amato mio padre come presidente, probabilmente come, se non più, di Enrico Mattei, perché mio padre era uno di loro, era cresciuto con loro, era un tecnico, era un uomo che conosceva tutti e che aveva qualità straordinarie. Il problema dell’Eni era quello di essere una società presente sui mercati mondiali, una società che non si poteva permettere di vedere il proprio nome infangato e su questo lui si è arroccato. Ha avuto questo tipo di atteggiamento: è riuscito, come ha scritto, a salvare il middle management e a far sì che tutte le responsabilità ricadessero su di lui, questo ha fatto sì che l’Eni non venisse coinvolta.

Nelle lettere suo padre descrive la condizione del carcere come quella di “cani in un canile”.

Il suo gesto è stato un gesto di denuncia della situazione carceraria. Ormai per sé aveva perso ogni speranza, visto l’atteggiamento dei magistrati nei suoi confronti, un atteggiamento che leggeva come un tentativo di annientarlo dal punto di visto umano, di farne un capro espiatorio. Chi restava fuori non si rendeva conto della condizione carceraria.

Resistette alla prigionia durante la Seconda guerra mondiale e non al carcere durante Tangentopoli. Perché mai secondo lei?

No, in realtà lo ha sostenuto benissimo, ma anche lì aveva una strategia: il suicidio, un gesto drammatico, ne ha fatto parte. Non solo quest’anno, ma ogni anno, ci sono decine e decine di suicidi in carcere, ma sui giornali non finisce niente. La notizia va sui giornali se il presidente dell’Eni si suicida in carcere, dopo quattro mesi e mezzo di detenzione, che lui ritiene ingiustificata. Il suo è stato un gesto di grande impatto, anche se mio padre non era un uomo da copertina come lo era Gardini, e questo gesto è stato capito non solo a San Vittore dove lo avevano conosciuto bene, ma anche nelle altre carceri e fuori dalle carceri.

La prefazione del suo libro è stata affidata a Gherardo Colombo.

Gherardo Colombo è uscito dalla magistratura e sostiene con forza che non è il sistema giudiziario che può risolvere i problemi della corruzione in Italia, come Tangentopoli ha dimostrato. Il mio libro non ha voluto essere di parte né essere “targato”, è un documento storico e come tale spero che sia letto. La partecipazione di Gherardo Colombo è stato un modo per mostrare il nostro tentativo di essere equilibrati.

I magistrati che allora si occuparono del caso di suo padre, anni dopo, visto il drammatico epilogo, si sono fatti sentire in un qualche modo?

No. Nulla.

Perché suo padre ha accettato quel sistema?

Mio padre ha ammesso di aver sbagliato, lo ha anche scritto. C’è una lettera che ha scritto a Scalfari da San Vittore, in cui dice che pagare i partiti era l’unico modo per poter lavorare tranquilli. Soffriva questo sistema, come più volte ha scritto, ma ne aveva bisogno perché altrimenti non avrebbe potuto fare quello che voleva fare. C’è un’intervista a Newsweek, che si trova tradotta nel sito, da cui si capisce che mio padre fuori dall’Italia, senza i vincoli della politica, si muoveva in modo completamente diverso. Già allora aveva strategie verso i paesi che oggi sono considerati emergenti che nessuna delle major petrolifere aveva. Offriva collaborazione: tecnologie in cambio di risorse, aveva un approccio che spiazzava tutti: evidentemente mio padre dava fastidio.

Sua moglie muore, suo fratello scopre di avere l’Aids, suo padre in carcere, che momento è stato quello per lei?

Avevo un bambino di 3 anni, la cosa più importante era andare avanti per lui. Ho avuto un momento di sconforto, forse di rabbia, solo quando abbiamo aperto quella lettera (una lettera dove Gabriele Cagliari annuncia il suo suicidio ma che chiede alla moglie di aprire solo al “suo ritorno”, ndr.) perché anche in quel caso aveva anteposto i suoi ideali alla famiglia. Anni dopo ho capito da tutto quello che è venuto fuori e dalle sue lettere che forse ci ha risparmiato tanti e tanti di quei problemi, di quelle delusioni, tante di quelle sofferenze che il metterlo sotto processo per decenni avrebbe significato.

Che sentimento ha provato nei confronti della magistratura di allora?

Hanno commesso degli errori tragici, sono stati degli ingenui, pensando di fare del bene hanno fatto invece molto male.

Ingenui è diverso da dire che erano “ambiziosi”, come li definiva suo padre.

Diciamo che sicuramente Di Pietro era molto ambizioso. Poi di quasi tutti si è visto di che pasta sono fatti. Perché uno dopo l’altro sono caduti, scivolando su bucce di banana varie, e hanno cominciato a litigare tra di loro. Degli illusi, perché pensavano di cambiare il paese, quando in realtà stavano usando in maniera strumentale il loro potere. Pensando di eliminare la corruzione in Italia, hanno invece favorito un peggioramento drammatico della situazione politica e hanno decapitato una parte del sistema imprenditoriale italiano.

Come mai non avete incontrato Martelli (ma solo sua zia, come viene scritto nel libro)?

Io quel giorno non ero a casa di mia madre. Il partito… il sistema politico era il principale responsabile di quello che stava succedendo (non solo il partito socialista ma tutti i partiti, compreso il partito comunista). Mio padre era un socialista e la nostra sensazione era che il partito lo avesse abbandonato. Io l’ho vissuta come se Bettino Craxi fosse fuggito abbandonando i suoi colonnelli. Martelli in quel momento era una figura piuttosto ambigua perché stava cercando di scalare a sua volta il partito socialista sostituendosi a Craxi. Il problema è che tutti quanti sono stati poi tirati dentro. Il problema non era più questo o quel partito, il problema era il sistema, almeno così veniva venduto a livello mediatico, e quel sistema politico è crollato, tanto è vero che al governo poi è salito un populista che di politico faceva finta di non avere niente.

Il comportamento della stampa?

Il comportamento della stampa fu vergognoso, sono stati senza pietà anche nei confronti di mio padre. Il loro problema era vendere e cavalcare l’inchiesta, lo hanno fatto tutti, a partire dalle reti di Berlusconi.

Di Pietro lo ha mai rincontrato?

L’ho visto a Napoli, in un autobus che ci portava da un aereo all’aeroporto, ma non ho avuto il coraggio di parlargli, non mi è sembrato proprio il caso. Eravamo uno di fronte all’altro: ci siamo guardati a lungo, ma in silenzio.

Nessuno dei magistrati di allora l’ha mai cercata?

Scusarsi sarebbe stato ammettere che hanno compiuto cose fuori dai binari dalla legalità, come scrive mio padre.

Suo padre che cosa si aspettava?

Durante gli interrogatori ha ammesso quello che pensava fosse utile ai magistrati, però nelle lettere scrive che i magistrati chiedevano informazioni su vicende che erano completamente avulse dai capi d’accusa, e non se la sentiva anche perché il giorno dopo qualunque cosa avesse detto sarebbe finita sui giornali. L’Eni che figura ci avrebbe fatto a livello internazionale? Che fine avrebbero fatto tutti i contratti che l’Eni aveva in piedi? Che fine avrebbero fatto gli accordi sul gas? In carcere mio padre ha difeso l’Eni e ha messo in evidenza quelle che sono le carenze drammatiche del sistema carcerario in Italia, anzi, la funzione anticostituzionale del sistema carcerario perché, se usi il carcere come tortura psicologica, è chiaro che siamo esattamente dalla parte opposta della rieducazione.

A chi dava fastidio suo padre?

Ho sempre pensato che il problema fosse che non ha voluto denunciare Craxi, ma ultimamente mi gira in testa un pensiero che mi spaventa. Mi sto rendendo conto che quest’uomo dava fastidio ai suoi concorrenti in tutto il mondo. Tutte le settimane Di Pietro era all’ambasciata americana, che cosa si dicevano non lo sapremo mai. Però se mio padre dava fastidio alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane, allora bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando.

Si sente che ce l’ha un po’ con Craxi…

Diciamo che è stato un grandissimo politico, straordinario, un uomo che tra l’altro stava cercando di ridare dignità politica all’Italia in campo internazionale, e forse per questo è stato punito, però umanamente si è comportato come un codardo. Quel discorso alla Camera – quando disse a tutti di guardarsi in faccia e che nessuno era escluso da quel sistema, e tutti quanti hanno fatto finta di niente – è stato probabilmente un errore, in quanto ha delegittimato la politica tout court. Fallito quel tentativo, capisci che il problema sei tu: e allora trasforma il processo in una denuncia! Non scappare, non andartene! Il suo era un ruolo politico fondamentale, ma è stato troppo umano, quando avrebbe dovuto comportarsi da politico. Mio padre non è stato umano altrimenti non si sarebbe ammazzato. Ma ha rispettato il suo ruolo. Craxi no.

Graziella Balestrieri 20 Luglio 2023

Sergio Moroni.

Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per corriere.it il 19 maggio 2023. 

[…] Chiara Moroni, classe 1974, figlia di Sergio Moroni, deputato socialista che si tolse la vita nel settembre 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite, è originaria di Iseo, uno dei comuni della Bresciana in cui Fratelli d’Italia ha preso alle Politiche circa il 30%. La sua uscita di scena dalla politica italiana risale al 2013, quando il partito in cui militava da poco meno di tre anni – Futuro e Libertà (Fli), di Gianfranco Fini – non raggiunse il quorum. […] Oggi Moroni […] è una manager della multinazionale farmaceutica Bristol Myers Squibb e vive a New York […]

Moroni, suo papà si tolse la vita nel 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia. Lei all'epoca stava per compiere diciott'anni. Prima di andarsene scrisse molte lettere, una anche a Giorgio Napolitano, all'epoca presidente della Camera. Sergio Moroni si professava innocente e scrisse che «quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Sono trascorsi quasi 31 anni: quel gesto è servito?

«[…] Gran parte del mio impegno politico ha avuto l'obiettivo di tenere viva la sua memoria e quella del suo gesto. Che era un gesto politico. Non posso dire che sia servito perché dovrei dire che era giusto farlo e non potrei mai. Ma sono convinta che papà è riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era dato di generare un dibattito, almeno in parte».

Cosa vuol dire che «in quel momento non è servito»?

«La violenza in quegli anni di Mani Pulite era talmente forte che nonostante il gesto di mio padre avesse avuto un impatto molto significativo, non fu abbastanza per cambiare le modalità con cui veniva gestita l’inchiesta. Cionondimeno, la lettera di papà è sempre stata al centro di un dibattito sul garantismo. Quindi in quel momento quel suo gesto non è servito abbastanza, perché avrebbe potuto - ed era quello che papà voleva - innescare una riflessione più seria e critica». 

[…] «[…] alla fine i media hanno contribuito molto a rendere l'inchiesta di Mani Pulite un'inchiesta di piazza». 

[…] E con Berlusconi che rapporto ha avuto? Lei uscì nel 2010 dal Popolo della Libertà per seguire la sfida interna al centrodestra lanciata da Fini.

«Non ci siamo mai più sentiti da allora. Io gli ho scritto un paio di volte […] ma non ho mai avuto risposta. Nei suoi confronti conservo una vicinanza affettiva perché, pur contestando una serie di questioni legate alla politica e alla modalità in cui lui ha fatto politica, mi ha dato anche un sacco di opportunità. Mi spiace molto vedere che non sta bene, gli auguro di guarire presto». 

Cosa imputa alla gestione berlusconiana del partito?

«Lui ha sempre fatto il "dopo di me il diluvio", quindi non capisco quale futuro possa avere Forza Italia visto che lui non ha mai permesso la costruzione di una successione. Berlusconi non ha mai avuto nessuna forma di democrazia interna al partito». 

Ora è in corso uno scontro tra donne in Forza Italia e una sorta di ricambio nei rapporti di forza interni...

«Non mi sorprende, ci sono sempre stati lì dentro, sia tra donne che tra uomini. La cosa che però mi fa sorridere e trovo interessante è che chi rimane vittima di questo ricambio gridi allo scandalo per il metodo che viene utilizzato, dimenticandosi che è lo stesso metodo di cui si era precedentemente agevolato». 

Lei era presente il giorno del «Che fai, mi cacci?» di Fini a Berlusconi. Cosa ricorda?

«(Ride) Ero seduta lì tra le prime file, mi ricordo molto bene ogni passaggio. Fu l'esempio plastico del fatto che Berlusconi ha un concetto proprietario del partito e questa non è un'opinione, ma un fatto. Lui è un imprenditore e così come le aziende sono sue, anche il partito lo è. Fini invece viene da una cultura politica in cui le leadership si costruiscono e poi si affermano. Che poi è la stessa cultura politica in cui è cresciuta e si è formata Giorgia Meloni». 

[…] Elly Schlein, segretaria del Pd. Le piace?

«[…] non penso che potrei votare il Pd oggi. Ma nella vicenda Schlein c'è una cosa che mi piace molto: il fatto che una outsider prende la tessera e vince il congresso del partito. Significa che il Pd è un partito scalabile […] Dopodiché io sono socialista riformista quindi io e Schlein non la pensiamo uguale quasi su niente […]». […]

Raul Gardini.

«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.

«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera”  -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».

Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?

«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».

Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.

«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».

Chi li aveva presi?

«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».

Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.

 «Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».

Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.

«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».

E la pistola?

«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».

Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?

«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».

Quale?

«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».

Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.

«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».

Ancora i dossier?

«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».

Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».

«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».

Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.

«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».

 Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.

Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».

Ieri come oggi la farsa continua.

Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.

«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in  questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».

Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».

Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.

Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.

Raul Gardini, la vera storia del "Corsaro" tra scommesse azzardate e faide familiari. Luigi Bisignani su Il Tempo il 30 luglio 2023

Caro direttore, un popolo di santi, eroi, poeti e naviganti. Mai come in questi giorni queste parole sono state così calzanti nel sentire la narrazione di una certa stampa e Tv su Raul Gardini, in occasione dei 30 anni dalla morte del manager ravvenate. Non è stata da meno la Rai, con l’apologetico docufilm «Raul Gardini» - andato in onda il 23 luglio - nel rappresentare la vicenda umana e professionale del «Corsaro», così soprannominato per le sue scorribande in borsa. Un protagonista temerario e certamente con idee innovative, ma anche uno spericolato «gambler» con il gusto dell’azzardo che è riuscito a distruggere uno dei più grandi player agro-industriali al mondo nello spazio di pochi mesi.

Anche nella tv di Stato la vicenda viene fatta passare per una faida di famiglia, una sorta di Dynasty «acchiappa audience» che, peraltro, proprio sul terreno degli ascolti è stata un flop. Mentre il Gruppo Ferruzzi era in realtà il progetto di una vita del patriarca Serafino, lui sì visionario e all’avanguardia, che si era sempre tenuto ben lontano da politica e finanza e che aveva costruito un megapolo integrato con una filiera rigorosamente “homemade” di trasporti, logistica, stoccaggio. Solo per dare qualche numero, parliamo di circa 170 chiatte da 1.000 tonnellate per il trasporto fluviale, di una flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico e di enormi stoccaggi in silos giganteschi alla foce del Mississippi. Tant’è che alla Borsa di Chicago, come si fa con i «grandi», quando entrava il cavalier Ferruzzi, veniva suonata la campanella. Il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stata la migliore «dote» in mano a Gardini, utilizzata per l’acquisto non solo della Montedison, ma di tante altre realtà come Central Soia, Koipe, Carapelli ed anche per la celebrata avventura de Il Moro di Venezia.

Tornando al docufilm, bastano i primi minuti per capire la follia dello storytelling celebrativo a senso unico non appena, al bravo Bentivoglio/Gardini, mettono in bocca una falsità storica: gli fanno dire che non si sa chi sia più ricco tra suo padre Ivan e Serafino Ferruzzi. La verità è che da una parte abbiamo Ivan Gardini, un piccolo imprenditore che aveva come microcosmo Ferrara, una famiglia che coltivava pesche e, quale attività complementare, quella del «sabiunat», ovvero dragava il fiume per raccogliere la sabbia. Dall’altra parte abbiamo Serafino Ferruzzi, una leggenda che per orizzonte aveva il mondo intero e con una liquidità in tasca di migliaia di miliardi di lire. La «pietas» per il tragico destino di Gardini non deve però farci dimenticare la verità e dunque la sua distruttiva arroganza. E questa volta chi postula «ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità» resterà deluso perché un’altra verità sta emergendo da una domanda spontanea: perché, dopo tutto questo tempo, si continua a rappresentare epicamente la storia di Gardini, oramai smentita da carte e testimoni, come quella di un eroe senza macchia e peccato?

Le risposte possono essere molteplici: forse per evitare di parlare del ruolo nefasto e malefico di Mediobanca e di alcuni poteri forti che contribuirono in modo sostanziale a spolpare il gruppo Ferruzzi a beneficio della Fiat.

O, più semplicemente, per spostare l’attenzione nei giorni tragici di Mani Pulite su partiti come il Pci e personaggi finiti nel mirino della magistratura, come gli Agnelli, i De Benedetti e i Falck, sfruttando e approfittando, con un grimaldello perfetto quale era il carattere impetuoso di Gardini, delle divisioni nella famiglia di Ravenna. O, forse, anche per evitare di aprire uno squarcio in seno alla stessa Procura di Milano, che aveva bisogno di «crocifiggere» Sergio Cusani e i Ferruzzi per lavarsi la coscienza dai suicidi dei vari Castellari, Moroni, Cagliari e dello stesso Gardini, portando così avanti la tesi della corruzione nella vicenda Enimont. Ricostruzioni e verità giudiziarie che tuttavia non sempre collimano con le verità reali. Più che una corruzione sta diventando palese che si trattò dell’ennesimo sciagurato finanziamento illecito ai partiti - un habitus a quei tempi di tutti i grandi gruppi industriali - per mettere fine alla guerra personale che Gardini aveva dichiarato alla politica, lanciando in campo provocazioni di ogni genere.

Leggendaria fu quella di mandare sotto la casa del ministro dell’epoca delle partecipazioni statali, Carlo Fracanzani, truppe cammellate urlanti «la chimica sono io». Oppure, ed è un mio ricordo personale ancora vivo, quando accompagnai il dottor Gardini dal presidente Andreotti per perorare un beneficio fiscale osteggiato da parte della sinistra Dc e dal Pci. Gardini spiegò le sue ragioni in maniera entusiasmante ma uscendo, con un ghigno arrogante dei suoi, si congedò dicendo testualmente «Se non me lo accordate, io i soldi me li faccio dare dai francesi». Il Divo, allora, commentò sagacemente: «Questo è matto, che se li facesse dare dai francesi, cosa è venuto a fare». Enimont durò neanche due anni. Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe. Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa. Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè, in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».

Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava. Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta, ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno. Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica, la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul, in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni, così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi. Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza, anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.

Solo una volta è venuto meno a sé stesso, solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi, che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori. L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece... Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini, si inginocchiò in stile Wojtyla. Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti: «Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare. Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa. La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria, la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri, giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti. Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri, non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.

La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello, dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura. Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini. Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori. Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale. E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio. Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti: l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto. Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano, Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi, perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino, l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo. La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini, portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire. E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia che non permise alla famiglia Ferruzzi di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna - che al contrario apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama per poterla così spingere nell’abisso. Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano. Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità” che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini. Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».

Gardini, 30 anni fa la morte. L’avvocato che passò con lui le ultime ore: «Ecco perché si uccise». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.

Marco De Luca, l’avvocato che passò le ultime ore con l’imprenditore: «Nel suo volto una tristezza profonda». Oggi il 30mo anniversario della morte

Il 23 luglio di trent’anni fa Milano si svegliò con uno sparo. A palazzo Belgioioso, nel centro cittadino, veniva trovato il corpo senza vita di Raul Gardini. L’eco fu planetaria perché il personaggio era planetario: partendo dall’eredità del suocero Serafino Ferruzzi, Gardini aveva creato in dieci anni un gruppo agroindustriale e chimico, Ferruzzi-Montedison, di dimensioni mondiali, con oltre 90 mila dipendenti; e nel contempo aveva scalato, come armatore e velista, le vette della Coppa America.

La magistratura non ebbe dubbi: suicidio. E nessun dubbio ebbero i familiari, nonostante le ombre allungate sul caso da varie inchieste giornalistiche. Com’è possibile che la pistola, trovata dalla Scientifica, fosse sullo scrittoio anziché accanto a lui? «Qualcuno nel frattempo l’ha spostata», tagliò corto il pm. E l’assenza di polvere da sparo nelle mani di Gardini? «Sono state lavate al pronto soccorso». La strage di via Palestro di quattro giorni dopo attribuita alla mafia? «Nessun nesso».

Il suicidio squassò il mondo della finanza e la famiglia. Da allora i Gardini e i Ferruzzi, già ai ferri corti per via del suo siluramento dalla guida del gruppo, non si parlano. Ma al di là delle vicende familiari, erano giorni neri per Gardini: la mattina del suicidio, dopo che quella settimana l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si era tolto la vita in carcere, sapeva di dover essere arrestato su richiesta del pool Mani Pulite che lo accusava delle tangenti pagate ai politici per la joint venture Enimont. Il giorno prima, a palazzo Belgioioso, con Gardini c’erano il figlio Ivan, la moglie Idina, il dirigente Roberto Michetti e i suoi avvocati, Marco De Luca e Giovanni Maria Flick.

Avvocato De Luca, ci racconta l’ultimo giorno di Gardini?

«Il 22 luglio ero andato da lui nel pomeriggio per rivedere il possibile interrogatorio del giorno dopo, visto che doveva essere arrestato e ne avevo parlato con Di Pietro. E ciò anche alla luce delle dichiarazioni del manager Giuseppe Garofano, rispetto alle quali stavano uscendo delle anticipazioni di agenzia. Flick ed io restammo con lui quasi tutto il pomeriggio e la sera. Io me ne andai più o meno alle undici dopo che Idina era ripartita per Ravenna dicendo che sarebbe tornata la mattina successiva».

Come trovò Gardini?

«Mi sembrava un uomo molto provato, aveva nel volto una profonda tristezza».

Che cosa lo preoccupava?

«La sua prima preoccupazione riguardava la documentazione delle attività di Montedison di cui non disponeva ma che riteneva necessaria per difendersi dalle accuse. Essendo ormai fuori dal gruppo da un paio d’anni, da quando c’era stata la rottura in famiglia, non aveva quelle carte, in particolare sulla vicenda Enimont e sulle dazioni di denaro».

Doveva essere arrestato per le tangenti ai politici. Lei aveva trattato a lungo con Di Pietro, cosa aveva ottenuto?

«Io avrei voluto che Di Pietro sentisse Gardini per rendersi conto della sua posizione effettiva, di responsabilità nella fase decisionale, non però in quella esecutiva. Ma Di Pietro non volle. Alla fine riuscii a ottenere un arresto senza passaggio dal carcere. Gardini si sarebbe dovuto presentare il giorno 23 alle 11 di mattina in una qualche caserma della Guardia di Finanza, lì Di Pietro l’avrebbe interrogato a lungo, probabilmente fino a notte fonda, e Gardini sarebbe rimasto con noi fino a che il gip non avesse concesso i domiciliari. Il 24 poteva essere a casa».

(Ascolta qui i 5 episodi della serie podcast «Chiedi chi era Gardini», di Carlo Annese)

Gardini che cosa disse?

«Temeva che dall’interrogatorio di Garofano emergesse una realtà molto diversa da quella che pensava di rappresentare. Aveva paura cioè che gli gettassero la croce addosso».

La mattina dopo come andò?

«Dovevamo vederci alle 10 nel mio studio. Flick l’aveva cercato alle 7.30 per rinfrancarlo. Gli voleva offrire un caffè prima di venire da me. Ma non è riuscito a parlargli e quando è arrivato in piazza Belgioioso era già tutto successo».

Ha dei dubbi sul suicidio?

«Nessuno».

Che idea si è fatto sul movente?

«Io credo che l’abbia fatto per tutelare la sua famiglia e l’immagine. Non dobbiamo dimenticare che accanto alle vicende di Tangentopoli era maturato in quel momento il dissesto della Montedison che avrebbe potuto ripercuotersi su di lui e su molti altri con azioni riparatorie importanti dal punto di vista economico. Penso abbia considerato il fatto che senza di lui la sua famiglia sarebbe stata in qualche modo tutelata. In quegli anni Gardini era l’imprenditore per eccellenza in Italia. Il suo nome era straordinario, a Ravenna era considerato un re. Forse voleva evitare che le vicende di Tangentopoli potessero turbare tutto questo: lui e il suo mondo, nato accanto a Serafino Ferruzzi».

Se questo era il suo obiettivo l’ha raggiunto?

«Il suo ricordo, che condivido, è rimasto quello di un uomo di grandi capacità e vedute che ha portato molto onore a Ravenna e all’imprenditoria italiana. Quindi sì, credo abbia raggiunto l’obiettivo».

Trent'anni fa la scomparsa. Il ricordo di Gardini: Raul e Serafino gli inizi dell’avventura. “Voleva convincere i commissari europei sul bioetanolo ma aveva contro la lobby del petrolio”. Marco Fortis su Il Riformista il 18 Luglio 2023 

Sono trascorsi trent’anni dalla tragica morte di Raul Gardini, con cui ho avuto il piacere e l’onore di collaborare agli inizi della mia attività professionale. Gardini mi chiamò a Ravenna per dare vita all’Ufficio Studi del Gruppo Ferruzzi nel 1986. Fu per me una scelta non facile. Perché avrei dovuto abbandonare l’attività di condirettore della rivista “Materie Prime” di Nomisma che era stata co-fondata nel 1981 da me con il mio maestro accademico Alberto Quadrio Curzio, ma anche con il sostegno di Romano Prodi.

La rivista “Materie Prime” aveva diversi sponsor, tra cui il Gruppo Ferruzzi e si creò subito una sintonia ed una complementarità di competenze tra Gardini e me. Ciò fu determinante per la proposta che mi fece Gardini: lui imprenditore innovatore ed io economista con l’angolatura sulla economia reale ed internazionale. Per questo anche Quadrio Curzio, con cui collaboravo intensamente, mi incoraggiò nella mia decisione.

Così accettai, perché mi affascinavano le idee e i progetti che Gardini e suoi più stretti collaboratori stavano portando avanti e fui attratto dalla possibilità di lavorare in un grande gruppo industriale internazionale come la Ferruzzi, dove avrei comunque potuto continuare a fare ricerca economica ad alto livello, in parallelo con la mia attività universitaria, come poi è effettivamente successo fino ad oggi, prima con Ferruzzi-Montedison e poi con la Fondazione Edison.

Ricordare Gardini è, a mio avviso, molto importante. Non solo per tributare un omaggio alla memoria di un grande uomo. Ma anche per non perdere il “filo della storia”, di quella storia del nostro Paese e della sua economia i cui contorni spesso sembrano confondersi nel tempo. Per capire chi è stato Gardini occorre innanzitutto capire chi è stato prima di lui Serafino Ferruzzi, il fondatore del Gruppo, la cui figlia Idina era moglie di Gardini. Il “dottor” Ferruzzi fu, come Enrico Mattei nell’energia, un uomo di grande intraprendenza, capace di rendere l’Italia del Secondo Dopoguerra indipendente per i cereali e la soia dalle grandi multinazionali del settore. Ferruzzi sfidò le società di trading americane costruendo propri silos per i cereali sul Mississippi. Si diversificò geograficamente negli approvvigionamenti andando a comprare le materie prime agricole anche dalle cooperative argentine, si dotò di una propria flotta per trasportare le derrate in Italia, acquistò immensi possedimenti terrieri negli Stati Uniti e in Sudamerica. 

Divenne così importante ed autorevole nel mondo del commercio mondiale dei prodotti agricoli che quando egli arrivava alla Borsa dei cereali di Chicago le contrattazioni venivano temporaneamente interrotte per tributargli un deferente saluto. Prima di morire in un incidente aereo in una notte nebbiosa a Forlì mentre stava tornando a casa a Ravenna col suo jet, Serafino Ferruzzi aveva accumulato uno dei più importanti patrimoni d’Italia, stimato da Cesare Peruzzi in un articolo su “Il Mondo” del febbraio 1980 in circa 3 mila miliardi di lire, ed era riuscito a comprare dal cavalier Attilio Monti l’Eridania, la principale società italiana produttrice di zucchero. Furono così create le solide basi per lo sviluppo agro-industriale del Gruppo Ferruzzi che fu poi portato avanti dopo la sua scomparsa dal genero Raul Gardini.

La storia di Raul Gardini è certamente più nota di quella di Serafino Ferruzzi ma anch’essa è conosciuta solo in parte. Ed è probabilmente conosciuta più per le tragiche vicende finali di Enimont e le imprese veliche in Coppa America che non per il ruolo che Gardini ha avuto nell’industria italiana e mondiale. Ho avuto la fortuna di condividere con Gardini gli anni di lavoro che credo siano stati per lui i più belli: anni emozionanti e travolgenti, ma ancora sereni, diversamente da quelli successivi dell’avventura tormentata nella chimica, che gli avrebbe riservato fama ma anche tante amarezze. Un periodo, quello centrale degli anni ‘80, in cui Gardini era tutto proiettato verso il futuro ed era circondato da uomini fidati: dirigenti storici che aveva “ereditato” dal suocero Serafino ed altri emergenti, come Renato Picco, a capo dell’Eridania. La Ferruzzi a quell’epoca era veramente una grande squadra di manager preparati, chi a capo del trading, chi degli olii, chi dello zucchero, chi del calcestruzzo, chi delle navi, chi dei silos: tutti compatti attorno a Gardini. Una squadra che lo aiutò molto a muovere i suoi primi passi da leader, nel solco di Serafino. 

Inoltre, era entrato a far parte dei vertici anche Mauro De André, fratello del noto cantautore, che era diventato l’avvocato del Gruppo, della famiglia Ferruzzi e di Gardini. Un uomo di straordinaria professionalità, De André, un autentico baluardo per la Ferruzzi. Forse, se non fosse morto prematuramente, avrebbe saputo consigliare Gardini in taluni successivi momenti difficili della sua vita e la storia della Ferruzzi stessa sarebbe andata diversamente.

Lavoravo con Gardini nell’ufficio che egli aveva posto a piano terra nella sua casa, a Palazzo Prandi a Ravenna, in via Massimo d’Azeglio, assieme a Carlo Sama, suo più stretto assistente, con un mio giovane collaboratore e due segretarie. Tutti in un unico stanzone. Dietro l’ufficio, attraverso una serie di piccole porte comunicanti, si accedeva a una stanza privata di Gardini, dove lui amava leggere e riposarsi, circondato da suppellettili di caccia e di vela. Un’altra porta accedeva al giardino sul retro e a una piccola piscina. Un grande scalone portava al primo piano dove talvolta salivamo per il pranzo Gardini, Sama ed io, in compagnia della moglie di Raul, Idina, una donna straordinaria, semplice e molto religiosa, come la sorella Alessandra. Con Idina ho avuto la possibilità di rimanere sempre in contatto anche negli ultimi anni della sua vita, sia per dei consigli sia per organizzare eventi in memoria di Raul.

Il lavoro a Ravenna trascorreva tra Palazzo Prandi e il moderno edificio di vetro che ospitava le sedi della Italiana Oli e Risi e della Calcestruzzi. Con Gardini e Sama ci spostavamo a piedi per le vie della città da un ufficio all’altro. Nel week end cercavo spesso di rientrare a casa, in Piemonte. Viaggiavo tra Ravenna e il lago d’Orta a passo di lumaca con la mia vecchia Renault 4 bianca che raggiungeva appena i 90 all’ora e il lunedì mattina ripartivo alla volta della Romagna prima che albeggiasse, per poter arrivare in tempo in ufficio. Quando Gardini venne a sapere di questi miei faticosi spostamenti mi fece affidare una più confortevole e veloce Mercedes aziendale. 

Erano giorni febbrili, quelli del 1986. Gardini voleva convincere i Commissari europei a dar vita al progetto del bioetanolo, alcol da miscelare alla benzina ricavato dalle eccedenze cerealicole europee di quegli anni, che erano enormi e molto costose da mantenere. Ma aveva contro tutta la potente lobby dei petrolieri. Inoltre, Gardini voleva portare la soia in Italia: un altro progetto coraggioso. Da poco la Ferruzzi aveva preso il controllo del primo produttore di zucchero della Francia, la Béghin-Say, di cui Eridania deteneva già una importante partecipazione.

Una operazione difficilissima, quella di scalare un gruppo industriale francese, in cui però Gardini fu aiutato dallo straordinario lavoro di lobbying di un giovanissimo Sergio Cusani, che aveva rapporti consolidati col mondo saccarifero e finanziario transalpino. E ora, dopo quel successo, la Ferruzzi puntava a scalare la British Sugar, con l’appoggio dei bieticoltori inglesi ma con l’opposizione del governo britannico, che aveva più a cuore gli interessi coloniali dello zucchero di canna della Tate&Lyle. L’operazione British Sugar fu l’unica di quegli anni che Gardini non riuscì a portare a termine, forse per non aver tessuto lo stesso paziente lavoro diplomatico che caratterizzò la scalata vincente di Béghin-Say. La sconfitta di British Sugar fu però subito riscattata dall’introduzione della soia in Italia, che invece fu un enorme successo. Marco Fortis

Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Il ricordo di Gardini e lo sviluppo della Ferruzzi: “Era diventato l’interlocutore degli agricoltori italiani e francesi”. Marco Fortis su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

In quei giorni passavo ore con Gardini in ufficio o in giardino ad ascoltare le sue idee e i suoi progetti sull’agricoltura, sull’ambiente e sull’Europa, mentre egli, instancabile, tracciava appunti e schemi su fogli e agendine, e discutevamo su come poter trasferire questa narrativa alle istituzioni europee, al mondo politico e all’opinione pubblica.

Buttammo giù praticamente insieme il primo working paper del gruppo Ferruzzi, “Una nuova agricoltura per vivere meglio”, del settembre 1986, che fu tradotto anche in inglese e francese, e fu presentato poco dopo ad un convegno a Bruxelles e ai vertici della Commissione europea. Il secondo working paper, “La soia. Una coltura alternativa per l’agricoltura italiana”, fu pubblicato nel dicembre 1986. Va ricordato che il Gruppo Ferruzzi favorì lo sviluppo della coltivazione della soia in Italia rendendo il nostro Paese primo produttore europeo di questa importante leguminosa che permette di fissare l’azoto nel terreno senza l’impiego di fertilizzanti e che quindi favorì una vera e propria rivoluzione della rotazione agraria. Anche per questo motivo l’Università di Bologna avrebbe poi conferito a Gardini la Laurea Honoris Causa in Agraria.

A quei tempi si volava in continuazione con i Falcon aziendali partendo dall’aeroporto di Forlì, diretti un po’ ovunque, a New York, Bruxelles, Amsterdam, Londra, Parigi e Reims, in quest’ultimo caso ospiti di George Garinois, leader dei bieticoltori francesi, che dopo la scalata di Béhin-Say divenne amico di Gardini e lo invitava spesso a cena nella sua fattoria dove venivano cucinati gustosi polli allo spiedo. Intorno al camino acceso, Gardini e Garinois mi coinvolgevano in interminabili discussioni fino a notte inoltrata sull’agricoltura, sull’Europa, sulle monete. Ero affascinato da questi uomini che rappresentavano ai miei occhi il tipo di capitalismo che avevo sempre giudicato migliore, quello dell’economia reale, dei grandi progetti per lo sviluppo, in contrapposizione a quello finanziario e del facile arricchimento. Talvolta rientravamo in aereo direttamente in Italia alla mattina, appena in tempo per aprire l’ufficio. Nei viaggi più brevi tra Ravenna, Venezia e Milano ci si spostava invece con il grande elicottero verde della Ferruzzi.

Gardini era un uomo affascinante ed emanava un notevole carisma. Loquace con gli amici, era di poche parole in pubblico, spesso rispondeva a monosillabi, ma aveva improvvise battute fulminanti, come mostra anche una celebre intervista televisiva rilasciata ad Enzo Biagi. Nei suoi viaggi all’estero era spesso accompagnato dalla figlia Eleonora. Ricordo che un giorno a New York, a margine di un appuntamento d’affari, anziché seguire la segretaria che ci accompagnava, irrompemmo di proposito nella enorme sala di trading di una importante società di investimento con un centinaio di operatori sbalorditi ed ammutoliti che interruppero il loro lavoro per ammirare il passaggio di Raul e di Eleonora, elegantissima in un abito azzurro.

I Ferruzzi e i Gardini erano ovviamente persone molto benestanti e al centro della cronaca ma anche semplici e aperte. Per questa ragione erano molto amati e rispettati dai ravennati. Inoltre, sapevano mettere sempre a loro agio anche giovani collaboratori come me da poco entrati a far parte del loro mondo. Ricordo che, da poco assunto, in occasione di una fiera agricola vicino a Birmingham, nel pieno della scalata a British Sugar, trascorsi quasi un intero pomeriggio con Alessandra Ferruzzi, che mi raccontò la vita di suo padre e tanti aneddoti della sua famiglia.

Oltre che con Gardini collaboravo molto anche con Sama, a cui Raul affidò le Relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi. In quel periodo Carlo svolse un lavoro enorme per dare alla Ferruzzi una comunicazione di livello, fattore essenziale per far conoscere al mondo un gruppo fino a quel momento poco noto che però stava per entrare in Borsa, cosa che avvenne poco dopo con la holding Agricola Finanziaria. Un impegno, quello nella comunicazione, che poi valse a Sama anche la laurea ad honorem in sociologia da parte dell’Università di Urbino. Sama coordinò la prima campagna istituzionale della Ferruzzi con l’Agenzia Testa, con lo slogan “Ferruzzi Pianeta Terra”, e lavorò alla creazione del logo della Ferruzzi, con le sue tre foglioline verdi, ideato dalla Landor di San Francisco. Ricordo che in uno dei miei primi giorni di lavoro, raggiunsi direttamente in treno dal Piemonte Raul e Carlo a Torino presso l’Agenzia Testa per vedere l’evoluzione del progetto di immagine del Gruppo. C’era anche Alessandra Ferruzzi che Gardini coinvolgeva spesso nelle sue riflessioni strategiche perché riteneva molto preziosi i suoi pareri. Alessandra si era laureata con una tesi sul Chicago Board of Trade ed era molto competente sui temi dell’agricoltura e dell’agro-industria.

Sama fece anche realizzare da Fulvio Roiter uno splendido libro fotografico sulla Ferruzzi, le cui immagini sarebbero poi finite sui giornali e sulle riviste di tutto mondo a corredo delle interviste di Gardini, che andavano via via moltiplicandosi. Negli anni seguenti, assunto l’incarico di direttore delle relazioni esterne anche della Montedison, Sama ideò poi una delle campagne pubblicitarie più innovative di quell’epoca, consistente nella promozione di oggetti costruiti con le nuove plastiche biodegradabili del Gruppo, tra cui macchine fotografiche ed automobiline, distribuite in migliaia di esemplari con i numeri settimanali del periodico “Topolino”. Quei giocattoli, oltre trent’anni fa, furono i precursori degli odierni sacchetti ecologici della spesa in Mater-Bi. Nel 1990, Sama ed io avremmo poi lavorato insieme alla sponsorizzazione da parte della Ferruzzi del primo concerto dei Tre Tenori, José Carreras, Plácido Domingo e Luciano Pavarotti, che si esibirono in un memorabile concerto alle Terme di Caracalla, il 7 di luglio.

La Ferruzzi nella seconda metà degli anni ’80 era intanto diventata il più importante interlocutore diretto degli agricoltori italiani e francesi, ritirando la maggior parte dei loro raccolti di soia e barbabietola da zucchero, suscitando anche qualche gelosia tra le rappresentanze datoriali e sindacali italiane del settore. Memorabili furono le giornate della soia che la Ferruzzi organizzava presso la Torvis, una delle principali aziende agricole del Gruppo, oltre 4 mila ettari di terreni in provincia di Udine, con la partecipazione di migliaia di coltivatori e con in cielo le caratteristiche mongolfiere multicolori su cui spiccava il nuovo marchio del Gruppo. Nel corso di tali giornate venivano anche tenute importanti conferenze internazionali con la partecipazione di importanti personalità, tra cui il ministro dell’agricoltura Filippo Maria Pandolfi e il vicepresidente della Cee e commissario europeo all’agricoltura Frans Andriessen. In queste occasioni Gardini e Sama sovraintendevano personalmente tutta l’organizzazione degli eventi fino ai minimi particolari.

Quel mio dividermi tra l’Ufficio Studi e le relazioni esterne del Gruppo e tutti quei viaggi con Raul, Carlo e Alessandra Ferruzzi mi permisero di conoscere in breve tempo la immensa realtà della Ferruzzi, del suo know how, delle sue tecnologie, dei suoi siti produttivi e delle sue sedi nel mondo. In Italia Ferruzzi controllava Eridania, Italiana Olii e Risi e Carapelli; in Francia Béghin-Say, Lesieur e Ducros; in Spagna Koipe. La Ferruzzi aveva anche acquisito la divisione europea della statunitense Corn Product Corporation, che Gardini ridenominò Cerestar, così il Gruppo divenne il primo produttore europeo di amido e derivati con numerosi stabilimenti in diversi Paesi. Furono altresì comprate Central Soya negli Stati Uniti e Provimi, leader europea nei mangimi. La sede di Ferruzzi a Bruxelles divenne il più imponente ufficio di rappresentanza che un’impresa italiana avesse mai avuto nella capitale europea. Marco Fortis

Il terzo capitolo sulla scomparsa, 30 anni fa, dell'imprenditore. Raul Gardini e la scalata di Montedison che lo trasformò da “contadino” a “pirata” e “giocatore di poker”. Marco Fortis su Il Riformista il 20 Luglio 2023. 

Arrivò poi, nel 1987, la conquista di Montedison. L’acquisizione avvenne in modo quasi casuale, senza una strategia preordinata. Gardini riuscì ad inserirsi nella lotta tra Mediobanca e Mario Schimberni, il presidente di Montedison che aveva trasformato la società di Foro Buonaparte in una public company e aveva sfidato Enrico Cuccia sulla Bi-Invest dei Bonomi e su Fondiaria. Rastrellando titoli sul mercato, poco a poco Gardini accrebbe la sua quota in Montedison, peraltro comprando a un prezzo elevato le azioni di cui nel frattempo era entrato in possesso Carlo De Benedetti, nonché quelle di Gianni Varasi e di altri azionisti minori.

Alla fine, spiazzando lo stesso Cuccia, Gardini prese il controllo del gruppo chimico, pur appesantendo significativamente l’indebitamento della Ferruzzi, probabilmente animato anche dalla volontà di riuscire in una impresa completamente sua e non legata solo allo sviluppo dell’impero agro-industriale costruito dal suocero Serafino Ferruzzi.

A seguito della irruente scalata di Montedison, la stampa italiana, che in precedenza aveva soprannominato Gardini “il contadino”, prese anche ad indicarlo come “il pirata”. Alcuni media lo paragonarono ad un giocatore di poker che, con una impresa finanziaria eccessivamente spericolata, rischiava di mettere a repentaglio il patrimonio di famigliari fin troppo acquiescenti. E che con quella mossa, rischiava di scontrarsi irrimediabilmente anche con lo stesso Cuccia.

Sta di fatto che Montedison costituì un’autentica svolta per la Ferruzzi. Con grandi potenzialità ma anche con rischi enormi. Gardini si fidò inizialmente di Schimberni ma poi ruppe con lui quando capì che questi stava ulteriormente indebitando Montedison portando avanti in proprio progetti non condivisi. E fece piazza pulita di molti dei suoi uomini, mantenendo in squadra solo un professionista come Giuseppe Garofano e promuovendo gradatamente Italo Trapasso alla guida delle materie plastiche. Inoltre, Gardini chiamò Rita Levi Montalcini a far parte del Cda di Montedison. Liberatosi di Schimberni, si riavvicinò anche a Mediobanca perché aveva bisogno di Via Filodrammatici per rimettere ordine nei conti appesantiti del Gruppo.

È stato spesso enfatizzato che l’acquisizione della Montedison da parte della Ferruzzi sarebbe stata finalizzata all’obiettivo di esplorare un possibile legame tra agroindustria e chimica, un ponte che avrebbe potuto permettere di realizzare la “chimica verde”, altrimenti detta bioeconomia: vale a dire plastiche biodegradabili ottenute dal mais, carburanti ricavati dalle materie prime agricole come l’etanolo o il biodiesel, nuovi materiali, componenti e inchiostri biodegradabili. Frontiere che indubbiamente Gardini ha “focalizzato” con 35-40 anni di anticipo e che sono oggi più che mai di straordinaria attualità, nell’era di Greta Thunberg, delle nuove sfide che ci attendono con gli obiettivi ambiziosi della transizione ecologica e nel pieno del nuovo disordine globale innescato dalla pandemia e dall’aggressione russa all’Ucraina. Uno scenario che ha riproposto ad un Europa non sempre capace di programmare il proprio futuro la rude realtà di nuove improvvise “scarsità”, dal gas alle materie prime.

In realtà, il Gruppo Ferruzzi avrebbe potuto benissimo sviluppare la bioeconomia anche senza la Montedison. La visione della “chimica verde” di Gardini e del Gruppo Ferruzzi, infatti, era antecedente la presa di controllo del gruppo di Foro Buonaparte. E dentro la stessa Ferruzzi c’erano tecnologie d’avanguardia, come quelle dell’amido di Cerestar, che avrebbero potuto essere autonomamente indirizzate verso la bioeconomia con importanti prospettive di innovazione.

Il vero valore aggiunto per il nostro Paese dell’acquisizione di Montedison da parte del Gruppo Ferruzzi era invece potenzialmente un altro. Quello, cioè, di dare finalmente un azionariato stabile e un disegno industriale coerente alla società di Foro Buonaparte, dopo tanti anni tormentati di invadenze politiche e finanziarie, e di proiettarla sempre di più su scala internazionale. L’Italia avrebbe così potuto disporre non di una ma di ben due grandi multinazionali per competere sui mercati globali in settori strategici: la Ferruzzi nell’alimentare e la Montedison nella chimica. Senza contare che il nostro Paese avrebbe potuto averne in futuro anche una terza, cioè la Edison.

Furono Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi a proporre a Gardini di ripristinare il vecchio marchio Edison e di ridenominare così le ex centrali elettriche di autoproduzione ex Edison ed ex Montecatini riunite nella Selm, che era in pieno sviluppo sotto la guida di un altro capace manager, Giancarlo Cimoli.

Invece Gardini, forse per eccessiva generosità verso il suo Paese, forse per troppa ambizione, si “incartò” nell’affare Enimont. Quando le massime istituzioni politiche italiane, i vertici dell’Eni e i manager chimici della stessa Montedison proposero a Gardini un progetto per mettere in comune le attività della chimica di base di Montedison e quelle di Enichem in unico gruppo industriale, cioè di creare quella che sarebbe poi diventata la futura joint venture Enimont, l’imprenditore ravennate fu molto combattuto sul da farsi.

Lo ricordo bene perché ne parlammo insieme tante volte in quelle settimane. Da un lato, infatti, Gardini vedeva la Montedison soprattutto proiettata nel mondo, esattamente come la Ferruzzi. Una Montedison tutta concentrata sulle sue società d’avanguardia come Himont (leader nel polipropilene), Ausimont (leader nel fluoro) ed Erbamont (leader negli antitumorali). Gardini avrebbe potuto vendere la chimica di base di Montedison che non gli interessava, quella dei fertilizzanti, delle fibre, della raffinazione, del pvc e del polistirene, rientrando così in parte anche dagli investimenti finanziari fatti per scalare Foro Bonaparte. Questa era pure l’idea degli eredi Ferruzzi e di Sama.

Ma, dall’altro lato, Gardini era anche un uomo attratto dalle sfide impossibili. I vertici dello Stato italiano, tra l’altro, lo invogliarono a creare l’Enimont promettendogli anche dei consistenti sgravi fiscali per favorire la fusione societaria e lo rassicurarono sul fatto che Enimont sarebbe stato un gruppo gestito con mentalità privata e senza intromissioni politiche. Perciò Gardini alla fine accettò e, senza saperlo, quello fu l’inizio del suo calvario personale così come di quello dei suoi parenti, che anche in quella partita rovente non gli fecero mai mancare il loro sostegno, mettendo seriamente a rischio il loro patrimonio.

La storia andò molto diversamente da come Gardini aveva immaginato. Infatti, nei mesi immediatamente successivi alla nascita di Enimont apparve subito evidente che la politica e i partiti, nonostante le promesse che gli erano state fatte, non intendevano mollare per nulla la presa sulla chimica di base, sugli appalti, sulle rendite clientelari e i relativi consensi collegati, intromettendosi di continuo negli affari interni di Enimont, incluse le nomine di alcuni manager. E, per di più, gli sgravi fiscali promessi alla Ferruzzi dai massimi vertici dello Stato italiano non decollavano, con continui rinvii politici dal carattere ricattatorio e stop and go del Parlamento sulla materia. L’Enimont, guidata da Lorenzo Necci e Sergio Cragnotti, era letteralmente impantanata e in quelle condizioni costituiva una emorragia che sul piano finanziario rischiava di dissanguare giorno dopo giorno la Ferruzzi-Montedison.

Gardini si sentì ingannato dalle istituzioni del suo Paese. E da uomo d’azione e di mercato quale era reagì cercando di scalare l’Enimont in modo ostile, con l’appoggio di investitori francesi, dando inizio ad una guerra all’ultimo sangue con lo Stato italiano. Il paradosso di queste dolorose vicende è che il gruppo Ferruzzi, così poco avvezzo ad avere a che fare con la politica italiana, alla fine fu coinvolto in quella che è stata definita la “madre di tutte le tangenti”. Marco Fortis

Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, l’acquisto a tutti i costi di Enimont, il fallimento e l’inchiesta Mani Pulite. Marco Fortis su Il Riformista il 21 Luglio 2023 

Messo all’angolo, Gardini alla fine decise di vendere all’ENI la quota in Enimont e si dimise polemicamente da tutte le cariche che ricopriva in Italia, nominando il giovanissimo figlio Ivan presidente del Gruppo. Furono giorni molto difficili quelli, sia per lui sia per Ivan. Ricordo che spesso la domenica pomeriggio partivo da Linate e li raggiungevo a Roma nella sede della Ferruzzi-Montedison presso l’Ara Coeli, dove c’erano anche alcune stanze per dormire. Lì lavoravamo insieme a discorsi e progetti e poi dopo cena si discuteva a lungo di possibili nuove strategie. Ma il morale di entrambi era molto basso.

È un peccato che molti dei ricordi storici che riguardano Raul Gardini imprenditore si riducano, oggi, alla vicenda di Enimont e ai drammatici episodi che ne seguirono. In altri Paesi un gruppo come la Ferruzzi-Montedison sarebbe stato giudicato un patrimonio nazionale da difendere e da valorizzare. Gli Stati Uniti, ad esempio, normalmente fanno così. Tanti tycoon dell’odierna economia americana sono partiti da poco più che dei garages o tramite avventurose start up. Ma, grazie ad un ambiente istituzionale, politico, finanziario e fiscale favorevole, hanno potuto creare delle multinazionali che oggi dominano i mercati mondiali e le filiere dell’innovazione tecnologica. In Germania i grandi gruppi industriali storici dell’auto, dell’elettromeccanica, della chimica e della farmaceutica sono sempre stati considerati dei patrimoni nazionali strategici così come lo sono in Francia le grandi imprese del lusso o della microelettronica, quelle dell’energia, della farmaceutica, della cosmetica o dell’auto.

Con la successiva disintegrazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, si è perduta invece una fetta importante della storia e del potenziale di sviluppo economico del nostro Paese. Si sono disperse tutte le avanguardie della nostra chimica, che sin dai tempi della Montecatini era leader nel mondo, e aveva vinto anche un premio Nobel con Giulio Natta. E si è anche disperso lo straordinario patrimonio commerciale e agroindustriale creato in quarant’anni di lavoro in tutto il mondo dal fondatore della Ferruzzi, Serafino Ferruzzi, e poi da Gardini.

La vicenda giudiziaria su Enimont, che coinvolse il Gruppo Ferruzzi-Montedison in Mani Pulite e vide il triste epilogo prima del suicidio di Gabriele Cagliari (le cui lettere dal carcere sono una delle più drammatiche testimonianze di quegli anni) e poi di quello di Raul Gardini (un uomo che probabilmente si sentiva troppo libero e orgoglioso per poter passare anche una sola notte in prigione), portò alla perdita del gruppo Ferruzzi-Montedison stesso da parte della famiglia Ferruzzi e alla sua progressiva vendita a pezzi, una volta passato sotto il controllo di Mediobanca.

Come tutti gli uomini, Gardini ha anche commesso alcuni errori. E uno dei più gravi è certamente stato proprio quello di intestardirsi a voler conquistare Enimont a tutti i costi. Per di più in un Paese come l’Italia, stretto tra vecchi presunti “salotti buoni” della finanza che certamente non gli erano amici e un sistema politico “invadente” come pochi altri in economia. Tra l’altro, per guadagnare rapidamente somme di denaro da mettere sul piatto della bilancia dello scontro Enimont, in quei giorni Gardini si lanciò anche in una spericolata speculazione finanziaria sulla soia al Chicago Board of Trade, mal consigliato da alcuni nuovi traders francesi ed americani che lui stesso aveva promosso ai vertici del trading Ferruzzi, in discontinuità con gli uomini fidati della vecchia scuola di Serafino. L’operazione andò molto male, minò il prestigio della Ferruzzi negli USA e costò alle casse del Gruppo e della stessa famiglia Ferruzzi, secondo le cronache e i resoconti giudiziari dell’epoca, non meno di 300 milioni di dollari o forse di più (la cifra esatta non si è mai saputa).

Un altro errore di Gardini, forse dettato dall’esito frustrante della stessa vicenda Enimont, fu quello di voler costringere a tutti costi gli eredi Ferruzzi a mettere in pratica un passaggio generazionale anticipato che lui riteneva innovativo ma che, di fatto, avrebbe praticamente privato i figli di Serafino delle loro legittime quote azionarie di controllo. I cognati fino a quel momento non gli avevano mai fatto mancare il loro più totale appoggio, nemmeno nei momenti più difficili. Ma il suo irrigidimento su quel progetto di successione portò ad una rottura con Arturo, Franca e Alessandra Ferruzzi e con Carlo Sama, che nel frattempo aveva sposato quest’ultima. Ciò indebolì notevolmente il Gruppo e lo espose, nel pieno delle indagini della magistratura, all’attacco di Mediobanca che, di fatto, portò poi alla espropriazione della Ferruzzi-Montedison da parte di quest’ultima. Separandosi dai Ferruzzi, Gardini perse anche quella squadra di fedeli manager che avevano sempre lavorato con lui, da Picco a Ceroni, da Venturi a Trapasso e tanti altri, che decisero di rimanere nel Gruppo con gli eredi di Serafino, non riuscendo a comprendere le ragioni di quella separazione.

Invano, negli ultimi giorni prima dell’escalation di Mani Pulite, Carlo Sama, che era sempre rimasto in rapporti con Gardini, cercò con pragmatismo di progettare con Goldman Sachs un disegno di riunificazione dei gruppi Ferruzzi, Gardini e Cragnotti che avrebbe consentito di affrontare meglio le difficoltà che si stavano profilando all’orizzonte. Ma ormai era tardi e l’ondata di arresti del pool del tribunale di Milano era in arrivo.

Vale la pena di ricordare che il Gruppo Ferruzzi-Montedison era all’epoca più o meno indebitato come altre importanti realtà industriali italiane, cioè come Fiat o il Gruppo De Benedetti, ma a differenza di queste era largamente in utile ed estremamente solido dal punto di vista industriale. A maggior ragione, quello che è accaduto in seguito è semplicemente assurdo dal punto di vista dell’interesse nazionale. Infatti, il sistema politico-istituzionale-finanziario italiano ha colpevolmente assecondato la dissoluzione di un patrimonio industriale unico al mondo, quello del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che costituiva una delle poche realtà su scala globale che l’Italia abbia mai posseduto.

Benché avesse messo dei manager indubbiamente capaci a gestire le società ex-Ferruzzi-Montedison, come Enrico Bondi e Stefano Meloni, Mediobanca non sembrava avere un disegno industriale preciso per le realtà produttive di cui si era impossessata. Himont, leader mondiale nel polipropilene, fu venduta a gruppi stranieri. E, ironia della sorte, morto Enrico Cuccia nel giugno del 2000, la stessa Mediobanca che a suo tempo, approfittando dei giorni caotici di Mani Pulite, si era impadronita con un blitz dell’impero creato dai Ferruzzi e da Gardini, nell’estate del 2001 fu “scippata” della Ferruzzi-Montedison stessa, che nel frattempo era stata denominata Compart, con una OPA ostile guidata da Électricité de France e con il “tradimento” della vecchia e tradizionale alleata Fiat e di alcune banche italiane che appoggiarono quel colpo di mano contro via Filodrammatici.

Alla francese EdF, ovviamente, non interessava l’agro-industria dell’ex gruppo Ferruzzi, sicché successivamente Eridania Béghin-Say fu anch’essa venduta così come altre società chimiche residuali dell’ex Gruppo Montedison, mentre La Fondiaria sarebbe poi finita al Gruppo Ligresti. Ed è già tanto che EdF, un soggetto straniero, si sia poi dimostrata negli anni seguenti un azionista industriale valido per Edison, sostenendola sempre nei suoi investimenti in Italia e accompagnando i suoi manager fino ai successi recenti.

Ma il bilancio finale di tutte queste vicende per il nostro Paese è fallimentare. Perché con la fine di Ferruzzi e Montedison l’Italia ha perso per sempre la possibilità di essere protagonista in due settori strategici.

Marco Fortis

Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, la vela del Moro di Venezia e la Coppa America con l’amico Paul Cayard per dimenticare i tradimenti in politica. Marco Fortis su Il Riformista il 22 Luglio 2023

Negli ultimi anni della sua vita, le fatiche e le frustrazioni che Raul Gardini aveva accumulato in Italia furono temperate da una intensa attività di relazioni internazionali. Ma, soprattutto, i suoi giorni furono illuminati dai grandi successi nella vela del Moro di Venezia, con l’amico Paul Cayard al timone.

Sentendosi “tradito” dalla politica italiana e alla ricerca di nuovi stimoli, Gardini già prima del definitivo abbandono di Enimont si era sempre più concentrato sulle attività fuori dal nostro Paese, dove godeva di un grande prestigio. Fu chiamato da Michail Gorbačëv a progettare un immenso investimento agricolo ed agro-industriale in URSS nell’area di Stavropol. Sempre in quel periodo Gardini incontrò il presidente americano George Bush e numerosi ministri del governo statunitense. E tenne in America importanti conferenze, una delle quali all’Università di Harvard.

Uno dei riconoscimenti più significativi tributati a Gardini fuori dai nostri confini, fu senza dubbio l’invito che gli fece la Sorbona nel 1990 a tenere una conferenza nell’ambito delle iniziative della Cité della Réussite, onore riservato prima di lui solo ad un altro italiano, Gianni Agnelli. Allo scopo realizzammo anche il primo film di presentazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che fu proiettato prima della conferenza e che è ancora oggi possibile vedere su Yutube. Fu, quello, un momento molto importante, con la presenza di tutti i membri delle famiglie Gardini e Ferruzzi, inclusa la anziana vedova di Serafino, signora Elisa, nonché dei principali manager del Gruppo.

Intanto, nei cantieri della Montedison di Tencara si stavano costruendo le avveniristiche imbarcazioni del Moro di Venezia, per partecipare alla sfida di Coppa America. La passione di Gardini per il mare, parallela a quella per la caccia, era di vecchia data, così come l’amicizia con il suo marinaio di fiducia ed intimo amico, Angelo Vianello.

Gardini aveva già armato molte barche nella sua vita, a cominciare da “Naso Blu” e “Orca 43” fino a “Naif”, e partecipato a tante regate. Aveva anche avuto altri “Mori”, da giovane. Infatti, per fare un salto di qualità ed entrare nel mondo dei maxi, già a fine anni ’70 Raul e Arturo Ferruzzi avevano chiesto al giovane progettista German Frers di disegnare quella che sarebbe diventata una delle più belle barche a vela da regata del Novecento.

Costruito dai cantieri Carlini in legno, quel grande sloop con un solo albero si sarebbe chiamato Il Moro di Venezia. Fu un regalo di Serafino Ferruzzi ai suoi figli. Questi a loro volta regalarono poi Il Moro a Gardini in seguito. Era una imbarcazione ammirata ed invidiata anche dal re di Spagna Juan Carlos di Borbone, che frequentava abitualmente Raul a Palma di Maiorca. Lo stesso Moro sarebbe poi stato protagonista di un’avventurosa Fastnet durante una furiosa tempesta nel 1979, quando Gardini e il resto dell’equipaggio riuscirono a portare a casa la pelle solo grazie al coraggio e alla forza di Vianello, che rimase per ore legato al timone.

Quel Moro fu il precursore dei Mori successivi, dal Moro di Venezia III che conquistò nel 1989 il mondiale maxi con al timone Paul Cayard fino a quelli che in seguito infiammarono la sfida delle sfide: la Coppa America. Una spedizione che Gardini concepì sin dall’inizio non solo come una impresa sportiva, capitanata dalla Compagnia della Vela di Venezia, sempre con Cayard al timone, ma anche come una sfida tecnologica che avrebbe reso Montedison, con i suoi materiali avanzati impiegati nella realizzazione dello scafo, ancor più famosa nel mondo. Tant’è che Italo Trapasso, che era a capo della chimica del Gruppo, fu nominato da Gardini Vicepresidente del Sindacato de “Il Moro di Venezia”.

Il primo Moro di Coppa America fu varato nel marzo 1990 a Venezia. Fu un evento fastoso con tutta la città e centinaia di ospiti illustri presenti; un avvenimento di rilevanza mondiale, trasmesso in TV, la cui regia fu affidata a Franco Zeffirelli, con musiche di Ennio Morricone. Madrina del varo fu la figlia più giovane di Gardini, Maria Speranza.

In quei mesi, avevo aiutato Gardini a curare i dettagli e i decori dei Magazzini del Sale, a Venezia, allestiti appositamente per la sfida alla Coppa America. E insieme lavorammo anche al Libro ufficiale della sfida del Moro di Venezia, che conteneva i bozzetti del leone simbolo del Moro e aveva una copertina lucida rosso carminio con il leone in rilievo.

Una sera a Palazzo Dario, dove abitava quando stava a Venezia, feci ascoltare a Gardini la canzone “Listen to the Lion” del grande cantante irlandese Van Morrison. Musica e testo gli piacquero molto e Gardini decise di inserirne le parole, che parlavano dei viaggi per mare dei vichinghi verso l’America, subito all’inizio della pubblicazione. La stessa canzone divenne uno dei motivi musicali ufficiali del Moro, le cui imprese venivano trasmesse tutti i giorni da Tele Montecarlo, con commentatori tecnici d’eccezione come Cino Ricci, già protagonista della precedente sfida italiana in Coppa America di “Azzurra”.

Nel 1992 il Moro di Venezia vinse la Louis Vuitton Cup battendo la Nuova Zelanda e si guadagnò così il diritto a disputare la finale di Coppa America a San Diego contro gli americani. Timonato da Paul Cayard, Il Moro eliminò in semifinale Francia e Giappone e in finale sconfisse i neozelandesi, divenendo così la prima imbarcazione di un paese non anglofono a poter ambire alla coppa in 141 anni di storia del trofeo. 

Nella sfida finale contro il defender, disputatasi sempre a San Diego, il Moro però fu sconfitto per 4-1 dall’imbarcazione americana del miliardario petroliere americano Bill Kock, “America Cube”, capitanata da Harry Buddy Melges. Fu una grande delusione ma era stata comunque una straordinaria avventura, che aveva fatto innamorare tutti gli italiani inchiodati davanti alla tv di uno sport come la vela e reso Gardini estremamente popolare.

La fase finale di quell’avventura era cominciata esattamente un anno prima, nell’estate del 1991, con il campionato mondiale degli scafi di Coppa America, disputatosi anch’esso a San Diego. Gardini volle che lo accompagnassi. Stavo in hotel a dormire ma vivevo praticamente tutto il resto della giornata con Raul a bordo del suo yacht. Per ingannare il tempo e anche per stemperare un po’ il nervosismo in attesa delle gare, scrivevamo appunti sui materiali avanzati e sulle tecnologie di Montedison impiegate sul Moro in vista della pubblicazione di un vero e proprio documento aziendale sull’argomento. Il marinaio Angelo talvolta preparava qualcosa da bere o da mangiare e si univa a noi, prendendoci in giro e dicendoci di smettere di lavorare.

Durante le regate salivano a bordo dello yacht d’appoggio diversi parenti ed ospiti e poi seguivamo tutti insieme con trepidazione le competizioni in mare aperto, con la nostra imbarcazione a motore ferma ma paurosamente ondeggiante nella marea lunga del Pacifico, mangiando di continuo banane per combattere il mal di mare e non sentire l’odore acre del carburante. Gardini di tanto in tanto prendeva un piccolo motoscafo e raggiungeva il Moro per trasferire a Cayard e compagni tutta la sua determinazione e il suo incoraggiamento.

Alla fine, il Moro vinse quel mondiale, dimostrandosi superiore come imbarcazione ed equipaggio a tutti gli altri contendenti. L’avvicinamento alla sfida di Coppa America era cominciato nel migliore dei modi. Ricordo molto bene Gardini e Cayard, durante la premiazione, raggianti, circondati da tutti i membri della squadra del Moro. E fu un’emozione da brivido quella sera, rientrando tardi in hotel, ascoltare sul lungomare di San Diego gli altoparlanti in festa che diffondevano ancora a tutto volume “Listen to the Lion”, con la voce di Van Morrison che ruggiva proprio come il nostro leone di Venezia. Marco Fortis

Decido io”, Raul Gardini trent’anni dopo. Filippo Tabacchi su L'Identità il 22 Luglio 2023 

“Decido io”, diceva e così fece anche quella mattina di trent’anni fa, alle 8:15 del mattino, quando una calda Milano aveva appena bevuto il caffè e stava ancora sonnecchiando. Si sparò alla tempia con la Walther PPK, la pistola di James Bond e in fondo lui un po’ Bond lo era stato, avventuriero e con una vita avventurosa, sempre impeccabile nel vestire, iconico sapendo di esserlo. Ma Bond non muore mai, Raul invece era morto per davvero. Il provinciale di Ravenna, Il Contadino, arrivato a Piazza Affari dopo scalate ostili, sempre all’ attacco, sempre davanti alle sue truppe, sempre in prima fila, sempre contro tutto e tutti anche quando non era così ma a lui serviva essere così, un carro armato, fermato da un colpo di 7.65 alla tempia, A Palazzo Belgioioso esattamente trenta, lunghissimi anni fa. Era già ricco, di una famiglia di campagna che aveva il proprio capitale nella terra emiliana, laboriosa e  poco godereccia, senza i lussi che la borghesia contadina fatica appunto a concedersi . Ma lui voleva di più, non voleva tutto, non gli bastava tutto, ma sempre di più e non si trattava solo di quattrini. Entrò giovane nel Gruppo Ferruzzi, una creatura strana creata da suo suocero Serafino, un genio con lo sguardo furbissimo e i baffetti bianchi che era partito vendendo per i paesini oli e sementi con la bicicletta ed era diventato il leader più grosso gruppo agroalimentare italiano e uno dei players mondiali, arrivando a possedere terre ed impianti anche negli USA. Ma Raul volava di più, voleva essere il, numero uno tra i numeri uno, primus e basta senza inter pares. Morto Serafino nel 79 in un disastro aereo, le figlie e il figlio di Ferruzzi gli diedero le deleghe operative del gruppo e lui scateno una tempesta, che sconvolse il cosicdetto salotto buono della finanza italiana , che non lo digerì mai e di cui lui non si sentiva parte parte ma sapeva che si sarebbe dovuto sedere con quelli che lui considerava degli elefanti invecchiati in una savana chiusa da sempre. Cercò l’ alleanza con  chi dava le carte , quel croupier e padrone del casinò che era il dominus di Via dei Filodrammatici ovvero Cuccia, vero padrone del capitalismo italiano, come l’ Innominato di manzoniana memoria il quale non rispondeva  a nessuno tranne che a se stesso. L’ accordo ci fu, poi si ruppe rovinosamente ,poi lo ottenne ancora e alla fine il giocattolo si ruppe. Acquisì Standa, La Fondiaria, Il Messaggero, migliaia di immobili, investimenti miliardari nello sport, scalò la Montedison contro il parere di tutti e allora il Vecchio si arrabbiò davvero senza battere ciglio. Immaginò di creare il più grande colosso agro alimentare industriale del mondo, partecipando alla creazione dell’ Enimont, una joint venture con l’ Eni come socia al 40% ed il restante 20% flottante in Borsa, ma pensava già da mesi come accaparrarsi la maggioranza assoluta. Decido io, la chimica sono io, disse a Padova. Ma il colosso pubblico – privato aveva le fondamenta di argilla e i partiti non si sarebbero fatti sfilare la chimica da sotto il culo e comincio un’ altra guerra che lo portò alla rovina, era una battaglia persa in partenza e Raul pensava che pagando , a carissimo prezzo, l’ avrebbe portata a casa anche stavolta. Il gruppo era carico di debiti e quando in piena Tangentopoli, il procuratore Borrelli disse un giorno ” abbiamo acceso un faro su Mediobanca”, il salotto buono capì subito e qualcuno cominciò davvero a preoccuparsi. Il faro non illuminò mai quella direzione e spostò la sua luce accecante sull’ anello debole del capitalismo italiano, il Gruppo Ferruzzi, la sua obesità di quattrini spesi e quella voragine di debiti con le banche. La famiglia gli tolse le deleghe, lui ricevette una cifra mostruosa pari 505 miliardi cash per togliersi dalla palle: era diventato ricco oltre ogni immaginazione ma aveva perso. La sconfitta fu bruciante e non si riprese mai. Tentò di distruggere la sua creatura ma non ci riuscì e una pallottola trent’ anni fa mise fine a quel sogno proibito, alla vita di quell’ imperatore ravennate che era ad un passo dal diventare un Dio ma che cadde come Icaro,  accecato non dal sole ma dalla sua stessa figura. Ci piace ricordarlo al timone del Moro di Venezia, il suo ultimo grande sogno, col suo berretto e i suoi abiti bianchi, quel miliardo di Winston fumate e spente e accese, una dietro l’ altra, quel sorriso da eterno ragazzo che ammaliò l’ Italia intera. La sua storia dovrebbe essere raccontata più approfonditamente, come forse, molto forse farà la docu fiction su Rai1 in onda stasera, ma il suo ricordo sarà impossibile da dimenticare, mai oblio ci sarà . Non abbiamo più visionari nel nostro paese ma solo personaggi che pensano a domattina e non ai prossimi dieci o venti anni. Amo il vento, diceva. Aveva ragione.

Personalmente sono dell’idea che la vita debba essere vissuta fino in fondo e non per finta, anche se talvolta c’è da farsi venire il mal di stomaco.» 

Raul Gardini moriva trent’anni fa: nascita e crollo di un impero che ha cambiato Ravenna. L’impatto sull’economia, i palazzi del centro, il Pala De André, lo scudetto del Messaggero volley. La mattina del giorno di Sant’Apollinare del 1993 la notizia del suicidio dell’imprenditore. La nautica, una delle grandi passioni dell’imprenditore Raul. CARLO RAGGI il 23 luglio 2023 su ilrestodelcarlino.it.

"Non ti dimenticheremo", una promessa, un impegno, di più, un imperativo, vergato centinaio di volte nei quadernetti sui tavolini dentro San Francesco, molti con calligrafia incerta, semplice, a testimoniare come Raul fosse sentito come uno di loro anche dalle classi sociali che nulla avevano a che spartire con il potere economico.

Lo disse bene Cristina Muti: "Abbiamo perso uno di noi, un fratello di tutti". Perché in realtà Raul Gardini, per i ravennati doc, era rimasto ‘il contadino’ di sempre, che giocava a carte, andava a caccia, aveva la passione per le barche e la velocità.

Anche quando le sue imprese a livello internazionale riempivano ogni sera i telegiornali, ogni mattina i quotidiani. Quando quella mattina del giorno di Sant’ Apollinare di 30 anni fa si diffuse la notizia che si era tolto la vita, a Milano, moltissimi ravennati accorsero a Marina, davanti al Gran Hotel, luogo di abituale dimora estiva per Idina, la moglie. Solo poche ore prima si erano salutati a Milano e l’appuntamento era per l’indomani e invece poco dopo le 8 arrivò la tragica notizia. Una moltitudine silenziosa, addolorata, incredula, peraltro già scossa da mesi, da quando quotidianamente l’impero Ferruzzi stava precipitando dalle stelle della finanza e dell’economia mondiale alla polvere dei ribassi borsistici e dell’inchiesta giudiziaria.

Una testimonianza sincera di solidarietà, una moltitudine che si ampliò a dismisura alla domenica, alla camera ardente in San Francesco e nel pomeriggio di lunedì 26 luglio quando si svolsero i funerali. Una testimonianza che voleva essere anche un riconoscimento per i traguardi raggiunti da Gardini negli undici anni in cui era rimasto alla guida del Gruppo Ferruzzi (fino al novembre 1990) e che enormi ricadute positive avevano avuto sull’economia ravennate e, quindi, sull’occupazione per moltissime persone: a Ravenna i dipendenti del Gruppo raggiunsero quota milleduecento. Che inevitabilmente adesso temevano per il futuro. Ripercorriamo, allora, in questo trentennale da quel tragico sparo (indotto in Raul dall’inaccettabile consapevolezza di essere in un vicolo cieco per il fatto che gli era impedito di accedere ai documenti societari per la propria difesa), gli anni della costruzione dell’impero, i cui confini andavano dall’Europa agli Usa all’Argentina.

Un impero le cui fondamenta venivano da lontano, dagli anni del dopoguerra: Serafino Ferruzzi, senza conoscere una parola di inglese, divenne uno dei più importanti imprenditori del commercio mondiale dei cereali, con base a New Orleans, città che gli conferì anche la cittadinanza onoraria. E quando negli anni Sessanta accolse il giovane Raul, fidanzato con la giovanissima figlia Idina, nelle file di quell’impero, ben pochi a Ravenna ne conoscevano l’estensione, la portata finanziaria. Furono scoperte dopo la tragica morte di Serafino, la notte del 10 dicembre 1979 quando l’aereo su cui stava rientrando da Londra si schiantò contro un mulino alle porte di Forlì, cinque le vittime.

Fu allora che la famiglia Ferruzzi consegnò lo scettro del comando a Raul. Il quale rivoluzionò la gestione puntando, con non poco azzardo, sulle mirabolanti azioni finanziarie e acquisizioni societarie per poter raggiungere comunque gli obiettivi che aveva in testa, obiettivi diversificati, dalla produzione e trading dei cereali al calcestruzzo, dallo zucchero all’olio di semi, e poi la chimica con la grande scommessa sul bioetanolo, ricavato dalla soja, "il carburante verde del futuro".

Per quanto Serafino amasse restare nell’ombra, così non fu per le iniziative, spesso clamorose, del Gruppo Ferruzzi guidato da Gardini. Iniziative anche benefiche e locali, come nel 1982 il lancio di una sottoscrizione a livello cittadino per l’acquisito della prima Tac per l’ospedale di Ravenna: entrò in funzione nel novembre ‘83. Mese dopo mese i ravennati si accorgevano che il volto della città stava cambiando, a cominciare dal cantiere a palazzo Prandi, in via D’Azeglio, che Gardini acquistò e fece ristrutturare per farne residenza e luogo di rappresentanza, un palazzo sempre più frequentato da nomi illustri della borghesia imprenditoriale italiana dell’epoca, da Agnelli a De Benedetti, da Romiti a Cefis: eravamo alla fine degli anni 80, quando Gardini iniziò la scalata alla Montedison.

Via D’Azeglio venne presto occupata dalle grosse auto di rappresentanza, Mercedes grigie o nere con i vetri fumé e l’antenna del radiotelefono (a Ravenna a disposizione dei manager se ne contava una trentina) condotte da autisti guardiaspalle armati addestrati alle tecniche antisequestro (che sfrecciavano nelle corsie riservate a bus e mezzi di soccorso). E non mancava la Ferrari F 40 di Carlo Sama, il cognato di Raul che nel frattempo era andato ad abitare nell’edificio ristrutturato in angolo a via Pasolini davanti a palazzo Prandi. Un altro cantiere già era spuntato in via Guerrini per la costruzione del ‘palazzo di vetro’ dove trovò sede la Calcestruzzi guidata da Lorenzo Panzavolta e a inizio 1990 in via Diaz fu la volta della ristrutturazione del palazzo che aveva ospitato prima l’Upim poi la Rinascente e che divenne la sede della Ferfin (Ferruzzi Finanziaria, la holding) un Gruppo che valeva 25mila miliardi di lire.

In quel tempo Gardini trasferì la residenza a villa Monaldina, un casolare di campagna appena ristrutturato, sulla strada per Punta Marina e lì atterrava con l’elicottero. Nel 1987 Raul Gardini acquisì la maggioranza delle azioni di Montedison e con essa si ritrovò in tasca l’allora primo quotidiano di Roma, il Messaggero che, passati due anni, nel dicembre ‘89 sbarcò a Ravenna con una frotta di giornalisti e una redazione in via Salara vicina a quella del Carlino. Seguì l’apertura di altre tre redazioni in Romagna. Tutte le edicole furono monopolizzate dal nome ‘Messaggero’ e lo stesso nome comparve sulle magliette dei pallavolisti ravennati.

Gli appassionati di volley non potranno mai dimenticare lo scudetto del Messaggero Volley Ravenna conquistato il 30 maggio 1991 al ‘Pala Mauro de Andrè’ il Palazzo dello sport e delle arti voluto da Raul (e da Sama) e che porta il nome del figlio del manager della Ferruzzi (a capo di Eridania), Giuseppe, costruito fra il 1988 e il 1990. L’espansione del Gruppo Ferruzzi indusse le banche collegate alle attività finanziarie delle centinaia di società controllate ad aprire sedi a Ravenna. Questo significò altra occupazione con ulteriori ricadute per gli esercizi commerciali di qualità e per bar e ristoranti. L’apice fu raggiunto nel 1990 con la nascita di Enimont, matrimonio fra Montesidon ed Eni, la più grande impresa pubblico - privata sul fronte della chimica a livello italiano.

"La chimica sono io" disse Raul, ma poi dovette cedere ai ricatti dei politici e alle imposizioni della famiglia.

Vendette le azioni Enimont possedute dal Gruppo con un ritorno di 2.805 miliardi di lire, poi a novembre ‘90 le dimissioni dal Gruppo e il 30 giugno ‘91 il divorzio dalla famiglia.

Gli rimase l’impresa nella Vuitton Cup - Coppa America a maggio ‘92 a San Diego e la grande festa in piazza del Popolo. A gennaio ‘93 ecco il coinvolgimento del Gruppo in Tangentopoli con l’arresto di Panzavolta. A luglio, il colpo di pistola.

Nel giro di pochi mesi il Gruppo Ferruzzi fu commissariato e smembrato, tutte le società lasciarono Ravenna, così anche le banche, Il Messaggero chiuse la redazione. Il velo calò, definitivamente, sull’impero evaporato.

Dagospia sabato 22 luglio 2023."LA GARANZIA DI GARDINI PER LA SCALATA A MONTEDISON FU L’IMPERO DI SERAFINO FERRUZZI" – IL RACCONTO DI SERGIO CUSANI, CONSULENTE FINANZIARIO DI RAUL, CHE FINI’ IN CARCERE LO STESSO GIORNO (23 LUGLIO 1993) IN CUI IL CAPITANO D’IMPRESA DI RAVENNA SI SUICIDO’ – "QUANDO GARDINI DIVENTO’ L’AZIONISTA PIÙ IMPORTANTE DI MONTEDISON, CHIESERO ALLA BANCA DUEMILA MILIARDI DI LIRE. OVVIAMENTE LASCIANDO IN GARANZIA LE AZIONI MONTEDISON. PER QUALSIASI ALTRA PERSONA AVREBBERO CHIAMATO LA NEURODELIRI, IN QUEL CASO LE BANCHE SAPEVANO BENISSIMO CHE C’ERANO PIÙ DI 1.200 MILIARDI DI LIQUIDITÀ LASCIATI DA SERAFINO FERRUZZI ALL’ESTERO..."

Trent’anni fa Raul Gardini si toglieva la vita con un colpo di pistola nella sua casa di Milano. Era il 23 luglio del 1993, un venerdì. Il capitano d’industria sentiva che gli inquirenti stavano arrivando a lui e si suicidò il giorno dei funerali di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni a sua volta in carcere su richiesta dei magistrati di Mani Pulite. Anche Cagliari, disperato, aveva deciso di farla finita soffocandosi in cella. 

Quel giorno finiva a San Vittore anche Sergio Cusani, il consulente finanziario che collaborava da anni con la famiglia Ferruzzi. Gardini aveva potuto portare a termine la scalata della Montedison grazie alle garanzie economiche che l’impero creato dal nulla da Serafino Ferruzzi gli aveva messo a disposizione. Il ruolo di questo grande imprenditore è stato fondamentale.

Perché partendo da Ravenna aveva costruito una realtà dalle fondamenta solidissime, un gigante di grande affidabilità economica. Ferruzzi fu tra i primi a costruire un sistema logistico e di trasporto privato per gestire in autonomia tutta la filiera delle sue attività industriali. 

Estratto dell'articolo di Piero Fachin per “QN – Quotidiano Nazionale” sabato 22 luglio 2023. 

"Accidenti: abbiamo il 14%", disse Raul Gardini. Era lunedì, il 6 ottobre del 1986, Gardini era insieme a Carlo Sama e parlava al telefono con Umberto Maiocchi, il responsabile Borsa della Banca di Suez Milano a cui aveva affidato il compito di comprare, senza definire né il prezzo né la quantità, le azioni del colosso chimico. Di fatto dava avvio alla scalata non programmata, non studiata, non preparata.

La telefonata, quella telefonata che tanto cambiò di molte storie personali e di un pezzo della storia d’Italia, partiva dall’ufficio di Milano di un giovane manager. Partiva dall’ufficio di Sergio Cusani, proprio quel Sergio Cusani: il dirigente destinato a diventare l’uomo simbolo di Mani Pulite, il principale imputato del processo per la maxi-tangente Enimont, quello che tenne testa ad Antonio Di Pietro e a tutto il pool, il consulente condannato a 5 anni e 10 mesi scontati a San Vittore fino all’affidamento in prova, alla piena libertà, alla completa riabilitazione. L’uomo a cui tutti riconoscono tenacia e coerenza. "Ho le mie colpe, e le colpe restano", disse una volta davanti a una platea di magistrati. 

“Sta iniziando male - sostiene Cusani, con voce pacata ma decisa - perché io non voglio partire da questo. Io sono qui solo per ricordare Serafino Ferruzzi, uno dei più grandi imprenditori italiani". Perché senza di lui, senza Ferruzzi, nessuna cosa sarebbe andata come è andata: Gardini non avrebbe mai scalato Montedison e nemmeno Enimont sarebbe mai nata. Parla piano, Cusani. E misura le parole, una a una. Riannoda i pensieri, mette in fila i ricordi fino a commuoversi.

Serafino Ferruzzi, allora. Partiamo da lui, dall’imprenditore di Ravenna. Come vi siete conosciuti?

"Facevo apprendistato da Aldo Ravelli, uno dei più importanti commissionari della Borsa di Milano. Serafino veniva nello stabile dove lavoravo per incontrare un broker navale che aveva l’ufficio vicino a noi e che ci presentò Ferruzzi, che nessuno di noi conosceva". 

Prima impressione?

"Bella. Una persona gentile. Garbata. Un bel sorriso. Quei due occhietti con uno sguardo al laser. Soprattutto, una persona curiosa di quello che avveniva nel mondo della finanza. Iniziai ad andare a trovarlo il mercoledì nel suo bugigattolo alla Borsa Merci di Milano, e a dargli la mia opinione sui mercati finanziari". 

(...) 

Il primo incarico?

"Mi chiama dal Brasile e mi dice: ‘Ho sorvolato (aveva un Bombardier Learjet transoceanico) in Veneto la Torviscosa, una tenuta di 4.500 ettari. I sentieri interpoderali dell’azienda sono asfaltati! Mai vista una cosa così in vita mia in tutto il mondo. Costa 42,5 miliardi di lire, se la rivendessi frazionata ne prenderei minimo 90. Ma non la venderei mai’". 

Voleva comprarla?

"Ci sto arrivando: ‘Per domani mattina - mi disse - ti ho fissato un incontro con Enrico Cuccia a Mediobanca. Occupati tu della Torviscosa’. Io per tutta la notte studiai le carte che Ferruzzi mi aveva fatto avere, elaborai una scheda molto sintetica, una paginetta, con cui la mattina alle 11 mi presentai in banca. 

Cuccia mi disse: cosa ha preparato per me? Io gli diedi la scheda. Lui commentò: bene, sintetica e chiara. Dica al dottor Ferruzzi che domani avrà a disposizione 42,5 miliardi. Ma lei domani mi farà avere tutta la documentazione alla base di questa scheda. Se ci sarà qualcosa che non corrisponde non dovrà più farsi vedere in questa banca, sarà il portiere a non farla entrare". 

(...)

Chi era allora Ferruzzi per l’Italia?

"Uno sconosciuto. Anche se era ritenuto il maggior commerciante privato del mondo di prodotti cerealicoli. Alla borsa merci di Chicago quando entrava suonavano la campanella in segno di omaggio". 

Commerciante o industriale?

"Allora commerciava. Ma la sua logica era industriale".

Cosa vuol dire, nel concreto?

"Oggi si esternalizza tutto. A quei tempi, Serafino invece aveva un progetto diverso, allora all’avanguardia. Puntava su logistica, trasporti, silos di stoccaggio. Negli Usa alla foce del Mississippi aveva una enorme struttura di silos, 170 chiatte da mille tonnellate per il trasporto fluviale. Aveva una sua flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico secco. Il più grande armatore privato d’Europa. Serafino voleva il totale controllo della filiera produttiva. Una visione quasi profetica: oggi, in un mondo di guerre e di tensioni, sta ritornando di grande attualità". 

(...)

L’ultima volta che lo ha visto?

"Due giorni prima della morte, l’8 dicembre del 1979 a Roma. E per la prima volta con lui c’era il genero, Raul Gardini. Avevo invitato in Italia il più grande produttore di caffè del mondo, un brasiliano di origine turca: Atallà".

Quanto valeva l’impero di Ferruzzi alla sua morte?

"Le stime dicono tre, quattromila miliardi di lire in proprietà. E in più 1.200 miliardi in liquidità, soprattutto all’estero dato che le sue grandi operazioni di trader internazionale erano estero su estero". 

Quando entrò in scena Gardini?

"A metà degli anni Ottanta la finanza italiana, e in particolare Mediobanca, premeva affinché il gruppo Ferruzzi – che aveva Gardini come leader assoluto nella gestione – entrasse nel cosiddetto ‘salotto buono’, con una partecipazione del 2 e 3% in Montedison. C’era pressione su Gardini, anche dai giornali. Ricorda i titoli?".

Li ricordi lei.

"Il Corsaro entra in Montedison. L’ora di Raul. Il pirata in azione. Insomma, lo tiravano da tutte le parti perché entrasse. Gardini venne a parlarne con me". 

E lei che gli disse?

"Raul, se devi entrare, tu rappresenti il gruppo Ferruzzi. Il mio consiglio è di distinguerti per ciò che rappresenti. Prendi il 4, 5 per cento. Primus inter pares". 

Come reagì?

"Mi fece una domanda: tu mi sai spiegare cosa c’è in Montedison? Fammi per favore una scheda, una fotografia della situazione. Io mi misi a lavorare due o tre giorni, gli feci una bella sintesi. Nella nota finale gli dissi: escluso il patrimonio immobiliare, comunque notevole, ha un valore molto superiore a quello di Borsa".

E arriviamo a quel lunedì del 1986, il 6 ottobre.

"Gardini venne da me verso le 11. Aveva appena dato incarico, un ordine aperto non circoscritto, di comprare azioni Montedison alla banca di Suez. Gli chiesi: che ordine hai dato, a che prezzo? Lui disse: ho detto di comprare tutto quello che viene. Poi alzò il telefono, e si mise a dire, con un mezzo sorriso che era anche un mezzo ghigno: "Accidenti". Gli chiesi: "Accidenti cosa?" E lui: "Abbiamo il 14%". Era diventato l’azionista più importante. E non penso assolutamente che i soci Ferruzzi ne fossero informati".

Fine della storia?

"Macché. Andava pagata l’operazione di acquisto. Subito mi attivai con Carlo Sama per fissare un incontro martedì mattina presto con Nerio Nesi, presidente della Banca nazionale del lavoro, con Raul Gardini e Carlo Sama. Chiesero alla banca duemila miliardi di lire. Ovviamente lasciando in garanzia le azioni Montedison". 

Ma se la stessa garanzia l’avessimo proposta lei o io?

(Cusani sorride)

"Ci avrebbero cacciato o avrebbero chiamato la neurodeliri perché ci ritenevano pazzi. Ma in quel caso l’impegno era preso da Raul per il gruppo Ferruzzi. Cioè, il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stato la migliore garanzia per l’affare Montedison. Le banche sapevano benissimo quale fosse il patrimonio del Gruppo e che c’erano più di 1.200 miliardi di liquidità lasciati da Serafino Ferruzzi all’estero".

Estratto da Gente giovedì 27 luglio 2023.

Carlo Sama è stato per quasi due decenni al fianco di Raul Gardini, soprattutto in quegli anni 80 che hanno segnato la grande cavalcata del top manager della Ferruzzi, dalla conquista della Montedison alla scommessa di Enimont, dalla creazione di un grande gruppo industriale di portata internazionale alle sfide veliche in Coppa America con il Moro di Venezia. Gardini e Sama avevano sposato rispettivamente Idina e Alessandra, due delle figlie di Serafino Ferruzzi, il fondatore del gruppo (gli altri due figli erano Arturo e Franca). 

Le loro strade si erano separate nei primi anni 90, quando ci fu la rottura tra Raul e Idina da una parte e il resto della famiglia dall’altro. Di lì a poco, nel 1993, Gardini, travolto dall’inchiesta Mani pulite, si suicidò. Ora una docufiction, andata in onda domenica scorsa su Rai1, ripercorre parte di questa storia. Ma con una serie di errori e omissioni che Sama stesso, come testimone privilegiato, ha voluto ricostruire per Gente nell’articolo che segue. (u.b.) 

Estratti dell’articolo di Carlo Sama per Gente giovedì 27 luglio 2023.

Il docufilm su Raul Gardini è assai criticabile perché, anziché ricostruire la sua vera storia, fornisce di lui un’immagine quasi caricaturale. Il contrasto tra i dialoghi egocentrici, vanesi e logorroici del Raul Gardini fittizio inventato dalla sceneggiatura e le interviste contenute nello stesso docufilm al Gardini reale, uomo schivo e di poche parole, semplici ed efficaci, è abissale. Ne avranno avuta chiara evidenza sin da subito i telespettatori. 

La sceneggiatura, inoltre, anziché esplorare le ragioni che hanno prima portato allo straordinario successo mondiale e poi alla crisi del Gruppo Ferruzzi-Montedison e al suicidio di Gardini, si appiattisce sotto forma di una squallida telenovela sui presunti contrasti tra Gardini e gli altri membri della famiglia Ferruzzi: una sceneggiatura che appare evidentemente ispirata esclusivamente dalle testimonianze e dal risentimento, una sorta di vera e propria regia, di ex manager minori espulsi dal Gruppo Ferruzzi nonché degli stessi eredi Gardini.

Nonostante il docufilm contenga alcune testimonianze di notevole valore personale e storico (Muti, Zeffirelli, Cayard, Fortis), esso si riduce perciò nella sua parte sceneggiata e recitata al rango di un mero strumento di gossip di quart’ordine e di vendetta mediatica contro Alessandra (e il sottoscritto, in quanto suo marito), Arturo e Franca Ferruzzi, rei, secondo il docufilm, di “aver tradito” Gardini. Cosa mai avvenuta nella realtà. (…)

Immediatamente all’inizio del docufilm appare un quadro con scritto “Chi ha tradito Raul?” che introduce uno dei temi chiave poi ripetutamente ripreso nel corso del filmato: Gardini sarebbe stato tradito dalla famiglia Ferruzzi, la quale, secondo la sceneggiatura, gli avrebbe fatto mancare il proprio appoggio nei momenti decisivi della sua vita di leader del Gruppo. Si tratta di un falso storico grave, perché la famiglia Ferruzzi non ha mai fatto venir meno il suo totale sostegno a Raul (…) Riguardo a Enimont, va subito detto che la decisione della vendita della quota di Enimont in possesso di Montedison fu presa dallo stesso Gardini in totale autonomia e comunicata solo in seguito agli altri membri della famiglia Ferruzzi. 

In un solo caso Arturo Ferruzzi e le sorelle Alessandra e Franca hanno contestato Gardini: in occasione della sua inaccettabile proposta di redistribuzione immediata e totalmente arbitraria delle quote azionarie di controllo del Gruppo Ferruzzi-Montedison tra i figli di Arturo, Alessandra, Franca e Idina, cioè direttamente a favore delle terze generazioni, con grave pregiudizio patrimoniale per le seconde generazioni ancora viventi. È su questo unico aspetto controverso, sul quale Raul Gardini si impuntò in modo ostinato, che maturò la separazione tra la famiglia Gardini e gli altri figli di Serafino Ferruzzi.

(…) 

Dal docufilm emerge una contrapposizione netta tra la figura di Gardini, presentato come un genio assoluto degli affari, dell’industria e della finanza, e gli altri membri della famiglia Ferruzzi, fatti passare in modo irriverente per persone senza alcuna competenza professionale e conoscenza del mondo del business, nonché come figure pavide o perennemente dubbiose sulle scelte di Raul. Ciò è estremamente lesivo dell’immagine dei membri della famiglia, in particolare di Alessandra e Arturo Ferruzzi, più volte protagonisti negativi, impacciati o ridicoli, di scene del docufilm. In questi casi, la sceneggiatura rappresenta una distorsione dei fatti storici, strumentale e priva di fondamento. (…) 

In realtà, nella storia economica mondiale vi sono ben pochi casi in cui una famiglia (come quella dei Ferruzzi) ha messo a disposizione di un manager (come Gardini) un patrimonio così ingente dandogli pieni poteri su un lunghissimo arco temporale e sostenendolo sempre con coraggio anche in fasi complesse e finanziariamente sfidanti come la scalata di Montedison o le vicende di Enimont.

(…) È indubbio che Gardini sia stato un personaggio straordinario (…). È altrettanto indubbio, però, che Gardini aveva anche dei limiti, come tutti gli esseri umani, e che la sua opera come manager è anche costellata di alcuni errori decisivi che molto hanno pesato sul destino del Gruppo Ferruzzi e di cui il docufilm non parla affatto. Innanzitutto, dopo la scalata di Montedison, Gardini non si preoccupò minimamente di ridurre l’indebitamento della Ferruzzi.  (…) Gardini non si rivelò, in Montedison, un amministratore e un ristrutturatore efficace come lo era stato in Ferruzzi, dove i suoi manager storici erano di ben altro livello e lo avevano sempre supportato con successo. Tuttavia, ciò premesso, curiosamente e in modo assolutamente ridicolo, in alcune scene conclusive del docufilm è invece Gardini a rinfacciare agli ex famigliari di Ferruzzi di non aver venduto degli asset non strategici in epoca successiva in modo da ridurre l’indebitamento!

(…) 

In un’altra sequenza, di fronte all’opportunità di comprare o vendere la quota detenuta da Montedison in Enimont la sceneggiatura si immagina una riunione tra Gardini e i membri della famiglia Ferruzzi in cui questi ultimi vogliono vendere la quota e mettono in minoranza Raul che invece vorrebbe comprarla. Gardini si mostra adirato con i famigliari a cui rinfaccia che “era un rischio che si doveva correre”. Si tratta di una riunione in realtà mai avvenuta perché la decisione di uscire da Enimont fu presa direttamente da Gardini in totale autonomia e comunicata solo successivamente ai membri della famiglia. Non solo. A essi Gardini comunicò anche che intendeva dare le dimissioni da presidente del Gruppo e da tutte le cariche da egli ricoperte in Italia, in segno polemico verso il sistema politico italiano che lo aveva messo con le spalle al muro sulla vicenda Enimont. E i famigliari furono altresì informati che la presidenza del Gruppo sarebbe stata presa da suo figlio Ivan. (…) 

Maturò in seguito anche la decisione di Gardini di redistribuire le quote di controllo del Gruppo Ferruzzi detenute dai quattro figli di Serafino ancora viventi direttamente ai loro figli, mantenendo Ivan Gardini nel ruolo di presidente della Ferruzzi. Si trattò di un piano forzato, una proposta di esproprio a dir poco rocambolesca, che non poteva evidentemente trovare d’accordo Arturo, Alessandra e Franca. L’ostinazione di Gardini nel portare avanti a tutti i costi questo assurdo piano, senza lasciare ai parenti alcuna alternativa, generò la rottura con gli altri membri della famiglia. (…)

Un’altra grave distorsione della storia è rappresentata da come si raccontano le vicende del Moro di Venezia. (…) Nel docufilm gli sceneggiatori cercano di dimostrare che se il Moro non è riuscito a vincere la finale di Coppa America è per colpa dei membri della famiglia Ferruzzi che non avrebbero concesso a Gardini ulteriori finanziamenti per costruire una imbarcazione tecnologicamente più avanzata e all’altezza della sfida finale. Vi è addirittura una sequenza del tutto inventata in cui Gardini incontra Arturo Ferruzzi per chiedergli altre somme di denaro da investire nel Moro ma Arturo gliele nega a male parole. La Montedison ha invece profuso ogni energia per sostenere l’avventura di Gardini nell’America’s Cup: 160 miliardi di lire solo di sponsorizzazione, oltre a decine di milioni di dollari direttamente dal patrimonio degli eredi Ferruzzi. (…)

Invece gli sceneggiatori del docufilm sono riusciti a creare un falso storico, totalmente assurdo, secondo il quale Gardini fu lasciato finanziariamente solo ad affrontare la finalissima.

(…) Appare quindi evidente una volta di più che la sceneggiatura del docufilm è principalmente imperniata su una denigrazione reiterata della famiglia Ferruzzi, che avrebbe costantemente “tradito” la fiducia di Gardini.  (…) 

Infine, anche nelle vicende finali di Enimont e dell’inchiesta giudiziaria a esse collegata, il docufilm non perde l’occasione per far passare Gardini come una “vittima” che non ha potuto difendersi dalle accuse dei magistrati perché “già fuori dal gruppo”. Come se non avesse presa lui stesso, prima della separazione dai famigliari, la decisione di vendere Enimont.

 ...evidentemente male informata lei stessa dal marito, dichiara in un passaggio del docufilm che io e Sergio Cusani non avevamo dato a Gardini la documentazione per potersi difendere, cosa totalmente falsa perché eravamo regolarmente in contatto e l’abbiamo sempre supportato, offrendogli perfino la totale disponibilità per la copertura delle sue spese legali da parte del Gruppo.

(…) In definitiva. Il docufilm ha perso la grande occasione per raccontare il Gardini “vero”, l’imprenditore, il sognatore, il velista, coi suoi successi e i suoi errori, dipingendolo invece come un vincitore mancato per colpa di una inesistente e costante congiura dei famigliari ai suoi danni. Il docufilm, cioè, è riuscito nella vergognosa impresa di dipingere Arturo, Alessandra, Franca Ferruzzi e il sottoscritto, come i principali responsabili di un destino conclusosi male, quello di Raul Gardini, che è invece sempre stato esclusivamente, nel bene e nel male, nelle sue mani. Carlo Sama

Estratto dell'articolo di Carlo Annese e Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera – Sette” lunedì 28 agosto 2023

Sotto il pergolato di un antico palazzo del centro di Ravenna si ritrovano Eleonora, Ivan e Maria Speranza, figli di Raul Gardini. È la loro storica casa di famiglia. Dall’altra parte della strada, dietro un anonimo portone in legno, spuntano Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi, marito e moglie, che un tempo abitavano qui stabilmente. 

Gardini-Ferruzzi, la dynasty romagnola, due nomi celebri di una città che grazie a loro è stata per un ventennio capitale mondiale dell’agroindustria e pure della vela. Fra i dirimpettai c’è solo una striscia d’asfalto, via Massimo d’Azeglio, ma è come se ci fosse un muro invalicabile. Perché questi parenti stretti non si parlano proprio. E non da ieri: sono trent’anni. 

Da quando cioè la mattina del 23 luglio del 1993 Raul Gardini decise con uno sparo di mettere la parola fine alla sua esistenza diventando per questa terra un po’ un mito. I Gardini videro delle responsabilità morali nei Ferruzzi per aver dato, due anni prima, il benservito al condottiero di mille battaglie che aveva fatto del loro gruppo industriale un impero di dimensioni mondiali.

E i Ferruzzi tacquero scuotendo la testa, come a dire, cari nipoti voi non sapete tutta la verità. Le famiglie rimasero ancorate alle loro posizioni, ciascuna con le proprie ragioni. Una fermezza assoluta. Nessun dialogo, nessun saluto, solo un interminabile silenzio. 

Carlo Sama, a lungo braccio destro di Gardini, poi diventato suo cognato e infine amministratore delegato del gruppo dopo il siluramento del grande capo, vive oggi fra il Sudamerica, dove ha terre e allevamenti, Montecarlo, Formentera e Ravenna, la città che lo ripudia considerandolo un traditore. 

(...) 

Dottor Sama, qual è dunque la sua verità?

(...) «Gardini fu certamente il più audace e genuino di quei tempi. E, forse, il tentativo di realizzare imprese industriali di grandi dimensioni l’ha portato in seguito su terreni troppo infidi e dannosi per lui stesso e per il gruppo Ferruzzi, la cui stabilità fu messa gravemente a rischio». 

(...) Dopo la rottura della famiglia con Raul e Idina avevamo scoperto che i conti del gruppo Ferruzzi Montedison non erano in ordine». 

In che senso?

«C’era per esempio da sistemare la coda di una folle operazione internazionale speculativa sulla soia della fine degli Anni 80, che aveva prodotto per il nostro gruppo un’ingentissima perdita al Chicago Board of Trade, il più importante mercato di Borsa al mondo per le materie agricole. 

Fu un’operazione decisa da Gardini e da lui affidata al dirigente del gruppo Ferruzzi Montedison di Parigi, Roland Gagliardini, con la facoltà incondizionata di operare. Praticamente gli fu data carta bianca. Questa operazione speculativa costò ufficialmente al gruppo 100 miliardi di lire». 

Roberto Michetti, uno dei manager storici del gruppo, che rimase con Gardini fino alla fine, dice che «in realtà la perdita fu due tre volte superiore e la differenza finanziata con artifizi contabili». È così?

«Per noi era anche molto più alta. Denaro poi pagato attingendo in gran parte al patrimonio estero della famiglia Ferruzzi, l’eredità cioè lasciata da Serafino ai quattro figli dopo la sua tragica e prematura morte del 1979. Serafino operava in tutto il mondo ed era sicuramente l’imprenditore più globale che all’epoca ci fosse in Italia. 

(...)

Oltre al buco di Chicago, quali altre irregolarità trovò nei conti?

«Ce n’erano diverse. In quel momento restava ancora da far fronte alla Coppa America di vela, sulla quale Gardini aveva puntato molto. In base agli accordi, doveva costare alla Montedison circa 200 milioni di dollari e invece costò molto di più. All’esborso ufficiale della Montedison bisogna aggiungere il denaro prelevato sempre dal patrimonio di famiglia dei fratelli.

Ma poi ci sarebbe da ricordare la vendita praticamente fittizia di Fondiaria e altro ancora. Tutte operazioni che avevano drammaticamente appesantito le due holding familiari che controllavano il gruppo Ferruzzi e prosciugato il patrimonio liquido lasciato in eredità ai propri figli da Serafino. È a questo punto che Berlini si inventò il sistema di “back to back” utilizzando i fondi della Montedison». (Si tratta di depositi in banca fatti a garanzia di finanziamenti da erogare a determinati beneficiari, ndr). 

È il sistema utilizzato anche per pagare le tangenti ai politici?

«Già». 

Di fronte a questa situazione lei cosa fece?

«Ho cercato di porre le basi per una radicale ristrutturazione del gruppo. (...) 

Il progetto non fu mai realizzato, perché?

«Perché Mediobanca e i suoi alleati intervennero, dato che volevano ad ogni costo gestire la ristrutturazione del gruppo Ferruzzi, ma a modo loro. Nel giugno del 1993 decisero, quindi, con applicazione immediata, l’improvviso blocco di tutti i conti correnti, attivi e passivi, delle principali società del nostro gruppo. I fratelli Ferruzzi furono messi all’angolo e praticamente obbligati a firmare in esclusiva a Mediobanca il mandato di ristrutturazione del gruppo Ferruzzi.

Ma Mediobanca non ristrutturò nulla, il suo fu un piano di liquidazione del gruppo e un esproprio della famiglia Ferruzzi. Io mi impegnai così, insieme con mia moglie Alessandra Ferruzzi, per evitare il fallimento della Serafino Ferruzzi, già richiesto dalle banche, che avrebbe coinvolto e travolto non solo le famiglie dei fratelli Ferruzzi, ma anche la famiglia di Raul Gardini, che aveva preteso in pagamento della sua buonuscita e quella della moglie Idina Ferruzzi azionista con il 23% del gruppo Ferruzzi: 505 miliardi di lire. 

Insomma, con grande fatica abbiamo impedito il fallimento della Serafino Ferruzzi, che sarebbe stato un disastro economico, finanziario, ma soprattutto un disonore indelebile per un gruppo che era stato il primo al mondo nelle produzioni di soia, nel polipropilene, nelle penicilline, leader in Europa nello zucchero, nell’amido, negli olii eccetera... 30 mila dipendenti». 

(...) 

Com’è nata la supertangente Enimont, la cosiddetta madre di tutte le tangenti?

«Fu una tangente anomala, perché pagata dal gruppo Ferruzzi non per intrecciare rapporti d’affari con la politica ma per non averne più dopo aver ceduto Enimont ai partiti. Fu una specie di liquidazione una tantum, decisa da Raul Gardini un pomeriggio a casa sua, a Milano.

A quell’incontro erano presenti il vicepresidente della Banca Commerciale Italiana e custode giudiziario delle azioni Enimont sotto sequestro, deciso dal giudice Curtò, risultato poi corrotto dall’Eni, e il presidente della stessa Banca Commerciale Italiana. Valutarono che al sistema politico servivano almeno 100 miliardi di lire per tutti i costi annessi e connessi, commissioni agli intermediari comprese. 

L’obiettivo di Gardini, come disse lui stesso, era difendere il fatturato del Gruppo Ferruzzi Montedison, più di 30 mila miliardi di lire, rimasto alla famiglia Ferruzzi dopo la cessione di Enimont all’Eni. I rapporti con i rappresentanti della politica erano gestiti direttamente da lui in prima persona». 

Lui gestiva e gli altri comunque eseguivano, compreso lei. Fra i misteri di Mani Pulite c’è la tangente pagata a Botteghe Oscure. Ce lo svela?

«Io ricordo la famosa cena all’hotel Hassler di Roma con i vertici del Partito comunista, per discutere il tema della defiscalizzazione degli apporti Montedison in Enimont. Avevamo avuto vari incontri con Andreotti, De Mita e gli altri. E a quella cena Raul e io incontrammo Occhetto e D’Alema. Era finalizzata a verificare che il partito mantenesse l’impegno di trasformare il decreto in legge e che la defiscalizzazione ne fosse parte integrante». 

D’Alema disse che la cena fu in realtà un caffè e che non si parlò di soldi

«Berlini racconta che ha dato un miliardo di lire, consegnati da Gardini stesso a Botteghe Oscure. Io non so a chi li abbia poi portati. Ma certamente durante la cena emerse che se c’era un contributo da dare, Raul non si sarebbe sottratto».

La cena all’Hassler era propedeutica alla tangente?

«Uno più uno fa due. Questa operazione fu condotta personalmente da Gardini. A fare da tramite era stato comunque il manager Panzavolta, che aveva rapporti con quel partito». 

Perché si è suicidato Raul Gardini?

«Raul quel giorno avrebbe dovuto essere arrestato, come successe a me. Sulle vicende relative alla gestione del gruppo Ferruzzi Montedison, lui non diceva niente a nessuno in famiglia. Tant’è che la moglie Idina, così mi raccontò dopo, apprese per la prima volta da Raul dello stato reale del gruppo solo il giorno prima. Era a Ravenna e lo raggiunse a Milano il 22 di luglio, dopo che erano state diffuse notizie sul primo interrogatorio dell’ingegner Giuseppe Garofano – presidente di Montedison, subentrato a Gardini – che pareva stesse scaricando le responsabilità della gestione finale di Enimont su Raul». 

Idina apprese in quell’occasione delle tangenti?

«Anche delle tangenti. Dopo il suicidio Idina era venuta in viaggio con noi in Argentina, a Cuba, era spesso a casa mia a Roma. E poi siamo stati insieme in molte altre occasioni... Ricordo benissimo quando Raul ed io avevamo avuto una brevissima conversazione all’annuncio del suicidio in carcere a San Vittore, tre giorni prima di quello di Raul, dell’ingegner Gabriele Cagliari, ex presidente dell’Eni. Mi disse: “È morto da eroe”. Il tono di voce tradiva una potente emozione per questo tragico e drammatico gesto».

Quale fu la reazione di Idina?

«Mi raccontò che rimase senza parole e lo accusò di aver creato un sistema di tensione con i suoi fratelli e la famiglia, di averla in un certo senso ingannata». 

Gardini con il suo gesto ha voluto forse salvare la famiglia, dice l’avvocato De Luca che lo difendeva. In più era preoccupato perché lei e Sergio Cusani non gli davate i documenti per potersi difendere

«Non è vero. Ricordo che in un incontro con Raul proprio presso lo studio di De Luca, Raul mi chiese questi documenti che non aveva e io glieli feci consegnare immediatamente». 

Forse lui intendeva documenti di dettaglio, per sapere quanto era stato pagato e a chi, non crede?

«Noi gli avevamo dato quello che avevamo». 

È vero che nella primavera del 1993, dopo il clamoroso divorzio familiare, chiese a Gardini di tornare nel gruppo per cercare di rilanciarlo e gli offrì le dimissioni?

«Sì, è vero, ed era un progetto elaborato con Goldman Sachs. Si chiedeva a Gardini e a Sergio Cragnotti di entrare nel capitale sociale della holding di famiglia Serafino Ferruzzi con il loro patrimonio. Mi riferisco alle liquidazioni di entrambi che ammontavano più o meno a circa 700 miliardi di lire dell’epoca che avrebbero consentito una ricapitalizzazione a cascata del nostro sistema societario». 

E lui?

«Raul si prese 24 ore di tempo per decidere e mi disse che il giorno dopo avrebbe dovuto incontrare Luigi Fausti, il nuovo presidente della Banca Commerciale. Attraverso Fausti voleva vedere Cuccia e Maranghi di Mediobanca, probabilmente per anticipare loro del suo ritorno nel gruppo Ferruzzi. Venni a sapere successivamente che Fausti disse chiaramente a Gardini che Cuccia e Maranghi non desideravano incontrarlo. Sono certo che questo fu un durissimo colpo per Gardini». 

Sua moglie Alessandra, in una lettera pubblicata di recente, è stata molto dura con Raul. Scrive che non avrebbe potuto nulla senza suo padre Serafino. Non è un po’ eccessiva?

«Alessandra ha solo risposto al fuoco nemico, nel momento in cui si è detto che i Gardini erano più ricchi dei Ferruzzi che è falso... La verità è che alla fine Raul avrebbe voluto sostituirsi a Serafino. Guardi, c’è l’agendina sua personale che svela molti segreti. Il 7 ottobre 1990, scrive di suo pugno: “Decisione di chiudere, di essere Ferruzzi. Da ora in avanti per me e per i miei figli c’è solo da rimettere. Perché questo? Perché ora le cose si possono considerare come se fossero in ordine. Così come piaceva ai vecchi. Da questa posizione, per muovere verso un nuovo ordine ci vuole la gente e la voglia, e quindi l’età”. 

Molto prima che si concludesse la joint-venture Enimont stava quindi già lavorando a un progetto di ripartizione del capitale per numero di figli e voleva trasformare il Gruppo Ferruzzi in Gruppo Gardini. Così Gardini avrebbe fatto dimenticare Serafino Ferruzzi».

Lei non ha mai avuto la tentazione di sostituirsi a Gardini?

«Mai». 

Dopo trent’anni i Gardini e i Ferruzzi non si parlano ancora. E queste parole forse non aiutano. A quando la riconciliazione?

«È un mio grande desiderio. A questo punto, dopo tutto ciò che è accaduto di drammatico e doloroso, prego Dio che almeno i nostri figli – quelli di Alessandra e miei, di Arturo ed Emanuela, di Idina, di Raul, di Franca e Vittorio – che ormai sono tutti grandi e a loro volta sono diventati genitori, riescano finalmente a parlarsi tra di loro in modo franco, rispettoso, amorevole.

Anche per sapere e capire finalmente cosa sia davvero successo alla nostra famiglia e al nostro gruppo imprenditoriale creato dal loro nonno Serafino Ferruzzi. E aggiungo: carissimi ragazzi, è arrivato il momento di ricercare con coraggio la verità. Bisogna finirla con le velenose fandonie e i distruttivi rancori. È arrivato il momento che i cugini si ritrovino, si vogliano bene e tornino a essere uniti».

Carlo Sama: «Il suicidio di mio cognato Raul Gardini? Un sacrilegio. Ora coltivo soia in Sudamerica». La maxi tangente Enimont, la condanna, la nuova vita. «Raul era straordinario. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Era avanti su tutto», scrive Stefano Lorenzetto il 13 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". La sua nuova vita è costata a Carlo Sama un occhio della testa. Il destro. «In Paraguay ho avuto il distacco della retina mentre aprivo una strada nella tenuta di famiglia, dentro la più vasta foresta pluviale atlantica del pianeta posseduta da un privato. Sarebbe bastato farmela suturare là con il laser. Invece ho aspettato 20 giorni perché volevo ricoverarmi in una clinica europea. Risultato: 14 inutili interventi chirurgici fra Londra, Roma e Miami. Ed eccomi qua, orbo veggente come Gabriele D’Annunzio». Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato «la madre di tutte le tangenti» e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive fra Montecarlo e il Sudamerica. «Nel bosco mi sono costruito una casa di legno su un albero, a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito. Ho paura dei giaguari: quelli s’arrampicano». Eppure nella sua Ravenna lo considerano l’amico del giaguaro che tradì il proprio mentore, il cognato Raul Gardini. «Il passato è storia. Fa parte di noi. Pensi al povero Ubaldo Lay: bravo attore, ma alla fine tutti se lo ricordano solo come il tenente Sheridan con l’impermeabile». L’accusa gli pesa, e ancor più adesso, a 25 anni dal colpo di pistola alla testa con cui il 23 luglio 1993 l’arrembante magnate del gruppo Ferruzzi-Montedison si uccise nel Palazzo Belgioioso di Milano. «Tra la mia famiglia e Gardini, scelsi la mia famiglia». Cioè la moglie Alessandra Ferruzzi, che, come i fratelli Franca e Arturo, non condivideva la successione decisa da Raul, marito della sorella Idina, la primogenita del fondatore Serafino Ferruzzi. Era il 1991. Gardini fu liquidato con 505 miliardi di lire. «Quello che nessuno sa, è che l’anno dopo ritornammo a parlarci».

Chi fece il primo passo?

«Io. Ci vedemmo in Svizzera. Ruppi il ghiaccio con una battuta: Raul, non ci divertiamo più se non stiamo insieme».

Stare insieme per fare che cosa?

«Avevamo il monopolio mondiale del polipropilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E la Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti. Il principio era banale: rimettere tutto assieme. Dissi a Raul: facciamo un atto di compravendita della Ferruzzi per una lira, poi a bocce ferme sarai tu, da padre di famiglia, a valutarne il vero valore».

Come reagì?

«La proposta gli piacque molto. Ma non se ne fece nulla, perché commise un errore: cercò l’avallo di Mediobanca, cioè di Enrico Cuccia».

E che cosa accadde?

«Le azioni furono svalutate da 1.250 a 5 lire. La Ferruzzi fu oggetto di un trapianto d’organo, con le sue quote di mercato immesse in corpi malati. Sa di che parlo? Eravamo primi al mondo anche nelle proteine e nelle lecitine di soia, nelle penicilline; primi in Europa nello zucchero, negli amidi e derivati, nei semi oleosi, nei mangimi, negli oli di marca; primi in Italia nel calcestruzzo e nelle assicurazioni danni e secondi nell’elettricità».

Che uomo era Raul Gardini?

«Straordinario. Aveva una visione così chiara del mercato che si dimenticava dei tempi. Voleva che le cose fossero fatte per ieri. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Il mondo era il nostro giardino di casa. Fosse ancora vivo, oggi costringerebbe l’Italia a ridiscutere Maastricht, le quote, tutto».

Perché a 60 anni si uccise?

«Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari, 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: “È morto da eroe”. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa. Mi hanno raccontato un’orribile storia di guerra sui topi».

Quale storia?

«I soldati catturavano una dozzina di topi e li tenevano a digiuno in gabbia. L’unico che sopravviveva, dopo aver divorato gli altri, veniva liberato perché desse la caccia ai suoi simili nelle trincee».

Gli innocenti non temono il carcere.

«Efrem Campese, capo della sicurezza di Montedison, gli aveva parlato di dieci buste gialle con l’intestazione “F” e di un colonnello della Finanza chiamato da Roma per recapitarle. I destinatari potevano essere Fiat o Ferruzzi. Si figuri se Raul ebbe dubbi. L’avviso di garanzia equivaleva a una condanna».

Lei ebbe 146 imputazioni, mi pare.

«Più o meno. Assolto da tutte, a parte il finanziamento illecito ai partiti e l’inevitabile falso in bilancio».

Fu arrestato il giorno del suicidio.

«Sì. Mi trovavo a Lugano. Telefonai a Palazzo Belgioioso. Rispose Renata Cervotti, la segretaria di Raul. Lo stavano soccorrendo. Non morì subito».

Aleggiano misteri sulla tragedia?

«No, fu tutto lineare. Il comandante che affonda con la sua nave».

Fu dunque un gesto eroico?

«Rispetto la sua decisione e non esprimo giudizi. Sarebbe fargli torto».

È vero che la vedova ha abbracciato la vita religiosa?

«Idina è una donna meravigliosa, come lo era il marito. Oggi non sta bene. La storia dei Ferruzzi non la conosce nessuno. Sono l’unico a poter dire d’aver visto la luna e l’altra faccia della luna. Serafino era un genio, ha segnato il secolo scorso. Il giorno in cui arrivò alla Borsa di Chicago, si fermarono per rispetto le contrattazioni: era entrato Mister Soia, il trader che faceva il mercato».

Ma che bisogno aveva Enimont di versare tangenti ai partiti?

«Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. Non mi pareva un peccato. Magari una scemata. Ma la politica costa tanto, sa? Non trovo anormale aiutarla. Si doveva fare alla luce del sole».

Foraggiavate tutti?

«Nella migliore tradizione. Avevano stabilito le percentuali. I partiti dalle mani pulite? Qualcuno svolgeva il lavoro sporco anche per conto loro».

Severino Citaristi, tesoriere della Dc, mi raccontò di quando il segretario Arnaldo Forlani lo spedì da lei per ritirare una busta con dentro 2 miliardi e 850 milioni di lire in Cct, circostanza che poi mi fu confermata dallo stesso Forlani.

«In piazza del Gesù ci andai poche volte. E non chiesi mai nulla a Forlani».

Che mi dice della valigia con 1 miliardo di lire consegnata al Pci?

«Bisognerebbe poterlo chiedere a Raul. La portò lui alle Botteghe Oscure».

Centinaia di miliardi in Cct transitarono dallo Ior, la banca della Santa Sede.

«Sono assolutamente consapevole di questo. Ma non fui io a smistarli».

Però il vescovo Donato De Bonis, segretario dello Ior, celebrò le sue nozze nella parrocchia vaticana di Sant’Anna.

«Un caro amico. Aprì il fondo San Serafino per attività di beneficenza in onore del padre di mia moglie. Ogni anno ci versavo la mia gratifica natalizia».

Stefano Bartezzaghi, figlio del Bartezzaghi della «Settimana Enigmistica», la definì «vantaggiosamente inappariscente» e le imputò la «tendenza a strafare».

(Ride). «Giudichi lei. Ho interesse ad apparire sul Corriere della Sera?».

Di che cosa si occupa adesso?

«Mi sarebbe piaciuto cimentarmi nello sport, come mi aveva consigliato Bettino Craxi, magari alla presidenza del Coni. Invece sono rimasto fedele all’antico amore: la terra. Mi occupo di Agropeco, 12.000 ettari fra Paraguay e Brasile, vicino alle cascate dell’Iguazú, e di Las Cabezas, 18.000 ettari a Entre Rios, in Argentina. Produco dalla soia all’eucalipto. E allevo 12.000 capi di bestiame razza Hereford. Ho brevettato un mangime contenente il 5 per cento di stevia, un’erba dolcificante che funge da antibiotico naturale. In campagna rido da solo, come i matti».

Investe ancora nel nostro Paese?

«Beh, no, che domande! L’ultimo affare fu la cessione di un’immobile a Roma, diventato il J.K. Place luxury hotel».

Le restano l’Es Ram resort e il ristorante Chezz Gerdi, a Formentera. Tra gli ospiti, Veronica Lario con figli e nipoti, Piero Chiambretti, Paolo Bonolis, Raoul Bova.

«Chiuso il primo, venduto il secondo. Mai ospitato Bonolis. Però ci venivano Kate Moss e una figlia di Mick Jagger».

Silvio Berlusconi era suo amico.

«Lo è ancora, lo sarà sempre. Fu l’unico a telefonarmi il giorno dell’arresto. E pensare che avrebbe dovuto odiarmi: con Telemontecarlo gli fregavo la pubblicità».

Chi altro le è rimasto vicino?

«Luca Cordero di Montezemolo, Carlo Rossella, Luigi Bisignani. E Sergio Cusani. Il mese scorso si è fatto 400 chilometri, Milano-Bossolasco e ritorno, per stare mezz’ora con le stampelle al matrimonio di Francesco, il mio secondogenito».

Come vede l’Italia a trazione pentastellata-leghista?

«Tutto quello che porta al cambiamento, lo vedo bene. Pensi che Gardini già negli anni Ottanta voleva risolvere il problema degli immigrati. Fece predisporre da Marco Fortis, docente della Cattolica proveniente dalla Nomisma di Prodi, un progetto per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Dall’Africa non sarebbe più partito nessuno. Se solo avessimo potuto continuare...». (Si commuove). «Il lavoro era il nostro gioco, la nostra vacanza. È stato commesso un sacrilegio».

Secondo lei i partiti si finanziano ancora in modo illecito?

«Mi pare di sì. Ma non ho i riscontri».

Allora da che cosa lo deduce?

«Dall’odore».

Estratto dell'articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023.

I baffoni gli davano forza e fascino. Oggi, trent’anni dopo, fanno posto a una barbetta più sale che pepe di tre giorni. Ma la forza di Paul Cayard è oramai scritta nel libro mastro della vela: campione del mondo, coppe, trofei, encomi, un nome, una leggenda. Nel 1992 con il Moro di Venezia di Raul Gardini arrivò lì dove nessuna barca italiana era giunta prima di allora: la finalissima della Coppa America, l’Everest del mare, che si disputava in California nelle acque di San Diego. Furono i mesi in cui l’Italia, incollata alla tv a orari impossibili, si innamorò di lui, lo skipper americano voluto da Gardini alla guida delle regate ed eletto a super manager sportivo. 

Dopo il trionfo, però, la tragedia: la mattina del 23 luglio del 1993, giorno in cui doveva essere arrestato, Gardini si puntò l’arma alla tempia e schiacciò il grilletto. Cayard era con lui a Milano nelle stanze di palazzo Belgioioso, teatro del suicidio. E rieccolo in Italia, fra queste barche oceaniche approdate a Genova per la tappa finale dell’Ocean Race, il giro del mondo a vela. Nei giorni in cui il dibattito sulla figura di Gardini è stato riacceso da eventi, incontri e un paio di libri (Solferino pubblica «Di vento e di terra», il romanzo vero di una vita di sfide), Cayard ha deciso di parlare del suicidio: «Per ricordare colui che è stato per me come un padre e un grande amico».

Partiamo dalla fine, da quel colpo di pistola...

«Uno choc totale, non ci potevo credere, quella settimana ero stato con lui fino a due giorni prima, proprio a palazzo Belgioioso. Raul aveva letto del suicidio di Gabriele Cagliari e mi diceva che era una strana cosa, con quel sacchetto di plastica nella testa. Era molto preoccupato. Non voleva finire in carcere anche lui, secondo me perché lì non si sentiva più padrone della sua vita e lui non sopportava l’idea che fossero gli altri a decidergli il destino». 

In che senso è stato per lei un padre?

«Avevo 26 anni e non ero nessuno, ha creduto in me, mi ha aperto le porte di casa sua e mi ha aiutato molto. “Paolino — mi ha detto — tu vieni a vivere a Milano e io ti do tutto quello che ti serve”. E l’ha fatto, mi ha dato tutto, soprattutto la fiducia. Quando è morto avevo 33 anni e una professionalità tale che mi è bastata per il resto della vita».

Perché Gardini scelse proprio lei?

«Lui mi disse che a parlargli di me era stata Eleonora (primogenita di Raul, ndr ). Mi aveva visto vincere una regata in Sardegna, dove io ero in sostituzione. Raul ha voluto provarmi e ha deciso subito. Guarda questa foto — ci mostra una foto ingiallita — è quella della prima volta con lui sul Moro, questo sono io, questa è Eleonora di spalle, in bikini, eh, quello è Raul...». 

Com’è nata l’idea della Coppa America?

«Siamo a San Francisco per il mondiale Maxi del 1988, nello stesso albergo. Vinciamo la prima regata e la mattina dopo, a colazione, c’era anche il suo amico marinaio Angelo Vianello, mi dice: “Paolino, dobbiamo fare la Coppa America”. Io ho detto: “Raul, questa è brutta idea”. “Perché?” “Costa un sacco di soldi, perdi molto tempo e vince uno solo”. Il secondo giorno, altra vittoria e altra colazione insieme. “Paolino, pensaci”.

Dopo ogni vittoria me lo ripeteva. Alla fine delle cinque regate, tutte vinte e vinto il Mondiale, è stato impossibile dirgli di no. Ci ha portati tutti in Argentina e ha parlato delle sue idee grandiose». 

Il varo del Moro a Venezia con la regia di Zeffirelli, il cantiere Tencara con la tecnologia più avanzata e potente...non spendeva un po’ troppo?

«Potrebbe sembrare, sì, ma è vero anche che se tu dai l’impressione di essere vincente il gruppo è motivato e alla lunga questo ti ripaga delle spese, quel che è successo».

Pregi e difetti del grande capo?

«Era divertente, coraggioso, un grande motivatore, delegava molto e non avevi mai l’impressione che potesse dubitare di qualcuno, così tutti davano il massimo e si rimaneva uniti. Difetti? Non sapeva guidare, una volta siamo andati da Montezemolo a vedere una Ferrari, lui era al volante e passava dalla prima alla quarta e il contrario, la macchina strattonava e diceva: non ci sono più le Mercedes di una volta. 

Capito? Altro difetto? Fumava troppo, anche in aereo. Ricordo un viaggio in cui mi sono svegliato tossendo per il suo fumo. “Sai cosa Paolino, dovresti iniziare anche tu, in modo che hai un filtro naturale”. E non scherzava».

(…)

Estratto dell'articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.

«Una curiosità: quanto fuma?» «Più che posso». Seduto su uno scalino della Madonna della Salute, sigaretta serrata fra i denti, mani impegnate ad allacciarsi le scarpe, Raul Gardini fissò l’occhio buono sul cronista e rise. Schiacciò la sigaretta e ne accese un’altra. 

Faceva male ai polmoni? Chissenefrega. Era una sfida, una delle tante. Come la presentazione, quel giorno, a Venezia, in pompa magna, un caos di bandiere, gondole, ospiti di spicco, cestini di leccornie deluxe preparati dal consuocero Arrigo Cipriani, regia di Franco Zeffirelli, del bellissimo «Moro» col quale voleva andare a vincere la coppa America.

Sfida perduta. Come troppe altre di una vita conclusa la mattina di venerdì 23 luglio 1993, trent’anni fa, con un colpo alla tempia sparato con una pistola calibro 7,65 Walther Ppk, la stessa usata anni prima da Luigi Tenco. Scrisse il Corriere : «Lo aspettava il carcere. Ha preferito la morte». 

Tre giorni prima si era ammazzato il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Una settimana prima, come ricordò nel suo editoriale Paolo Mieli, si era costituito dopo sei mesi di latitanza l’ex presidente della Montedison Giuseppe Garofano, «raccontando ai magistrati i segreti dell’avventura chimica del gruppo Ferruzzi, con tutti i dettagli sui passi più spericolati e gli illeciti più incredibili per accantonare fondi da far affluire in parte nelle proprie casse segrete e in parte in quelle dei partiti di governo». Partiti che Gardini pagava e disprezzava.

«Io ho questa mentalità: quando sono in Brasile mi sento brasiliano, in Argentina argentino, negli Usa americano ed europeo in Europa», confidò a Enzo Biagi poche settimane prima di andarsene. Ultimo sospiro: «Non ci sono innocenti. I peccati sono collettivi». «Come uomo aveva sei marce. Il guaio è che troppo spesso teneva la sesta in curva», spiegò a l’Unità il celebre fiscalista e consigliere Montedison Victor Uckmar. E aggiunse: «Non vorrei che qualcuno ora se la pigliasse coi giudici, dimenticando chi è il responsabile primo di queste cose. Alludo ad una classe politica...» 

Trent’anni dopo, sul «Contadino» ribattezzato con quel nomignolo per l’appartenenza «alla razza terragna» da cui veniva anche se aveva passato la giovinezza «fra le pinete e le spiagge romagnole», esce un libro che ripercorre tutta l’irruenta avventura umana, economica, finanziaria, politica e marinara dell’imprenditore che alla morte del suocero

Serafino Ferruzzi, il re delle granaglie di cui aveva sposato la primogenita cattolicissima e riservatissima Idina, si ritrovò a 46 anni in pugno un’immensa ricchezza e in tre lustri scarsi, scommettendo spericolatamente su se stesso, le sue intuizioni, le sue ambizioni, riuscì a bruciare tutto. Compreso se stesso. 

Si intitola Di vento e di terra. Raul Gardini, il romanzo vero di una vita di sfide , è firmato dal nostro Andrea Pasqualetto e Lucio Trevisan, è edito da Solferino e in 320 pagine racconta due storie parallele che si incrociano e confondono l’una nell’altra.

Quella dell’imprenditore di enorme successo iniziale che a un certo punto «addenta un’azienda dopo l’altra (agroalimentare, agrochimica, energia, costruzioni e impiantistica, farmaceutica, grande distribuzione, editoria…) 

(...)

E quella del velista appassionato che si fissa su barche sempre più belle create da designer sempre più famosi con marinai sempre più competitivi rastrellati in giro per il pianeta senza rinunciare mai, però, ai consigli di un vecchio uomo di mare di Pellestrina, Angelo Vianello. «L’amico del silenzio, con il quale Raul sta bene anche tacendo». Quello cui chiede consiglio anche su cose che non hanno a che fare con la nautica, come l’improvvisa difficoltà del figlioletto Ivan colpito da un’inspiegabile difficoltà a camminare e in poche settimane rimesso in piedi. Quello che, «fiol de pescadori de laguna», si ritrovò una mattina presto davanti il re di Spagna Juan Carlos, curioso di salire a bordo per vedere il «Moro» e lo accolse così: «Siòr Re, ghe fasso un cafetin?» 

(...) 

Ma tutto intorno meritano d’esser raccontate tante storie che ricostruiscono un’epoca. 

L’acquisto a Venezia del «maledetto» Palazzo Dario per sfidare le leggende della bellissima dimora marcata nei secoli da suicidi, omicidi, sventure, morti violente... Lo sfizio di impossessarsi dell’arte del vetro comprando larga parte delle vetrerie di Murano. L’audizione alla Camera nel 1986 in cui avvertì il Parlamento: «L’Italia deve diventare autonoma sul piano energetico, altrimenti rimarremo sempre un Paese dipendente da altri.

(...) Ci vuole il coinvolgimento diretto dello Stato. Quello di cui sto parlando è un sogno, ma è un sogno realizzabile: vedere l’Italia produttrice di energia verde, grazie all’etanolo. Inquina meno ed è altamente redditizio a livello di rendimento...» Parlava (anche) pro domo sua, dato che aveva enormi quantità di cereali giacenti? Sicuro. C’era però, oltre agli interessi aziendali, qualcosa di più. Che merita forse, tanti anni dopo, qualche riflessione.

Così come meriterebbe un romanzo a parte il carteggio, lettera dopo lettera, ora note, che ricostruisce lo sfascio della Famiglia. Con Alessandra, la più giovane dei figli del vecchio Serafino, che inizia con parole apparentemente amichevoli a contestare la leadership del cognato Raul. E lui che, dopo un crescendo di reciproche tensioni, passa affiancato da Idina alle minacce a tutti i cognati: «Se abbraccerete definitivamente le teorie di Alessandra contro di me ed Idina sarà una rottura definitiva che vi costerà molto, molto cara». Come sia finita si sa. Trent’anni dopo, in famiglia, non si parlano ancora.

Raul Gardini, il corsaro della Borsa: tra scalate e declivi pericolosi. Raul Gardini ha incarnato il sogno del capitalismo italiano, le sue epiche scalate di Borsa lo hanno portato in cima, prima della tempesta Mani Pulite. Tommaso Giacomelli il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Un trascinatore, un leader naturale e un uomo dalla visione illuminata. Raul Gardini non riusciva a fermarsi al presente, non metteva mai l'ancora, seguiva il flusso del mare, come quello del suo amato Adriatico, e si proiettava con energia instancabile verso obiettivi futuri, per i più imponderabili. Uno spirito da vero corsaro quello dell'imprenditore ravennate, classe 1933, che ebbe il suo momento di massimo fulgore negli anni '80, salendo agli onori della cronaca per le grandi scalate finanziarie dal sapore temerario, che lo proiettarono nelle stanze dei bottoni della politica italiana e tra il gotha degli industriali nostrani. Gardini era orgoglioso della sua origine romagnola, di essere nato in quella città che fu capitale dell'Impero romano d'Occidente prima e del Regno degli Ostrogoti poi, non dimenticando mai la bellezza delle cose semplici, dei profumi del mare e della terra, di quanto sia benefico il calore di una famiglia unita e l'importanza di una stretta di mano tra gentiluomini. Gardini ha vissuto la vita a modo suo, seguendo le sue regole, pagando a caro prezzo un orgoglio che lo ha spinto a togliersi la vita con un colpo di pistola la mattina del 23 luglio 1993, a Milano, nel suo appartamento di Palazzo Belgioioso. Nel mezzo, però, vale la pena raccontare la vicenda personale di un uomo che ha saputo stupire e scioccare, nel nome di un capitalismo rampante e senza freno come quello esploso in Italia nella seconda metà degli anni '80.

Alla guida della Ferruzzi

Nel 1948 Serafino Ferruzzi, romagnolo doc, fonda la sua azienda, la Ferruzzi, che in una prima fase commercializza legname e calce, poi diventa leader nel trattare le materie agricole. Negli anni '60 l'impresa ravennate si ritaglia spazio come primo importatore italiano di grano, soia, olio di semi e cemento, diventando uno dei principali operatori del settore in Europa e, di conseguenza, nel mondo. Raul Gardini nel 1957 sposa la figlia del patron della Ferruzzi, Idina, e quando il vecchio Serafino nel 1979 muore in un incidente aereo, la famiglia decide di affidare le deleghe operative del Gruppo proprio a Gardini. Quest'ultimo, a 46 anni, si ritrova investito del ruolo di capo di una realtà industriale, che lui guiderà a una vera rivoluzione d'assalto. Ravenna, dopo molti secoli, torna ad avere un imperatore, diverso da quelli del passato, ma animato dallo stesso spirito di conquista grazie a delle idee che hanno la forza di colpire il cuore delle persone. Lui è un visionario, ma concreto, non un sognatore, in più è animato dalla voglia di ottenere quello che desidera con un fare quasi da guascone. Alla gente piace, buca lo schermo e cattura le simpatie dei media. In breve tempo, Raul Gardini è un nome che fa strada all'interno della società italiana, arrivando ad avere una forte risonanza a livello nazionale. Tutti si accorgono di lui e nel frattempo il Gruppo Ferruzzi spicca il volo, passando dal trading all'industria, concentrando le proprie risorse nel business dello zucchero. Nel 1981 acquista la Eridania, prima azienda produttrice di idrato di carbonio in Italia, poi nel 1986 passa alla francese Béghin Say. A guidare Gardini in queste campagne finanziare c'è l'intuito e una capacità di prendere le decisioni in un breve lasso di tempo. In seguito alle numerose politiche di acquisizione, l'industriale ravennate capisce che ci sono tutte le carte in regola per entrare nell'alta finanza con un ruolo da protagonista assoluto.

La Borsa e il sogno di Raul Gardini

Dopo il lungo silenzio degli anni di piombo, nel 1985 l'Italia sembra essere rinata. Un'ondata di benessere cavalcato dal nascente rampantismo inebria gli italiani di una nuova euforia collettiva. L'arrivo dei fondi di investimento mobiliare fa quintuplicare gli incassi della Borsa, le quotazioni guadagnano il 20% a settimana e in un mese si ottengono qualcosa come 300 miliardi di lire. In questo scenario Raul Gardini mette la Ferruzzi finanziaria sul mercato, i soldi - dice lui - si trovano in Borsa e basta saperli prendere. Una scelta all'apparenza spregiudicata che si rivela quanto mai azzeccata, dato che in tre anni fa entrare nelle casse del Gruppo qualcosa come 3.000 miliardi di lire. Gli yuppies hanno un nuovo idolo da venerare, Milano diventa la capitale del sogno che passa attraverso le urla, gli strepitii e la frenesia imperante delle affollate sale di Piazza Affari. Il sogno nel cassetto di Gardini, però, è quello di riuscire a costituire un polo della chimica che si proponesse come baluardo dell'ecologia. Il suo più viscerale desiderio è quello di proporre sul mercato un carburante che avesse un legame con le materie agricole, il suo primo amore. A quel punto, il ravennate mette gli occhi sulla Montedison, grande gruppo industriale italiano attivo nella chimica e nell'agroalimentare.

La scalata a Montedison

Nel 1985 la Montedison è al centro di uno scontro molto violento tra gli azionisti, Gardini fiuta la situazione e intravede la possibilità di entrare in scena per diventare l'azionista di riferimento. Un'azione facile sulla carta, ma difficile da realizzare perché a guidare il gruppo industriale c'è un osso duro, Mario Schimberni. Quest'ultimo è un tipo riservato, enigmatico e impenetrabile, che non fuma e non beve, tanto che viene chiamato "l'uomo di ghiaccio". Schimberni è un manager di alto rango che ha come unico obiettivo quello di fare della Montedison la prima public company italiana. Nel frattempo Gemina, il salotto buono del capitalismo italiano, prende per la giacchetta Gardini cercando di spingerlo a tutti i costi a farne parte, ma lui non ne vuole sapere. Il ravennate è un romagnolo puro, un po' impulsivo, la partita per conquistare la Montedison la vuole giocare da solo. A lui la chimica serve per trasformare il prodotto agricolo e creare energia, per questo mettere le mani sulla quell'industria diventa di capitale importanza. Nessuno, però, immagina che il numero uno del Gruppo Ferruzzi ha in mente la più clamorosa operazione finanziaria del secondo dopoguerra.

La prima fase dell'assalto alla Montedison è rapida e si conclude quasi in un lampo: l'8 ottobre del 1986 Gardini convoca il suo agente di cambio e gli ordina di acquistare più azioni possibile della Montedison. In un paio d'ore la Ferruzzi sborsa 1.500 miliardi di lire; alla fine della giornata Gardini blocca l'OPA di Cuccia e De Benedetti, e ottiene il 10% del pacchetto azionario del Gruppo operante nella chimica. La seconda fase è intrisa di diplomazia, di tessitura di rapporti e di dolce seduzione verso quegli azionisti che possiedono pacchetti importanti della Montedison. L'11 marzo 1987 Gardini ha speso un complessivo di 2.000 miliardi di lire ma in cinque mesi ha ottenuto il 40% delle quote desiderate. A novembre dello stesso anno, Gardini si issa al comando della Montedison, subentrando a Schimberni non senza un'aspra disputa tra i due leader. In appena sette anni, il ravennate diventa il secondo industriale italiano, contro ogni pronostico.

Il fallimento di Enimont

Il progetto di Gardini è in continua evoluzione, un rincorrersi perpetuo di decisioni, vale a dire che ogni passo stimola il successivo. Quando si conquista un avamposto, bisogna andare avanti e procedere a passo spedito. Non c'è mai quiete nel suo spirito. Sul finire del 1987, Gardini è il presidente della Montedison ed è il leader privato della chimica in Italia. Alla sua porta bussa la controparte pubblica, l'ENI, che ha bisogno dell'appoggio del ravennate per sopravvivere e dar vita a un polo chimico in grado di competere coi grandi del settore. Gardini si convince che l'unione tra le due realtà si può fare, con l'obiettivo di entrare almeno nei primi dieci del mondo. In poco tempo nasce la Enimont, che alla Montedison costa la bellezza di 1.200 miliardi di lire di tasse. Una spesa enorme, ma la parte pubblica promette a Gardini delle garanzie sugli sgravi fiscali con dei decreti legge. L'accordo viene siglato alla maniera contadina, o dei sensali, tramite una stretta di mano tra il ravennate e Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio. A fine 1988 la Enimont conta 55.000 dipendenti e 16.000 miliardi di lire di fatturato, con il 40% delle quote a ENI, l'altro 40% a Montedison e il restante 20% destinato al mercato azionario. La nuova realtà pubblica-privata è il leader mondiale della chimica, ma per Gardini arriverà presto la beffa.

La politica capisce che sta per perdere un ufficio acquisti da 15.000 miliardi di lire all'anno, così in Parlamento il decreto legge aspettato da Gardini viene bocciato per due volte fino a decadere definitivamente. Poi, dopo la caduta del Governo De Mita e il ritorno di Andreotti, grande oppositore dei Ferruzzi fin dai tempi di Serafino, si mette una pietra tombale sulla questione. La politica si dimostra per Gardini il più inaffidabile degli interlocutori, inoltre, le divergenti vedute imprenditoriali tra le due realtà, porta alla rottura della joint venture con Gardini che si appella alla violazione degli impegni. Si arriva al "patto del cowboy", con la Montedison che ricopre il ruolo della parte che fa il prezzo e l'ENI di quella che compra. Dopo un iniziale tentativo di scalata da parte di Gardini alla Enimont, stoppata dal guidice Curtò con il congelamento provvisorio delle sue quote da parte del Tribunale di Milano, alla fine di novembre 1990 l'industriale ravennate abbassa la testa e vende il suo 40% all'ENI per 2.805 miliardi di lire.

Il Moro di Venezia e la caduta

Dopo il fallimento di Enimont, la famiglia Ferruzzi - stanca di inseguire le imprese spericolate - si dissocia da Raul Gardini, luquidandolo da tutti i suoi incarichi pagando una cifra di 503 miliardi di lire in contanti. L'ultima romantica impresa del ravennate è quella del Moro di Venezia, l'innovativa barca a vela che affidata al geniale skipper americano, Paul Cayard, vince la Louis Vuitton Cup del 1992 battendo in finale New Zeland per 4 a 3 dopo una rimonta insperata. La barca italiana arriva, dunque, negli Stati Uniti, nella baia di San Diego, per contendere l'America's Cup all'imbarcazione statunitense America³. Purtroppo la sfida terminerà 4 a 1 a favore dei padroni di casa, mentre per il Moro di Venezia rimane il sogno di aver spinto la vela italiana fino a toccare quasi il cielo, anche se il boccone da digerire è amaro.

I trionfi in mare vengono oscurati dalle nubi di tempesta che si abbatono a Milano con le indagini di "Mani Pulite". Uno dopo l'altro politici e manager ricevono avvisi di garanzia o mandati di cattura. È un effetto domino che non risparmia nessuno e travolge tutti. Il pool di magistrati milanesi punta alla Enimont, l'inchiesta viene incuriosita da una falso in bilancio, tra il 1990 e 1991, di 150 miliardi di lire che sarebbe servito a Gardini, e alla Montedison, per corrompere funzionari di governo e uscire indenne dalla chiusura della joint venture. Al ravennate questa cifra non torna e decide di collaborare con la giustizia. Scosso da un mondo che stava crollando sotto ai suoi piedi, e impotente di fronte al flusso degli eventi, Raul Gardini la mattina del 23 luglio 1993 si spara alla testa con un colpo di pistola. Una scelta drammatica e di impeto, un ultimo atto di volontà per un uomo che ha sempre imposto la sua decisione. Con lui si chiude la pagina italiana di rampantismo e capitalismo sfrenato, del sogno della Borsa, delle luci e del divertimento. La sua morte apre un capitolo più cupo e torbido che ha condizionato il proseguo degli anni '90 fino a segnare persino i giorni nostri.

Eni-Nigeria, Storari: «I pm ignorarono le prove del processo». Storia di Luigi Ferrarella su Il Corriere della Sera martedì 3 ottobre 2023.

«Ma lei, signor presidente del Tribunale, in un suo processo lo vorrebbe sapere o no che c’è un rapporto di 50.000 dollari, qualunque sia il motivo, tra un dichiarante e il teste di riscontro? E che al Tribunale era stata amputata una chat nella parte in cui parlava appunto dei soldi?». Più il pm milanese Paolo Storari, in mattinata, riassume colloqui e mail con i colleghi sulle prove delle calunnie dell’ex dirigente e accusatore di Eni Vincenzo Armanna, che a suo avviso i pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro avrebbero dovuto depositare a giudici e imputati del processo Eni-Nigeria, e più a Brescia sale l’attesa che nel pomeriggio le «almeno 100 domande» annunciate dal controesame della loro difesa mettano in difficoltà Storari sul merito di quei fatti (con in mezzo spesso il procuratore Francesco Greco e sempre l’aggiunto Laura Pedio, «perché niente passava senza che tutti e tre lo sapessero vicendevolmente, la gestione era sempre a tre»). Tanto più che Storari racconta, ad esempio, come i colleghi avevano liquidato la sua scoperta che le chat del 2013, secondo Armanna comprovanti i depistaggi dei vertici Eni, Descalzi e Granata, fossero false visto che quelle utenze Vodafone non erano attive: «Ma De Pasquale, Greco e Pedio mi dissero “Eni ha rapporti con i servizi segreti che possono manipolare queste cose, non ci si può fidare di questi accertamenti”».

E sul presidente del processo milanese Marco Tremolada: «De Pasquale e Spadaro dissero con chiarezza, in riunione con Greco e Pedio, che era troppo appiattito sulle difese e andava fatto astenere». Così come «De Pasquale diceva che boicottavo il suo processo», e «Pedio che dovevamo fare squadra perché la Procura non poteva perdere quel processo e Eni non doveva uscirne bene». E invece, al momento del controesame, la difesa di De Pasquale gira al largo da tutti questi punti, e l’avvocato Massimo Dinoia fa solo due tipi di domande. Uno sulla possibile inutilizzabilità processuale delle chat di Armanna, trovate da Storari nell’intero suo telefono, e il pm risponde: «Se perquisisco per merci contraffatte e trovo un cadavere, non faccio finta di niente per formalismo. E comunque tutta questa prudenza De Pasquale non l’aveva quando con me in altre indagini setacciavamo allo stesso modo i telefoni e ottenevamo condanne».

Le altre domande, molte non ammesse pertinenti dal presidente del Tribunale Roberto Spanò, puntano sulla consegna dei verbali di Amara su «Loggia Ungheria» da Storari al consigliere Csm Davigo (l’uno assolto definitivo, l’altro condannato in primo grado). Dinoia ribatte a Spanò che sono «rilevanti per l’attendibilità del teste», Spanò lo richiama più volte, fino a dire «se continua devo toglierle la parola, sta facendo un controesame fuori dalle regole». Il 18 gennaio deporrà Tremolada. 

"De Pasquale fu chiaro: Eni non deve uscirne bene". La testimonianza del collega Storari contro la toga che promosse il processo sulle tangenti in Nigeria. Manuela Messina su Il Giornale il 4 Ottobre 2023

Il processo contro Eni si doveva vincere a tutti i costi, e per questo la procura di Milano era disposta a tutto. «L'atteggiamento era noi questo processo non lo possiamo perdere, Eni non deve uscirne bene. Per me questo era inaccettabile, perché io faccio il pm e voglio che su di me ci sia la massima trasparenza». Lo dice a chiare lettere, il pm Paolo Storari che ieri ha raccontato la sua verità nel processo «toga contro toga» al tribunale di Brescia, competente sui reati che riguardano i colleghi magistrati milanesi. Il magistrato sentito ieri come teste per tutta la giornata è il grande accusatore del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale e dell'ex pm Sergio Spadaro, oggi in forze alla procura europea, che rispondono di rifiuto di atti d'ufficio. E le sue parole sono risuonate fortissime, anche perché hanno dipinto l'atmosfera presente nel terzo dipartimento guidato appunto da De Pasquale, chiamato scherzosamente dai colleghi «il dipartimento viaggi e vacanze, con pochi fascicoli», come ammette lo stesso pubblico ministero. Storari ha spiegato ieri che non solo indicò ai colleghi alcune prove potenzialmente favorevoli al cane a sei zampe - secondo il magistrato dalle intercettazioni telefoniche emergeva la falsità delle tesi di Armanna contro i vertici di Eni, accuse poi ritrattate - nel noto procedimento per corruzione internazionale, poi conclusosi con un'assoluzione collettiva. Ma mise a disposizione la sua esperienza da magistrato, spiegando ai colleghi che Vincenzo Armanna imputato e grande accusatore nel processo Eni-Nigeria - non era attendibile. Non bastò. Spiega Storari che nei suoi confronti la procura ebbe un «atteggiamento protettivo». Per il solo motivo che la sua deposizione era considerata cruciale nella tesi della procura. «Quando gli dissi nel suo ufficio che stava emergendo che Armanna e Amara erano due calunniatori sottolinea il magistrato - De Pasquale replicò che stavo creando un clima sfavorevole al processo, che lo volevo boicottare». È bene ricordare che Storari si era fatto un'idea di Armanna, avendolo incontrato nell'inchiesta sul cosiddetto falso complotto, di cui era titolare con l'aggiunta Laura Pedio. «Non avevo difficoltà di rapporti con De Pasquale - continua - ma vi è sempre stato un suo atteggiamento protettivo nei confronti di Armanna dichiarante». Sul finale, la sua deposizione è ancora più chiara. «Magari mi sbaglio ma ho avuto la sensazione che anche se gli avessi portato la pistola fumante» non venissi creduto, aggiunge il teste, e le risposte vaghe si infrangono su un presunto coinvolgimento dei «servizi segreti». Storari ha parlato delle divergenze sulla linea da tenere di fronte alle dichiarazioni rese da Piero Amara che aveva adombrato un presunto avvicinamento da parte dei legali di Eni, Paola Severino e Nerio Diodà, al giudice Marco Tremolada e che renderà testimonianza a gennaio. 

Processo Nigeria, Storari: «Mi venne detto che Eni doveva uscirne male». Brescia, la bomba del pm contro i magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che avrebbero “omesso” alcune prove a favore degli indagati. Il Dubbio il 3 ottobre 2023

«Mi venne detto a chiare lettere che Eni non doveva uscire bene dal processo Nigeria». È una bomba quella che Paolo Storari - il pm di Milano ora testimone a Brescia nel processo contro i magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro -, lancia contro i suoi due colleghi. Entrambi sono accusati di rifiuto di atti di ufficio per non aver voluto depositare nel 2021 prove ritenute potenzialmente favorevoli agli indagati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi con l'assoluzione degli imputati.

«Per me questo era inaccettabile», spiega Storari in aula. «Sono atteggiamenti che io non ho mai avuto in nessun processo. Qualcuno mi dirà che si fa così il pm, ma io non sono abituato, voglio che ci sia massima trasparenza su di me». Nel corso dell’esame e del controesame, Storari ribadisce inoltre la sensazione di una volontà da parte dei titolari dell’inchiesta - dell’allora procuratore capo Francesco Greco e dell’aggiunto Laura Pedio - di rallentare le indagini su Vincenzo Armanna, testimone nel processo Eni-Nigeria.

Un calunniatore, secondo Storari, ma non per i suoi colleghi che scelsero di non divulgare il contenuto delle chat di Armanna e ritenute sfavorevoli alla tesi della procura. Chat acquisite fuori dalla «legittimità procedurale», secondo la Procura allora guidata da Greco. E a tal proposito Storari precisa: «Ci si trincera dietro a un formalismo (cioè come si sono acquisite le chat, ndr), lo trovo vergognoso. Il tema è se hai degli elementi a favore tu li devi portare a conoscenza delle difese, comunque tu abbia preso» quel telefonino, scandisce il pm.

Ma che interesse poteva avere la Procura a portare a casa delle condanne così eccellenti? C’erano ragioni extra processuali a spingere gli inquirenti a forzare la mano? Sono questi i quesiti posti al testimone dal presidente del collegio Roberto Spanò. «Io ho parlato solo con Pedio (l’altra pm che svolgeva le indagini) e lei mi disse: “Paolo, dobbiamo fare squadra, la procura non può permettersi di perdere il processo”», racconta sempre Storari. «I fatti sono che la procura si è spesa molto. Io dicevo che se la procura fosse uscita dicendo di aver scoperto che Armanna era un calunniatore avremmo dato la sensazione di una procura indipendente e trasparente». E sulle possibili ragioni esterne che avrebbero potuto spingere i pm a forzare la mano, Storari aggiunge: «C’era il tema del terzo dipartimento (guidato da De Pasquale e di cui faceva parte lo stesso Storari assieme a Pedio, ndr) che suscitava un certo malumore perché si diceva che si occupasse di pochi fascicoli e veniva chiamato il “dipartimento viaggi-vacanze”».

Il testimone Storari racconta anche dei suoi rapporti con i colleghi, di come veniva considerato «corporativo» col presidente del collegio del processo Eni-Nogeria Marco Tremolada. E riferisce di una domanda «che avrebbe dovuto essere fatta ad Amara durante il processo sulle interferenze della difesa di Eni nei confronti dei magistrati milanesi». «Questo significava che Amara si sedeva e venivano infangati sul nulla coram populo il presidente della sezione, un avvocato milanese molto stimato e un ex ministro della Giustizia. Questo voleva dire minare i rapporti col Tribunale, si sa come funziona il processo mediatico». Non solo, «quando gli dissi nel suo ufficio che stava emergendo che Armanna e Amara erano due calunniatori, De Pasquale replicò che stavo creando un clima sfavorevole al processo, che lo volevo boicottare». Ma Storari dice di avere cercato e non trovato dei «riscontri» sulle «chiamate in correità» dei vertici di Eni da parte di Armanna e Armanna, una figura considerata cruciale a sostegno della tesi della procura. «C’è sempre stato un atteggiamento protettivo nei confronti di Armanna», insiste Storari, convinto che se anche avesse «portato la prova della pistola fumante, non sarei stato ascoltato».

La prossima udienza è stata fissata per il 18 gennaio 2024 quando testimonierà, tra gli altri, il giudice Marco Tremolada, che ha emesso il verdetto assolutorio su Eni-Nigeria. La corte presieduta dal giudice Roberto Spanò ha fissato udienze fino al 27 giugno quando potrebbe arrivare il verdetto.

Estratto dell'articolo di Giacomo Amadori per “La Verità” il 16 marzo 2023.

I vertici di Eni non hanno mai ordito complotti per far saltare il processo Eni-Nigeria, anzi erano vittime delle trame di una banda di faccendieri che poteva contare sul sostegno di alcuni organi di informazione. È quanto emerge dalle quattordici pagine con cui i magistrati milanesi Laura Pedio, Stefano Civardi e Monia Di Marco hanno richiesto il rinvio a giudizio per dodici imputati nel cosiddetto filone sul «depistaggio».

 […] All’inizio delle investigazioni per gli inquirenti i principali sospettati per il depistaggio erano i manager del Cane a sei zampe Claudio Descalzi e Claudio Granata, ma oggi, dopo sei anni, i magistrati fanno marcia indietro e ci fanno sapere che in realtà gli ispiratori erano l’avvocato siracusano Piero Amara, i suoi storici sodali Giuseppe Calafiore e Vincenzo Armanna, ex dirigente della compagnia petrolifera, oltre ad altri vecchi manager dell’Eni, mentre Descalzi e Granata erano le vittime.

[…] . Nell’istanza i reati contestati sono l’associazione per delinquere, la calunnia, l’induzione a rendere false dichiarazioni all’autorità giudiziaria, truffa, frode in commercio, l’impiego di denaro provento di reato e di illeciti amministrativi. Gli imputati, come detto, sono 12, oltre a tre società che non esistono più o sono in liquidazione, come l’Eni trading & shipping (Ets), la Napag Srl e la Napag limited, a cui, le ultime due, i proprietari, nel frattempo, hanno cambiato il nome.

 […]  l’1 marzo è stata firmata la richiesta di rinvio a giudizio. E così si è chiuso anche l’ultimo spezzone della mega inchiesta sull’Eni che ha caratterizzato gli ultimi anni della gestione a trazione progressista della Procura milanese, quando era capitanata da Francesco Greco, affiancato dai suoi più stretti collaboratori, gli aggiunti Laura Pedio e Fabio De Pasquale.

[…] Ad Amara vengono, infatti, contestati ben quattro reati. Lui e Armanna sono accusati di associazione per delinquere unitamente all’ex capo dell’ufficio legale dell’Eni Massimo Mantovani, agli ex avvocati interni dell’azienda Vincenzo Larocca e Michele Bianco e all’ex numero due di Eni Antonio Vella perché «si associavano fra di loro allo scopo di commettere più delitti». L’attività delittuosa sarebbe andata avanti dall’estate del 2014 fino al dicembre 2019 e quindi anche dopo l’inizio della presunta collaborazione di Amara, iniziata il 24 aprile 2018.

[…] Rispetto all’avviso di chiusura delle indagini, al capo F, c’è una grossa novità: la Procura contesta, a quattro anni di distanza, a Mantovani, all’imprenditore Francesco Mazzagatti e al collega nigeriano Omamofe Boyo, la truffa patita dall’Eni per il greggio trasportato in Italia dalla petroliera White moon nel maggio 2019, un carico oggetto di numerose denunce da parte dell’Eni a partire dal 13 giugno 2019 quando l’azienda ha segnalato alla Pedio che la nave era giunta in prossimità del porto di Milazzo con un petrolio acquistato dall’Eni che non era di provenienza irachena, come dichiarato dalla venditrice Oando (rappresentata da Boyo), ma di «qualità superiore e più pregiata» presumibilmente iraniana, oro nero sottoposto a embargo.

 L’Eni in data 15 luglio 2019 ha denunciato espressamente Amara e Mazzagatti in veste di titolari effettivi della Napag, fornitrice del greggio diverso da quello pattuito. Tale truffa non viene, però, contestata dalla Procura ad Amara né si hanno notizie di sequestri da costui subiti anche in relazioni alle ulteriori vicende contestate. Nel capo I viene contestato ad Amara, Mazzagatti e Cambareri l’incredibile acquisto di uno stabilimento petrolchimico iraniano. Infatti con il denaro truffato all’Eni, circa 26 milioni di euro, Amara e suoi complici hanno acquistato, attraverso una società di Singapore, il 60 per cento della Mehr petrochemical co., proprietaria della suddetta azienda, senza tirare fuori un solo euro e, ancora oggi, si stanno godendo i frutti di questa mirabolante operazione visto che la Procura di Milano e, prima ancora, quella di Roma non hanno mai sequestrato nulla all’avvocato siracusano.

[…] Nella richiesta di rinvio a giudizio c’è la conferma dei lauti pagamenti in contanti ad Amara da parte della Napag, emolumenti che sarebbero stati fatti arrivare dall’ex presidente della Ets Mantovani per far rendere al legale false dichiarazioni all’autorità giudiziaria. Ricordiamo che Amara da febbraio 2018 fino ai primi di maggio dello stesso anno è stato detenuto a Regina Coeli e da maggio a luglio è stato agli arresti domiciliari su richiesta della Procura di Roma che in quel periodo lo interrogava insieme con i pm di Milano (proprio sul presunto complotto) e Messina. Quasi nello stesso periodo, tra maggio 2018 e gennaio 2019, i titolari della Napag, Mazzagatti e Giuseppe Cambareri, hanno consegnato 307.000 euro alla moglie di Amara, Sebastiana Bona, e al suo avvocato Francesco Montali.

Nelle sue informative la Guardia di finanza elenca anche i trasferimenti di cash in favore di Amara, per un totale di 774.000 euro, avvenuti da maggio 2015 ad aprile 2018, quindi anche nel periodo in cui Amara era ospite delle patrie galere. Per questo denaro nessuna accusa è stata rivolta ad Amara, alla moglie o a Montali e nessun provvedimento di sequestro risulta agli atti. Eppure secondo le Fiamme gialle Montali avrebbe svolto «un ruolo di collettore per le somme di denaro» e avrebbe aiutato il suo assistito a comunicare con l’esterno quando era agli arresti, anche concedendo «l’utilizzo del proprio smartphone e del proprio profilo Wickr “Balù”».

 […]

Ultimo dato che emerge dalla richiesta di rinvio a giudizio è il ruolo che avrebbero assunto nel depistaggio alcuni «organi di stampa», così genericamente definiti dai pubblici ministeri e non indicati per nome, forse per carità di patria. Per i pm gli imputati «strumentalizzavano alcuni organi di stampa, veicolando loro notizie al fine di dare risalto mediatico alle false accuse formulate» si legge nel documento.

 In un altro passaggio si fa riferimento in particolare «alle accuse calunniose formulate a Trani e Siracusa» rilanciate da alcuni media. Ma va detto che negli atti del procedimento sono evidenziati i rapporti di Armanna e Amara con alcuni inviati della carta stampata e della tv, in particolare del Fatto quotidiano e di Report. Tanto che la prima teorizzazione del Patto della Rinascente è stata fatta sul piccolo schermo.

 Ma ovviamente gli inquirenti non citano quelle comparsate nella contestazione di calunnia. Si tratta, infatti, di un reato che si può commettere solo accusando falsamente qualcuno di fronte all’autorità giudiziaria. Mentre per la diffamazione a mezzo stampa si procede su querela di parte.

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 10 marzo 2023.

 Interrogatorio in gran segreto 10 giorni fa a Brescia come teste del giudice milanese Marco Tremolada: cioè del presidente del processo Eni-Nigeria […], nel febbraio-marzo 2021 lasciato all’oscuro che Vincenzo Armanna, imputato ma anche accusatore di Eni valorizzato dal procuratore aggiunto milanese Fabio De Pasquale, avesse falsificato sia le chat portate in Tribunale […], sia le chat portate alla Procura per far figurare che l’a.d. Eni Claudio Descalzi avesse inquinato il processo.

La sorpresa spunta dal deposito del verbale alla vigilia del processo bresciano a De Pasquale e al pm Sergio Spadaro, rinviati a giudizio lo scorso 18 gennaio per «rifiuto d’atto d’ufficio» […]. La difesa di De Pasquale e Spadaro è che le chat di Armanna fossero irrilevanti, e comunque non riversabili nel processo che era quasi finito: due trincee incrinate ora dalle risposte di Tremolada [...].

 «Benché fossimo a ridosso della conclusione», se la Procura «ci avesse chiesto di acquisire» le chat «che mi avete mostrato», specialmente il taglia e cuci di Armanna volto a occultare «il riferimento a una cospicua somma versata da Armanna» al suo teste Timi Aya, «sono sicuro che lo avremmo fatto, perché avrebbe certamente risolto il tema dell’attendibilità di Armanna, e non ci avrebbe richiesto uno sforzo motivazionale pari a quello che abbiamo compiuto per escluderla» al momento dell’assoluzione di tutti gli imputati il 17 marzo 2021.

In più «avremmo trasmesso gli atti per ipotesi di intralcio alla giustizia». […] E che l’attendibilità di Armanna fosse un nodo del processo, […] Tremolada lo fa dire proprio al De Pasquale del 2018: «Come si fa con i legali che lo chiedano per meglio programmare l’attività processuale, ricevetti De Pasquale, il quale mi segnalò la necessità di una trattazione prioritaria, sostenendo non sarebbe stata lunga» in quanto si trattava «solo di istruire i riscontri alle dichiarazioni di un collaboratore».

Luigi Ferrarella per il "Corriere della Sera" il 22 febbraio 2023.

Gli affari da 304 milioni di Petroservice, negli anni in cui (fino a un mese prima della nomina nel 2014 di Claudio Descalzi a n.1 di Eni spa) era riconducibile alla moglie Magdalene Ingoba, «furono conclusi da altre società Eni, distinte da Eni spa, dotate di autonomia giuridica e propri organi gestori», senza che Descalzi potesse «averne contezza e visibilità»: la gip milanese Sofia Fioretta archivia così Descalzi sull’omesso conflitto di interessi.

E ritiene poi «un errore materiale» che i pm dopo 5 anni chiedano l’archiviazione ancora della corruzione in Congo nel 2013 anziché della già derubricata induzione indebita, patteggiata in 11 milioni di confisca nel 2021 da Eni per «minor danno reputazionale» e come «vittima trovatasi a operare in uno Stato dittatoriale». E proprio la riqualificazione — si spinge a dire la gip — avrebbe «non inverosimilmente ostacolato» le rogatorie milanesi del tutto ignorate da Montecarlo, «che non prevede l’induzione».

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 9 febbraio 2023.

La moglie dell’attuale amministratore delegato Eni Claudio Descalzi, l‘imprenditrice e principessa congolese Marie Madeleine Ingoba, sino al 2014 controllava (tramite una catena di società facenti capo alla lussemburghese Cardon, posseduta in società con l’uomo d’affari anglo-monegasco Alexander Haly) aziende fornitrici di servizi logistici navali proprio a Eni per 55 milioni di dollari.

Ma ciò non è reato di «omessa dichiarazione di conflitto d’interesse» — motiva ora la Procura nella richiesta di archiviare Descalzi per la vicenda di cui nel 2018 il manager si era dichiarato ignaro — sia perché i rapporti commerciali della moglie erano non con Eni spa (teatro del potere deliberativo di Descalzi) ma con Eni Congo spa; sia perché Ingoba cedette le proprie quote ad Haly l’8 aprile 2014, un mese prima che Descalzi in Eni spa diventasse n.1, sicché il reato sarebbe comunque già prescritto.

 Ma soprattutto, scrive il pm Giovanni Polizzi con il visto dell’aggiunto Fabio De Pasquale, le rogatorie al Principato di Monaco sui conti di Haly (che vi si è opposto strenuamente) dal 2018 non hanno avuto risposta, «neppure parzialmente, evento assolutamente anomalo e senza precedenti nell’esperienza di questo Ufficio».

 Il procuratore Marcello Viola in un comunicato lima il giudizio in «evento con scarsissimi precedenti», ma la sostanza è la stessa che fonda la richiesta di archiviare anche l’altra accusa a 8 indagati […]: corruzione in Congo per «gli accordi illeciti» […], quando Eni nel 2015, in cambio del rinnovo di permessi petroliferi, sarebbe stata consapevole che dietro la società privata congolese Aogc, alla quale cedeva quote di giacimenti, vi fosse Denis Gorkana, n.1 dell’ente petrolifero statale e vicino al presidente Sassou Nguesso.  […]

"Sulle tangenti Eni accuse senza riscontro". Il gip demolisce la tesi della Procura di Milano. Il decreto di archiviazione sbugiarda i pm sulle rogatorie: l'ente è vittima. Luca Fazzo il 23 Febbraio 2023 su il Giornale.

Ci aveva provato, la Procura di Milano, a dare tutta la colpa della sua sconfitta al Principato di Monaco, che non si era degnato neanche di rispondere alle sue rogatorie. Un mese fa, annunciando di avere chiesto l'archiviazione dell'ultima indagine ancora aperta sulle tangenti che Eni avrebbe distribuito in giro per il mondo, la Procura aveva indicato nella mancata risposta dalle autorità monegasche la causa della impossibilità di portare a processo un'altra volta Claudio Descalzi, numero uno dell'ente di Stato, e altri sette indagati: stavolta per gli affari in Congo.

Ora arriva però il decreto di archiviazione firmato dal giudice preliminare Sofia Fioretta, che accoglie la richiesta firmata dal pm Giovanni Polizzi: ma va ben più in là, demolendo alle basi l'indagine coordinata dal procuratore aggiunto Fabio De Pasquale. «L'ipotesi accusatoria non risultava adeguatamente riscontrata», scrive il giudice. E aggiunge che l'accordo raggiunto l'anno scorso tra Procura e Eni per «declassare» il reato di corruzione stabiliva che «non vi era stato alcun accordo corruttivo alla pari tra l'ente e i pubblici ufficiali congolesi ma al contrario Eni - che si era trovata ad operare in uno Stato sostanzialmente dittatoriale, ancora sfornito di regole di concorrenza trasparenti, incentrato sulla figura del presidente e tenuto in pugno da un manipolo di luogotenenti dello stesso - era stata persona vittima e offesa». «Le persone poste nelle posizioni apicali di Eni in quel paese erano state indotte dai pubblici ufficiali congolesi a promettere loro utilità come tante altre compagnie petrolifere private di altri paesi».

Eni non colpevole ma vittima, dice il giudice. É vero che le rogatorie non hanno mai avuto risposta. Ma «non risulta che l'ufficio requirente abbia svolto ulteriori indagini». Due imputati, peraltro, non si capiva nemmeno di cosa fossero accusati: «il pm non ha indicato alcuna precisa condotta ipoteticamente ascrivibile agli indagati». Uno dei due si era dimesso dall'Eni già nel 2005, «non ha mai avuto rapporti con gli altri indagati ed è sempre stato completamente estraneo ai fatti in oggetto di contestazione». Eppure per cinque anni è rimasto indagato per corruzione.

Ancora più severa la giudice nel valutare il secondo capo d'accusa, dove Descalzi doveva rispondere di non avere reso noto un suo conflitto di interessi: la moglie era socia di una azienda che noleggiava aerei all'Eni in Congo. Anche qui la Procura nella richiesta di archiviazione aveva tirato in causa le rogatorie senza risposta. Ma il giudice spiega che le operazioni di affitto di aerei «sono state concluse da altre società del gruppo diverse da Eni spa, dotate di autonomia giuridica e di propri organi gestori (...) non sono mai transitate nel consiglio d'amministrazione di Eni spa o nelle deleghe dell'amministratore delegato». Inoltre «nessuna delle operazioni ha causato un danno a Eni spa». Ma non basta: «risulta per tabulas che all'epoca dei fatti in contestazione la società non era più riconducibile alla moglie» di Descalzi. Tutti elementi che potevano essere conosciuti dalla Procura prima ancora di iscrivere i vertici di Eni nel registro degli indagati, nel lontano 2017. Dopo cinque anni, i pm si sono arresi: ma, sostengono, solo perché il reato è prossimo alla prescrizione. Altrimenti forse avrebbero portato gli imputati a processo, salvo vederseli assolvere come negli filoni del caso Eni.

Qatargate, Fabio De Pasquale? Chi è il giudice imputato chiamato a indagare. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 26 gennaio 2023

La moglie e la figlia di Antonio Panzeri tornano libere. Da oggi, salvo clamorosi quanto improbabili colpi di scena, Maria Dolores Colleoni e Silvia Panzeri non saranno più sottoposte agli arresti domiciliari. Resta solo da capire aquali limitazioni, pur minori, dovranno continuare a sottostare. La misura dei domiciliari a Calusco d’Adda (Bergamo) - dov’erano stati trovati 17mila euro in contanti - gli era stata imposta il 10 dicembre con l’accusa di aver favorito le attività dell’ex eurodeputato Dem e Articolo 1, corruzione, riciclaggio e associazione a delinquere. La revoca degli arresti giunge dopo che la procura di Bruxelles ha rinunciato all’estradizione in Belgio di entrambe, provvedimento che ormai avrebbe potuto scongiurare soltanto la Cassazione.

La nota con cui la magistratura belga spiega di non avere più interesse alla consegna è stata girata dal presidente della Corte d’appello di Brescia Claudio Castelli ai due collegi che nelle scorse settimane avevano dato il via libera al trasferimento di Colleoni e figlia in un carcere di Bruxelles. La revoca dei domiciliari per Colleoni e figlia (alla quale sono stati congelati 200mila euro sul conto corrente) potrebbe essere collegata all’accordo di collaborazione firmato da Panzeri, diventato ufficialmente collaboratore di giustizia: nel carcere belga di Saint-Gilles (dove in virtù dell’accordo rimarrà al massimo un anno) sta fornendo informazioni sul Qatargate. Ma la revoca dei domiciliari potrebbe essere anche conseguenza della posizione, che si starebbe aggravando, della commercialista di Panzeri, Monica Rossana Bellini, la quale - accusata da Panzeri - avrebbe riciclato il denaro in Italia, e per questo è possibile che a Milano venga aperto un fronte a sé dell’inchiesta.

Ieri il procuratore federale belga Frederic Van Leeuw e il giudice istruttore Michel Claise, titolare dell’indagine sul mega scandalo di mazzette tra Belgio, Qatar e Marocco sono arrivati nel capoluogo lombardo per incontrare i vertici dell’ufficio e gli ufficiali della guardia di finanza: si lavora sui supporti informatici sequestrati alla famiglia Panzeri. Titolare dell’inchiesta sul fronte italiano del Qatargate è il giudice Fabio De Pasquale, procuratore aggiunto di Milano, recentemente rinviato a giudizio (assieme al collega Sergio Spadaro) per rifiuto d’atti d’ufficio in relazione al processo sul caso Eni-Nigeria.

L’altra novità è che sarebbero coinvolte altre Ong oltre alla Fight Impunity di Panzeri. Sempre oggi, al palazzo di giustizia di Bruxelles, sono previste le udienze di Francesco Giorgi e Niccolò Figà-Talamanca. I due, ricordiamo, sono rispettivamente lo storico collaboratore di Panzeri e dell’eurodeputato Dem Andrea Cozzolino al quale di fatto è già stata tolta l’immunità parlamentare (ci ha rinunciato, ma a oggi non è indagato), e il presidente (auto-sospesosi a seguito dello scoppio dello scandalo) della Ong No Peace Without Justice, a oggi estranea all’inchiesta. Per Giorgi e Figà-Talamanca le accuse sono di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio. Giorgi è anche il compagno di Eva Kaili, la vicepresidente destituita del parlamento Ue, anche lei in carcere a Bruxelles, il cui avvocato ha dichiarato che presto potrebbero finire nell’inchiesta anche altri europarlamentari, tra cui altri italiani.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - Il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il pm, ora alla procura europea, Sergio Spadaro sono stati rinviati a giudizio a Brescia. Nei loro confronti l'accusa è rifiuto di atti d'ufficio, in quanto, secondo l'ipotesi, non avrebbero depositato prove favorevoli agli imputati, poi tutti assolti definitivamente, del processo Eni-Nigeria. Lo ha deciso il gup bresciano Christian Colombo. Il dibattimento si aprirà il prossimo 16 maggio.

I pm De Pasquale e Spadaro della procura di Milano rinviati a giudizio a Brescia. Sono accusati di rifiuto di atti d’ufficio nell’inchiesta Eni-Nigeria. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Gennaio 2023.

Il processo a carico dei due magistrati inizierà il prossimo 16 maggio. Secondo l'accusa della procura di Brescia i due pm milanesi non avevano messo a disposizione delle difese nel processo Eni-Nigeria elementi a loro favorevoli come chat whatsapp e video acquisiti in un altro fascicolo

Il procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e il sostituto procuratore Sergio Spadaro, in servizio attualmente alla procura europea, sono stati rinviati a giudizio dalla procura di Brescia. L’accusa nei loro confronti è quella di “rifiuti di atti d’ufficio“. A deciderlo è stato il Gup bresciano Christian Colombo che ha fissato il prossimo 16 maggio come data di apertura del processo a loro carico.

Secondo i pm Carlo Milanesi e Donato Greco della procura di Brescia che hanno condotto le indagini, i magistrati De Pasquale e Spadaro, titolari dell’inchiesta che aveva portato al processo Eni- Nigeria, non avrebbero depositato in dibattimento una serie di elementi di prova favorevoli agli imputati raccolti dal pm Paolo Storari che indagava su un fascicolo parallelo, quello del cosiddetto “Falso Complotto“. Gli imputati del processo Eni-Nigeria in seguito vennero tutti assolti.

I pm di Brescia hanno evidenziato nel loro intervento in aula come i due colleghi milanesi non avrebbero messo a disposizione “volontariamente alle difese elementi di prova a loro favorevoli” come chat Whatsapp e anche un video acquisiti nell’indagine sul “Falso Complotto“. In particolare viene contestato il mancato depositato delle vere chat del telefono di Vincenzo Armanna, dalle quali sarebbe emerso un suo rapporto patrimoniale di 50.000 dollari con il teste che doveva confermarne le accuse a Eni (il presunto 007 nigeriano “Victor“). L’accusa contestata è anche quella di aver taciuto su altri scambi di messaggi che avrebbero potuto far comprendere il ruolo di “depistatore” di Armanna e così come il mancato deposito della videoregistrazione rubata di un incontro con l’avvocato Piero Amara nel quale Armanna, due giorni prima di presentarsi in procura con le prime accuse ai vertici Eni, si diceva pronto a volerli fare coprire da “una valanga di…“. Redazione CdG 1947

Estratto dell’articolo di Luigi Ferrarella per il “Corriere della Sera” il 19 gennaio 2023.

«Se si possono sindacare con lo strumento penale le valutazioni che fa un pm in dibattimento, beh, non dico che siamo a livello di Erdogan in Turchia, però quasi», arriva a dire in udienza il pm che ottenne la prima condanna definitiva di Bettino Craxi, il primo (e sinora l’unico) ad averla ottenuta per Silvio Berlusconi: e al processo Eni-Nigeria nel 2021 il procuratore aggiunto milanese e capo del pool affari internazionali Fabio De Pasquale avrebbe nascosto al Tribunale prove favorevoli alle difese? Ma va là, le irride, ma quali «prove»?

Quelle che per il pm Paolo Storari attestavano la calunniosità dell’imputato dichiarante Vincenzo Armanna ai danni di Eni? «Le “cosiddette” prove di Storari…Un’accozzaglia di dati al limite del risibile, senza capo né coda», ironizza nei vari interrogatori, […]: e invoca l’allora condivisione del procuratore Francesco Greco e della vice Laura Pedio sul fatto che «comunque questo qualificare Armanna come calunniatore mi sembrasse una cosa superficiale», fino a contrattaccare che Storari gli avesse teso «una trappola […]».

Ma ieri il gup bresciano Christian Colombo rinvia a giudizio De Pasquale e il collega Sergio Spadaro (oggi pm della Procura Europea Antifrodi) per «rifiuto d’atto d’ufficio» proprio nel non aver voluto depositare nel febbraio marzo 2021 talune prove indicate via mail da Storari a Greco e Pedio il 18 gennaio e il 19 febbraio 2021, e da Greco inoltrate solo a metà febbraio ai due pm di Eni-Nigeria: dati che non giovavano alla traballante attendibilità di Armanna, allora molto valorizzato […].

A pesare sul rinvio a giudizio è stato l’opposto comportamento dei due pm in altri frangenti di loro “convenienza” processuale: come quando, per adombrare manovre su Armanna ordìte da Eni, depositarono quegli elementi per proclamata «simmetria» con le difese.

 Non fecero invece così con la scoperta di Storari delle falsificazioni da parte di Armanna di chat (alcune prodotte in Tribunale, altre al “Fatto Quotidiano” nel novembre 2020) volte a nascondere un rapporto di 50.000 dollari con il proprio teste 007 nigeriano «Victor», celare l’eterodirezione di un altro teste in una rogatoria del pm Pedio, e accreditare nel 2013 depistaggi di Descalzi e del vice Granata. […]

La decisione del gup - col nuovo criterio della legge Cartabia che pretende non più la sola sostenibilità in giudizio ma anche la ragionevole previsione di condanna – è arrivata nonostante l’accalorata autodifesa di De Pasquale […], di recente definito «luminoso esempio per i pm di tutto il mondo» da una lettera del presidente Drago Kos del gruppo anticorruzione Ocse, e destinatario dal procuratore milanese Marcello Viola di parere positivo alla conferma nel ruolo di vice. […]

Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold per “La Verità” il 19 gennaio 2023.

[…] Le due toghe […] rischiano dai 6 mesi ai 2 anni. Soprattutto potrebbero essere esposti al rischio di pagare milioni di euro di risarcimenti. Del resto, l'imputazione per corruzione si basava sull'ipotesi, poi ampiamente smentita, che intorno al giacimento nigeriano fosse transitata la tangente più grande della storia, pari a 1,3 miliardi.

[…] La sentenza di rinvio a giudizio non era così scontata. […] De Pasquale e Spadaro avevano chiesto a novembre […] di poter essere giudicati dopo l'entrata in vigore della riforma Cartabia. In questo modo avrebbero voluto da un lato evitare che si costituissero nuove parti civili (al momento l'unico che si è costituito nel procedimento è l'ex vice console in Nigeria, Gianfranco Falcioni), dall'altro far sì che il giudice per l'udienza preliminare prendesse una decisione a fronte di una «ragionevole previsione di condanna» e non più, come accadeva prima, a fronte soltanto di «elementi idonei» per una condanna.

[…] Come noto la Procura bresciana contesta a De Pasquale e Spadaro di non aver depositato prove verbali e documentali che gli erano state inviate dal sostituto procuratore Paolo Storari, documenti che avrebbero dimostrato subito «la falsità degli elementi forniti alla pubblica accusa da Armanna Vincenzo, che aveva assunto il ruolo di accusatore contro gli imputati del processo Eni Nigeria», tra cui l'ex presidente Paolo Scaroni e l'ex amministratore delegato Claudio Descalzi.

 Storari aveva inviato loro una mail il 19 febbraio 2021, invitando a mettere a disposizione del tribunale e delle difese i messaggi whatsapp del cellulare di Armanna, dove si poteva leggere che l'ex manager Eni aveva pagato 50.000 dollari a due testimoni del processo che avrebbero dovuto confermare di avere visto «gli italiani» imbarcare trolley pieni di denaro contante parte del prezzo della corruzione che sarebbe dovuta spettare a Eni.

Non solo. Un'altra prova non depositata da De Pasquale e Spadaro è una nota della società Vodafone contenuta in un'annotazione della Guardia di finanza del gennaio 2021, dove si poteva facilmente scoprire come le presunte chat tra Armanna e Descalzi e poi sempre del primo con Claudio Granata (il direttore Risorse umane di Eni) fossero «materialmente e ideologicamente false perché nel 2013 […] le utenze che non erano in uso ai due manager Eni e non avevano generato quel traffico».

 Ma soprattutto, i due pm non avevano depositato la videoregistrazione di un incontro avvenuto il 28 luglio 2014, in cui erano presenti Armanna, l'avvocato Piero Amara e altri, dove il primo aveva «espresso propositi ritorsivi nei confronti dei vertici dell'Eni, «perché la valanga di merda che io faccio arrivare in questo momento... con la valanga di merda che sta arrivando, vedrete che accelelererà», affermazioni - come hanno riportato gli avvocati di Falcioni, Gian Filippo Schiaffino e Pasquale Annichiaro - «da considerarsi inconciliabili con l'affidabilità di un dichiarante che due giorni dopo si presentò da De Pasquale per accusare i vertici Eni».

[…] Nella costituzione di parte civile, gli avvocati ricordano anche come i danni subiti da Falcioni siano stati infatti ingentissimi. Si riservano di stabilire la cifra del risarcimento. Ma in teoria potrebbero farlo anche gli altri imputati al processo, tra cui le stesse Eni e Shell.

 Anche se il Cane a sei zampe (che infatti non è costituito in giudizio) ha sempre ribadito di non cercare vendetta ma solo di voler conoscere la verità […]

Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold per “La Verità” il 20 Gennaio 2023.

Il rinvio a giudizio del procuratore aggiunto Fabio De Pasquale non crea particolari contraccolpi in Procura di Milano. Il capo del settore corruzione internazionale è in attesa dell’inizio del processo a Brescia il 16 marzo (dovrà rispondere di omissione di atti d’ufficio sul processo Eni-Nigeria), ma allo stesso potrà continuare la sua indagine come assistente della magistratura belga sul Qatargate e sull’ex eurodeputato del Pd Antonio Panzeri.

Del resto, gli unici che potrebbero intervenire sulla sua posizione (sospensione o spostamento), per sgombrare i dubbi da una situazione più che mai particolare (condurre un’inchiesta per corruzione internazionale pur essendo a processo per aver nascosto prove alle difese), potrebbero essere il capo della Procura Marcello Viola (che potrebbe togliergli le inchieste più delicate), il Consiglio superiore della magistratura, il procuratore generale della Cassazione Luigi Salvato o il ministro della Giustizia Carlo Nordio.

 Viola ha già fatto sapere quello che pensa di De Pasquale nel parere dello scorso 18 ottobre, quando diede «una valutazione ampiamente positiva in ordine della conferma» per altri 4 anni dopo i primi 4 da vice della Procura, «a seguito di verifica, in concreto, delle attitudini dimostrate nel quadriennio, dell’attività svolta e dell’effettiva positività del servizio reso».

Il Csm non c’è ancora, dal momento che non si sono ancora insediati i membri laici. Al ministero e alla Cassazione, al momento, tutto tace. Quindi, più che sul destino di De Pasquale (trattato con i guanti dai quotidiani come Repubblica che ieri non ha neppure riportato il rinvio a giudizio, ndr), potrebbe invece essere interessante capire che fine farà la mole di cause e denunce contro Vincenzo Armanna e Piero Amara dopo la decisione del gup bresciano Christian Colombo.

Ce ne sono un po’ in tutta Italia, da Perugia a Roma, Milano e Potenza. Oltre alle diverse cause civili per risarcimento danni ancora ferme, tra luglio e settembre del 2019, infatti, arrivò in Procura di Milano una pioggia di denunce contro Amara e Armanna. L’ex avvocato e l’ex manager di Eni furono accusati di calunnia per le dichiarazioni al processo Opl 245.

 A firmare le querele furono l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi, il direttore delle risorse umane Claudio Granata e l’avvocato Michele Bianco. Erano i mesi in cui le dichiarazioni di Armanna contro Descalzi e Scaroni venivano rilanciate in lungo e in largo sui quotidiani o in Rai, durante la trasmissione Report. Per di più a luglio il manager siciliano era stato ascoltato in udienza e aveva sostenuto, al solito, una lunga lista di falsità.

Allo stesso tempo Amara continuava con le sue dichiarazioni ai procuratori milanesi. E pensare che non aveva ancora fatto cenno alla famigerata loggia Ungheria, altra bufala che ha procurato al legale siciliano una nuova tornata di denunce e querele (anche queste ancora nei cassetti) dalla maggior parte dei presunti affiliati, tra cui l’ex vicepresidente del Csm Michele Vietti o l’attuale numero uno della Gdf Giuseppe Zafarana. […]

Il caso dei due magistrate. Processo Eni, mandiamo in pensione i Pm De Pasquale e Spadaro. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 20 Gennaio 2023.

Il rinvio a giudizio dei magistrati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro per presunti imbrogli probatori nel processo Eni Nigeria non porta in realtà nulla di nuovo sulla scena di quell’inquietante pasticcio. Già prima, infatti, e proprio alla luce delle dichiarazioni degli imputati, la situazione era chiarissima: l’accusa pubblica aveva fatto una sapiente selezione delle prove da riversare in giudizio, accantonandone alcune. E quelle accantonate erano tali da mettere in dubbio, se non addirittura travolgere, la fondatezza dell’accusa.

Dal punto di vista del cittadino e da quello di chiunque sia stato o sia oggi sottoposto alle cure di giustizia non importa assolutamente nulla che le accuse rivolte ai due magistrati trovino riscontro in una sentenza di condanna penale, che non auguriamo nemmeno, e forse tanto meno, a chi è abituato a far sbattere la gente in galera: magari in virtù di prove, diciamo così, di discutibile affidabilità. In questo caso, infatti, il cittadino ha già ora tutto il diritto di sentirsi in dovere di diffidare di una giustizia nei cui ranghi milita chi addirittura rivendica la bontà del proprio operato, spiegando che quelle prove a favore degli imputati non erano state offerte all’istruttoria in quanto “non rilevanti”. Il cittadino ha ora il diritto, e a prescindere da come andrà il processo a carico di questi due eminenti togati, di tenere in sospetto una giustizia che si muove sulla scorta di un’accusa pubblica che rivendica di poter discrezionalmente decidere quanti documenti, e quali, far conoscere al giudice cui chiede di irrogare una sanzione penale. Il cittadino ha ora il diritto di domandarsi quante volte possa essere successo che una sentenza di condanna, l’applicazione di una pena detentiva, magari un suicidio in carcere, possano essere la conseguenza d’un giudizio basato su prove selezionate in quel modo.

Qui insomma non è in discussione ciò che quei due magistrati hanno fatto: è in discussione che avessero il potere, come loro sostengono, di farlo, o invece che nel farlo si siano resi responsabili di un illecito, come sostiene chi li rinvia a giudizio. Ma nei due casi la sfiducia, anzi la ripugnanza, per una giustizia in cui l’accusa pubblica procede, e rivendica di poter procedere, in questo modo, è identica: perché è una giustizia in cui qualcuno, mentre contribuisce ad amministrarla, dice non solo di averla amministrata in quel modo, ma di poterlo fare; perché è una giustizia cui qualcuno, appartenendovi, attribuisce il potere di incarcerare una persona all’esito di una trafila accusatoria organizzata arbitrariamente, in omaggio a un bouquet di prove assemblato a capriccio. Il cittadino ha il diritto di tornare con la mente ai bei tempi del Terrore giudiziario degli anni Novanta del secolo scorso, al suicidio di Gabriele Cagliari e alla condanna di Berlusconi, e non è colpa sua, non è colpa del cittadino se chi lavorava all’accusa in quei processi è chi oggi viene rinviato a giudizio per aver fatto quel tipo di governo del proprio potere. Che fosse lecito o no, non importa assolutamente nulla, anzi se dovesse essere considerato lecito sarebbe anche peggio. Il cittadino ha diritto a una giustizia diversa, con magistrati diversi, che abbiano una diversa concezione della giustizia e del proprio potere. E non hanno bisogno, i cittadini, di magistrati resi innocui dalla galera: ma dalla pensione.

Iuri Maria Prado

Eni-Nigeria, sui pm rinviati a giudizio la categoria fa finta di niente. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 20 gennaio 2023

Pare che la magistratura militante, quella perennemente accampata in televisione e prontissima alla requisitoria moraleggiante ogni qual volta si tratti di macchie che deturpano l’immagine della classe politica, dell’imprenditoria, delle professioni altrui, non abbia proprio nulla da dire quando una coppia di magistrati è rinviata a giudizio con l’accusa di aver taroccato le prove di un processo, anzi anche peggio, di avere sottratto al processo le prove che avrebbero destituito di fondamento l’accusa e arrecato elementi favorevoli alla difesa degli imputati. Di questo, infatti, sarebbero accusati Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, che nel processo Eni Nigeria avrebbero inguattato un video capace di svelare una possibile macchinazione ai danni degli accusati. Sicuramente quella magistratura resta in silenzio perché ha il culto della presunzione di innocenza, che dunque applica con equanimità ai propri affiliati come notoriamente fa per gli indagati sprovvisti di toga.

Tuttavia l’ipotesi che chi è dotato del potere di far imprigionare la gente sia lo stesso che costruisce l’accusa tenendo nel cassetto le prove dell’innocenza dovrebbe allarmare chiunque, specie quando i magistrati in questione non negano di aver negato al processo quei documenti ma argomentano invece che essi, a loro giudizio, sarebbero stati irrilevanti.

 E che un documento possa essere irrilevante può darsi benissimo: ma piacerebbe che ad accertarlo fosse il giudice che lo esamina, non il pubblico ministero che non glielo fa vedere. La magistratura televisiva, così oltranzista nella difesa delle pubbliche virtù quando spiega di poter alzare il dito contro le altrui malefatte senza attendere l’esito dei processi, evidentemente considera di nessun allarme l’ipotesi che dei cittadini siano accusati dalla discrezionalità giudiziaria che sfoglia il libro delle prove sottolineando quelle che fan comodo all’accusa e censurando le altre.

Consip, il generale Del Sette assolto in Appello. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 15 Giugno 2023  

"Il fatto non sussiste". La difesa dell'ex comandante generale dei carabinieri: "Sentenza restituisce giustizia e verità"

L’ex comandante generale dell’ Arma dei Carabinieri , generale Tullio Del Sette è stato assolto in Appello dalle accuse di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta Consip. I giudici della Terza Sezione penale della Corte d’Appello di Roma, riformando la sentenza di primo grado che nel gennaio del 2021 lo aveva condannato a dieci mesi, ha assolto il generale con la formula “perché il fatto non sussiste“. 

“Grandissima soddisfazione per una sentenza che restituisce giustizia e verità a vantaggio di chi ha sempre servito lo Stato”, commenta l’avvocato Carlo Bonzano difensore, insieme all’ avvocato Fabio Lattanzi, del generale Del Sette.

”La decisione della Corte di Appello di Roma ha finalmente riconosciuto l’innocenza del generale Tullio Del Sette assolvendolo dall’ingiusta accusa di rivelazione d’ufficio e favoreggiamento. Una decisione giusta che ristabilisce la verità anche se purtroppo è arrivata dopo anni di logorante attesa che hanno segnato la vita di un’irreprensibile uomo delle istituzioni”, affermano i difensori del generale Del Sette, gli avvocati Lattanzi e Bonzano. Redazione CdG 1947

Il fatto non sussiste, "giustizia e verità" per l'ex comandante generale dei carabinieri. Tanta gogna per niente, assolto Tullio Del Sette: evapora l’inchiesta Consip. Paolo Pandolfini su Il Riformista il 15 Giugno 2023 

È stato assolto dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio e favoreggiamo, perché il fatto non sussiste, l’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette. I giudici della Terza Sezione penale della Corte d’Appello di Roma hanno riformato ieri la sentenza di primo grado che nel gennaio del 2021 aveva condannato il generale a dieci mesi di carcere.

‘’Grandissima soddisfazione per una sentenza che restituisce giustizia e verità a vantaggio di chi ha sempre servito lo Stato’’, ha commenta all’Adnkronos l’avvocato Carlo Bonzano difensore, insieme al collega Fabio Lattanzi, di Del Sette.

‘’La decisione della Corte di Appello di Roma ha finalmente riconosciuto l’innocenza del generale assolvendolo dall’ingiusta accusa di rivelazione d’ufficio e favoreggiamento. Una decisione giusta che ristabilisce la verità anche se purtroppo è arrivata dopo anni di logorante attesa che hanno segnato la vita di un irreprensibile uomo delle istituzioni’’, hanno aggiunto Lattanzi e Bonzano.

Del Sette, primo comandante generale nella plurisecolare storia della Benemerita ad essere condannato alla prigione, era accusato di aver rivelato all’allora presidente di Consip Luigi Ferrara di essere sotto indagine da parte del Noe dei carabinieri. I fatti risalivano al 2016 e a condurre l’inchiesta era il Pm napoletano Henry John Woodcock. La vicenda causò uno scontro violentissimo all’interno all’Arma, con i carabinieri del Noe che avrebbero voluto intercettare i vertici di viale Romania, condizionando anche alcune importanti nomine apicali.

Paolo Pandolfini

Bocchino inchioda Travaglio: "Mi hai chiamato per farti togliere le cause". Libero Quotidiano il 19 gennaio 2023

Scontro su Giuseppe Valentino, candidato di Fratelli d'Italia al Csm (candidatura poi ritirata), tra Italo Bocchino e Marco Travaglio da Lilli Gruber a Otto e mezzo, su La7, nell'ultima puntata del 18 gennaio. "Quando candidi al Csm come vicepresidente cioè come capo uno che è indagato per 'ndrangheta... Per me è un presunto innocente ma a me preoccupa la sua biografia. È un signore che risulta in contatti strettissimi con un certo Paolo Romeo, che non c'entra niente con l'amico di Bocchino, quello dello scandalo Consip". "Anche amico tuo...", ribatte Bocchino.

"Mai stato. Non l'ho mai conosciuto", precisa il direttore de Il Fatto quotidiano. "Qualche frequentazione l'hai avuta... Gli hai fatto un'intervista fatta da te", lo incalza Bocchino. "Non sono stato né intercettato né rinviato a giudizio per traffico di influenze come te e Romeo", attacca Travaglio. Quindi Bocchino lo inchioda: "Sono lo stesso che chiamasti per chiedermi la cortesia di farti togliere le cause che ti aveva fatto Romeo e che ti sarebbero costate molto. Ho ancora i tuoi messaggi di ringraziamento, Marco". "Ho pubblicato le sue precisazioni perché siamo giornalisti corretti". Comunque, taglia corto Travaglio, "è un neo fascista, reo confesso di aver ospitato Franco Freda durante la latitanza. Come fa il partito del presidente del Consiglio a proporre alla vicepresidenza del Csm uno che ha queste frequentazioni? È una questione di opportunità politica".

Il caso Consip. Barbarie contro Alfredo Romeo, l’abbaglio di Travaglio e soci. Davide Faraone su Il Riformista il 13 Gennaio 2023

Prima arrivano il fango, gli editoriali apocalittici, le prime pagine definitive. Poi però arrivano i processi, quelli nei tribunali, e infine, molto spesso, arrivano le assoluzioni. Quello che ho appena descritto è un copione fin troppo abusato. È il modus operandi tipico di un certo giornalismo giustizialista che insegue lo scandalo, spesso lo crea dal nulla, sbatte il mostro in prima pagina, calpesta interessi, storie e vite senza curarsi di aspettare la verità. E quando la verità arriva, sotto forma di sentenza, semplicemente fa finta di non vederla. Niente prime pagine, niente articoli e soprattutto niente scuse.

L’ultimo caso del genere riguarda la vicenda dell’imprenditore Alfredo Romeo e i “Trentamila euro al mese promessi al babbo di Renzi”. Ieri, dopo cinque anni di processo, per Romeo è arrivata l’assoluzione. La corruzione per “il più grande appalto d’Europa” altro non era che una balla. Anche questa volta, come decine di altre in passato, Travaglio e soci hanno preso un abbaglio. Ma ovviamente non troverete traccia di questa notizia sul Fatto. Perché purtroppo, per alcuni giornalisti, ciò che conta non sarà mai la verità, ma semplicemente fomentare l’opinione pubblica contro fantomatici “colpevoli” additati come tali senza aspettare i verdetti dei tribunali. Chiamatela pure retorica colpevolista della giustizia mediatica, se preferite. Per quanto mi riguarda la parola più esatta per definirla sarà sempre barbarie. Davide Faraone

"Via le denunce, facciamo intervista". Travaglio e il giornalismo “corretto”, il caso Consip e la richiesta a Bocchino per mediare con Romeo. Paolo Liguori su Il Riformista il 19 Gennaio 2023

Giornalisti corretti, siamo tutti giornalisti corretti. Allora sono io scorretto perché non capisco questa correttezza dov’è. Alfredo Romeo è stato assolto dopo un processo Consip, che doveva essere l’asta truccata del secolo, e invece è stato ‘assolto perché il fatto non sussiste’ e il Fatto Quotidiano – giornalisti corretti – ha pubblicato un trafiletto piccolo così che la Gruber non ha neppure letto, perché se l’avesse letto non direbbe “non ne fate un fatto personale” (tra Bocchino e Travaglio), perché non è un fatto personale, è un fatto preciso di giornalismo.

Travaglio aveva delle denunce da parte di Romeo che riteneva eccessive le ‘centodiecimila’ pagine del Fatto Quotidiano su una sua presunta violazione della legge. Presunta perché poi si è dimostrata falsa, e Travaglio ha chiesto a Bocchino: “Per piacere, puoi dire ad Alfredo Romeo di levare queste denunce? In cambio faremo un’intervista”, ma non perché ‘siamo giornalisti corretti’, perché temeva quello che c’è stato adesso, dopo l’assoluzione. Se fossero rimaste quelle cause e non fossero state serenamente tolte, sarebbe certamente sottoposto a dei danni.

Questo giornalismo corretto, a cui fa capo Travaglio, è un giornalismo di silenzio, di omertà. Non è solo Travaglio, non è un fatto personale – ha ragione la Gruber – è anche il Corriere della Sera, è anche Libero, sono tutti i giornali italiani, La Stampa, Repubblica. Tranne il Giornale che ha pubblicato un trafiletto in cui spiegava dell’assoluzione. La cosa incredibile è che tra giornalisti corretti c’è stato uno scambio di accuse sanguinose: il Corriere della Sera ha pubblicato i conti dell’editore di Libero (che potrebbe essere in futuro l’editore del Giornale, Angelucci), perché potrebbe diventare un suo concorrente.

Correttezza? Mi sembra un colpo alle gambe! E cos’è successo il giorno dopo su Libero? Che Sallusti ha detto: “Ah! Ci avete azzoppato. Volevate dare i nostri conti? Ora vi do io i vostri, quelli di Cairo”. Un’altra raffica, un’altra bordata in prima pagina. Quale giornalismo corretto, notizie in prima pagina di reati gravissimi. Vengono tutti assolti e nessuno pubblica più nulla. Non solo, ma si scopre che Travaglio se la prende con Bocchino perché Bocchino è colpevole di essersi fatto intermediario per chiedere ‘per piacere’ ad Alfredo Romeo di levare delle denunce sacrosante a Travaglio. Fatto personale? Giornalismo corretto? Mi sento molto scorretto. Paolo Liguori

Le pietre miliari del giornalismo mi sa che Montanelli mica te le ha insegnate tanto bene. Caso Consip, caro Marco Travaglio sei un giustizialista a mille carati ma le regole del giornalismo vanno rispettate. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Gennaio 2023

No, Marco (Travaglio). Non te la devi prendere, Paolo (Liguori) è sempre così aggressivo. Ma sai, io lo conosco da ragazzo è sempre stato uno aggressivo. Invece ragioniamo. Ragioniamo noi, con calma. Io volevo dirti due, tre cosine. Facili eh, sul giornalismo. Non ti offendere ma è importante saperle perché tu fai bene, sei un bravo polemista. Ma insomma, sul giornalismo inciampi Marco, diciamo la verità. Le pietre miliari del giornalismo mi sa che Montanelli mica te le ha insegnate tanto bene. Perché poi quello era un maestro ma magari tu eri molto giovane, non lo so.

Qual è la notizia? Lo decide il direttore. Stabilisce: questo è un fatto non mi interessa, questo è un fatto mi interessa. Tu hai preso Consip e hai detto che era l’ira di Dio, ti ricordi? Aperture “Hanno arrestato Romeo”, “Il delitto”, “Prendetelo”, “L’appalto”, Il superappalto”, “I due miliardi e sette”, “L’hanno truccato”. Cento pagine gli hai dedicato, Marco.

Allora io adesso te lo dico sottovoce, in modo che non sentano in troppi, ma non è che poi quando si scopre che non era vero niente tu puoi far finta di nulla. Cento pagine non si nascondono, cento pagine di giornale tutte sul caso Consip con l’appalto truccato che non era vero. Quando il tribunale dice che non era vero. Marco, la notizia bisogna darla non c’è niente da fare. Così come ho sentito che tu hai detto: “No, io non ho mai avuto la prescrizione”. Io e te lo sappiamo, tu non hai mai avuto la prescrizione perché la Cassazione ti ha detto che non te la meritavi. Ricordi? Tu l’hai chiesta la prescrizione, no? No, perché “il ricorso è pretestuoso”. Una figuraccia. Non dire poi in televisione che non hai mai ricevuto la prescrizione, devi dire però che l’hai chiesta.

Queste sono tutte cose piccole, io non è che voglia darti la colpa di chissà che. Per fare bene il giornalismo bisogna cercare di avvicinarsi alla verità e alla realtà. Tu fai bene a fare polemiche e dire: “Ci sono due Stati, non hanno voluto prendere Messina Denaro”, chi è che non ha voluto prendere Messina Denaro? La procura di Palermo probabilmente, Scarpinato, Ingroia, Di Matteo, erano quelli che lo dovevano prendere.

Oggi per esempio ho visto Libero che fa un titolo “Arreestata la contabile del Pd”. Non hanno arrestato la contabile del Pd, hanno arrestato la commercialista di alcuni parlamentari che peraltro non sono del Pd. Bisogna secondo me tornare a quel vecchio giornalismo che faceva le polemiche però aveva un certo rispetto per la verità. E te lo dico amichevolmente perché poi tu mi stai simpatico, magari non ci credi ma mi stai simpatico. Lo sai perché? Perché sei l’unico giustizialista vero che fa il giustizialista sempre: c’è un piccolo spacciatore, uno che fa un furtarello, c’è un presidente del Consiglio, tu li vuoi mettere sempre tutti in prigione, di destra, di sinistra, non ti importa. Invece ci sono quelli che fanno i garantisti con gli amici loro e i travaglini con quelli che gli stanno antipatici. Io preferisco te, un giustizialista a mille carati. Però un minimo le regole del giornalismo vanno rispettate, sennò si fanno figuracce. Ciao Marco.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

La sentenza dopo carcere e gogna. Maxigara Consip da quasi 3 miliardi: Alfredo Romeo assolto “perché il fatto non sussiste”. Redazione su Il Riformista il 9 Gennaio 2023.

I giudici del tribunale di Roma hanno assolto l’imprenditore ed editore de Il Riformista Alfredo Romeo nell’inchiesta Consip relativa al filone della gara FM4, dal valore di oltre due miliardi e settecento milioni di euro, indetta dalla centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana nel 2014. Romeo era imputato per turbativa d’asta ed è stato assolto, perché “il fatto non sussiste”, dai giudici del tribunale capitolino presieduto dalla dottoressa Valentini.

Romeo era difeso dagli avvocati Giandomenico Caiazza ed Alfredo Sorge. Smentita anche in questo processo l’impostazione accusatoria della procura di Roma che aveva infondatamente contestato il reato di turbativa d’asta all’imprenditore napoletano pur in assenza di qualsivoglia elemento a carico. Accertata ancora una volta la correttezza dell’operato della società Romeo Gestioni nella gara FM4 come già acclarato in altri giudizi.

Romeo venne addirittura arrestato il primo marzo del 2017 e dopo oltre tre mesi di carcere a Regina Coeli e due agli arresti domiciliari, il tribunale del Riesame di Roma (dopo che la Cassazione aveva accolto l’istanza presentata dai legali di Romeo) dispose l’annullamento dell’ordinanza (perché non esistevano le esigenze cautelari) e la riabilitazione delle imprese dell’imprenditore napoletano.

I giudici hanno fatto cadere le accuse anche per gli altri 11 imputati tra cui l’imprenditore Ezio Bigotti, difeso in giudizio dall’avvocato Cesare Placanica.

Lo scorso novembre, in un altro filone dell’inchiesta Consip, Romeo è stato condannato a 2 anni e sei mesi con l’accusa di corruzione per aver favorito la sua società che è stata però assolta. La sentenza di primo grado è stata emessa dall’ottava sezione penale del Tribunale di Roma dopo una camera di consiglio durata oltre due ore. Condanna dimezzata rispetto alla richiesta della Procura capitolina che aveva chiesto una condanna a 4 anni e 10 mesi. L’accusa è passata da corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio alla corruzione per l’esercizio della funzione. Si tratta della tranche del procedimento che coinvolgeva anche l’ex dirigente della centrale unica di acquisti della Pubblica amministrazione, Marco Gasparri. Quest’ultimo ha accusato l’imprenditore di avere ricevuto da lui, dal 2012 al 2016, complessivamente 100mila euro in cambio di notizie e aiuti relativi ai bandi di gara in Consip. I giudici hanno escluso la responsabilità della società Romeo Gestioni e disposto un provvisionale per Consip di 150 mila euro. Per Romeo stabilità l’incapacità a contrarre con la pubblica amministrazione per un anno e la confisca di 100mila euro.

La Romeo Gestioni s.p.a. prende atto con estrema soddisfazione del dispositivo pronunciato oggi dal Collegio Penale del Tribunale di Roma, presieduto dalla dott.ssa Roja, con cui, a chiusura del procedimento Consip, avviato nel 2017, la società è stata completamente prosciolta da ogni ipotesi accusatoria perché, come chiarito dal Collegio espressamente nel detto dispositivo, l’illecito amministrativo contestato è risultato insussistente”. E’ quanto riporta una nota della Romeo Gestioni. “Per conseguenza, – prosegue la nota – il Tribunale ha disposto l’immediata restituzione alla società dell’intera somma di circa 3 milioni di euro versata nel 2017 per decisione del Gip del Tribunale di Roma”.

Abbiamo la certezza che nei gradi successivi sarà affermata senza alcuna riserva l’innocenza del nostro assistito anche in relazione alla residua ipotesi di reato per la quale ha subito la odierna condanna”. E’ quanto affermava lo scorso novembre l’avvocato Alfredo Sorge, difensore insieme a Caiazza, dell’imprenditore Alfredo Romeo. Difensori che “prendono atto del drastico ridimensionamento delle originarie accuse contestate e della piena assoluzione della società del gruppo Romeo”.

Cadono tutte le accuse, chissà cosa faranno i giustizialisti...Dopo 5 anni di gogna Romeo assolto: quale giornale ha il coraggio di scriverlo? Francesca Sabella su Il Riformista il 9 Gennaio 2023

Alfredo Romeo: assolto. Assolto perché il fatto non sussiste. Assolto perché non ha corrotto nessun funzionario per vincere una gara d’appalto. Alfredo Romeo (che ricordiamo essere anche editore di questo giornale) non è un corruttore. Parliamo dell’inchiesta Consip relativa al filone della gara FM4 (dal valore di oltre due miliardi e settecento milioni di euro), indetta dalla centrale acquisti della pubblica amministrazione italiana nel 2014. Romeo era imputato per turbativa d’asta, poi l’assoluzione decisa dai giudici del tribunale capitolino presieduto dalla dottoressa Valentini. Questa è la notizia battuta già dalle maggiori agenzie di stampa. Superiamola. Già… assolto. Non è la prima volta che succede, sapete? Eppure, viene da interrogarsi e da chiedersi: cosa diranno ora gli specialisti del giustizialismo? Le penne taglienti che tanto inchiostro hanno sempre consumato per scrivere titoloni urlati e che mai hanno perso l’occasione per ricordare, ogni qual volta si nominava Alfredo Romeo, che era stato condannato, che era un corruttore, che era impelagato in non si sa quanti processi. Che è stato addirittura in carcere, sia a Poggioreale che a Regina Coeli, ma poi è stato sempre assolto.

Quest’ultima cosa è vera, per carità. Però è vera pure un’altra cosa: se il fatto non sussiste, il Fatto Quotidiano invece insiste. E colleziona brutte figure. Volete sapere come dà la notizia il giornale di Marco Travaglio? Così: “Consip, Romeo assolto dall’accusa di turbativa del maxi-appalto Fm4. Ma nell’altro filone è stato condannato per corruzione”. Ma. Ma il caso Consip è questo, non ce la fanno proprio a essere obiettivi. Eppure, che è stato assolto lo dicono i giudici mica lo diciamo noi per compiacere il nostro editore. Lo dice un Tribunale.

Parliamo del Fatto ma potremmo parlare di qualsiasi altro giornale. È largamente diffusa questa abitudine a riportare le notizie e subito dopo, nel titolo e non nel corpo dell’articolo, ricordare che Romeo è stato condannato. Badate bene, condannato ma mai in via definitiva, ed è bene ricordare pure che si è innocenti fino a prova contraria, che si è innocenti fino al terzo grado di giudizio. Questo però, non lo scrive mai nessuno. Chissà perché. E non lo scrivono non perché a sventolare il baluardo sacro del garantismo siamo rimasti in tre, ma perché il vento del giustizialismo soffia forte e la tendenza a essere faziosi e imprecisi fa svolazzare più bandiere. Piace di più. E ora, una domanda: i titoloni cambieranno? Qualche settimana fa Romeo ha comprato l’Unità che tra poco avrà nuova vita e tornerà in edicola, come titolava Dagospia? “L’Unità torna in edicola. Lo ha deciso Alfredo Romeo, sempre più editore e sempre meno imprenditore delle pulizie. Per Romeo, condannato a due anni e mezzo per corruzione per i bandi Consip, questa è l’occasione per resettare i rapporti con la politica”.

Se lo dicono loro… Ma il punto è un altro. Ora ci si aspetta che il prossimo titolo avrà questo tono: “Domani torna in edicola l’Unità, acquistata da Alfredo Romeo assolto perché il fatto non sussiste nell’ambito dell’inchiesta Consip relativa al filone della gara FM4, dal valore di oltre due miliardi e settecento milioni di euro”. Se non altro per coerenza… Per non tradire il modus operandi nel dare le notizie. O no? Sono questi i titoli di giornale che da domani ci aspettiamo di leggere. E badate bene, non vuol dire fare la vittima ma vuol dire essere giusti. È giusto dire scrivere le vicende penali di un imprenditore ogni qual volta compra una forchetta? Sì? E allora scriviamole anche adesso. Ora che è stato assolto. Assoluzione. Siamo sicuri che nessuno titolerà: fine dell’incubo, fine del calvario di un uomo che è stato in carcere per poi essere assolto. Questo no, sarebbe troppo. Però un po’ di sana onestà intellettuale e di buon giornalismo, questo sì. Ce lo aspettiamo. “Ci vorrà pazienza ed io pazienza ne posseggo a tonnellate, a vagoni, a case”. Per dirlo, a proposito, con le parole di Gramsci…

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Dalla parte della giustizia, della verità e dei cittadini. Romeo assolto dopo 6 anni di gogna mediatica che è peggio del carcere e i procuratori fanno carriera. Paolo Liguori su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Quasi sei anni fa, nel marzo 2017, con un grande clamore sulla stampa venne lanciata la notizia ‘arrestato Alfredo Romeo’, aveva partecipato ad un appalto truccato, anzi, aveva organizzato un appalto truccato, il più grande del secolo, e poi la mazzetta corruttiva di cento milioni, che dico, centomila euro, e poi la cosa che interessava di più: una mazzetta mensile al padre di Renzi, Tiziano.

Ieri il tribunale di Roma ha assolto l’imprenditore Romeo e altre undici persone coinvolte perché, badate bene che sono cose importanti per la giustizia, il fatto non sussiste. Non c’è mai stato. Questa corruzione, questo appalto, non c’è mai stato. Un capitano famoso dei carabinieri indagava per conto della procura di Napoli e del pm Woodcock, poi i fascicoli passarono a Roma con il Trojan, con le intercettazioni. Furono coinvolte altre persone e Romeo fece sei mesi di carcere.

Voi dite, è capitato, poi l’hanno assolto beato lui, dopo sei anni. Non è così perché in questo periodo, in tutti questi anni c’è stata una gogna mediatica senza precedenti. Io ho qui la prima pagina del Riformista che titola giustamente ‘Caso Consip, non c’è più: assolto Romeo e Travaglio in lutto’. Sul Giornale c’è un trafiletto a pagina 9 che dà la stessa notizia, sugli altri quotidiani nulla o quasi.

Vi faccio vedere le pagine dei giornali che hanno seguito questo fatto, una cosa clamorosa, pagine e pagine per mesi: ‘Arrestato Romeo, tangenti a Consip e 30mila euro al mese promessi a babbo Renzi’, l’appalto del secolo era stato truccato, ‘Il più grande appalto d’Europa’ titola il Fatto Quotidiano. Voi direte vabbè, il Fatto Quotidiano non fa testo. Oggi Travaglio si taglia le vene per aver scritto quelle stupidaggini per mesi – ma non solo su questo caso -, però in realtà Repubblica, Il Mattino, Il Messaggero, tutti i giornali.

Perché non c’è solo l’arresto, non c’è solo la carcerazione preventiva senza prove come abbiamo visto adesso, inflitta per costringere l’imprenditore a confessare chissà che cosa. Non c’è solo il caso politico su Renzi e il padre – su Renzi non c’erano grandi rapporti con Romeo -, ma c’è anche la gogna mediatica che rovina o potrebbe rovinare un’azienda, la Romeo Gestioni, e una persona che comunque esce dopo sei mesi di carcere e deve ricostruirsi un nome, una credibilità e deve trovare delle persone che dicono ‘sì, Romeo però fu arrestato’. Sì però questa gogna mediatica è peggio del carcere, certo la privazione della libertà è una cosa grave, ma per un’impresa che ha un nome pubblico, che ha una facciata pubblica, che ha l’impegno sui lavori pubblici la gogna mediatica è come il carcere, è una privazione della propria libertà.

Allora chi risarcirà non Romeo ma tutte le persone che ci capitano? Perché questo è il tema della giustizia, una giustizia in cui si parte senza responsabilità. Le procure che fanno delle indagini e arrestano e che danno ai giornali dei titoli iperbolici, non tornano indietro. E poi quei procuratori fanno carriera. Vi potrei fare i nomi dei procuratori che si sono occupati di questo ma è quasi inutile perché in realtà l’assoluzione dice che un tribunale ha preso una decisione giusta. Però quei procuratori vi assicuro che fanno carriera, oppure puntano a fare carriera. Allora nessuno gli dice ‘signori avete fatto una cosa gravissima’. È come uno che ammazza un altro magari per un incidente, però poi gli resta. Ai magistrati non resta nulla. Hanno fatto questo e l’hanno fatto a ragion veduta, sono cambiate le ragioni, la cosa viene annullata e il fatto non sussiste. Non dovrebbero sussistere più nemmeno quei procuratori. Io direi ‘il fatto non sussiste e quei procuratori, quelle procure, quelle accuse, non dovrebbero esistere’.

Però questa è la versione nostra, la versione del Riformista, voi direte ‘è di parte’ perché Romeo è l’editore del Riformista, ma è di parte dalla parte di chi? Dalla parte della giustizia, della verità e dei cittadini. Paolo Liguori

Ma non era lo scandalo del secolo? Il caso Consip non esiste più, Romeo assolto: Travaglio a lutto. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Il Caso Consip si è concluso con un’assoluzione generale. Lo scandalo Consip non c’è più. Era una balla, una bolla di sapone. Con gioia di alcuni (tra i quali la signora verità) e lutto di altri. Tra un po’ vediamo chi. La famosa gara Fm4, con in palio appalti per quasi tre miliardi di euro, si svolse regolarmente, non ci fu alcuna turbativa d’asta. Il tribunale di Roma ha deciso così, al termine di un lunghissimo processo penale ed un estenuante e battente processo mediatico, ricco di gogne, accuse infondate, linciaggi morali. La Corte ha detto che il fatto – cioè la turbativa d’asta – non sussiste.

Il caso Consip era tutto lì: nell’ipotesi che quella gara ricchissima fosse stata truccata. Il processo e la campagna giornalistica costarono molto cari ad alcune aziende e ad alcune persone. In termini economici e persino in termini fisici. E produssero invece grossi vantaggi editoriali ad altri, e tanto lavoro – impegnativo, costoso, inutile – ad alcune Procure decise a non mollare l’osso fino alla fine. Benissimo. Ora sappiamo che il Caso Consip non esiste e non esisteva, e formuliamo l’augurio che a questo punto la giustizia si riscatti almeno un po’ chiudendo alla svelta tutti gli altri processi in corso – frammenti del processo principale, che era questo – che non stanno più in piedi perché si attorcigliano attorno a una ipotesi di reato del quale è stata solennemente stabilita la non esistenza.

Vi dicevamo che qualcuno fa festa e qualcuno è in lutto. In lutto sono alcuni settori di un paio di procure, che intorno al caso Consip avevano costruito castelli volanti di ipotesi – che ora non volano più – e un po’ di fama. Ma chi soprattutto è in lutto, in lutto stretto – mi dicono che ieri in redazione il clima fosse da funerale – sono gli amici del Fatto Quotidiano, che almeno dal 2016 battono con una costanza ammirevole sul caso Consip, e lo scandalo colossale di una gara da quasi tre miliardi – la più grande d’Europa – truccata da un gruppo di malintenzionati guidati dal perfido Romeo. Articoli, su articoli, su articoli, e accuse, su accuse, su accuse, e richieste di moralizzazione, di pulizia, di etica, e poi arringhe nelle varie Tv, e tonnellate di editoriali di Travaglio, e interviste censurate, e poi…

Il Fatto aveva preso di mira Romeo anche perché si era convinto, a torto, che Romeo fosse una specie di artiglio di Renzi. Il Fatto voleva il sangue di Renzi. In realtà Romeo e Renzi si conoscono appena e non hanno mai avuto rapporti o interessi comuni né in politica né tantomeno in affari. Semplicemente tanti anni fa Romeo – come ha fatto altre volte con altri esponenti politici – concesse un piccolo finanziamento per la campagna elettorale (primarie) di Renzi, che poi fu sconfitto da Bersani. Contributo elargito alla luce del sole, registrato, fatturato e vidimato. Succede, ai giornalisti, di prendere grandi abbagli. Ad alcuni succede di più, ad alcuni di meno. Pensate che ancora oggi ci sono dei giornalisti convinti che Conte – cioè il socio di governo di Salvini – possa diventare il capo della sinistra italiana…

E poi, però, c’è anche chi è in festa. Per esempio noi del Riformista, perché Romeo è il nostro editore, perché proprio per questo abbiamo studiato e conosciamo bene la vicenda Consip e sappiamo con certezza della sua innocenza – con certezza assoluta – perché conosciamo anche i danni gravissimi che Romeo ha subito da questa fantasmagorica azione penal-giornalistica, perché non ci siamo scordati che Alfredo è stato in prigione per sei mesi, ingiustamente, del tutto ingiustamente, e poi altri mesi ai domiciliari in una casa nella campagna in provincia di Caserta, e che ha ricevuto dei contraccolpi economici molto forti, e ingiusti anche quelli, e che sono state truccate le carte della competizione di questa nuova forma di capitalismo che è il capitalismo giudiziario. Il peggior capitalismo che si possa immaginare.

Ieri sera, dopo la proclamazione della sentenza, gli avvocati di Romeo, Gian Domenico Caiazza e Alfredo Sorge, hanno rilasciato una breve dichiarazione. Che trascrivo: “ Viene smentita anche in questo processo l’impostazione accusatoria che aveva infondatamente contestato il reato di turbativa d’asta all’avvocato Romeo pur in assenza di qualsivoglia elemento a carico e viene ancora una volta accertata la correttezza dell’operato della società Romeo Gestioni nella gara Fm4 come già acclarato in altri giudizi”. Hanno ragione gli avvocati. A me, personalmente, restano in testa alcune domande molto inquietanti.

Prima domanda: per quale ragione Alfredo Romeo è stato messo in mezzo in questa inchiesta, e trascinato in prigione (unico imputato, unico coinvolto nel racconto degli accusatori ad essere finito in prigione), quando a tutti gli inquirenti un poco avveduti era chiarissimo dal primo momento che non era colpevole di nulla, e a suo carico mai – in nessuno degli svariati processi aperti – è emerso uno straccio di prova? Forse è stato individuato lui come anello debole perché si sapeva che non ha mai fatto parte di nessuna cordata, di nessuna alleanza, di nessuna lobby, ha sempre agito e lavorato e concorso in solitudine e questo, evidentemente – tenendolo fuori dal sistema – lo rendeva più fragile di altri?

Seconda domanda: perché è stato tenuto chiuso in cella per sei mesi (finché non è intervenuta la Cassazione a imporre la scarcerazione)? Forse perché si sperava in quel modo di costringerlo a parlare, ad autoaccusarsi o ad accusare, e comunque a dare un po’ di sostanza ad una imputazione che camminava sull’acqua?

Terza domanda: Il famoso sistema-Romeo, del quale si parla in varie requisitorie di vari processi, evidentemente non esisteva. Benissimo. Del resto era evidente. Qualcuno ammetterà l’abbaglio?

Quarta domanda: nel frattempo sono state emanati provvedimenti e sentenze amministrative che penalizzano la Romeo gestioni per centinaia di milioni sulla base delle accuse penali poi rivelatesi false. Questo errore, pesantissimo, sarà riparato?

Vabbè, fermiamoci qui. E siccome siamo persone gentili e gioviali, e non ce la prendiamo mai, mandiamo anche un abbraccio a Marco Travaglio: non te la prendere, Marco, succede…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Ma sui giornali solo trafiletti...Perché Alfredo Romeo è stato assolto, cosa vuol dire “il fatto non sussiste”. Francesca Sabella su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Il Tribunale ha accertato che non ho turbato la più grande asta d’Europa. Però oggi l’informazione che per anni ha guidato la gogna mediatica contro di me, tace e nasconde l’assoluzione. Questo è il problema del circo mediatico-giudiziario”. Chi parla è Alfredo Romeo. Alfredo Romeo è stato assolto. È stato assolto perché il fatto non sussiste. E badate bene, parliamo di una maxi inchiesta che aveva come oggetto una gara d’appalto tra le più importanti d’Europa. Parliamo di Consip. Parliamo di quasi tre miliardi di euro. Parliamo anche di un imprenditore finito nel tritacarne mediatico per più di cinque anni. Ah ed è finito anche in carcere per sei mesi. Però poi c’è stata l’assoluzione. Assolto Alfredo Romeo.

L’avete letto? Lo sapevate? No? Vi credo. Ieri ci siamo dati la buonanotte sperando nel buongiorno di una rassegna stampa giusta, veritiera, che dice la verità e nient’altro che la verità. È questo il dovere civico del giornalismo, di chi fa informazione. E invece niente… trafiletti. Piccoli trafiletti che davano la notizia con aria dimessa, si poteva quasi avvertire il dispiacere di chi scriveva due parole: Romeo assolto, poi qualche riga di contorno giusto per con le dichiarazioni degli avvocati di Romeo e niente di più. Ma come? Non avete niente da dire? Niente da aggiungere? Nessun commento? Dove sono finite le prime pagine? I titoloni in rosso e le foto in primo piano? Dove sono finite le insinuazioni, le sentenze, le allusioni, le sferzate? Sarà finito l’inchiostro… non c’è altra spiegazione.

O forse c’è. C’è che quando bisogna dire: la magistratura ha sbagliato, ha fatto una cazzata, ha distrutto un uomo, ha creato un caso che non c’era, ha cucito su un imprenditore un processo politico e mediatico, lo ha sbattuto in carcere salvo poi dire: tutto a posto, non è vero niente. Ecco c’è che quando c’è da dire questo nessuno lo dice. Perché vedete, è molto grave. È grave il silenzio, è grave che quando c’è da dire assoluzione lo si dice sommessamente, a bassa voce, lo si fa passare in sordina. È grave. Molto grave. È non lo è perché Alfredo Romeo è il nostro editore e noi chiaramente gli abbiamo dedicato la prima pagina perché eravamo contenti, perché la verità è venuta fuori e perché quando la magistratura sbaglia deve finire in prima pagina e si deve dire: tutto sbagliato. È grave perché fino a quando c’era da scrivere sentenze senza aspettare il processo e in barba al garantismo si è scritto, ora che la sentenza c’è le penne non scrivono più bene. Si perché ieri si scopre che non è che Romeo non ha commesso il fatto, il fatto non sussiste: Romeo è innocente. Era tutta un processo inesistente.

Francesca Sabella. Nata a Napoli il 28 settembre 1992, affascinata dal potere delle parole ha deciso, non senza incidenti di percorso, che sarebbero diventate il suo lavoro. Giornalista pubblicista segue con interesse i cambiamenti della città e i suoi protagonisti.

Una campagna di linciaggio durata cinque anni. Silenzio di giornalisti farabutti sull’assoluzione di Romeo. Piero Sansonetti su Il Riformista l’11 Gennaio 2023

Era il 2 marzo del 2017. Il Fatto Quotidiano uscì con una prima pagina disegnata in modo speciale, per avere un titolo di apertura, in testata, molto più vistoso di tutti i suoi titoli abituali. Lo trascrivo: “Arrestato Romeo” (tutte maiuscole e in rosso), “Tangente Consip e 30 mila euro al mese promessi a babbo Renzi”. Ad accompagnare il titolo una foto di Tiziano Renzi, una foto di Romeo e la fotocopia di un foglietto (gentilmente fornito ai giornalisti del “Fatto” dai Pm, seppure in modo non previsto dalle leggi dello Stato). Poi le prime quattro pagine del giornale interamente dedicate alla vicenda, considerata evidentemente clamorosa.

In prima pagina c’è anche un titoletto “amichevole” riservato al ritratto di Romeo (“L’ex Pci di Napoli che paga i partiti e frequenta le celle”). E sempre in prima l’editoriale di Travaglio il quale rivendica al suo giornale il merito di avere anticipato tutto di due mesi, critica i “giornaloni” che non hanno seguito prontamente il Fatto, ribadisce un concetto da sempre coccolato (“gli unici giornalisti veri siamo noi del Fatto, perché siamo i soli a dare le notizie”) e infine spiega che gli investigatori hanno scoperto “i traffici dell’imprenditore Romeo per agguantare la fetta più grossa di una mega commessa Consip da 2,7 miliardi di euro”.

Nei giorni, nei mesi e negli anni successivi, il Fatto Quotidiano riserverà alla vicenda Consip – sempre mantenendo come stella polare la colpevolezza di Romeo – più o meno – calcolo a spanne – un centinaio di pagine. Sempre con titoli clamorosi. Avrebbero potuto anche diventare 102, le pagine, se Travaglio avesse deciso di pubblicare l’intervista che Marco Lillo fece allo stesso Romeo, un po’ più di un anno fa; ma Travaglio ebbe l’impressione che da quella intervista Romeo uscisse bene e non la pubblicò. I giornalisti veri, pare, fanno così: pubblicano tutto tranne le notizie o le informazioni che non gli piacciono. E su questa base impartiscono lezioni un po’ a tutti.

E così arriviamo a lunedì. Il tribunale di Roma ha stabilito che non era vero niente. Quell’asta da 2 miliardi e 700 milioni non fu truccata. Travaglio aveva scritto una balla, forse influenzato da un drappello di pubblici ministeri che avevano a loro volta preso un abbaglio, e avevano trascinato Romeo in prigione, quindici giorni in isolamento, solo in cella, senza tv, radio, libri, giornali – solo a guardare il muro – e poi altri sei mesi in cella coi compagni di prigione, e poi altri mesi ai domiciliari nella casa di campagna della madre, che morì pochi mesi dopo la fine della carcerazione del figlio. Senza contare i danni per le aziende che si calcolano in svariate centinaia di milioni. Di fronte a questa spaventosa frana della giustizia e del giornalismo, Marco Travaglio ha preferito chiudere un occhio. Voi, immagino, malevolmente penserete che il Fatto Quotidiano abbia offerto ai lettori la notizia in prima pagina, sull’assoluzione.

Sbagliate, amici: il Fatto ha dato la notizia solo a pagina 11 con il titolino più piccolo che si possa immaginare. È inutile che vi mettiate a ridere perché il Fatto ha compiuto esattamente la stessa scelta che hanno compiuto tutti quelli che di solito Travaglio chiama “i giornaloni”. Anche il Fatto è tra i “giornaloni”, stavolta, gli stessi che – tutti, senza esclusione alcuna – diedero la notizia dell’arresto di Romeo con titoloni a tutta pagina, in apertura, in prima. Repubblica? “Corruzione ad altissimo livello”. Questo era il titolo che campeggiava sotto la testata. E foto di Romeo. Editoriale di Repubblica? “I nuovi pilastri del malaffare”. Il Corriere della Sera, sempre in prima, grande titolo in testata e articolo del re dei giornalisti giudiziari, Giovanni Bianconi: “Così Romeo arrivò ai politici”.

Il nome di Romeo in quei giorni balzò all’attenzione di tutti gli italiani che non lo conoscevano. I Tg inondarono l’opinione pubblica. Dubbi sulla colpevolezza? Zero. Se uno è il nuovo pilastro del malaffare che dubbi vuoi avere? E se poi è un ex Pci pure meglio, no? Dicevi Romeo e intendevi l’imbroglione. Oggi però i cittadini italiani non sono stati informati che tutto quello che fu loro raccontato era falso. È stato dichiarato il silenzio stampa. Silenzio assoluto. Voi pensate che questa sia una cosa normale? Io no. Io penso che gran parte dei giornalisti italiani sia costituita da farabutti. E che il sistema informativo italiano sia uno dei peggiori – probabilmente il peggiore – del mondo occidentale.

 Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Continua il silenzio della stampa. L’assoluzione di Romeo è una frustata per Travaglio, centinaia di fake news su uno scandalo mai esistito…Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Gennaio 2023

Dalla redazione del Fatto Quotidiano ci arrivano notizie sempre più inquietanti. L’assoluzione di Romeo è stata come una frustata. Dicono che Travaglio abbia quasi smesso di parlare. Qualche monosillabo, gesti della mano. Dolore palpabile. I giudici hanno stabilito che lo scandalo Consip non è mai esistito. Anni e anni di lavoro e di fughe di notizie buttati al vento, maledizione! Quello che era stato definito il più grande scandalo del secolo non era uno scandalo. Non era niente.

Circa cento paginate dedicate dal “Fatto” alle malefatte di Alfredo Romeo, tutte smentite. Erano balle. Cosa è rimasto della geometrica potenza di quella gigantesca e meravigliosa costruzione giornalistico-giudiziaria? Solo i danni subiti da Romeo (qualche centinaio di milioni, sei mesi in cella, sei ai domiciliari con braccialetto, molti posti di lavoro perduti…) e questa è certo una bella soddisfazione, ma con il rischio persino che ora qualcuno sia costretto a risarcire. E comunque neppure questa soddisfazione può coprire la vergogna per quasi sei anni di fake proiettate con effetti speciali in tante prime pagine. Come si reagisce a questo disastro?

L’ordine di scuderia, da subito, è stato quello del silenzio. La notizia dell’assoluzione di Romeo deve essere nascosta in tutti i modi. Massimo una notizia piccola piccola in pagina interna, ma molto interna. Dicono che un redattore abbia fatto vedere al direttore la copia di quella prima pagina del 2017 con la notizia dell’arresto di Romeo data a caratteri cubitali, e che il redattore sia stato invitato, con un ringhio, a correre a fare merenda. Lui ha capito e si è adeguato. Ha preso un cornetto al bar.

Ma adesso, direte voi, sarà un bel problema contrastare gli altri giornali, che, giustamente, daranno grande spazio alla assoluzione di Romeo. No, non preoccupatevi: ormai gli altri giornali, da tempo, si sono travaglizzati, cioè sono passati agli ordini dell’Anm. Tacciono. Però, si capisce, il povero Travaglio non potrà andare a concionare a La7, perché a La7 lo tempesteranno di domande su Consip. Tranquilli, amici. Non succederà neanche questo. Anche a La7 è passato l’ordine del silenzio. Beh, potete obiettare, ma si può fare informazione così? Si vabbé, ancora siete rimasti a quella vecchia idea che in Italia ci sia l’informazione? Poveri cocchi…

 Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Estratto dell’articolo di Alessandro Da Rold per “La Verità” l’11 aprile 2023.

«La corte (d’appello, ndr) scopiazza pedissequamente anche nelle più evidenti castronerie rilevabili da qualsiasi soggetto di buon senso».

 Nella requisitoria del 31 marzo scorso, nel procedimento che vede sul banco degli imputati Alessandro Profumo e Fabrizio Viola (accusati di aggiotaggio e false comunicazioni per la contabilizzazione delle operazioni Santorini e Alexandria), il procuratore generale Massimo Gaballo ha deciso di attaccare frontalmente la corte di appello di Milano che aveva assolto nel 2022 gli ex vertici di Mps, Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, dalle accuse di manipolazione del mercato, falso in bilancio, falso in prospetto e ostacolo all’autorità di vigilanza.

[…] Tra le righe della requisitoria […] vi sono numerose stilettate alla stessa Procura di Milano: «[...] castronerie rilevabili da qualsiasi soggetto di buon senso». Senza mai citarli, infatti, Gaballo si rivolge più di una volta a chi aveva condotto per primo le indagini su Mps, in particolare a chi aveva indagato (e poi chiesto di archiviare) sulla gestione Profumo e Viola dal 2013 al 2016.

 Nello specifico, il pg si riferisce ai pm Giordano Baggio (ora in servizio alla Procura europea), Stefano Civardi e Mauro Clerici, che nel 2021 furono indagati per omissione di atti di ufficio dalla Procura di Brescia. Eppure, la storia ha già fatto il suo corso. E tutti e tre sono stati archiviati lo scorso anno.

Perché le parole di Gaballo sembrano riportare di qualche anno indietro le lancette dell’ orologio? La risposta è semplice. Domani, mercoledì 12 aprile, è prevista l’udienza di opposizione alla richiesta di archiviazione dell’ex capo della Procura di Milano, Francesco Greco, accusato a sua volta di abuso d’ufficio.

All’epoca, Baggio, Civardi e Clerici furono indagati per aver avuto un approccio troppo morbido nei confronti di Profumo e Viola. Era il 2014 e Greco era il coordinatore del pool per i reati economici. Ma se i tre del pool economico sono già stati stralciati, ancora da verificare è la posizione di Greco.

 Nel 2020 fu per via del gip Guido Salvini se le indagini proseguirono. Di fronte a un’istanza di archiviazione sul caso, Salvini dispose una perizia che rilevò come, nel periodo 2012-2015, Profumo e Viola avevano occultato lo stato prefallimentare della loro banca. Da lì è ripartito tutto il procedimento […]. Ma dopo l’assoluzione di Mussari e Vigni, […] Gaballo ha voluto tornare, durante il suo intervento, alle precedenti indagini. Insomma, sembra aprirsi una nuova spaccatura dentro il tribunale.

Nella requisitoria di rara ferocia, infatti, il pg vorrebbe far emergere le responsabilità di Banca d’Italia e Consob ma, di fatto, indirettamente, parla anche della magistratura inquirente. Perché «tutte le autorità di controllo che si sono interessate di questo problema sono state estremamente prudenti nel valutare le contabilizzazioni, evitando posizioni nette che, nella loro prospettiva, avrebbero potuto avere un impatto letale sulla sopravvivenza di Mps e, quindi, dell’intero sistema bancario italiano ed europeo» ha ricordato il procuratore generale.

 In altri termini, secondo Gaballo, chi aveva il dovere di sorvegliare quanto stava accadendo dentro Mps in quegli anni, «ha sempre messo le mani avanti premettendo […] giudizi assolutamente pretestuosi dell’estrema complessità della materia, dell’assenza di principi contabili specifici per queste operazioni, e della discrezionalità tecnica nella redazione dei bilanci».

 […] Del resto, la tesi dell’accusa, che percorre in parallelo le posizioni di Giuseppe Bivona, del fondo Bluebell, […] è che grazie alla falsificazione dei bilanci, la banca riuscì di fatto a incassare denaro pubblico evitando una liquidazione coatta amministrativa, ma agendo fraudolentemente in danno ai soci e al mercato.

 Greco - ora consulente del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri e già archiviato sul caso di Piero Amara e della loggia Ungheria - resta, quindi, appeso alla vicenda Mps e degli eventuali due anni di ritardo. […]

Il rinvio a giudizio. Inchiesta Mps, tutti gli interrogativi tra Procura e authority. Angelo De Mattia su Il Riformista il 25 Dicembre 2022

La Procura di Milano ha chiesto il rinvio a giudizio di Alessandro Profumo, Fabrizio Viola e Massimo Tononi – in anni diversi, nell’ordine, presidente, amministratore delegato e presidente del Monte dei Paschi di Siena – insieme con un dirigente del Monte, Arturo Betunio. L’effetto-sorpresa della decisione è stato forte e diffuso. L’accusa a vario titolo è , in relazione ai crediti cosiddetti deteriorati, di false comunicazioni sociali, falso in prospetto e manipolazione del mercato.

Questo è il terzo filone delle contestazioni mosse a esponenti del Monte in dipendenza della crisi in cui l’Istituto venne a trovarsi dopo l’insensato, gravissimo acquisto dell’Antonveneta che poi portò alle dimissioni del vertice dell’epoca. Profumo e Viola hanno altresì fatto ricorso in appello contro la condanna in primo grado a sei anni (sempre del Tribunale di Milano) per l’appostazione contabile delle operazioni Santorini e Alessandria (l’altro filone). In precedenza, la Corte di Appello di Milano aveva, invece, assolto Giuseppe Mussari e Antonio Vigni, rispettivamente Presidente e Direttore generale all’epoca dell’acquisto della suddetta Banca, i quali in primo grado erano stati condannati a sette anni di reclusione. Le motivazioni dell’assoluzione, nelle richieste e nelle decisioni per Profumo e Viola, nonché per Tononi, sembrerebbero, invece, capovolte, per la parte in cui sarebbero mutuabili.

Una prima osservazione riguarda la competenza territoriale dell’Autorità giudiziaria milanese. Essa nacque perché Milano in tempi lontani era la sede dell’unica Borsa italiana e, poiché i presunti reati finanziari si manifestano per il tramite di operazioni o di comunicazioni ovvero impatti di Borsa, anche se commesso a Lampedusa, il presunto reato diventava di competenza di Milano. Ma oggi, la Borsa è nel capoluogo lombardo, ma pure ovunque, in relazione agli sviluppi della telematica e della digitalizzazione. Può allora rimanere questa impostazione? Non rischia di nuocere alla figura costituzionale del “ giudice naturale precostituito per legge”, per quel che attiene alla territorialità? Se, per ipotesi, gli sviluppi dell’integrazione dei mercati e delle infrastrutture relative portassero a una Borsa allocata, per l’Eurozona, per esempio solo a Parigi, succederebbe che, con questo criterio, l’ipotesi si configuri come reato commesso all’estero? Sarebbe ovviamente paradossale, inconcepibile.

Al di là di questa deduzione solo dialettica per rimanere nei ragionamenti che sono alla base della competenza in questione, l’argomento, finora mai sollevato come si dovrebbe, meriterebbe un’approfondita valutazione. Quanto alle misure adottate e proposte di cui si è detto, alcune di esse sono arrivate dopo la manifestazione di discordanti, reiterate posizioni di pm. rispetto a quelle del gip-gup. Comunque riguardano banchieri, Profumo e Viola, nonché, da ultimo in ordine di tempo, anche Tononi che furono pregati ripetutamente di assumere le rispettive cariche nel Monte. Lo fecero per spirito di servizio, e perché chiamati a una sfida per trarre il Monte dal pelago alla riva, ben potendo, per le loro qualità professionali e di esperienza, accettare offerte che venivano da altre parti sicuramente assai più importanti dal punto di vista economico e della gratificazione personale.

Comunque, sul settore esercitano la Vigilanza, la Bce – Banca d’Italia, la Consob e altre Authority. Allora si pone un problema cruciale: se le scritturazioni contabili e tutto quanto le precede e le segue sono compiuti in collegamento con i soggetti che controllano il sistema i quali, dunque, non hanno contestazioni da muovere, come si raccorda il ruolo dell’Autorità giudiziaria? È possibile che non solo gli esponenti coinvolti, ma i risparmiatori e gli investitori non raggiungano mai la certezza sui conti di un istituto di credito perché, dopo numerosi e capillari controlli delle competenti Autorità, può poi sopravvenire quello della Magistratura che rimette tutto in discussione? Certo, sussiste l’obbligatorietà dell’azione penale, ma, allora, il ruolo delle Authority finisce con l’essere ininfluente, tanto da non dovere essere neppure coinvolte – tranne che con singoli funzionari quali consulenti, ma qui sorge un’altra questione di potenziale conflitto di interesse – nell’ambito delle decisioni dell’Autorità giudiziaria? Non è necessario un adeguato approfondimento anche di questi aspetti?

Naturalmente, Profumo, Viola e Tononi (così è immaginabile per il predetto dirigente che è poco conosciuto) avranno fior di contro – argomentazioni di merito nei confronti delle accuse, ai diversi livelli e le faranno verosimilmente valere impiegando anche la loro non comune competenza tecnica. Ma, di questo passo, in casi che si spera non si ripetano come quello del Montepaschi ai tempi nel pieno delle difficoltà, come si può pensare che banchieri di livello siano disposti a dare una mano? Un confronto tra Magistratura e Authority appare comunque essenziale, al di là degli sviluppi delle vicende sinteticamente descritte che si ipotizza costituiranno un importante chiarimento della validità della posizione tecnica dei banchieri interessati. Angelo De Mattia

MPS, nelle indagini su David Rossi Genova salva i Pm di Siena. Sulla tragica scomparsa del giovane manager MPS pesano le scelte di chi doveva indagare bene e non lo ha fatto. Antonino Monteleone su Il Riformista il 24 Giugno 2023 

Nella vicenda David Rossi possiamo dire che la magistratura, a Siena, non ha sbagliato niente. Bisognerebbe andare in giro, ripetendo questa frase, per rallegrare l’umore dei passanti. Perché con difficoltà troverete qualcuno, là fuori, che anche conoscendo la vicenda senza troppi dettagli, possa esserne convinto. Ma è niente di più, niente di meno, ciò che viene fuori dalla decisione di archiviare anche l’ultima, residuale, ipotesi di reato a carico dei pubblici ministeri che coordinarono le indagini seguenti alla morte di David Rossi. Il Gip di Genova ha stabilito che non ci furono omissioni, né dolose né colpose, nelle ore immediatamente successive al terribile volo dalla finestra che costò la vita all’ex capo della comunicazione di Banca MPS.

Davanti alla commissione parlamentare era emerso come tre pubblici ministeri, accorsi sulla scena dell’evento, secondo la sintesi del PM di Genova «spostavano, manipolavano e rinvenivano oggetti prima che lo stato della stanza fosse documentato dalla polizia scientifica, senza redigere un verbale delle compiute e senza dare atto della presenza del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro aveva operato». Lo stupore per quella che è sembrata a molti, innanzitutto ai membri della commissione, una grave alterazione dello stato dei luoghi, sarebbe dunque mal riposto. Il Gip di Genova ci tiene a sottolineare che, a differenza di quanto ipotizzato dal pubblico ministero – che ha chiesto l’archiviazione per mancanza dell’elemento soggettivo (la volontà di commettere il reato) per il reato di falso ideologico, e per l’intervenuta prescrizione dell’eventuale omissione di atti di ufficio – a suo giudizio non esisteva alcun obbligo specifico per i pubblici ministeri di verbalizzare ciò che avvenne dentro l’ufficio di David la sera del 6 marzo 2013 e spingendosi oltre afferma che «nemmeno si percepisce l’utilità che avrebbe avuto».

Siena non è l’America, e voi accaniti fruitori di serie tv americane come CSI levatevi dalla testa che si usi quel livello di precisione sulla scena del crimine anche in Italia. Dopo un evento, certamente non secondario visto che addirittura tre pubblici ministeri si precipitano sul posto, può succedere di tutto. La magistratura non ha offerto risposte convincenti. A dieci anni di distanza dalla morte di David Rossi bisogna guardare in faccia la realtà. Mi spiego meglio: se David Rossi è stato ucciso facendolo volare da una finestra che affacciava su vicolo di Monte Pio, non sono stati raccolti elementi utili a identificare gli autori. Non si è fatto abbastanza per identificare l’uomo che si vede chiaramente entrare nel vicolo col telefono in mano pochi minuti dopo che David aveva esalato l’ultimo respiro, che gira i tacchi e va via. Abbiamo solo la certezza, grazie al lavoro dell’ingegner Luca Scarselli, che quell’uomo si addentrò nel vicolo quel tanto che bastava per avere una visuale chiara del corpo di David. Ma possiamo dire di più: non si è fatto abbastanza nemmeno per accertare le ragioni plausibili di un gesto volontario. Un suicidio e nulla di più. Ovvero ciò che con ostinata convinzione hanno ripetuto i magistrati chiamati a testimoniare di fronte al Parlamento. L’ipotesi iniziale era di “induzione al suicidio”. Ci sono due fascicoli nei quali ci si aspetterebbe di trovare gli sviluppi di questa ipotesi che potrebbe trovare forza anche nelle recenti conclusioni del collegio di medici legali incaricato dalla commissione parlamentare d’inchiesta e guidato dal prof. Vittorio Fineschi: David Rossi fu picchiato nei novanta minuti precedenti alla sua morte. Perché le lesioni non appaiono compatibili con la dinamica della caduta.

Due giorni prima di morire David Rossi aveva chiesto all’amministratore delegato, Fabrizio Viola, di aprire un canale di comunicazione con la Procura di Siena. «Domani potrebbe già essere troppo tardi» è l’allarme di David. Fredda e piuttosto rigida la risposta di Viola «meglio che alzi il telefono» e chiami tu per prendere un appuntamento. David capisce di essersi spinto oltre e fa marcia indietro: «ripensandoci sembro pazzo a farmi tutti questi problemi, scusa la rottura». Fa impressione rileggere, a distanza di anni, ciò che proprio Fabrizio Viola mise a verbale: «L’unica cosa che Rossi mi aveva esternato con chiarezza, dopo la perquisizione a suo carico (del 19 febbraio 2013 nda), è l’idea che qualcuno lo avesse voluto incastrare a titolo personale, cioè non in quanto capo della comunicazione di BMPS, ma come David Rossi. In tal senso, infatti, interpreto il contenuto delle sue richieste (di parlare coi magistrati nda). «Mi sono immaginato che lui potesse essere una sorta di custode di documenti, tant’è che lui mi disse chissà che hanno trovato nei miei PC». Il contenuto di queste e-mail era a conoscenza di più persone all’interno della banca. La circostanza emerge con chiarezza nell’ambito del processo che la Procura di Siena aveva istruito (sic!) contro Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, e Davide Vecchi, all’epoca inviato del Fatto Quotidiano, per la divulgazione proprio delle e-mail di Fabrizio Viola. Un processo che secondo il Giudice di Siena Alessio Innocenti, non si sarebbe mai dovuto celebrare, e che ha rappresentato un unicum giudiziario: primo e unico processo per violazione della privacy in assenza della denuncia dell’interessato, che infatti nemmeno si costituì nel giudizio.

Ma quali atti investigativi si trovano nei fascicoli per esplorare le circostanze rivelate, ad appena due giorni dalla morte di David Rossi, da Fabrizio Viola? Ho rivolto la domanda all’avvocato Carmelo Miceli: «Nessuno. Non c’è un solo atto che vada in questa direzione. Bisogna osservare i resti mortali di David: Chi gli ha inflitto quelle lesioni? Per quale motivo fu aggredito? Dopo quelle lesioni David si è tolto la vita volontariamente o il suo volo è stato l’atto conclusivo di un’aggressione? La famiglia aspetta ancora una risposta».

Antonino Monteleone

(ANSA il 16 aprile 2023) -  Il colonnello Pasquale Aglieco, ex comandante provinciale dei Carabinieri di Siena, è stato fermato dalle autorità tunisine per un presunto falso in un atto. Secondo quanto si apprende Aglieco, indagato dalla procura di Genova per false dichiarazioni al pm nell'inchiesta sulla morte di David Rossi (Mps) e trasferitosi da qualche tempo ad Hammamet, è stato fermato dalla polizia tunisina per la presunta falsificazione di un atto in relazione alla pratica di immatricolazione di un'auto.

In qualità di legale che cura gli interessi del Generale Pasquale Aglieco in Italia, con riferimento alla notizia pubblicata tra sabato e la giornata odierna di domenica in Italia, con la quale si dava conto dell'arresto del mio assistito avvenuto ad Hammamet in Tunisia, desidero precisare che le motivazioni poste alla base del provvedimento cautelare personale è legato ad un reato minore che sarà trattato a breve dal Tribunale di Nebel, competente per territorio.

Il Generale Aglieco è difeso dall'Avv. Di Hammamet Rim Elmehri con la quale sono in costante contatto. 

La stessa mi ha confermato che la vicenda prende le mossa da una autocertificazione sullo stato civile, eseguita dal Generale Aglieco senza le forme prescritte e su una materia per la quale la legislazione tunisina la consente solo in determinate forme e con determinate limitazioni. 

Si confida in una rapida soluzione della vicenda, posto che, si ribadisce, la questione è trattata come una violazione minore e che in Italia assumerebbe i contorni di un illecito amministrativo.

Si precisa infine che l'attuale procedimento giudiziario di cui è parte il Generale Aglieco è del tutto estraneo alla vicenda giudiziaria che ha ad oggetto le indagini sulla morte del Dott. David Rossi, Capo della comunicazione della banca Monte dei Paschi di Siena. 

Resto a disposizione per qualsivoglia ulteriore precisazione. 

Avv. Pierpaolo Ristori

Semaforo verde alla Commissione d’inchiesta parlamentare sulle cause della morte di David Rossi. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 22 Marzo 2023

"Soddisfazione enorme per una votazione all'unanimità", il commento di Antonella Tognazzi, vedova di Rossi. Resta tuttavia la "delusione" per l'emendamento presentato dal Pd che chiedeva di definire in 18 mesi la durata dei lavori della Commissione, giustificando la richiesta con una questione di rispetto per la famiglia per arrivare alla verità in un tempo definito

La Camera dei deputati ha dato il via libera all’istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, l’ex Capo della Comunicazione del Monte dei Paschi di Siena. L’istituzione della Commissione è stata approvata con 233 voti favorevoli e nessun contrario. Una commissione d’inchiesta monocamerale, composta da 20 deputati, che faccia luce – o almeno tenti di farla – e che per farlo prosegua il lavoro fatto da una analoga commissione della passata legislatura. 

Due archiviazioni come suicidio, una sentenza di primo grado che ha rigettato la richiesta di risarcimento nel processo civile intentato contro la banca, il lavoro di una Commissione parlamentare di inchiesta sul caso nella scorsa legislatura e una seconda Commissione che presto inizierà ad occuparsi della vicenda.

Sono trascorsi oltre dieci anni dalla morte di David Rossi, l’ex direttore della Comunicazione del Monte dei Paschi di Siena, precipitato da una finestra della banca, e tanti restano ancora gli interrogativi. È la sera del 6 marzo 2013 quando David Rossi viene trovato a terra, ormai senza vita, in vicolo Monte Pio, la strada sulla quale si affacciava il suo ufficio di Rocca Salimbeni. Aveva detto alla moglie che stava tornando, invece purtroppo a casa non arriverà mai. La procura di Siena aprì un fascicolo per istigazione al suicidio, in modo da poter svolgere le indagini, ma gli accertamenti fin dall’inizio propendono per il gesto volontario. E infatti due inchieste vengono archiviate come suicidio. Una tesi respinta con forza dalla famiglia. Qualche giorno prima della morte, il 19 febbraio, la Guardia di Finanza, su ordine della Procura di Siena, aveva perquisito anche il suo ufficio nell’ambito di un’indagine sull’acquisizione della Banca Antonveneta che non lo vide mai indagato. Emergono dubbi. Che motivo aveva Rossi di uccidersi? La sua morte si intreccia con le vicende che attraversa all’epoca uno dei principali gruppi bancari italiani? Chi lo conosceva racconta di un David Rossi diverso nelle ultime settimane: cosa lo inquietava? Inchieste giornalistiche sollevano perplessità sulle indagini. E accendono i riflettori su diversi scenari come la vicenda di presunti festini nella zona di Siena.

Mentre sul fronte giudiziario il caso venne archiviato, in parlamento venne istituita una Commissione parlamentare di inchiesta guidata dall’ on. Zanettin (Forza Italia) per indagare, che ha lavorato intensamente tra audizioni e colpi di scena, disponendo una maxi perizia che se da un lato parla dell’ipotesi di un gesto «anticonservativo» dall’altro rilevò altre lesioni sul corpo non attribuibili alla caduta lasciando aperti altri interrogativi. Quelle ferite potrebbero essere frutto di una colluttazione prima del volo dalla finestra? Se soccorso prima, David Rossi poteva essere salvato?

Gli atti frutto del lavoro della Commissione vennero trasmessi alle procure competenti dando adito a nuovi fascicoli come quello aperto dalla procura di Genova sul sopralluogo dei magistrati della procura senese nell’ufficio del manager del MPS prima dell’intervento della polizia scientifica. Proprio nei giorni scorsi la procura di Genova ha chiesto l’archiviazione del procedimento per i tre inquirenti ritenendo che nella loro condotta non ci sia stato nessun dolo. Adesso, con il via libera arrivato oggi dalla Camera dei deputati, una seconda Commissione parlamentare di inchiesta tornerà ad occuparsi della morte del manager. Ed i magistrati non potranno oltremodo coprire o giustificare le nefandezze di un’inchiesta giudiziaria che fa acqua da tutte le parti, e di cui farebbero bene ad occuparsene la Procura Generale della Cassazione, l’, Ispettorato del Ministero di Giustizia e la sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.

Soddisfazione enorme per una votazione all’unanimità”, il commento di Antonella Tognazzi, vedova di Rossi. Resta tuttavia la “delusione” per l’emendamento presentato dal Pd che chiedeva di definire in 18 mesi la durata dei lavori della Commissione, giustificando la richiesta con una questione di rispetto per la famiglia per arrivare alla verità in un tempo definito. Il Pd “non si è mai rapportato con noi, non votò neppure la relazione finale (della Commissione di inchiesta istituita nella scorsa legislatura ndr) – sottolinea Tognazzi – Limitare a 18 mesi la durata della Commissione non avrebbe dato una possibilità in più alla famiglia, ma sembrava replicare la velocità con cui si decise all’epoca che quello di David era un suicidio”. “Delusione” quindi per questa presa di posizione del Pd “pur riconoscendo che c’è stato il voto finale favorevole”.

Dalla nuova Commissione di inchiesta “mi aspetto la stessa serietà e dedizione che ha dimostrato la precedente Commissione – ha concluso Tognazzi – Mi auguro siano tutti motivati a riprendere i lavori da dove erano stati interrotti e a continuare gli approfondimenti“. Anche sua figlia, Carolina Orlandi, ammette di essersi “emozionata come per la votazione della prima Commissione. Ancora una volta il parlamento all’unanimità chiede che si faccia chiarezza. Questo conferma ancora una volta quante lacune ancora siano da chiarire“.

Ieri sera ho avuto modo di fare un appello anche a due donne che in questo momento rappresentano il Paese, Giorgia Meloni e Elly Schlein – ricorda Orlandi che ieri ha lanciato un appello alla trasmissione ‘Le Iene‘ – Ci piacerebbe incontrarle insieme, sarebbe un’occasione anche per ricordare che non esistono maggioranza e opposizione di fronte alla giustizia. E che le famiglie come la nostra hanno anche il diritto di potersi prendere cura del proprio dolore, senza dover combattere più“ Redazione CdG 1947

David Rossi, perché un’altra commissione d’inchiesta? Il giallo del colonnello in fuga ad Hammamet. Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2023

A 10 anni dalla morte del manager Mps il Parlamento vara una nuova commissione, dopo quella della scorsa legislatura. Le variabili politiche e la spinta di Meloni. Intanto il carabiniere che accusò i pm non può essere interrogato: è in Tunisia

La Camera ha approvato all’unanimità l’istituzione di una nuova commissione d’inchiesta per fare luce sulla morte di David Rossi, il capo comunicazione del Monte dei Paschi di Siena che il 6 marzo 2013 in cui David Rossi perse la vita precipitando dalla finestra del suo ufficio al terzo piano di Rocca Salimbeni. Dieci anni in cui si sono affastellate inchieste giudiziarie — due a distanza di anni che sono arrivate alla conclusione che si trattò di un suicidio —, consulenze tecniche e ricostruzioni di ogni genere che però non sono state sufficienti a tacitare dubbi e soprattutto l’ipotesi del complotto omicida.

Nel settembre scorso, dopo 14 mesi di audizioni infuocate dei protagonisti del periodo in cui la più antica banca del mondo crollò, una precedente commissione parlamentare d’inchiesta, promossa con forza da Fratelli d’Italia, si concluse con una relazione approvata faticosamente, anche perché il Pd decise di non partecipare al voto. La sintesi: quasi tutti gli elementi raccolti conducono al suicidio di Rossi, ma con alcuni dubbi. Il braccio di ferro (anche politico) per la ricerca della verità non si è fermato nemmeno dopo l’evidenza della maxi perizia dei carabinieri del Ris, che, su richiesta della commissione stessa, simularono la caduta dalla finestra con strumenti di ultima generazione in grado di ricreare alla perfezione le condizioni di quella notte: buio e pioggia inclusi. Le conclusioni del rapporto dei carabinieri smontarono i dubbi della famiglia di Rossi. E il comandante Schiavone affermò: «Rossi spinto da terzi? Non compatibile con le riprese del filmato».

Ma allora perché, anche davanti a queste evidenze, il Parlamento ha varato un’altra commissione d’inchiesta? Il via libera è arrivato all’unanimità, ma a taccuini chiusi più d’uno dei 20 membri che ne fanno parte confessa che sotto la cenere covano variabili politiche. Durante la precedente indagine parlamentare, il giallo di Rossi è tornato quotidianamente alla ribalta, diventando anche terreno di scontro politico e con una forte eco mediatica. Sia da destra che da sinistra, per motivi diversi, nessuno si è lasciato sfuggire l’occasione di intervenire. Da un lato si sono moltiplicati gli attacchi contro le toghe e verso la gestione della banca che fu storicamente legata alla sinistra; dall’altro lato c’è chi, come Matteo Renzi, ha puntato più volte il dito contro Antonino Nastasi, uno dei magistrati che lo accusano di finanziamento illecito ai partiti nell’inchiesta sulla Fondazione Open. Il pm è lo stesso che ha condotto l’inchiesta sul crollo di Mps e che seguì le indagini sulla morte di Rossi.

Pesanti accuse contro i magistrati inquirenti furono sollevate proprio durante le decine di audizioni della precedente commissione. A lanciarle non fu una figura di secondo piano, bensì il colonnello Pasquale Aglieco, ai tempi comandante provinciale dei carabinieri di Siena, il quale durante l’audizione denunciò: «Il pm Nastasi rispose al cellulare del manager Mps dopo la sua morte». Affermazioni che scatenarono una bufera e spinsero altri pm (quelli di Genova, competenti ad indagare sui colleghi di Firenze) ad aprire una terza inchiesta giudiziaria. L’indagine per appurare l’inquinamento della scena di un ipotetico crimine si è conclusa con una richiesta di archiviazione. E i magistrati dedicano un paragrafo proprio ad Aglieco, indagato per falsa testimonianza. Un altro giallo: il colonnello si è infatti trasferito ad Hammamet e per questo non è stato possibile interrogarlo.

Dicevamo delle variabili politiche. Durante l’ultima puntata de Le Iene, Carolina Orlandi, figlia di Antonella Tognazzi (moglie di David Rossi), ha lanciato un appello bipartisan a Giorgia Meloni ed Elly Schlein: «Abbiamo diritto a una indagine seria», chiedendo a entrambe di «non far spegnere i riflettori su una storia che è, sì, nostra, ma anche di tutto il Paese». Dalla premier l’apertura è stata massima: «Ringrazio Le Iene per aver mantenuto alta l’attenzione sul caso della morte di David Rossi — ha scritto sui social —. L’auspicio è che si possa fare piena luce sulla vicenda, per David e la sua famiglia». Dalla leader del Pd nessun intervento diretto. I dem hanno votato il via libera alla nuova commissione, ma permane scetticismo e un’impronta di forte cautela. Una linea, quest’ultima, che si legge chiara nelle parole del deputato del Pd Andrea Rossi: «Dobbiamo cercare la verità, non una verità — ha detto alla Camera il membro della commissione parlamentare —. Questo è un discrimine. Il lavoro prezioso di professionisti, di forze dell’ordine, ha comunque iniziato a mettere con chiarezza affermazioni inconfutabili».

Commissione d'inchiesta su David Rossi. Imbarazzo Pd: Schlein snobba l'appello della famiglia del manager. Felice Manti il 23 marzo 2023 su Il Giornale.

Silenzio e agonia. L'appello della figlia di David Rossi lanciato a Elly Schlein l'altra sera dai microfoni delle Iene è caduto nel vuoto. Come la richiesta di aiuto sussurrata dal manager Mps volato o spinto giù dalla finestra del suo ufficio il 6 marzo di dieci anni fa, rimasto inascoltato per più di venti minuti. A conferma che il grumo di potere che ha goduto degli sperperi della banca rossa è intoccabile anche dalla Schlein, nonostante le roboanti promesse di discontinuità. Mentre la premier Giorgia Meloni con un tweet nella tarda serata di martedì ha rivendicato la volontà di fare luce sulla intricatissima vicenda e sui suoi contorni giudiziari, dalla leader Pd zero riscontri. Neanche una telefonata. E sì che la segretaria sapeva dell'appello di Carolina Orlandi, il suo entourage era stato ampiamente informato della vicenda. E invece niente. Silenzio colpevole.

A smuovere il Nazareno non è bastata neanche la coraggiosa denuncia dell'ex parlamentare Carmelo Miceli, che ha rivelato di aver chiesto a Enrico Letta di incontrare i familiari di David Rossi - che difende dall'inerzia della Procura di Siena - ricevendo in cambio una freddezza glaciale che poi ha portato (di fatto) alla mancata rielezione in Parlamento dell'esponente siciliano, candidato in posizione ineleggibile nonostante i risultati eccellenti del suo mandato.

Ieri durante il voto della Camera che ha dato il via libera all'unanimità alla commissione d'inchiesta anche in questa legislatura, con il sostegno convinto di quasi tutti i partiti - da Forza Italia con Pietro Pittalis («Fare luce sulle ombre e i punti oscuri di una vicenda dolorosa») a Fratelli d'Italia con Walter Rizzetto («Poco prima di morire è stato picchiato, si indaghi per istigazione al suicidio»), il Pd è tornato a proporre l'emendamento (non approvato) della durata «limitata a 18 mesi» su cui M5s si è astenuto. Un'ipocrisia rafforzata da alcune dichiarazioni oltraggiose della verità: «Per serietà e rispetto nei confronti della famiglia crediamo sia meglio dare una data sul termine dei lavori che può poi prevedere eventuali proroghe», ha detto il deputato del Pd Federico Fornaro. Il suo collega Andrea Rossi, chiedendo di evitare «retropensieri e stupide accuse» rispetto all'emendamento, ha avuto il coraggio di dire che l'attenzione mediatica «non ha fatto bene ai lavori della commissione», che il Pd lavorerà «senza pregiudizi per la verità» e che «a differenza di castronerie e falsità dette negli ultimi giorni» (dal Giornale?) la vicenda di David Rossi «non è un fatto politico, ma di cronaca». Come no. «Speravamo che passasse di nuovo all'unanimità, è stata comunque una grande emozione», dice la Orlandi al Giornale. «La Schlein? Non ci ha ancora risposto», conferma. E poi aggiunge: «Confido che abbia voglia di risponderci e che lo farà. Mia madre ed io vorremmo incontrarla fisicamente, assieme a Giorgia Meloni, per confermare che di fronte alla verità sulla morte di David non esiste la destra e la sinistra, il nostro diritto alla verità su quella sera deve essere un obiettivo comune».

La sensazione però è che nessuno nel Pd vuol cacciare i cacicchi che a Siena hanno fatto il bello e il cattivo tempo, sfasciando i conti della «loro» banca che oggi stanno ripianando gli italiani.

Estratto dell’articolo di Felice Manti per “il Giornale” il 22 marzo 2023.

«Enrico Letta non legge più i miei messaggi, non lo sento da quando gli ho proposto di incontrare i familiari di David Rossi. È per questo che non sono stato rieletto? Lo dicono i giornali, mi sarei aspettato che li querelasse. Fa ancora in tempo».

 È un Carmelo Miceli furibondo e pacato al tempo stesso, quello che si confida con Il Giornale di ritorno da Genova, dove da legale della famiglia Rossi nonché ex deputato Pd ha chiesto lumi sull’archiviazione dei tre pm Nicola Marini, Aldo Natalini e Antonino Nastasi perché «hanno manipolato la scena del delitto» ma l’hanno fatto «senza dolo».

 Materiale per il ricorso, ma anche per la nuova commissione parlamentare d’inchiesta sulla strana morte del manager Mps volato dalla finestra del suo ufficio dieci anni fa, con ferite da colluttazione incompatibili con il suicidio. Commissione che il Pd vuole «ma a tempo, per rispetto alla famiglia».

 Ed è proprio alla leader Pd Elly Schlein e anche alla premier Giorgia Meloni che ieri sera si è rivolta Carolina Orlandi, figlia di David, dai microfoni delle Iene. Un appello raccolto dalla presidente del Consiglio che in serata ha risposto: «Ringrazio Le Iene per aver mantenuto l’attenzione sul caso. Questa settimana verrà votata la ripresa dei lavori della Commissione parlamentare, con l’auspicio si possa fare piena luce sulla vicenda, per David e la sua famiglia».

 Come stanno le cose, Miceli?

«L’ho chiesto io l’incontro a Letta. Non ho mai avuto riscontro. È l’ultimo sms che mi ha letto, non mi parla da allora».

Il Pd l’ha candidata in posizione ineleggibile per questo?

«Lo hanno detto i giornali. Mi sarebbe piaciuto che Letta li avesse querelati. Fa in tempo».

 […] Come è morto David Rossi?

«È stato brutalmente picchiato prima di volare giù. Nessuno ha capito chi, come, dove, perché e quando. Ipotesi di reato non prescritte su cui non si indaga».

 Secondo lei la Schlein accetterà l’invito della figlia?

«C’è una ragione per cui mi sento a casa nel Pd, a fare il nobilissimo operaio in consiglio comunale a Palermo. La promessa di discontinuità. Ma è vero che lei si sta fidando di chi ha motivato l’emendamento che limita a 18 mesi il lavoro della commissione».  […]

David Rossi, “inaccettabile”. Furia Lega per la proposta Pd sulla commissione d'inchiesta. Il Tempo il 20 marzo 2023

Partiti politici spaccati sulla commissione d’inchiesta sulla morte di David Rossi a Siena. “Non partiamo da zero, ma da un lavoro importante fatto nella scorsa legislatura. Presenteremo un emendamento, secondo noi si deve cercare di finalizzare in 18 mesi i lavori necessari per arrivare alla conclusione” la proposta del deputato del Pd Andrea Casu intervenuto nel corso della discussione, in aula alla Camera. L’obiettivo dei dem è che la questione non si protragga per tutta la legislatura.

Ma la deputata della Lega Tiziana Nisini, capogruppo in commissione Lavoro, non è per nulla d’accordo. “È necessario - spiega l’esponente del Carroccio - che la commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di David Rossi, voluta fortemente dalla Lega, prosegua il suo corso anche in questa legislatura. Non possiamo disperdere un lavoro prezioso da cui sono emersi documenti, perizie e testimonianze che possono aiutare a far luce su una vicenda che ha ancora troppe ombre. La richiesta del Pd di mettere un termine di 18 mesi alla durata della Commissione, per noi è inaccettabile. Sarebbe una mancanza di rispetto nei confronti dei familiari di David Rossi che vogliono sapere la verità”.

Sulla stessa linea la collega di partito Laura Cavandoli, relatrice in commissione, decisa ad andare “fino in fondo, questa volta. C’è tanta attività da fare per scoprire la verità ma soprattutto per capire se qualcosa non ha funzionato o se la vicenda è stata ricostruita in maniera distorta rispetto a come sono andate davvero le cose”.

(ANSA il 16 marzo 2023) La procura di Genova ha chiesto l'archiviazione per i tre magistrati di Siena titolari del fascicolo sulla morte di David Rossi. L'ex capo della comunicazione di Mps è morto dopo essere precipitato dalla finestra del suo ufficio a Siena il 6 marzo del 2013. I tre indagati per falso aggravato sono Nicola Marini, Aldo Natalini, e Antonino Nastasi, quest'ultimo oggi pm a Firenze.

 Erano stati interrogati nei mesi scorsi dai colleghi genovesi. Veniva contestata loro la mancata verbalizzazione della perquisizione, con annessa ispezione informatica e sequestro, della stanza usata da Rossi. Per gli aggiunti Francesco Pinto e Vittorio Ranieri Miniati, i tre avrebbero fatto "una perquisizione", manipolarono la scena, ma non ci fu alcun intento di occultare indizi o manomettere le indagini.

"Nessuno commette un falso - si legge nella richiesta - per il sol gusto di commettere un reato". In particolare, i tre allora pm senesi, nel verbale del 7 marzo, "omettevano di attestare che nelle ore precedenti, e in particolare dalle 21.30 sino a circa mezzanotte del giorno precedente, avevano già fatto ingresso nella predetta stanza prima che la stessa venisse fotoripresa dal personale della polizia scientifica". In quell'occasione avrebbero "manipolato e spostato oggetti senza redigere alcun verbale delle operazioni compiute e senza dare atto del personale di polizia giudiziaria che insieme a loro avevano proceduto a questo sopralluogo".

L'inchiesta era nata anche dopo la trasmissione degli atti da parte della commissione parlamentare. Secondo i pm genovesi però tutto questo non rappresenterebbe un reato. Nella richiesta di archiviazione i pm genovesi dedicano un paragrafo anche alla figura dell'allora comandante dei carabinieri Pasquale Aglieco, indagato per falsa testimonianza per aver sostenuto che il pm Nastasi rispose alla telefonata di Daniela Santanché sul cellulare di Rossi. Aglieco si è trasferito ad Hammamet e "quindi non è stato ad oggi ancora possibile notificargli l'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio".

Il "codice di Firenze". Così le toghe rosse riscrivono la giustizia. Un tribunale d'assalto tra sentenze creative e solite accuse a Renzi e Berlusconi. Luca Fazzo il 17 Marzo 2023 su Il Giornale.

«Ha già sofferto abbastanza. Non processiamolo». E chi ha deciso se e quanto l'imputato ha sofferto, chi può calibrare l'incontro tra pietà umana e certezza del diritto? In quel tempio della giustizia creativa che è diventato da qualche tempo il palazzo di Giustizia di Firenze, succede anche questo. Che un giudice chiamato a processare un imprenditore per omicidio colposo, dopo che un manovale era precipitato dal tetto di un cantiere, decide di non condannarlo, di fermare il processo e di mandare gli atti alla Corte Costituzionale. Motivo: il morto era il nipote dell'imputato, e il dolore che lo zio si porta appresso è una pena naturalis che rende superflua la condanna. Piccolo dettaglio: nel frattempo il padrone dello stabile, non essendo parente del morto, è già stato condannato.

Sarà ora la Consulta a decidere se, come sostiene il giudice fiorentino, dichiarare colpevole l'imprenditore-zio sarebbe una «pena inumana», contraria pertanto alla Costituzione. Nell'attesa c'è da notare che il giudice che ha sollevato la questione, Franco Attinà, iscritto a Magistratura democratica, è un habituè dei ricorsi alla Consulta, che finora gli sono spesso andati male (l'ultima volta la Corte lo accusò di volersi sostituire al Parlamento, «ingerendosi nella valutazione operata dal legislatore»). E va anche notato che questo approccio creativo al diritto a Firenze non è praticato solo dal giudice in questione. Come se un refolo di genialità spirasse dall'Arno fin sul mastodontico palazzo di viale Guidoni.

A non accontentarsi di quel che dice la legge, sostiene per esempio da tempo Matteo Renzi, è la Procura fiorentina, guidata da Luca Turco anche lui per anni in Md - dopo che il vecchio capo Giuseppe Creazzo se n'era andato, portandosi dietro un procedimento disciplinare per molestie sessuali. Secondo l'ex presidente del Consiglio, Turco e i suoi pm hanno interpretato a loro modo (nel senso che se ne sarebbero più o meno infischiati) la sentenza della Cassazione che li obbligava a restituire a un imputato del caso Open il contenuto del suo telefono e del suo computer: però prima ne fecero la copia e la mandarono al Parlamento.

Altro più recente esempio di giustizia disinteressata alle banali regole formali è quanto avviene ieri, con la diffusione da parte dei pm fiorentini o dei loro consulenti o dei loro investigatori (altri non risulta che avessero in mano il documento) di una nuova perizia depositata nell'interminabile inchiesta contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell'Utri nientemeno che come mandanti delle stragi di mafia. Una perizia che scava su movimenti societari vecchi di quarant'anni, alla caccia di capitali mafiosi (di cui alla fine non trova traccia). La relazione dei pm finisce sui giornali, la Procura dovrebbe in teoria aprire una inchiesta su chi abbia fatto girare la carta, invece tutto tace. Sarà il codice penale del Granducato di Toscana.

A una sua orgogliosa autonomia dal resto del mondo la giustizia fiorentina è avvezza da sempre, basta ricordare che la Procura del campanil di Giotto fu l'unica a scontrarsi con quella milanese ai tempi di Mani Pulite. Così ora si presenta come l'ultimo ridotto della resistenza in toga, la trincea degli irriducibili, mentre nel resto d'Italia, pm e giudici ci rassegnano ad aspettare il 27 del mese.

Il fratello di David Rossi: «Riaprite le indagini sulla sua morte, cercate chi le ha depistate». I segni di percosse sul corpo e la strana dinamica della caduta dalla finestra del suo ufficio. Il video cancellato e i testimoni reticenti. Sul presunto suicidio del capo della comunicazione di Mps, avvenuto il 6 marzo del 2013, il mistero è fitto. E la famiglia chiede alla magistratura di acquisire anche le informazioni raccolte dalla commissione parlamentare d’inchiesta sul caso. Ranieri Rossi su L’Espresso il 6 Marzo 2023.

La commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di mio fratello, David Rossi, ha lavorato con abnegazione, ascoltando decine di testimoni, analizzando foto e filmati e facendo anche simulazioni. Purtroppo, non ha potuto finire il suo lavoro per la caduta del governo. Tuttavia, alcune conclusioni rilevanti sono state raggiunte.

Tre medici legali hanno evidenziato come molte delle ferite riscontrate sul corpo di David siano riconducibili a percosse ricevute all’interno del Mps; si è appurato che ci sono più persone che si affacciano nel vicolo e guardano David morente senza dare l’allarme; si è evidenziato come pm e forze dell’ordine abbiano rovistato nell’ufficio prima che la scientifica fotografasse la scena del crimine (per questo tre pm sono indagati presso la procura di Genova); si è scoperto che esisteva una chiavetta usb contenente un video in cui si vedono due persone che escono da una porta laterale del Mps poco dopo la caduta di David; si è scoperto che quel filmato è stato cancellato nonostante fosse al sicuro nelle mani dei magistrati. Infine, il Ris mediante simulazione al pc ha concluso che la precipitazione è nata da un «atto anticonservativo», leggasi suicidio.

Quest’ultimo punto resta quanto mai controverso in quanto nella conferenza stampa (senza contraddittorio) un ufficiale del Ris ha mostrato solo un cartone animato che simula la caduta: in pratica, David, tenendosi alla sbarra di protezione della finestra si sarebbe lasciato andare nel vuoto di spalle.

Questa ipotesi era stata analizzata e scartata anche dai nostri tecnici in quanto, con quelle modalità, il corpo sarebbe ruotato all’indietro e la caduta risulterebbe ben diversa. La proposta di utilizzare un manichino o meglio uno stuntman che riproducesse le diverse modalità di caduta, è stata discussa diverse volte ma alla fine non presa in considerazione. Al momento, nessuna dimostrazione accettabile di come sia avvenuta la caduta è stata fornita dal Ris: speriamo giunga attraverso i lavori della nuova commissione parlamentare.

Ci sono diversi punti, comunque, che avrebbero dovuto portare all’immediata riapertura dell’inchiesta, in primis le percosse sul corpo e la chiavetta Usb con il filmato cancellato. I magistrati dovrebbero ben sapere che in caso di acquisizione di elementi nuovi e rilevanti si deve procedere a una nuova inchiesta.

Sono mesi ormai che sono state rese note le conclusioni della commissione e niente si muove. Forse sembra normale alla magistratura che si malmeni un importante dirigente del Mps, nel suo ufficio, per cause sconosciute, che si cancellino filmati di cui peraltro si è sempre negata l’esistenza (notare che si è negata l’esistenza anche di qualsiasi altro filmato)?

Bene, allora vi suggerisco io cosa fare per la giustizia, per la famiglia e per gli italiani: riaprite l’inchiesta, cercate chi ha picchiato mio fratello, chi ha cancellato il filmato, e poi facciamo una simulazione della caduta decente e finalmente dopo dieci anni mettiamo fine a questa dolorosa vicenda.

Ranieri Rossi, Autore del libro “David Rossi - I fatti” sulla morte del fratello

David Rossi, la vedova Antonella Tognazzi: «Chiedo verità e la riapertura delle indagini».Antonella Tognazzi, la vedova di David Rossi, ex capo della comunicazione Mps morto il 6 marzo del 2013

La moglie dell'ex capo della Comunicazione di Monte Paschi di Siena: «Non bisogna abbassare la guardia e bisogna tenere alta l'attenzione anche in previsione dell'istituzione di una nuova Commissione di inchiesta». Il Dubbio il 5 marzo 2023.

«Per me il 6 marzo è tutti i giorni. Lo vivo tutti i giorni come se fosse ieri. Però fa riflettere il fatto che siano passati ben 10 anni». Antonella Tognazzi, vedova di David Rossi, l'ex capo della Comunicazione di Mps, morto dopo essere precipitato da una finestra della banca a Siena, parla all'Adnkronos alla vigilia dell'anniversario della tragedia che si consumò la sera del 6 marzo 2013.

Domani Antonella, la figlia Carolina Orlandi, chi voleva bene a David e ha sposato la battaglia della sua famiglia, si riunirà alle 19, in piazza Salimbeni a Siena, in una commemorazione pubblica per «i dieci anni senza David, senza verità, senza giustizia». Un'iniziativa, spiega la vedova dell'ex manager di Mps, organizzata «perché non bisogna abbassare la guardia e bisogna tenere alta l'attenzione anche in previsione dell'istituzione di una nuova Commissione di inchiesta che speriamo arrivi a scandagliare tutto ciò che è ancora da verificare e scoprire».

Dopo la Commissione parlamentare di inchiesta istituita nella scorsa legislatura e presieduta da Pierantonio Zanettin, il 20 marzo inizierà infatti in aula alla Camera la discussione per istituire una nuova Commissione di inchiesta sul caso, che potrebbe incassare il via libera intorno al 24 marzo. «Confido nella buona volontà dei nuovi membri che dovranno ricominciare daccapo e mi auguro che siano persone motivate a fare chiarezza a beneficio di tutti. Spero che, seguendo le orme della precedente Commissione di inchiesta, emergano nuovi elementi», sottolinea Antonella Tognazzi.

Dopo dieci anni, due archiviazioni e una Commissione parlamentare di inchiesta la famiglia cerca ancora la verità: «Il nostro obiettivo da sempre è quello di richiedere la riapertura delle indagini con un fascicolo che riporti la motivazione giusta ossia per omicidio», conclude la vedova del manager. 

Che fine ha fatto Chico Forti? Tre anni fa il governo annunciava il rimpatrio, poi silenzio. Riccardo Ongaro su L'Indipendente domenica 30 luglio 2023.

«Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia», lo annunciava il ministro degli Esteri italiano, Luigi Di Maio, il 23 dicembre 2020: «L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio. Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia». Sono passati quasi tre anni e, del rientro in patria dell’italiano condannato all’ergastolo negli USA in un processo pieno di ombre, non si sa più nulla. La premier Giorgia Meloni, fresca d’incontro col presidente americano, non ha sollevato la questione, almeno stando a quanto riportato dalla sintesi dell’incontro riportata da palazzo Chigi. Nel frattempo Chico Forti ha inviato una lettera in Italia, non disperata o rassegnata come si potrebbe pensare, ma che trasuda determinazione e voglia di vivere, nonostante i 23 anni passati da detenuto nelle carceri della Florida.

Quel 23 dicembre 2020, con l’annuncio di Di Maio, sembrava la fine di un calvario per Forti iniziato 22 anni prima. È il 1992 quando il giovane italiano si trasferisce nella Miami anni ’90 in cerca di fortuna. Tra produzioni tv e investimenti nell’immobiliare, gli affari sembrano andare a gonfie vele, o perlomeno, fintanto che non subentra la figura di Thomas Knott. Quest’ultimo – truffatore tedesco reinventatosi affarista immobiliare negli USA – riesce ad entrare nelle cerchie più strette di Chico, trascinandolo in giri non cristallini. Uno su tutti, quello riguardante l’acquisizione del Pykes Hotel di Ibiza, proprietà in declino di Anthony Pike, ma particolarmente in voga negli anni ’80 per l’organizzazione di feste a base di sesso, droga ed ospiti d’eccezione.

L’idea dunque, è quella di ottenere le quote dell’immobile per poi far rifiorire la struttura. L’affare sembra ottimo e Forti versa una caparra di 25mila dollari per fermare l’acquisto. Tony tuttavia non è in ottima forma ed il figlio Dale decide di raggiungere l’italiano a Miami per vederci più chiaro sull’affare in corso. Il 15 febbraio 1998 quindi, Chico va a prendere Dale all’aeroporto e quella sera, secondo la versione ufficiale, sarà l’ultima persona che lo vedrà in vita. La mattina seguente il corpo di Dale Pyke viene rinvenuto a Sewer Beach con due colpi di pistola calibro 22 in fronte. La polizia di Miami non ha dubbi: Chico Forti si è voluto liberare del figlio dell’albergatore. Da qui in poi, per Chico sarà un susseguirsi di fatti a dir poco sconcertanti, stando alla versione denunciata: interrogatori senza registrazioni video e senza la presenza di un avvocato, trascrizioni degli stessi effettuate mesi dopo la loro reale avvenuta, controlli errati dei tabulati telefonici ed un’arma del delitto sparita. In tutto questo caos, un’unica cosa è certa: dal 2000 (e nel 2010 in via definitiva), Chico Forti è condannato all’ergastolo.

Le ombre sul processo sono decine e continuano ad allungarsi, come dopo la dichiarazione di uno dei 12 membri della giuria popolare che ha definito – in una dichiarazione rilasciata a Le Iene – il processo «una cazzata», dichiarando di «essere stata bullizzata dagli altri giurati perché credevo che ci fosse un ragionevole dubbio sulla colpevolezza».

Tuttavia, a questo punto, non è nemmeno fondamentale discutere della presunta innocenza o meno di Chico Forti, né delle ombre del processo (l’intero nastro della vicenda giudiziaria, per chi vuole approfondire, lo abbiamo già riavvolto su L’Indipendente in un lungo articolo). Il processo mediatico a Forti è stato spesso utilizzato come specchietto per le allodole da salotti televisivi e teatrini politici in una sorta di arma di distrazione popolare. Perché il tema sul quale il governo italiano dovrebbe esigere risposte da quello americano non è la colpevolezza o meno di Forti, ma il rispetto del suo diritto a scontare la pena in Italia: come previsto dalle leggi internazionali ed in particolare dalla Convenzione di Strasburgo, e come annunciato dall’ex governo italiano ormai tre anni fa.

Perché dopo il grande annuncio in pompa magna, di Chico Forti non se ne è più sentito parlare. Nemmeno pochi giorni fa, quando il 27 luglio Giorgia Meloni si è recata con un volo diplomatico negli Stati Uniti per rinsaldare l’asse Roma-Whashington. Su quell’aereo pertanto, non è stato imbarcato il dossier Forti. Stando ai resoconti governativi difatti, né negli incontri della mattina a Capitol Hill, né nel colloquio del pomeriggio con il presidente Joe Biden, la premier italiana sembra aver mai menzionato il nome di Enrico Forti, al contrario di quanto fece Hillary Clinton sul caso di Amanda Knox.

Nel frattempo Chico Forti continua ad attendere al “Dade Correctional Institution” e pochi giorni fa è tornato a far sentire la sua voce con una lettera al quotidiano Libero. «Questi 23 anni li ho vissuti in una dimensione surreale, un po’ sogno, un po’ trance. Ad occhi aperti vedo scorrere la mia vita, incapace d’alterarne il corso. Una vita dove l’unica inalienabile libertà (assolutamente apprezzata, per carità) è poter utilizzare la mente, fortunatamente ancora lucida, poter esprimere per iscritto i miei pensieri “chainless”, ovvero liberi da catene», prima di raccontare come si tiene occupato e ottimista, concentrandosi sulla sua attività di educatore cinofilo (che, pur con difficoltà, gli viene permessa in carcere) e sulla lotta per il suo rimpatrio. [di Riccardo Ongaro]

Che fine ha fatto Chico Forti: da detenuto a fantasma. 60 anni, ha passato più di un terzo della sua vita in carcere, sempre professandosi innocente. Eppure un’annuncio del Ministro Di Maio di tre anni fa scacciava via ogni pessimismo. Andrea Ruggieri su Il Riformista il 26 Luglio 2023 

“Ho una bellissima notizia da darvi: Chico Forti tornerà in Italia”. È il 23 dicembre 2020, e l’annuncio trionfale è di Luigi Di Maio, ai tempi Ministro degli Esteri italiano, che su Facebook sembra mettere la parola fine a un’odissea, quella di Chico Forti, velista e produttore televisivo italiano, che dura dal 1998, quando a Miami inizia il suo incubo che lo tiene in carcere da 23 anni. “L’ho appena comunicato alla famiglia e ho informato il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio -scrive Di Maio-.

Il Governatore della Florida ha infatti accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia. Si tratta di un risultato estremamente importante, che premia un lungo e paziente lavoro politico e diplomatico”, conclude Luigi Di Maio.

Evviva. Perché il caso di Chico Forti è pieno di ombre, e sta a cuore di molti italiani. In più, se ne occupano trasmissioni assai popolari, e dunque riportarlo in Italia, sia pur a scontare il resto della pena, è occasione anche di popolarità e consenso.

La vicenda

Chico Forti era stato accusato tra mille ombre investigative prima, e processuali poi, nel 1998 per l’omicidio premeditato di Dale Pike, figlio di Antony Pike, dal quale Forti stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza: Dale viene assassinato e trovato cadavere su una spiaggia di Miami il 15 febbraio 1998. A giugno 2000 Chico incassa la condanna del Tribunale della Florida: ergastolo senza benefici, e dunque carcere. Sentenza, questa, che nel 2010, all’ennesimo ricorso respinto, diventa definitiva.

Passano gli anni, lui è detenuto in un carcere di massima sicurezza in Florida, e l’Italia non riesce a ottenere la revisione del processo americano, anche se persino i familiari della vittima escono nel frattempo allo scoperto dichiarando apertamente le loro perplessità circa la colpevolezza di Forti (lo fa il padre, Tony Pike, ora deceduto, al Tg5, una decina di anni fa, e lo farà il fratello della vittima, alle Iene, un paio di anni fa).

Detenuto fantasma

Ma quando Chico ha ormai 60 anni, e ha passato più di un terzo della sua vita in carcere, sempre professandosi innocente, l’annuncio del Ministro Di Maio squarcia ogni pessimismo: l’incubo è finito, prepariamo le bandiere. Eppure, passano da allora due anni, e il 1° giugno 2022 io stesso interrogo in un Question Time Luigi Di Maio, al quale chiedo novità dopo l’annuncio trionfale cui non segue nulla; lui mi assicura che il Governo non avrebbe lasciato solo Chico Forti e avrebbe fatto di tutto per riavvicinarlo ai suoi cari. Però a oggi, dopo più di tre anni, di Chico Forti in Italia non si vede nemmeno l’ombra: da detenuto a fantasma.

E lo stesso Di Maio, dopo l’iniziale entusiasmo, è costretto a definire il suo rientro operazione complessa. Ma perché, se il governatore della Florida, Ron De Santis, aveva firmato l’atto di trasferimento in base alla convenzione di Strasburgo sul trasferimento da condannato? Il timore è che Chico Forti sconti sulla sua pelle l’imminente campagna elettorale per la Casa Bianca, che vede il Governatore De Santis impegnato in una difficile primaria contro Donald Trump, rianimato dall’aggressione giudiziaria di qualche procuratore democratico, e un precedente consumato nel 1999 dal Governo D’Alema, con Mauro Diliberto Ministro della Giustizia.

Il caso Baraldini

Allora, c’era da riportare in Italia Silvia Baraldini, membro delle Black Panters, organizzazione criminale che si batte per i detenuti afroamericani. Silvia è stata condannata a 22 anni di reclusione per associazione sovversiva, ed è detenuta da vent’anni negli Stati Uniti. Sono i mesi successivi alla strage del Cermis. Il Governo italiano chiude un accordo con quello americano: la Baraldini torna in Italia a scontare il residuo pena. Ma alla Baraldini è stato assicurato che lei torna in Italia e un secondo dopo liberata.

Tanto che lei stessa, letto il memorandum di trasferimento, non vuole apporre la sua firma sull’accordo, anche perché c’è nell’aria che possa rientrare nel giro di grazie di fine mandato di Bill Clinton, Presidente americano uscente di lì a pochi mesi. Silvia viene convinta a firmare dagli emissari del Ministero della Giustizia italiano (“una soluzione in Italia la troviamo, tranquilla”), appena atterrata in Italia viene esibita a Ciampino a mo’ di trofeo, tra bandiere rosse festanti (a proposito di rientri alla Patrick Zaki, quelli sì strumentalizzati, ma dalla sinistra), e reclusa a Rebibbia, poi comincia una detenzione domiciliare che fa storcere il naso agli americani perché non prevista dall’accordo di trasferimento, e alla fine esce grazie all’indulto e a una incompatibilità con la detenzione dovuta a una severa malattia che l’aveva colpita.

Speriamo questo non ricada su Chico Forti, ma certo quando a sinistra si parla di ipotetiche strumentalizzazioni del rientro di Zaki, prima di aprire bocca penserei se non sia il caso di tacere.

Andrea Ruggieri

La Farnesina conferma: Chico Forti pronto al trasferimento. «Non risulta alcuno smarrimento di documentazione», scrive il ministero in merito ad alcune notizie apparse stamattina. Il Dubbio il 6 giugno 2021. «Con riferimento ad alcuni articoli comparsi nella giornata odierna su alcune testate nazionali in relazione al caso del trasferimento dagli Stati Uniti all’Italia del connazionale detenuto Enrico Forti, si ritiene utile chiarire che non risulta alcuno «smarrimento» di documentazione». Lo precisa la Farnesina in una nota, spiegando che «quella relativa al trasferimento in Italia del signor Forti è una procedura complessa che vede coinvolte diverse amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il Dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti». «Da parte italiana, in questa fase il ministero della Giustizia italiano segue direttamente la fase del trasferimento – prosegue la nota. Contestualmente l’ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il segretario di Stato, Antony Blinken». «Nel frattempo – conclude la nota – lo Stato della Florida ha di recente trasferito il signor Forti in un penitenziario utilizzato per i detenuti in attesa di trasferimento». Arrestato nel 1998, Chico Forti è stato per anni al centro di una battaglia diplomatica tra Usa e Italia per riaprire il caso e ottenere il trasferimento. La svolta a dicembre 2020, quando il governatore della Florida ha accolto l’istanza di Chico di avvalersi dei benefici previsti dalla Convenzione di Strasburgo e di essere trasferito in Italia.

Tutti i dubbi sul caso Chico Forti. Enrico Chico Forti, trentino classe 1959, è stato arrestato nel 1998 negli Stati Uniti e condannato all’ergastolo nel 2000 da un tribunale della Florida con l’accusa di omicidio premeditato. Velista e produttore televisivo, Forti si è sempre professato innocente. La vicenda è legata alla morte di Dale Pike, figlio di Antony Pike, dal quale l’ex produttore stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza: Dale viene assassinato e trovato cadavere su una spiaggia di Miami il 15 febbraio 1998 e Chico incriminato per omicidio. Forti, ha ricordato la Farnesina nelle scorse settimane, ha potuto contare nel corso di questi anni su un’assistenza continua da parte delle autorità consolari italiane. Nel 2016, si è riusciti ad ottenere il suo trasferimento in un penitenziario più facilmente raggiungibile dal personale del consolato generale, nei pressi di Miami. I contatti dell’ambasciata e del consolato con Forti e i suoi legali sono stati costanti, con periodiche visite in carcere per verificare le sue condizioni di salute e detentive. Sul piano giudiziario, si legge sempre nella nota Farnesina, dopo che la sentenza di condanna è divenuta definitiva nel 2010 a seguito del rigetto di tutti i ricorsi in appello, l’obiettivo è stato sempre ottenere dalle autorità americane una revisione del processo o, in alternativa, la possibilità per Forti di poter scontare la sua pena in Italia, nel suo Paese, vicino ai suoi affetti.

Smentite notizie di stampa, trasferimento procedura complessa. (ANSA il 6 giugno 2021) - Nessuna documentazione riguardante il caso di Chico Forti è stata mai smarrita. Lo precisa una nota della Farnesina, smentendo le notizie secondo le quali il manager, da 20 anni in carcere in Florida per un omicidio al quale si è sempre dichiarato estraneo, non potrebbe rientrare in Italia a causa dello smarrimento di alcuni documenti. "Con riferimento ad alcuni articoli comparsi nella giornata odierna su alcune testate nazionali in relazione al caso del trasferimento dagli Stati Uniti all'Italia del connazionale detenuto Enrico Forti - si legge nella nota - si ritiene utile chiarire che non risulta alcuno 'smarrimento' di documentazione". Quella relativa al trasferimento in Italia di Forti, prosegue la nota, "è una procedura complessa che vede coinvolte diverse Amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il Dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti. Da parte italiana, in questa fase il Ministero della Giustizia italiano segue direttamente la fase del trasferimento. Contestualmente l'Ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il Segretario di Stato Blinken". "Nel frattempo - conclude la Farnesina - lo Stato della Florida ha di recente trasferito il Sig. Forti in un penitenziario utilizzato per i detenuti in attesa di trasferimento".

Luigi Manconi per “La Stampa” il 19 dicembre 2020. Chico Forti è un fantasma. Per una parte di italiani - piccola, ma assai sensibile e informata - il suo nome è noto da decenni: ed è così familiare da costituire un elemento del paesaggio quotidiano, a cui si guarda con affetto, ma con un certo fatalismo. Quel nome evoca un grosso guaio, capitato alla persona sbagliata, lontano, molto lontano, là in Florida. Ma la memoria ha ormai scordato la natura di quel guaio e le vie, se ancora esistono, per uscirne vivi. Amici e parenti sussurrano a mezza voce che Chico è vittima di una grave ingiustizia, ma che cosa si debba fare per dargli una mano sembra impossibile anche solo immaginarlo. In altre parole, nel nostro tradizionale immaginario domestico, Forti rischia di apparire come quel parente il cui smagliante sorriso resta nelle fotografie giovanili, ora afflitto da un male di cui si sono perse diagnosi e prognosi. Un anziano zio al quale si vuole bene, al punto che, come fanno i più piccini nell'imminenza delle feste, si scrive una lettera tutta colorata. E, in effetti, a Chico Forti è stata dedicata recentemente una graphic novel di Chiod, che ricostruisce con intelligenza e passione la sua vicenda. (Una dannata commedia, Fabio Galas, 2020). Messa così sembrerebbe un ennesimo racconto di Natale, malinconicamente simile a tanti altri. E invece no, dopo vent'anni qualcosa sembra mettersi in moto. Riprendiamo, pertanto, il filo della vicenda dall'inizio. Enrico Forti, nato a Trento nel 1959, è stato campione nazionale di windsurf, ha lavorato come videomaker e poi come produttore televisivo. Grazie agli 80 milioni vinti rispondendo ai quiz di Mike Bongiorno nel corso della trasmissione «Tele Mike» (Canale 5), si trasferisce negli Stati Uniti. È il 1998 quando Forti, sposato e padre di tre figli, viene arrestato per l'omicidio di Dale Pyke. Secondo l'accusa, Tony Pike (padre della vittima) e Forti avrebbero concluso un contratto preliminare per la compravendita di un albergo a Ibiza. Forti avrebbe tentato di truffare Pike, approfittando della condizione di debolezza psichica di quest'ultimo, allo scopo di ottenere un prezzo particolarmente vantaggioso; Dale Pike, avendo cercato di ostacolare la realizzazione della truffa, sarebbe stato assassinato da Forti. Le prove a suo carico, in realtà, si basavano su esili indizi. Oltre al presunto movente rappresentato dalla truffa (addebito poi archiviato), ad aggravare la sua situazione agli occhi degli inquirenti intervenne una dichiarazione falsa, poi ritrattata, rilasciata nel corso di un interrogatorio durato 22 ore senza l'assistenza di un avvocato. Altra prova addotta a suo carico: il ritrovamento nella sua auto, a distanza di tre mesi, di «un qualche granello» di sabbia, simile a quella presente nel luogo dove venne abbandonato il cadavere. È qui che scatta il cortocircuito logico nel quale precipitano gli inquirenti e i giudici. Infatti, «se - come ammesso dallo stesso procuratore nella requisitoria finale - Forti non è stato l'esecutore materiale dell'omicidio», non ci si spiega perché siano stati sostenuti e valorizzati davanti alla giuria quegli elementi prima ricordati, che avrebbero dovuto collegare l'imputato alla scena del crimine. O meglio, lo si può spiegare con l'intento di suggestionare la giuria stessa e orientarla verso un verdetto di colpevolezza. Cosa puntualmente accaduta con la condanna di Forti all'ergastolo senza condizionale come autore dell'omicidio di Dale Pike. Ciò che emerge - al di là della convinzione di ognuno sull'innocenza o la colpevolezza di Forti - è una serie di gravissime violazioni dei diritti e delle garanzie dell'accusato. Alessandro Paccione, che segue la vicenda su incarico di A Buon Diritto Onlus, le riassume così:

1) Negazione dei cosiddetti Miranda Rights. Forti fu sottoposto a un lungo e defaticante interrogatorio che lo metteva nella condizione di essere in «police custody»: situazione in cui una persona ragionevole non si sente libera di interrompere l'interrogatorio e congedarsi. Gli agenti gli avrebbero dovuto illustrare i suoi diritti (Miranda Rights) così che evitasse di incorrere in dichiarazioni autoincriminanti. Tale omissione avrebbe dovuto comportare l'inammissibilità delle prove ottenute in quelle circostanze.

2) Mancato rispetto dei requisiti di colpevolezza. Un imputato può essere condannato solo se e quando le prove a suo carico ne dimostrino la colpevolezza «beyond a reasonable doubt» (oltre ogni ragionevole dubbio). Questo principio, valido in tutti gli Stati Uniti, implica che i membri della giuria, qualora non vi sia un convincimento di colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, «non possono sostenere di condividere la verità dell'accusa». La sospensione di questo essenziale principio emerge nitidamente dalle parole del procuratore Rubin: «L'accusa non deve dimostrare che Forti è stato l'esecutore materiale allo scopo di provare che egli sia colpevole».

3) Violazione del Sesto emendamento della Costituzione federale. L'imputato ha diritto a ricevere un'assistenza legale efficace da parte del proprio avvocato. Quella del legale di Forti è stata segnata da condotte e omissioni che hanno fortemente minato la posizione del suo assistito agli occhi della giuria.

4) Violazione della Convenzione di Vienna. Questa prevede che, in caso di restrizione della libertà di un cittadino di un altro Stato sottoscrittore, le autorità consolari di quest'ultimo vengano avvertite e messe in condizioni di garantire un'adeguata difesa legale. Nonostante così palesi violazioni dei diritti dell'accusato, oggi non esiste più alcuna possibilità di revisione del processo. L'unica strada percorribile è il ricorso alla Convenzione di Strasburgo del 1983, in base alla quale una persona condannata in uno Stato diverso da quello d'origine, può ottenere di scontare la pena nel proprio paese, più vicino ai propri affetti. L'aspetto problematico è rappresentato dalla circostanza che la pena comminata dal Tribunale americano è quella dell'ergastolo senza condizionale, non prevista dall'ordinamento italiano. Una volta in Italia, dunque, Forti non potrà scontare la pena inflittagli negli Stati Uniti, ma occorrerà che, in sede di riconoscimento della condanna, la sanzione sia «adattata» alla legislazione nazionale. Di conseguenza, sono necessarie la massima intelligenza e la massima costanza da parte dell'Italia, nel condurre un'azione politica e diplomatica verso le autorità degli Stati Uniti. Dopo vent'anni da quella condanna iniqua, e dopo tanta indifferenza, sarebbe ora che, finalmente, la politica e la diplomazia italiane si dessero seriamente da fare.

Chico Forti, l’italiano condannato all’ergastolo e detenuto in Florida: “Sono innocente”. Il Dubbio il 16 luglio 2020.. Arrestato nel 1998, l’ex produttore televisivo è al centro di una battaglia diplomatica tra Usa e Italia per riaprire il caso. Tanti i dubbi sulla vicenda giudiziaria: a partire dal processo durato 24 giorni…Nuova mobilitazione oggi in piazza Montecitorio per Chico Forti, l’italiano condannato all’ergastolo negli Stati Uniti e detenuto da 20 anni in Florida. A lanciare l’appello questa volta è l’attore Enrico Montesano, che ha riunito i manifestanti invitando tutti i partiti a unirsi in una battaglia comune per riportare Forti in Italia. La sua vicenda ha inizio nel 1998. Forti è un velista e produttore televisivo di successo negli States quando il 15 febbraio di quell’anno viene arrestato per l’omicidio di Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale stava acquistando il Pikes Hotel. La struttura che negli anni ’80 era al centro della movida dell’isola di Ibiza. Dal 2000, anno in cui una giuria lo ha ritenuto colpevole “oltre ogni ragionevole dubbio”, si è sempre ritenuto innocente e sono tanti i dubbi che negli ultimi vent’anni hanno accompagnato la vicenda giudiziaria del nostro connazionale. Dubbi riemersi attraverso una serie di servizi del programma Le Iene che ricostruiscono l’intera storia. Il processo a Chico Forti, infatti, durato appena ventiquattro giorni, presenterebbe diverse lacune piuttosto sospette. Il movente, che sarebbe riconducibile alla trattativa per l’acquisto del Pikes Hotel regge poco, secondo la ricostruzione della iena Gaston Zama: in atto c’era si una truffa, ma proprio ai danni di un ignaro Chico Forti, e non al contrario come sostenuto dall’accusa; tant’è che prima della condanna per omicidio premeditato, l’italiano era stato assolto da otto capi d’accusa riguardanti la frode. Le prove a suo carico, secondo diversi esperti, sia italiani che americani, ai quali è stato chiesto un parere dal programma di Mediaset carte alla mano, sono traballanti e del tutto inammissibili. Chico Forti ha passato ormai 20 anni dietro le sbarre del Dade Correctional Institution di Florida City, un carcere di massima sicurezza, e l’Italia, di fatto, in tutto questo tempo non è riuscita ad ottenere una revisione del processo, che negli Stati Uniti è ammessa solo in caso emergano prove nuove, non considerate durante l’udienza che ha portato alla condanna. Perfino i familiari della vittima dopo anni sono usciti allo scoperto dichiarando apertamente le loro perplessità circa la colpevolezza di Forti. Sono numerosi gli italiani illustri che si sono esposti in prima persona chiedendo al governo italiano un intervento diplomatico deciso riguardo la situazione di Chico Forti. Per quanto riguarda la politica già nel 2012 Ferdinando Imposimato, all’epoca suo legale italiano, e la criminologa Roberta Bruzzone hanno presentato un report all’allora Ministro degli Esteri Giulio Maria Terzi di Sant’Agata, ma senza ottenere azioni significative che andassero oltre una pubblica manifestazione di vicinanza. Stesso discorso per il ministro successivo, Emma Bonino, che dichiarò l’interesse nei confronti della vicenda. Bocce ferme fino allo scorso dicembre, quando il Movimento 5 Stelle ha organizzato una conferenza stampa alla Camera per parlare specificatamente della questione. Chico Forti ha risposto all’iniziativa con un messaggio inviato direttamente al Ministro degli Esteri Di Maio: “Ciò che voglio è tornare in Italia, vivere il resto della mia vita da libero cittadino. Ciò che chiedo è giustizia. Una giustizia che mi è stata negata spudoratamente dal Paese che si proclama leader dei diritti umani”.“È rincuorante – scriveva ancora Forti – sapere che state collaborando per la mia causa uniti, indipendentemente dalle ideologie politiche. Senza il vostro intervento terminerò i miei giorni in un sacco nero, senza lapide. Io accetterò la deportazione e il veto a rientrare negli Stati Uniti. Lo accetterò perché non ho altra scelta. Sono agli sgoccioli di una riserva che ritenevo inesauribile. Sono stanco”.

Da iene.mediaset.it il 7 luglio 2020. Chico Forti deve morire in carcere negli Stati Uniti: il nostro connazionale è stato condannato all’ergastolo per l’omicidio di Dale Pike, avvenuto il 15 febbraio del 1998 a Miami. Da allora è rinchiuso in un penitenziario di massima sicurezza, ma non ha mai smesso di gridare al mondo la sua innocenza. Sulle indagini, il processo e la condanna a Chico Forti ci sono molti dubbi, nonostante per la legge americana si deve condannare qualcuno solamente “al di là di ogni ragionevole dubbio”. Il nostro Gaston Zama ha raccontato la vicenda del nostro connazionale nello Speciale de Le Iene che potete vedere integralmente qui sopra, e di cui qui vi proponiamo un breve sintesi, con i link, seguendo le sette parti in cui è suddiviso che potete trovare anche in fondo all'articolo.

In questa prima parte il nostro Gaston Zama ripercorre l'inizio della storia di Chico Forti: nel 1990 partecipa al quiz tv “Telemike” e vince oltre 80 milioni di lire. Con quel denaro Chico vola in America per iniziare una nuova vita. Diventa videomaker e produttore televisivo, realizzando reportage sugli sport estremi che vende a diverse emittenti americane. Lì il nostro connazionale si risposa e ha tre figli. La sua vita, proprio quando sembra diventare una favola, viene sconvolta all’improvviso. Il 14 febbraio 1998 Chico Forti va all’aeroporto di Miami a recuperare Dale Pike, figlio di Tony, da cui il nostro connazionale stava per rilevare il leggendario “Pike’s Hotels” di Ibiza. Il giorno dopo Dale viene trovato morto su una spiaggia, e Chico è sospettato di essere il responsabile dell’omicidio. Quando la polizia gli chiede se fosse andato a prendere Dale Pike all’aeroporto, dopo che gli hanno mentito sulla morte pure del padre Tony Pike, anche Chico mente. E lì inizia la sua discesa all’inferno.

Nella seconda parte dello Speciale Le Iene, il nostro Gaston Zama ripercorre la scoperta del corpo di Dale Pike su una spiaggia poco lontana dal ristornate Rusty Pelican, dove Chico Forti sostiene di averlo lasciato dopo averlo recuperato all’aeroporto. Da lì partono le indagini e con queste tutti i dubbi sul caso, comprese quelle sul movente dell’omicidio: una presunta truffa di Chico ai danni di Tony Pike, che però sembra proprio non reggere alla prova dei fatti. Tra questi dubbi, comunque, se ne aggiunge uno nuovo: l’avvocato di Chico Forti poteva davvero rappresentarlo oppure aveva un conflitto d’interessi tale da doversene astenere? Ed è vero che la firma del nostro connazionale su un importante documento è stata falsificata?

Nella terza parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama si concentra sullo strano ruolo avuto da un truffatore tedesco, Thomas Knott: secondo alcuni questo Knott sarebbe un colpevole molto più credibile di Chico Forti, a partire dal fatto che lui davvero aveva truffato Tony Pike e per questo ha ricevuto anche una condanna negli Stati Uniti. Inoltre si affronta anche la "seconda bugia" di Chico Forti, quella raccontata alla moglie: in una telefonata delle 19.16 di quella sera infatti il nostro connazionale nega anche con lei di aver raccolto Dale Pike all’aeroporto. Il telefono del nostro connazionale agganciò in una chiamata una cella vicina al luogo dove fu ritrovato il corpo di Dale Pike. In questa parte vi parliamo infine dell'autopsia e dei dubbi su un orario di morte eccessivamente preciso: dalle 18 alle 19.16.

Nella quarta parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama ci parla dei dubbi su Thomas Knott: in particolare il tedesco insieme a Chico aveva comprato una pistola che potrebbe essere quella del delitto. L’arma, intestata a Knott, era però stata pagata da Chico. Il commesso che vendette quella pistola però confermò che l’arma non era stata consegnata al nostro connazionale. Inoltre si affronta anche il tema del ritrovamento di una prova chiave. È la sabbia nell'auto di Chico, compatibile con quella della spiaggia in cui fu ritrovato il cadavere di Dale Pike: i dubbi sono molti anche su questo punto, sia per come era stata trattata l’auto di Chico mentre era sotto sequestro sia per la mancanza di foto di quei granelli nell’auto.

Nella quinta parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama racconta cosa è stato fatto, e cosa non è stato fatto, dai politici italiani per sostenere Chico. Dall'interesse di Franco Frattini, Giulio Terzo di Sant’Agata ed Emma Bonino si è giunto fino alle parole di Riccardo Fraccaro, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio, e all’intervento pubblico di Luigi Di Maio, l’attuale ministro degli Esteri.

Nella sesta parte dello speciale, Gaston Zama ci racconta della promessa del sottosegretario Fraccaro: “Chiederemo la grazia per Chico Forti”. Una promessa importante, la prima volta che un politico italiano si spinge così in là su questo caso. Intanto, dopo l’intervista a Chico in carcere, arriva anche il momento di sentire le voci dei figli Francesco Luce e Jenna Bleu: potete sentire quello che i due hanno da dire sulla loro vita e il rapporto con il padre cliccando qui.

In questa settima e ultima parte dello Speciale Le Iene, Gaston Zama si concentra su due elementi: il documentario di Chico sull’omicidio di Gianni Versace e in particolare sulla figura dell’assassino Andrew Cunanan. In questo video il nostro connazionale getta alcune ombre sul suicidio di Cunanan e, di riflesso, anche sulla polizia di Miami che qualche mese dopo avrebbe indagato sull’omicidio di Dale Pike. Inoltre si affronta un ultimo tema, quello del servizio di Dominick Dunne sul caso di Chico Forti: un documentario che, vedendolo senza sapere nulla della storia del nostro connazionale, restituisce un’impressione di sicura colpevolezza. Lo Speciale si conclude con una promessa: Chico, non abbiamo certo finito di occuparci del caso.

Chico Forti, in carcere da 20 anni senza prove nella Miami di Versace. Giulia Merlo su Il Dubbio il 24 Febbraio 2020. La storia dell’italiano condannato all’ergastolo per omicidio volontario si intreccia con l’assassinio dello stilista. Ventiquattro giorni bastano per passare da imprenditore di successo a ergastolano in una cella della Florida, condannato da una giuria popolare per un omicidio in concorso con ignoti, senza prove e senza movente. Era il 15 giugno 2000 e la vita di Enrico detto Chico Forti, ex campione di windsurf, produttore televisivo e imprenditore nato a Trento nel 1959, cambia per sempre. A vent’anni di distanza tutti scontati nel Dade Correctional Institution di Florida City, Forti continua a gridare di essere vittima di un errore giudiziario. Del suo caso si sono occupati Ferdinando Imposimato, suo legale italiano, e la criminologa Roberta Bruzzone: nel 2012 hanno presentato un report all’allora Ministro degli Esteri, Giulio Maria Terzi, per presentare richiesta di revisione. I media italiani hanno continuato a tenere alta l’attenzione sul caso Forti, anche grazie agli sforzi costanti della famiglia, e nei giorni scorsi il titolare della Farnesina, Luigi Di Maio, è tornato a occuparsi del detenuto italiano, chiamando l’ambasciatore italiano a Washington, Armando Verricchio. «In queste ore mi sto recando a Roma per avere novità», ha confermato Gianni, lo zio di Chico che non si è mai rassegnato all’ingiusta detenzione del nipote. Per ricostruire una vicenda che intreccia errori giudiziari, scorrettezze investigative ma soprattutto l’ombra sinistra di un omicidio illustre, quello dello stilista italiano Gianni Versace proprio a Miami, bisogna ritornare a quella fine degli anni Novanta, nelle assolate spiagge della Florida. Chico Forti, fisico atletico grazie ad anni di attività agonistica, si è trasferito in Florida nel 1992 grazie ad un incredibile colpo di fortuna. Nel 1990, fresco di convalescenza dopo un brutto incidente d’auto che ne ha interrotto la carriera di windsurfer, Forti partecipa allo gioco a premi televisivo “Telemike”, condotto da Mike Bongiorno, presentandosi sulla storia del windsurf e vince una forte somma di denaro che gli permette di trasferirsi negli States. Qui si sposa con la modella Heather Crane con la quale ha tre figli, Savannah Sky, Jenna Bleu e Francesco Luce, trova casa in un quartiere residenziale di Miami e si dedica all’attività di produttore di filmati di sport estremi. Inoltre, per arrotondare le entrate, inizia anche a fare l’intermediatore immobiliare. La vita della famiglia Forti procede tranquilla in un ambiente molto europeo: Miami è la città che ospita una comunità italiana molto nutrita di circa 300mila persone, per la maggior parte ricchi imprenditori, attivi nella moda e nella produzione di barche di lusso. Miami, però, è anche nota come “Miami Vice”, o la città del vizio. Del vizio e della criminalità: a partire dagli anni Ottanta, la città della Florida è il più grande punto di transito della cocaina proveniente dalla Colombia, dalla Bolivia e dal Perù e il flusso di droga porta milioni di dollari, corruzione a tutti i livelli e una escalation di crimini violenti, tanto da farla diventare una delle città più pericolose d’America.

Il delitto Versace. E’ qui che, il 15 luglio 1997, sotto gli occhi di molti testimoni viene freddato con due colpi di pistola alla testa Gianni Versace. L’assassino scappa ma viene subito identificato come Andrew Cunanan, gigolò ventisettenne accusato dell’omicidio di altre quattro persone. Il 24 luglio un custode dà all’allarme: in una casa galleggiante è nascosto un uomo che potrebbe essere Cunanan. Fbi, polizia, vigili del fuoco e guardia nazionale circondano l’abitazione e fanno irruzione. Trovano il cadavere del ragazzo, che sembra essersi sparato un colpo alla testa, ma qualcosa sulla scena non quadra. Il detective del Miami Beach Police Department, Gary Schiaffo inizia a indagare, è convinto che Cunanan sia stato ucciso altrove per poi inscenarne il suicidio. La morte di Versace attira l’interesse dei media di tutto il mondo e sconvolge la comunità italiana di Miami. Chico Forti, che già si occupa di produzioni televisive, si appassiona al caso apparentemente risolto ma in realtà per nulla chiaro e progetta di fare un documentario. A Miami conosce molte persone e si muove con facilità: grazie al vicino di casa tedesco Thomas Knott entra in contatto con il proprietario della casa in cui è stato trovato Cunanan e acquista i diritti per fare delle riprese, poi conosce anche Schiaffo, che gli fornisce un rapporto segreto e un referto medico che mettono in dubbio la versione ufficiale dei fatti. Il detective dovrebbe fornirgli anche alcune fotografie ma il rapporto si incrina forse a causa di ragioni economiche e si interrompe bruscamente. Intanto, però, il documentario-inchiesta sulla morte del presunto assassino di Versace è pronto ed espone l’attacco alla casa galleggiante come una clamorosa messinscena della polizia. Si intitola “Il sorriso della Medusa” e viene trasmesso in esclusiva su Rai3 nel 1997, adombrando responsabilità e corruzione della polizia di Miami Beach, che avrebbe coperto i veri responsabili del delitto dello stilista.

La calibro 22. Non vanno dimenticati, i nomi di Knott e Schiaffo. Aiutano Forti a produrre il suo documentario, avranno un ruolo determinante nel suo arresto. Pochi mesi dopo l’omicidio Versace, esattamente il 16 febbraio 1998, in un boschetto che delimita una spiaggia di Miami, viene trovato il corpo nudo del quarantaduenne Dale Pike, ucciso con due colpi di calibro 22 alla testa probabilmente la sera prima. Pike è figlio di Anthony Pike, proprietario di hotel a Ibiza in fallimento, ed è arrivato a Miami il giorno della sua morte con un biglietto dalla Malesia, pagato da Chico Forti. Tra i suoi effetti personali c’è anche una tessera telefonica e tra gli ultimi numeri chiamati c’è quello di Forti. Chico non ha mai conosciuto Dale ma sta trattando con il padre Anthony per l’acquisto del suo hotel a Ibiza, grazie all’intermediazione del vicino di casa Knott. Le carte sono pronte e firmate, Pike vuole andare all’incasso perchè non ha più un soldo e anzi chiede a Forti di pagare sia a lui che al figlio il biglietto aereo per Miami. Quello che Forti non sa è quell’albergo è un “white elephant”, un elefante bianco, ovvero una truffa. Pike e Knott sono due truffatori: Knott è stato condannato in Germania ed è fuggito dal paese proprio grazie a Pike; Pike non è più proprietario dell’hotel ed è sommerso dai debiti, inoltre la sua firma non ha valore legale perchè è interdetto. Pike figlio, dunque, sbarca in America a spese di Forti e il padre, che arriverà tre giorni dopo, chiede al nuovo amico italiano di prendersene cura. Forti lo va a prendere in aeroporto alle 18.30 del 15 febbraio e Dale gli chiede di accompagnarlo al parcheggio di un lussuoso ristorante, dove dice di avere un appuntamento con alcuni amici di Knott. Forti lo lascia vicino a una Lexus bianca e gli dà appuntamento il giorno dell’arrivo del padre. Dale viene ucciso poche ore dopo e l’arma del delitto non viene mai trovata.

L’accusa. Forti viene a conoscenza della morte di Dale solo tre giorni dopo: è a New York per incontrare Anthony Pike ma l’uomo non c’è. Così torna a Miami e il 19 febbraio va spontaneamente alla polizia, come persona informata dei fatti. Qui inizia la sequenza di violazioni dei diritti di Chico Forti. Lui non lo sa, ma la polizia lo considera già il principale indiziato per l’omicidio: i poliziotti lo interrogano senza un avvocato e gli mentono, dicendo che anche Anthony è stato trovato morto a New York, Forti si spaventa e commette l’errore che porta al precipitare degli eventi. Nell’interrogatorio registrato nega di aver mai incontrato Dale Pike o di essere andato a prenderlo all’aeroporto. Spaventato, la sera stessa chiama Gary Schiaffo, ormai in pensione e che lavora come detective privato, e gli chiede consiglio su come procedere. L’ex poliziotto lo rassicura e per questo Forti il giorno dopo torna al commissariato per consegnare i documenti della falsa compravendita dell’hotel. Immediatamente viene arrestato e sottoposto a 14 ore di interrogatorio, durante il quale ammette la menzogna e l’incontro con Dale Pike. Al momento dell’arresto, le accuse sono di frode per la compravendita dell’hotel, circonvenzione d’incapace ai danni di Anthony Pike e concorso in omicidio di Dale Pike. Liberato su cauzione, nei venti mesi seguenti cadono le accuse di frode (anche perchè il truffato sarebbe stato proprio Forti, visto che l’hotel non era più di Pike), ma l’accusa utilizza proprio questo come movente per il delitto. «La teoria dello Stato sul caso era che Enrico Forti avesse fatto uccidere Dale Pike perché Forti sapeva che Dale avrebbe interferito con i piani di Forti per acquisire dal padre demente, in modo fraudolento, il 100% di interesse di un hotel di Ibiza. Dale aveva viaggiato verso Miami dall’isola di Ibiza in modo che Forti avrebbe potuto “mostrargli il denaro” – quattro milioni di dollari richiesti per la transazione – per l’acquisto dell’albergo di suo padre. Forti semplicemente non lo aveva. Invece, Forti incontrò Dale all’aeroporto e lo condusse alla morte», scrive il pubblico ministero che istruisce il caso, Reid Rubin.

La trappola. Non esiste alcuna prova ma contro Forti lavorano sia l’accusa che l’avvocato difensore. Le indagini preliminari sul caso Pike vengono affidate ai detective Catherine Carter e Confessor Gonzales, entrambi parte della squadra investigativa di Schiaffo; lo stesso Schiaffo con cui Forti ha avuto screzi economici è alle dipendenze del pubblico ministero Reid Rubin proprio quando Forti gli chiede aiuto e viene mal consigliato. Infine, la conduzione del processo viene affidata a Victoria Platzer, anche lei membro della squadra di Schiaffo prima di essere nominata giudice. Tutti loro sono al corrente del documentario “Il sorriso della medusa” e del fatto che abbia screditato, con nomi e cognomi, l’operato della polizia di Miami, accusandola di corruzione. A carico di Forti esistono solo due indizi: l’arma del delitto non è mai stata trovata, ma sulla carta Chico Forti ha comprato una calibro 22 qualche giorno prima l’omicidio. In realtà, il commesso del negozio testimonia che la pistola viene scelta e presa da Thomas Knott, che era in compagnia di Forti e a cui aveva chiesto di anticipare i soldi perchè senza portafoglio. L’altra prova è la scheda telefonica accanto al cadavere con le chiamate della vittima al cellulare di Forti. Entrambe, però, a tempo zero di conversazione e avvenute prima ancora che Dale scendesse dall’aereo. Inoltre, si tratta di una scheda acquistabile solo negli Stati Uniti e dunque Pike non avrebbe potuto usarla: sarebbe, dunque, una prova messa ad hoc accanto al cadavere per incastrare Forti. Infine, a giocare contro Forti è anche il suo stesso legale Ira Loewy, tanto da far sospettare collusione con l’accusa (al momento dell’istruttoria del processo, lavorava come sostituto procuratore aggiunto nell’ufficio accanto a Reid Rubin). Addirittura, l’avvocato non avrebbe mai potuto patrocinare il caso per conflitto di interessi. La sua responsabilità più grave, tuttavia, è di aver concesso l’ultima parola all’accusa nella fase finale del processo: in questo modo Rubin ha potuto convincere la giuria, senza essere smentito, che il movente della truffa fosse esistente, nonostante Forti fosse già stato assolto dal reato. Forti viene condannato con la seguente motivazione: “La Corte non ha le prove che lei sig. Forti abbia premuto materialmente il grilletto, ma ho la sensazione, al di là di ogni dubbio, che lei sia stato l’istigatore del delitto. I suoi complici non sono stati trovati ma lo saranno un giorno e seguiranno il suo destino. Portate quest’uomo al penitenziario di Stato. Lo condanno all’ergastolo senza condizionale”. Nessuna prova oggettiva, nessun testimone, nessuna impronta, niente arma del delitto, movente inesistente. Per questo, da vent’anni, Forti grida la sua innocenza e chiede l’intervento dell’autorità italiana: per ora, gli appelli promossi per controvertire questa sentenza sono stati tutti rifiutati senza motivazione, ma la famiglia spera che il recente nuovo interessamento dell’Italia al caso Forti possa portare a qualche novità, per uno dei casi di malagiustizia più clamorosi della storia recente.

Alessandro Dell'Orto per "Libero quotidiano" il 7 giugno 2021. Il documento che potrebbe finalmente sbloccare il ritorno in Italia di Chico Forti resta introvabile e, anzi, diventa un mistero, ma almeno ora il problema è evidente a tutti. A chi - amici, parenti o persone ragionevoli che si sono semplicemente documentate - ha sempre creduto nell' innocenza di Chico, che sta scontando la condanna negli Usa dal 15 giugno 2000 per il presunto omicidio (mai davvero dimostrato) di Dale Pike il 15 febbraio 1998 a Miami; al mondo politico italiano che in 21 anni se ne è sempre fregato (a parte Giulio Terzi e, sei mesi fa, Di Maio che almeno ci ha messo la faccia, ma poi sembra essersi accontentato); agli organi competenti, che ora devono dare risposte precise. Già, perché dopo l'interminabile attesa, la speranza e la delusione, il caso di Chico non può restare per altro tempo sospeso tra ipocrisie, disinteresse, superficialità, pigrizia e incomprensioni internazionali. Ecco perché, a seguito della denuncia di Libero, i social ieri si sono scatenati tra indignazione e accuse, chiedendo giustizia per l' imprenditore italiano e pretendendo chiarezza sui documenti che il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d' America avrebbe dovuto mandare al nostro ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena (l' ergastolo senza condizionale - cioè il detenuto esce solo da morto - cui è stato condannato Chico non esiste nel nostro ordinamento), permettendo così alla pratica di essere trasferita da noi (arrivati nel Paese di espiazione della pena, il destino giudiziario viene deciso dalla magistratura locale sulla base delle leggi del posto. Per Chico si è mossa la gente comune, ma il caso è diventa subito politico. Il leader della Lega Matteo Salvini ha inviato un messaggio alla zia di Forti («Buona domenica Wilma.  Ma come mai tutto questo ritardo per rivedere Chico in Italia??») e ha espresso preoccupazione («Doveva da tempo essere trasferito dagli Stati Uniti all' Italia, ma i mesi passano e non sembrano esserci novità. Dopo aver letto alcune notizie di stampa allarmanti, che parlano di problemi burocratici che avrebbero bloccato tutto, sono tornato a scrivere alla famiglia per mettermi a loro totale disposizione come già successo in passato. La Lega segue la vicenda ed è a disposizione per dare una mano: bisogna fare di tutto per riportare Chico Forti a casa»). Mentre la Farnesina ha spiegato: «Quella relativa al trasferimento in Italia di Forti è una procedura complessa che vede coinvolte diverse amministrazioni degli Stati Uniti, in particolare lo Stato della Florida e il dipartimento della Giustizia federale degli Stati Uniti. Da parte italiana, in questa fase il ministero della Giustizia segue direttamente la fase del trasferimento. Contestualmente l'ambasciata italiana a Washington e la Farnesina seguono gli sviluppi del caso. In particolare il ministro Di Maio ne ha discusso più volte con il segretario di Stato, Antony Blinken». Tante parole, ma in realtà poche risposte concrete (il famoso documento dov' è? È partito? È arrivato?) e troppa diplomazia, che lascia quasi la sensazione che anche all' interno del governo la questione non sia chiara a tutti. Perché mentre la Farnesina diceva genericamente che la situazione è complessa, il ministero della Giustizia ha fatto luce su alcuni punti fondamentali della questione, precisando che «ad oggi gli Stati Uniti non hanno mai trasmesso all' Italia la documentazione prevista per il trasferimento di Enrico Forti, detenuto in un penitenziario della Florida. Il Ministero della Giustizia non ha quindi ricevuto alcun faldone, né documento utile all' estradizione del cittadino italiano, condannato per omicidio nel 2000. Al contrario, l'ultimo atto pervenuto dagli Stati Uniti è una lettera del Department of Justice di Washington, datata 26 febbraio, in cui si fa presente che il Governatore dello Stato della Florida sollevava ulteriori richieste di chiarimenti, a cui la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha subito dato seguito. L' ultima comunicazione formale è una lettera inviata dalla Guardasigilli lo scorso 10 marzo al Governatore dello Stato della Florida, per "attirare la sua attenzione sul caso" e fornire ulteriori rassicurazioni, al fine di favorire il trasferimento in Italia di Forti». E ancora, il ministero della Giustizia ha svelato che «ad oggi i competenti uffici del ministero della Giustizia, che hanno lavorato in coordinamento con quelli del ministero degli Affari Esteri, non hanno ricevuto alcuna risposta a questa lettera, di cui la Guardasigilli ha parlato anche nell' incontro con l'Incaricato d' affari americano in Italia. La Ministra Cartabia continuerà a sollecitare con vigore, in tutte le sedi opportune, l'estradizione in Italia di Enrico Forti». Ora, almeno, sappiamo che l'imbuto della questione è ancora negli Usa e che i rapporti restano complicati, vista la lentezza con cui gli Stati Uniti affrontano la questione. «Il risultato, però, è che sembra un gioco allo scaricabarile - dice con delusione Gianni Forti, lo zio di Chico -. Se io invio una richiesta e non ricevo risposta, dopo un po' mi rifaccio vivo e sollecito la persona cui ho scritto senza far passare troppo tempo. A questo punto mi aspetto un intervento ufficiale dello Stato italiano». Anche perché tra indignazione social, discussioni politiche e giustificazioni, a farne le spese è sempre lui, Chico. Che viveva felicemente a Miami, amava la vela (ha partecipato a sei mondiali e due europei di windsurf) e faceva il produttore cinematografico fin quando, nel 1998, senza motivo, è stato incolpato di aver ucciso Dale Pike, figlio di Anthony Pike, dal quale stava acquistando il Pikes Hotel a Ibiza. Che dal 2000 sta scontando l'ergastolo in Florida dopo essere stato condannato senza prove. Che ora ha 62 anni ed è rinchiuso in una prigione in attesa di trasferimento, che sei mesi fa è stato illuso di tornare presto in Italia, ma che ogni mattina si sveglia e capisce che il suo maledetto incubo - tra tanti blablabla - non è ancora finito.

Sono passati 6 mesi dall'annuncio dell'estradizione. Chico Forti “è stremato”, appello a Cartabia: “Risolvete i problemi burocratici con gli Stati Uniti”. Redazione su Il Riformista l'8 Giugno 2021. Era il 23 dicembre 2020 quando Luigi Di Maio, ministro degli Esteri, annunciò il ritorno in Italia di Chico Forti, il 62enne produttore televisivo e velista detenuto dal 2000 negli Stati Uniti dove sta scontando una condanna all’ergastolo per omicidio, nell’ambito di una vicenda giudiziaria piena di punti oscuri e aspetti da chiarire, con il diretto interessato che si è sempre dichiarato innocente. Quasi sei mesi dopo non c’è ancora una data ufficiale del ritorno, in carcere, nel suo Paese natale. A lanciare un appello alle istituzioni è Gianni Forti, zio dell’imprenditore trentino: “Chico ormai è allo stremo. Sì è vero, è un combattente nato. Ma stavolta è al limite. In questi mesi di pandemia, abbiamo avuto anche problemi a sentirlo con continuità. E’ isolato dal mondo. Poco prima di Natale dell’anno scorso, il ministero degli Esteri aveva annunciato che il trasferimento in Italia ormai era cosa fatta – continua Forti – Bene, ad oggi solo silenzio. Questa tragedia familiare, oltre che giudiziaria, non ha fine. A questo punto siamo costretti a chiedere al governo risposte certe”. Alla base del ritardo, dopo l’annuncio festante di Di Maio, ci sarebbero problemi burocratici: i documenti, che il dipartimento della giustizia degli Stati Uniti avrebbe dovuto mandare al ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena e relativo trasferimento, non sarebbero mai arrivati in Italia. “Senza questi documenti Chico non può rientrare – sottolinea Gianni Forti – Dall’annuncio del ministro Di Maio sembrava che sarebbero passate poche settimane, lo aspettavamo il 14 febbraio per il compleanno della mamma che ha compiuto 93 anni, poi a Pasqua, infine a maggio. Invece, ancora niente. Siamo fermi al palo”. “L’ultima mail di Chico Forti – prosegue lo zio –  è della settimana scorsa: si trova ancora in un carcere statale della Florida. Per l’estradizione in Italia deve essere prima trasferito in una prigione federale dal Dipartimento di giustizia americano. Se il governo italiano non sollecita gli americani, loro di certo non si fanno prendere dalla fretta – dice Gianni Forti -. La Farnesina ha fatto il suo lavoro, ora deve farlo il ministero della Giustizia. Se la prima lettera alle autorità americane non ha avuto risposta, spero che la ministra Cartabia ne invii un’altra. Ormai le mail di Chico arrivano a singhiozzo. Nell’ultima, a parte cose personali, ha scritto che ha piena fiducia che le istituzioni italiane accorceranno il più possibile la sua attesa. Ma si capisce che è una situazione atroce”. Un appello, dalle pagine del quotidiano Libero, è stato lanciato anche dalla mamma di Chico Forti, la signora Maria, 93enne. “Non lo vedo dal 2008, ormai non mi resta molto tempo. E’ fondamentale l’intervento del Governo per sbloccare gli ostacoli burocratici”.

Niccolò Magnani per ilsussidiario.net il 6 giugno 2021. Sembra non esserci proprio pace per Chico Forti, l’ex campione velista condannato per omicidio in Florida (ma si è sempre dichiarato vittima di un errore giudiziario, confermato anche dal fratello della vittima Dale Pike) che dovrebbe tornare in Italia dopo 22 anni di detenzione a Miami: come spiega oggi “Libero Quotidiano”, la famiglia Forti è disperata perché sarebbero sparite le carte utili per eseguire la “promessa” fatta dal Governatore della Florida di trasferire Chico in Italia avvalendosi dei benefici previsti dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU). Il faldone con i documenti utili a sbloccare il ritorno nel nostro Paese dell’ex produttore e campione di windsurf dovrebbe essere stato inviato «dal dipartimento della giustizia degli Stati Uniti d’America al nostro Ministero della Giustizia per accordarsi sulla commutazione della pena». A Miami Chico è stato condannato all’ergastolo senza condizionale nel 2000 e vi potrebbe uscire, per legge, solo da morte da quella prigione: con il documento invece in questione, vi sarebbe possibile il trasferimento dato che «arrivati nel Paese di espiazione della pena il destino giudiziario viene deciso dalla magistratura locale sulla base delle leggi del posto», spiega ancora Libero. Il problema è che ora quel documento sembra del tutto sparito e nessuno sa dove sia finito: «La situazione è bloccata, sembriamo fermi a un binario morto e spero solo che Di Maio, che è stato l’unico che ci ha messo la faccia, non ci abbandoni», spiega lo zio di Chico, Gianni Forti a “Libero Quotidiano”. Lo scorso inizio maggio la famiglia del condannato in Usa ha parlato con l’ex Ministro Fraccaro e gli è stato spiegato che vi era un ritardo nella consegna di quei documenti da parti dei vertici del dipartimento federale Usa insediato da poche settimane dopo l’elezione di Joe Biden. Dal parlamentare M5s è stato però anche annunciato che comunque il faldone presto sarebbe stato in mano al Ministero italiano ma ora ad inizio giugno, a distanza di un mese, ancora non se ne sa nulla. «Non sappiamo a chi rivolgerci, non abbiamo il riferimento di una persona fisica», dichiara ancora lo zio di Chico disperato, lui come l’intera famiglia compresa ovviamente la mamma Maria che a 93 anni si alza ogni giorno con la speranza di poter rivedere suo figlio. Dopo l’enorme cassa di risonanza mediatica frutto di numerosi appelli del mondo dello spettacolo fino al programma “Le Iene” per il ritorno in Italia di Chico Forti, lo scorso 23 dicembre il Ministro degli Esteri Di Maio annunciava su Facebook l’accordo con il Governatore della Florida per l’istanza accolta di trasferimento in Italia, «avvalendosi dei benefici previsti dalla CEDU […] Si tratta di un risultato estremamente importante, che premia un lungo e paziente lavoro politico e diplomatico». Il dossier esiste? Non è ancora stato inviato dagli Usa? È stato perso in Italia? Sembra assurdo, ma dopo tutto quanto avvenuto negli ultimi 22 anni ora che si è praticamente alla linea del traguardo nuovamente si interrompe tutto: si spera, a questo punto, che sia questo davvero l’ultimo appello al Governo italiano per dirimere ogni ostacolo prima del “lieto fine”.

La svolta della Consulta su Regeni: le spie egiziane verso il processo. LAURA CAPPON su Il Domani il 27 settembre 2023

L’ultimo e disperato atto per portare i quattro agenti egiziani a processo per il sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni ha funzionato. Dopo quasi una settimana dalla camera di consiglio, la Consulta ha dichiarato “anticostituzionale" la norma che sino a ora aveva bloccato il procedimento in Italia.

L’ultimo e disperato atto per portare i quattro agenti egiziani a processo per il sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni ha funzionato. Dopo quasi una settimana dalla camera di consiglio, la Consulta ha dichiarato “anticostituzionale" la norma che sino a ora aveva bloccato il procedimento in Italia. L’Egitto, infatti, non ha mai fornito i recapiti degli uomini della National Security egiziana. Li ha resi irreperibili per la notifica degli atti senza la quale, sino a ieri, per il nostro ordinamento giudiziario, non si può celebrare un processo in contumacia.

«In attesa del deposito della sentenza - dice una nota inviata dall'ufficio comunicazione - la Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che il giudice procede in assenza per i delitti commessi mediante gli atti di tortura definiti dall’art. 1, comma 1, della Convenzione di New York contro la tortura, quando, a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato, è impossibile avere la prova che quest’ultimo, pur consapevole del procedimento, sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, fatto salvo il diritto dell’imputato stesso a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa».

Gli agenti si chiamano Sabir Tariq, Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Per la procura di Roma sarebbero tra i responsabili del rapimento e della tortura del giovane ricercatore nel gennaio del 2016. Finora, senza la certezza che i quattro avessero ricevuto notifica formale del procedimento a loro carico, la giustizia italiana non ha mai potuto celebrare il processo. Nell’autunno del 2021, la Corte di Assise di Roma, lo aveva sospeso (decisione poi confermata dalla Cassazione) e la palla era tornata al Gup. Intanto, le pressioni diplomatiche continuavano a non funzionare. Per le autorità egiziane, infatti, il caso è chiuso ormai da anni. Per loro i responsabili della morte di Giulio Regeni sono una banda di rapitori stranieri. Una tesi che le autorità del Cairo hanno portato avanti sin dall’inizio di questa vicenda. Nel 2016, pochi mesi dopo il ritrovamento del corpo di Regeni nella periferia del Cairo, inscenarono un agguato dove persero la vita cinque presunti banditi. A casa della sorella di una delle vittime vennero fatti ritrovare i documenti del giovane ricercatore, mentre un comunicato del Ministero dell’Interno egiziano diceva che i componenti della banda sarebbero stati «legati all’omicidio» di Regeni.

Allora questo maldestro tentativo di insabbiare le indagini provocò il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo ma negli anni questa tesi è rimasta in piedi e ha rischiato di porre una pietra tombale anche al procedimento italiano. Secondo Il Cairo, infatti, non era possibile cha la giustizia egiziana collaborasse dando gli indirizzi dei quattro agenti della National Security. In Egitto il caso era risolto e i colpevoli individuati dalle indagini della autorità locali erano altri. Ricorrere alla Consulta era l’ultima soluzione percorribile per sbloccare una situazione diventata quasi impossibile. «Le norme costituzionali che indicano le basi del giusto processo sono completamente pretermesse – aveva scritto il GUP - perché in mancanza di una disciplina che consenta di procedere in assenza dell’imputato quando il suo stato di appartenenza o di residenza non cooperi con il giudice terzo e imparziale, tutte le norme sul giusto processo sono rese vane svuotate di contenuto»

Ora, in vista del processo, la scarsa collaborazione che le autorità egiziane hanno dimostrato in questi anni continuerà a pesare. Sono evidenti nelle migliaia di pagine dell’inchiesta della Procura di Roma che Domani ha avuto l’opportunità di visionare. I documenti inviati dall’Egitto, che negli anni ha collaborato a singhiozzo sfruttando anche l’assenza di accordi di cooperazione giudiziaria tra Il Cairo e Roma, mostrano diverse lacune. Gli agenti del Ros e dello Sco che arrivarono al Cairo nel 2016 dopo l’uccisione del ricercatore di Fiumicello ebbero poca libertà di movimento. Gli interrogatori, anche degli agenti imputati sentiti come persone informate sui fatti, arrivano dalle stesse autorità egiziane. Molti verbali sono redatti a mano in arabo sui dei fogli protocollo; in altri mancano le date di nascita o il documento di identità. Ciò che è certo è che la decisione della Consulta segna una svolta per un processo che sino a ieri, a causa anche della scarsa pressione delle autorità italiane, rischiava di non essere mai celebrato.

LAURA CAPPON. Giornalista, nel 2011 si trasferisce in Egitto per seguire gli anni del post rivoluzione egiziano. Ha lavorato per Rai 3, Skytg 24, Il Fatto Quotidiano, Al Jazeera English, The New Arab e Radio Popolare. Nel 2013 ha vinto il premio l'Isola che c'è per la copertura del colpo di stato egiziano e nel 2017 il premio "Inviata di Pace "del Forum delle giornaliste del Mediterraneo per i suoi articoli sulla morte di Giulio Regeni. È inviata per Mezz'ora in più, su Rai 3.

Processo Giulio Regeni, una corsa a ostacoli con tempi lunghi. I genitori: «Roma cambi atteggiamento con l’Egitto». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera giovedì 28 settembre 2023. 

L’udienza preliminare tra novembre e dicembre, in primavera al via il dibattimento 

Quello rimosso dalla Corte costituzionale era l’insormontabile impedimento che teneva bloccato il processo ai quattro militari egiziani imputati del sequestro, le torture e la morte di Giulio Regeni. Dunque la sentenza della Consulta farà ripartire — appena sarà pubblicata, entro qualche settimana — l’udienza preliminare sospesa dal giudice Roberto Ranazzi il 31 maggio scorso. Ma tolto quel macigno, restano molti ostacoli sulla strada del processo a carico del generale Sabir Tariq, i colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmy Uhsam, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. La Procura di Roma li ritiene responsabili del rapimento di Giulio al Cairo, la sera del 25 gennaio 2016, e uno di loro — il maggiore Sharif — anche delle violenze subite dal ricercatore italiano durante i giorni della prigionia fino all’uccisione, il 3 febbraio.

A tenerli al riparo dalla giustizia italiana ci sono anzitutto le autorità egiziane, politiche e giudiziarie. La Procura generale della Repubblica araba, a dicembre 2020 ha dichiarato una sorta di «non doversi procedere» nei confronti degli imputati perché «è da escludere ciò che è stato loro attribuito». Paola e Claudio Regeni, insieme all’avvocata Alessandra Ballerini, ribadiscono via Facebook che «l’autorità dittatoriale per la quale lavorano e per conto della quale hanno agito li protegge e ha tentato in ogni modo di impedire il processo». Di qui l’ausipicio dei genitori di Giulio — «nuovamente fiduciosi per il ripristino del diritto alla verità» — che «chi in questi anni è andato a omaggiare il dittatore al-Sisi e i suoi ministri, giustificandosi davanti a un’indignata opinione pubblica millantando una collaborazione egiziana inesistente, oggi prenda atto delle menzogne e cambi drasticamente atteggiamento».

Quando riprenderà l’udienza davanti al giudice Ranazzi (verosimilmente tra novembre e dicembre), comincerà una nuova corsa a ostacoli. I difensori d’ufficio dei quattro imputati riproporranno le eccezioni preliminari già avanzate davanti al precedente gup, quello che ordinò il rinvio a giudizio poi annullato dalla corte d’assise fermatasi perché non c’era certezza che le persone alla sbarra fossero a conoscenza dell’inizio del dibattimento. Ora questa questione è stata risolta dalla Corte costituzionale, dunque si potrà procedere anche in assenza degli accusati, però si dovrà ricominciare daccapo. E la prima eccezione sarà quella dell’identificazione certa degli imputati.

I nomi finiti sui registri della Procura di Roma furono forniti all’epoca dagli stessi egiziani, quando il pubblico ministero Sergio Colaiocco chiese a chi si potessero attribuire i telefoni cellulari identificati dalla polizia italiana sui luoghi della sparizione di Giulio. Insieme alle identità arrivarono anche i verbali d’interrogatorio condotti dai magistrati del Cairo, nei quali i militari negarono ogni coinvolgimento nel caso Regeni, ma agli atti mancano luoghi e date di nascita, oltre naturalmente agli indirizzi di residenza. Ci sono solo numeri di documenti d’identità che la giustizia italiana ha ritenuto finora sufficienti, ma gli avvocati devono ripresentare in ogni grado le loro istanze, nell’ipotesi che prima o poi qualcuno possa accoglierle.

In ogni caso un nuovo rinvio a giudizio davanti a una corte d’assise (la stessa del 2021 o un’altra) a questo punto sembra scontato. Il dibattimento potrebbe iniziare nella primavera del 2024, ma pure quello non sarà un percorso semplice né breve. Oltre alla ripetizione delle questioni preliminari (fatta salva la contumacia risolta definitivamente dalla Consulta), la raccolta delle prove davanti ai giudici prevista dal codice sarà molto accidentata. 

Per dirne una, forse la più rilevante e complicata: bisognerà rintracciare e convocare i testimoni d’accusa che la Procura ha interrogato (a volte a distanza) tra il 2o17 e il 2020, affinché ripetano quello che hanno detto. Ci si riuscirà? La loro identità è stata coperta dai codici Alfa, Beta, Gamma e via di seguito, nel processo non sarà più possibile. Meno difficile dovrebbe essere ascoltare i testimoni «scoperti», dal sindacalista Abdallah ai coinquilini di Giulio o altri che hanno fornito indizi a carico degli imputati. Ma anche su di loro non ci sono certezze. La cooperazione giudiziaria tra Stati, finora pressoché inesistente a parte la fase iniziale delle indagini, sarà di nuovo necessaria.

Eccezione alla regola. La decisione sensata della Consulta e il processo agli imputati accusati della morte di Regeni. Guido Stampanoni Bassi su L'Inkiesta sabato 30 settembre 2023.

La Corte Costituzionale ha accolto la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma e “sbloccato” la possibilità di procedere senza aver informato i presunti colpevoli. In questo modo ha creato un precedente e si presta al rischio che la sentenza conclusiva possa non essere mai eseguita 

«Sensata» e «politica» sono gli aggettivi che più hanno accompagnato la decisione con cui la Corte Costituzionale, accogliendo la questione di costituzionalità sollevata dal Tribunale di Roma, ha “sbloccato” il processo nei confronti dei quattro imputati egiziani accusati del sequestro, delle torture e della morte di Giulio Regeni.

E, in effetti, a tutti appariva un non-senso che non si potesse celebrare il processo nei confronti dei quattro imputati accusati di un crimine così grave, nonostante fosse sostanzialmente certo che gli stessi ben sapessero dell’esistenza del procedimento nei loro confronti. E allora, come ci insegna Lewis Carroll in “Le avventure di Alice nel Paese delle Meraviglie”, «se il mondo non ha assolutamente alcun senso, chi ci impedisce di inventarne uno?».

La questione, come ormai tutti sappiamo, era relativa alla possibilità di procedere in assenza dell’imputato nei casi – come quello in esame – in cui, da un lato, non era stato possibile portare gli atti a conoscenza degli interessati (sebbene a causa del rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza) e, dall’altro, vi era la ragionevole certezza che, alla luce del clamore mediatico, gli stessi fossero comunque a conoscenza dell’esistenza di un procedimento a loro carico.

In casi del genere – in cui, è bene ricordarlo, non si discute solo di diplomazia, ma anche di principi fondamentali del giusto processo qual è il diritto alla precisa conoscenza dell’accusa – può lo Stato procedere sebbene non sia riuscita a informare gli imputati? È sufficiente che vi sia la probabilità, magari anche la ragionevole certezza, che l’interessato sappia che in Italia si sta celebrando un procedimento a suo carico, oppure serve la certezza assoluta (o, al contrario, la certezza della sua volontà di sottrarsi al processo)?

Con una decisione di cui non si conoscono ancora le motivazioni, la Consulta ha affermato che, per i delitti commessi mediante tortura, se a causa della mancata assistenza dello Stato di appartenenza dell’imputato è impossibile avere la prova che quest’ultimo sia stato messo a conoscenza della pendenza del processo, si potrà d’ora in poi procedere in sua assenza.

Già dalle poche righe del comunicato si intuisce come la decisione sia sostanzialmente ritagliata intorno al caso Regeni, di cui richiama i tratti essenziali (la tortura, la mancata assistenza egiziana e la presunta consapevolezza dell’esistenza del procedimento). Così come si evince che si sia introdotta una nuova eccezione alla regola della effettiva conoscenza del procedimento da parte dell’interessato in tutti i casi di mancata cooperazione da parte dell’autorità straniera, qualora, in ogni caso, l’imputato sia «consapevole del procedimento» (altro aspetto su cui si discuterà molto).

Da ultimo, non si può trascurare l’ultima parte del comunicato, nella quale la Corte ricorda come rimanga «salvo il diritto dell’imputato a un nuovo processo in presenza per il riesame del merito della causa». Ciò significa, a meno che tale diritto non dovesse essere poi negato agli imputati, che il giudizio che ora riprenderà – nel quale è presumibile ritenere che gli stessi continueranno a rimanere assenti (circostanza che inevitabilmente inciderà sull’accertamento della verità) – potrebbe poi anche essere messo in discussione nel caso in cui gli imputati dovessero prima o poi decidere di bussare alla porta della giustizia italiana.

Al contrario, qualora ciò non dovesse accadere (e forse non accadrà mai), vi è comunque il rischio che la sentenza conclusiva del processo difficilmente venga poi eseguita. La vicenda – e sicuramente ne era ben consapevole la stessa Corte Costituzionale – non era e non sarà facile da districare, ma, a quanto pare, la priorità era che in ogni caso un processo si facesse.

Lasciatemi esprimere qualche dubbio su quella “sentenza Regeni”. La pronuncia della Consulta sul giovane ricercatore torturato e ucciso in Egitto si muove sul filo delle garanzie e del diritto. Tiziana Maiolo su Il Dubbio il 28 settembre 2023

Una sentenza della Corte Costituzionale ad personam, ritagliata su misura perché si possa celebrare in Italia il processo nei confronti dei torturatori egiziani che sette anni fa assassinarono Giulio Regeni. Un provvedimento che l’ex ministra Marta Cartabia, che della Consulta fu anche Presidente, definisce sentenza “additiva”, un modo tecnico ma anche elegante per dire che si è creata un’eccezione alla norma generale per cui nessuno può essere processato se non informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti.

In italiano questa eccezione, che vale per un solo caso, si chiama anche “deroga” o “violazione” della regola che dovrebbe tutelare il cittadino rispetto alla forza dello Stato e anche della magistratura. Non ti posso portare in giudizio senza dirtelo, senza avvertirti del fatto che sto per processarti, dicono il codice di procedura e la Costituzione. Un principio che sembrerebbe inviolabile. Tanto che nessun Parlamento in questi anni, pur con la commozione per la sorte tragica di questo ragazzo italiano assassinato e lo sdegno per il comportamento del regime egiziano di Al Sisi, che ha di fatto sottratto alla giustizia italiana i quattro agenti di servizi segreti ritenuti responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio Regeni, ha mai osato metter mano a un principio garantistico del nostro codice. E alla sacralità dell’articolo 111 della Costituzione sul giusto processo.

Dodici righe, piuttosto esplicite, pur in attesa delle motivazioni, con cui la Corte “aggredisce” l’articolo 420 bis comma 3 del codice di procedura penale e stabilisce che, in questo caso, sia possibile derogare al principio europeo e internazionale per cui il processo penale può essere celebrato solo nei confronti di un imputato che sia stato informato del fatto che si sta procedendo nei suoi confronti. Anche se decide di non parteciparvi. Esistono infatti i processi celebrati in contumacia, cioè in assenza dell’imputato. Nel caso di Giulio Regeni, dice l’Alta Corte, siamo però in presenza di un caso di tortura, previsto e definito dell’articolo 1 comma 1 della Convenzione di New York. Inoltre, del “caso Regeni” si è scritto e parlato molto in Egitto in questi anni. Come a dire che ai quattro agenti dei servizi segreti ritenuti responsabili da parte dell’autorità giudiziaria italiana dovrebbero come minimo esser fischiate le orecchie. Qualcosa avranno ben sentito dire. Ma non tutto è così rigoroso, in questa decisione. E qualcuno non ha potuto non notarlo, e lo dice con un’intervista a Repubblica.

Il professor Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale alla Statale di Milano, che fu consigliere giuridico della ministra Cartabia, definisce la sentenza addirittura “ad regenim”, cioè una regola ad hoc costruita appositamente per consentire al processo, che era stato bloccato dalla Corte d’appello di Roma e dalla Cassazione che aveva annullato il rinvio a giudizio degli imputati disposto dal gup, di essere celebrato. Il professore non lo dice esplicitamente, ma è chiaro che la Consulta si è sostituita al governo e al parlamento con una sentenza “politica”, finalizzata a un atto più sostanziale che formale, quale il processo dovrebbe essere. Un altro giurista cui l’anomalia non è sfuggita è l’avvocato Davide Steccanella, uno che i processi in contumacia li ha sulla punta delle dita, anche perché è il difensore del terrorista Cesare Battisti, a lungo latitante in Francia e poi in Brasile, che ha potuto estradarlo solo dopo un cambio di regime. “E’ un principio barbaro, una vera stortura – dice al Dubbio - pensare di processare una persona senza averlo potuto avvertire. Mi rendo conto della tragedia della famiglia Regeni, ma se l’imputato è assente al processo, deve esserlo solo per scelta, non perché disinformato”.

Del resto anche lo stesso concetto di “contumacia” è messo in discussione da ordinamenti come quello della Francia e degli Stati Uniti, dove non si celebrano processi in assenza dell’imputato. In Italia non è così, lo stesso caso di Battisti lo dimostra, però la scelta della lunga latitanza è stata solo sua. Ora, questi quattro agenti egiziani che la magistratura italiana considera torturatori e assassini, hanno o no diritto di sapere che tra qualche mese saranno processati in Italia? Sappiamo bene che se sono riusciti a rendersi irrintracciabili, tanto che non se ne conoscono gli indirizzi, è perché godono di evidenti coperture politiche. Il che apre un problema di relazioni tra il governo Meloni e il regime di Al Sisi. Il ministro degli esteri Antonio Tajani ha finora mantenuto un atteggiamento cauto. Del resto il premier egiziano aveva di recente avanzato un gesto distensivo con la concessione della grazia a Patrick Zaki, studente “adottivo” dell’università di Bologna.

Si cammina su un sottile strato di ghiaccio. Secondo il professor Gatta l’Egitto potrebbe anche contestare all’Italia il principio del ne bis in idem (non puoi essere processato due volte per lo stesso fatto) dal momento che, a quanto pare, una qualche forma di giudizio ci sarebbe già stata in Egitto. Quello che comunque qui da noi stupisce, ma forse non più di tanto, è l’entusiasmo non solo (e giustamente) da parte della famiglia Regeni e della loro legale Alessandra Ballerini, ma di tutto quel mondo “democratico” che strillava indignato a ogni presunta proposta di legge ad personam in favore di Silvio Berlusconi. Dimenticando che le leggi non sono mai per un solo soggetto ma, una volta emanate, si indirizzano al “signor chiunque”.

Questa sentenza della Corte Costituzionale invece, è proprio l’omaggio a una sola persona, a un solo caso, a un solo processo. Come dice la presidente emerita dell’Alta Corte, Marta Cartabia, cui lasciamo l’ultima parola: “Mi pare che la Corte abbia fatto una sentenza ‘additiva’, creando una regola ad hoc, di eccezione alla norma generale, che rimane intatta, per consentire ai giudici di andare avanti in questo caso eccezionale. Spero sia di sollievo ai genitori”. Ci associamo.

Giulio Regeni, l'autogol di "Repubblica": ad archiviare il caso è stato il Pd. Massimo Costa su Libero Quotidiano il 09 novembre 2022

In campagna elettorale Giorgia Meloni era stata accusata dai suoi avversari politici di voler reintrodurre il fascismo in Italia, cancellare la legge sull'aborto, limitare i diritti degli omosessuali e altre assurdità. Poi è arrivato il trionfo delle urne. La festa, il giuramento del governo, i primi passi da presidente del Consiglio. E - indovina, indovinello - la sinistra ha ripreso ad accusare la leader di Fratelli d'Italia di ogni nefandezza. È la politica, bellezza. Tutto come da copione, per carità. La novità di ieri, lo scatto in avanti, è che Giorgia Meloni viene accusata anche per colpe esclusive dei suoi predecessori. Succede, infatti, che nella sua prima uscita internazionale al summit per il clima di Sharm El Sheikh, lunedì, il primo premier donna della storia d'Italia abbia incontrato il presidente egiziano Al-Sisi. E che, al termine del colloquio, Giorgia abbia diffuso una nota nella quale dice di aver «sottolineato la forte attenzione dell'Italia sui casi di Giulio Regeni e Patrik Zaki».

Giulio Regeni è il dottorando italiano rapito, torturato e ammazzato nel 2016 al Cairo; Patrick Zaki è lo studente egiziano dell'Università di Bologna accusato dall'Egitto di "diffusione di notizie false", arrestato il 7 febbraio 2020, liberato e attualmente sotto processo. Due casi spinosi, dove si intrecciano guerre diplomatiche e almeno nel caso Regeni - un muro di gomma alzato dal Cairo per proteggere e assolvere i 4 imputati egiziani.

LA BORDATA

Ebbene, ieri, incredibilmente, Repubblica ha titolato così la sua prima pagina: «Meloni archivia Regeni». La nota ufficiale del premier viene definita «striminzita», e nelle pagine interne si descrive come «una farsa» l'attenzione sul caso del connazionale ucciso nel 2016, lasciando intendere che il governo di centrodestra vuole solo fare affari con l'Egitto fregandosene del caso Regeni.

Poche ore dopo l'affondo di Repubblica, è arrivata- immancabile- la sparata della deputata dem Laura Boldrini: «Che fine ha fatto la tanto cara difesa della "dignità della nazione"? Si è forse dispersa in volo da Roma a Sharm el Sheikh? L'incontro con Al-Sisi è una resa all'Egitto sulla ricerca della verità sulla morte di Giulio Regeni. Non c'è priorità che possa prevalere sulla richiesta di giustizia per un nostro concittadino ucciso all'estero. I diritti non si barattano mai con nulla». Poi è partita la raffica di attacchi dal Pd. Intervengono tra gli altri Simona Malpezzi («Il governo sia più netto!»), Alessandra Moretti («Gli interessi commerciali valgono più dei diritti umani!») e Walter Verini («Il governo abbassa la testa!»).

Che faccia di tolla. Il Pd- che ora strilla contro la Meloni - è stato partito di governo nel 2016, 2017, 2019 (da settembre a dicembre), 2020, 2021, e nove mesi del 2022. Il Pd ha sostenuto per anni Giuseppe Conte, il quale ammise di non aver cavato un ragno dal buco nonostante le telefonate ad Al-Sisi e i ripetuti proclami («Non sono stato capace di portare risultati» disse nel 2020 da leader del governo giallorosso).

FALLIMENTO DI MAIO

E cosa ha ottenuto il ministro degli esteri Luigi Di Maio, che rivendicava il «costante impegno per giungere alla verità»? Nulla. Zero assoluto. Dopo l'archiviazione della procura egiziana, il processo in Italia è fermo da due anni perché l'Egitto non collabora e non notifica gli atti agli imputati. I grandi sforzi di Di Maio? Inutili, se non fosse che proprio il Pd ha candidato in un collegio uninominale il ministro degli Esteri che ha ottenuto un pugno di mosche con l'Egitto. Ad archiviare il caso Regeni, semmai, è stato proprio il Pd, che ha inanellato un fallimento dopo l'altro. L'accusa più comica alla Meloni è quella di voler privilegiare gli accordi economici con l'Egitto alla verità su Giulio. Peccato che sia arrivata proprio durante il governo Draghi -con il Pd in maggioranza -la firma dell'Eni ad aprile di un nuovo contratto da 3 miliardi dimetri cubi di gas liquido. Letta si disse dubbioso, ma ovviamente non mosse un dito per evitare di incrinare le relazioni tra i due Paesi e la caccia di gas dell'Italia. Niente, il Pd insiste: tutta colpa della Meloni, anche se è arrivata a Palazzo Chigi sei anni dopo l'omicidio Regeni. Per ora l'unica cosa che la Meloni ha archiviato è il Pd...

Giovanni Bianconi per corriere.it

Nessun impegno, nessuna novità, nessuno spiraglio per riaprire un caso che l’Egitto considera archiviato. Lo stesso portavoce ufficiale di Al Sisi s’è limitato ad affermare che l’incontro tra il suo presidente e la premier Giorgia Meloni «ha toccato la questione della cooperazione per raggiungere la verità e ottenere giustizia», sul rapimento, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. Ma per l’Italia questo obiettivo coincide con la celebrazione del processo ai quattro imputati egiziani accusati del sequestro (e uno anche dell’omicidio) del ricercatore friulano. Per la Repubblica araba, invece, quei quattro non c’entrano con la fine di Giulio, come ha dichiarato l’autorità giudiziaria locale.

Due ricostruzioni opposte, che lasciano la situazione nello stallo in cui versa da oltre un anno, quando la Corte d’assise di Roma decise che senza l’avvenuta notifica agli imputati — dunque senza certezza che fossero a conoscenza del giudizio a loro carico — il processo non può cominciare. 

Proprio l’Egitto, da quasi tre anni, impedisce le notifiche non comunicando alle autorità italiane i recapiti del generale Tarik Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Uhsam Helmi, e del maggiore Magdi Abdelal Sharif. E la posizione del Cairo è stata ribadita l’8 ottobre scorso nella deposizione del capo Dipartimento del ministero della Giustizia Nicola Russo davanti al giudice che, con cadenza semestrale, continua a dichiarare sospeso il procedimento.

«Non abbiamo ricevuto alcuna risposta, l’ultima sollecitazione risale al 6 ottobre; non hanno risposto neanche alla richiesta di incontro della ministra Marta Cartabia nel gennaio scorso», ha spiegato Russo. 

Aggiungendo un particolare che, sul piano sembra davvero la pietra tombale egiziana: «La Procura generale egiziana ha ribadito che resta valido quanto contenuto nel decreto di archiviazione per i quattro imputati in Italia, firmato dai magistrati egiziani nel dicembre scorso. In Egitto non si potrà più aprire un procedimento per il caso Regeni nei loro confronti, per il principio del ne bis in idem». Il che significa che, avendo la Procura egiziana dichiarato non colpevoli gli imputati, nessun altro può processarli, né in Egitto né altrove

In sostanza, la magistratura della Repubblica araba ha accusato la Procura di Roma di aver travisato fatti e prove, dichiarando di «escludere ciò che è stato attribuito» ai militari accusati in Italia. La Procura generale del Cairo ha anche stabilito che «circa l’arresto illegale, la detenzione, la tortura e l’uccisione di Giulio Regeni, non c’è per il momento alcuna ragione di intraprendere procedure penali perché il responsabile resta sconosciuto», deliberando di «incaricare le parti cui è stata affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare i responsabili».

Forse è questo che intende ora l’Egitto: se e quando ci saranno nuovi elementi ci sarà anche cooperazione. Ma non è questo che chiede l’Italia. O almeno la magistratura italiana, che dopo l’ultimo ricorso bocciato alla Cassazione non dispone di altri mezzi per andare avanti col processo; nemmeno l’ipotesi di notifica nei luoghi di lavoro (ammesso di conoscere l’indirizzo attuale) è praticabile a causa del rinvio della riforma Cartabia. 

Sul versante politico invece, gli ultimi passi compiuti prima del colloquio Meloni-Al Sisi risalgono al governo Draghi e alla ministra Cartabia, che hanno avuti contatti con i genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, e l’avvocata Alessandra Ballerini. Niente ancora, invece, con la neo-premier o il neo-ministro Carlo Nordio. Nè, al momento, la famiglia ha ritenuto di prendere una posizione su quanto accaduto a Sharm el-Sheikh

Ma una carta il governo italiano potrebbe ancora giocarla. L’8 ottobre, quando era ancora in carica l’esecutivo di Draghi per i soli «affari correnti», il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha chiesto al capo dipartimento del ministero della Giustizia se si fosse pensato ai rimedi previsti dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, sottoscritta anche dall’Egitto; ad esempio gli arbitrati in caso di inadempienze sia interne che sotto il profilo della cooperazione. «È una scelta di ordine politico; si valuterà con il nuovo ministro della Giustizia», ha risposto Russo. Ora un nuovo ministro c’è, e a lui spetta la scelta.

Regeni, la Cassazione respinge il ricorso: il processo non si può fare. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 15 Luglio 2022.  

Vince l’ostruzionismo, manca la «prova certa» che gli imputati sapessero del dibattimento. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo. 

Niente da fare, l’ostruzionismo dell’Egitto ha vinto: il processo ai presunti responsabili del sequestro (uno anche delle torture e dell’omicidio) di Giulio Regeni non si può fare, manca la «prova certa» che gli imputati hanno saputo del dibattimento a loro carico. Lo ha deciso la Corte di Cassazione, che ha respinto il ricorso della Procura di Roma, della Procura generale e dei familiari di Giulio i quali hanno sostenuto — e almeno parzialmente dimostrato — che in realtà i quattro funzionai della National security erano dei «finti inconsapevoli», e che con la complicità delle autorità del Cairo hanno utilizzato la tecnica delle mancate risposte per boicottare e bloccare il giudizio.

«Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi ci saremo sempre, ma quella che viene presa oggi è una decisione che riguarda la dignità dell’Italia», aveva detto in mattinata l’avvocata Alessandra Ballerini, in rappresentanza dei genitori di Regeni, chiedendo che la Cassazione annullasse l’ordinanza di sospensione del processo del giudice, dopo che la Corte d’assise aveva rispedito indietro il fascicolo proprio per via delle mancate notifiche. Ma al di là della costante testimonianza della famiglia e di chi l’ha sempre sostenuta (come il presidente della Federazione della stampa Giuseppe Giulietti), della tenacia con cui il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha provato a dimostrare che gli egiziani sapevano fingendo di non sapere, affiancato nell’ultimo tratto anche dalla procura generale della Cassazione, ha vinto il «diritto tiranno» dell’imputato, come l’hanno definito i pubblici ministeri. Ha prevalso la regola di diritto che dev’esserci la «prova certa» che l’accusato sia informato del procedimento a suo carico, anche se in questo modo diventa una sorta di «prova diabolica», perché «per affermare che l’imputato si è sottratto alla conoscenza degli atti si deve provare che ne abbia avuto conoscenza».

Così aveva scritto il pm Colaiocco nel suo ricorso, definendo «abnorme» la sospensione sine die; la Procura generale aveva anche suggerito di rivolgersi alla Corte costituzionale per l’irragionevolezza della norma. Tutto «inammissibile» per i giudici «di legittimità», che sorvegliano sul rispetto delle regole e hanno ritenuto quella «prova certa» un ostacolo insuperabile. Poco conta, evidentemente, che l’Egitto abbia depistato e nascosto prove con l’obiettivo di intralciare le indagini e poi il processo. Fino alle mancate risposte alle reiterate rogatorie in cui si chiedevano i recapiti dei quattro imputati, negate proprio per «impedire le notifiche agli imputati».

A questo punto il giudizio a carico del generale Tariq Sabir, dei colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e del maggiore Magdi Ibrahim Sharif cade in un limbo dal quale sarà pressoché impossibile recuperarlo. La sospensione diventa una sorta di tomba del processo. Il ricorso in Cassazione chiedeva di andare avanti anche col banco degli imputati vuoto, ed era l’ultima carta per poter arrivare a una sentenza; la sua bocciatura ha bruciato questa possibilità. I genitori di Giulio potranno rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, l’avvocata Ballerini l’ha fatto capire nella sua memoria: con questa visione burocratica delle regole, torture e trattamenti inumani non sono perseguibili, la Corte di Strasburgo deve intervenire. Ma per adesso ha vinto l’impunità.

EDOARDO IZZO per la Stampa il 16 luglio 2022.

Si ferma, forse per sempre, il processo per la morte di Giulio Regeni. La prima sezione penale della Corte di Cassazione, ieri sera, ha dichiarato inammissibile il ricorso col quale la procura di Roma aveva chiesto l'annullamento dell'ordinanza del gup dell'11 aprile 2022 che aveva disposto la sospensione del procedimento nei confronti dei quattro 007 egiziani - il generale Tarik Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - accusati, a vario titolo, dei reati di sequestro di persona, lesioni personali e omicidio commessi nei confronti di Regeni dal 25 gennaio al 2 febbraio del 2016 a Il Cairo.

La Corte ha escluso che i «provvedimenti in questione possano essere impugnati con il ricorso per Cassazione, in quanto non abnormi». E dire che la giornata era iniziata con aspettative diverse al sit-in davanti alla Corte. «Non ci sarà mai una pietra tombale su questo caso perché noi qui ci saremo sempre, ma quella che viene presa oggi è una decisione che riguarda la dignità dell'Italia», aveva detto ai cronisti l'avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni. 

Con lei c'erano Claudio Regeni e Paola Deffendi, genitori di Giulio, che avevano preferito rimanere in silenzio. Parlano a sera: «Attendiamo di leggere le motivazioni ma riteniamo questa decisione una ferita di Giustizia per tutti gli italiani. "Abnorme" è certamente tutto il male che è stato inferto e che stanno continuando a infliggere a Giulio. Come cittadini non possiamo accettare né consentire l'impunità per chi tortura e uccide». «Sappiamo che gli 007 sanno tutto di questo processo, ma fanno i furbi - aveva detto Ballerini -. La battaglia non è solo per Giulio, ma per tutti». 

Una battaglia combattuta dal pm Sergio Colaiocco, che il 10 dicembre 2020, tra molti ostacoli opposti dalle autorità egiziane, ha chiuso le indagini preliminari e a distanza di poco più di 5 mesi ha ottenuto il rinvio a giudizio dei quattro ufficiali. Loro, però, risultano irreperibili, dal momento che la magistratura egiziana non ha fornito i loro indirizzi di residenza, né ha concesso ai magistrati italiani di essere presenti agli interrogatori a cui sono stati sottoposti. 

Il processo viene cancellato: i giudici della III Corte d'Assise di Roma hanno deciso che il dibattimento non può avere inizio perché non esiste la prova che i quattro agenti sappiano del processo a loro carico. Gli atti dell'inchiesta erano tornati al gup che aveva disposto nuove ricerche e doveva tentare di notificare agli imputati il procedimento, per poterli poi rinviarli nuovamente a giudizio.

Protestano i genitori. Nessuna giustizia per Regeni, la Cassazione conferma lo stop al processo per gli 007 egiziani. Fabio Calcagni su Il Riformista il 16 Luglio 2022. 

Le possibilità di processare in Italia i quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di aver sequestrato, torturato e ucciso Giulio Regeni nel febbraio del 2016 sono ormai ridotte al lumicino. 

Nella serata di venerdì 15 luglio i giudici della Corte di Cassazione hanno dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del gup che l’11 aprile scorso ha disposto, così come già fatto dalla Corte d’Assise nell’ottobre scorso, la sospensione del procedimento disponendo nuove ricerche degli imputati a cui notificare gli atti.

Una notizia ovviamente accolta con dolore dalla famiglia di Giulio, che da anni chiede giustizia per il figlio. “Attendiamo di leggere le motivazioni ma riteniamo questa decisione una ferita di giustizia per tutti gli italiani. “Abnorme” è certamente tutto il male che è stato inferto e che stanno continuando a infliggere a Giulio. Come cittadini non possiamo accettare né consentire l’impunità per chi tortura e uccide“, commentano i genitori di Regeni, Paola e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini.

Gli ermellini nel dichiarare inammissibile il ricorso della Procura sottolineano che i provvedimenti di Assise e Gup  non possono essere impugnati con il ricorso per Cassazione “in quanto non abnormi”.  

Sergio Colaiocco, procuratore aggiunto di Roma, aveva chiesto nel ricorso in Cassazione un intervento di “chiarezza” agli ermellini per superare quanto disposto dal gup, il giudice per le udienze preliminari, che rifacendosi a quanto deciso dalla III Corte d’Assise nell’ottobre scorso aveva sancito che il processo contro i quattro 007 egiziani non poteva  andare avanti in quanto mancavano le notifiche agli imputati.

In particolare i magistrati di piazzale Clodio chiedevano alla Cassazione di chiarire se risulta sufficiente, per la celebrazione del processo, il fatto che “vi è una ragionevole certezza – come scrive la corte d’Assise nel provvedimento con cui ha rinviato il procedimento all’attenzione del gup – che i quattro imputati egiziani hanno conoscenza dell’esistenza di un procedimento penale a loro carico avente ad oggetto gravi reati commessi in danno a Regeni”.

In mattinata si era anche svolto un sit-in davanti alla Suprema Corte a cui hanno partecipato anche i genitori di Giulio, Claudio e Paola. Nei mesi scorsi padre e madre del ricercatore universitario friulano avevano lanciato un appello via social per chiedere una mobilitazione al fine di individuare gli indirizzi dei quattro agenti egiziani, pubblicato in tre lingue (italiano, inglese ed arabo) con tanto di foto di tre dei quattro imputati individuati dal Ros.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Tagadà, Domenico Quirico furioso con Mario Draghi sul caso Regeni: inganna i genitori, vergogna.

Affari con l'Egitto di Al Sisi dopo l'omicidio di Regeni: rivolta contro le mosse di Draghi. Dalla Cina parte l'assalto all'Occidente: senza la Nato vivremmo in un mondo pacifico. Il Tempo il 14 aprile 2022.

L’Italia è a caccia di gas alternativo rispetto a quello della Russia e dopo aver bussato alla porta dell’Algeria adesso è il turno di un possibile accordo con l’Egitto. Nel corso della puntata del 14 aprile di Tagadà, talk show di La7 condotto da Alessio Orsingher in sostituzione di Tiziana Panella, è ospite il giornalista Domenico Quirico, che usa toni durissimi nei confronti del governo Draghi legando il tema dell’energia a quello dell’omicidio del giovane Giulio Regeni, assassinato in Egitto, un paese con cui ora l’Italia vuole fare affari dopo anni di depistaggi: “Trovo la vicenda Regeni assolutamente scandalosa. Due persone che hanno seguito il più tremendo degli urti che la vita e la morte gli può dare dal 2016 vengono ingannate sistematicamente, ma non dagli egiziani che lo fanno per principio loro, bensì da quelli che stanno in questo Paese, cioè i governo di questo Paese, che sono stati innumerevoli e tutti si sono occupati di questa vicenda. Ai genitori di Regeni gli si racconta che stiamo facendo tutto il possibile e anche un po’ di impossibile per ottenere la verità dall’Egitto, la condanna dei responsabili… Ma non è vero! Il problema doveva essere risolto all’inizio, andando a cercare il responsabile numero uno di questa storia, che è il presidente, dittatore, capo, boss di questo Paese e il ministro degli Interni. L’hanno preso, l’hanno torturato e ammazzato. È - martella il giornalista - inutile e ridicola questa cosa di farsi dare quattro indirizzi di manutengoli della violenza di Stato, pensando che quella sia la soluzione del problema. Non te li daranno mai, perché ovviamente li coprono. È stato lo Stato egiziano, non sono quattro tizi che hanno ammazzato uno per un altro”. 

Lo Stato egiziano è - prosegue Quirico - colui che lo rappresenta e lo guida, denunciate Al-Sisi ad un tribunale internazionale, come bisogna denunciare Vladimir Putin per i crimini commessi dai suoi soldati in Ucraina. Lui non li ha impediti o puniti. È una cosa elementare, dire che state facendo il possibile per condannare gli assassini di Regeni è una bufala, una bugia. Gli assassini bisogna cercarli nella scala gerarchica di coloro che hanno ucciso materialmente questo povero ragazzo e coloro che hanno coperto e consentito questo diletto. Se non fate questo ai due poveri genitori di Regeni date soltanto delle chiacchiere ed è una cosa vergognosa”.

Domenico Quirico, Alessandro Sallusti: "Ciò che dovrebbe ricordare sul suo rapimento", realpolitik meglio dell'etica. Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 aprile 2022.

«Vogliamo la giustizia o i termosifoni?», ha scritto Domenico Quirico, firma di punta de La Stampa - indignato del fatto che il nostro governo si sia rivolto a quello egiziano per rimpiazzare almeno in parte il gas che vorremo non più comperare dalla Russia di Putin. Ma come, si chiede l'illustre collega, quel criminale di Abdel al-Sisi fa torturare e uccidere un nostro ragazzo, Giulio Regeni, ostacola le indagini della magistratura e noi, anziché punirlo, andiamo in Egitto con il cappello in mano e la valigetta piena di miliardi, implorandolo di aiutarci, dove è finito il senso di giustizia?

Detto che l'omicidio di Giulio Regeni e tutto quanto successo dopo ci fa orrore e ci indigna, il ragionamento di Quirico non fa una grinza in punta di etica, ma proprio lui dovrebbe sapere che ci sono casi in cui sull'etica assoluta si deve fare prevalere la ragione di Stato. Dovrebbe saperlo, perché lui fu al centro di un caso benedetto nella sostanza ma discutibile in quanto a etica. Nell'aprile del 2013 Quirico fu rapito in Siria da una delle bande di miliziani che si fronteggiavano sul campo. Fu liberato a settembre dietro il pagamento da parte del governo italiano di un riscatto di quattro milioni di euro (cosa ufficialmente negata ma accertata da inchieste indipendenti), soldi che i guerriglieri usarono in armi per compiere nuovi massacri. È evidente che in quella occasione abbiamo trattato col nemico (e pure pagato) ma non ho dubbi: tra la giustizia e la vita di Quirico il governo italiano ben fece a scegliere la seconda senza badare a questioni morali.

Oggi il compito del governo è salvare la vita economica di cittadini e aziende e liberare i nostri approvvigionamenti da chi - Putin - li tiene in ostaggio. Bisogna sporcarsi le mani e tapparsi il naso? Sì, anche perché - dove ti giri, ti giri - gas e petrolio sono in mano praticamente ovunque a banditi e tiranni. Ahimè non ci sono pozzi in Svizzera né in Liechtenstein. Del resto, già facciamo affari con Paesi, dalla Cina all'Algeria, che poco hanno a che fare con democrazia e rispetto dei diritti umani senza che Enrico Letta e compagnia si scandalizzino più di tanto. Lasciamo che Regeni riposi in pace; oggi in guerra - almeno in quella energetica - ci siamo noi e a salvarci non saranno retorica facile né moralismi buoni a riempire le bocche in tempi di pace e vacche grasse.

Carlo Bertini per “La Stampa” il 15 aprile 2022.  

Dopo l'annuncio di un accordo per la fornitura di gas con l'Egitto, Enrico Letta la mette giù senza mezzi termini: «Mi lascia moltissimi dubbi. La vicenda Regeni è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Quindi è netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani». 

E se Carlo Calenda gli chiede polemico «quali soluzioni» proponga e Antonio Tajani invece plaude al realismo, «perché sono un bene le forniture alternative alla Russia», il gelido silenzio di tutti i vertici istituzionali fa capire quanto il tema sia spinoso per il governo: a palazzo Chigi la critica del segretario dem viene vissuta con il disincanto di chi pensa che alla politica tocchi questo ruolo e all'esecutivo quello di mettere in sicurezza la dotazione energetica dell'Italia.

Ma nei vari dicasteri si registra notevole imbarazzo: c'è chi non apprezza il modo con cui la questione è stata gestita dalla Farnesina e chi addossa la croce a Palazzo Chigi, perché non si muove foglia che Draghi non voglia.

Dai piani alti del governo trapelano considerazioni di questo tenore: «Questo accordo - svela una fonte addentro al dossier - è stata gestita da Eni e ovviamente il premier ne è consapevole. Ma la differenza stringente tra questo caso e gli accordi con Algeria, Congo e Angola è che in questi tre Paesi si procede con intese istituzionali e politiche, mentre in Egitto no: c'è un contratto tra Eni e una società egiziana, come ce ne sono stati svariati in questi anni tra società italiane ed egiziane».

Ovvero, non c'è un ripristino di relazioni a livello istituzionale tra Egitto e Italia: questo il punto centrale. Anche se l'accordo riguarda uno dei maggiori giacimenti del mondo, quello di Zohr, la più grande scoperta di gas nel Mediterraneo, e 3 miliardi di metri cubi di gas liquefatto per il mercato Eni in Europa e Italia. 

Dunque, lo stop di Letta si inserisce in un contesto complicato ed è lui il primo a dire «chi meglio di Draghi può gestire una partita così, è il primo a essere consapevole di tutte le implicazioni». Ma al tempo stesso nel momento in cui si tratta una grande vendita di gas, «il contenzioso serissimo con il regime di Al Sisi rischia di passare in sordina».

Se nel medio termine, bisogna investire sulle rinnovabili e costruire l'unione energetica europea, nel breve «non bisogna legarsi mani e piedi all'Egitto. Punto». Ma c'è poi un piano più strategico, così sintetizzabile: il problema energetico di questi mesi si può trasformare in opportunità. «È possibile una nuova centralità dell'Italia - dicono gli strateghi di Letta - perché se la Germania non può prendere gas russo, gli servirà gas africano, che passa da due Paesi: Spagna e Italia. Così il nostro Paese diventerebbe un hub e questo apre a uno scenario nuovo: il che significa un nuovo sistema di relazioni, che deve soppiantare la logica neocoloniale, se vogliamo stabilità».

Enrico Borghi, che del Pd è responsabile sicurezza, fa notare che «il tempismo sul caso Egitto è sbagliato e si incrocia con la vicenda Regeni. Insomma, non possiamo immaginare che il gas sia usato come arma di scambio sui diritti umani violati». In ogni caso l'affondo sull'Egitto non è una minaccia alla stabilità del governo, come quelle della Lega: l'annuncio di una trattativa separata della destra con Draghi e Franco sulla delega fiscale è vissuto come un'escalation pericolosa e il numero due del Pd Peppe Provenzano, sbotta: «Da parte nostra c'è grande irritazione, non esiste che riscrivano loro la norma. Hanno dato vita a una sceneggiata e bisogna evitare di dargli occasioni di fare propaganda». Anche qui, il premier è avvisato: pari dignità nella maggioranza e nessun cedimento.

Gas, ci mancava Giulio Regeni: il "no" all'Egitto di Enrico Letta, il democratico del Cairo. Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2022.

Doverosa premessa. Certo andrebbe -metaforicamente- spalmato di napalm quell'Egitto che nega alla magistratura italiana e alla Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni gl'indirizzi degli indagati dell'omicidio del nostro ricercatore. E un sudario di ipocrisia copre questa penosa faccenda. E abbracciamo tutti Claudio e Paola Regeni sopravvissuti alla morte contronatura di un figlio; e faremmo ingoiare gli sgherri di Al Sisi dalla fiamme di centomila inferni.

Detto ciò, come facciamo col gas egiziano? Tenendo conto che le parole d'ordine del governo sarebbero «renderci autonomi dai russi» e «differenziare gli approvvigionamenti» (ma in modo capillare, onde evitare di sostituire al Cremlino un altro fornitore dominante, ché saremmo daccapo), come dovremmo comportarci, noi, col Cairo col quale Draghi tratta per 2/3 miliardi metricubi di forniture di gas?

L'ottimo Enrico Letta ha «moltissimi dubbi». «La vicenda Regeni va oltre la singola vicenda personale drammatica, è un simbolo della necessità di difendere i diritti umani e di fare giustizia. Netta la nostra richiesta al governo di essere molto più forte ed esigente nei confronti degli egiziani», dice. E a lui si accodano i suoi. O i renziani come Massimo Ungaro della Commissione Regeni il quale, giustamente inviperito ci chiede di rivolgersi per l'approvvigionamento energetico «all'Azerbaigian e all'Algeria». Ma l'abbiamo già fatto, in realtà. E con l'Algeria qualcuno a sinistra ha storto il muso sul costo eccessivo del rifornimento.

Mentre sul petrolio dall'Azerbaigian -il nostro primo fornitore- molti hanno sollevato le eccezioni di un paese «poco democratico che stringe accordi con l'Iran» già, peraltro, ufficialmente considerato poco democratico di suo. Insomma l'Eni, chez Draghi, firma col Cairo un accordo quadro che «consente di massimizzare il gas e le esportazioni di Gnl»; e il Pd, nella figura del suo capo, è per la linea dura con la Russia. Ma lo è anche un po' con l'Arabia Saudita, con la Libia, e con tutti quegli Stati che si macchiano di etica incerta. E siamo d'accordo, caro Enrico, anche sul fatto di interrompere il prima possibile la perversa dipendenza energetica con Mosca.

Però, appunto, gli Stati nordafricani non vanno bene. Ci siamo girati un attimo e la Turchia e la Russia stessa ci hanno fregato il controllo del petrolio libico. Potevamo ottenere il gas attraverso il pipeline Eastmed che partiva da Israele e Cipro; e qualcuno ha preferito esser dissuaso da Biden, il quale pretendeva di attivare il russo North Stream 2 (col senno di poi, gli avessimo dato del tutto ascolto, saremmo morti).

E, tra i partiti di governo ce ne fosse uno che insistesse davvero sul tetto al costo del gas e sulla richiesta di trasparenza nell'offerta; magari, lì, ci accorgeremmo che la civile Norvegia ci vende gas a 100 euro al megawattora ma lo produce a 10 euro, e nessuno capisce bene perché.

Per non dire degli anatemi contro chi soltanto si azzarda a discutere di riattivare le trivelle nel Mar Adriatico e nel Mar di Sicilia, un bacino di 350 miliardi metricubi di gas, e ora ne estraiamo solo 4 miliardi (il resto se lo fregano la Croazia e l'Albania). Inoltre c'è la faccenduola del nucleare, a cui si oppongono sinistra e 5 Stelle in blocco solo ad evocarlo, e noi certo qui non ci ripeteremo, pure se comprare l'energia dalla centrali francesi e svizzere ha un che di dadaista. Insomma caro Enrico, detto col cuore in mano: se il nostro fabbisogno dalla Russia è di 29 miliardi di metricubi di gas e se non va bene nulla, dove e come cavolo andiamo a differenziare? Forse, allora, ha ragione Carlo Calenda di Azione quando afferma: «Enrico Letta, vuoi lo stop immediato e totale al gas russo ma non vuoi il gas egiziano perché l'Egitto viola i diritti umani.

Però non vuoi neanche il carbone per sostituire il gas russo, perché inquina. Hai una soluzione o facciamo solo retorica?». E forse non ha torto -anzi senza forse- Stefano Fassina di Leu: «Russia, Egitto, Arabia Saudita, finché non arriviamo all'autosufficienza energetica è davvero complicato rimanere esclusivamente sul terreno etico. Siccome Regeni è italiano l'Egitto no, ma l'Arabia Saudita si' perché Khashoggi è saudita? Quando acquistiamo gas dall'Egitto, non siamo noi che facciamo un favore ad Al Sisi. È lui che lo fa a noi. Se noi non lo compriamo, ha la fila fuori la porta. Ai fini sacrosanti di avere giustizia per Regeni è assolutamente inutile. Dobbiamo trovare canali efficaci».

Canali efficaci, appunto. Quello della cocciuta opposizione a sinistra intesa come un riflesso pavloviano, be', caro Enrico, forse non è la migliore delle risposte...

Filippo Facci per "Libero Quotidiano" il 16 aprile 2022.

Giusto. Il noto criminale egiziano Abdel al-Sisi - condannato in giudicato dal web - fa torturare e uccidere Giulio Regeni e quindi non possiamo, ora, riempirlo di miliardi solo per avere quel gas che rifiutiamo dall'altro noto criminale a capo della Russia. È una questione di decenza, non c'entra la realpolitik. Dev' esserci un limite, e questo limite sono i diritti umani. È di questo, di diritti umani, che Mario Draghi è andato a discutere l'11 aprile scorso in Algeria: non di gas.

Dalla nazione più grande del Nordafrica, pare, potrà passare una fornitura di miliardi di metri cubi l'anno di metano, e pazienza se il nostro premier non ha potuto discutere anche con Faleh Hannoudi, che è proprio il presidente della sezione locale della Lega per i diritti umani: gli algerini infatti l'hanno arrestato il 20 febbraio e condannato a tre annidi carcere per un reato gravissimo, cioè un'intervista che aveva rilasciato al canale televisivo Al Maghibiya. È un peccato che lui non sia divenuto un'icona come Giulio Regeni, o che semplicemente non sia italiano. Mario Draghi però non sa che cosa rischia, comportandosi così: è probabile che l'inverno prossimo, il gas algerino, gli italiani non lo vorranno. 

Gli italiani, a loro volta, non sanno che la mancata qualificazione della nazionale al Mondiali di calcio, in realtà, è dovuta al mancato rispetto del Qatar per i diritti umani.

E' una nazione in cui i diritti dei lavoratori migranti, impegnati proprio nella costruzione delle infrastrutture e degli impianti sportivi, sono stati orribilmente vilipesi con violenze e sfruttamento. 

È una nazione che da anni sostiene ufficiosamente anche i gruppi islamici radicali in tutto il mondo (anche se il loro governo non lo ammette) e insomma, lo sanno tutti che il Qatar sostiene gruppi islamisti anche in Siria, Iraq, Libia e Afghanistan, quindi mica potevamo andarci, anche perché peraltro ci saremmo trovati a giocare il campionato del Mondo con la nazionale dell'Iran, altro stato che di recente, per dire, ha tenuto le sue donne tifose fuori dallo stadio e ha usato lo spray urticante. Si era addirittura letto che la Fifa voleva prendere dei provvedimenti, e che la nazionale iraniana avrebbe potuto essere squalificata e la nostra nazionale di conseguenza ripescata, ma è una cosa che non va fraintesa: le residue speranze dei tifosi italiani erano votate solo al rispetto dei diritti umani in Iran, erano tutti indignati, cioè, per i 2.000 biglietti messi a disposizione delle donne iraniane alle quali è stato impedito di entrare allo stadio. Non c'entra lo sport, così come in generale, parlando di Egitto, non c'entra il gas per alimentare i termosifoni o banalità del genere.

L'ETICA PRIMA DI TUTTO Allo stesso modo non si può credere che il premier Mario Draghi sia passato e passerà dalla Repubblica del Congo e dall'Angola se non per mettere pressione sul rispetto dei citati diritti umani, che in quest' ultime nazioni, a loro volta, è vagamente inesistente. Non si può crederlo, perché sarebbe come pensare che l'indignazione per le violazioni dei diritti umani di Vladimir Putin riesca meglio rimanendo al caldo piuttosto che al freddo, e che allora si passi, banalmente, dall'appoggiare alcune violazioni al posto di altre.

Sarebbe puerile.

Ci sono dei limiti che non possono essere superati: l'Arabia, per esempio, di recente ha scoperto nuovi giacimenti di gas naturale al centro del Paese e nella parte orientale (l'ha riferito la Saudi Press citando il ministro dell'Energia) ma all'Occidente questo non interessa, così come - è noto anche questo - non è mai interessato a nessuno il petrolio arabo: in Occidente sono tutti troppo indignati per l'assassinio del giornalista saudita Jamal Khashoggi, quello che era entrato nel consolato dell'Arabia Saudita di Istanbul - ricorderete - e che da allora risulta scomparso.

È accaduto in un contesto dove il governo saudita (chiamiamolo governo) continua a reprimere il dissenso con arresti e processi iniqui che spesso terminano con lunghe condanne o con la pena di morte: per questo a nessuno ha mai acquistato il loro petrolio, e tantomeno, ora, potrebbe interessare il loro gas. Il pensiero fisso degli europei e degli italiani non è il gelo invernale: è Jamal Khashoggi. Esiste un'etica, a questo mondo. Non si tratta con l'Egitto del caso Regeni. Sarebbe come, per dirne un'altra, lasciare che il dittatore Recep Erdogan funga da mediatore dell'Occidente con Putin, e che si utilizzi un suo canale di dialogo con Mosca e con l'Ucraina: è impensabile. Non potrebbe mai accadere, e se vi hanno detto che sia avvenuto non dovete crederci.

Non è vero che la mediazione turca abbia portato i ministri degli Esteri di Russia e Ucraina a incontrarsi ad Antalya lo scorso 10 marzo: perché la Turchia non rispetta i diritti umani, e l'Occidente (e Amnesty International, il Pd, e tantissimi italiani) non sono disposti a passarci sopra, pensano a questo e non altro. Pensano al fatto che Erdogan ha incarcerato politici dell'opposizione, giornalisti e difensori dei diritti, pensano alle sue discriminazioni degli omosessuali, alle accuse di tortura e maltrattamenti. Il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa ha notificato alla Turchia l'intenzione di avviare un procedimento per gravi infrazioni: come potrebbe, il presidente-sultano di uno Stato del genere, fungere da mediatore tra Ucraina e Russia?

Suvvia. Sarebbe come ospitare al centro di Roma una monarchia assoluta guidata da soli uomini, uno staterello in cui la nostra vita apparterrebbe a un dio o allo Stato, come nelle teocrazie islamiche o come nella vecchia Unione Sovietica. Non si scherza sui diritti umani. Per questo non commerciamo con la Cina o le lasciamo organizzare, chessò, le Olimpiadi. Sono i diritti umani a governare il mondo, la gente non pensa ad altro. 

Alessandro Barbera per “La Stampa” il 16 aprile 2022.  

«Il decreto firmato da Vladimir Putin sulle modalità di pagamento in rubli porterà a una violazione delle sanzioni adottate dall'Unione europea». Il gioco delle parti fra Bruxelles e Mosca sulle forniture di gas russo sta assumendo i contorni di una tragica farsa. Ieri i servizi giuridici della Commissione hanno formalizzato una decisione annunciata più volte. A meno di una retromarcia da parte dello Zar, la prossima riunione dei capi di Stato europei - a fine maggio - dovrebbe sancire lo stop all'importazione del metano russo. Non è però chiaro se la scadenza fissata ai primi del mese da parte del Cremlino verrà rispettata. Sempre ieri, nelle ore in cui la Commissione faceva filtrare il proprio orientamento, il portavoce di Putin Dimitri Peskov rilasciava una dichiarazione criptica. 

«Per l'ampliamento dei pagamenti in rubli al momento non ci sono scadenze», senza chiarire se si riferisse a petrolio e carbone, o anche al gas. Una cosa è certa: a meno di uno stop improvviso alla guerra, con il passare dei giorni le probabilità che lo stop si realizzi davvero aumentano.

Il mandato di Mario Draghi al ministro Roberto Cingolani è di prepararsi entro l'autunno, ma in un settore come quello energetico significa domani. Per capirlo basta un dettaglio: dal primo aprile sono iniziate le aste dei nuovi stoccaggi, e due sono andate deserte. I prezzi sono troppo alti, dunque chi avrebbe interesse ad acquistare teme di farlo a prezzi molto più alti di quelli futuri. Per metterci una pezza, il governo ha dovuto introdurre incentivi, ma il livello delle nuove scorte è ancora al sette per cento. 

Sostituire un terzo del fabbisogno di gas - circa trenta miliardi di metri cubi l'anno - non è semplice. L'accordo firmato da Draghi ad Algeri a inizio settimana vale un terzo di quel fabbisogno, ma nessun altro singolo fornitore sarà in grado di offrire altrettanto. Occorrono una somma di forniture minori, dall'Azerbaijan all'Africa. Alcuni di questi possono però essere forieri di problemi politici per la maggioranza. L'aumento delle importazioni dall'Egitto, ad esempio, oggetto delle proteste del Pd per via del caso Regeni.

O la necessità di derogare agli impegni del Green deal europeo. Durante l'ultima riunione a Palazzo Chigi, presenti Cingolani, il capo dei servizi segreti Franco Gabrielli e il numero uno di Enel Francesco Starace si è discusso della possibilità di far ripartire singole unità di centrali a carbone dismesse più o meno di recente. L'Enel ne ha a Brindisi, Venezia, nel Sulcis e a Civitavecchia. Secondo le stime di Nomisma Energia, entro il prossimo inverno la produzione di energia elettrica da carbone potrebbe essere raddoppiata, e così rinunciare a tre miliardi di metri cubi di gas, un decimo delle forniture russe.

Starace ha dato la sua disponibilità a procedere, Cingolani non ne vuole sapere. «Finché non sarà necessario, non sarò io a farmi carico di una decisione che ci metterebbe contro tutto il mondo ambientalista», ha detto il ministro durante la riunione. Stessa cosa dicasi per il vecchio investimento - mai decollato - di un rigassificatore a Porto Empedocle, in Sicilia, grazie al quale ritrasformare il prodotto liquefatto in arrivo via nave da Angola e Congo, dove Draghi andrà in visita dopo Pasqua proprio con l'obiettivo di aumentare l'importazione.

Pochi giorni fa - era il 5 aprile - Starace ha detto di essere pronto a investire un miliardo di euro. Il progetto è bloccato da sette anni per via di lungaggini amministrative e l'opposizione feroce dei comitati ambientalisti. Anche su quest' ultimo progetto Cingolani ha espresso dubbi. «I tempi sono lunghi e i rischi alti. Meglio puntare sui rigassificatori galleggianti». Cingolani ha dato mandato a Snam di acquistarne due, e quello per lui resta l'obiettivo prioritario.

Marcello Sorgi per "La Stampa" il 16 aprile 2022.

Il caso Egitto - o meglio l'incrocio dell'accordo per l'aumento delle forniture di gas con il Paese con cui siamo il conflitto per l'ostruzionismo al processo Regeni - ha rivelato solo in parte le difficoltà di mettere a punto un nuovo piano di approvvigionamento energetico alternativo a quello basato fin qui sulla Russia. Ci sono infatti difficoltà diplomatiche, legate al fatto che i regimi a cui si va a chiedere aiuto (Algeria, Azerbaigian, eccetera) non sono proprio democratici. 

Ci sono difficoltà logistiche, legate ad esempio alla collocazione di nuovi rigassificatori che servono per la trasformazione del gas liquido, ma che naturalmente non verrebbero accettati a braccia aperte dagli abitanti dei luoghi destinati agli impianti. Per non dire della riapertura delle centrali elettriche a carbone, la cui chiusura era stata salutata come un passo avanti, oltre che per la riduzione dell'inquinamento atmosferico, sulla strada della civiltà. Esiste insomma il rischio di una moltiplicazione in serie di problemi come l'Ilva di Taranto. 

C'è poi un problema di adattamento della gente al dilemma posto efficacemente da Draghi, «pace o condizionatori», nel senso che già dalla prossima estate l'uso contingentato dell'aria condizionata e dal prossimo inverno quello del riscaldamento potrebbero creare reazioni inaspettate, anche se i primi sondaggi dicono che emerge una certa disponibilità dei cittadini. E c'è una questione ambientale che va montando, con una vittima, politicamente parlando, designata: il ministro della Transizione ecologica Cingolani, che si trova a gestire un percorso opposto a quello per cui era stato nominato.

Politicamente, a giudicare dalle prime reazioni, l'ambiente rischia di trasformarsi per il Pd e la sinistra e i 5 Stelle ciò che il fisco è stato per il centrodestra. Non è solo il caso Regeni che preme al portone del Nazareno: per Letta (ma anche per Conte) è inaccettabile che un tema a cui gli elettori di centrosinistra e grillini sono ultrasensibili venga sacrificato sull'altare di uno stato di necessità.

Cara Boldrini, il gas di Putin non è più etico di quello di al-Sisi. Se non prendiamo gas dall'Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca. E non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. Davide Varì su Il Dubbio il 15 aprile 2022.

La nuova campagna della sinistra anti-atlantista, putinista, antioccidentale, pacifista, papista, (ognuno scelga la sua), ora muove contro la scelta italiana di prendere il gas dall’Egitto. «È come passare dalla padella alla brace», ha detto Boldrini, ricordando che Al Sisi è lo stesso che protegge gli agenti accusati dell’omicidio di Giulio Regeni.

In effetti non è chiaro perché la vita di migliaia di ucraini debba valere meno di quella del povero Regeni. E sì perché una cosa deve essere chiara: se non prendiamo gas dall’Egitto, saremo costretti a continuare a staccare assegni a favore di Mosca finanziando la sua guerra. Ma evidentemente, per Boldrini e gli altri, il gas russo deve avere qualcosa di decisamente più etico. La verità è che gran parte dei paesi che controllano le fonti di energie sono dittature – e non è certo un caso. Ma cara onorevole Boldrini, continuare a prendere il gas di Putin non ci assolve di certo…

Gas, un ginepraio tra dittatori e rinnovabili. Obiettivo: fare presto. Quello dell'energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà a uscire dalla crisi attuale. Paolo Delgado su Il Dubbio il 16 aprile 2022.

Si fa presto a dire che del gas russo potremo fare a meno in tempi se non proprio rapidissimi quanto meno non biblici. La corsa al gas è appena cominciata e già si avvertono chiari i segnali di quali e quanti problemi si creeranno senza il pur minimo dubbio. Va detto che l’Eni non poteva scegliere giorno peggiore per bussare alle porte egiziane di casa al- Sisi proprio mentre l’Egitto chiariva per l’ennesima volta di non voler chiarire in alcun modo le circostanze e le responsabilità nell’assassinio di Giulio Regeni. Ma anche senza quell’inconcepibile coincidenza le cosa sarebbero cambiate di poco. Per uscire dalla dipendenza energetica di un dittatore di cui si denunciano con strepiti indignati le nefandezze antidemocratiche bisogna rivolgersi a figuri della stessa risma, altrettanto alieni da ingombranti pastoie democratiche, non meno pronti del russo a far valere la propria vantaggiosa posizione per ricattare e tacitare eventuali proteste.

Con l’Algeria, Paese dal quale già riceviamo una quota decisiva del gas non russo che alimenta non solo i condizionatori ma anche le italiche aziende, il problema è diverso ma non meno spinoso. Proprio perché già eroga in copiosa dose, l’Algeria fatica a pompare dosi ancora maggiori di gas senza ledere gli interessi fraterni degli altri Paesi Ue che da quella fonte si abbeverano, la Spagna e il Portogallo. Una soluzione per la verità ci sarebbe ma non se ne vedono i vantaggi. L’Algeria può sempre rifornirsi dalla solita Russia e poi rivendere. Non sarebbe salva neppure la faccia, ma il portafogli starebbe messo peggio perché con un passaggio in più inevitabilmente pagheremmo lo stesso gas russo a prezzi maggiorati. Sulla Libia meglio glissare. Grazie alla guerra contro Gheddafi, ma anche contro l’Italia, alla quale l’Italia stessa ha partecipato seguendo una logica puramente autolesionista, quel Paese è in mano a signori della guerra al confronto dei quali i dittatori figurano come modelli di affidabilità.

Lo zio Sam ci dà una mano col suo gas liquido. Però non ce la dà gratis e il prezzo, anzi lievita. Però a quel prezzo bisogna aggiungere quelli, non tutti quantificabili in moneta, dei rigassificatori: costano molto, inquinano anche di più e tutto per una qualità di gas tra le peggiori. L’autarchia ha il suo fascino ma anche qui, oltre alle ovvie difficoltà, il conto è salato. È vero che negli ultimi anni l’Italia ha fatto sempre meno ricorso alle proprie peraltro esigue fonti ma lo ha fatto perché contro le trivellazioni si è mobilitato, non senza ottimi argomenti, un combattivo e nutrito fronte ecologista. Tanto che neppure nelle drammatiche circostanze attuali è parso opportuno ricominciare a trivellare acque salate a destra e a manca. Qualcosina si potrà fare rispolverando il carbone, sempre che gli impianti fermi da un bel pezzo non si rivelino catorci inutilizzabili. Però insistere, come è giusto e inevitabile fare, sulla riduzione drastica delle emissioni e allo stesso tempo annerirsi di nuovo le mani col carbone appare un bel po’ contraddittorio.

La parola magica, che in effetti Draghi non manca di adoperare in ogni dove, è “rinnovabili”: pulite, indipendenti, eticamente adamantine. Però riconvertire in tempi brevi non è difficile bensì impossibile e anche solo accelerare drasticamente non sarà affatto una corsa in discesa. Per centrare l’obiettivo sarebbe necessaria una vera rivoluzione nelle abitudini e negli stili di vita, e su quanto il popolo sia pronto e disponibile a rivedere tutta la propria way of life ogni dubbio è lecito. Peraltro si tratterà di un grosso affare e il bivio già si profila nitido: per evitare che a gestirlo e ingrassarcisi sia la criminalità ci vorrebbero controlli stringenti, che però rallenterebbero tutto proprio quando la parola d’ordine è invece fare presto.

Va da sé che come sempre nei dilemmi ognuna di queste contrastanti e tutte fondate esigenze diventa o può diventare bandiera di qualche forza politica, a maggior ragione con l’avvicinarsi delle elezioni. Quello dell’energia è un rebus e fingere che sia semplice risolverlo non aiuterà. Come non aiuta le accuse che sono risuonate nell’ultimo mese contro i “colpevoli” di aver troppo puntato sul gas russo. Come se a motivare quella scelta fosse stata una sorta di miope pigrizia e non, invece, il semplice fatto che il gas russo era effettivamente di estrema utilità.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 13 aprile 2022.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. 

Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d'America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro. 

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files , nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l'indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d'Egitto, con l'obiettivo di ottenere l'assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario».

Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. 

È ormai impensabile; l'ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti. 

Ma il giudice dell'udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia.

L'informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. 

L'eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell'Arma sarebbe in teoria percorribile. 

Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. 

E lì che l'Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l'ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell'Interno, con l'incarico di un progetto relativo alle carte d'indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l'indirizzo di questo ufficio: c'è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. 

Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l'ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l'Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un'altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif - l'unico accusato anche delle torture e dell'omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani - «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. 

Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell'Interno, di cui è indicato l'indirizzo a Nuova Cairo 1. 

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. 

Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro - il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel - sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram.

In attesa di capire se sarà possibile imboccare l'impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l'Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

Giulio Regeni, nuovo stop del Cairo al processo: per l’Egitto gli 007 sono innocenti. Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 12 Aprile 2022.

Impossibile notificare gli atti agli imputati individuati dalla Procura di Roma quali responsabili dell’omicidio. La famiglia di Giulio Regeni: «Una presa in giro, intervenga Draghi».

Per l’Egitto il procedimento contro i quattro ufficiali della National Security accusati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni è già in archivio, e non si può riaprire. Caso chiuso. Per questo le autorità del Cairo non hanno risposto (e non risponderanno) alle richieste italiane di conoscere i loro indirizzi, necessari per notificare gli atti e poterli processare davanti alla Corte d’Assise di Roma. La Procura generale della Repubblica araba ha già valutato le imputazioni e le prove a loro carico, e li considera innocenti. Dunque l’assistenza giudiziaria sollecitata dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, pronta a un incontro con il suo omologo egiziano, non ha avuto (e non avrà) alcun esito.

La lettera

A questa amara conclusione è giunto l’ultimo tentativo del giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi, dopo la lettera ricevuta dal capo del Dipartimento degli affari di giustizia del ministero di via Arenula, Nicola Russo: cinque pagine di risposta alla richiesta di farsi parte attiva con il governo del Cairo per cercare di sbloccare la situazione a livello politico, e capire se ci siano possibilità di cooperazione. Il risultato è che, al momento, non ce ne sono. Il giudice ha rinviato l’udienza di altri 6 mesi, al 10 ottobre, mentre la famiglia di Giulio chiede che la pressione politica salga di livello.

L’indignazione della famiglia

«Siamo indignati dalla risposta della Procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocata Alessandra Ballerini, che assiste i genitori e la sorella di Giulio. «Chiediamo che il presidente Draghi, condividendo la nostra indignazione, pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Il capo del Governo valuterà il da farsi, ma la replica egiziana alle mosse della ministra della Giustizia non lascia presagire nulla di costruttivo. «La condizione fermamente posta dalla ministra Cartabia per recarsi al Cairo e interloquire con il suo omologo Omar Marwan — scrive Russo — è che nel corso dell’incontro si affronti il caso Regeni. Ad oggi, nonostante i ripetuti passi svolti dal nostro ambasciatore al Cairo, il ministro della Giustizia egiziano non ha ancora fornito un riscontro alla lettera della ministra Cartabia».

La competenza

La missiva era partita da Roma il 20 gennaio. Difficile quindi che sul piano politico possano esserci passi avanti. A livello tecnico, invece, un dialogo c’è stato. Una delegazione guidata proprio da Russo è andata al Cairo un mese fa, ma s’è sentita dire che in assenza di accordi bilaterali tra i governi, la cooperazione giudiziaria internazionale è competenza esclusiva della Procura generale. I carabinieri del Ros hanno recuperato i recapiti di lavoro degli imputati e l’Avvocatura dello Stato, parte civile per conto del governo, propone di notificare lì gli atti. Ma sarebbe una forzatura del codice italiano. E proprio dalla Procura generale egiziana arriva la novità che potrebbe rappresentare lo sbarramento definitivo alla possibilità di andare avanti con il processo.

Le prove raccolte dalla Procura di Roma

L’ufficio giudiziario del Cairo ha infatti esaminato le prove raccolte dal procuratore aggiunto di Roma Sergio Colaiocco (con la collaborazione del Ros e del Servizio centrale operativo della polizia) a carico del generale Sabir Tariq, dei colonnelli Mohamed Athar Kamel e Helmi Uhsam, e del maggiore Magdi Ibrahim Sherif (accusato anche delle torture e dell’omicidio). Arrivando a un loro sostanziale proscioglimento.

Il memorandum

In un memorandum consegnato all’Italia il 26 dicembre 2020, è scritto che «il quadro probatorio avanzato dalle autorità italiane è poco solido e contrario ai meccanismi della cooperazione giudiziaria internazionale, il che spinge la Procura generale a ritenere che le autorità italiane si siano sviate dalla verità, ed esclude tutti i sospetti nei confronti degli indagati». Quel provvedimento, comunica il ministero italiano al giudice Ranazzi, secondo l’Egitto «ha natura decisoria irrevocabile, non più suscettibile di impugnazione e preclude la riapertura di un procedimento nei confronti degli stessi soggetti». Di conseguenza, «l’assistenza giudiziaria sarebbe preclusa dal principio del ne bis in idem (non si può essere giudicati due volte per lo stesso fatto, ndr) sancito dall’ordinamento interno egiziano e dalle Convenzioni internazionali». In pratica un’assoluzione definitiva senza che si sia celebrato il processo. Utilizzata dall’Egitto per impedire lo svolgimento di un regolare giudizio in Italia. Che resta sospeso, in attesa di una soluzione che non si trova.

Caso Regeni, caccia agli 007 egiziani che torturarono il ricercatore: «Rogatoria negli Usa sui profili social per rintracciarli». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13 aprile 2022.  

La pista suggerita dal Ros per risalire al domicilio. Grazie agli accertamenti telematici ora hanno un volto.

Potrebbe passare da una rogatoria negli Usa la ricerca dei recapiti dei quattro funzionari della National Security egiziana accusati del sequestro di Giulio Regeni, necessaria ad avviare il processo a loro carico. Scavando «negli ambiti social ipoteticamente associabili agli imputati» infatti, attraverso «una richiesta di assistenza giudiziaria internazionale da indirizzare alle competenti autorità degli Stati Uniti d’America» sarebbe forse possibile risalire alle «informazioni anagrafiche e ai log files associati agli account di interesse » sui profili Facebook o Instagram utilizzati da alcuni di loro.

È un ulteriore, difficile tentativo suggerito dai carabinieri del Ros alla magistratura italiana, che comunque potrebbe andare a scontrarsi col muro egiziano: «Ottenute le informazioni anagrafiche e i log files, nel caso le stesse non fossero di per sé sufficienti a consentire l’indivudazione del domicilio/residenza degli imputati, occorrerebbe interessate le autorità della Repubblica Araba d’Egitto, con l’obiettivo di ottenere l’assoczione degli IP (nella data/ora di interesse) alle utenze telefoniche, e quindi queste ultime al loro intestatario». Ma che dal Cairo arrivino gli indirizzi da abbinare ai quattro nomi. È ormai impensabile; l’ultima comunicazione giunta dal governo è che la magistratura locale ha valutato «illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici» le conclusioni dei giudici di Roma, pronunciando una archiviazione a loro dire irrevocabile. Quindi, niente recapiti.

Ma il giudice dell’udienza preliminare Roberto Ranazzi ha chiesto di provarle tutte, e i carabinieri si sono messi a caccia. L’informativa depositata agli atti del processo nuovamente sospeso riassume i complicati accertamenti svolti dal Reparto indagini telematiche del Ros per risalire ai luoghi dove poter comunicare il rinvio a giudizio e la fissazione del dibattimento. L’eventualità di rivolgersi agli Stati Uniti presenta a sua volta delle difficoltà, ma secondo gli investigatori dell’Arma sarebbe in teoria percorribile. Altre vie battute attraverso banche-dati o altri strumenti di cooperazione internazionale hanno dato «esito negativo», mentre un risultato «parzialmente positivo» è stato raggiunto con la ricerca dei luoghi di lavoro. E lì che l’Avvocatura dello Stato, che nel processo Regeni rappresenta il governo italiano, propone di notificare le comunicazioni dei rinvii a giudizio, ma per la stessa Procura di Roma sarebbe una forzatura del codice che non consentirebbe di superare l’ostacolo.

Il più alto in grado, il generale Sabir Tariq, «sarebbe attualmente in servizio presso il Dipartimento degli Affari civili del ministero dell’Interno, con l’incarico di un progetto relativo alle carte d’indentità dei cittadini egiziani», e da «fonti aperte» è stato recuperato l’indirizzo di questo ufficio: c’è il nome di una strada, nel Distretto di El Weili, Governatorato del Cairo. Il colonnello Helmy Uhsam sarebbe invece impiegato presso l’ente che si occupa di passaporti e immigrazione, e l’Amministrazione generale corrispondente avrebbe sede presso un numero civico di un’altra via, sempre a «El Weili, Governatorato del Cairo».

Il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — l’unico accusato anche delle torture e dell’omicidio, sulla base delle testimonianze raccolte dagli inquirenti italiani — «potrebbe essere ancora in servizio perso la Direzione della Sicurezza Nazionale», di cui i carabinieri non hanno individuato una sede. Ma potrebbe trovarsi presso il ministero dell’Interno, di cui è indicato l’indirizzo a Nuova Cairo 1.

Di uno degli imputati, il colonnello Uhsam, è stato recuperato un possibile recapito di posta elettronica. Ma per lui, come per il maggiore Sharif e il quarto imputato di cui non si è riusciti a risalire ad alcun ipotetico indirizzo nemmeno del luogo di lavoro — il colonnello Mohamed Ibrhaim Athar Kamel — sono stati individuati alcuni probabili profili Facebook e Instagram. In attesa di capire se sarà possibile imboccare l’impervia e comunque incerta strada della rogatoria negli Usa, da lì i carabinieri hanno estratto alcune foto attribuite a tre dei quattro imputati per il rapimento e la morte di Giulio Regeni: i volti degli uomini che l’Egitto ha ormai dichiarato di voler sottrarre alla giustizia italiana.

NUOVA UDIENZA IL 10 OTTOBRE. Carte mancanti, affari e nessuna collaborazione. Il caso Regeni resta fermo. LAURA CAPPON su Il Domani l'11 aprile 2022

È stata fissata al 10 ottobre la nuova udienza del gup sull’omicidio di Giulio Regeni. Il giudice ha sospeso il procedimento perché mancano ancora gli indirizzi dei quattro agenti della National Security accusati del rapimento e dell’uccisione del giovane ricercatore.

La ministra Marta Cartabia aveva promesso ai genitori di Giulio Regeni che si sarebbe recata al Cairo per ottenere gli indirizzi dei quattro agenti. Ma la richiesta, inoltrata il 20 gennaio alle autorità egiziane, non ha mai ricevuto risposta.

Il 15 marzo, al posto della Cartabia, a volare al Cairo è stato il direttore della cooperazione giudiziaria italiana. In quell’occasione le autorità egiziane hanno ribadito che la la procura generale considera chiuso il caso.

LAURA CAPPON. Giornalista, nel 2011 si trasferisce in Egitto per seguire gli anni del post rivoluzione egiziano. Ha lavorato per Rai 3, Skytg 24, Il Fatto Quotidiano, Al Jazeera English, The New Arab e Radio Popolare. Nel 2013 ha vinto il premio l'Isola che c'è per la copertura del colpo di stato egiziano e nel 2017 il premio "Inviata di Pace "del Forum delle giornaliste del Mediterraneo per i suoi articoli sulla morte di Giulio Regeni. È inviata per Mezz'ora in più, su Rai 3.

Caso Regeni, il gup dispone la sospensione del processo. L’Egitto non collabora. Il Domani l'11 aprile 2022.

Mancano ancora gli indirizzi degli imputati, e non è possibile notificare loro gli atti. I carabinieri del Ros dovranno fare nuove ricerche. La prossima udienza è stata fissata per il 10 ottobre. Il legale dei genitori ha chiesto che Draghi intervenga

Il giudice per l’udienza preliminare di Roma, Roberto Ranazzi, ha disposto la sospensione del procedimento a carico dei quattro agenti dei Servizi segreti egiziani, accusati per il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Mancano gli indirizzi di domicilio degli imputati, e senza i recapiti non è possibile dar luogo alla notifica degli atti giudiziari. L’Egitto non collabora. Ora proseguiranno le indagini del Ros, mentre la nuova udienza, per valutare eventuali sviluppi, è stata fissata per il 10 ottobre prossimo. 

SOSPENSIONE DEL PROCESSO

La decisione del gup è arrivata  dopo le comunicazioni del ministero di Giustizia e dei carabinieri del Ros, che hanno confermato la già nota indisponibilità dell’Egitto a qualsiasi forma di collaborazione con l’Italia in merito al caso Regeni.

A gennaio, il giudice aveva chiesto al governo di verificare la possibilità di una effettiva collaborazione con le autorità egiziane. Ma il ministero ha ribadito «il rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti», cui si è aggiunto il rifiuto da parte del Cairo a un incontro tra la ministra della Giustizia Marta Cartabia e il suo omologo egiziano.

Il direttore della cooperazione giudiziaria italiana ha fatto sapere che le autorità egiziane, che ha incontrato al Cairo, hanno evidenziato come, sul caso Regeni, la competenza sia della procura generale, per la quale comunque l'indagine è chiusa perché non sarebbe possibile effettuare ulteriori verifiche sui quattro indagati.

All’indisponibilità egiziana non hanno fatto da contrappeso i risultati delle indagini, condotte nel frattempo dai carabinieri del Ros. Le loro ricerche hanno portato solo all’indirizzo dei luoghi di lavoro, non anche a quello dei domicili. E, secondo il codice di procedura internazionale, l’indirizzo lavorativo non può essere utilizzato per le notifiche in sede processuale. 

Il rifiuto di collaborare da parte dell'Egitto, ha detto il gup, «è un dato di fatto» e «sono del tutto pretestuose le argomentazioni proposte delle autorità egiziane». Alla prossima udienza del 10 ottobre sarà sentito il direttore generale del ministero della Giustizia, Nicola Russo, sugli eventuali sviluppi.

IL SIT-IN AL TRIBUNALE

In mattinata, davanti al tribunale di Roma, dove stava per svolgersi l’udienza preliminare, i genitori di Giulio Regeni, Claudio Regeni e Paola Deffendi, con la legale Alessandra Ballerini, hanno mostrato lo striscione giallo con la scritta «Verità per Giulio Regeni», dando luogo a un sit-in. Al presidio hanno partecipato anche il presidente della Federazione della stampa italiana (Fnsi) e degli attivisti, anche egiziani. i.

«Siamo qui per dire che non smetteremo mai di reclamare verità e giustizia», ha detto Giuseppe Giulietti, presidente Fnsi che ha partecipato al presidio. «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l'Egitto, qualora dovesse perseguire una politica di omissione e di cancellazione delle prove».

Anche il presentatore tv Flavio Insinna ha preso parte al sit-in, e alla domanda dei giornalisti sul perché fosse lì ha risposto: «Perché sono qui? La domanda è da porre al contrario. Perché non esserci? Bisogna esserci. Come ha detto la mamma di Giulio su quel viso ha visto tutto il dolore del mondo, non dobbiamo darci pace fino a quando non si arriverà alla verità. Lo dobbiamo alla famiglia, alla parte buona di questo paese. Voglio vivere in un paese, come dice il papa, che ritrovi un senso di fraternità, dove il tuo dolore diventa il mio. Questa famiglia sta facendo un’opera straordinaria con una compostezza unica al mondo. Dal primo minuto mi sono legato a questa storia. Mi interessa che ci sia la volontà politica di andare avanti, spero che l'alta politica faccia il bene delle persone che amministra. A questa famiglia l’alta politica deve dare la verità».

IL PROCESSO

L’udienza preliminare che si è svolta oggi, davanti al gup, è la seconda dopo quella dello scorso gennaio. A  ottobre del 2021, il processo contro i quattro 007 era stato sospeso al termine della prima udienza, nell’aula bunker di Rebibbia, per decisione dei giudici della Corte d’Assise, che avevano stabilito che il gup si pronunciasse sulla questione della notifica delle accuse agli imputati. I legali della difesa avevano sollevato la questione della non conoscenza, da parte dei quattro imputati, di quanto veniva loro imputato a Roma.

 A gennaio poi il gup aveva stabilito che i carabinieri del Ros disponessero di altro tempo per verificare i luoghi di residenza e di lavoro dei quattro agenti presunti torturatori e omicidi in modo tale da notificare loro l’avvio del processo e sollecitato un intervento da parte del ministero di Giustizia. 

L’OMICIDIO

Giulio Regeni venne rapito la sera del 25 gennaio 2016 e il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. La procura di Roma, in seguito a quanto raccolto finora, ritine che il ricercatore dell’Università di Cambridge sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi.

Gli agenti egiziani coinvolti nel procedimento sono Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona, mentre Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e concorso nell’omicidio.

Caso Regeni, processo sospeso: «L’Egitto non collabora». Il gup di Roma dispone nuove ricerche e rinvia il processo a carico degli 007 egiziani al 10 ottobre dopo la nota di Via Arenula che riferisce di una chiusura netta da parte del Cairo. La legale della famiglia Regeni: «L'Egitto si beffa di noi, intervenga Draghi». Il Dubbio l'11 aprile 2022.

Sospensione del procedimento a carico di quattro 007 egiziani accusati di avere sequestrato, torturato ed ucciso Giulio Regeni. È quanto disposto dal gup di Roma dopo le comunicazioni arrivate sia dal ministero della Giustizia, sia dai carabinieri del Ros, in merito al rifiuto delle autorità egiziane ad una collaborazione con l’Italia.

Secondo il giudice è un dato di fatto il rifiuto dell’Egitto di collaborare e sono pretestuose le argomentazioni della Procura generale del Cairo. Il giudice ha disposto nuove ricerche degli imputati affidate al Ros e ha rinviato il processo al prossimo 10 ottobre: in quell’occasione verrà sentito anche il capo dipartimento Affari di giustizia del ministero Nicola Russo sugli eventuali sviluppi dopo la nota inviata alle autorità egiziane in seguito all’incontro del 15 marzo scorso.

La nota di Via Arenula

Dopo l’annullamento del processo a ottobre 2021, lo scorso gennaio il giudice aveva chiesto al governo italiano di verificare la possibilità di una «interlocuzione» con le autorità del Cairo. E nella nota inviata al gup di Roma in occasione della nuova udienza preliminare, il ministero della Giustizia ha sottolineato il «rifiuto dell’Egitto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» con l’Italia così come il no ad un incontro tra il ministro Marta Cartabia e il suo omologo egiziano. Lo scorso 15 marzo il direttore della cooperazione giudiziaria italiana si è recato in Egitto per un incontro e in quell’occasione gli è stato comunicato che la competenza è della Procura Generale che considera chiuso il caso Regeni e che non è possibile andare avanti con ulteriori indagini sui quattro indagati in Italia. I carabinieri del Ros inoltre, ai quali erano state affidate nuove ricerche sul domicilio degli indagati, hanno fatto sapere di essere riusciti ad acquisire solo l’indirizzo del luogo di lavoro dei quattro 007 egiziani e non il domicilio, necessario per il codice di procedura internazionale.

La legale della famiglia Regeni: «Il Cairo si beffa di noi»

«Prendiamo atto dei tentativi falliti del ministero della Giustizia di ottenere concreta collaborazione da parte delle autorità egiziane e siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di Al Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto», commenta l’avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, al termine dell’udienza.

«Chiediamo che il presidente Draghi condividendo la nostra indignazione pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei 4 imputati dal presidente Al Sisi e ci consenta lo svolgimento del processo per ottenere giustizia riguardo il sequestro le torture e l’omicidio di Giulio», prosegue la legale. «La lesione della tutela della vita, della libertà e dell’integrità dei cittadini all’estero, come la presidenza del Consiglio Ricorda nel suo atto di costituzione di parte civile, costituisce grave pregiudizio dell’immagine e del prestigio dello Stato Italiano nella sua funzione di protezione dei propri cittadini – aggiunge -. Quindi, visto il conclamato ostruzionismo, egiziano pretendiamo da parte del nostro governo la necessaria, tempestiva e proporzionata reazione. Stare inermi ora, permettere al regime di Al Sisi di bloccare questo processo faticosamente istruito, consentirebbe l’impunità degli assassini di Giulio ed equivarrebbe ad essere loro complici. Il nostro governo ha il dovere invece di esigere energicamente giustizia».

Regeni, i silenzi e il caos boicottaggi. Giannino della Frattina il 18 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La tournée in Egitto, la rivolta dell'orchestra, il giusto orgoglio dei genitori di Giulio Regeni, la smentita della Scala per bocca del sovrintendente Dominique Meyer. Di certo sipario calato, ma comunque sia andata non è stato un trionfo. Perché la nostra serva Italia continua a essere nave sanza nocchiere in gran tempesta. E soprattutto non donna di provincie, ma bordello! E bordello ancor più sconcio se a essere coinvolto in questo pantano sono un ragazzo rapito e torturato a morte in quell'Egitto che si rifiuta di collaborare alle indagini per chiarire la tragedia e punire i colpevoli e soprattutto i suoi genitori che hanno saputo trasformare l'indicibile dolore in una campagna per trovare la verità e rendere giustizia a quello sventurato figliolo. Perché qui hanno ragione un po' tutti: gli orchestrali che protestano, i giornalisti che raccontano e scoprono l'affaire, papà e mamma che ringraziano, il sovrintendente che nega. Tutti fuorché purtroppo ancora una volta il governo italiano, quello Stato che avrebbe il dovere di ergersi granitico a difendere un proprio figlio a cui servitori forse non troppo infedeli di un'altra nazione hanno tolto la vita. E, invece, non è così. Perché al di là di generiche dichiarazioni d'intenti che non costano nulla e servono ad ancor meno, striscioni gialli esposti un po' qui e un po' là da sindaci volonterosi e chiacchiere da bar o da campagna elettorale dei politici, null'altro è stato fatto per mettere in piedi una seria iniziativa diplomatica e contemporaneamente appoggiare il lavoro dei magistrati italiani che vedono i loro tentativi infrangersi sul muro di gomma eretto dall'omertà di quei governanti d'Egitto mai abbastanza disprezzati per questo. In filigrana, ma senza mai il coraggio di dirlo chiaramente, una malintesa e mal gestita ragion di Stato da chi uno Stato che si rispetti (e si faccia rispettare) nemmeno sa dove metta le fondamenta. Ragioni di economia e di geopolitica male interpretate da analfabeti della politica atte solo a scatenare multicolori iniziative individuali che nascono dal basso. E altro non fanno che alimentare la confusione, non certo la giustizia per Giulio. Giannino della Frattina

Un appello (e gli aiuti): Usa decisivi. Fausto Biloslavo il 9 Dicembre 2021 su Il Giornale. Lettera di 56 deputati Usa. E ora si complica l'affaire Regeni. La lista Usa dei prigionieri da rilasciare, centinaia di milioni di dollari di aiuti militari in ballo e lo stop in punta di diritto al processo Regeni hanno dato il via libera alla liberazione di Patrick Zaki. «È un'operazione americana spinta dal Congresso e negoziata dalla Casa Bianca per ottenere delle concessioni nel campo dei diritti umani - rivela una fonte del Giornale - A livello politico siamo ai ferri corti con l'Egitto dopo la decisione del governo di costituirsi parte civile nel processo sul caso Regeni».

Otto mesi dopo l'arresto al Cairo dello studente egiziano dell'università di Bologna, 56 membri democratici del Congresso di Washington hanno inviato al presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi una lettera di una pagina e mezza. Nella missiva su carta intestata del Congresso i parlamentari chiedono la liberazione di sedici attivisti compreso «Patrick George Zaki». I rappresentanti americani vanno dritti al punto: «La esortiamo a rilasciare immediatamente e incondizionatamente i prigionieri che abbiamo citato (...). Queste sono persone che non avrebbero mai dovuto essere incarcerate», si legge nella lettera.

Una volta insediato alla Casa Bianca il presidente americano Joe Biden ha usato il bastone e la carota con l'Egitto per ottenere un'apertura sui diritti umani. «Gli Stati Uniti garantiscono 1,3 miliardi di dollari all'anno di aiuti militari al Cairo - fa notare la fonte del Giornale che conosce il tema - Gli egiziani devono anche ammodernare i loro F-16 e Biden ha congelato qualche fondo sbloccando altri. Ottenendo alla fine un gesto distensivo soprattutto nei confronti della richiesta del Congresso».

Il 15 settembre la Casa Bianca ha concesso il via libera a 170 milioni di dollari di aiuti militari e ne ha congelati altri 130. La cifra fa parte del pacchetto di 300 milioni che il Congresso lega al rispetto dei diritti umani. Non è un caso che all'udienza che ha concesso la libertà vigilata a Zaki era presente pure un inviato Usa assieme ai diplomatici della nostra ambasciata al Cairo e rappresentanti di Canada e Spagna.

La mossa americana sarebbe stata caldeggiata dall'ambasciatore italiano in Egitto Cairo Giampaolo Cantini, Al Cairo fino ad agosto, e poi seguita dalla nuova feluca Michele Quaroni. Il ministro degli Esteri Luigi Di Maio solo da settembre a oggi ha discusso di Zaki con il suo pari grado egiziano alla media di una volta al mese.

Gli Stati Uniti hanno blandito il presidente al Sisi anche in campi non militari, come l'assegnazione al Cairo della Cop 27 del prossimo anno sui cambiamenti climatici. Ad annunciarlo ci ha pensato il 3 ottobre l'inviato Usa sul clima, John Kerry, proprio alla pre-Cop di Milano. Il presidente del Consiglio, Mario Draghi, «esprime soddisfazione per la scarcerazione di Patrick Zaki, la cui vicenda è stata e sarà seguita con la massima attenzione da parte del Governo italiano». Nelle stesse ore del vittorioso comunicato di Palazzo Chigi, il ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani metteva il dito sulla piaga della Cop 27 in Egitto e l'impunito omicidio di Giulio Regeni. «Andiamo lì - dice il ministro - e che facciamo? Facciamo finta di nulla. Per me questo è un grosso problema».

Oltre alle mosse americane gli egiziani hanno liberato Zaki dopo lo stop al processo ai funzionari dei servizi segreti del Cairo per il brutale omicidio deciso dalla Corte d'Assise a causa di cavilli legati alla notifica degli atti.

Il rischio adesso è che la liberazione di Zaki allontani sempre più qualsiasi spiraglio sul caso Regeni con al Sisi che pensa di avere fatto abbastanza. Non solo: lo studente egiziano è libero, ma con una spada di Damocle sulla testa. Il primo febbraio dovrà tornare in tribunale per la sentenza sulle accuse che lo hanno già tenuto in galera 688 giorni. All'Italia conviene mantenere, almeno per ora, un profilo basso sul suo caso e su Regeni.

Fausto Biloslavo. Girare il mondo, sbarcare il lunario scrivendo articoli e la ricerca dell'avventura hanno spinto Fausto Biloslavo a diventare giornalista di guerra. Classe 1961, il suo battesimo del fuoco è un reportage durante l'invasione israeliana del Libano nel 1982. Negli anni ottanta copre le guerre dimenticate dall'Afghanistan, all'Africa fino all'Estremo Oriente. Nel 1987 viene catturato e tenuto prigioniero a Kabul per sette mesi. Nell’ex Jugoslavia racconta tutte le guerre dalla Croazia, alla Bosnia, fino all'intervento della Nato in Kosovo. Biloslavo è il primo giornalista italiano ad entrare a Kabul liberata dai talebani dopo l’11 settembre. Nel 2003 si infila nel deserto al seguito dell'invasione alleata che abbatte Saddam Hussein. Nel 2011 è l'ultimo italiano ad intervistare il colonnello Gheddafi durante la rivolta. Negli ultimi anni ha documentato la nascita e caduta delle tre “capitali” dell’Isis: Sirte (Libia), Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria). Dal 2017 realizza inchieste controcorrente sulle Ong e il fenomeno dei migranti. E ha affrontato il Covid 19 come una “guerra” da raccontare contro un nemico invisibile. Biloslavo lavora per Il Giornale e collabora con Panorama e Mediaset. Sui reportage di guerra Biloslavo ha pubblicato “Prigioniero in Afghanistan”, “Le lacrime di Allah”,  il libro fotografico “Gli occhi della guerra”, il libro illustrato “Libia kaputt”, “Guerra, guerra guerra” oltre ai libri di inchiesta giornalistica “I nostri marò” e “Verità infoibate”. In 39 anni sui fronti più caldi del mondo ha scritto quasi 7000 articoli accompagnati da foto e video per le maggiori testate italiane e internazionali. E vissuto tante guerre da apprezzare la fortuna di vivere in pace. 

Zaki, la libertà pagata a caro prezzo. In cambio silenzio e lo stop su Regeni. Fausto Biloslavo il 10 Dicembre 2021 su Il Giornale. Chi tiene alle sorti dello studente sa che non ha senso esultare. E il caso dell'italiano ucciso potrebbe impantanarsi per sempre. Patrick Zaki è libero, dopo 22 mesi, meno che a metà. Lo studente egiziano potrebbe tornare in carcere soprattutto se i media, la politica e i suoi fan non manterranno un rigoroso basso profilo, fino a quando non tornerà in Italia. Non solo: il silenzio tombale sul caso Regeni rischia di trasformarsi in definitivo epitaffio, ma giustamente la famiglia e la sua battagliera legale, pur felici per la liberazione di Zaki, non intendono fare buon viso a cattivo gioco. E oggi mamma Paola, papà Claudio e l'avvocato Alessandra Ballerini, in un evento pubblico a Genova, potrebbero non essere teneri con il governo e le mosse egiziane.

Zaki è formalmente in libertà cautelare fino alla prossima udienza del 1° febbraio. Lo sa bene la stessa Amnesty international che si è battuta per la sua scarcerazione. E lo sa ancora meglio il governo e soprattutto l'ambasciata italiana al Cairo, guidata da Michele Quaroni, che segue la linea del «silenzio operativo». Non è un caso che l'ambasciatore non avrebbe preso contatti diretti con la famiglia Regeni.

Il 1° febbraio è difficile che Zaki venga prosciolto dalle accuse con una conclusione a tarallucci e vino. Ben più probabile che per il reato «di diffusione di notizie false» si becchi una multa, che in Egitto significa praticamente la grazia oppure una pena equivalente ai 22 mesi già passati in carcere. I nostri servizi avevano informalmente lavorato in tal senso. Però il reato è punibile fino a cinque anni di carcere, una bella spada di Damocle sulla testa dello studente copto. Ed esiste anche una seconda fantomatica accusa, apparentemente sospesa, di «associazione terroristica», comune ai detenuti politici in Egitto, che prevede 12 anni di carcere. Mohamed Hazem, attivista e caro amico di Zaki, ha dichiarato ieri con chiarezza che «dobbiamo rimanere focalizzati sul processo, la battaglia non è ancora finita». Lo sanno bene le «amazzoni» che circondano lo studente egiziano dall'avvocato Hoda Nasrallah, alla sorella e fidanzata di Zaki. Proprio loro si sono prodigate per farlo parlare il meno possibile con la stampa italiana se non su banalità come la maglietta del Bologna calcio. Niente, ovviamente, sui maltrattamenti che avrebbe subito al momento dell'arresto. Una parola in più potrebbe costargli caro, ma non tutti in Italia vogliono rendersi conto della realtà egiziana. I rinnovati appelli da sinistra sulla cittadinanza auspicata dal Parlamento rendono la libertà di Zaki sempre più provvisoria.

Sul fronte del caso Regeni l'attesa scarcerazione dello studente che frequentava l'università di Bologna rischia di favorire lo stallo. Il processo è fermo fino a quando l'ambasciatore Quaroni non trova il domicilio dei funzionari dei servizi egiziani imputati della morte di Giulio. Una missione praticamente impossibile. L'ipotesi di arbitrato internazionale, che allungherebbe i tempi, non è vista di buon occhio dai familiari.

Alla spiacevole sensazione che gli egiziani abbiano mollato Zaki per non fare alcuna concessione su Regeni si aggiungono i paragoni con altri casi di serie B. Vicende giudiziarie che riguardano cittadini italiani, non egiziani, «prigionieri del silenzio», che non hanno la fortuna dei riflettori accesi come è avvenuto con il Cairo. Primo fra tutti Chico Forti, che secondo il ministro Luigi Di Maio, doveva tornare in Italia un anno fa dopo quasi un quarto di secolo in carcere negli Usa, forse innocente. Per non parlare delle tante, clamorose, vicende dimenticate fra i 2.024 detenuti italiani all'estero, che non sono prigionieri di al Sisi.

Francesco Grignetti per "La Stampa" il 3 dicembre 2021. Sul caso Regeni, molte cose sono ancora da raccontare. Ad esempio che c'è stato un tentativo occulto da parte del governo italiano, esattamente un anno fa, per sbloccare l'impasse giudiziaria con al-Sisi. L'allora premier, Giuseppe Conte, chiamò Marco Minniti e lo pregò di fare un tentativo con il Cairo. L'ex ministro, politicamente parlando era una figura assai indigesta per i grillini. E quindi Conte dovette ingoiare un bel rospo, ma siccome la cooperazione giudiziaria con gli egiziani era a un punto morto, e invece era urgente che gli indagati nominassero un avvocato di fiducia in Italia, ecco che Conte fece il passo. In tutta segretezza, Minniti fu nominato «inviato speciale del presidente del Consiglio» e in questa veste volò per almeno due volte al Cairo. Di questa missione segreta c'è traccia nella Relazione finale della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni, presieduta da Erasmo Palazzotto. «Gli sforzi diplomatici profusi dal Governo - si legge nella Relazione, che sarà discussa dalla Camera a gennaio - per l'acquisizione dell'elezione di domicilio degli imputati si sono rivelati infruttuosi, nonostante le missioni ad hoc svolte al Cairo nel novembre dello scorso anno dall'ex ministro Minniti, in qualità di inviato speciale del Presidente del Consiglio, per superare la condizione di stallo grazie alla sua esperienza pregressa». C'è da sapere che queste tre righe sono state il frutto di una lunga riflessione a palazzo Chigi, che solo alla vigilia della conferenza stampa di mercoledì hanno dato il via libera per pubblicare la notizia. In effetti Minniti poteva vantare una certa «esperienza pregressa». Era stato grazie a lui se nel 2017 una prima rottura di rapporti, quando il nostro ambasciatore era stato ritirato, fu ricucita e se i magistrati della Procura di Roma dopo un lungo periodo di gelo tornarono ad incontrarsi con i colleghi del Cairo. Il 14 dicembre di quell'anno, l'allora ministro Minniti incontrava il presidente al-Sisi e lo stesso giorno «c'è stato un ulteriore passo in avanti - si legge nella Relazione - dal forte valore simbolico: la consegna degli atti processuali alla famiglia Regeni». Al-Sisi garantì, direttamente al e poi pubblicamente, che la cooperazione giudiziaria sarebbe andata avanti. Nei giorni seguenti, i pm romani avrebbero avuto il settimo incontro con i colleghi egiziani. Nell'autunno 2020, insomma, Giuseppe Conte volle provare nuovamente la carta Minniti. I rapporti con l'Egitto erano sempre sul filo. Nell'estate, però, il governo aveva deciso di vendere due fregate Fremm ad al-Sisi. Furono necessari due passaggi in consiglio dei ministri, il 10 giugno e il 7 agosto, per perfezionare la vendita e soprattutto per avere la massima condivisione di responsabilità tra le forze politiche su questa scelta. Nessuno potrà mai dire se la vendita fosse un semplice business da 1 miliardo di euro o dovesse servire a ingraziarsi il regime. Di certo, Conte ha riconosciuto che a quel punto «una mancata vendita sarebbe stata considerata dal Cairo un atto ostile». Quello stesso Conte che ieri commentava: «Il lavoro della Commissione rende ancora più urgente e ineludibile il processo nei confronti degli ufficiali degli apparati di sicurezza egiziani, in modo da rischiarare con definitiva luce giudiziale una pagina oscura della nostra storia più recente». Minniti si precipitò in Egitto. E un risultato è agli atti: il 5 novembre, ci fu un primo contatto dopo quasi un anno di silenzio; il 30 novembre, le due procure si parlarono nuovamente in videoconferenza. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco illustrarono lo stato delle investigazioni e chiesero un aiuto ai magistrati del Cairo, sia pure indiretto, per convincere gli indagati a formalizzare il domicilio e cioè, in sostanza, a sottoporsi al processo in Italia. Al termine, fu emesso un comunicato congiunto che parve da subito contraddittorio. Le due parti presentavano idee antitetiche: gli italiani annunciavano il processo per gli agenti; gli egiziani insistevano per la pista dei rapinatori comuni. Ma poi si concludeva: «Il procuratore generale del Cairo prende atto e rispetta le autonome decisioni della magistratura italiana». Chi sapeva della missione occulta di Minniti pensò che quella frase anodina fosse il preludio a uno sbocco positivo. A palazzo Chigi ci si congratulò per aver scelto la persona giusta. Ma le cose andarono diversamente. A metà dicembre, come annunciato, la procura depositò l'avviso di fine indagini con la ricostruzione dei fatti e le imputazioni. Il 30 dicembre, con un documento unilaterale durissimo e quasi offensivo, la procura generale del Cairo attaccava frontalmente il lavoro di Roma, lo demoliva, ipotizzava dietro l'omicidio di Giulio Regeni fantasiosi complotti ad opera di potenze terze per incrinare gli ottimi rapporti italo-egiziani. Ogni possibile collaborazione tra le due sponde del Mediterraneo finiva lì. Il processo imboccava un binario morto da dove solo un miracolo potrà farlo ripartire. E la missione Minniti non emerse dal cono d'ombra.

Giulio Regeni poteva essere salvato, ma gli egiziani mentirono fino alla fine. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. Omicidio Regeni, dalle carte della commissione parlamentare di inchiesta emerge come le bugie e le resistenze delle autorità del Cairo costarono la vita al ragazzo italiano. Giulio Regeni era scomparso da meno di ventiquattr’ore quando, alle 15.47 del 26 gennaio 2016, il consulente per la sicurezza dell’American University al Cairo – il generale Mohamed Ebeid – chiese sue notizie alla National security agency del Cairo. «Forse è stato arrestato da qualche parte, vi terrò aggiornati», scrisse in una e-mail ai docenti che lo stavano cercando. Il ricercatore italiano era entrato in contatto con l’istituto americano tramite la sua professoressa di Cambridge, Maha Adbelrahman, e fu affiancato dalla tutor Rabab El-Mahdi; preoccupata per la sorte di Giulio, ma anche per la possibile cattiva pubblicità che poteva averne l’ateneo. Meglio «mantenere la cosa tranquilla», consigliava. La sera del 26 gennaio, il generale Ebeid riferì: «Il ministero asserisce che Regeni non è stato arrestato e non è tenuto in alcuna stazione di polizia». E la sera del 27 aggiunse: «Sono nell’ufficio della National security per seguire il caso con loro. Ora il caso di Regeni è sulla scrivania del ministro degli Interni; secondo la Nsa ha ordinato di trovarlo il più presto possibile». Sono le prime bugie e i primi depistaggi egiziani messi in luce dalla relazione della commissione d’inchiesta, che ripercorre quasi ora per ora i nove giorni che vanno dalla sparizione di Giulio al ritrovamento del cadavere lungo un’autostrada; un arco di tempo in cui, scrive il presidente Palazzotto, si poteva «intervenire per salvare la vita a Giulio Regeni, e la responsabilità di questa inerzia grava tutta sulla leadership egiziana». Il generale Ebeid è una delle persone che la Procura di Roma ha chiesto inutilmente agli egiziani di poter interrogare; manca quindi la sua versione sulle informazioni rassicuranti che giungevano dalla Nsa, mentre proprio quattro militari della stessa struttura sono imputati in Italia (ma al momento improcessabili) per il sequestro e l’omicidio di Giulio. Le pressioni da parte italiana arrivarono subito e ai massimi livelli, e l’indifferenza (sommata a menzogne e inquinamenti) delle autorità del Cairo resta un mistero. Le risposte possono essere diverse, a partire dalla «latente conflittualità» tra gli apparati di sicurezza locali, ma rimangono ipotesi. Una certezza, invece, è che gli egiziani non hanno mai detto la verità sulla sorte di Giulio, viste le testimonianze raccolte dagli inquirenti romani sulla sua presenza negli uffici della polizia cairota poche ore dopo la scomparsa e – nei giorni seguenti – in una caserma della National security. Anche l’atteggiamento del ministro degli Interni Magdi Abdel Ghaffar è un enigma, come apparve all’epoca all’ambasciatore italiano Maurizio Massari: «Ciò che maggiormente colpiva e preoccupava con il passare delle ore e dei giorni, era la mancanza di risposte concrete da parte delle autorità egiziane — ha spiegato nella sua audizione —, malgrado le mie insistenze e l’eccellenza dei rapporti bilaterali... Non potevo non notare il contrasto tra questo stato eccellente dei rapporti e l’elusività delle risposte rispetto al caso Regeni». I servizi segreti italiani al Cairo avevano segnalato «l’ipotesi dell’apprensione» di Giulio «da parte delle forze di sicurezza», nonché le attenzioni che aveva ricevuto in precedenza per le sue ricerche sui sindacati autonomi. Ma gli egiziani continuavano a negare. E quando finalmente, dopo una settimana d’attesa, Massari ottenne l’incontro con Ghaffar, il 2 febbraio, non poté non notare «l’atteggiamento evasivo del ministro; malgrado la mia insistenza disse ripetutamente di non sapere e di non disporre di informazioni». L’indomani, l’incontro tra l’allora ministra Federica Guidi (in missione al Cairo per lo sviluppo dei rapporti economici tra i due Paesi) e il presidente egiziano Al Sisi andò, se possibile, ancora peggio. Perché il presidente, nel racconto della ministra, non fu affatto evasivo: «Ricordo questa frase: “Io personalmente farò tutto quello che è in mio potere per cercare di trovare”, non so se mi disse “una soluzione”, ma comunque disse che avrebbe dato una risposta su quello che era successo al nostro concittadino». Era l’ora di pranzo del 3 febbraio 2016. Il «corpo esanime e seviziato» di Giulio era ricomparso tre ore prima, ma gli egiziani non avevano ancora comunicato la notizia. Fu diffusa solo la sera, quando la ministra e l’intera delegazione interruppe la visita e pretese di rientrare immediatamente in Italia. Ma l’autorizzazione al decollo per l’aereo di Stato si fece attendere parecchio. «Non ho dubbi — ha riferito il consigliere diplomatico di Guidi, Mario Cospito — che la nostra decisione di interrompere la missione non era stata affatto gradita dalle autorità locali e anche quella snervante attesa sulla pista dell’aeroporto ne fu forse un segnale».

Giulio Regeni, le carte segrete della Francia: "Ucciso per una rivalità tra i servizi segreti egiziani". Redazione Tgcom24 il 26 Novembre 2021. Giulio Regeni è rimasto vittima "della rivalità" tra gli apparati dell'intelligence del Cairo. L'indiscrezione che rilancia l'ipotesi del coinvolgimento dei servizi segreti dietro le torture e l'uccisione del ricercatore friulano in Egitto spunta dagli Egypt Papers, una serie di documenti riservati pubblicati in un'inchiesta dal sito investigativo francese Disclose. "L'affaire Regeni è stato un abuso, interpretato da alcuni come il risultato di una rivalità tra il Mid, il dipartimento di Intelligence militare, e la National security", ha anticipato la Repubblica citando un "cablo" dell'ambasciata di Francia al Cairo parte dell'inchiesta. La nuova possibile conferma sul ruolo dei servizi segreti egiziani nella morte del giovane italiano arriva nel giorno in cui è stata fissata una nuova udienza del processo in Italia per far luce sul caso: il prossimo 10 gennaio il gup di Roma, Roberto Ranazzi, le misure da intraprendere per fare in modo che i quattro 007 indagati siano messi a conoscenza delle accuse. Per eseguire la notifica a loro carico, finora resasi impossibile bloccando il procedimento.

La tesi dei servizi deviati era già stata evocata in passato da alcuni politici italiani che si erano interessati al caso, oltre che dall'ex capo del Ros Mario Mori e dallo scrittore dissidente egiziano Ala al Aswani. Una tesi mai approfondita che vedrebbe lo stesso Sisi vittima della sua intelligence, alla quale si contrappone la lettura predominante che invece accredita il delirio di onnipotenza del presidente egiziano nell'aver lasciato i suoi 007 agire contro Regeni, certo che l'Italia non avrebbe reagito con ostinazione nella ricerca della verità. D'altronde, ha fatto notare più di qualcuno al Cairo, l'Egitto non aveva interesse a rompere con Roma. La Procura egiziana il 30 dicembre scorso ha comunque dichiarato di non ritenere che i quattro agenti individuati come addetti al controllo dell'attività di Regeni siano stati anche i rapitori e torturatori del giovane. Per questo Il Cairo ha negato ai magistrati italiani i domicili per la notifica degli atti agli imputati, a suo dire meri raccoglitori di informazioni, ritenendo il processo immotivato. Questa mancata notifica, che sembra un cavillo, ha però  azzerato il processo in Italia: il 14 ottobre scorso la terza Corte d'Assise di Roma ha dichiarato nullo il decreto di rinvio a giudizio. Ora la palla passa all'udienza del 10 gennaio prossimo.

Hassan, il Regeni egiziano ucciso nelle nostre prigioni. Luca Fazzo il 23 Ottobre 2021 su Il Giornale. È morto suicida a 20 anni dopo giorni di vessazioni e botte in carcere. Ma i giudici ora vogliono archiviare. Si avvicina alle sbarre, protende le braccia verso le guardie. Si taglia, ripetutamente, tra l'indifferenza delle guardie. Pochi minuti dopo, un agente di custodia entra in cella e lo colpisce al volto, con violenza. Le telecamere immortalano tutto. Sono le ultime immagini di Hassan Sharaf, 20 anni, vivo. La telecamera del carcere di Viterbo segna le 14,02 del 23 luglio 2018: 40 minuti dopo, gli agenti di custodia tornano davanti alla cella del giovane egiziano. Le immagini li ritraggono mentre guardano in alto, verso l'inferriata della finestra: lì c'è appeso il ragazzo che agonizza. Nessuno interviene, nessuno si lancia per salvarlo. Ora quelle immagini sono al centro di un caso drammatico e spinoso, che inevitabilmente ne evoca un altro: quello di Giulio Regeni, il giovane ricercatore italiano assassinato in Egitto da uomini dello Stato cinque anni fa. Qua le parti si invertono: a morire è un giovane egiziano, in un carcere italiano dove non doveva trovarsi. E lo Stato italiano, che giustamente pretende (invano, per ora) che il governo egiziano faccia la sua parte per assicurare alla giustizia gli assassini di Regeni, non fa nulla per allontanare le ombre che gravano sulla morte di Hassan. Il segno più chiaro dell'ostruzionismo è il provvedimento del giudice di Viterbo che rinvia alle calende greche l'udienza che dovrebbe riaprire l'inchiesta frettolosamente chiusa dalla Procura locale. Davanti all'opposizione di una associazione egiziana per i diritti umani, il provvedimento del magistrato ha spostato l'udienza dal 2019 al marzo 2024. Un rinvio di cinque anni. Possibile? Eppure di cose da capire, nella morte di Hassan Sharaf ce ne sarebbero tante. É la storia di un ragazzo arrivato in Italia con i barconi, e finito come tanti altri nel giro della piccola delinquenza. Una condanna per furto, un altra per dieci euro di hashish. Quando lo arrestano per eseguire la pena, Hassan dovrebbe andare - lo dice l'ordine della Procura - in un carcere per minorenni. Invece lo portano prima a Regina Coeli poi, «per opportunità penitenziaria», in uno dei carceri più malfamati d'Italia, il «Mammagialla» di Viterbo, già teatro di pestaggi e di morti, ed investito di recente, tanto per dare una idea, da una indagine su un giro di spaccio di droga all'interno per cui vengono incriminati sia detenuti che agenti della polizia penitenziaria. Hassan arriva al «Mammagialla» il 21 luglio 2017, accompagnato da una cartella clinica che attesta il suo stato di «deficit cognitivo» e di dipendenza, certificato da numerose visite dei medici del carcere romano. Ma a Viterbo viene sostanzialmente abbandonato a se stesso, vede il primo psichiatra dopo dieci mesi dal suo ingresso, a gennaio. In compenso finisce nel mirino degli agenti di custodia. Dopo una soffiata, gli perquisiscono la cella: viene, dice il verbale «afferrato per le braccia» e «reso innocuo». Il giorno dopo Saraf invece racconta ai medici di essere stato picchiato ripetutamente. Risposta del consiglio di disciplina, decisa il 9 aprile: quindici giorni di isolamento. E qui la cosa si fa quasi incredibile. Per cinque mesi la sanzione non viene eseguita. Nel frattempo al «Mammagialla» entra il Garante dei detenuti, raccoglie racconti di altri prigionieri che parlano di pestaggi sistematici. Il 23 luglio, non si sa perchè e nemmeno chi, qualcuno decide di eseguire la sanzione e portare il ragazzo in isolamento. Il medico di turno, Elena Ninashvili, attesta che il detenuto è in grado di affrontare l'isolamento. Dirà poi di non averlo nemmeno visitato, e che il certificato le è stato portato già compilato dalle guardie. «Era tranquillo e collaborativo», scrivono gli agenti. Invece i filmati mostrano un ragazzo agitato e disperato. Eppure la Procura di Viterbo chiede di archiviare tutto, liquidando come «abuso di mezzi di correzione» il ceffone al ragazzo. E neanche i magistrati che dovevano farlo togliere dall'inferno di Viterbo non rispondono di nulla.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

Grazia Longo per "La Stampa" il 14 ottobre 2021. Stamattina si svolgerà la prima udienza, nell'aula bunker di Rebibbia, per l'omicidio di Giulio Regeni, durante la quale il governo si dichiarerà parte civile accanto ai familiari del giovane. E se, come c'è da aspettarsi, la terza Corte d'assise di Roma deciderà di processare, nonostante la loro assenza, i quattro 007 egiziani che hanno sequestrato, torturato e ucciso il ventottenne ricercatore friulano, in questa stessa aula assisteremo a tre interrogatori «protetti», stile pentiti di mafia. Un paravento nasconderà l'identità di tre dei sei testimoni chiave dell'inchiesta condotta dal procuratore aggiunto Sergio Colaiocco, in collaborazione con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco. Ammesso che oggi i quattro imputati (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) vengano ritenuti «finti inconsapevoli» e quindi processabili seppur non presenti, nelle prossime udienze il processo entrerà nel vivo con il contraddittorio dei testimoni chiave. Tre di loro non arriveranno mai a Roma perché vivono in Egitto e saranno quindi verosimilmente «indotti» a non ripetere in un'aula giudiziaria italiana quanto hanno dichiarato a verbale nel loro Paese contro gli agenti della National Security di Al Sisi. Ma fortunatamente altri tre importanti e decisivi testi abitano fuori dai confini egiziani, in località che la procura di Roma mantiene segrete proprio per scongiurare tentativi di pressioni e ricatti nei loro confronti. Della loro rilevanza, Colaiocco ha già parlato durante l'audizione del 10 dicembre scorso, davanti alla commissione parlamentare di inchiesta. Sia in quella occasione, sia nelle carte del fascicolo, i tre uomini non vengono chiamati con i loro veri nomi ma in codice: si tratta dei testi Delta, Epsilon e Gamma. Il primo ha visto Regeni arrestato la sera del 25 gennaio 2016. Il secondo lo ha visto mentre lo torturavano. E il terzo ha sentito il racconto di chi lo ha picchiato. Il testimone Delta racconta: «La sera del 25 gennaio, potevano essere le 20 o al massimo le 21 ero alla stazione di Dokki, ho visto arrivare il ragazzo che solo successivamente ho riconosciuto come Giulio Regeni che, mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. Ma è stato fatto salire su un'auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Il testimone Epsilon per 15 anni ha lavorato nella sede della National Security dove Regeni è stato ucciso, nella villa Lazoughly alla periferia del Cairo in uso ai servizi segreti. Ha raccontato: «Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace. Al primo piano della struttura c'è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti». E infine il teste Gamma ha riferito di aver sentito Magdi Ibrahim Sharif mentre raccontava di avere picchiato il ricercatore italiano, sospettando che volesse «fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione». Intanto il presidente della Camera Roberto Fico invita a «restare tutti uniti, istituzioni e comunità per la ricerca della verità». Ieri Fico ha ricevuto le delegazioni di Amnesty International, Human Rights Watch e Dignity che gli hanno sottoposto i rispettivi rapporti sulla violazione dei diritti umani in Egitto e la richiesta all'Italia di sospendere la fornitura di armi al Cairo, oltre alla promozione di un'indagine internazionale a livello Onu.

Caso Regeni, salta il processo agli 007 egiziani. «Premiata la prepotenza del Cairo». Giovanni Bianconi e redazione Online su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. Il processo è stato bloccato e le carte devono tornare al gup: non c’è la prova che gli imputati siano a conoscenza del giudizio a loro carico. Il processo ai quattro agenti della security egiziana accusati della morte del ricercatore friulano Giulio Regeni è stato bloccato. La corte d’assise ha deciso di restituire gli atti al giudice che aveva ordinato il rinvio a giudizio. La decisione è legata all’assenza in aula degli imputati, nodo affrontato nella prima udienza. In pratica non c’è la prova che gli imputati siano a conoscenza del processo a loro carico. Il processo ai quattro 007 egiziani, accusati del sequestro e della morte di Giulio Regeni, è venuto meno perché a parere della corte d’assise di Roma «il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all’udienza preliminare mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento» si legge nel provvedimento. La nuova udienza sarà finalizzata a una ulteriore ricerca dei quattro agenti egiziani (che la procura avrebbe voluto far processare in contumacia) coinvolti nell’inchiesta o. Per la corte d’assise non si può essere certi «dell’effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento». «Prendiamo atto con amarezza della decisione della corte d’assise che premia la prepotenza egiziana - è il commento a caldo di Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni - . È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo. Pretendiamo dalla nostra giustizia che chi ha torturato e ucciso Giulio non resti impunito. Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano».

Regeni, processo farsa Mancano i 4 imputati, la Corte: tutto da rifare. Nino Materi il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Il pg: l'Egitto ha nascosto la verità. Gli 007 non si presentano e incassano l'annullamento. Il processo agli imputati del delitto Regeni è iniziato ed è subito finito (almeno per il momento). Lo ha deciso, dopo una lunga camera di consiglio, la terza corte d'assise di Roma che ha annullato il decreto che disponeva il giudizio e trasmesso gli atti al gup. Si ricomincia da capo. Hanno avuto la meglio le ragioni procedurali avanzate dai difensori (d'ufficio) degli imputati. In precedenza la presidenza del Consiglio dei ministri aveva deciso di costituirsi parte civile nel procedimento sull'omicidio del 28enne ricercatore triestino, rapito e ammazzato al Cairo dai servizi segreti egiziani. Il 25 gennaio 2016 Giulio fu arrestato con la falsa accusa di essere una «spia al servizio dell'Occidente», venne ammazzato il 3 febbraio; Regeni era un dottorando dell'Università di Cambridge e si trovava al Cairo per motivi di studio, sparì proprio nel giorno del quinto anniversario delle proteste di piazza Tahrir. Quando il cadavere fu ritrovato, il corpo presentava profondi segni di tortura e la madre, all'atto del riconoscimento, disse di aver visto nel volto martoriato del figlio «tutto il male del mondo». In particolare nella pelle di Regeni erano state incise alcune lettere: una modalità di sevizia tipica degli aguzzini agli ordini del presidente Abdel Fattah al Sisi. Ieri, nell'aula bunker di Rebibbia, il procuratore generale nel corso della prima udienza in Corte d'assise ha usato parole dure contro i quattro imputati contumaci (tutti agenti segreti del National Security egiziani) e i vertici di Stato fedeli ad Al Sisi: «Dal governo egiziano abbiamo ricevuto elementi incompleti o manipolati, altri importanti documenti sono stati negati». Prima di entrare nello specifico delle accuse, il pm aveva fatto una premessa di tipo procedurale: «I quattro imputati sono dei finti inconsapevoli. Non sono qui in aula per evitare che il processo vada avanti». Per la prima volta un Paese occidentale metteva alla sbarra non solo i 4, presunti, carnefici di Regeni, ma - indirettamente - anche il concetto di democrazia negata e violazione dei diritti civili per il quale l'Egitto di Al Sisi è tristemente noto nel mondo. Dal punto di vista dell'immagine il governo del Cairo ne è uscito a pezzi, considerato il suo comportamento di totale ostruzionismo rispetto all'iter giudiziario italiano, tanto da essersi rifiutato di comunicare gli indirizzi dei quattro poliziotti ai quali, di conseguenza, non è stato possibile notificare l'atto di convocazione: «Lo hanno fatto per sottrarsi - ha rimarcato il procuratore -. È un caso di abuso del diritto, con una volontà chiara di sottrazione dal processo». Poi è la volta del capitolo «depistaggi»: «Oltre 40 le richieste fatte e mai evase; prove alterate; manipolazione dei tabulati telefonici; finti testimoni. Tutto con l'obiettivo di scagionare la National security: addirittura cinque innocenti sono stati ammazzati in un conflitto a fuoco, facendo poi ritrovare a casa di uno di loro i documenti di Giulio». Ma era solo l'ennesima - cinica - messa in scena. E ancora: «Cancellate le immagini del sistema di videosorveglianza della metropolitana di Dokki dove Regeni fu catturato». I legali d'ufficio dei 4 ufficiali egiziani (il generale Tariq Sabir, i colonnelli Athar Kamel e Usham Helmi, e il maggiore Magdi Ibrahim Sharif) hanno protestato: «Questo non è il processo contro gli imputati, ma contro l'Egitto». Nino Materi 

Processo-Regeni azzerato. Ecco le ragioni del flop. Dietro la decisione di rinviare gli atti al gip l'ennesimo conflitto tra politica e magistratura. Nino Materi il 16 ottobre 2021 su Il Giornale. Il mondo della politica, più o meno trasversalmente, si ribella all'azzeramento del processo-Regeni per un «cavillo burocratico» (che però, come vedremo, tale non è), ma dimentica - per ignoranza o malafede - che quanto deciso ieri dalla terza sezione della Corte d'Assise di Roma è la conseguenza di una riforma normativa decisa nel 2014 fa dal legislatore, vale a dire da quella stessa classe politica che ora se ne lamenta. D'obbligo fare un passo indietro, cercando di spiegare in punta di diritto quanto accaduto 48 fa ore nell'aula bunker di Rebibbia. Dopo cinque travagliatissimi anni di indagini, la Procura di Roma individua i quattro 007 egiziani che, secondo l'accusa, sono i responsabili del sequestro, delle torture e dell'omicidio del 28enne ricercatore italiano. Si tratta di quattro ufficiali dei servizi segreti agli ordini del regime del dittatore Al Sisi, il quale li ha sempre vergognosamente tutelati fino al punto di negare i «dati identificativi» degli imputati agli inquirenti italiani. I nomi sono noti, ma i giudici capitolini non ottengono dalle autorità del Cairo l'indirizzo dei domicili degli agenti della National Security egiziana cui recapitare gli atti del processo. Formalmente i quattro sono «irreperibili». Strategica anche la scelta di non nominare dei legali di fiducia. Per la Procura di Roma gli unici «interlocutori» restano dunque gli avvocati d'ufficio ai quali viene consegnato «il decreto di giudizio»: ciò in base al «presupposto che gli imputati si siano sottratti volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento»; un «presupposto» che però la terza Corte di Assise ha ritenuto infondato, bloccando il processo sul nascere e restituendo gli atti al gip. Insomma, si dovrà ricominciare tutto da capo. Bruciante sconfitta per l'accusa, clamorosa vittoria per la difesa che ha sostenuto con successo la tesi della «inconsapevolezza degli imputati». Ma come è stato possibile che quattro avvocati d'ufficio siano riusciti a smontare, con pochi minuti di arringa, i cinque anni di faticosa indagine portati avanti dal pubblico ministero? A spiegarlo è Il Fatto Quotidiano, interpellando il giudice Oscar Magi, che nel 2009 era presidente della corte nel processo-Abu Omar: storia dalle molte analogie col caso Regeni. La domanda-chiave è: perché allora fu possibile arrivare fino in Cassazione nel giudicare gli agenti della Cia, mentre il processo Regeni si è disintegrato alla prima udienza? «La risposta - sottolineano i giuristi - è nella modifica dell'articolo 420 bis del codice di procedura penale avvenuta nell'ambito della legge delega al governo del 28 aprile 2014. Prima di quella riforma il testo prevedeva che il giudice disponesse anche di ufficio la rinnovazione dell'avviso dell'udienza preliminare quando è provato o appare probabile che l'imputato non ne abbia avuto effettiva conoscenza...»; circostanza, quest'ultima «liberamente valutata dal giudice, e tale valutazione non può formare oggetto di valutazione successiva né motivo di impugnazione». Con l'entrata in vigore nel 2014 della modifica dell'articolo 420 bis, questa facoltà del giudice (la cosiddetta «dichiarazione di contumacia») è stata cancellata. Ecco spiegata l'impossibilità tecnica da parte della Corte d'Assise di Roma di far svolgere il processo-Regeni. Ennesimo caso di giustizia negata. Consumato davanti alle telecamere di tutto il mondo.

"Non c'è prova di notifica": cancellato il processo per l'omicidio Regeni. Francesca Galici il 14 Ottobre 2021 su Il Giornale. La corte d'Assise di Roma non ha prove "dell'effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati": si riparte dall'udienza preliminare. Nessun processo per la morte di Giulio Regeni. Lo ha stabilito, dopo una lunga camera di consiglio, la terza corte d'assise di Roma che ha annullato il decreto che disponeva il giudizio per i quattro 007 egiziani accusati del sequestro, delle torture e della morte di Giulio Regeni, il 28enne ricercatore friulano rapito al Cairo il 25 gennaio 2016 e trovato morto il 3 febbraio successivo. Gli atti sono stati rimandati al gup. Secondo la corte d'Assise di Roma "il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati comunque non presenti all'udienza preliminare mediante consegna di copia dell'atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento". Ora sarà necessario ripartire dall'udienza preliminare. L'obiettivo è quello di avviare una ulteriore ricerca dei quattro 007 egiziani, che la procura avrebbe voluto far processare in contumacia. Ma la corte d'Assise di Roma ha ritenuto che non ci siano agli atti certezze "dell'effettiva conoscenza del processo da parte degli imputati, né della loro volontaria sottrazione al procedimento". Questo perché i quattro 007 egiziani coinvolti "non sono stati stati raggiunti da alcun atto ufficiale". Comprensibile la delusione della famiglia Regeni, che questa mattina si trovava a Roma. "Riteniamo importante che il governo italiano abbia deciso di costituirsi parte civile. Prendiamo atto con amarezza della decisione della corte d'Assise che premia la prepotenza egiziana. È una battuta di arresto, ma non ci arrendiamo", ha dichiarato l'avvocato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, lasciando l'aula bunker di Rebibbia al termine dell'udienza. Il legale ha aggiunto, non senza una punta di polemica, rivolgendosi ai giornalisti: "Chiedo a tutti voi di rendere noti i nomi dei 4 imputati e ribaditelo, così che non possano dire che non sapevano". Un commento che si rifà a quanto detto in aula, dove è stato fatto notare che se è vero che sul caso Regeni c'è stata "una indubbia rilevanza mediatica", è anche vero, secondo la corte, "che i mass media egiziani in lingua araba hanno riportato la notizia dell'iscrizione di 5 appartenenti alle forze di sicurezza locali senza pubblicarne il nome". L'identità delle persone coinvolte è stata rivelata solo nei media internazionali in lingua inglese.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Regeni, processo farsa: la resa dei conti fra Stati finita in mano ai pm. Processo Regeni, giuristi e magistrati d’accordo: non poteva che andare così. Spangher: «Vicini alla famiglia, ma la giustizia ha le sue regole». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 16 ottobre 2021. La battuta d’arresto, subito dopo l’avvio del processo a carico dei quattro agenti dei servizi di sicurezza egiziani accusati della morte di Giulio Regeni, fa clamore se il provvedimento della Corte d’Assise di Roma viene letto con superficialità e sull’onda emotiva. Ma nella sostanza tutela tanto l’interesse dello Stato quanto quello dei familiari del ricercatore universitario ucciso in Egitto. L’ordinanza della Corte d’Assise ha annullato il rinvio a giudizio disposto dal Gup nello scorso mese di maggio e rinviato gli atti con l’intento di rendere effettiva la conoscenza del processo agli imputati (il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif) e far reggere da subito il processo su solide basi. Tutto, dunque, dovrà ripartire dall’udienza preliminare. I giudici hanno rilevato che «il decreto che disponeva il giudizio era stato notificato agli imputati, comunque non presenti all’udienza preliminare, mediante consegna di copia dell’atto ai difensori di ufficio nominati, sul presupposto che si fossero sottratti volontariamente alla conoscenza di atti del procedimento». Di qui l’annullamento del rinvio a giudizio disposto dal Gup cinque mesi fa. La Corte d’Assise ha affermato che le attività svolte (invito a fornire indicazioni sulle compiute generalità anagrafiche e conoscenza della attuale residenza o domicilio), mediante rogatoria all’autorità giudiziaria egiziana per acquisire la formale elezione di domicilio dei quattro imputati, non hanno sortito alcun effetto. In mancanza di indirizzo determinato non è stato possibile notificare alcun atto ufficiale del procedimento agli agenti dei servizi segreti, a partire dall’avviso di conclusione delle indagini.

Processo Regeni, parla il professor Spangher

In tutto questo ha giocato un ruolo l’inerzia, voluta, dell’Egitto, che ha sempre ignorato le richieste italiane fatte tramite il ministero della Giustizia e i canali diplomatici. Giorgio Spangher, emerito di diritto processuale penale dell’Università di Roma “La Sapienza” ritiene che la Corte d’Assise ha seguito la logica della costruzione di un processo solido, che potrà arrivare fino in fondo e garantire i diritti di tutte le parti. «Comprendo molto bene – dice il professor Spangher -, da friulano e giuliano, il dolore della famiglia Regeni e sono loro vicino. Il processo nei confronti degli assassini di Giulio Regeni deve però essere regolare. I giudici si sono mossi correttamente. Hanno fatto bene a prendere quella decisione, perché è inutile costruire un processo sulla sabbia. L’eccezione che loro hanno verosimilmente recepito e trasferito nella loro decisione fa sì che il processo regredisca. Ma nel momento in cui regredirà incomincerà a fare le cose giuste. Se invece questo processo fosse andato avanti, ci saremmo potuti trovare con delle sorprese. Se c’è una invalidità processuale è meglio accertarla subito, restituire gli atti dove si è verificata, sanarla e andare avanti, piuttosto che trascinare inutilmente un processo che rischia di avere dentro il tarlo dell’invalidità».

Il ruolo della Corte d’Assise di Roma

Quanto deciso dalla Corte d’Assise di Roma non deve far perdere la speranza ai genitori e alla sorella di Regeni. «Ragioniamo – aggiunge Spangher – con una logica di tipo diverso. È meglio costruire subito un processo solido piuttosto che dire “siamo andati avanti e ottenuto delle condanne” e poi fare i conti con un annullamento. La Corte d’Assise si è messa una mano sulla coscienza. Non è che abbia chiuso il processo. Ha restituito gli atti ad un altro giudice. Il problema potrebbe essere un altro. Come mai non sono stati fatti degli accertamenti? Come mai non sono state fatte delle verifiche in un determinato momento? Non basta la nomina di un difensore. Bisogna che per l’imputato ci sia stata la certezza della conoscenza del processo. E quando non c’è che ci sia la conseguenza che non vuole andare a processo. Il tema della partecipazione all’esercizio del diritto di difesa degli imputati è molto delicato. Le nullità dell’udienza preliminare sono nullità assolute. Mi viene in mente, anche se per una vicenda completamente diversa, quanto accaduto al giornalista Giuliano Ferrara in materia di irregolare convocazione per l’udienza preliminare. Tale problema si trascinò addirittura fino in Cassazione. Si devono quindi evitare irregolarità tali da portare a conseguenze imprevedibili nel processo. Le situazioni di invalidità sono delle vere e proprie mine vaganti».

Il parere del giudice de Gioia

Anche il giudice del Tribunale di Roma, Valerio de Gioia, analizza in profondità quanto deciso in Corte d’Assise. Il magistrato sottolinea l’importanza di non far prevalere gli aspetti emotivi in una vicenda processuale che si conferma complessa. «Capisco – spiega al Dubbio – il disappunto di una parte della opinione pubblica in relazione al provvedimento adottato dalla Corte di Assise, che, nei fatti, ha comportato una regressione di un procedimento che, già estremamente complicato nella fase delle indagini, per via anche di una serie di depistaggi, stenta a partire. Tuttavia, in punto di diritto, si tratta di un provvedimento ineccepibile, considerato che si può procedere in assenza dell’imputato, istituto che, dal 2014, ha sostituito la contumacia, solo se si ha la certezza che la sua mancata partecipazione al processo è volontaria». De Gioia richiama una importante sentenza della Corte di Cassazione. «In questo caso – evidenzia -, da quello che ho letto, non è stata ritenuta sufficiente la notifica eseguita ai difensori di ufficio degli imputati e in ciò in ossequio alle più recenti indicazioni giurisprudenziali, nazionali e sovranazionali. Come peraltro chiarito dalle stesse Sezioni Unite, con la sentenza numero 23948/ 2019, neanche l’elezione di domicilio presso il difensore di ufficio è sufficiente per la dichiarazione della assenza, dovendo il giudice verificare che vi sia stata una effettiva instaurazione di un rapporto professionale tra il legale domiciliatario e l’indagato. Che la tematica del processo in absentia sia delicata è confermato anche dall’attenzione della legge delega di riforma del processo penale cosiddetta Cartabia, che, facendo tesoro delle indicazioni della Commissione Lattanzi, ha delegato il Governo ad intervenire per uniformarla al diritto dell’Unione europea. In particolare alla direttiva Ue 2016/ 343 che tratta, oltre che della presunzione di innocenza, anche del diritto di presenziare al processo. Le regole processuali devono valere per tutti i processi e per tutti gli imputati». Il diritto ad un giusto processo, dunque, non può essere negato neppure a chi viene accusato della morte del ricercatore friulano. «Sul fatto – conclude de Gioia – che gli indagati, nella sostanza, abbiano conoscenza che in Italia si sta per celebrare un processo che li riguarda, non credo si possano avere dubbi, stante il clamore, addirittura internazionale, dello stesso. Ma ciò non è sufficiente, sotto un profilo formale, per poter procedere nei loro confronti. Il provvedimento, se ci pensiamo bene, tutela soprattutto l’interesse dello Stato e dei familiari della vittima ad evitare la celebrazione di un processo che si preannuncia defatigante e doloroso e che un domani potrebbe essere dichiarato nullo, allontanandoci, così, dall’accertamento della verità». 

Il processo agli 007 del Cairo? Uno spettacolo penoso e prevedibile. Rinvio a giudizio annullato: l'azione temeraria della procura è naufragata come era prevedibile. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 15 ottobre 2021. Il processo ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani sospettati di aver partecipato all’omicidio di Giulio Regeni e ai successivi depistaggi è stato un triste spettacolo. Una messa in scena che si è conclusa come altrimenti non poteva: il rinvio a giudizio disposto dal gup lo scorso maggio è stato infatti annullato perché nessuno degli imputati ha ricevuto gli atti che li chiamano in causa, nessuna residenza, nessun domicilio, tutti irreperibili. E il nostro ordinamento (come quello di qualsiasi Stato di diritto) impedisce di giudicare qualcuno che non sia a conoscenza delle sue accuse. Non è un cavillo, un espediente causidico, è la legge che tutela l’imputato e il diritto alla difesa. Questo vale per tutti i cittadini, anche per gli scagnozzi dell’intelligence del Cairo. Ma davvero la procura era convinta che «la copertura mediatica capillare e straordinaria» del caso Regeni equivalga a una notifica giudiziaria come ha affermato il giudice per l’udienza preliminare, Pierluigi Balestrieri? Si fatica a credere che dei magistrati esperti e competenti possano inciampare in un simile errore e lanciarsi in un’azione così temeraria. Forse gli aspetti simbolici ed emotivi della vicenda hanno prevalso su quelli giuridici annebbiando la mente di chi invece doveva agire con criteri razionali. Si può anche comprendere: la brutalità dell’omicidio, l’arroganza del Cairo, gli insabbiamenti, tutti elementi che gridano suscitano rabbia e dolore. Ma purtroppo -o per fortuna- un processo penale non è la lotta del bene contro il male. Ora è tutto da rifare, il giudice dovrà fissare una nuova udienza e mettere in campo nuovi elementi ma l’esito sarà lo stesso: i quattro non verranno mai rintracciati, per definizione.

Sono degli agenti segreti, abituati ad agire fuori dalla legge, nella più totale impunità, all’interno della zona grigia da cui il regime di al Sisi alimenta il dispositivo della repressione. Rimane la domanda più angosciante: verrà mai fatta luce sull’omicido del ricercatore italiano, gli sarà mai resa giustizia? I nostri esponenti politici possono anche lanciare anatemi e tuonare saette nei confronti del Cairo, e il nostro governo costituirsi parte civile in un processo farlocco, ma la sostanza è che l’Italia non consumerà  mai uno strappo con l’Egitto (di cui siamo il secondo partner commerciale), dall’Eni a Finmeccanica gli interessi contano più delle belle parole.

Giovanni Bianconi per il “Corriere della Sera” il 16 ottobre 2021. C'è un problema di diversa interpretazione delle norme tra magistrati. Di più: un conflitto all'interno del tribunale di Roma, dove un giudice ha ritenuto che il processo per il sequestro e l'omicidio di Giulio Regeni si potesse fare anche in assenza degli imputati e altri hanno replicato che no, il dibattimento non può cominciare perché manca la prova che quegli stessi imputati siano stai informati del giudizio a loro carico. Di fronte agli stessi commi e alle stesse carte bollate c'è un contrasto di vedute che ha portato a due verdetti opposti: decreto di rinvio a giudizio e successivo annullamento di quel provvedimento. Questo è lo scoglio su cui s' è arenato, per adesso, il processo contro i quattro militari della National security egiziani accusati del rapimento e (uno di loro, l'ultimo) delle torture e dell'uccisione di Giulio: il generale Tarek Ali Saber, i colonnelli Aser Kamal Mohamed Ibrahim, e Hosam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Finora c'era una Procura che era riuscita nel mezzo miracolo di portare alla sbarra quattro cittadini stranieri per un reato commesso nel loro Paese ai danni di un cittadino italiano, nonostante gli ostacoli frapposti dall'Egitto che da quattro anni (quando l'indagine ha imboccato la strada che portava a quei quattro nomi) ha interrotto ogni collaborazione. Anzi, a gennaio scorso ha sferrato un duro attacco alla Procura di Roma, accusandola di «conclusioni illogiche e poco conformi ai fondamenti giuridici penali internazionali». Adesso lo scenario è cambiato e l'ostacolo è stato sollevato dalla III corte d'assise che non se l'è sentita di aprire il processo in assenza degli imputati. Pur riconoscendo che questa situazione di improcedibilità deriva dalla «acclarata inerzia dello Stato egiziano a fronte alle richieste del ministero della Giustizia italiano, seguite da reiterati solleciti per via giudiziaria e diplomatica, nonché da appelli ufficiali di risonanza internazionale effettuati dalle massime autorità dello Stato italiano». Ma di fronte a tanta ostinata sordità non si può andare avanti sulla «presunzione» (trasformata dal giudice dell'udienza preliminare Pierluigi Balestrieri in «assoluta certezza») che gli imputati sappiano e si vogliano sottrarre al dibattimento in corso. Ci vuole la «prova certa», da valutare con «particolare rigore», ha scritto la giudice Antonella Capri nell'ordinanza della corte da lei presieduta. Che succederà ora? Nel giro di qualche settimana gli atti del procedimento torneranno allo stesso gup il quale - presumibilmente entro gennaio - fisserà una nuova udienza preliminare dove il pubblico ministero, la parte civile e i difensori torneranno a discutere il tema della reperibilità degli imputati e delle notifiche. È verosimile che il giudice avvierà una nuova rogatoria per chiedere all'Egitto l'elezione di domicilio dei quattro militari, ma è altrettanto verosimile che l'Egitto risponderà con il silenzio fatto scendere dal dicembre 2017 in avanti. A quel punto il processo piomberà in una sorta di limbo, sospeso sine die , in attesa che l'Egitto decida diversamente di fronte alle nuove richieste da reiterare ogni anno. Naturalmente il governo italiano può cercare altre strade per ottenere risposte diverse dal Cairo. Ma la decisione di palazzo Chigi di costituirsi parte civile contro i quattro imputati, al fianco dell'accusa e della famiglia Regeni, non è stata gradita in Egitto; così come l'inserimento nella lista dei testimoni da convocare (su richiesta dei genitori e della sorella di Giulio) del presidente Al Sisi e altri esponenti del governo. Tuttavia, secondo il presidente della commissione parlamentare d'inchiesta Erasmo Palazzotto, la costituzione di parte civile «pone in capo al governo italiano ancora maggiori responsabilità nel dovere esercitare, con ogni strumento a sua disposizione, una pressione diplomatica e politica affinché l'Egitto collabori con la giustizia italiana». Ma non sarà facile.

Francesca Paci per “la Stampa” il 16 ottobre 2021. C'è un non detto che pesa come un macigno sul processo Regeni, perché in realtà, come sanno bene tutti i protagonisti di questa storia, la collaborazione tra le procure di Roma e del Cairo non è mai esistita se non nelle migliori intenzioni degli italiani. Mai, neppure nel ferragosto della speranza di quattro anni fa, quando l'allora ministro degli esteri italiano Angelino Alfano inviava in Egitto l'ambasciatore Giampaolo Cantini per colmare il vuoto di sedici mesi seguito al richiamo del predecessore, Maurizio Massari, quello che aveva riconosciuto all'obitorio il corpo di Giulio Regeni e dopo aver bussato come un pazzo invano alle porte dei principali ministeri egiziani aveva appeso una gigantografia del ragazzo all'ingresso del nostro ufficio consolare, accanto al Presidente della Repubblica, un impegno e un monito. L'inchiesta della Procura di Roma aveva diversi punti deboli e non certo sul fronte delle responsabilità dell'omicidio: anche questo era chiaro. Ma l'Italia doveva cercare la verità giudiziaria perché quella politica era troppo gravosa. Troppo ingombrante l'Egitto, riaffermatosi nel frattempo nella regione come un partner indispensabile per la crisi libica, per la partita energetica, per la gestione dei flussi migratori. Troppo difficile puntare l'indice contro un regime che, come tre giorni fa a Budapest, non perde occasione per ribadire la propria indisponibilità a prendere lezioni di diritto da quell'occidente sempre più sostituibile dalla Russia, dalla Cina e all'occorrenza perfino dalla un tempo nemica Turchia. Gli inquirenti hanno caricato a testa bassa per mesi, per anni, smontando i depistaggi degli egiziani, sfidandone la reticenza, incrociando testimonianze e chiedendo decine di volte gli indirizzi dei quattro ufficiali della National Security indagati, il generale Sabir Tariq e i colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, nomi ormai stranoti agli uomini del presidente Abdel Fattah al Sisi. Che la magistratura da sola potesse sfondare il muro di gomma era ed è wishful thinking. E' mancata la politica, un premier dopo l'altro, è mancata l'Europa, è mancata la forza di cercare un fronte comune per negoziare un cambio di passo con un paese per niente intimidito dal j' accuse dei giuristi internazionali che ha riservato a Regeni il trattamento riservato ai propri figli e, a priori, riservabile ad altri. Sono passati così quasi sei anni dalla notte in cui scoprimmo con sgomento che un ricercatore italiano poteva essere massacrato al Cairo con noncuranza, quasi. Chi era lì in quei giorni può confermare lo stupore e il fastidio del governo egiziano per la "insistenza" (dicevano proprio così i media ufficiali) con cui, capitanati dall'ambasciatore Massari, chiedevamo di sapere. Ci furono giorni in cui, per minimizzare l'abisso Regeni, la propaganda prese a citare in tv i tanti egiziani morti in Italia in situazioni poco chiare, tipo un pover' uomo finito sotto il treno. Quello egiziano è un popolo mite, caldo, leggero sebbene gravato dal peso di una storia che insegue ancora la catarsi. A partire dal 2013, ma forse anche da prima, il regime, a testa bassa per recuperare terreno agli audaci quanto impreparati ragazzi di Tahrir, ha cominciato a diffondere la storia della cospirazione occidentale, il complotto per screditare gli eredi dei Faraoni, le spie travestite da giornalisti per avvelenare la coesione nazionale. L'ha raccontata per spiegare la sorte della meglio gioventù in cella senza prove come l'attivista Alaa Abd-el Fattah, la cui infinita detenzione è tutta nel coraggioso libro curato da Paola Caridi, "Non siete stati ancora sconfitti" (hopefulmonster editore). L'ha raccontata per gettare ombre su Giulio Regeni, lo straniero. La racconta in questi mesi per screditare Patrick George Zaki, lo studente dell'università di Bologna accusato di pseudo-terrorismo che i giudici rinviano sine die. Ad eccezione dell'indomito sito Mada Masr non ci sono più media indipendenti in Egitto. Mentre il complottismo si è radicato nel paese legandosi alla fame, all'incertezza, alla paura. Non c'è traccia del processo Regeni nei giornali egiziani, sulle tv, non se ne parla nei caffè. E' impossibile che la Procura del Cairo non abbia ricevuto le carte dei colleghi di Roma, la notifica del processo, i nomi degli imputati. La magistratura italiana è arrivata con tenacia fin dove poteva arrivare da sola. Perché, checché ci dicessimo, l'Egitto non ha collaborato mai. E siamo all'anno zero.

Il caso del ricercatore triestino. Sentenza sugli 007 egiziani ineccepibile, nessuno schiaffo a Giulio Regeni. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Ottobre 2021. Che cosa sarebbe successo, se in un qualunque Paese africano fosse stato processato un cittadino italiano a sua insaputa? Se quel cittadino italiano non fosse stato, per caso o per una sua volontaria sottrazione, mai raggiunto dall’autorità giudiziaria di quel Paese con la notifica delle indagini a suo carico e della decisione della magistratura di rinviarlo a giudizio? “Saremmo scesi in piazza tutti quanti contro questa barbarie”. Facciamo nostre le parole dell’avvocato Davide Steccanella, che in quanto difensore di Cesare Battisti ha una certa esperienza di processi con imputati “assenti”, e che definisce “ineccepibile e ovvia” la sentenza con cui la corte d’assise di Roma ha azzerato il rinvio a giudizio dei quattro 007 egiziani accusati del rapimento, le torture e l’uccisione di Giulio Regeni. Ma un conto è per l’imputato, aver avuto la possibilità di scegliere, dopo esser stato informato, se presenziare o meno al processo. Era il caso appunto di Cesare Battisti, a lungo latitante e lontano dall’Italia. Altra è la situazione dei colonnelli Usham Helmi, Athar Kamel Mohamed Ibrahim e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, che non hanno mai saputo in via ufficiale di essere stati indagati e poi rinviati a giudizio per reati gravissimi, il sequestro di persona, le lesioni personali aggravate e il concorso in omicidio. Quello di cui è stato vittima Giulio Regeni è una tragedia che non si può dimenticare, una ferita che ti si attacca alla pelle come un male incurabile. E va a merito dei genitori e della sorella del giovane ricercatore il fatto di aver tenuto alto il ricordo con passione e dignità. Anche se il processo per ora però non si può celebrare. Per una sentenza “ineccepibile e ovvia”, che non viene però accettata dalla stampa italiana. Come se fosse normale il fatto che i quattro investigatori egiziani che, per quel che ne sa, appaiono colpevolissimi dei reati di cui sono accusati, non abbiano potuto (o voluto) avere notizia del processo ed esercitare il legittimo e imprescindibile diritto di difesa. Non è possibile che questo concetto-base delle regole del diritto che chiunque di noi rivendicherebbe per sé non sia capito dal nostro sistema di informazione. Pure, ecco un po’ di titoli di ieri. “Regeni processo azzerato”, il Corriere. “Regeni l’ultima offesa” la Stampa. “Processo farsa”, il Giornale. “Altro schiaffo, 007 egiziani accontentati”, il Fatto. “Regeni, decisione choc” la Repubblica, che accompagna la cronaca con un commento di Carlo Bonini, “Quando la democrazia garantisce i diritti di chi li calpesta”. Titolo assai veritiero. Perché risponde a verità il fatto che l’ex premier Giuseppe Conte, che lo ha testimoniato nei giorni scorsi, per ben quattro volte ha tentato invano di sensibilizzare il presidente egiziano Al Sisi. Così come è vero che non hanno avuto molto successo le 64 rogatorie. Tutto vero. Ma occorre ricordare ancora che il diritto è soprattutto forma, e guai se non fosse così? Se è vero, come leggiamo, che il giudice dell’udienza preliminare avrebbe “trovato un varco interpretativo” per poter rinviare a giudizio persone non informate (in via formale, certo, ma è quel che conta) delle indagini a proprio carico, cascano veramente le braccia. E non si può proprio sentire il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco mentre dice “…sono convinto che oggi i quattro imputati sappiano che qui si sta celebrando la prima udienza”, pur conoscendo benissimo, tra l’altro, un’informativa dei carabinieri del Ros del 7 aprile 2020 che evidenziava come nei media egiziani i nomi dei quattro investigatori non fosse mai comparso. Magistrati coraggiosi? No, imprudenti, sia il pm che il gip. Volutamente ignoranti della norma e della giurisprudenza italiana e anche della Corte europea dei diritti umani. È lo stesso coraggio che si chiedeva alla corte d’assise, scrive Bonini su Repubblica. E no, caro collega. Il vero coraggio è quello di applicare il diritto. Quello formale, sì. Che è l’unico titolato a rendere giustizia a tutti, agli imputati come alle vittime.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Caso Regeni, ex procuratore di Roma Pignatone: “Morto per torture durate una settimana”. Ilaria Minucci il 21/09/2021 su Notizie.it. L’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, si è espresso sul caso Regeni, spiegato che il giovane ricercatore è morto per torture durate una settimana. L’ex procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, ha riferito che la morte di Giulio Regeni è avvenuta in seguito alle torture subite dal giovane che si sono protratte per circa una settimana. In occasione dell’audizione che si è svolta in presenza della commissione incaricata di occuparsi della morte di Giulio Regeni, il giovane ricercatore brutalmente assassinato in Egitto, l’ex procuratore di Roma Giuseppe Pignatone ha riferito che la morte del ragazzo è insorta per le torture che gli sono state inflitte nell’arco di una settimana di prigionia. A questo proposito, infatti, l’ex procuratore Pignatone ha dichiarato: “Il primo blocco di dati oggettivi che hanno aiutato ad esempio a smontare e smentire la cosiddetta ipotesi del pulmino si è avuta con l’autopsia perché, come la commissione sa, quella fatta dalle autorità egiziane era di conclusioni abbastanza generiche. L’autopsia, nonostante fossero state asportate alcune parti del cadavere, fatta da uno specialista vero incaricato dalla procura di Roma con le risorse della tecnologia, ha descritto un quadro della morte di Giulio Regeni frutto di torture prolungate per una settimana, che erano incompatibili con la tesi della banda dei rapinatori o truffatori. Quello è il primo elemento oggettivo”. Giuseppe Pignatone, poi, ha aggiunto quanto segue: “Un’altra cosa importante è stato il ruolo della famiglia a del mondo delle organizzazioni e associazioni che hanno sostenuto e sono state accanto alla famiglia perché non c’è dubbio che ha esercitato sia sul governo italiano, ma per l’Italia che è un paese democratico cioè rientra nelle regole costituzionali, sia a livello di opinione pubblica mondiale, una pressione significativa che in certi momenti è stata decisiva per alcuni passaggi. Almeno questa è stata la nostra sensazione da Roma”. L’ex procuratore di Roma ha anche commentato i rapporti tra le autorità egiziane e quelle italiane in relazione al caso Regeni, asserendo: “La collaborazione tra l’autorità egiziana e quella italiana a livello giudiziario ha avuto, secondo me, un andamento altalenante. Io credo che sia giusto riconoscere che una collaborazione fattiva c’è stata, non nel senso che è stato dato tutto quello che si poteva dare o che è stato chiesto. Risulta agli atti che le rogatorie sono state evase solo in parte o con grandissimo ritardo. Ad esempio, prima di avere i tabulati telefonici e il traffico delle celle in alcune zone ci sono state decine di mail, telefonate”. Infine, Giuseppe Pignatone ha osservato: “Mai saremmo potuti arrivare al punto in cui si è arrivati se l’Egitto non avesse trasmesso alcune carte. Alcune di queste erano state chieste da noi, altre date di iniziativa perché noi non potevamo sapere che c’era ad esempio il video della conversazione tra il capo del sindacato e Giulio Regeni”.

Giovanni Bianconi e Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. Ci sarà un processo per il sequestro e l' omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere il successivo 3 febbraio, con i segni delle torture addosso. Un processo contro quattro militari della National security e della polizia cairota, che non compariranno davanti alla Corte d' assise convocata per il prossimo 14 ottobre ma saranno comunque giudicati. Un risultato per nulla scontato, che la Procura di Roma ha raggiunto al termine di un' indagine durata cinque anni in cui «l' impossibile è divenuto possibile», come ha detto il pubblico ministero Sergio Colaiocco davanti al giudice dell' udienza preliminare. Ad ascoltarlo c' erano i genitori di Regeni, e la loro soddisfazione è affidata alle parole dell' avvocata Alessandra Ballerini, sempre al loro fianco nella lunga battaglia: «Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi, ma quello di oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza». Nel primo verdetto di questa complessa e inedita vicenda giudiziaria, il giudice Pier Luigi Balestrieri definisce «consistente e strutturato» l' insieme di indizi messi insieme dalla Procura con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, da cui emerge «un oggettivo "collegamento" tra la morte del ricercatore italiano e gli apparati di sicurezza egiziani, nonché gli odierni imputati»: generale Tariq Sabir, colonnello Athar Kamel, colonnello Usham Helmi, maggiore Magdi Ibrahim Sharif. Nei loro confronti è stato costruito un «compendio investigativo» fatto di testimonianze, documenti e altre evidenze che devono essere verificate in un dibattimento. Dove continuerà la corsa a ostacoli. Il fatto stesso che davanti al gup comparissero quattro nomi anziché quattro persone, è stato argomento per sollevare questioni di nullità e improcedibilità da parte dei difensori d' ufficio degli imputati-fantasma egiziani; quattro avvocati italiani chiamati a rappresentare e garantire i diritti degli accusati. Tuttavia il giudice ha respinto ogni eccezione. Che i quattro militari siano identificati con certezza l' hanno stabilito gli stessi egiziani, che ne hanno comunicato le generalità insieme agli interrogatori; che la competenza sia della magistratura italiana (e di quella di Roma) è scritto nei codici e nelle convenzioni sottoscritte sia dall' Italia che dall' Egitto; che gli imputati siano a conoscenza del procedimento, al quale si sono «volontariamente sottratti», è una «assoluta certezza» derivante dalla «capillare e straordinaria copertura mediatica» degli eventi. Per questi motivi il rinvio a giudizio è legittimo sul piano formale, ma anche su quello sostanziale. Nelle undici pagine del decreto che ordina il processo si sostiene che il sequestro di cui sono accusati i quattro militari era finalizzato proprio alla torture a cui Regeni è stato sottoposto fino alla morte. Di lesioni e omicidio risponde il solo maggiore Sharif, ma il disegno è unico: «Intimidire e esercitare pressioni sulla vittima», per ottenere le informazioni che gli egiziani le volevano estorcere. Su Giulio s' erano addensati sospetti (dimostratisi del tutto infondati) dopo la denuncia del sindacalista Mohamed Abdallah. In seguito Regeni «venne attenzionato dagli apparati di sicurezza egiziani quanto meno dal dicembre 2015», accusa il gup, che poi dà conto delle dichiarazioni degli «informatori» indicati con i nomi in codice Delta, Epsilon, Eta e Teta, i quali l' hanno visto in una stazione di polizia e nella sede della National security «ammanettato, con gli occhi bendati e sfinito dalla tortura». La «nuova sfida», evocata dallo stesso pm Colaiocco, sarà trasformare quegli «informatori» in testimoni, facendoli venire in aula per deporre ed essere interrogati anche dai difensori degli imputati. Obiettivo arduo, visto che da tempo con l' Egitto è ormai saltata ogni forma di collaborazione giudiziaria su questa vicenda. Sono arrivati, piuttosto, «diversi tentativi di depistaggio» che per il gup rappresentano un ulteriore indizio a carico degli imputati. Proprio in vista delle ulteriori difficoltà che si dovranno affrontare al processo, il presidente della commissione parlamentare d' inchiesta sul caso Regeni, Erasmo Palazzotto, chiede al governo italiano «un impegno concreto per ottenere dall' Egitto rispetto, verità e giustizia», mentre per il presidente della Camera Roberto Fico «ora inizia una nuova fase, un processo da cui potranno scaturire altri tasselli di verità».

Giulio Regeni, a processo il generale Tariq e gli altri 007 egiziani. Andrea Ossino su La Repubblica il 25 maggio 2021. Secondo il Gip, gli imputati avrebbero "osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall'autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016" lo studente italiano. E lo avrebbero torturato e ucciso "per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà". Un altro passo verso la verità sulla morte di Giulio Regeni. Anni di depistaggi, fantasiose ricostruzioni e intoppi dovuti a impedimenti legittimi non hanno ostacolato la ricostruzione dei fatti che il sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco ha presentato oggi al giudice per le udienze preliminari Pierluigi Balestrieri. E il magistrato ne ha sposato l’impianto accusatorio rinviando a giudizio il generale egiziano Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e  Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. I quattro, appartenenti ai servizi segreti egiziani, sono accusati del sequestro, delle sevizie e dell'omicidio del ricercatore italiano, il cui corpo martoriato è stato ritrovato il 3 febbraio del 2016 ai bordi della Alexandria desert road, al Cairo. La carente collaborazione degli inquirenti del Cairo non è bastata a fermare il procedimento nato anche grazie alla denuncia del sindacalista Mohamed Abdallah. Secondo le accuse i quattro indagati, insieme ad altre persone mai identificate, hanno “osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni”, si legge negli atti. Il ricercatore italiano è stato bloccato “all’interno della metropolitana de Il Cairo”, è stato “condotto contro la sua volontà e al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Logaugly”, hanno ricostruito gli inquirenti italiani. Così Magdi Ibrahim Abdelal Sharif “per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a Giulio Regeni lesioni che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonchè comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanzia più giorni”. Una violenza che adesso è costata l’accusa di lesioni, visto che il reato di tortura è stato emanato solo successivamente. Sharif è accusato anche di omicidio: “Mediante una violenta azione contusiva, esercitata su vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava lesioni imponenti di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva un’insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava alla morte”. Poi le mistificazioni, i depistaggi per cercare di camuffare un delitto atroce, le ricostruzioni “sospette”. E adesso il rinvio a giudizio. I quattro 007 accusati della morte di Giulio Regeni verranno processati.  “Paola e Claudio dicono spesso che su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani. Da oggi abbiamo la fondata speranza che almeno il diritto alla verità non verrà violato. Ci abbiamo messo 64 mesi ma oggi è un buon traguardo e un buon punto di partenza”, commenta l’avvocato di parte civile, Alessandra Ballerini.

Il processo al via il 29 aprile. Caso Regeni, i nuovi testimoni sulle torture e i depistaggi: “Così agirono i 007 egiziani”. Antonio Lamorte su Il Riformista il  14 Aprile 2021. Ci sono tre nuovi testimoni e nuovi elementi nel caso di Giulio Regeni, il ricercatore friulano scomparso, rapito, torturato e ucciso in Egitto nel gennaio del 2016. I tre accusano i quattro agenti imputati e protagonisti dell’udienza presso il gup di Roma del 29 aprile prossimo. Quattro agenti della National Security de Il Cairo che avrebbero pianificato i depistaggi delle indagini sulla scomparsa del ricercatore di 28 anni. È quanto emerge dai verbali degli interrogatori depositati alla Procura di Roma. Il giudice dovrà decidere se rinviare a giudizio i quattro agenti. I quattro sono accusati, a seconda delle posizioni, di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Secondo uno di questi testimoni, anonimo per motivi di sicurezza, vicino al sindacalista Mohamed Abdallah che denunciò Regeni alle forze di sicurezza locali i depistaggi furono pianificati nell’immediatezza dell’omicidio. La madre del ricercatore ha raccontato di aver riconosciuto il figlio dal naso. Il cadavere, straziato dalle torture, fu trovato lungo la strada che dal Cairo porta ad Alessandria d’Egitto il 3 febbraio del 2016. Il testimone vicino al sindacalista – Regeni stava studiando il sistema dei sindacati di venditori ambulanti per la sua tesi di dottorato per l’Università di Cambridge – ha riferito che la National Security avrebbe quindi fin dal giorno della morte cercato la maniera di addossare la responsabilità dell’omicidio a una banda di rapinatori specializzati in sequestri. Si fece in modo di far trovare nella disponibilità di questi, ritrovati morti dopo un conflitto a fuoco, i documenti del ricercatore. La pista, da Roma, non ha mai convinto ed è stata subito sbugiardata. Non il primo né l’ultimo depistaggio. La nuova voce conferma quella messinscena. “Il 2 febbraio – ha raccontato il teste – ero con Abdallah e ho notato che era spaventato. Mi ha spiegato che Regeni era morto e che quella mattina era nell’ufficio in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Ushame questi in sua presenza aveva ricevuto una telefonata da un collega del commissariato di Dokki“. Nel corso della telefonata i due avrebbero parlato di come indirizzare le indagini verso il gruppo di rapinatori. Cinque rapinatori. Il teste avrebbe deciso di parlare perché soltanto recentemente ha saputo del procedimento contro i presunti responsabili del delitto e “per solidarietà a sua madre e per seguire la mia coscienza, a difesa di tanti innocenti incarcerati illegalmente in Egitto”. Nelle ultime settimane dieci persone si sono fatte avanti affermando di avere notizie sul caso Regeni. Tre sole sono state ritenute attendibili. Fonti informate a livello giudiziario hanno riferito all’Ansa di dati probatori che “apportano nuovi elementi conoscitivi su fatti già acquisiti”. Gli imputati sono il generale Tariq Ali Sabir, i colonnelli Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Secondo i testi il torturatore fu il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, per il quale il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ipotizzano il concorso in lesioni personali aggravate e in omicidio aggravato. Il rinvio a giudizio è stato possibile lo scorso gennaio grazie alle prove raccolte dagli uomini del Ros e dello Sco. Regeni sarebbe stato osservato e monitorato costantemente a partire dall’autunno del 2015, dalla segnalazione di Abdallah in poi. È stato bloccato all’interno della metropolitana de Il Cairo. Prima è stato condotto presso il commissariato di Dokki e poi in un edificio a Logaugly.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. Il sindacalista Mohamed Abdallah, l'uomo che denunciò Giulio Regeni ai funzionari della Sicurezza nazionale egiziana, seppe già il 25 gennaio 2016, giorno del suo rapimento, che il ricercatore italiano «si trovava in un ufficio della State security». E alla vigilia del ritrovamento del cadavere, il 2 febbraio, seppe della morte di Regeni: «Io ero con lui, e ho notato che era palesemente spaventato. So che durante la giornata del 2 febbraio 2016 Abdallah era nell'ufficio della State security a Nasr City, in compagnia di un ufficiale di polizia e questi, in sua presenza, ha ricevuto una telefonata da un suo collega del commissariato di Dokki, dove era detenuto Regeni che, a seguito di tortura, è deceduto». Sono le parole di un nuovo testimone d'accusa ascoltato dalla Procura di Roma il 7 aprile scorso, il quale ha aggiunto un particolare che tocca da vicino il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi: «Anche il figlio di Al Sisi, Mahmoud Al Sisi, un ufficiale dei servizi segreti, seguiva personalmente il caso di Regeni. Dopo tali eventi, per evitare connessioni con la morte del giovane, è stato trasferito in Russia come addetto militare all'ambasciata egiziana a Mosca». E a specifica domanda ha risposto: «È una notizia che ho appreso da Al Jazeera», la rete televisiva araba che trasmette dal Qatar. Il verbale con le nuove dichiarazioni è stato depositato dal pubblico ministero di Roma Sergio Colaiocco al giudice dell'udienza preliminare che il prossimo 29 aprile dovrà decidere se rinviare a giudizio i quattro imputati accusati del sequestro di Giulio (uno pure dell' omicidio); tre di loro appartengono alla National security, uno alla polizia giudiziaria. Agli atti ci sono anche le dichiarazioni registrate di altri due testimoni. Il cittadino egiziano ascoltato dai carabinieri del Ros e dal pm Colaiocco s'è presentato spontaneamente presso una sede diplomatica italiana, spiegando così il ritardo nel racconto dei fatti: «Inizialmente era per me difficile sapendo della sorveglianza degli apparati egiziani, ma siccome adesso so che ci sarà un procedimento penale in Italia contro gli autori dell'uccisione del giovane italiano, per solidarietà alla madre e per seguire la mia coscienza a difesa di tanti innocenti incarcerati illegalmente in Egitto li sto riferendo ora». Del processo italiano dice di avere saputo dai mass media egiziani e internazionali diffusi nel suo Paese; da lì ha deciso di svelare i suoi rapporti con Mohamed Abdallah, che definisce «un infiltrato della sicurezza egiziana nel sindacato dei venditori ambulanti. Gli apparati chiudevano un occhio su alcune situazioni illegali commesse da tali ambulanti (consumo di stupefacenti) per poi approfittare di loro nelle manifestazioni, aizzandoli contro manifestanti contrari al governo». Abdallah gli raccontò in tempo reale i suoi contatti con Regeni: da quando si conobbero, nell'autunno 2015, «perché inviato a lui da una professoressa di Scienze economiche e politiche dell'università del Cairo, di cui mi riservo di fornire il nome che al momento non ho al seguito», al giorno del sequestro, fino alle notizie ricevute il 2 febbraio 2016: «L'ufficiale a cui faceva riferimento Abdallah e che ha sentito parlare al telefono di Regeni con un altro collega è tale Hisham Helmy, ed è lo stesso che dava istruzioni su come evitare il loro coinvolgimento. Il contenuto della telefonata riguardava le modalità di depistaggio sulla morte di Regeni: l'ufficiale in questione diceva che bisognava deformare il corpo fornendo il sospetto che fosse stato rapinato, e quindi accusare qualche pregiudicato del delitto, facendo ritrovare alcuni effetti personali del giovane italiano in loro possesso». È esattamente ciò che è avvenuto a marzo 2016: i documenti di Giulio spuntati durante una perquisizione a casa del capo di una banda di rapinatori uccisi in un presunto conflitto a fuoco con la polizia, accusati della morte di Giulio. Una pista smontata quasi subito dalla Procura di Roma, a cui le autorità egiziane continuano a dare credito nelle loro dichiarazioni ufficiali. «So che le persone inizialmente accusate del delitto erano già detenute nelle carceri egiziane - ha aggiunto il testimone -. Tale circostanza mi è stata riferita la sera del 2 febbraio sempre dall'Abdallah, e faceva parte della fase di occultamento delle prove prospettato dall' ufficiale nel colloquio telefonico con il suo collega di Dokki». Il colonnello Hisham Helmy, 52 anni, già in forza alla National security e ora in servizio preso la Direzione passaporti e immigrazione, è uno dei quattro imputati del sequestro Regeni davanti alla giustizia italiana. «Il nome - ha dichiarato il testimone - non me l'ha mai fornito Abdallah in quanto durante le telefonare a cui ho assistito questi lo chiamava Hisham. Guardando alcuni media stranieri ho poi scoperto che uno degli ufficiali convolti nel caso si chiama Hisham Helmy, e ho intuito che si trattasse della stessa persona».

"Così gli 007 egiziani uccisero Giulio. E decisero di depistare le indagini". Giuliano Foschini su La Repubblica il 14 aprile 2021. Un nuovo testimone accusa la National Security, il servizio segreto egiziano. La testimonianza è stata depositata dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio del ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel febbraio 2016. Il processo al via il 29 aprile. “Il 2 febbraio 2016 Abdallah mi ha spiegato che Giulio Regeni era morto. E che sarebbe stata inscenato un depistaggio” per allontanare i sospetti sulla National security. Quando mancano 15 giorni all’udienza preliminare, emergono nuove prove a carico dei quattro 007 indagati dalla procura di Roma nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso in Egitto nel febbraio 2016. Agli atti c'è infatti la dichiarazione di un nuovo testimone, amico di Mohammed Abdallah, l'ambulante che tradì Giulio Regeni, che aggiunge nuovi elementi alle accuse raccolta delle procura di Roma a carico dei quattro ufficiali egiziani sotto accusa. "Il 25 gennaio- racconta l'uomo - ho saputo da Abdallah della scomparsa del giovane Regeni. Mi disse che era a conoscenza del fatto che l'italiano si trovasse in un uffico della National Security". "Il 2 febbraio - aggiunge - ero con Abdallah e ho notato che era spaventato. Mi ha spiegato che Regeni era mortoe che quella mattina era nell'ufficio in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Ushame questi in sua presenza aveva ricevuto una telefonata da un collega del commisariato di Dokki". "Nel corso della telefonata i due ufficiali - si legge ancora - avevano parlato di come indirizzare la responsabilità della morte del ragazzo verso una rapina. L'ufficiale avanti a lui diceva che bisognava deformare il corpo fornendo il sospetto che fosse stato rapinato e quindi accusare qualche pregiudicato del delitto, facendovi trovare alcuni effetti personali del giovane italiano". Esattamente quello che accadde qualche giorno dopo quando cinque innocenti furono accusati ingiustamente dell'omicidio. Per i fatti accaduti al Cairo, il prossimo 29 aprile rischieranno di finire a processo il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Sono tutti accusati di sequestro di persona pluriaggravato, mentre solo nei confronti di Sharif il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ipotizzano anche il concorso in lesioni personali aggravate e in omicidio aggravato. Le prove raccolte dagli uomini del Ros e dello Sco hanno permesso alla procura di richiedere il rinvio a giudizio lo scorso gennaio. E dopo la diffusione della notizia, una decina di persone hanno deciso di collaborare con gli inquirenti. Tra queste solo tre testimonianze sono ritenute attendibili perché avrebbero fornito nuovi elementi compatibili con fatti già noti. Una delle più rilevanti è quella di un amico di Said Mohamed Mohamed Abdallah, il capo del sindacato autonomo degli ambulanti del Cairo, i commercianti al centro della tesi di dottorato che Regeni stava elaborando per l’università di Cambridge. È stato lui a denunciare lo studente italiano. Il suo rapporto con la National Security sarebbe stato costante. Secondo le accuse i quattro indagati, insieme ad altre persone mai identificate, dopo la denuncia di Mohamed Abdallah avrebbero “osservato e controllato, direttamente e indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni”, si legge negli atti. E ancora: “lo bloccavano all’interno della metropolitana de Il Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori da ogni attività istituzionale, dapprima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Logaugly”. Magdi Ibrahim Abdelal Sharif “per motivi abietti e futili e abusando dei loro poteri, con crudeltà, cagionava a Giulio Regeni lesioni che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni nonchè comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi, seviziandolo con acute sofferenze fisiche, in più occasioni e a distanzia più giorni”. Da qui l’accusa di lesioni, visto che il reato di tortura è stato emanato solo successivamente. Sharif è accusato anche di omicidio: “mediante una violenta azione contusiva, esercitata su vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava lesioni imponenti di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva un’insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava alla morte”, al decesso che invano gli indagati avrebbero cercato di camuffare.

Da ilmessaggero.it il 14 aprile 2021. Si aggiungono tre nuove testimonianze nell'inchiesta sull'omicidio Regeni. Tre persone accusano quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani di essere gli autori del sequestro, delle torture dell'omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore italiano trovato privo di vita in Egitto nel febbraio del 2016. È quanto emerge dai nuovi atti depositati dalla Procura di Roma in vista dell'udienza preliminare, fissata per il 29 aprile, a carico del generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif in cui si dovrà vagliare la richiesta di processo. Gli 007 egiziani sapevano della morte di Regeni già il 2 febbraio del 2016, il giorno prima del ritrovamento «ufficiale» del corpo, e per deviare l'attenzione da loro «inscenarono una rapina finita male». È quanto emerge da una testimonianza, ritenuta attendibile dai magistrati italiani, e depositata in vista dell'udienza gup di Roma del 29 aprile prossimo e che vede imputati quattro agenti della National Securety del Cairo. In tutto sono diventati otto i testimoni che accusano in modo chiaro e credibile i quattro appartenenti ai servizi segreti del Cairo di essere gli autori del sequestro, delle sevizie e della morte del ricercatore italiano. Dai tre nuovi testimoni però arriva un dato importante: i servizi segreti cairoti avevano pianificato i depistaggi già nelle ore successive alla morte di Giulio, di cui erano a conoscenza già il 2 febbraio del 2016, 24 ore prima del ritrovamento «ufficiale» del corpo, stabilendo di inscenare una rapina finita nel sangue. I verbali delle nuove testimonianze sono state depositate oggi dalla Procura di Roma in vista dell'udienza preliminare, fissata per il 29 aprile, del procedimento a carico di del generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif in cui si dovrà vagliare la richiesta di processo. Nei confronti degli 007, il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, contestano reati, a seconda delle posizioni, di sequestro di persona pluriaggravato al concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Dopo la chiusura delle indagini, nel dicembre scorso, almeno dieci persone si sono fatte avanti con gli inquirenti affermando di avere notizie sul caso Regeni, di queste solo tre sono state ritenute attendibili. I «dati probatori apportano nuovi elementi conoscitivi su fatti già acquisiti», spiegano fonti giudiziarie. Uno dei nuovi testimoni ha raccontato a Ros e Sco che gli 007 sapevano della morte di Giulio già il 2 febbraio del 2016 e per deviare l'attenzione da loro erano pronti ad «inscenare una rapina finita male». Il testimone ha raccontato agli inquirenti italiani di essere diventato amico di Mohammed Abdallah, il capo del sindacato indipendente degli ambulanti del Cairo, che ha denunciato il ricercatore italiano ai servizi egiziani. L'uomo ha spiegato che il 2 febbraio di cinque anni fa era con Abdallah: «ho notato che era palesemente spaventato - ha raccontato agli investigatori italiani -. Lui mi ha spiegato che Giulio Regeni era morto e che quella mattina era nell'ufficio del commissariato di Dokki in compagnia di un ufficiale di polizia che lui chiamava Uhsam (uno dei quattro 007 imputato ndr) quando quest'ultimo aveva ricevuto la notizia della morte e che la soluzione per deviare l'attenzione da loro era quella di inscenare una rapina finita male». Le testimonianze raccolte potrebbero, quindi, risultare determinanti per la tenuta dell'impianto accusatorio. Già nell'atto di chiusura delle indagini venivano citati cinque testimoni che avevano fornito tasselli di «verità » su quanto avvenuto al Cairo. Secondo i testi il torturatore di Giulio fu il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Fu lui, insieme a soggetti rimasti ignoti, a portare avanti per almeno nove giorni le sevizie avvenute in una villetta in uso ai servizi segreti nella periferia della capitale egiziana. Torture «durate giorni che causarono a Regeni «acute sofferenze fisiche» messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. Torture avvenute nella stanza 13 al primo piano di una villa utilizzata dai servizi segreti come scannatoio per i «sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale». «L'ho visto li dentro - ha raccontato il testimone - con ufficiali e agenti. C'erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato».

Morte Regeni, Mattarella: «Crimine non resti impunito, ora l’Egitto risponda». Il Dubbio il 25 gennaio 2021. L’intervento del Capo di Stato nel giorno del quinto anniversario del rapimento di Giulio Regeni. Fico: «I pm del Cairo offendono la nostra intelligenza». «Ci attendiamo piena e adeguata risposta da parte delle autorità egiziane, sollecitate a questo fine, senza sosta, dalla nostra diplomazia». Lo afferma il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel quinto anniversario del rapimento di Giulio Regeni. «L’azione della Procura della Repubblica di Roma, tra molte difficoltà, ha portato a conclusione indagini che hanno individuato un quadro di gravi responsabilità, che, presto, saranno sottoposte al vaglio di un processo, per le conseguenti sanzioni ai colpevoli», ricorda il Capo dello Stato che rinnova l’auspicio «di un impegno comune e convergente per giungere alla verità e assicurare alla giustizia chi si è macchiato di un crimine che ha giustamente sollecitato attenzione e solidarietà da parte dell’Unione Europea». «Si tratta – conclude – di un impegno responsabile, unanimemente atteso dai familiari, dalle istituzioni della Repubblica, dalla intera opinione pubblica europea». «Sono trascorsi cinque anni dal rapimento a Il Cairo di Giulio Regeni, poi torturato e barbaramente ucciso dai suoi spietati aguzzini. Un giovane italiano, impegnato nel completare il percorso di studi, ha visto crudelmente strappati i propri progetti di vita con una tale ferocia da infliggere una ferita assai profonda nell’animo di tutti gli italiani», aggiunge il Presidente della Repubblica in una nota. «In questo giorno di memoria desidero anzitutto rinnovare sentimenti di vicinanza e solidarietà ai genitori di Giulio Regeni, che nel dolore più straziante sono stati capaci in questi anni di riversare ogni energia per ottenere la verità, per chiedere che vengano ricostruite le responsabilità e affermare così quel principio di giustizia che costituisce principio fondamentale di ogni convivenza umana e diritto inalienabile di ogni persona», conclude il Capo dello Stato. «Le risposte più recenti della Procura generale del Cairo rasentano la provocazione e offendono la nostra intelligenza», afferma in un’intervista a Repubblica il presidente della Camera, Roberto Fico. «Non possiamo più permetterci ambiguità nei rapporti con l’Egitto», sottolinea Fico. Commentando il fatto che la magistratura italiana giudicherà le responsabilità di quattro ufficiali dei servizi segreti del Cairo sulla morte di Regeni, il presidente della Camera evidenzia: «È una tappa importante, merito del lavoro serio e incessante dei nostri magistrati» che «in questi anni non si sono arresi mai e anche di fronte alla mancanza di collaborazione degli inquirenti egiziani hanno continuato a lavorare, a mettere insieme i pezzi. Di certo non finisce qui. Vogliamo verità e giustizia. Fino in fondo». «La rottura dei rapporti diplomatici fra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano è stato un gesto forte, condiviso da tutti i gruppi parlamentari. Non esistono le condizioni affinché i rapporti fra i nostri Parlamenti tornino alla normalità», spiega Fico sottolineando che modificare i rapporti di forza Italia-Egitto sul caso Regeni «è una strada necessaria. Nei mesi scorsi – prosegue – ho lavorato molto per coinvolgere altri Parlamenti. Nei colloqui con i miei omologhi ho spesso affrontato la questione, perchè sono convinto che debba essere considerata a livello europeo». L’Europa, osserva, «deve iniziare a ragionare e agire come una vera comunità, solidale anche su vicende come questa». La vendita da parte dell’Italia di armi all’Egitto, osserva Fico, «è stata un’immagine che non avremmo voluto vedere. Rispetto alla violazione della legge che definisce i criteri per la vendita di armamenti sarà la magistratura a valutare. Personalmente comunque sarei per una revisione della legge, inserendo paletti più rigidi». Oggi il Consiglio Affari Esteri dell’Unione Europea avrà oggi una discussione sull’omicidio del ricercatore italiano. Lo ha annunciato n entrata ai lavori l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera e di sicurezza, Josep Borrell. Il primo tema dell’agenda è la Russia e «i preoccupanti eventi» perché «questa ondata di detenzioni è qualcosa che ci preoccupa molto così come la detenzione dell’oppositore russo Aleksej Navalnyj», ha detto. «Secondo, le relazioni con la Turchia» e la «cooperazione con la nuova amministrazione Usa». Terzo argomento sarà la diffusione del Covid nei Paesi terzi, soprattutto in Africa e nei Balcani, e «parleremo anche di Giulio Regeni, lo studente italiano ucciso al Cairo». Nella riunione si parlerà anche della situazione della pandemia in Asia e delle relazioni con il Regno Unito, «Paese terzo».

Nessuno isola o punisce il rais, la cruda verità sul caso Regeni. Ragion di Stato: Italia e Europa continuano ancora a vendere le armi all’Egitto. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud il 26 gennaio 2021. La verità su Giulio Regeni è nuda e cruda: è stato assassinato dalla polizia egiziana e l’Italia come il resto d’Europa continua a vendere miliardi di armi al dittatore Al Sisi. Nessuno isola o punisce il raìs, anzi. È inutile giraci intorno. Dieci anni fa da Tunisi, dopo la caduta di Ben Alì, andavo al Cairo per le manifestazioni anti-Mubarak, poi, crollato il raìs egiziano, in auto mi diressi a Bengasi e infine volai in Siria. Le chiamavano primavere arabe. Passato un decennio sono tornate le dittature e l’attuale raìs egiziano rifiuta di perseguire gli assassini di Regeni, nonostante le documentate indagini della procura di Roma e l’appello del presidente Mattarella. Come ha dimostrato la procura il sequestro di Regeni il 25 gennaio 2016 da parte della polizia e dei servizi egiziani è stato un inferno che è andato mostruosamente oltre il rapimento, la tortura e la barbara uccisione di Giulio, perché prolungato da omissioni, depistaggi e colpevoli menzogne. Le autorità del Cairo non solo hanno rifiutato di collaborare ma hanno creato ad arte false prove tentando di prendere in giro la diplomazia e la magistratura italiana. Lo stesso presidente della repubblica Sergio Mattarella ieri ha detto: “L’azione della procura della repubblica di Roma, tra molte difficoltà, ha portato a conclusione indagini che hanno individuato un quadro di gravi responsabilità, che, presto, saranno sottoposte al vaglio di un processo, per le conseguenti sanzioni ai colpevoli. Ci attendiamo piena e adeguata risposta da parte delle autorità egiziane, sollecitate a questo fine, senza sosta, dalla nostra diplomazia”. Peccato che il processo si svolgerà senza gli imputati e nessuno verrà davvero punito. Anche le autorità europee sono finalmente sono consapevoli di quanto è accaduto a Regeni. L’Alto rappresentante dell’Unione europea, Josep Borrell al consiglio dei ministri degli Esteri, ha ringraziato Luigi Di Maio per aver chiesto di discutere del caso di Giulio Regeni alla Ue, “poiché è una questione grave non solo per l’Italia ma per tutta l’Unione”. Parlando del “brutale” assassinio, Borrell ha evidenziato come da allora si sia chiesto all’Egitto di far luce sul caso e di cooperare. “Siamo solidali con l’Italia e la famiglia Regeni nella richiesta di far piena luce”, ha detto Borrell. Ebbene dopo avere scritto nei comunicati con la maiuscola le parole Verità e Giustizia ci si aspetterebbe un comportamento conseguente sia da parte delle autorità italiane e europee. E invece no. Ecco come stanno le cose. Italia, Francia e Germania continuano a vendere armi sofisticate al Cairo e a sostenere di fatto la dittatura di Al Sisi. L’Italia non mai ha messo fine alle relazioni con Al Sisi. Non lo ha fatto dopo il suo primo massacro (nell’agosto 2013 mille sostenitori dei Fratelli musulmani uccisi dalla polizia a piazza Rabaa del regime), né dopo il ritrovamento del corpo torturato di Regeni, il 3 febbraio 2016. Il business civile si è mantenuto stabile, quello militare è cresciuto vertiginosamente. Dai 7,1 milioni di dollari in armi italiane nel 2016 agli 871,7 del 2019. I dati per il 2020 non sono ancora disponibili ma si preannuncia un nuovo record con la vendita di due fregate Fremm di Fincantieri da 1,2 miliardi: la prima è arrivata al Cairo il 31 dicembre, la seconda dovrebbe attraccare entro l’anno, e un pacchetto tra i 9 e gli 11 miliardi totali per 20 pattugliatori Fincantieri, 24 caccia Eurofighter Typhoon, 20 aerei addestratori M346 Leonardo e satelliti da osservazione. Con Al Sisi abbiamo in corso affari in campo militare per una oltre una dozzina di miliardi. Non male per un Paese che con l’Egitto sembrava sull’orlo della rottura insanabile delle relazioni diplomatiche. Ma veniamo alla Francia, un Paese che ama impartire lezioni agli altri. Il presidente Macron ha appuntato la Legione d’Onore sul petto del generale Al Sisi e ha dichiarato che “la vendita di armi non può essere condizionata dai diritti umani”. Così l’11 gennaio si è svolta in pompa magna la cerimonia di consegna della prima corvetta prodotta in Egitto in collaborazione con la francese Naval Group. A questa ne seguiranno altre tre per un valore di un miliardo di euro. A bordo le navi sono equipaggiate con missili e sistemi di difesa aerea, ma si pagano a parte: 400 milioni di euro di missili della Mbda (joint venture di Eads, Finmeccanica e Bae Systems) e altri 100-200 milioni in siluri per Naval Group. Un bel giro d’affari dove gli italiani hanno pure qui una fetta di torta. La Germania della cancelliera Merkel, sempre citata come il pilastro dell’Unione, non è da meno. Nel 2020 la Germania ha autorizzato la vendita di armi al Cairo per un valore di 725 milioni di euro. Spiccano quattro sottomarini militari già consegnati. Ma c’è di più. Molto di più. L’Egitto ha firmato con la tedesca Siemens un accordo per una rete ferroviaria ad alta velocità. Il primo treno è previsto in consegna ad agosto, poi ne arriveranno altri 22. Il costo è stellare per un Paese povero come l’Egitto: 23 miliardi di dollari destinati a servire un’élite mentre 60 milioni di egiziani vivono sotto o di poco sopra la soglia di povertà e i malati di Covid muoiono uno dietro l’altro per mancanza di ossigeno. La democrazia italiana e europea è asservita a una sistema perverso e ipocrita che rende inutili tutti i sacrifici e svilisce i suoi presunti valori. Non avremo mai nessuna primavera, né araba né europea. Ma continueremo a scrivere le parole verità e giustizia con la maiuscola. Europei e italiani hanno delle colpe: anche in mezzo alla pandemia e alla nostra crisi di governo continuano a vendere miliardi di armi e tecnologie a un dittatore. Oggi ne discute il consiglio esteri Ue che comunque non deciderà nulla. La democrazia qui è asservita a una sistema di interessi perverso e ipocrita che rende inutili tutti i sacrifici e svilisce i suoi presunti valori. Non avremo mai nessuna primavera.

Oggi l'udienza preliminare per 4 agenti del Cairo. Ancora fango sulla memoria di Regeni: documentario egiziano online prova a screditarlo. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 29 Aprile 2021. Giulio Regeni “è sparito nell’ottobre del 2015 in Turchia”, ed è “entrato e uscito dall’Italia senza che le autorità lo sapessero”. Sono alcune delle accuse e dei depistaggi che un documentario caricato la notte scorsa su Youtube lancia nei confronti del ricercatore italiano torturato e ucciso al Cairo, in Egitto, nel febbraio del 2016. Il video si intitola “The story of Giulio Regeni” ed è formato da tre parti, per la durata complessiva di 50 minuti. Si presenta come “il primo documentario che ricostruisce i movimenti di Giulio Regeni al Cairo”, è in lingua araba con sottotitoli in italiano ma gli autori sono ignoti, così come ignota è l’origine di una pagina Facebook omonima spuntata nella notte. Anche il tempismo con cui è stato rilasciato il documentario è sospetto: a breve si terrà l’udienza preliminare del procedimento, davanti al gup di Roma, che vede imputati quattro appartenenti ai servizi segreti egiziani: Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Regeni. Nell’atto di chiusura delle indagini i pm parlano di sevizie durate giorni messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. Il tutto avveniva nella stanza 13 di una villetta al Cairo nella disponibilità degli 007 nordafricani.

La ricostruzione del video riporta diversi errori, il nome stesso di Giulio viene storpiato più volte. Il filmato è intervallato da una serie di interviste, rilasciate anche da Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia, l’ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta e l’ex capo di Stato maggiore dell’Aeronautica militare Leonardo Tricarico. I fatti, molti dei quali già noti, vengono distorti e orientati per gettare discredito sul ricercatore italiano. Gli intervistati hanno preso le distanze dal documentario, affermando che le loro parole sono state interpretate e manipolate. Passaggio chiave è quello in cui un avvocato egiziano parla di una presunta “lettera che l’Interpol italiano inviò a quello egiziano il primo febbraio 2016“, ossia due giorni prima del ritrovamento al Cairo del corpo martoriato del ricercatore friulano, per dire che “Regeni era scomparso nell’ottobre 2015 in Turchia”. “Ciò significa – si dice nel video – che Regeni è entrato in Italia ed è uscito senza che le autorità italiane lo sapessero”, sostiene il legale Wesam Ismail parlando di “una realtà molto strana” che la Procura di Roma avrebbe “trascurato”. Raggiunta da Open, Elisabetta Trenta ha dichiarato di essere stata ingannata “in quanto contattata da un presunto giornalista dell’emittente saudita Al Arabiya intenzionato a coinvolgerla in un documentario sulle relazioni tra Italia ed Egitto”. “Se avessi saputo – ha aggiunto l’ex ministra – che la mia intervista sarebbe finita in un documentario che considero vergognoso e inaccettabile, naturalmente non avrei mai dato il mio consenso”. Nel filmato Gasparri afferma che “non ci sono solo i misteri del Cairo e i misteri di Cambridge, ci sono anche i misteri della Procura di Roma, su cui si dovrebbe fare luce”.

Il senatore azzurro si è difeso: “Ho rilasciato un’intervista a un giornalista egiziano, di cui ho il filmato, in cui ho detto che bisogna indagare sull’Università di Cambridge dove ci sono docenti probabilmente vicini ai Fratelli musulmani. Anche i giudici della Procura di Roma com’è noto si sono recati in Inghilterra senza aver ottenuto alcuna risposta. Ma nessuna parola di discredito su Regeni”. Sulla stessa linea anche il generale Tricarico: “Non ho giustificato chi ha ucciso Giulio Regeni, ho detto che bisognava indagare di più su Cambridge per capire meglio quello che è avvenuto. Le mie parole, che sottoscrivo punto per punto, sono state rese funzionali alle tesi del filmato che io non condivido”.

Massimiliano Cassano. Napoletano, Giornalista praticante, nato nel ’95. Ha collaborato con Fanpage e Avvenire. Laureato in lingue, parla molto bene in inglese e molto male in tedesco. Un master in giornalismo alla Lumsa di Roma. Ex arbitro di calcio. Ossessionato dall'ordine. Appassionato in ordine sparso di politica, Lego, arte, calcio e Simpson.

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 29 aprile 2021. La telecamera segue un ragazzo con la barba e il trolley che esce dall'aeroporto del Cairo per infilarsi in un taxi. L'incipit è convenzionale, lo svolgimento meno: il preteso documentario «The story of Regeni» del giornalista Fulvio Grimaldi (nel suo curriculum anche articoli negazionisti del Covid 19) approda in Rete alla vigilia della decisione del giudice per le udienze preliminari di Roma sul rinvio a giudizio dei quattro militari dei Servizi segreti egiziani accusati del rapimento e delle torture di Giulio Regeni. E tenta di accreditare - utilizzando perfino testimonianze «eccellenti» fra le quali gli ex ministri Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta - l'ipotesi di un Regeni pedina dei Fratelli musulmani, agente straniero atterrato in Egitto con scopi eversivi. Né più né meno che la versione offerta dalle stesse autorità egiziane in questi lunghi cinque anni di indagini. Gli argomenti, qui e là, coincidono con quelli prospettati dal governo del Cairo, primo fra tutti quello secondo il quale il ricercatore friulano avrebbe percepito sovvenzioni opache per effettuare il suo lavoro in Egitto. Un argomento già affrontato e risolto da Ros e Sco coordinati dal pubblico ministero della Procura di Roma Sergio Colaiocco. Nulla di opaco. Dopo una analisi sui movimenti bancari di Regeni, gli investigatori hanno trovato che il ragazzo percepiva solo i finanziamenti delle borse di studio universitarie ottenute per la sua attività di ricercatore. E ancora, altro elemento mutuato dalle autorità egiziane, il fatto che gli investigatori del Cairo non abbiano avuto accesso - così si sostiene nel filmato di Grimaldi - al pc di Regeni, mentre dal 2016 gli investigatori italiani hanno messo a disposizione copia forense del pc in questione. Restano le domande, una fra tutte: come mai questo video proprio alla vigilia del processo a Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Usham Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, i funzionari dell'intelligence egiziana sotto accusa per la morte di Giulio Regeni? Vorrebbe una risposta il parlamentare Pd Filippo Sensi che, nell'immaginare «l'ennesima pena di Paola e Claudio Regeni alla vista di questo documentario, comparso dal nulla a screditare l'immagine di Giulio», si augura che sia fatta luce «sulla genesi del filmato attraverso un'inchiesta ad hoc». E di «depistaggi sistematici» parla la Procura di Roma negli atti depositati in vista dell'udienza preliminare prevista per stamani alle dieci: «Fin dall'inizio sono stati posti in essere da molteplici attori plurimi tentativi di sviamento dell'indagine finalizzati a distogliere l'attenzione degli investigatori dagli appartenenti agli apparati pubblici egiziani» è scritto. Perfino l'autopsia è stata rielaborata ad uso e consumo di una versione di comodo, scrivono i pm romani. La relazione del medico legale del Cairo tentò di accreditare l'idea di una morte per incidente stradale di Giulio, scaturita da ferite alla testa tipiche del caso. Fino alla messinscena attraverso la quale si è tentato di riversare la responsabilità della fine del ragazzo su una banda di criminali comuni, a casa dei quali sono stati fatti rinvenire documenti e oggetti del ricercatore. Ora, grazie alle indagini svolte con il supporto dell'avvocato della famiglia Regeni, Alessandra Ballerini, sappiamo che la verità è altrove.

Il mistero del video egiziano che scredita Giulio Regeni. Giuliano Foschini su La Repubblica il 29 aprile 2021. Il documentario, The Story of Regeni, ricostruisce il sequestro, la tortura e l’omicidio del giovane ricercatore italiano. Raccontando però una storia smentita dagli atti di cinque anni di indagini della procura di Roma dove oggi inizia il processo a carico degli agenti egiziani. C’è uno strano, e infamante, video che gira da qualche ora sulla rete. Un documentario – The Story of Regeni - che dura poco meno di un’ora, confezionato come un prodotto di buona qualità (immagini, ricostruzione con attori, luci), che ricostruisce il sequestro, la tortura e l’omicidio di Giulio Regeni. Raccontando però una storia falsa, smentita dagli atti di cinque anni di indagini della magistratura italiana: allontana ogni responsabilità sui militari egiziani;  lancia ombre sull’attività del ricercatore italiano al Cairo, ombre ampiamente già categoricamente smentite dall’inchiesta italiana, con Regeni che viene raccontato come sostanzialmente un fiancheggiatore dei Fratelli Musulmani; accusa la procura di Roma; lancia un messaggio chiaro a tutto il Paese: il processo a carico dei cinque agenti della National security, che sta per cominciare in queste ora a Roma, potrebbe compromettere definitivamente i rapporti commerciali tra i due Paesi. In sostanza, il documentario è uno spot al governo di Al Sisi. Uno strumento, l’ennesimo, di depistaggio e di contronarrazione per cercare di depistare e alterare il flusso delle indagini. Il video non si sa da chi è stato realizzato e prodotto. E’ stato caricato da una mano anonima su un canale youtube e fatto circolare in una data non casuale: siamo alla vigilia, infatti, del processo di Roma, una data storica. Per la prima volta in un’aula di giustizia di un paese europeo si discuterà dei metodi dell’Egitto di Sisi. Di come sia possibile che un cittadino straniero venga torturato e ammazzato. Al documentario, in arabo sottotitolato in italiano, partecipano anche alcuni italiani. Un giornalista, Fulvio Grimaldi. L’ex consigliere militare del governo D’Alema, il generale Dino Tricarico. E due ex ministri, Maurizio Gasparri ed Elisabetta Trenta. “Si fa fatica a pensare che siano delle coincidenze. Questo farebbe pensare a tutt’altro rispetto al rapimento di un ragazzo, alla sua tortura, soltanto perché stesse facendo un lavoro per l’università di Cambridge” dice Tricarico. “La procura di Roma non è un luogo molto apprezzato – dice il senatore Gasparri, invece - La procura di Roma è un luogo per il quale chiediamo un’indagine parlamentare. Perché la magistratura italiana, purtroppo, ha molte cose da chiarire: non ci sono solo i misteri del Cairo o di Cambridge, ci sono anche i misteri della procura di Roma”. Chi abbia prodotto il documentario è un mistero: non ci sono credits, niente titoli di coda. Nessuno sa, nemmeno, chi lo abbia caricato su Youtube. L’ex ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, è arrabbiatissima: “Sono stata vittima di un raggiro: mi ha contatto un giornalista che si è presentato come di Al Arabiya in Italia ed è venuto, con due operatori, in un’università. Si sono presentati con una mail”. “Egregia professoressa – si legge – la nostra troupe è a Roma per svolgere un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto. Dopo aver effettuato molte interviste a riguardo credo che la Sua sarebbe fondamentale nella finalizzazione del progetto”. “Chiesi espressamente – dice la Trenta oggi a Repubblica –  che non si parlasse di Regeni. Me lo assicurarono. Ed effettivamente nulla mi fu chiesto. Poi

Chi c'è dietro il “documentario” egiziano che denigra Giulio Regeni? Davide Ludovisi per wired.it il 30 aprile 2021. A Wired i sospetti sul documentario di propaganda e depistaggio su Giulio Regeni sono sorti già dal trailer, quando era apparso il 26 aprile su un account YouTube creato solo quattro giorni prima. Nella mattina del 30 aprile il canale e il video sono spariti (pur resistendo sui profili di diversi militanti politici egiziani).  Nonostante i vari elementi stridenti già citati (gli errori grammaticali, la mancanza di riferimenti a case di produzione, eccetera) una certa cura nelle scelte registiche suggeriva che The story of Regeni non fosse un prodotto amatoriale. Tuttavia, com’è logico, chiunque volesse raccontare davvero in un documentario una vicenda delicata e complessa come l’uccisione del ricercatore friulano non potrebbe farlo senza sentire i legali della sua famiglia. Contattata immediatamente da noi, l’avvocata Alessandra Ballerini è caduta dalle nuvole: non sapeva nulla del sedicente documentario. Le tempistiche di pubblicazione del video, peraltro, erano come minimo peculiari: il 29 aprile era prevista l’udienza preliminare per i quattro agenti segreti egiziani imputati nella tortura e omicidio del ricercatore italiano (rinviata poi al 25 maggio). Il sospetto che potesse trattarsi di un prodotto propagandistico volto a ridimensionare le reali responsabilità egiziane viene trasformato in certezza mercoledì 28 aprile, il giorno della pubblicazione dell’intero prodotto. 

Inizia la ricerca. Dalla pagina Facebook del documentario (anch’essa disattivata), contattata per chiedere spiegazioni, non è arrivata nessuna risposta alle nostre domande. Ma nel frattempo siamo riusciti a metterci in contatto telefonico con la persona che ha realizzato le interviste agli italiani coinvolti, tra i quali c’è il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri. Inizialmente tranquillo e cordiale, l’autore delle interviste ha iniziato ben presto ad assumere un comportamento più agitato, chiedendo di mantenere l’anonimato. “Mi hanno mandato le domande e io le ho fatte. Ho fatto il lavoro e rimandato il materiale”, si è affrettato a precisare a Wired in un buon italiano con accento arabo. Non è stato però lui a prendere contatto con gli intervistati italiani, bensì un certo Mahmoud Abd Amid, che si è presentato come “rappresentante di Al-Arabiya in Italia”. Eppure non c’è alcun riscontro di una sua collaborazione con l’emittente saudita. Abd Amid ha contattato l’ex ministra Elisabetta Trenta, per esempio – anch’ella comparsa nel video – usando un indirizzo Gmail ora non più attivo. 

Trenta e Tricarico erano inconsapevoli. L’ex ministra della Difesa Trenta, quando il nostro giornale l’ha contattata lo stesso 28 aprile, non sapeva affatto dell’esistenza del video. Non solo: non sapeva neppure di aver fatto un’intervista per un supposto documentario sulla vicenda Regeni. “Mi avevano detto che l’intervista era per un film documentario sui rapporti diplomatici ed economici fra Italia ed Egitto”, ha confessato sconfortata a Wired, chiedendo il link del prodotto per poterlo visionare. “Io all’inizio non volevo parlare né di Regeni né di Zaki e quando l’ho detto al giornalista egiziano lui si è sentito sollevato. Perché aveva paura”, ha chiarito Trenta. “Io non l’ho visto questo video, non so come aiutarla”, ci ha detto ugualmente spaesato l’ex generale Leonardo Tricarico, contattato anch’egli lo stesso giorno della pubblicazione del filmato. Anche a lui la persona che ha condotto l’intervista si è presentata come un giornalista egiziano di Al Jazeera. Tricarico si meraviglia che nel filmato non compaia Fabrizio Cicchitto, altro esponente di vertice di Forza Italia. “Il giornalista mi aveva chiesto un suo contatto perché lo voleva intervistare”, aggiunge. 

Tahrir Egyptian Network? Prima di diventare telefonicamente irraggiungibile, il giovane intervistatore ci ha detto di collaborare come freelance con Al Jazeera, Al Arabiya e Ten. Non ci ha voluto dire chi gli ha commissionato la produzione, ma è stato molto fermo su un punto: Al Jazeera e Al Arabiya non c’entrano nulla. Su Ten invece ha glissa. Che cos’è Ten? Se Al-Jazeera è un colosso mediatico internazionale e Al-Arabiya un network saudita, Ten Tv invece è una televisione egiziana smaccatamente filogovernativa. Sui suoi canali si alternano notizie a prodotti di fiction. Proprio lo stile di questi ultimi richiama in modo molto preciso quello di The story of Regeni, soprattutto per un lavoro di post-produzione davvero simile. In realtà, secondo diverse fonti Ten Tv è qualcosa di più di una tv filo-governativa. Sta infatti per Tahrir Egyptian Network, e sarebbe – lo scrive ad esempio Il Manifesto in questo articolo – proprio una diretta espressione degli apparati di sicurezza del governo di Al-Sisi. D’altronde la sua linea editoriale è molto chiara, anche a partire dalla recente campagna denigratoria nei confronti di Patrick Zaki, nonché dai diversi pretesti per attaccare i Fratelli musulmani, accusati di ordire trame per destabilizzare l’Egitto. Ricorda qualcosa? Wired ha contattato il network televisivo, non ricevendo alcuna risposta.

La ricostruzione. Cosa è successo a Giulio Regeni, le tappe di un mistero ancora irrisolto. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 25 Gennaio 2021. Era il 25 gennaio 2016, esattamente 5 anni fa, e da Piazza Tahir al Cairo Giulio Regeni inviava il suo ultimo sms prima di sparire nel nulla. Alle 19.30 era uscito da casa sua, nel quartiere Dokki, diretto alla fermata Naguib, dove l’aspettava l’amico Gennaro che però non l’ha mai visto arrivare. A mezzanotte i suoi amici, insieme con i funzionari dell’Ambasciata, denunciarono la sua scomparsa, ma l’allarme venne lanciato dalla Farnesina il primo febbraio. Due giorni dopo, il 3 febbraio,  il cadavere di Giulio vienne ritrovato sulla strada che collega il Cairo ad Alessandria. Sul corpo segni di tortura, lividi, fratture, ferite, bruciature, che smentiscono subito le prime ricostruzioni del capo della polizia di Giza, Khaled Shalaby, che parlava di incidente stradale. La notizia scuote il governo e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, mentre la procura di Roma apre un fascicolo. Un team di investigatori viene inviato al Cairo per collaborare con le indagini aperte dagli egiziani. Il 7 febbraio la salma viene portata in Italia, e una nuova autopsia certifica le torture. Il Cairo intanto cambia continuamente versione: si va dall’omicidio a sfondo omosessuale all’uccisione per mano di spie dei Fratelli Musulmani compiuto per creare imbarazzo al governo di Al Sisi. Qualsiasi cosa pur di non menzionare “moventi politici”, esclusi categoricamente dagli inquirenti egiziani. I genitori di Giulio iniziano una battaglia e la vicenda diventa un caso diplomatico, che presto si allarga alla stampa internazionale. “Sono stati i servizi segreti egiziani a rapire Regeni” è il titolo di un editoriale apparso sulla prima pagina del New York Times il 13 febbraio. Sei giorni dopo il movimento assume lo slogan e i colori che ancora oggi lo caratterizzano: Amnesty International e Repubblica lanciano la campagna “Verità per Giulio”. Striscioni gialli cominciano a spuntare sui palazzi istituzionali, nelle univerisità e nelle biblioteche di tutta Italia. L’allora premier Matteo Renzi chiede la “verità ai colleghi egiziani”. Il 24 marzo la prima svolta: il ministero dell’Interno egiziano fa sapere di aver sgominato una banda specializzata in rapine a stranieri e che nel covo sono stati trovati alcuni documenti di Regeni. Muoiono tutti nel conflitto a fuoco, e gli inquirenti locali sono convinti di aver chiuso il caso. Le incongruenze non convincono però i magistrati italiani, che il 14 aprile inviano una rogatoria ai colleghi egiziani e chiedono i acquisire i tabulati telefonici di 13 persone, insieme ai video delle zone frequentate dal giovane e una serie di testimonianze. L’ambasciatore italiano al Cairo viene ritirato e la frattura col Paese di Al-Sisi sembra insanabile. In estate un altro tassello importante per la vicenda: emerge che Mohamed Abdallah, capo del sindacato ambulanti su cui Regeni stava facendo una ricerca, aveva segnalato ai servizi egiziani l’attività di Giulio. Il coinvolgimento degli 007 egiziani diventa oggetto di indagine, al punto che il 4 dicembre 2018 vengono iscritti nel registro degli indagati cinque uomini, membri dei servizi segreti civili e della polizia investigativa, per concorso in sequestro di persona. Sono il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l’agente Mhamoud Najem. L’ipotesi è che si siano adoperati per mettere sotto controllo Regeni dopo la denuncia di Abdallah. Un anno più tardi, dalle audizioni in commissione parlamentare d’inchiesta del procuratore di Roma, Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, arriva la conferma che “sono almeno quattro i depistaggi messi in atto dagli apparati egiziani”. È il preludio della rottura definitiva del rapporto di collaborazione tra i magistrati italiani e quelli egiziani, arrivata lo scorso 30 novembre. I pm hanno annunciato la chiusura delle indagini, ma per gli inquirenti del Cairo “le prove sono insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio”. Rischiano di finire sotto processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. L’accusa per tutti è quella di sequestro di persona pluriaggravato, ma Sharif è anche accusato di lesioni personali aggravate. Sarebbe stato lui a infliggere i colpi mortali a Giulio. Cinque anni di trame tortuose, depistaggi, provocazioni, collaborazioni di facciata e tensioni tra Italia ed Egitto. Che oggi sono più vicine a vedere la luce, quando in Italia verrà celebrato il processo e si tenterà, una volta e per tutte, di riaffermare la verità su quanto successo a Giulio Regeni.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 21 gennaio 2021. La trappola mortale in cui è caduto Giulio Regeni è svelata - almeno in parte - dalle dichiarazioni degli stessi uomini accusati di averla organizzata. Negli interrogatori resi da uno dei quattro militari egiziani ora imputati del sequestro e dell' omicidio del ricercatore friulano, ad esempio, sono contenute affermazioni reticenti, non credibili e a volte contraddittorie che la Procura di Roma considera indizi di una sua diretta responsabilità. Contribuendo alla richiesta, firmata ieri dal procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco, di processare il generale Tariq Ali Sabir, già ai vertici della National security agency e da poco trasferito a incarichi amministrativi; il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim, già capo del Servizio investigazioni giudiziarie del Cairo; il colonnello Uhsam Helmy, anche lui funzionario della National security come il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Proprio Sharif - accusato anche delle torture e della morte di Giulio, gli altri solo del rapimento - è stato interrogato cinque volte dalla Procura generale egiziana, tra il 2016 e il 2018. La sua versione dei fatti sembra cucita per sminuire il proprio ruolo, e sostenere che la National security ha svolto solo regolari e normali indagini a carico di uno studente italiano che si comportava in maniera strana, poi prosciolto da ogni sospetto; stessa tesi della magistratura del Cairo, che s' è pubblicamente dissociata dalle conclusioni dei pubblici ministeri di Roma. Ma proprio quei verbali, trasmessi all' Italia e allegati agli atti del procedimento, mostrano seri dubbi sulla ricostruzione fornita dall' Egitto. Sharif dice che fu il sindacalista Mohamed Abdallah a denunciare «uno straniero che stava svolgendo un' indagine sui venditori ambulanti, e temeva che lo sfruttasse per ottenere informazioni dannose nei confronti dello Stato. Questa persona è Giulio Regeni». Il generale Sadiq decise di approfondire il caso e Sharif racconta: «Io ho collaborato con Abdallah per arrivare alla verità dei fatti». Però fu il sindacalista, «di sua propria iniziativa», a carpire informazioni sul bando per il finanziamento di 10.000 sterline da parte della società britannica Antipode, anche «fingendo che le sue condizioni finanziarie fossero difficili e che avesse bisogno di soldi per curare la moglie e la figlia». Sharif dice che la video-registrazione del colloquio tra Abdallah e Regeni del 7 gennaio 2016, quando il ricercatore italiano ribatte bruscamente alle richieste di denaro, fu un' iniziativa del sindacalista: «Propose di registrare gli incontri attraverso il suo telefono cellulare e portarmi le registrazioni per assicurarmi la sua sincerità». Abdallah afferma il contrario, e la conferma arriva dalla sua telefonata alla sede della National security in cui - terminato il colloquio con Giulio - chiede agli agenti di andare a toglierli di dosso la microtelecamera e il microfono che avevano installati sui suoi vestiti. «Io non so nulla di questo affare e lui non mi ha incontrato quel giorno», insiste Sharif. E di fronte alle pur timide contestazioni sulle telefonate di Abdallah alla sede della Sicurezza nazionale ribatte: «Non ricordo di avere telefonato ad Abdallah e non ricordo con chi ho avuto contatti telefonici quel giorno». Ai magistrati il sindacalista ha riferito che, dopo la morte di Regeni, Sharif gli aveva raccomandato di non parlare agli inquirenti dei loro rapporti, ma il maggiore replica: «Non è vero. Abdallah mi aveva informato di essere stato invitato per essere interrogato, e io ho risposto invitandolo a recarvisi; mai abbiamo discusso dei particolari dell' interrogatorio che poteva subire». Molti non ricordo arrivano quando a Sharif viene chiesto delle sue telefonate con l' agente di viaggi Rami Imad, che lo chiamava dopo ogni colloquio con Noura, un' amica di Giulio; una volta alle 3,31 di notte del 20 gennaio, cinque giorni prima del sequestro Regeni: «Non ricordo l' argomento, potrebbe essere stato per il mio viaggio turistico in Grecia, o semplicemente una conversazione normale a causa del rapporto di amicizia». Il militare ribadisce che, verificata l' infondatezza dei sospetti di Abdallah sul ricercatore italiano, la sua struttura se n' è disinteressata, venendo a sapere della sua scomparsa solo dopo il ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio. Abdallah invece ha riferito che Sharif aveva intenzione di controllare le mosse di Giulio proprio il 25 gennaio, anniversario della rivolta anti-regime di piazza Tahir, quando si temevano manifestazioni. Nelle sue dichiarazioni Sharif non ha mancato di seminare qualche velenosa traccia di presunti moventi sessuali nell' omicidio di Giulio: «Abdallah mi ha detto che Regeni ammirava una delle ragazze che fa la venditrice ambulante, e ha parlato con lui sulla difficoltà nell' avere un rapporto sessuale in Egitto». I depistaggi smascherati dalla Procura di Roma trovano dunque appigli persino negli interrogatori condotti dai magistrati egiziani. Che hanno bollato come «errate, illogiche e non conformi alle norme penali internazionali » le conclusioni raggiunte dai colleghi italiani. La risposta diplomatico-giudiziaria è arrivata ieri, con la richiesta di rinvio a giudizio dei quattro imputati che i pm vogliono processare anche in loro assenza; dimostrando, come prevede il codice, che «hanno avuto conoscenza del procedimento o se ne sono volontariamente sottratti». Su questo punto, prima ancora che sugli indizi a loro carico, dovrà pronunciarsi ora un giudice dell' udienza preliminare. Prevedibilmente entro l' estate.

L'Egitto sotto accusa. Omicidio Regeni, la Procura chiede il processo per quattro agenti segreti egiziani. Massimiliano Cassano su Il Riformista il 20 Gennaio 2021. Dopo cinque anni di dubbi, depistaggi, accuse, risposte formali e silenzi assordanti, la Procura di Roma ha chiesto il rinvio a giudizio per quattro agenti dei servizi segreti egiziani nell’ambito dell’inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, avvenuto a gennaio del 2016. Per il governo di Al Sisi gli autori del delitto sono ancora ignoti, ma secondo il procuratore Michele Prestipino e il pm Sergio Colaiocco ci sarebbero già nomi e cognomi dei responsabili: sono il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Tutti appartenenti alla National Security egiziana, e accusati di sequestro di persona pluriaggravato. All’ultimo della lista, Sharif, vengono anche contestati i reati di lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. L’insufficienza respiratoria acuta che secondo gli inquirenti ha causato la morte di Giulio sarebbe arrivata proprio a causa delle imponenti lesioni di natura traumatica provocate dalle sue percosse. Dopo decine di incontri tra inquirenti e investigatori italiani e egiziani si è arrivati dunque alla formulazione di un quadro accusatorio. La svolta decisiva si ebbe il 4 dicembre del 2018, quando la Procura di Roma iscrisse nel registro degli indagati cinque 007 egiziani, alti ufficiali dei servizi segreti civili e della polizia investigativa d’Egitto, accusati di sequestro di persona. La richiesta di rinvio a giudizio ha indispettito il procuratore generale Hamada al Sawi, che ha espresso riserve sulla “solidità” del quadro probatorio. “Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace”, ha riferito un testimone che per 15 anni ha lavorato nella sede della National Security dove Giulio è stato portato per essere torturato e poi ucciso. Al primo piano della struttura c’è la tristemente nota “stanza 13”, dove vengono solitamente condotti gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. “Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti”, ha raccontato il testimone davanti alla commissione parlamentare di inchiesta sulla morte del ricercatore italiano. L’uomo ha anche aggiunto di aver notato Giulio “mezzo nudo, con segni di tortura sul torace” e di averlo riconosciuto perché parlava italiano. L’udienza preliminare dovrebbe essere fissata a maggio, e davanti al gup verrà affrontata anche la questione della mancanza di elezione di domicilio degli imputati, che le autorità del Cairo non hanno mai voluto indicare. Non è escluso che si proceda lo stesso con l’udienza nonostante manchi la certezza dell’avviso di notifica per gli interessati, vista la rilevanza mediatica che il caso ha raggiunto anche in Egitto.

«Regeni ucciso per un complotto»: la nuova teoria dei pm egiziani. Marta Serafini su Il Corriere della Sera il 31/12/2020. I magistrati del Cairo accusano Giulio di comportamenti sospetti, respingono le prove contro i quattro 007 e ribadiscono di non voler collaborare. Palazzotto: vergognoso depistaggio. Movimenti sospetti, complotti e nessun intenzione di collaborare per cercare di stabilire la verità sulla morte di Giulio. La Procura egiziana si schiera di nuovo in difesa dei quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, delle torture e dell’uccisione di Regeni, chiudendo ancora una volta la porta in faccia all’Italia. Ma non solo. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe «immotivato», la procura generale egiziana accredita la tesi secondo la quale imprecisate «parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare» il caso «per nuocere alle relazioni» tra i due Paesi. Ciò, aggiunge la Procura, sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta del giorno del sequestro e di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto durante una missione economica italiana al Cairo. Tutte posizioni che la Farnesina definisce inaccettabili mentre ribadisce la fiducia nell’operato della magistratura italiana e annuncia di voler proseguire in tutti le sedi - compresa l’Unione europea - con ogni sforzo «affinché la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere». E’ il procuratore generale Hamada Al Sawi a parlare in un comunicato. Prima ribadisce, come già fatto a fine novembre, che «per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto». Ma non solo. La nota diffusa da Il Cairo torna a sottolineare che il procuratore «ha incaricato le parti cui è affidata l’inchiesta di proseguire le ricerche per identificare» i responsabili. Questo perché si «esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso», dei quali non è stata ancora fornita ai colleghi italiani, nonostante la rogatoria del 2019, l’elezione di domicilio degli indagati. Dunque niente collaborazione con le autorità italiane da parte di quelle egiziane. Ma la Procura egiziana si spinge ancora più in là definendo il comportamento tenuto da Giulio Regeni nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, «non consono al suo ruolo di ricercatore» e per questo posto «sotto osservazione» da parte della sicurezza egiziana «senza però violare la sua libertà o la sua vita privata». «Tuttavia – aggiungono – il suo comportamento non è stato valutato dannoso per la sicurezza generale e, quindi, il controllo è stato interrotto». Altro punto è il tentativo di rispolverare la tesi dei rapinatori, ossia che a sequestrare e ammazzare Giulio Regeni sia stata una banda di cinque malviventi uccisi in circostanze sospette nel marzo 2016. Intervento, quello delle forze di sicurezza egiziane, cui seguì il ritrovamento dei documenti e di presunti effetti personali appartenenti al ricercatore nella casa di una delle persone uccise. Una messa in scena architettata, si presume, dall’intelligence egiziana per depistare le indagini che invece puntano l’attenzione ai vertici dei servizi del Cairo. Ma «vista la morte degli accusati – scrive infatti la Procura egiziana – non c’é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo». Una teoria per altro smontata dalla procura di Roma già dal 2016. I pm egiziani si contraddicono un’altra volta, quando parlano di complotto. Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura accredita infatti la tesi che imprecisate «parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare» il caso di Giulio Regeni «per nuocere alle relazioni» tra i due Paesi. A prova di questa «tesi», la procura generale del Cairo indica la tempistica del ritrovamento del corpo nella capitale egiziana all’inizio del 2016, e la scelta sia del giorno del sequestro, il 25 gennaio, sia di quello del ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio, proprio durante una missione economica italiana al Cairo. Ma se a compiere l’omicidio fosse stata una semplice banda di rapinatori, non si spiega perché questi avrebbero dovuto organizzare una messinscena «per nuocere alle relazioni» tra Italia e Egitto. Inevitabili le reazioni in Italia, oltre quella della Farnesina. Erasmo Palazzotto, presidente della commissione parlamentare d’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni sottolinea come la nota della procura rappresenti «una mezza ammissione e insieme un altro vergognoso tentativo di depistaggio» e chiede che il governo Italiano pretenda chiarimenti». E anche per l’europarlmentare Pierfrancesco Majorino «le dichiarazioni della procura egiziana sul caso Regeni, rese pubbliche oggi, sono un atto ostile e inaccettabile nei confronti dell’Italia e della procura di Roma nonché un insulto al Parlamento europeo. Ci vuole una reazione durissima da parte di tutti». Mentre Luigi Manconi, presidente dell’associazione «A Buon Diritto» definisce la nuova nota della procura «una totale incondizionata indisponibilità alla pur minima cooperazione giudiziaria con la procura italiana». E chiede che l’Italia e l’Europa «esercitino forme di pressione» contro il «regime dispotico» del presidente dell’Egitto Al Sisi. «Non c’é bisogno di dichiarare guerra all’Egitto», o rompere i rapporti diplomatici, ma l’alternativa «non è l’inerzia», sottolinea l’ex senatore del Pd, che è stato presidente della commissione Diritti umani del Senato e ha seguito da vicino il caso Regeni. Anche Amnesty International ha immediatamente reagito, definendo «inaccettabile» la dichiarazione della procura egiziana. «Dovrebbe ritenerla inaccettabile anche il governo italiano dal quale auspichiamo una presa di posizione», ha spiegato il portavoce in Italia, Riccardo Noury. «C’è di nuovo un palese tentativo delle autorità del Cairo di smarcarsi da ogni responsabilità, attribuendo quanto accaduto a misteriosi soggetti che avrebbero agito per contro proprio», sottolinea Noury, «si torna sull’idea del depistaggio con un’assoluzione da ogni responsabilità». «Dopo cinque anni», fa notare il portavoce di Amnesty, «salta fuori in questa nota che Regeni era stato attenzionato, ma poi disattenzionato, nonostante il suo comportamento fosse ritenuto sospetto»...Giulio Regeni è stato rapito torturato e ucciso al Cairo tra il gennaio e il febbraio del 2016. In Italia per il suo omicidio sono accusati quattro agenti di sicurezza egiziani. Secondo la ricostruzione della procura di Roma, Regeni sarebbe stato sottoposto a sevizie durate giorni che causarono al giovane «acute sofferenze fisiche» messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni.

Regeni, l'Egitto: "Processo immotivato. Caso usato per nuocere ai rapporti con l'Italia". La Repubblica il 30 dicembre 2020. (ansa). "Il governo italiano dovrebbe ritenere inaccettabile questa dichiarazione della procura egiziana", ha commentato Amnesty International. "Il Procuratore generale ha annunciato che per il momento non c'è alcuna ragione per intraprendere procedure penali circa l'uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto": lo ribadisce in un comunicato la Procura generale egiziana. La magistratura italiana il 10 dicembre scorso aveva chiuso le indagini contro 4 appartenenti ai servizi egiziani, passo che precede l'apertura di un processo. Ma la nota diffusa da Il Cairo torna a sottolineare che il Procuratore "ha incaricato le parti cui è affidata l'inchiesta di proseguire le ricerche per identificare" i responsabili. "Il procuratore" generale egiziano Hamada Al Sawi "esclude ciò che è stato attribuito a quattro ufficiali della Sicurezza nazionale a proposito di questo caso", si afferma inoltre nel testo pubblicato sulla pagina Facebook dell'istituzione cairota la quale ha evitato di fornire l'elezione di domicilio degli indagati come richiesto invece dalla Procura di Roma. "Vista la morte degli accusati, non c'é alcuna ragione di intraprendere procedure penali circa il furto dei beni della vittima, il quale ha lasciato segni di ferite sul suo corpo", aggiunge il comunicato. Il riferimento è ai cinque componenti della "banda criminale" specializzata in rapine a "stranieri", "tra i quali un altro italiano oltre alla vittima", ricorda la nota. Il gruppo fu sgominato in uno scontro a fuoco con forze di sicurezza al Cairo il 24 marzo 2016. Le autorità egiziane sostennero che nel loro covo furono trovati documenti di Regeni, tra cui il passaporto, ma la versione non convinse gli inquirenti italiani. Già nel comunicato congiunto del 30 novembre con la Procura di Roma, quella generale egiziana aveva avanzato "riserve sul quadro probatorio" che, a suo dire, è costituito "da prove insufficienti per sostenere l'accusa in giudizio". Nel sostenere che un processo in Italia sarebbe immotivato, la Procura generale egiziana nel suo comunicato accredita la tesi che imprecisate "parti ostili a Egitto e Italia vogliano sfruttare" il caso di Giulio Regeni "per nuocere alle relazioni" tra i due paesi. Ciò sarebbe provato dal luogo del ritrovamento del corpo e dalla scelta sia del giorno del sequestro sia di quello del ritrovamento del cadavere, avvenuto proprio durante una missione economica italiana al Cairo, si sostiene nel testo. "Consideriamo inaccettabile la dichiarazione della procura egiziana con cui respinge ufficialmente le conclusioni delle indagini della procura di Roma", ha detto all'Agi il portavoce di Amnesty International in Italia, Riccardo Noury "E dovrebbe ritenerla inaccettabile anche il governo italiano dal quale auspichiamo una presa di posizione". E inaccettabile la definisce anche la Farmesina. Lo scrive il ministero degli Esteri in una nota: "La Farnesina, nel ribadire di avere piena fiducia nell'operato della magistratura italiana, continuerà ad agire in tutte le sedi, inclusa l'Unione europea, affinchè la verità sul barbaro omicidio di Giulio Regeni possa finalmente emergere". Il dicastero conclude auspicando che "la Procura Generale egiziana condivida questa esigenza di verità e fornisca la necessaria collaborazione alla Procura della Repubblica di Roma". "Ancora una volta l'Egitto dimostra di non voler collaborare per fare luce sulla morte di Giulio Regeni. L'ennesima provocazione, inaccettabile, arriva oggi - scrive su Facebook il presidente della Camera Roberto Fico - Le motivazioni per cui la Procura egiziana non è intenzionata ad aprire un processo sul sequestro, la tortura e l'uccisione del nostro ricercatore sono vergognose. Mentire sapendo di mentire. Per questo la Camera ha sospeso le relazioni diplomatiche con il Parlamento egiziano. A tutto c'è un limite".

Sofia Fraschini per "il Giornale" il 21 gennaio 2021. La notizia arriva dal Cairo e rimbalza in Italia grazie a un report di Banca Akros: l' Egitto, in affari con Leonardo, sta «silenziosamente» costruendo la sua flotta con gli elicotteri AW149 del gruppo italiano, avendo ricevuto 5 velivoli dei 24 super-medium-twins relativi a un ordine del 2019 per 871 milioni di euro. Come racconta egyptdefenceexpo.com, citando documenti del ministero degli Esteri, l' affare è stato registrato nel rapporto 2019 sulle esportazioni di armi stilato dalla Farnesina per il Senato. Una notizia positiva per Leonardo «dal momento che il gruppo italiano - spiega Akros - ha avuto problemi nella consegna dei suoi prodotti finiti a causa delle restrizioni legate alla pandemia». Ma che imbarazza il governo. I rapporti geopolitici nel Mediterraneo orientale si stanno muovendo velocemente, anche a causa delle mire espansionistiche della Turchia, e questo ha fatto riavvicinare Roma e Il Cairo. Tutta questa vicenda si intreccia però, inevitabilmente, con le indagini sull' omicidio di Giulio Regeni e con il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano iscritto all' Università di Bologna, detenuto da quasi un anno al Cairo. Un quadro che sta generando malumori e imbarazzo: è evidente, infatti, che al di là dei rapporti formali tra le istituzioni dei due Paesi, il business tra Italia e Egitto va avanti. D' altra parte, Leonardo è una società al 30,2% in mano al ministero del Tesoro, che indica i vertici e la maggioranza del cda. Le relazioni politico economiche sono buone anche se, ovviamente, si evita di pubblicizzarle. Si tratta, infatti, della seconda consegna «in sordina» di forniture militari all' Egitto da parte di industrie italiane. Il 23 dicembre Fincantieri ha consegnato alla Marina Militare dell' Egitto la fregata multiruolo Fremm Spartaco Schergat, ora ribattezzata «Al-Galala». Tornando a Leonardo, le consegne più recenti sono avvenute alla fine del 2020, quando una coppia di elicotteri utility da 8,6 tonnellate è arrivata in Egitto tramite cargo dall' aeroporto di Milano Malpensa ad Alessandria Borg El Arab. Quei due velivoli numeri di serie 49066 e 49067 sono stati avvistati mentre effettuavano voli di prova pre-consegna in livrea dell' aeronautica egiziana dall' aerodromo di Venegono nel Nord Italia a novembre. Come si legge sul sito di Leonardo, l' AW149 è progettato per svolgere varie missioni tra le quali trasporto truppe, rifornimento, trasporto carichi, operazioni delle forze speciali, supporto aereo/scorta armata, comando e controllo, sorveglianza e ricognizione. A inizio giugno 2020 il settimanale panarabo The Arab Weekly aveva scritto che l' Italia potrebbe vendere all' Egitto ben 6 fregate Fremm (4 nuove oltre le 2 citate all' inizio) e 20 pattugliatori d' altura di Fincantieri, oltre a 24 caccia Eurofighter Typhoon e numerosi velivoli da addestramento M-346 di Leonardo, più un satellite da osservazione, per 10,7 miliardi di dollari.

Fregate all’Egitto, i genitori di Giulio Regeni: “Denunciamo l’Italia per vendita di armi a Paesi che violano i diritti umani”. La consegna della prima delle due fregate Fremm vendute da Fincantieri al Cairo e il comunicato della procura egiziana, che accusa quella italiana di voler processare gli agenti segreti di Al-Sisi praticamente senza prove, hanno spinto la famiglia del ricercatore italiano a denunciare il governo per "violazione della legge sulla vendita di armi a Paesi "autori di gravi violazioni dei diritti umani". Il Fatto Quotidiano l'1 gennaio 2021. Una denuncia contro il governo italiano per violazione della legge sulla vendita di armi a Paesi “autori di gravi violazioni dei diritti umani”. E’ quanto hanno predisposto Claudio e Paola Regeni, i genitori di Giulio, il ricercatore italiano ucciso in Egitto nel 2016. Dopo anni di complicatissime indagini, a causa anche della mancata collaborazione del Cairo, per quell’omicidio la procura di Roma ha chiuso le indagini su quattro agenti National security egiziana, ricostruendo i nove giorni di tortura del ricercatore italiano. Tredici giorni dopo la chiusura di quelle indagini, però, e cioè il 23 dicembre, è stata consegnata all’Egitto prima delle due fregate Fremm vendute da Fincantieri al Cairo nei mesi scorsi. “Senza alcun comunicato ufficiale”, ha sottolineato Rete Italiana Pace e Disarmo. E i Regeni hanno deciso di denunciare il governo, come annunciato nel corso della trasmissione Propaganda Live. Il provvedimento è stato redatto dall’avvocato Alessandra Bellerini, legale dei familiari del ricercatore ucciso nel 2016. “Assieme alla nostra legale abbiamo predisposto un esposto-denuncia contro il governo italiano per violazione della legge 185/90, che vieta le esportazioni di armi verso Paesi, i cui governi sono responsabili di gravi violazioni dei diritti umani accertati dai competenti organi dell’Ue, dell’Onu e del Consiglio d’Europa e il governo egiziano rientra certamente tra quelli che si sono macchiati di queste violazioni”. hanno detto Paola e Claudio Regeni. I genitori di Giulio hanno ribadito nel corso della trasmissione, all’indomani delle dichiarazioni della procura egiziana, la richiesta di richiamare l’ambasciatore in Egitto. “Chiediamo questo come atto forte. E’ importante che l’Italia dia l’esempio – hanno detto – Chiediamo anche che la Procura non venga insultata, chiediamo fermezza. Bisogna reagire, sennò i nostri figli che vanno in giro per il mondo non saranno più sicuri”. Pochi giorni fa, infatti, la procura generale del Cairo è tornata a difendere pubblicamente i quattro membri della National Security accusati dai pm di Roma di essere i responsabili del rapimento, della tortura e dell’uccisione di Regeni. “Per il momento non c’è alcuna ragione per intraprendere procedimenti penali circa l’uccisione, il sequestro e la tortura della vittima Giulio Regeni, in quanto il responsabile resta sconosciuto“, sostiene il procuratore generale, Hamada Al Sawi. Il documento diffuso dal Cairo attacca i pm italiani, li accusa di non aver fatto bene il proprio lavoro e ipotizza l’esistenza di una sorta di complotto sul caso Regeni per “nuocere alle relazioni” tra Italia ed Egitto. I magistrati si spingono fino a giudicare il comportamento tenuto da Giulio nel corso della sua permanenza in Egitto, mentre stava svolgendo ricerche per la sua tesi, definendolo ”non consono al suo ruolo di ricercatore” e per questo posto “sotto osservazione” da parte della sicurezza egiziana “senza però violare la sua libertà o la sua vita privata”.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 12 dicembre 2020. Della professoressa Maha Mahfouz Abdelrahman, docente di Giulio Regeni all’università di Cambridge che ne seguiva il lavoro in Egitto, i magistrati della Procura di Roma denunciano «l’assenza di volontà di contribuire alle indagini relative al sequestro, la tortura e l’omicidio di un suo studente; quali siano le ragioni di siffatta anomala condotta non è stato possibile, sino ad oggi, accertare». Così ha scritto il pubblico ministero Sergio Colaiocco nell’atto finale dell’inchiesta arrivata anche nel Regno Unito. Tuttavia dal computer della professoressa, acquisito tramite l’autorità giudiziaria britannica, è saltata fuori una e-mail inviata a una collega canadese il 7 febbraio 2016, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Giulio, in cui scriveva: «Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte... Indicare alle persone come fare ricerca è qualcosa che, penso, sento di non dover più fare». Poche parole «rivelatrici — secondo il pm — non solo del rimorso della docente per la sorte toccata al suo ricercatore, ma anche della leggerezza che aveva caratterizzato la sua gestione del dottorando Regeni, soprattutto nella fase di invio sul campo». Dal computer di Giulio messo a disposizione dai suoi genitori («una miniera di dati preziosissima per ricostruire i fatti, dimostrare la correttezza delle sue azioni in Egitto, smentire falsi testimoni e comprendere il movente dei fatti», sottolinea la Procura) è venuto fuori, ad esempio, che era stata proprio Abdelrahman a suggerirgli di focalizzare studi e ricerche in Egitto sul «ruolo dei lavoratori nella rivoluzione nell’era post-Mubarak», e in particolare sul ruolo dei sindacati autonomi, mentre lei ha affermato che fu un’iniziativa di Regeni. Altre «contraddizioni» riguardano la scelta della tutor al Cairo, sulla quale Giulio nutriva perplessità, e soprattutto l’idea di chiedere un finanziamento alla ricerca di 10.000 sterline alla Fondazione inglese Antipode. «È un bando che Maha mi ha inviato un po’ di tempo fa», scrisse lo studente alla madre il 14 novembre 2015. Nella ricostruzione della Procura di Roma, quel finanziamento rappresenta un punto di svolta nel destino di Giulio. L’attenzione delle forze di sicurezza egiziane s’è moltiplicata dopo la scoperta che dietro i suoi contatti con gli ambulanti del Cairo poteva esserci Antipode. Lo disse anche il maggiore della National security Magdi Ibrahim Sharif, quando confessò al collega kenyota di aver arrestato Regeni: «Era appartenente alla Fondazione Antipode che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto». Non era vero, ma il solo fatto che Giulio parlasse di questa ipotesi «che non si concretizzerà mai» è diventato, per l’accusa, «una delle concause della sua tragica fine». Il ricercatore italiano condivise la possibilità di quel finanziamento anche con Mohamed Abdallah, leader del sindacato autonomo degli ambulanti. Il quale intravide la possibilità di guadagnarne qualcosa per sé, ma anche un sospetto da riferire agli agenti della National security. L’11 dicembre 2015 Regeni assiste a una riunione con oltre cento sindacalisti in cui si discute su come «arginare le manovre del governo Al Sisi tese a contrastare le sigle indipendenti». C’è Abdallah e c’è pure una ragazza, coperta dal velo, che scatta una foto a Giulio; un episodio che lo preoccupò molto, secondo la testimonianza del suo amico e collega Francesco De Lellis. Una settimana dopo, il 18 dicembre, il maggiore Sharif chiede a Abdallah di approfondire la provenienza delle 10.000 sterline di cui gli ha parlato Regeni. Il sindacalista incontra Giulio, parlano dei soldi, e a sera Giulio annota sul suo computer: «Umana miseria... Mi ha chiesto che cosa ne verrebbe fuori per lui... Sono rimasto scioccato e gli ho risposto che ne sarebbe rimasto fuori per il fatto che è un sindacalista che lavora per i venditori ambulanti». Dal ricercatore italiano Abdallah ha ottenuto una copia del bando, che Sharif manda a ritirare il 20 dicembre. Per le vacanze di Natale Giulio rientra a casa dai genitori, torna in Egitto il 4 gennaio e la National security riconvoca il sindacalista. Concordano un nuovo incontro tra lui e Regeni, che stavolta sarà registrato. I due si vedono la sera del 7 gennaio e al termine dell’intercettazione audio-video, nota da tempo, resta incisa la voce di Abdallah che chiama la caserma della National security per concordare la restituzione del microfono. Per la Procura di Roma questo episodio è «con tutta evidenza un’operazione degli apparati di sicurezza egiziani con la finalità di documentare l’attività “eversiva” di Regeni, che non solo ha tradito le aspettative, ma anche certificato la totale estraneità dell’italiano a qualsivoglia tentativo di sovvertire l’ordine costituito egiziano». La tagliola che si stava chiudendo intorno a Giulio, però, non s’è fermata. Quello stesso 7 gennaio Regeni incontrò pure la professoressa Abdelrahman, in trasferta al Cairo. Lei ha sostenuto che tra il settembre 2015 e il 25 gennaio 2016 (giorno del sequestro) «non vi sono stati contatti significativi con Giulio». Un’altra bugia per la Procura di Roma, che commenta: l’indagine ha accertato che in quel periodo ci furono «molti contatti, alcuni particolarmente significativi».

Omicidio di Giulio Regeni, la notte che fu denunciato il ministro Ghaffar era nel palazzo. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 13/12/2020. Nella ricostruzione della procura di Roma, il sindacalista-spia vide il ministro uscire alle 4: «Pensai, la questione è grave». La sera in cui il sindacalista-informatore Mohamed Abdallah denunciò Giulio Regeni alla National security, innescando la trappola mortale in cui è caduto il ricercatore italiano, nella stessa struttura c’era anche l’allora ministro degli Interni egiziano, Magdi Abdel Ghaffar. I racconti di Abdallah, con i relativi accordi per spiare e segnalare ogni successivo movimento di Giulio, erano andati avanti per ore, fino alle 4 del mattino, e al momento di tornare a casa il sindacalista fu fermato, perché dal palazzo stava uscendo proprio Ghaffar: «Nella mia mente ho pensato che la questione era così grave che persino il ministro dell’Interno era venuto di persona. Siamo rimasti bloccati finché il ministro è sceso e se n’è andato». Il ricordo della «spia» è contenuto nel verbale d’interrogatorio del 10 maggio 2016 — tre mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni — all’ex procuratore generale del Cairo Nabil Sadek. La presenza di Ghaffar nel momento in cui il ricercatore italiano entra nel mirino delle forze di sicurezza egiziane potrebbe essere una casuale coincidenza, giacché le sedi di polizia e ministero sono nella stessa struttura. Ma potrebbe anche non esserlo, come pensò il sindacalista. L’orario inusuale suggerisce un sospetto in più su bugie, reticenze e depistaggi delle autorità egiziane sulla tragica fine di Giulio. Ghaffar compreso. L’8 febbraio 2016 l’ex ministro dichiarò solennemente: «Abbiamo confermato ripetutamente che il signor Regeni non è stato imprigionato da alcuna autorità egiziana. Respingiamo tutte le accuse e le allusioni su un coinvolgimento della sicurezza. Non conoscevamo Regeni». In precedenza — dal 27 gennaio al 2 febbraio, a sequestro in corso — il ministro si negò all’ambasciatore italiano Maurizio Massari; e quando finalmente lo incontrò, ha testimoniato il diplomatico, «risultò evasivo, malgrado la mia insistenza disse ripetutamente di non sapere e di non disporre di informazioni». Oggi sappiamo che Ghaffar mentiva, o quantomeno fu indotto a mentire dai suoi apparati, perché già dal novembre-dicembre 2015 Giulio venne «attenzionato» dalla National security. I controlli nei suoi confronti scattarono all’indomani della denuncia, come racconta lo stesso Abdallah. Il rappresentante dei venditori ambulanti aveva parlato di Giulio al «dottor Foda», direttore del Centro egiziano per i diritti dei lavoratori, che lo aveva indirizzato al colonnello della Ns Uhsam Helmi, uno di quattro indagati che la Procura di Roma vuole processare. «Hosam mi ha chiesto quali fossero i nostri problemi di ambulanti — ha riferito al magistrato —, ha chiesto a Sharif (il maggiore Sharif, accusato anche di omicidio, ndr) di farne un elenco per risolverli, e mi ha detto di seguire con lui la questione Regeni... Il giorno seguente sono stato contattato da Sharif, voleva sapere se mi dovevo incontrare con Giulio, io gli ho detto sì e che volevo andare insieme a lui a Masr Al Gadida (un mercato, ndr). Quando Sharif mi ha chiesto perché gli ho detto che volevo sapere con chi aveva rapporti ed egli rispose che facevo bene». A indirizzare Giulio da Abdallah era stata la coordinatrice di un Centro per i diritti economici e sociali, Hoda Kamel Hussein, individuata da Rabab Ai-Mahdi, la tutor indicata dalla professoressa di Cambridge Maha Abdelrahamn, nonostante le perplessità di Regeni dovuti al fatto che Al-Madi fosse «un’attivista che avrebbe potuto sovraesporlo». La catena dei rapporti che ha portato Giulio nella «stanza numero 13» della National security dove fu visto incatenato e torturato, è stata puntigliosamente ricostruita dall’indagine della Procura di Roma; l’anello centrale resta Abdallah, che nei primi due interrogatori alla National security, a febbraio e aprile 2016, disse di aver incontrato Regeni soltanto una volta, senza aggiungere altro. Solo il 10 maggio, di fronte al procuratore Sadeq e dopo il richiamo a Roma dell’ambasciatore italiano, ha raccontato almeno una parte di verità; «riferendo di essere stato indotto dalla National security, e in particolare dal maggiore Sharif, a rilasciare false dichiarazioni», accusano i magistrati romani. I quali ritengono attendibile Abdallah per i fatti che sono state riscontrati da dati oggettivi, come i tabulati telefonici da cui sono emersi i numerosi contatti tra lui e Sharif.

"Regeni pedinato per mesi". Consegnato ai boia dai tutor. Furono i docenti di Cambridge e Il Cairo a mandarlo al macello contro la sua volontà. Con un secondo fine. Fausto Biloslavo, Domenica 13/12/2020 su Il Giornale. Le ombre inglesi sul caso Regeni sono solo la punta dell’iceberg di una delle verità sulla tragica fine dello studente friulano torturato e ucciso dagli appartai di sicurezza egiziani, che deve ancora emergere del tutto. Le bugie e ambiguità della tutor del ricercatore italiano, l’egiziana Maha Abdel Rahman, si sommano al ruolo di altri docenti a Cambridge e al Cairo collegati a Regeni forse sottovalutati dall’inchiesta della Procura di Roma. Il pubblico ministero Sergio Colaiocco e il procuratore capo Michele Prestipino, prima della chiusura delle indagini, in un’audizione a febbraio della Commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Regeni, avevano sollevato chiare perplessità. “Rimane per noi un mistero l’atteggiamento della tutor di Giulio a Cambridge, la professoressa Maha Abdel Rahman - dichiaravano - che non ha mai collaborato con le indagini e non ha più risposto dopo il primo contatto formale“. La docente il 7 febbraio 2016, quattro giorni dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni, in una mail inviata ad una collega canadese scriveva: “Ho mandato un giovane ricercatore verso la sua morte…”. Lo ha capito solo dopo il barbaro omicidio? Abdel Rahman, tre mesi prima della partenza di Giulio per l’Egitto, teneva una conferenza a Cambridge sulle “forme di repressione contro giornalisti, studenti, attivisti, lavoratori e cittadini ordinari” al Cairo che possono arrivare al carcere e sparizioni. Proprio la tutor ha insistito con Regeni per la ricerca sui sindacati autonomi per poi ribaltare la scelta su Giulio con i magistrati. Abdel Rahman ha addirittura “dimenticato” l’incontro al Cairo con Regeni poche settimane prima della sua morte. Proprio lei insisteva sul finanziamento di 10mila sterline della Fondazione Antilope, che non piaceva a Giulio. Il miraggio dei soldi è costato il tradimento di un sindacalista incontrato per la ricerca, che ha “venduto” Giulio ai servizi egiziani. Ancora più grave la scelta imposta della supervisor in Egitto del ricercatore. Rabab El Mahdi, docente dell’Università americana del Cairo, nota per il suo aperto attivismo anti governativo. Regeni ha provato a dire no sostenendo che è “conosciuta come una grande attivista, con molta visibilità in Egitto”. La professoressa di Cambridge gli ha incredibilmente risposto: “Finirà che ti dovremo mettere con qualcuno del governo”. La tutor delle bugie e reticenze è da tempo in anno sabbatico e pure nel 2020-2021, come si legge sul sito del Dipartimento di Cambridge, “non accetta studenti”. L’inchiesta italiana, però, ha forse sottovalutato altri personaggi chiavi a Cambridge, come Anne Alexander, sodale e mentore della tutor di Regeni, e soprattutto strenua oppositrice del regime di Al Sisi e filo Fratelli musulmani, fuorilegge in Egitto. Non è un caso che dopo la morte del ricercatore siano proprio Alexander e Abdel Rahman a raccogliere 5 mila firme nell’ambiente accademico internazionale, compresi molti italiani, per una petizione rivolta ad Al Sisi. Non riguardava solo la fine di Regeni, ma si chiedeva di far luce su "tutte le sparizioni forzate, sui casi di tortura e sui decessi nelle carceri del Paese nordafricano nei mesi di gennaio e febbraio 2016". Alexander non solo aveva incontrato Giulio prima della partenza per il Cairo, ma gli ha pure fornito dei contatti per la ricerca, che lo porterà alla morte. E ancora più grave non ha avuto problemi, il 5 novembre 2015, a tenere un agguerrito comizio a Londra definendo Al Sisi, che doveva visitare la capitale inglese “un assassino (is a killer)” e dittatore pazzo”. I manifestanti sono esplosi, come si vede su un video postato su YouTube (che pubblichiamo integralmente sul sito del Giornale), sventolando le bandiere gialle con la mano nera dei Fratelli musulmani. Regeni già lavorava alla sua ricerca al Cairo. Un mese dopo, l’11 dicembre, a una riunione di sindacalisti, si sente controllato e una donna con il velo gli scatta una foto. La National security egiziana, come sostiene Al Jazeera basandosi su alcune clip audio in mano alla Procura di Roma, controllavano Regeni settimane prima di prelevarlo e ammazzarlo dopo indicibili torture. Il ricercatore è stato sicuramente mandato allo sbaraglio da Cambridge, ma forse c’è di peggio. Giulio potrebbe essere stato utilizzato, a sua insaputa, come una pedina di un gioco più grande di lui e della sua tutor. Gli inglesi della British petroleum puntavano al grande contratto del giacimento egiziano di gas off shore di Zohr conquistato dall’italiana Eni. Quando Al Sisi è andato ad inaugurare l’impianto, un paio d’anni dopo l’omicidio Regeni, ha dichiarato che l’omicidio era stato commesso "per rovinare i rapporti con l'Italia" e "per danneggiare l’Egitto”. E, parlando da una poltrona in prima fila, si è rivolto all'amministratore delegato dell'Eni, Claudio Descalzi: "Sa perché volevano danneggiare le relazioni fra Egitto ed Italia? Affinché non arrivassimo qui”.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 27 novembre 2020. C'è chi ha visto Giulio Regeni vivo in una caserma della National security del Cairo, dopo che è uscito di casa la sera del 25 gennaio 2016 e prima che ricomparisse cadavere il 3 febbraio lungo una strada che porta ad Alessandria d' Egitto. Negli ultimi mesi la Procura di Roma ha raccolto tre o quattro testimonianze, ritenute attendibili, da cui si evince che il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso quasi quattro anni fa è finito nelle mani delle forze di sicurezza locali, e che rafforzano il quadro d' accusa contro i cinque funzionari indagati dagli inquirenti italiani. Si tratta di racconti che contengono particolari (veri) che non erano usciti sui giornali né svelati dai siti internet, e che dunque hanno un alto grado di credibilità. Questo hanno spiegato il procuratore della capitale Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco ai colleghi egiziani nell' incontro tra magistrati che s' è svolto venti giorni fa, il 5 novembre; nel quale è stata ribadita, anche sulla base di queste importanti novità, l' esigenza di chiudere le indagini, mettere gli atti a disposizione delle difese e poi chiedere - se non arriveranno elementi altrettanto forti in senso contrario - il rinvio a giudizio per gli indagati del rapimento di Giulio. Per consentire le notifiche l' Egitto dovrebbe comunicare l' elezione di domicilio dei cinque militari individuati con nomi e cognomi (il generale Sabir Tareq, il maggiore Magdi Abdlaal Sharif, il colonnello Ather Kamal, il capitano Osan Helmy e il suo collaboratore Mahmoud Najem), ma se anche dal Cairo non arrivasse la risposta che manca da un anno e mezzo, il codice di procedura penale consente ai magistrati italiani di andare ugualmente avanti. Senza però la cooperazione che il presidente Al Sisi aveva promesso e ha voluto ribadire anche nella telefonata della scorsa settimana con il presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Quando hanno saputo delle nuove prove a carico dei funzionari della National security, i magistrati egiziani hanno preso atto senza garantire nulla. Mantenendo intatto il «muro di gomma» eretto rispetto a un'indagine che l' Italia ha condotto tra mille limiti e difficoltà, sulla base dei pochi dati comunicati inizialmente dal Cairo tra il 2016 e il 2017 (nel periodo in cui il governo aveva richiamato a Roma l' ambasciatore) e degli elementi forniti dalla rete di avvocati a sostegno dei genitori di Giulio: una parte civile attiva, che ha collaborato all' inchiesta consentendo ai pubblici ministeri di arricchire il fascicolo con indizi che, messi insieme, secondo l'accusa sono diventati prove. Dai tabulati dei cellulari attivi nelle zone del rapimento e del ritrovamento del corpo di Regeni, con l' identificazione dei numeri di alcuni funzionari della Ns, ai verbali dei testimoni ascoltati dagli stessi egiziani; dal filmato dell' incontro tra Giulio e il sindacalista Mohamed Abdallah, che si fingeva suo amico ma è diventato un' esca lasciata dalla sicurezza egiziana, al poliziotto di un altro Paese africano che ha ascoltato una sorta di confessione, confidata durante una riunione all' estero, del maggiore Sharif; fino ai nuovi testimoni, che hanno visto il giovane ricercatore in una delle caserme della Ns, o comunque consentono di collocare Giulio nelle mani di quei funzionari dopo la sua scomparsa. Nei prossimi giorni è prevista la comunicazione formale della conclusione delle indagini.

(ANSA il 10 dicembre 2020) - La Procura di Roma ha chiuso l'inchiesta relativa alla vicenda di Giulio Regeni. I pm hanno emesso quattro avvisi di chiusura delle indagini, che precede la richiesta di processo, per appartenenti ai servizi segreti egiziani. Le accuse , a seconda delle posizioni, sono di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate. Chiesta l'archiviazione per una quinta persona, sempre 007 del Cairo. Rischiano di finire sono processo il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Quest'ultimo indagato, oltre al sequestro di persona pluriaggravato contestato a tutti, è accusato di lesioni personali aggravate (essendo stato introdotto il reato di tortura solo nel luglio del 2017) e l'omicidio del ricercatore friulano. Chiesta l'archiviazione invece per Mahmoud Najem. "Per quest'ultimo - spiega una nota della Procura di Roma - non sono stati raccolti elementi sufficienti, allo stato, a sostenere l'accusa in giudizio". La notifica della conclusioni "delle indagini è avvenuta tramite il rito degli irreperibili" direttamente ai difensori di ufficio italiani non essendo pervenuta l'elezione di domicilio degli indagati dal Cairo. "Come previsto dal codice di procedura penale gli indagati e i loro difensori d'ufficio hanno ora venti giorni di tempo per presentare memorie, documenti ed eventualmente chiedere di essere ascoltati", conclude la nota della Procura.

(ANSA il 10 dicembre 2020) - E' rimasto nelle mani dei suoi sequestratori 9 giorni Giulio Regeni, il ricercatore torturato ed ucciso in Egitto nel gennaio del 2016. E' quanto emerge dall'atto di conclusione delle indagini del procuratore Michele Prestipino e del sostituto Sergio Colaiocco. A quattro appartenenti della National Security, il servizio segreto egiziano, i magistrati di Roma contestano il sequestro di persona pluriaggravato in "concorso tra loro e con soggetti non ancora identificati". Nel provvedimento viene ricostruita la vicenda del ricercatore italiano. Tutto parte "dalla denuncia presentata, negli uffici della National security, da Said Mohamed Abdallah, rappresentante del sindacato indipendente dei venditori ambulanti del Cairo Ovest". I quattro indagati "dopo aver osservato e controllato direttamente ed indirettamente, dall'autunno 2015 - scrivono i pm - alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni, abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all'interno della metropolitana del Cairo". In base all'atto di conclusione delle indagini, Regeni venne condotto "contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly" dove venne "privato della libertà personale per nove giorni".

(ANSA il 10 dicembre 2020) - Sevizie durate giorni che causarono a Giulio Regeni "acute sofferenze fisiche" messe in atto anche attraverso oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni. E' la drammatica descrizione del violenze subite dal ricercatore italiano nel corso dei suoi giorni di sequestro in Egitto fornita dai magistrati di Roma nell'atto di chiusura delle indagini. I magistrati scrivono che nei confronti di Regeni per "motivi abietti e futili e con crudeltà" sono state "cagionate lesioni" e "la perdita permanente di più organi". Giulio è stato seviziato "con acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente". Una azione che ha causato "numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l'uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze) e meccanismi di proiezione ripetuta del corpo contro superfici rigide ed anelastiche".

(ANSA il 10 dicembre 2020) - E' il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, il torturatore di Giulio Regeni e colui che lo uccise. Il dato emerge nell'atto di conclusione delle indagini dei magistrati di Roma che contestano all'indagato oltre al sequestro, lesioni gravissime e omicidio aggravato. Ad inchiodare Sharif sarebbero le parole di alcuni testimoni sentiti nei mesi scorsi dai pm di piazzale Clodio. La morte di Giulio è stato "atto volontario e autonomo" messo in atto dall'indagato. "Al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati - scrivono i magistrati -, abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano" Sharif "con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva, esercitata sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Regeni da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte".

(ANSA l'11 dicembre 2020) - "Sul piano indiziario devono essere valutate le condotte di alcuni ufficiali della National Security: all'inizio viene negata dagli stessi ogni azione nei confronti di Giulio Regeni, poi si ammette di averlo attenzionato ma solo per tre giorni, infine si ammette di averlo controllato per un periodo più lungo". E' quanto scrivono i pm di Roma nella richiesta di archiviazione per Mahmoud Najem, uno dei cinque appartenenti ai servizi segreti egiziani finiti nell'inchiesta sull'omicidio del ricercatore italiano. Sono stati "verosimilmente" cancellati i video della metropolitana del Cairo del giorno in cui Giulio Regeni venne prelevato da appartenenti ai servizi segreti egiziani. Il dato emerge dalla richiesta di archiviazione avanzata dai pm di Roma per Mahmoud Najem, uno dei cinque appartenenti ai servizi segreti egiziani finiti nell'inchiesta sull'omicidio del ricercatore italiano. "Ufficiali appartenenti al team investigativo - è detto nel documento - riferiranno di avere visionato i video della metropolitana de Il Cairo, circostanza che dapprima sarà smentita e che, poi, porterà verosimilmente alla cancellazione dei video di interesse". Nel provvedimento si afferma inoltre che "il 24 marzo sera i vertici della National Security indicheranno ufficialmente i cinque componenti della banda, deceduti, come i responsabili dei fatti in danno di Regeni. Successivamente ufficiali della National Security saranno arrestati dalla Procura egiziana per omicidio premeditato plurimo e falso". Per quanto riguarda il movente "deve escludersi certamente che sia da ricondurre a ragioni sessuali, ad una rapina, ad una lite per strada o ad attività di raccolta di informazioni per conto di servizi di informazione". Il movente "trae origine - scrivono i magistrati - in occasione delle attività di osservazione partecipata delle attività del sindacato indipendente dei rivenditori di strada il cui capo, il sindacalista Abdallah, equivocando le ragioni per cui Regeni gli parla di un bando della fondazione inglese Antipode, lo denuncia come 'spia' alla National Security". In linea con il silenzio del governo e della Procura del Cairo, anche i principali media egiziani su carta e online hanno ignorato la notizia degli avvisi di chiusura delle indagini per quattro agenti dei servizi segreti egiziani indagati per il rapimento e la tortura a morte di Giulio Regeni. La notizia è leggibile in arabo su pochissimi siti come quello d'opposizione egiziano Mada Masr o non-egiziani quali Bbc, al-Bawaba (basato in Giordania) e al-Hurra (Usa). "Come Camera dei deputati manterremo ferma la nostra azione rispetto al chiudere le relazioni diplomatiche con l'Egitto. Siamo stati senza dubbio sconcertati da quello che hanno scritto i magistrati della Procura italiana: sono delle accuse gravissime alla National securtity egiziana. Si tratta di parole assolutamente agghiaccianti: una descrizione delle torture subite da Regeni". Lo dice il presidente della Camera Roberto Fico in una intervista ad Al Jazeera Arabic. "Sappiamo - ribadisce Fico - che Regeni è stato seguito ed intercettato per 40 giorni dalla National Security egiziana, che è stato sequestrato, che è stato tenuto prima in una caserma e poi nella stanza numero 13 del ministero degli Interni egiziano. Questa situazione è di una gravità assoluta. Tutto il popolo italiano è profondamente indignato. Nell'ascoltare in commissione di inchiesta sul caso Regeni i procuratori della Repubblica nel nostro Parlamento e nel nostro Paese sono stati nominati come chiusura dell'indagine quattro membri della National security egiziana che hanno partecipato al sequestro alla tortura ed alla uccisione di Regeni. Sono queste persone, come risulta: il generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif". Il presidente Fico nella sua intervista ad Al Jazeera si riferiva, rispetto alle relazioni diplomatiche, all'interruzione dei rapporti diplomatici fra la Camera dei deputati e il Parlamento egiziano, decisa da Montecitorio nel novembre 2018, che viene dunque confermata. Viene chiarito da Fonti di Montecitorio.

Estratto dell'articolo di Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. […] Il racconto del testimone, rintracciato dai legali della famiglia Regeni coordinati dall'avvocata Alessandra Ballerini, prosegue con le inutili invocazioni di Giulio: «Mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Uno di questi aveva un telefono in mano». Poi il prigioniero fu portato via: «È stato fatto salire su un'auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sharif un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Chi perorava la causa del giovane fu messo a tacere: «Mentre Regeni chiedeva un avvocato un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo». […] Sul maggiore Sharif pesano, oltre agli indizi dei contatti telefonici e ai rapporti con il sindacalista Moahamed Abdallah che denunciò Giulio alla National security, le parole del teste Gamma. Il quale ha raccontato di averlo visto e sentito confessare a un collega della polizia keniota di aver arrestato e picchiato Regeni: «Ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione... Affermava che questo italiano poteva essere un appartenente alla Cia, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l' avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto loro ne avevano avuto abbastanza».

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" l'11 dicembre 2020. La prima beffa sull' atroce fine di Giulio Regeni - all'epoca misteriosa, oggi molto meno - si consumò il giorno in cui ne fu denunciata la scomparsa. Al commissariato di Dokki, distretto occidentale del Cairo, mercoledì 27 gennaio 2016 si presentarono il funzionario d'ambasciata Davide Boncivini, insieme a Noura Medhit Whaby, amica di Giulio, e al suo coinquilino Mohamed Al Sayyadf. Dissero che il giovane ricercatore universitario era sparito dalla sera di lunedì, ma quello stesso lunedì Giulio era stato proprio lì, nel commissariato di Dokki. Oggi lo sappiamo grazie alla deposizione del testimone Delta (nome in codice per proteggerne la sicurezza), che il sostituto procuratore di Roma Sergio Colaiocco legge alla commissione parlamentare d' inchiesta sul sequestro e la morte di Regeni: «Il 25 gennaio, mentre ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato Sono sicuro che si trattasse di Giulio Regeni. Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga». Il racconto del testimone, rintracciato dai legali della famiglia Regeni coordinati dall'avvocata Alessandra Ballerini, prosegue con le inutili invocazioni di Giulio: «Mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Uno di questi aveva un telefono in mano». Poi il prigioniero fu portato via: «È stato fatto salire su un'auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sharif un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Chi perorava la causa del giovane fu messo a tacere: «Mentre Regeni chiedeva un avvocato un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo». Probabilmente il 27 gennaio Giulio era già nell'altra stazione della sua via crucis, la sede della National security presso il ministero degli Interni, località Lazoughly, dove il 28 o il 29 gennaio l'ha visto il teste Epsilon: «Ho lavorato 15 anni nella sede dove Regeni è deceduto. È una struttura in una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d'interesse è il primo, la stanza è la numero 13. Quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato lì». È la stanza delle torture: «Ho visto Regeni nell' ufficio 13 e c'erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell' ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava Era un ragazzo magro, molto magro Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso L' ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l'ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui». Conclusa la lettura del verbale, nell' aula della commissione scende il silenzio. La relazione del pm Colaiocco e del procuratore Michele Prestipino sugli esiti dell' inchiesta si ferma qui. La Procura è pronta a chiedere il processo per il sequestro di Giulio Regeni per il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim, il colonnello Uhsam Helmi e il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif (quest' ultimo accusato anche di omicidio e delle torture praticate con oggetti roventi, calci, pugni, lame e bastoni»). Tutti irreperibili, protetti dal rifiuto egiziano di comunicare gli indirizzi. Per l' agente Mahmoud Najem è stata chiesta l' archiviazione, con un documento che riassume nel dettaglio tutta l' indagine. Sul maggiore Sharif pesano, oltre agli indizi dei contatti telefonici e ai rapporti con il sindacalista Moahamed Abdallah che denunciò Giulio alla National security, le parole del teste Gamma. Il quale ha raccontato di averlo visto e sentito confessare a un collega della polizia keniota di aver arrestato e picchiato Regeni: «Ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione... Affermava che questo italiano poteva essere un appartenente alla Cia, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l' avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto loro ne avevano avuto abbastanza». Secondo la testimonianza di Gamma, Sharif (identificato dalla consegna di un biglietto da visita al keniota, che ne pronunciò il nome ad alta voce) organizzò intercettazioni e pedinamenti di Giulio, e una sera «prima che raggiungesse un ristorante a piazza Tahir loro lo avevano fermato. Loro, gli egiziani, erano molto arrabbiati e l' arabo, usando la prima persona singolare, affermava di averlo colpito. Al keniota che chiedeva il nome del soggetto di cui parlava, l' egiziano rispondeva: Giulio Regeni». L'altra tragica beffa è che pure i due egiziani andati a denunciare la scomparsa di Giulio, l' amica Nouri e il coinquilino El Sayyad, hanno contribuito alla «ragnatela di controlli» tessuta dalla National security intorno al ricercatore, tramite i contatti - mediati o diretti - col maggiore Sharif e il colonnello Helmy. Tutto questo è stato ricostruito dalla Procura di Roma, con i carabinieri del Ros e i poliziotti dello Sco, grazie ai pochi elementi trasmessi dal Cairo dopo il richiamo dell' ambasciatore, nell' aprile 2016. Per il resto il rapporto con l' Egitto è stato «difficoltoso, laborioso, complesso», dice Prestipino. Ma al di là dei toni diplomatici e persino eufemistici del procuratore, restano le domande inviate per rogatoria e rimaste senza risposta: 39 su 64. Tutt'altra determinazione, invece, nei depistaggi messi in campo dopo il ritrovamento del cadavere, il 3 febbraio 2016: dal movente sessuale all' incidente stradale, dalla lite in piazza al furto di documenti perpetrato da una banda di cinque criminali puntualmente sterminati, riesumato di recente. E poi le bugie e i «buchi» sulle telecamere della metropolitana, insieme alle scuse accampate per negare informazioni e ai continui sospetti sull' attività di Giulio. Che suscitarono le rimostranze dell' ex procuratore Giuseppe Pignatone, e indussero il pm Colaiocco a interrompere una riunione con i colleghi del Cairo «rifiutandosi di mettere nuovamente in dubbio la correttezza del comportamento di Regeni in Egitto».

«Ho visto Giulio Regeni torturato e in catene, l'hanno ucciso nella stanza 13»: il racconto dei testimoni chiave. Giovanni Bianconi, Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera il 10/12/2020. Il teste che l’ha visto al commissariato al Cairo e quello che ha raccontato le sevizie, i nomi degli ufficiali egiziani coinvolti. La Procura di Roma — che stamane ha notificato, con le norme previste per gli indagati «irreperibili», la chiusura delle indagini per il rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni — ha raccolto le dichiarazioni di due testimoni oculari che hanno visto il giovane ricercatore italiano in due in due distinte caserme delle forze di sicurezza egiziane. Uno la sera stessa del sequestro, il 25 gennaio 2016; l’altro qualche giorno dopo, in catene e con evidenti segni di tortura sul corpo. I testimoni sono stati rintracciati grazie alle indagini difensive dei familiari di Regeni, con l'avvocato Alessandra Ballerini. Il procuratore Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco li hanno chiamati, a protezione della loro identità e sicurezza, con i nomi di copertura Delta e Epsilon. Ecco la sintesi dei due racconti, riportata dai magistrati durante l’audizione davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul sequestro e la morte di Regeni.

La testimonianza del teste Delta. In base all'atto di conclusione delle indagini, Regeni venne condotto «contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokki e successivamente presso un edificio a Lazougly» dove venne «privato della libertà personale per nove giorni».

Riferisce il teste Delta: «Il 25 gennaio, mentre ero nella stazione di polizia di Dokki, potevano essere le 20 o al massimo le 21, è arrivata una persona… Avrà avuto tra i 27 e i 28 anni, aveva una barba corta, indossava un pullover, verosimilmente tra blu e grigio, se non ricordo male con una camicia sotto… Si esprimeva in italiano e ha chiesto un avvocato… Sono sicuro che si trattasse di Giulio Regeni. Nelle foto che ho visto su internet aveva la barba più lunga. Mentre ero alla stazione di Dokki ho visto arrivare il ragazzo che solo successivamente ho riconosciuto come Giulio Regeni che, mentre percorreva il corridoio, chiedeva di poter parlare con un avvocato o con il Consolato. In quel frangente ho visto bene il ragazzo italiano, che arrivava con quattro persone in abiti civili. Contestualmente ho visto uno di questi quattro soggetti con un telefono in mano». Più avanti Delta precisa che Regeni «è stato fatto salire su un’auto modello Shine, è stato bendato e condotto in un posto che si chiama Lazoughly. Uno dei poliziotti che si trovavano lì veniva chiamato Sherif… un altro si chiamava Mohamed, ma non so se è il vero nome». Inoltre, mentre Regeni «chiedeva un avvocato, un altro arrestato, che provava ad aiutarlo, riceveva una gomitata al volto da un poliziotto che disse che il ragazzo italiano parlava anche arabo».

Così è morto il ricercatore, secondo la Procura di Roma: la ricostruzione. La testimonianza del teste Epsilon. Nella caserma di Lazoughly c’era il testimone Epsilon che, rintracciato e interrogato il 29 luglio scorso, ha raccontato di avere lavorato per 15 anni nella struttura «dove Regeni è deceduto», cioè «nella sede della National security che si trova all’interno del ministero degli Interni e che prendeva il nome della via: si chiama struttura Lazoughly, direzione Lazoughly». Si tratta, dice Epsilon, di «una struttura in una villa che risale ai tempi di Abd Al Naser, che poi è stata sfruttata dagli organi investigativi. Sono quattro piani e il piano d’interesse è il primo, la stanza è la numero 13… quando viene preso qualche straniero sospettato di tramare contro la sicurezza nazionale viene portato in quella sede lì. Era il giorno 28 o 29 (gennaio, ndr), ho visto Regeni in quell’ufficio 13 e c’erano anche due ufficiali e altri agenti, io conoscevo solo i due ufficiali. Entrando nell’ufficio ho notato delle catene di ferro con cui legavano le persone… Lui era mezzo nudo nella parte superiore, portava dei segni di tortura e stava blaterando parole nella sua lingua, delirava… Era un ragazzo magro, molto magro…Era sdraiato steso per terra, con il viso riverso… L’ho visto ammanettato con delle manette che lo costringevano a terra… Ho notato segni di arrossamento dietro la schiena, ma sono passati quattro anni, non ricordo bene i particolari. Non l’ho riconosciuto subito, ma cinque o sei giorni dopo, quando ho visto le foto sui giornali, ho associato e ho capito che era lui».

Le parole del teste Gamma Prima di questi due testimoni, il pm Colaiocco aveva ascoltato, nell’aprile 2019, il teste Gamma, di cui si era già avuta notizia e che ha riferito di aver assistito a un incontro tra il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif — uno degli indagati per il sequestro, ora accusato anche delle torture e dell’omicidio di Giulio — e un collega keniota, cui avrebbe confessato, durante un incontro a Nairobi, di avere picchiato il ricercatore italiano, sospettando che fosse un agitatore. Ecco il racconto di Gamma: «Nel 2017, nel corso del mese di agosto, ero in un ristorante ed era presente una persona che poteva essere egiziana. Successivamente entrava nel ristorante una persona che presumo fosse keniota, appartenente ai servizi di sicurezza del Kenya. I due uomini, l’egiziano e il keniota, hanno cominciato a discutere riguardo le situazioni che si sono venute a creare a Nairobi, in tema di ordine pubblico, e riguardo a movimenti di protesta in Kenya… Quando ha terminato di parlare il keniota, l’arabo ha cominciato a parlare di uno studente italiano, un dottorando, che stava cercando di fomentare un piccolo gruppo di persone al fine di avviare una rivoluzione. Il keniano, in risposta a quando diceva l’arabo, affermava che anche secondo lui gli europei sarebbero cattive persone. L’arabo continuava il suo racconto affermando che questo italiano poteva essere un appartenente alla Cia, citò anche il Mossad. Continuava dicendo che loro avevano scoperto che era appartenente alla Fondazione Antipode, che spingeva per l’avvio di una rivoluzione in Egitto. A un certo punto, secondo quanto raccontava l’egiziano, loro ne avevano avuto abbastanza, avevano anche avviato delle intercettazioni. Un giorno avevano sentito dalle intercettazioni che doveva andare a una festa in zona Tahrir, e prima che raggiungesse un ristorante a piazza Tahrir loro lo avevano fermato. L’egiziano usava la prima persona plurale raccontando queste questioni. Loro, gli egiziani, erano molto arrabbiati e l’arabo, usando la prima persona singolare, affermava di averlo colpito. A questo punto il keniota chiedeva al suo interlocutore egiziano il nome del soggetto di cui parlava, e l’egiziano rispondeva dicendo: Giulio Regeni. Prima dei saluti, loro si sono scambiati dei biglietti da visita, il keniano ha pronunciato "Ibrahim Magdi Sharif" e l’egiziano ha confermato essere il proprio nome». Sulla base di queste testimonianze, e di molti altri elementi raccolti nel corso di ormai quasi cinque anni di indagini caratterizzati da un’interlocuzione con i magistrati egiziani a dir poco complicata e intermittente, la Procura di Roma ha chiuso le indagini e si appresta a chiedere il processo per il maggiore Sharif (accusato anche di omicidio), il generale Tariq Sabir, il colonnello Athar Kamel Mohamed Ibrahim e il colonnello Uhsam Helmi (gli ultimi tre accusati solo di sequestro di persona). Per un quinto indagato, l’agente della Direzione di sicurezza nazionale Mahmoud Najem, è stata chiesta l’archiviazione «non essendo gli elementi raccolti sufficienti, allo stato, a sostenere l’accusa in giudizio».

L'inchiesta sul ricercatore ucciso in Egitto. Giulio Regeni, la procura di Roma chiude l’indagine: quattro 007 egiziani verso il processo. Redazione su Il Riformista il 10 Dicembre 2020. Si va verso la richiesta di giudizio a Roma per quattro appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani coinvolti nella scomparsa di Giulio Regeni, il ricercatore friulano sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 a Il Cairo. La Procura di Roma ha chiuso l’inchiesta sui presunti responsabili, dopo due anni di indagini, durante i quali a più riprese era stata chiesta la collaborazione da parte degli inquirenti egiziani, che mai hanno fornito, ad esempio, gli indirizzi degli indagati per notificare loro gli atti. Sono accusati a vario titolo di sequestro, lesioni personali aggravate (essendo stato introdotto il reato di tortura solo nel luglio 2017) nonché il delitto di concorso in omicidio aggravato. Chiesta l’archiviazione per un quinto agente. “In particolare è stato notificato, con rito degli irreperibili, l’avviso di cui all’art. 415 bis – spiegano gli inquirenti – nei confronti del generale Tariq Sabir, e di Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi, Magdi Ibrahim Abdelal Sharif“. La notifica è arrivata ai difensori d’ufficio italiani, non essendo stato possibile fare l’elezione di domicilio. Sono tutti accusati di sequestro di persona, e il solo Magdi Ibrahim Abdelal Sharif risponde anche di lesioni e omicidio aggravato. Nei confronti del quinto indagato, Mahmoud Najem, “non essendo gli elementi raccolti sufficienti, allo stato – dicono gli inquirenti – a sostenere l’accusa in giudizio, è stata depositata richiesta di archiviazione al gip”. Nell’atto di chiusura dell’indagine si legge che il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, “al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati, abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano, con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva, esercitata sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva una insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte”.

L’INDAGINE SU REGENI – Giulio venne rapito la sera del 25 gennaio 2016: il suo corpo martoriato fu trovato nove giorni dopo, lungo la strada che collega Alessandria a Il Cairo. Nelle prime settimane dopo il ritrovamento del corpo tante false piste si susseguirono: prima si parlò di un incidente stradale, poi di una rapina finita male, successivamente si insinuò che il giovane fosse stato ucciso perché ritenuto una spia, poi che fosse finito in un giro di spaccio di droga, di festini gay, di malaffare che l’aveva portato a farsi dei nemici. A un mese dalla morte di Giulio, alcuni testimoniarono di averlo visto litigare con un vicino che gli aveva giurato la morte. Il 24 marzo del 2016 arrivò l’ennesima ricostruzione non credibile e questa volta c’erano di mezzo cinque morti: criminali comuni uccisi in una sparatoria con ufficiali della National Security egiziana, alla periferia del Cairo. I documenti di Giulio furono trovati quello stesso giorno in casa della sorella del capo della presunta banda e si disse che i cinque erano legati alla morte del giovane. In un clima del genere, l’allora procuratore Giuseppe Pignatone e il pm Sergio Colaiocco seguirono, fin dall’inizio, il lavoro dei colleghi cairoti, coordinando le indagini di Ros e Sco. Dalle verifiche emerse che il ricercatore era attenzionato da polizia e servizi segreti già settimane prima del rapimento. Le analisi sui tabulati misero in luce i numerosi contatti telefonici tra gli agenti che si erano occupati di tenere sotto controllo Giulio tra dicembre 2015 e gennaio 2016, e gli ufficiali dei servizi segreti coinvolti nella sparatoria con la presunta banda di criminali uccisi nel marzo 2016 a cui gli egiziani provarono ad attribuire l’omicidio. Chi indaga in Italia è convinto che Giulio sia stato torturato e ucciso dopo esser stato segnalato come spia alla National Security dal sindacalista degli ambulanti, Mohammed Abdallah, con il quale era entrato in contatto per i suoi studi. Abdallah chiedeva a Giulio di poter usare a fini personali, in modo illegale, una borsa di studio che il giovane, grazie a una fondazione britannica, voleva far arrivare al sindacato. La richiesta di Abdallah e la risposta di Giulio vennero immortalate in un video, girato dal sindacalista nel dicembre del 2015 con una telecamera nascosta, probabilmente su richiesta della polizia. Secondo chi indaga, potrebbe esser stato proprio il rifiuto di dare illegalmente quei soldi a segnare il destino di Giulio: forse, quando Abdallah capì che non avrebbe ricevuto per sé almeno una parte delle diecimila sterline in ballo, decise di denunciarlo per accreditarsi con la National Security come un informatore adeguato, segnando la tragica fine del giovane.

«Ho visto Giulio legato con catene di ferro e segni di tortura sul petto…». La testimonianza chiave sul caso Regeni. Il Dubbio il 10 dicembre 2020. Chiuse le indagini della procura di Roma sulla morte del ricercatore friulano avvenuta nel 2016 in Egitto. A rischiare il processo sono quattro 007 egiziani, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in lesioni personali e omicidio. Ha subito per giorni sevizie e torture, Giulio Regeni, prima di morire a causa delle lesioni riportate. È la ricostruzione contenuta nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal procuratore, Michele Prestipino, e dal pm, Sergio Colaiocco, a carico di quattro persone appartenenti agli apparati di sicurezza egiziani accusati di aver rapito il ricercatore friuliano e averlo tenuto prigioniero per 9 giorni. «Per motivi abietti e futili ed abusando dei loro poteri, con crudeltà – si legge -, cagionavano a Giulio Regeni lesioni, che gli avrebbero impedito di attendere alle ordinarie occupazioni per oltre 40 giorni» e che «hanno comportato l’indebolimento e la perdita permanente di più organi». I quattro, «seviziandolo», hanno causato a Regeni «acute sofferenze fisiche, in più occasioni ed a distanza di più giorni: attraverso strumenti dotati di margine affilato e tagliente ed azioni con meccanismo urente, con cui gli cagionavano numerose lesioni traumatiche a livello della testa, del volto, del tratto cervico dorsale e degli arti inferiori; attraverso ripetuti urti ad opera di mezzi contundenti (calci o pugni e l’uso di strumenti personali di offesa, quali bastoni, mazze) e meccanismi di proiezione ripetuta del corpo dello stesso contro superfici rigide ed anelastiche». «Ho visto Giulio ammanettato a terra con segni di tortura sul torace», è  il racconto fornito da uno dei cinque testimoni sentiti dai magistrati di Roma nell’ambito dell’inchiesta. La sua testimonianza è stata citata oggi dal pm Sergio Colaiocco nel corso dell’audizione davanti alla commissione di inchiesta sulla morte del giovane ricercatore friulano. «Ho lavorato per 15 anni nella sede della National Security dove Giulio è stato ucciso – ha dichiarato il testimone -. È una villa che risale ai tempi di Nasser, poi sfruttata dagli organi investigativi. Al primo piano della struttura c’è la stanza 13 dove vengono portati gli stranieri sospettati di avere tramato contro la sicurezza nazionale. Il 28 o 29 gennaio ho visto Regeni in quella stanza con ufficiali e agenti. C’erano catene di ferro con cui legavano le persone, lui era mezzo nudo e aveva sul torace segni di tortura e parlava in italiano. Delirava, era molto magro. Era sdraiato a terra con il viso riverso, ammanettato. Dietro la schiena aveva dei segni, anche se sono passati quattro anni ricordo quella scena. L’ho riconosciuto alcuni giorni dopo da foto sui giornali e ho capito che era lui». La chiusura delle indagini arriva a due anni dall’iscrizione sul registro degli indagati, e a quattro dalla morte di Regeni avvenuta nel 2016 in Egitto. Per gli inquirenti, il ricercato friulano sarebbe morto per insufficienza respiratoria acuta a causa delle imponenti lesioni di natura traumatica provocate dalle percosse da parte del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, a cui sono contestate, oltre al sequestro di persona pluriaggravato, anche le lesioni gravissime e l’omicidio. «Al fine di occultare la commissione dei delitti suindicati, -si legge nelle carte – abusando dei suoi poteri di pubblico ufficiale egiziano, con sevizie e crudeltà, mediante una violenta azione contusiva», che «esercitava sui vari distretti corporei cranico-cervico-dorsali, cagionava imponenti lesioni di natura traumatica a Giulio Regeni da cui conseguiva un a insufficienza respiratoria acuta di tipo centrale che lo portava a morte». A rischiare il processo sono quattro 007 egiziani, il cui ruolo nel sequestro e nell’omicidio è stato ricostruito nell’attività di indagine dei carabinieri del Ros e dei poliziotti dello Sco: si tratta del generale Tariq Sabir, Athar Kamel Mohamed Ibrahim, Uhsam Helmi e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. Mentre per un quinto agente, Mahmoud Najem, i pm capitolini hanno chiesto l’archiviazione perché «non sono stati trovati elementi sufficienti, allo stato, a sostenere l’accusa in giudizio». La notifica agli agenti è avvenuta tramite «rito degli irreperibili» direttamente ai difensori di ufficio italiani non essendo mai pervenuta l’elezione di domicilio degli indagati dal Cairo. Proprio quest’ultimo punto era tra quelli oggetto della rogatoria avanzata nell’aprile del 2019 in cui i magistrati romani chiedevano risposte concrete agli omologhi egiziani. Richieste ribadite nei diversi incontri che negli anni si sono svolti tra investigatori e inquirenti italiani e egiziani ma che il Cairo ha lasciato inevase.  Le indagini erano partite «a seguito della denuncia presentata, negli uffici della National security – si legge nell’atto giudiziario – da Said Mohamed Mohamed Abdallah, rappresentante del sindacato indipendente dei venditori ambulanti del Cairo ovest». I «quattro indagati – si legge ancora nell’atto – dopo aver osservato e controllato direttamente ed indirettamente, dall’autunno 2015 alla sera del 25 gennaio 2016, Giulio Regeni abusando delle loro qualità di pubblici ufficiali egiziani, lo bloccavano all’interno della metropolitana del Cairo e, dopo averlo condotto contro la sua volontà e al di fuori di ogni attività istituzionale, prima presso il commissariato di Dokkie successivamente presso un edificio a Lazougly, lo privavano della libertà personale per nove giorni». «Noi crediamo che questo sia un risultato importante. Lo è, perché non era un risultato affatto scontato. Io avevo detto che la procura di Roma avrebbe continuato a indagare. La procura ha fatto di tutto per accertare gli elementi utili, lo dovevamo a Giulio Regeni e lo dovevamo a noi stessi, come magistrati di questa Repubblica», ha spiegato il procuratore di Roma, Michele Prestipino, illustrando – davanti alla commissione di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni – l’atto di conclusione indagini nei confronti dei quattro 007 egiziani. «In esito a queste indagini riteniamo di aver acquisito elementi di prova univoci. Un quadro probatorio significativo» a carico dei quattro indagati, ha spiegato Prestipino.  «Ringrazio la famiglia di Giulio per la tenacia con la quale ha saputo perseguire le proprie ragioni», ha concluso il procuratore. È stata «decisiva l’attività di indagine difensiva messa in atto dal legale della famiglia, Alessandra Ballerini», ha poi sottolineato il pm, Sergio Colaiocco. «Ci sono altri 13 soggetti nel circuito degli indagati, ma la mancata risposta ai nostri quesiti da parte delle autorità egiziane ci ha impedito di proseguire negli accertamenti», ha aggiunto. «Per l’omicidio di Giulio Regeni si svolgerà un solo processo e si svolgerà in Italia con le garanzie procedurali secondo i nostri codici. Questo processo avrà al proprio centro la valutazione dell’impianto probatorio che la procura di Roma ha in questi anni raccolto e messo in piedi». «La giustizia non è barattabile, senza giustizia non ci sono né diritti né libertà», ha commentato Alessandra Ballerini, legale della famiglia Regeni, in conferenza stampa alla Camera, dopo la chiusura delle indagini. «I genitori di Giulio potevano scegliere di chiudersi nel loro dolore, invece hanno portato avanti una battaglia senza pause – ha aggiunto l’avvocata – messa a disposizione di tutti. Vorremmo la stessa fermezza ed abnegazione da parte di chi ci governa». «Chiediamo di richiamare immediatamente l’ambasciatore per consultazioni in Italia, dichiarare l’Egitto paese non sicuro e bloccare la vendita di armi», ha concluso la legale.

I testimoni sono segreti. Fare giustizia su Regeni non sarà più possibile. I loro nomi sono protetti e rivelarli vuol dire metterli a rischio. E in aula non verranno. Luca Fazzo, Sabato 12/12/2020 su Il Giornale. Un atto doveroso, uno sforzo investigativo senza precedenti in un territorio straniero e di fatto ostile: questa è stata l'inchiesta del Ros dei carabinieri e della Procura di Roma sulla morte di Giulio Regeni, culminata con le quattro imminenti richieste di rinvio a giudizio per altrettanti militari dei servizi segreti di Al Sisi. Ma la parte difficile del lavoro non finisce qui. Perché la strada per portare a compimento il processo ai quattro accusati del sequestro e dell'uccisione del ricercatore italiano è ancora irta di ostacoli e di incertezze. A rendere tutto complicato non c'è solo la impossibilità di portare materialmente gli imputati in aula e di far loro scontare una eventuale condanna, visto l'ovvio rifiuto da parte egiziana di una richiesta di estradizione. Il processo si farà, con o senza di loro: il generale Tariq Sabir e i suoi tre sottoposti (tra cui Magdi Ibrahim Abdel Sharif, accusato di avere partecipato materialmente all'uccisione di Regeni dopo giorni di torture) verranno dichiarati irreperibili: e dalla sua parte la Procura di Roma ha una sentenza della Corte europea che dichiara legittimo il processo in assenza quando si ha la certezza che l'imputato (come è ovvio in questo caso) ne abbia avuto notizia. Ma il vero ostacolo sarà soprattutto condurre un processo basato in larga parte sulle dichiarazioni di testimoni che in aula forse non ci arriveranno mai, e di cui per ora è anche impossibile conoscere l'identità. Alfa, Omega, Epsilon: sono nascosti dietro lettere greche i nomi dei testi che hanno permesso di ricostruire il sequestro e l'agonia di Regeni. Fino alla richiesta di rinvio a giudizio, il codice consente alla Procura di tenere coperte le vere generalità. Ma al momento di presentare alla Corte d'assise la lista dei testimoni, i nomi dovranno essere svelati: anche solo per acquisirne i verbali, se fosse impossibile portarli fisicamente in aula. Sono nomi di persone che attualmente vivono in Egitto, e che hanno avuto il coraggio di collaborare ugualmente a una inchiesta che puntava contro i piani più alti dello Stato. Dal momento in cui i loro nomi diverranno pubblici, Epsilon e gli altri saranno esposti a rischi incalcolabili. Per questo il tema della «messa in sicurezza» dei testimoni è oggi al primo posto nelle preoccupazioni degli inquirenti e dei carabinieri. Anche perché non si tratta di prelevare e di mettere in salvo tre o quattro persone, ma interi nuclei familiari che altrimenti resterebbero esposti al rischio di vendette trasversali, tanto più probabili quanto è ormai lampante l'ostinazione con cui il governo egiziano si è impegnato in questi anni per non far emergere la verità. Ieri sono emersi due elementi che rafforzano questa certezza. Il primo: elementi della National Security che avevano inizialmente negato ogni attenzione verso l'italiano, hanno poi ammesso di avere seguito Regeni: inizialmente hanno parlato di tre giorni, poi hanno ammesso che il periodo è stato più lungo. Sono le attenzioni che si concludono con il fermo illegale di Regeni e la sua chiusura a Lazougly, la struttura dei servizi egiziani da cui non uscirà vivo. E si scopre che per nascondere le tracce del pedinamento sono stati fatti sparire persino i video di sicurezza del metrò del Cairo. Gli investigatori egiziani li avevano visti. Poi qualcuno li ha cancellati. Cosa c'era in quei filmati?

Torturatori e depistaggi: le due catene di Giulio Regeni. Gli anelli dell'orrore delle violenze subite e quelli delle omissioni e delle menzogne  si intrecciano in un’unica trama. Ricostruite nelle indagini dei pm di Roma: che accusano l’Egitto per un delitto di Stato. Su cui la politica chiude gli occhi. Floriana Bulfon su L'Espresso l'11 dicembre 2020. Sono due le catene che marchiano la terribile fine di Giulio Regeni. C’è quella di acciaio che lo ha imprigionato, il viso riverso a terra, costretto a sopportare interminabili torture. Mentre le autorità egiziane continuavano a ripetere di ignorare chi fosse. C’è poi la catena delle menzogne e delle omissioni, che hanno cercato di soffocare ogni tentativo di arrivare alla verità. Gli anelli dell’orrore e quelli del depistaggio si intrecciano in un’unica trama, descritta dalla procura di Roma con l’atto d’accusa che servirà per chiedere il processo contro quattro 007 del Cairo. Generali e colonelli dell’intelligence ritenuti colpevoli del sequestro e dell’omicidio del giovane ricercatore friulano, ma nelle 94 pagine che racchiudono cinque anni di indagini emergono anche i nomi di altri uomini degli apparati egiziani, le responsabilità politiche e istituzionali di una feroce gerarchia del potere che ha continuato a negare l’evidenza. Occultando la ferocia sistematica delle sevizie compiute nella stanza numero 13, quella riservata ai cittadini stranieri sospettati di "attività sovversive". Non hanno lasciato nulla di intentato per seppellire la verità. Sono ricorsi all’intero campionario di menzogne vecchio stile: far ventilare un movente sessuale dietro l’omicidio o presentare i risultati dell’autopsia come se la morte fosse stata provocata da un incidente stradale. Poi sono passati alle false testimonianze come quella che racconta di una lite davanti al consolato italiano; alla manomissione dei video registrati nella metropolitana la notte della sparizione restituiti, dopo lunghe trattative, frammentati e inutili; poi le celle telefoniche negate perché al Cairo si sa è prioritario tutelare la privacy fino alla brutale messa in scena con l’uccisione di cinque persone e i documenti di Giulio fatti ritrovare nella loro casa per addossare tutto a una banda di rapinatori. Banditi di strada assassinati per coprire un delitto di Stato. Lo stesso scopo perseguito in decine di riunioni, dove alle promesse di collaborazione non seguivano mai i fatti. «Da parte nostra c'è la forte volontà di conseguire risultati definitivi nell'inchiesta sull'omicidio Regeni» aveva assicurato il presidente Al-Sisi. Di più: «Giulio è uno di noi».  Delle 64 richieste dei magistrati italiani meno della metà hanno trovato risposta. Da novembre 2018 gli inquirenti egiziani non hanno più fornito un solo documento. Elementi che avrebbero potuto permettere di identificare altri 13 soggetti appartenenti alla National Security che risultano in contatto con gli indagati. Perché c’è una sola certezza: a costruire questo muro d’omertà non possono essere stati solo quattro appartenenti ai servizi segreti. Nella tortura come nei depistaggi, loro sono solo l’avanguardia di un sistema di potere. La procura di Roma ha esaurito il suo compito, ma la politica non può cercare una supplenza trincerandosi dietro al lavoro dei magistrati, come ha fatto il premier Giuseppe Conte nella conferenza stampa da Bruxelles in cui si è complimentato con i pm guidati da Michele Prestipino. Quello del presidente Abdel Fattah al-Sisi è un regime abituato a stroncare con violenza ogni forma di opposizione e di libertà. Dove un studente egiziano dell’Università di Bologna come Patrick Zaki è ancora chiuso in carcere da febbraio. Dove i diritti umani sono costantemente violati. Un regime che si scaglia su prede indifese e che l’Italia continua a considerare un partner affidabile. Non è un peccato solo di Roma. Nella stanza numero 13 sono state torturate persone di ogni nazionalità, ma l’intera Europa e l’intero Occidente hanno preferito chiudere gli occhi. Come ha fatto il presidente Emmanuel Macron, pronto a smentire i valori della Republique e stendere il tappeto rosso per Al Sisi, premiando con la Gran croce della Legion d’Onore l’uomo che ha fatto segregare e brutalizzare anche cittadini francesi. A ribellarsi alla realpolitik che diventa umiliazione etica e politica resta solo una società civile ignorata dai partiti, fatta di studenti come Regeni e Zaki. Come Carola Bertone che ha 23 anni e studia a SciencesPo e vive alla Cité Internazionale di Parigi, un campus internazionale che accoglie migliaia di studenti e ricercatori da tutto il mondo. “L’altro giorno il presidente Al Sisi doveva venire qui per porre la prima pietra della nuova residenza egiziana. Alcuni di noi sono scesi per manifestare il proprio dissenso, in forma pacifica e sono stati accerchiati da poliziotti”, racconta amareggiata. Una generazione che crede nei diritti umani e non accetta di vederli trasformati in merce di scambio, barattata con contratti di armamenti e affari petroliferi.

Da corriere.it il 13 dicembre 2020. Corrado Augias restituisce la Legion d’onore in segno di protesta per il caso Regeni dopo che il presidente francese Emmanuel Macron ha insignito dello stesso riconoscimento il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi tenendo celata alla stampa francese la notizia. In una lettera pubblicata su Repubblica, Augias scrive: «Caro direttore, domani lunedì 14 dicembre, andrò all’Ambasciata di Francia per restituire le insegne della Legion d’onore a suo tempo conferitemi. Un gesto nello stesso grave e puramente simbolico, potrei dire sentimentale. Sento di doverlo fare per il profondo legame culturale e affettivo che mi lega alla Francia, terra d’origine della mia famiglia». Dopo aver dato annuncio della sua decisione, il giornalista spiega le motivazioni del suo gesto: «La mia opinione è che il presidente Macron non avrebbe dovuto concedere la Legion d’onore ad un capo di Stato che si è reso oggettivamente complice di efferati criminali. Lo dico per la memoria dello sventurato Giulio Regeni, ma anche per la Francia, per l’importanza che quel riconoscimento ancora rappresenta dopo più di due secoli dalla sua istituzione». Augias parla più volte di un limite che non dovrebbe essere superato: « Ci sono occasioni in cui anche i capi di Stato dovrebbero attenersi a quella che gli americani chiamano the right thing, la cosa giusta. Credo che il presidente Emmanuel Macron in questo caso abbia fatto una cosa ingiusta».

Pietro Senaldi per “Libero quotidiano” il 15 dicembre 2020. Sull'esempio di Corrado Augias, anche l'ex ministra dem Giovanna Melandri ha restituito al mittente la Legione d'Onore, uno dei massimi riconoscimenti dello Stato francese. Il gesto è una risposta polemica alla decisione del presidente Macron di insignire della medesima onorificenza il dittatore egiziano Al Sisi. Il comportamento dell'Eliseo è giudicato poco rispettoso nei confronti di Giulio Regeni, e di riflesso del nostro Paese. L'omaggio è infatti avvenuto negli stessi giorni in cui si è avuta la certezza definitiva delle torture perpetrate dalle autorità egiziane contro lo studente, probabilmente scambiato per una agente dei servizi segreti inglesi. Il gesto di Augias e Melandri è nobile, e nessuno ne può sindacare la legittimità, anche se, da attenti osservatori della politica mediorientale, i due avrebbero potuto rinunciare alla Legione d'Onore già quando Sarkozy, per perseguire gli interessi economici di Parigi ai danni dei nostri, ha scatenato una guerra in Libia che ha destabilizzato l'intero Medio Oriente e l'Africa Sahariana. La coppia però si concentra su un bersaglio minore, forse perché è il più facile. La stessa sorte di Regeni, in Egitto, toccò tre anni prima, nel 2013, al professore francese Eric Lang e non ci si può aspettare che Macron, il quale celebrando Al Sisi tradisce il suo connazionale e disonora la Francia, abbia rispetto per noi. Per una volta, non possiamo neppure prendercela troppo con l'Italia. La Procura di Roma ha fatto un'indagine straordinaria, riuscendo a provare, attraverso tabulati e cellule telefoniche, che Regeni è stato torturato e ucciso perché i suoi studi sull'opposizione dei sindacati al regime davano fastidio, e a incriminare quattro ufficiali egiziani. Il Cairo ha cercato a lungo di depistare le nostre indagini, provando a far passare l'assassino del giovane friulano per un tentato rapimento finito male, con tanto di sequestratori - ben cinque - trovati casualmente morti. Ma, grazie alla perseveranza dei nostri magistrati e dei nostri servizi di sicurezza, siamo riusciti ad arrivare a quella che l'opinione pubblica ha chiesto a lungo, ovverosia la verità per Regeni. Forse, l'unica cosa che possiamo rimproverarci è di non aver difeso abbastanza il ragazzo quando era in vita e, già in Egitto, aveva chiesto più volte aiuto all'ambasciata italiana. La nostra diplomazia infatti non è riuscita a chiarire alla dittatura che lo studente friulano di Cambridge non era un uomo dei servizi di Sua Maestà, che nelle università inglesi sono di casa, ma un giovane strumentalizzato dalla sua professoressa, la britannica Maha Mahfouz Abdelrahman. Una figura ambigua che, prima di iniziare un anno sabbatico che diventerà più lungo di un lustro, dichiarò di aver mandato Giulio al massacro. La cosa drammatica oggi però è che, ora che siamo venuti a conoscenza della verità per Regeni, il nostro Stato non sappia cosa farsene; o meglio, ne risulti imbarazzato. Se c'è un pezzo di carta da restituire non è la Legione d' Onore ma il passaporto dell'Italia, un Paese imbelle. L'indifferenza di Al Sisi alle nostre proteste, così come la decisione di eliminare selvaggiamente un cittadino italiano come se fosse un capo di bestiame, è la prova di quello che stiamo da tempo sperimentando: in quello che fu il Mare Nostrum, ormai non contiamo più nulla. Lo stanno imparando a loro spese anche i 18 pescatori italiani di Mazara del Vallo, da 105 giorni prigionieri in Libia di Haftar, un generale sconfitto che utilizza i nostri uomini come prova vivente che conta ancora qualcosa in Medio Oriente. In realtà, riesce solo a provare di contare più di noi, ma giustamente non gli basta, e infatti ci tiene ancora al guinzaglio. Estrema umiliazione, dopo che il Pd ha rifiutato la proposta della Ue di nominare commissario speciale per la Libia Minniti, ritenuto dalla sinistra troppo poco ortodosso, per riavere i nostri pescatori dovremo chiedere aiuto alla Bulgaria, da dove proviene l'attuale commissario. A raccontarlo ieri, sarebbe sembrata una barzelletta. Oggi, è una drammatica realtà.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 13 dicembre 2020. La sera in cui il sindacalista-informatore Mohamed Abdallah denunciò Giulio Regeni alla National security, innescando la trappola mortale in cui è caduto il ricercatore italiano, nella stessa struttura c’era anche l’allora ministro degli Interni egiziano, Magdi Abdel Ghaffar. I racconti di Abdallah, con i relativi accordi per spiare e segnalare ogni successivo movimento di Giulio, erano andati avanti per ore, fino alle 4 del mattino, e al momento di tornare a casa il sindacalista fu fermato, perché dal palazzo stava uscendo proprio Ghaffar: «Nella mia mente ho pensato che la questione era così grave che persino il ministro dell’Interno era venuto di persona. Siamo rimasti bloccati finché il ministro è sceso e se n’è andato». Il ricordo della «spia» è contenuto nel verbale d’interrogatorio del 10 maggio 2016 — tre mesi dopo il ritrovamento del cadavere di Regeni — all’ex procuratore generale del Cairo Nabil Sadek. La presenza di Ghaffar nel momento in cui il ricercatore italiano entra nel mirino delle forze di sicurezza egiziane potrebbe essere una casuale coincidenza, giacché le sedi di polizia e ministero sono nella stessa struttura. Ma potrebbe anche non esserlo, come pensò il sindacalista. L’orario inusuale suggerisce un sospetto in più su bugie, reticenze e depistaggi delle autorità egiziane sulla tragica fine di Giulio. Ghaffar compreso. L’8 febbraio 2016 l’ex ministro dichiarò solennemente: «Abbiamo confermato ripetutamente che il signor Regeni non è stato imprigionato da alcuna autorità egiziana. Respingiamo tutte le accuse e le allusioni su un coinvolgimento della sicurezza. Non conoscevamo Regeni». In precedenza — dal 27 gennaio al 2 febbraio, a sequestro in corso — il ministro si negò all’ambasciatore italiano Maurizio Massari; e quando finalmente lo incontrò, ha testimoniato il diplomatico, «risultò evasivo, malgrado la mia insistenza disse ripetutamente di non sapere e di non disporre di informazioni». Oggi sappiamo che Ghaffar mentiva, o quantomeno fu indotto a mentire dai suoi apparati, perché già dal novembre-dicembre 2015 Giulio venne «attenzionato» dalla National security. I controlli nei suoi confronti scattarono all’indomani della denuncia, come racconta lo stesso Abdallah. Il rappresentante dei venditori ambulanti aveva parlato di Giulio al «dottor Foda», direttore del Centro egiziano per i diritti dei lavoratori, che lo aveva indirizzato al colonnello della Ns Uhsam Helmi, uno di quattro indagati che la Procura di Roma vuole processare. «Hosam mi ha chiesto quali fossero i nostri problemi di ambulanti — ha riferito al magistrato —, ha chiesto a Sharif (il maggiore Sharif, accusato anche di omicidio, ndr) di farne un elenco per risolverli, e mi ha detto di seguire con lui la questione Regeni... Il giorno seguente sono stato contattato da Sharif, voleva sapere se mi dovevo incontrare con Giulio, io gli ho detto sì e che volevo andare insieme a lui a Masr Al Gadida (un mercato, ndr). Quando Sharif mi ha chiesto perché gli ho detto che volevo sapere con chi aveva rapporti ed egli rispose che facevo bene». A indirizzare Giulio da Abdallah era stata la coordinatrice di un Centro per i diritti economici e sociali, Hoda Kamel Hussein, individuata da Rabab Ai-Mahdi, la tutor indicata dalla professoressa di Cambridge Maha Abdelrahamn, nonostante le perplessità di Regeni dovuti al fatto che Al-Madi fosse «un’attivista che avrebbe potuto sovraesporlo». La catena dei rapporti che ha portato Giulio nella «stanza numero 13» della National security dove fu visto incatenato e torturato, è stata puntigliosamente ricostruita dall’indagine della Procura di Roma; l’anello centrale resta Abdallah, che nei primi due interrogatori alla National security, a febbraio e aprile 2016, disse di aver incontrato Regeni soltanto una volta, senza aggiungere altro. Solo il 10 maggio, di fronte al procuratore Sadeq e dopo il richiamo a Roma dell’ambasciatore italiano, ha raccontato almeno una parte di verità; «riferendo di essere stato indotto dalla National security, e in particolare dal maggiore Sharif, a rilasciare false dichiarazioni», accusano i magistrati romani. I quali ritengono attendibile Abdallah per i fatti che sono state riscontrati da dati oggettivi, come i tabulati telefonici da cui sono emersi i numerosi contatti tra lui e Sharif.

Macron, Al-Sisi e i diritti umani violati. Nel giorno in cui è stata prolungata di altri 45 giorni la custodia cautelare per Patrick Zaki, il presidente egiziano arriva in Europa. Ad attenderlo, a Parigi, non c’è la riprovazione per gli abusi, ma un'accoglienza trionfale. Francesca Mannocchi su L'Espresso il 10 dicembre 2020. La storia è spesso fatta di coincidenze. Quelle legate alla visita di stato del presidente egiziano al-Sisi in Francia sono lo specchio del doppio standard europeo sui regimi autoritari. Ieri, il programma ‘Quotidien’ di Yann Barthès ha mostrato le immagini del conferimento ad al-Sisi della Legion d’Onore, la piu’ alta onorificenza francese, da parte di Macron. Le immagini del cerimoniale provenivano, però, non dai media francesi ma dagli organi di stampa ufficiali del regime egiziano. I media francesi, infatti, a testimoniare gli onori militari e la serata di gala non c’erano. Ammessi alla breve conferenza stampa di lunedì scorso, seguita all’incontro tra Macron e al-Sisi, ma significativamente, non invitati a coprire gli impegni successivi che, peraltro, non figuravano sull’agenda del Presidente francese. "Perché l'Eliseo ha voluto nascondere queste immagini?" ha chiesto il presentatore di Quotidien Yann Barthès durante il programma. Già, perché? Per le coincidenze in cui si muove la storia, forse. I video sono stati resi pubblici dal Cairo, le autorità francesi avevano addirittura omesso dall'agenda di Macron gli appuntamenti con il presidente egiziano, impedendo ai media francesi le riprese. La sontuosa accoglienza evidentemente creava imbarazzo. Al-Sisi visita Parigi nei giorni delle udienze per la liberazione dello staff di EIPR e dello studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki. Arrestati i tre, con l’accusa di terrorismo, una forma di ritorsione dopo un incontro con numerosi diplomatici occidentali. Hanno trascorso due settimane dormendo su letti di ferro senza materassi né abiti invernali, nella tristemente nota prigione di Tora, considerata una delle peggiori al mondo. Le organizzazioni in difesa dei diritti umani denunciano da anni le terribili condizioni del carcere, le sistematiche violazioni dei diritti umani e le torture perpetrate al suo interno. Dopo la liberazione, il Tribunale del Cairo per l’antiterrorismo, accogliendo l’accusa della Procura generale dello stato ha congelato i conti correnti bancari dei tre esponenti di EIPR, decisione assunta senza aver prima ascoltato la difesa presentata dai legali dell’organizzazione a cui è stato di nuovo negato l’accesso agli atti giudiziari. La Legion d’Onore a al-Sisi, altra singolare coincidenza, giunge pochi giorni dopo la decisione dell’Unione Europea di stabilire un regime simile al ‘Magnitsky Act’ americano che consente ai 27 stati membri di sanzionare – congelando beni e imponendo divieti di viaggio - i responsabili di violazioni di diritti umani, atti come il genocidio, la tortura, la schiavitu’, le esecuzioni extragiudiziali, arresti e detenzioni arbitrarie. L’accordo prevede che il Consiglio europeo, composto dai 27 governi, agisca su proposta di uno Stato membro o dell’Alto rappresentante dell’UE per gli affari esteri e stabilisca e riveda l’elenco delle sanzioni. Dilemma, e limite dell’accordo: per applicarlo serve l’unanimità. L’Europa che una volta ancora si dichiara unita in difesa dei diritti umani, eppure le parole, in fila, "abusi, torture, detenzioni arbitrarie", sembrano la descrizione precisa del trattamento degli oppositori politici sotto al-Sisi. Invece il presidente egiziano arriva in Europa nel giorno in cui è stata prolungata di altri 45 giorni la custodia cautelare per Patrick Zaki, ricevuto tra lussi e sontuosità. Ad attenderlo, a Parigi, non c’è la riprovazione per gli abusi, ma una parata militare tra l’Arco di Trionfo e l’Eliseo. Intanto Zaki scopriva di essere destinato al carcere di Tora per un altro mese e mezzo. Decisione, quella del Tribunale del Cairo, che non incrina l’incontro tra Macron e al-Sisi, per paradosso, lo rafforza. Le organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani hanno contestato la visita, 17 gruppi umanitari hanno rilasciato una dichiarazione congiunta accusando Macron di chiudere un occhio sulle crescenti violazioni delle libertà da parte del governo di al-Sisi, ma la posizione del presidente francese è stata di assoluta prossimità e vicinanza con l’omologo egiziano. Macron ha affermato, durante la conferenza stampa di lunedì scorso, che non condizionerà la vendita di armi all’Egitto alla difesa dei diritti umani, perché non intende indebolire il governo di al-Sisi nella sua azione di contrasto al terrorismo nella regione: "È più efficace avere una politica di dialogo esigente che un boicottaggio che ridurrebbe solo l'efficacia di uno dei nostri partner nella lotta al terrorismo", ha detto. Francia e Egitto condividono interessi geopolitici: l’instabilità della regione del Sahel, e la posizione in Libia, l’appoggio cioè al generale Khalifa Haftar nella parte orientale del paese. E naturalmente l’interesse economico principale, che risponde alla voce armi: tra il 2013 e il 2017 la Francia è stata il principale fornitori di armi in Egitto. Anche durante la sua visita di stato a Parigi, al-Sisi ha continuato a respingere le accuse di violazione dei diritti umani, sostenendo una volta ancora che sia inappropriato per altri stati suggerire a un presidente come deve agire per tutelare il suo popolo e la stabilità del suo paese. Kenneth Roth, direttore esecutivo di Human Rights Watch, durante la visita del presidente egiziano, in Egitto, ha scritto un lungo e severo editoriale su Le Monde “le azioni contro l’EIPR – dice - sono arrivate sullo sfondo di un'altra mossa sfacciata dell'Egitto verso l'UE, che sta negoziando un nuovo accordo di aiuti con l'Egitto. In tutto il mondo, questi accordi sono normalmente condizionati al rispetto dei diritti umani da parte del destinatario. In passato, il governo egiziano aveva regolarmente firmato tali accordi. Ma negli ultimi due anni, ha rifiutato questa condizionalità.” Roth critica i governi occidentali, suggerendo che facciano troppo pochi sforzi per chiedere, imporre, il rispetto di standard elementari dei diritti umani. Come avevano già fatto, d’altronde, in seguito alla strage di Piazza Rabaa, quando in poche ore, nel 2013, l’anno del colpo di stato, 820 manifestanti dei Fratelli Musulmani furono trucidati dalle forze di sicurezza legate a Al-Sisi che allora era Ministro della Difesa. L’impunità di quell’estate è stata la pietra angolare degli abusi degli anni successivi. Scrive ancora Kenneth Roth a nome di Human Rights Watch “Sisi ha abilmente giocato la sua mano per fare appello agli interessi europei, presentandosi come un baluardo contro il terrorismo e le migrazioni, un amico di Israele e un prolifico acquirente di armi. I governi europei hanno accettato questo sporco affare al prezzo dei diritti e delle libertà del popolo egiziano. Ciò ha solo incoraggiato Sisi a mettere a tacere la manciata di voci indipendenti rimaste nel paese.” Il cambio di amministrazione negli Stati Uniti sarà un ulteriore banco di prova della ricerca di al-Sisi di nuove alleanze o del tentativo di rafforzare quelle esistenti. Nel settembre 2019, a Biarritz, in Francia durante il G7, mentre aspettava al-Sisi, Trump disse - abbastanza forte per essere udito da tutti i presenti – "quando arriva il mio dittatore preferito?". Otto mesi dopo, Mohammed Amashah studente con la doppia cittadinanza americana e egiziana, è stato rilasciato al Cairo dopo 16 mesi di detenzione. Era stato arrestato nel marzo 2019 mentre esibiva in piazza Tahrir un cartello con la scritta "libertà per tutti i prigionieri politici". Dopo la sua scarcerazione Joe Biden ha scritto ‘Arrestare, torturare ed esiliare attivisti o minacciare le loro famiglie è inaccettabile. Niente più assegni in bianco per il "dittatore preferito" di Trump.” Niente piu’ assegni in bianco, ha scritto Biden. L’Egitto sarà una delle prove del suo mandato, come da anni lo è per i governi europei, che si sono dimostrati distratti sugli abusi e concentrati sugli affari. La tutela dei diritti umani è uno dei temi di rilancio delle relazioni transatlantiche approvate dal Consiglio d’Europa lo scorso sette dicembre. “È giunto il momento di tener fede al nostro sostegno al multilateralismo, anche attraverso riforme indispensabili in seno alle organizzazioni internazionali, secondo modalità che ne preservino i principi fondanti — sanciti nella Carta delle Nazioni Unite — e rispettando i diritti umani” si legge nelle conclusioni del Consiglio sulle relazioni Unione europea - Stati Uniti. Ne preservino i principi fondanti. Come difendere i diritti degli almeno 60 mila detenuti politici egiziani.

Mariano Alberto Vignali Spezia per "la Stampa" il 27 novembre 2020. Si chiama Al-Galala l'ormai ex fregata Spartaco Schergat costruita per la Marina militare e poi dirottata all' interno della maxi commessa di armamenti che l' Italia sta vendendo all' Egitto. Il nome della «medaglia d' oro» che sino a poco tempo fa correva sulla murata di poppa, è stato appena sostituito e l' unità è pronta a cambiare il tricolore con la bandiera con l' aquila di Saladino. La fregata tipo "fremm" (fregate europee multi-missione), cioè una delle navi più moderne al mondo, è ancora ormeggiata nel porto della Spezia, nel cantiere navale del Muggiano, dove era stata ultimata da Fincantieri, ma presto prenderà il mare, forse entro l'anno, per il porto di Alessandria d'Egitto. Una sorte che toccherà entro la primavera anche alla gemella Emilio Bianchi. Quest'ultima porta ancora il nome dell'eroe che in una notte del dicembre 1941, assieme proprio a Schergat, quel porto lo forzò per affondare le navi inglesi presenti e compiere «l' impresa di Alessandria». La notizia del cambio del nome sulla fiancata è la prova regina, a discapito di tanti silenzi e delle mezze imbarazzanti conferme arrivate in questi mesi dal governo, che ormai quella fregata è egiziana. Alla Spezia c' è anche l' equipaggio che sta finendo la formazione per poter salire a bordo e far rotta verso il Mediterraneo orientale. Le due navi, per un valore stimato di circa 1,1 miliardi di euro, sono il primo pezzo dell' accordo. Si prevede che l' Italia venda all' Egitto altre 4 fregate e ben 20 pattugliatori d' altura, tutti realizzati di Fincantieri, oltre a 24 caccia Eurofighter Typhoon e numerosi velivoli da addestramento M-346 di Leonardo, più un satellite da osservazione. Una delle commesse più grandi del dopoguerra, per un valore complessivo di quasi 9 miliardi di euro. Una partita che confermerebbe l' Egitto come primo cliente dell' industria militare italiana (oggi lo è con un volume di affari da 871 milioni di euro solo nel 2019) e, secondo gli esperti, garantirebbe un carico di lavoro per quasi dieci anni. Eppure questa operazione è una delle più scomode e riservate degli ultimi trent' anni senza mai ammettere l' evidenza dei fatti o confermare gli atti siglati. A pesare su questa vendita c' è la situazione di tensione legata al caso Regeni e al complicato rapporto tra Roma ed il Cairo. Un tema che aveva aperto il vertice telefonico Italia-Egitto del 7 giugno, tra il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, e il primo ministro Giuseppe Conte, anche se poi la telefonata è servita proprio per chiudere la pratica della maxi commessa. Così, poco dopo, l' Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento italiana, responsabile delle esportazioni di equipaggiamenti militari, ha concesso, sempre in sordina, il 10 agosto, la licenza di esportazione in Egitto delle due navi.

Francesco Sforza per "la Stampa" il 27 novembre 2020. Lenti ad affermare i diritti, veloci nel fare gli affari: difficile non sentirsi feriti dallo scarto tra i tempi della giustizia sull' omicidio di Giulio Regeni e la detenzione di Patrick Zaki e, d' altro lato, dalla rapidità con cui è diventato operativo, ieri, l' accordo di vendita delle due fregate italiane classe Fremm all' Egitto, che ne ha già ribattezzata una con il nome di una delle sue montagne più celebri, Al Galala. Una rete di richiami simbolici che a dispetto delle dichiarazioni ufficiali sul pressing italiano presso il governo egiziano mostra da una parte un Paese che salpa, e dall' altro uno che ripara. E a riparare, stavolta, siamo noi, che dal 2016 non riusciamo ad ottenere risposte soddisfacenti sul brutale assassinio di un giovane ricercatore, e che fra qualche giorno vedremo scadere i termini delle indagini preliminari della Procura di Roma senza neanche poter far leva - nel caso in cui le conclusioni della magistratura italiana siano dichiarate irricevibili dalle autorità egiziane - sulla finalizzazione dell' accordo di vendita delle fregate perché queste, allora, saranno già egiziane. Oggi è il caso di chiedersi che strada stia prendendo la via diplomatica al negoziato con l' Egitto, perché se questa significa cedere su tutta la linea, e semplicemente attrezzarsi per la gestione di una resa, allora è bene ricordare che probabilmente il punto di caduta sarà ancora più basso del previsto. Il caso di Patrick Zaki, lo studente egiziano dell' Università di Bologna arrestato il 7 febbraio con l' accusa di propaganda sovversiva al regime, che il 21 novembre scorso si è visto rinnovare la custodia cautelare nelle carceri del Cairo per altri 45 giorni, è lì a dimostrarlo: il linguaggio della collaborazione non può essere parlato in una sola lingua. Altrimenti non ci si capisce, o meglio, ognuno può far finta di capire ciò che vuole. La spirale può continuare ad avvitarsi, e l' Italia, al momento, sembra destinata a una sconfitta, sia in termini di credibilità come attore nell' area (lo stallo libico ce lo ricorda ogni giorno), sia come Stato che ha il dovere di affermare la priorità della difesa dei diritti. Perché è partendo da lì che si vince, e anche da lì che si perde.

F.M. per “la Stampa” il 25 novembre 2020. Questa volta il caso Regeni non divide Italia ed Egitto ma apre un' inattesa crepa tra l' ex presidente del Consiglio Matteo Renzi e l'"istituzione" ministero degli Esteri. Tutto nasce nel corso di un' audizione fatta da Renzi davanti alla Commissione parlamentare di inchiesta sul caso del ricercatore italiano ucciso in Egitto. Ad un certo punto l' ex premier ha detto: «Ho un rimpianto: aver saputo della morte di Giulio Regeni solo il 31 gennaio 2016» e dunque quasi una settimana dopo il rapimento avvenuto il 25 gennaio. L' allarme, scattato poche ore dopo in Italia, fu "gestito" con la massima riservatezza, ma possibile che per sei giorni il presidente del Consiglio italiano sia stato tenuto all' oscuro da ministero degli Esteri e Servizi? Due ore dopo l' audizione è arrivata una nota molto circostanziata della Farnesina: «In merito alle dichiarazioni rese oggi dall' ex presidente del Consiglio Matteo Renzi, si precisa che le istituzioni governative italiane e i nostri servizi di sicurezza furono informati sin dalle prime ore successive alla scomparsa di Giulio il 25 gennaio 2016». Il ministero degli Esteri ricorda che «tutti i passi svolti con le più alte autorità egiziane sono stati ampiamente documentati e resi noti alle istituzioni competenti a Roma dall' ambasciatore Massari nelle sue funzioni di ambasciatore d' Italia al Cairo». Una nota emessa non dall' attuale ministro degli Esteri Luigi Di Maio, ma dalla Farnesina che dunque si è fatta carico della continuità dell' amministrazione. Una nota molto precisa che lascia immaginare note e dispacci scritti. Difficile comprendere la ragione di questa retrodatazione da parte di Renzi. Certo, la tempistica con la quale fu lanciato l' allarme e la gestione politica della primissima fase del sequestro restano passaggi ancora da chiarire. Gli amici egiziani di Regeni pensarono che fosse necessario denunciare immediatamente la sua scomparsa, ma cosa accadde nelle prime ore del rapimento? Renzi ha raccontato così i momenti cruciali: «Quando abbiamo saputo ciò che accadeva al Cairo abbiamo messo in campo tutti gli strumenti. Abbiamo dei rimpianti? Voglio essere molto sincero: perché abbiamo saputo questa notizia soltanto nella giornata del 31 gennaio? Forse se avessimo saputo prima avremmo potuto agire prima, anzi quasi sicuramente». Renzi si è mostrato più severo con gli inglesi che con gli egiziani: «Il Regno Unito su questa storia non ha chiarito fino in fondo. C' è qualcosa che non torna nella professoressa che decide di non rispondere» e «se chiediamo ad Al Sisi di rispondere alle domande della stampa e una professoressa decide di non rispondere, trovo la cosa inaccettabile per gli standard della democrazia liberale». E ha avanzato una proposta: «Se fossi nel presidente del Consiglio non ritirerei l' ambasciatore al Cairo perché è un gesto che si fa una volta e che deve produrre delle conseguenze. Nominerei piuttosto un inviato speciale del presidente del Consiglio per far sì che il regime egiziano consenta di processare i responsabili della morte di Regeni, che la Procura di Roma ha individuato». Ieri sera Renzi non ha commentato la nota della Farnesina ma ha confidato: «Una reazione che si può spiegare perché non hanno gradito la mia proposta politica».

Da Regeni a Zaki, l’ipocrisia sui diritti umani dell’Europa è nauseabonda. Preferiamo vendere armi che avere giustizia su due ragazzi, uno ucciso l’altro in carcere in Egitto da mesi. Alberto Negri su Il Quotidiano del Sud l'8 dicembre 2020. L’ipocrisia europea è nauseabonda. Nel settore dei diritti umani non siamo meglio di Macron e Al Sisi, che sia chiaro. Come la Francia, dove il dittatore egiziano è in visita, preferiamo vendere armi che avere giustizia su Giulio Regeni o Zaki, lo studente di Bologna che resterà ancora in carcere per 45 giorni. L’Egitto, dove sono in carcere 60mila prigionieri politici, dai Fratelli Musulmani ai laici, è un esempio evidente dell’ipocrisia europea, come del resto l’atteggiamento tenuto nei confronti della Turchia di Erdogan. Così la Francia di Macron che ha litigato furiosamente con Erdogan sul Mediterraneo orientale, sulla Libia e soprattutto sull’Islam, accoglie l’autocrate egiziano in pompa magna anche se Parigi garantisce che metterà sul tavolo la questione dei diritti umani. Staremo a vedere.

IL SORPASSO FRANCESE. Intanto una certezza l’abbiamo. Il dato più eclatante è che la Francia ha superato anche gli Stati Uniti come maggiore fornitore di armi del Cairo. L’Egitto fa parte con la Francia di un’alleanza che insieme alla Grecia, a Cipro, agli Emirati e a Israele si oppone alle ambizioni della Turchia di Erdogan per lo sfruttamento delle risorse di gas sulle coste del Mediterraneo orientale dove Ankara non riconosce i confini marittimi tracciati dai trattati internazionali, che per altro non ha mai firmato. Il tutto aggravato dal fatto che la Turchia è un Paese della Nato e gli americani non hanno dimostrato con l’amministrazione Trump la volontà di mettere in riga Erdogan che litiga con la Russia su tre fronti, Siria, Libia e Caucaso, ma ha acquistato da Putin le batterie anti-missile S 400. La Turchia serve agli Usa per tenere impegnata la Russia, quindi per il momento non si tocca e le cose no dovrebbero cambiare troppo neppure con Biden alla Casa Bianca. Per la verità anche l’Italia che ha una ferita aperta con l’Egitto con il caso di Giulio Regeni non esita a vendere armi ad Al Sisi. E’ stata confermata la fornitura al Caito di due fregate italiane che valgono 1,2 miliardi di euro e all’orizzonte ci sono opzioni per altre quattro fregate, venti pattugliatori, 24 caccia Eurofighter e altrettanti addestratori M-346. Una partita da oltre 10 miliardi di euro. E poi c’è il gas, trovato dall’Eni nel mare egiziano nel giacimento di Zhor. Anzi, a rendere il tutto più chiaro c’è pure sponsorizzazione da parte di un’azienda a controllo statale come Fincantieri del salone militare Edex, un diretto sostegno alla politica militare del regime di Al Sisi nel Mediterraneo. Soltanto il rinvio dell’Edex all’anno prossimo, causa Covid, ha impedito che la faccenda venisse alla ribalta dei media. Certo anche noi siamo dei paladini dei diritti umani come i francesi ma quando ci son gli affari in mezzo come loro non ci facciamo certo indietro.

PEGGIO CHE CON ERDOGAN. Le cose non vanno meglio con la Turchia, altro bel campione dei diritti umani visto che Erdogan è il massacratore di curdi, i nostri maggiori alleati nella guerra contro l’Isis. Quando nel 2019 Erdogan ha invaso il Rojava, la regione siriana amministrata dai curdi gli europei hanno minacciato sanzioni ma nessno in realà ha fatto nulla: sotlineaimo che in Turchia a Kayserio l’Agusta assembla gli stessi eleiotteri f’attacco che Ankara utilizza per bombardare i curdi. Ma gli europei non possono bastonare Erdogane imporre snazioni alla Turchia perché, èagata profumatamente da Bruxelles, si tiene tre milioni di porufhi in casa. Qundi, in promo luoto la Germania, ma anche l’Italia, non sono per niente dell’idea di snazionare Erdogan che ci ricatta con i migranti sulla rotta balcanica. E Se Macron litiga con Erdogan noi in Libia dobbiamo convivere con il Sultano della Nato. Con la visita a Roma venerdì scorso del ministro della difesa di Tripoli Salaj Eddine al Namrush è stato riattivato un accordo del 2013 che comprende la cooperazione in campo sanitario _ l’ospedale da campo di Misurata con 300 soldati _ l’intesa sulla formazione in Italia e in Libia di ufficiali e sottufficiali, compresa la formazione di Guardai costiera e Marina militare, e l’attività di sminamento. In poche parole collaboreremo a rimettere in piedi le forze armate della Libia insieme alla Turchia di Erdogan che con l’intervento militare a fianco del governo di Al Sarraj ha salvato Tripoli dall’offensiva del generale della Cirenaica Khalifa Haftar sostenuto da Russia, Emirati arabi uniti, Egitto e, in parte dalla Francia che con Ankara ha ormai molti conti in sospeso da regolare qui e nel Mediterraneo orientale. Ci conviene andare d’accordo con Erdogan in Libia perché lì abbiamo grandi interessi energetiche, dal petrolio dell’Eni al gasdotto Greenstrean, e ora Erdogan controlla pure le coste libiche da dove vengono le ondate dei migranti.

LE RADICI TURCHE. Non sono soltanto la Francia e l’Italia che in Europa obbediscono più ai loro interessi nazionali che ai princìpi europei alla libertà e di diritti umani. La Gran Bretagna, che sta uscendo dall’Unione cercando di non pagare neppure il dovuto, ha appena avviato manovre militari della sua aviazione con quella turca, In poche parole il premier Johnson, che ha radici turche, si gioca ormai le sue carte in piena autonomia non solo dall’Europa ma anche nella Nato. Così siamo messi: i dittatori del Mediterraneo ci danno degli schiaffi ma noi li prendiamo volentieri perché facciamo cassa con le vendite di armi. Alla faccia dei diritti umani.

Caso Regeni, doppia ipocrisia di Stato. Eraldo Affinati su Il Riformista il 3 Luglio 2020. Ho pensato spesso in questi anni a Giulio Regeni, il cui sorriso contagioso che abbiamo visto tante volte in fotografia paradossalmente decifravo negli occhi vispi dei ragazzi egiziani, minorenni non accompagnati, ospiti dei centri di pronta accoglienza della Caritas, ai quali insegnavamo la nostra lingua. Indimenticabili frugoletti carichi d’energia vitale che spesso non erano mai andati a scuola, difficili da tenere fermi seduti al banco a scrivere e sillabare, tuttavia forse proprio per questo capaci di stupirti con risposte imprevedibili che denotavano intelligenza e fantasia. Nel momento in cui dovevamo controllarli, a volte ci sentivamo quasi sopraffatti, ma quando a un certo punto di colpo non sono arrivati più, chissà forse proprio a causa della crisi legata al caso Regeni, ne abbiamo sentito la mancanza. Venivano quasi tutti dal governatorato di Gharbiyya, una regione rurale a nord del Cairo, non molto distante dal luogo in cui il 3 febbraio 2016 venne ritrovato il corpo orribilmente martoriato del giovane italiano, lungo la strada che da Alessandria conduce verso la capitale. Nato a Trieste, aveva ventott’anni e stava portando avanti una ricerca sui sindacati per conto dell’università di Cambridge. Era stato rapito il 25 gennaio, nel quinto anniversario dei tumulti di piazza Tahrir. Facile pensare al coinvolgimento dei servizi segreti: in questi casi purtroppo la verità viene raramente a galla, anche perché, prima di enunciarla, se non sancirla, bisogna tenere presente i contesti, valutare le conseguenze, verificare le fonti. Non c’è bisogno di conoscere il Leviatano di Thomas Hobbes per rendersene conto. E nemmeno Il principe di Nicolò Machiavelli per capirlo. Anche se, a dire il vero, chi ha letto questi classici nutre forse meno illusioni sulla natura dello Stato di diritto rispetto a quelli che avanzano alla cieca nel Paese dei Balocchi facendo supposizioni. Per restare al crudele omicidio del nostro dottorando e giornalista, emblematico esponente di una generazione giramondo e cosmopolita sulla quale fece perno il bacino elettorale dei Cinque Stelle, non si può certo negare il lavoro svolto con pazienza, perizia, presumibile accortezza, dalle magistrature coinvolte. Eppure sono trascorsi quattro anni e mezzo di indagini e l’ultima notizia, diffusa ieri l’altro, segna un secco arretramento anche rispetto alle più caute aspettative: l’incontro on line fra le procure dei due Paesi direttamente interessati non ha prodotto alcunché. Anzi, come è stato giustamente sottolineato, la richiesta egiziana di avviare ulteriori azioni investigative finalizzate a meglio delineare l’attività del giovane assassinato, rischia di riportarci ancora più indietro, nell’oscurità della tipica ragion di Stato, alimentando la sfiducia di quanti sin dall’inizio denunciarono l’ipocrisia delle stesse democrazie occidentali, pronte a sbandierare il vessillo della giustizia per ottenere il consenso popolare, senza rinunciare alla convenienza economica degli affari da stipulare. Da qui l’evidente imbarazzo della Farnesina, sul punto di richiamare l’ambasciatore almeno per consultazioni temporanee, mentre il presidente del Consiglio sembra prendere tempo, consapevole della delicatissima situazione in cui si trova il nostro Paese, nell’estate del Coronavirus il più vulnerabile dei moli al centro del Mar Mediterraneo. Da una parte abbiamo i genitori di Giulio Regeni, con tutta l’opinione pubblica schierata al loro fianco; dall’altra la maxicommessa per la vendita di armamenti al Cairo del governo italiano. Sana indignazione e mirata accortezza geopolitica. Le giravolte del presidente al-Sīsī e le manifestazioni a sostegno di Giulio. Diritti umani ed equilibri internazionali. Difficile trovare un varco utile per superare lo stallo. Ripeto: io, nel mio piccolo, ho provato a farlo, se non altro liricamente, alla ricerca di un trofeo di giovinezza perduta, insegnando i verbi a Mohamed, quindici anni, pressoché analfabeta, il quale non sapeva nulla di Giulio Regeni, voleva solo tornare a casa, ma a quanto pare suo padre glielo impediva, restando in attesa dei soldi che il figlio gli avrebbe potuto inviare quando sarebbe stato assunto in pizzeria.

Da ansa.it il 20 giugno 2020. Sono in possesso degli inquirenti italiani i documenti di Giulio Regeni, il passaporto e due tessere universitarie, consegnati dalle autorità egiziane assieme ad una serie di oggetti che, secondo gli investigatori egiziani, appartenevano al ricercatore sequestrato e ucciso al Cairo nel 2016. Gli oggetti furono sequestrati alla banda di presunti killer, cinque criminali comuni uccisi in Egitto il 24 marzo di quattro anni fa. I cinque furono fatti passare dall'autorità locali come gli autori dell'omicidio di Regeni in quello che per gli investigatori italiani è stato, invece, un tentativo di depistaggio. Gli oggetti sono quelli mostrati in alcune foto dopo il blitz ai danni dei cinque malviventi: oltre al passaporto di Giulio e le tessere di riconoscimento dell'università di Cambridge e dell'università americana del Cairo anche alcuni presunti effetti personali come un marsupio rosso con lo scudetto dell'Italia, alcuni occhiali da sole (di cui due modelli da donna), un cellulare, un pezzo di hashish, un orologio, un bancomat e due borselli neri di cui uno con la scritta Love.

Caso Regeni, l'Egitto non manda ancora i vestiti di Giulio. Recapitati alla famiglia soltanto oggetti che non gli appartenevano. Giuliano Foschini il 22 giugno 2020 su La Repubblica. L’Egitto non ha mandato alcun documento di Giulio Regeni in Italia. Il passaporto, le tessere universitarie, erano state già consegnate alla famiglia anni fa. Mancavano i vestiti di Giulio, chiesti all’epoca dai genitori al presidente egiziano Al Sisi, ma quelli al momento non sono nemmeno stati consegnati. Quello fatto recapitare in Italia è invece un affronto. Oppure, tecnicamente, per citare le parole proprio di un nostro investigatore, “la prova di un reato”. Sono stati inviati infatti soltanto – la famiglia Regeni li ha riconosciuti in queste ore attraverso le fotografie – quegli oggetti, che non appartenevano a Giulio, esibiti dal governo egiziano quando furono uccisi, in un conflitto a fuoco con la Polizia, cinque innocenti, accusati dell’omicidio di Giulio dai servizi segreti egiziani nella speranza di chiudere la questione. Così non fu. Perché immediatamente la procura di Roma si accorse della messa in scena. E perché furono commessi troppi errori grossolani. Compresa l’esposizione di quei borselli, gli occhiali da sole (e anche un pezzo di hashish) che dimostrarono subito che era soltanto una messinscena. Tra gli agenti della National security, tra l’altro, implicati in quel depistaggio ce n’è almeno uno dei cinque indagati dalla procura di Roma. E che i pm di piazzale Clodio vorrebbero processare al più presto. Per farlo è però necessaria quella collaborazione promessa dall’Egitto all’Italia che, vedendo com’è andata la questione degli effetti personali, non comincia dunque nel migliore dei modi. La partita si giocherà nella prossima settimana: se, davvero, il Cairo ha deciso di collaborare, il primo luglio dovrà presentarsi all’incontro con la procura di Roma (in videoconferenza) con le risposte alle 12 domande della rogatoria presentata ormai più di un anno fa. Non c’è ottimismo, nemmeno dopo le parole del premier Giuseppe Conte davanti alla commissione parlamentare di inchiesta. I genitori di Giulio, Paola e Claudio, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, dopo aver accusato il Governo di “tradimento”, hanno scelto la strada del silenzio. Eloquente, però. L’affronto della restituzione beffa è l’ennesimo sfregio al loro dolore e alla loro “coscienza di cittadini”, come hanno sempre detto, dopo il sequestro, le torture e l’omicidio di Giulio. In questi giorni, inoltre, in molti hanno proposto l’intitolazione di strade delle città a Giulio. Un’iniziativa che la famiglia Regeni ha sempre detto di non gradire. “Non vogliamo monumenti alla memoria” hanno spiegato in più occasioni, “ma azioni vere per restituire a tutti verità e giustizia: i sindaci espongano gli striscioni o chiedano il ritiro dell’ambasciatore italiano al Cairo”.

Fulvio Fiano per il “Corriere della Sera” il 21 giugno 2020. Se sia finalmente una reale apertura alle indagini italiane sull' omicidio di Giulio Regeni o solo l' ennesima collaborazione di facciata da parte delle autorità del Cairo, è presto per dirlo. Fatto sta che da ieri sono a disposizione dei nostri inquirenti il passaporto e le tessere di riconoscimento universitarie del ricercatore friulano sequestrato e ucciso in terra egiziana ormai quattro anni e mezzo fa. Materiale, va detto subito, che difficilmente potrà avere un valore diverso da quello meramente affettivo per i genitori del 28enne, dato che sembra impensabile trovare dopo tanto tempo e tanti passaggi di mano impronte o tracce di dna utili alle indagini. D'altronde si tratta degli stessi reperti fatti visionare agli inquirenti italiani nel marzo 2016 e che, ad eccezione del documento di identità, di un bancomat e delle tessere di Cambridge e dell' università del Cairo, si rivelarono presto come uno smaccato tentativo di depistare le indagini, accreditando la falsa ipotesi del delitto nato da una rapina o da imprecisati «affari» privati. Nel borsone rosso con lo scudetto dell' Italia «svelato» dalle autorità cairote c' erano infatti anche alcuni occhiali da sole (di cui due modelli da donna), un cellulare, un pezzo di hashish, un orologio e due borselli neri di cui uno con la scritta «Love» che i genitori di Giulio, ai quali gli oggetti furono mostrati in foto, bollarono subito come estranei al figlio. A impedire ogni riscontro ci fu poi la circostanza che i cinque «criminali comuni» trovati in possesso del borsone vennero uccisi al momento della presunta cattura, il 24 marzo di quell' anno. Verosimilmente in una messa in scena che ebbe breve durata. Claudio e Paola Regeni potrebbero essere ora chiamati a un nuovo riconoscimento pro forma, stavolta dal vivo, degli stessi oggetti. Nei giorni scorsi avevano annunciato a mo' di monito: «Non intendiamo più farci prendere in giro dall' Egitto: non basterà inviarci quattro cianfrusaglie, indumenti vari e chiacchiere o carta inutile. Basta atti simbolici, il tempo è scaduto. Vogliamo una risposta esaustiva a tutti i punti della rogatoria inviata dalla procura di Roma nell' aprile del 2019». In questo difficile clima, rinfocolato dalle polemiche per l' accordo di vendita di due navi militari al regime del generale Al Sisi (in un più ampio accordo di fornitura), anche una piccola apertura non può però essere trascurata. Alle viste c' è il vertice in programma il primo luglio, in videoconferenza, tra le procure di Roma e del Cairo. Il pm Sergio Colaiocco e gli investigatori del Ros e dello Sco hanno individuato in cinque funzionari dei servizi segreti egiziani i presunti responsabili dell' azione che portò all' eliminazione di Regeni, impegnato in un report sui sindacati che si opponevano al governo militare: il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal, il maggiore Magdi Sharif e l' agente Mhamoud Najem. Una delle richieste della rogatoria riguarda l' indicazione di un loro domicilio per poter procedere alla notifica dell' iscrizione tra gli indagati e avvicinare così l' eventuale processo. Nei giorni scorsi anche il ministro degli Esteri Luigi Di Maio ha chiesto all' omologo egiziano un via libera in questo senso.

"Quegli oggetti non sono di Giulio, un dolore come davanti al suo corpo". Pubblicato martedì, 30 giugno 2020 da La Repubblica.it. Messa così, l’inizio assomiglia già alla fine. «Ci hanno sottoposto a un’altra straziante offesa, peraltro totalmente inutile. L’ennesima presa in giro egiziana. Impietosa e dolorosissima» dicono, distrutti, Paola e Claudio Regeni. Oggi gli uffici giudiziari italiani ed egiziani si incontreranno, dopo mesi di silenzio, per riavviare la collaborazione sull’inchiesta di Giulio Regeni. Ma in queste ore c’è stata già una pessima premessa: gli egiziani hanno consegnato alla famiglia Regeni, come promesso, gli effetti personali di Giulio. Ma quelli fatti arrivare in Italia non erano oggetti appartenuti a Giulio. Piuttosto cianfrusaglie che, chi voleva depsitare le indagini sull’omicidio, voleva far credere fossero i suoi. Con ordine: il procuratore capo di Roma, Michele Prestipino, insieme con il sostituto Sergio Colaiocco, vedranno oggi in videoconferenza, dopo mesi di silenzio, i magistrati egiziani che si occupano dell’inchiesta sulla morte di Giulio Regeni. Si tratta dell’incontro al quale tanto ha lavorato il nostro governo e che, nelle intenzioni, dovrebbe sancire la ripresa della collaborazione. Così come promessa al premier Giuseppe Conte dal presidente egiziano Al Sisi. Un fatto “slegato” dalla vendita delle due fregate militari costruite da Fincantieri all’Egitto, ma che doveva essere il segnale del riavvicinamento tra i due Paesi. In quest’ottica gli egiziani avevano promesso anche un gesto simbolico. Inviando in Italia gli oggetti appartenuti a Giulio, così come chiesto dalla famiglia più di tre anni fa. Per recuperarli si sono mossi direttamente i nostri servizi di intelligence che sono volati fino al Cairo. E in queste ore li hanno fatti avere alla famiglia Regeni. Non c’è stato, purtroppo, bisogno di troppo tempo per capire quello che subito era sembrato chiaro a tutti: nulla di quello che è stato consegnato apparteneva a Giulio. «Quando ci hanno detto che dovevamo andare a vedere degli oggetti he la procura egiziana aveva consegnato ai nostri servizi attribuendoli a Giulio, ci siamo sentiti male. Abbiamo provato la stessa angoscia di quando ci avevano chiesto di riconoscere il corpo senza vita di nostro figlio» dicono a Repubblica. Non immaginavano però la beffa: gli oggetti consegnati, come fa notare una fonte italiana, «sono tecnicamente delle prove di reato: ma non per l’omicidio di Giulio, ma sul depistaggio messo in atto per coprire i veri responsabili». Sono infatti gli occhiali, il portafoglio, il porta documenti che gli agenti della National security fecero ritrovare a casa di uno dei cinque innocenti uccisi in un conflitto a fuoco con la polizia egiziana. I cinque che, in un primo momento, erano stati ingiustamente accusati di aver ucciso il ricercatore italiano. A capire che si trattava di un depistaggio fu proprio la procura di Roma, anche grazie a quelle cianfrusaglie mostrate in tutta fretta dal governo egiziano poche ore dopo la morte dei cinque. Furono però alcuni loro parenti a dire pubblicamente che quegli oggetti erano stati portati da uno della National security: si tratta di Mahmud Hendy, uno dei cinque indagati della procura di Roma. E che oggi i magistrati romani chiederanno di interrogare, insieme con gli altri. O almeno di conoscere il suo domicilio per poterlo processare.

Omicidio Regeni, l’ira dei genitori: «Un fallimento l’incontro con i pm del Cairo, richiamare l’ambasciatore». Il Dubbio l'1 luglio 2020. Prestipino: «Il procuratore generale egiziano ha assicurato che le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio». Ma è passato già un anno senza risposte. «Il procuratore generale egiziano ha assicurato che, sulla base del principio di reciprocità, le richieste avanzate dalla procura di Roma sono allo studio per la formulazione delle relative risposte alla luce della legislazione egiziana vigente». È quanto si legge in una nota della Procura di Roma al termine del vertice durato circa un’ora, tenutosi in videoconferenza, tra magistrati italiani e quelli egiziani sull’inchiesta per l’omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore friulano rapito, torturato e ucciso nel 2016 in Egitto. Il riferimento è alla rogatoria inviata dai pm di Roma il 28 aprile dello scorso anno. Il procuratore di Roma, Michele Prestipino, ha «insistito sulla necessità di avere riscontro concreto, in tempi brevi, alla rogatoria ed in particolare in ordine all’elezione di domicilio da parte degli indagati, alla presenza e alle dichiarazioni rese da uno degli indagati in Kenya nell’agosto del 2017». Dal canto suo,  il Procuratore egiziano Hamada Elsawy «ha formulato alcune richieste investigative finalizzate a meglio delineare l’attività di Giulio Regeni in Egitto». Nel corso del suo intervento, il procuratore generale egiziano ha ribadito la ferma volontà del suo Paese e del suo ufficio di arrivare a individuare i responsabili dei fatti e per questo ha affermato che l’incontro ha costituito «un passo decisivo nello sviluppo dei rapporti di collaborazione, con l’auspicio di raccoglierne esiti fruttuosi». Ma l’esito dell’incontro ha lasciato del tutto insoddisfatti i genitori del giovane, secondo cui  «è evidente che l’incontro virtuale di oggi con la procura egiziana è stato fallimentare», affermano in una nota Paola e Claudio Regeni  e l’avvocato Alessandra Ballerini. «Gli egiziani non hanno fornito una sola risposta alla rogatoria italiana sebbene siano passati ormai 14 mesi dalle richieste dei nostri magistrati. E addirittura si sono permessi di formulare istanze investigative sull’attività di Giulio in Egitto. Istanze che oggi – prosegue la nota -, dopo quattro anni e mezzo dalla sua uccisione, senza che nessuna indagine sugli assassini e sui loro mandanti sia stata seriamente svolta al Cairo, suona offensiva e provocatoria». Nonostante le continue promesse, prosegue la nota, «non c’è stata da parte egiziana nessuna reale collaborazione. Solo depistaggi, silenzi, bugie ed estenuanti rinvii». «Il tempo della pazienza e della fiducia è ormai scaduto. Chi sosteneva che la migliore strategia nei confronti degli egiziani per ottenere verità fosse quella della condiscendenza, chi pensava che fare affari, vendere armi e navi di guerra,stringere mani e guardare negli occhi gli interlocutori egiziani fosse funzionale ad ottenere collaborazione giudiziaria, oggi sa di aver fallito», aggiungono i genitori del ricercatore e il loro avvocato. «Richiamare l’ambasciatore oggi è l’unica strada percorribile. Non solo per ottenere giustizia per Giulio e tutti gli altri Giulio, ma per salvare la dignità del nostro paese e di chi lo governa», conclude la nota.

Cristiana Mangani per “il Messaggero” il 19 giugno 2020. Se e in che modo l'Egitto vorrà collaborare con l'Italia sul caso Regeni, si saprà concretamente il primo luglio, quando il procuratore di Roma, Michele Prestipino, incontrerà in videoconferenza il procuratore generale egiziano, e gli chiederà, per l'ennesima volta, tabulati telefonici e domicilio dei cinque membri dei servizi segreti, indagati perché considerati i responsabili dell'omicidio del giovane ricercatore friulano. Serve l'indirizzo di ognuno di loro per potergli notificare gli atti e avviare così un processo. Ma le speranze sono poche, e il premier Giuseppe Conte, ascoltato dai membri della Commissione parlamentare che indaga sul caso, ha mostrato necessità e limiti di un rapporto del quale l'Italia non sembra poter fare a meno, proprio per gli equilibri nel Mediterraneo, per la questione migratoria, per la vicenda libica. È un'audizione molto sofferta, quella che il presidente del Consiglio ha tenuto fino a tarda sera davanti ai componenti della Commissione. L'incontro era stato chiesto per avere spiegazioni urgenti, dopo la telefonata del 7 giugno con il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi, durante la quale è stata confermata la vendita al Cairo di due fregate Fremm della Marina militare italiana. Un affare che è solo l'inizio di una operazione economica da svariati miliardi. Conte ha esordito ribadendo che il nostro Paese non ha mai mollato la presa e che ogni dialogo con al Sisi è servito a riportare la questione al centro della discussione. «L'ho incontrato 6-7 volte - ha dichiarato -. Parlare guardandosi negli occhi ed esprimendo tutto il rammarico vis a vis non ha portato a risultati, non sono stato capace. L'ho detto alla famiglia Regeni quando l'ho incontrata. Loro erano dispiaciuti del fatto che con la rappresentanza diplomatica al Cairo non ottenessimo risultati, ho detto che se la devono prendere con me che incontro al Sisi. Se c'è incapacità di raggiungere risultati maggiori lo potete imputare a me direttamente». Il premier ha spiegato anche che non c'è più stata, e non ci sarà, una visita di Stato al Cairo, «fino a quando non riusciremo a compiere significativi passi avanti in questa direzione». E che gli incontri sono avvenuti durante riunioni internazionali. Ha poi confessato che «tante volte ha avuto la tentazione di alzarsi e andare via». «Ma una reazione istintiva - ha ammesso - avrebbe portato a un irrigidimento e allo stop del confronto. Invece, se otterremo qualche risultato sarà insistendo, perseverando, continuando a battere i pugni sul tavolo. Sviluppi ci sono stati, non è stata una completa stasi. C'è stato l'alternarsi delle autorità giudiziarie al Cairo. Allo stato, è meglio un dialogo franco e a tratti frustrante, piuttosto che l'interruzione dei rapporti». Insomma, se l'Italia fa affari con l'Egitto, nonostante non ci sia ancora la verità sulla fine atroce di Giulio Regeni, è perché le due questioni sono separate ma unite allo stesso tempo. Perché se da una parte la vendita delle navi riguarda la nostra industria e l'economia che ha necessità di ripartire, dall'altra mantenere buoni rapporti con l'Egitto può aiutare anche a ottenere informazioni e collaborazione. Soprattutto mentre sul terreno continuano a lavorare gli uomini dell'Aise, il servizio segreto esterno, e la Farnesina. «Per Giulio pretendiamo giustizia - ha insistito il premier - Ma attendiamo ancora dall'Egitto una manifestazione tangibile di tale volontà». I membri della Commissione hanno poi chiesto della vendita di armi con il paese Nord africano, che è regolarmente ripresa. Riccardo Magi, deputato di Radicali italiani+Europa, ha insistito affinché la vicenda diventi un caso europeo. Conte ha chiarito di aver più volte portato il caso a Bruxelles. Poi ha chiesto di secretare l'ultima parte di audizione, per riferire sulle parole di Al Sisi: «Mi sembra corretto che le affermazioni di un premier o capo di stato restino riservate».

Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 19 giugno 2020. «Atti e non più soltanto dichiarazioni di disponibilità». Quello che il premier Giuseppe Conte ha aperto ieri davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta sulla morte di Giulio Regeni è, di fatto, l'ultimo rilancio possibile nei rapporti dell'Egitto, per ottenere «quella verità sulla quale saremo inflessibili». C'è una data indicata: il primo luglio, quando la Procura generale del Cairo tornerà dopo mesi di silenzio a parlare con i magistrati di Roma. E c'è un percorso: l'Egitto dovrà rispondere ad alcune delle richieste contenute nella rogatoria inviata dalla Procura di Roma a fine aprile del 2019 al Cairo. Dodici domande, fin qui rimaste senza risposta. Come le tante altre fatte in questi quattro anni. Il rilancio del premier in commissione arriva dopo giorni molto complicati. Conte sperava di portare già oggi qualche fatto: per esempio la certezza che il Cairo rispondesse alla rogatoria italiana, per lo meno nella sua richiesta più semplice, l'indirizzo degli indagati per poter eleggere il domicilio. E contava in un «atto simbolico» nelle sue mani: la riconsegna alla famiglia dei vestiti di Giulio. Ne era convinto perché lo erano anche gli uomini dell'Aise (il nostro servizio di intelligence estera), che da anni lavorano al caso Regeni, e che nei loro ultimi e frequenti viaggi al Cairo avevano trovato sponde nei colleghi egiziani. Conte ne era convinto perché rassicurazioni di questo tipo erano arrivate direttamente dal Cairo, dagli uomini più vicini al presidente Al Sisi. E invece così non è stato. L'Egitto al momento non ha formalizzato alcun passo in avanti. Non solo: nelle ultime ore, la richiesta principale - o almeno quella che sembrava essere più facilmente raggiungibile - e cioè la comunicazione di domicilio dei cinque indagati in modo poi da poterli processare, sembra essere diventata un passo molto complicato. «Non impossibile, però» dicono, speranzose, fonti di intelligence. Da qui al primo luglio, fanno notare - quando la procura generale del Cairo tornerà, dopo mesi di silenzio, a parlare con i magistrati di Roma - potrebbero ancora succedere molte cose. Per capire cosa si sta muovendo, è utile utilizzare come punto di partenza la lettera che il ministro degli Esteri Luigi di Maio ha inviato al suo collega egiziano, Sameh Hassan Shoukry. «La mancata risposta da parte delle autorità giudiziarie egiziane alla richiesta della Procura rappresenta un grave impedimento al raggiungimento della verità » scrive Di Maio. Il cuore, dunque, sono le dodici domande consegnate dalla procura di Roma nella rogatoria di fine aprile del 2019. La principale riguardava un possibile riscontro alle dichiarazioni raccolte da un keniano che aveva raccontato di aver ascoltato, nel corso di un incontro istituzionale, un poliziotto egiziano raccontare a un collega keniano di aver partecipato al sequestro di Giulio. «Lo abbiamo preso - avrebbe raccontato - Io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io l'ho colpito al volto». La Procura di Roma ha chiesto al Cairo possibili riscontri a quella testimonianza: e cioè se effettivamente, in quel periodo, la National security egiziana aveva partecipato a un incontro con altre polizie africane. E, in caso di risposta affermativa, se all'incontro avesse partecipato uno dei cinque agenti indagati. L'Egitto non ha mai risposto. Nulla ha detto il Cairo, inoltre, sulla richiesta di informazioni sugli altri agenti individuati grazie ai tabulati telefonici e alle indagini difensive dell'avvocata Alessandra Ballerini. La Procura di Roma aveva poi espresso la volontà di ascoltare nuovi testimoni dopo che l'Egitto aveva già negato di interrogare i cinque agenti indagati. E soprattutto c'era la richiesta di eleggere un domicilio per poter notificare gli atti indagati. Per semplificare si tratta della comunicazione di un indirizzo, un atto apparentemente banale, che gli uomini di Al Sisi avevano indicato in un primo momento come una strada percorribile. E che invece nelle ultime ore, spiazzando il Governo italiano, sembra essere diventata una strada in salita.

L’affaire Fremm e l’ombra della Francia. Lorenzo Vita il 18 giugno 2020 su Inside Over. Da una parte l’Italia, dall’altra l’Egitto. Al centro due navi e un omicidio – quello di Giulio Regeni – mai risolto. Nell’ombra, invece, si staglia un terzo incomodo: la Francia. Si può descrivere così, con questa immagine estremamente semplice, quello che sta avvenendo tra Roma e il Cairo per la vendita delle fregate Spartaco Schergat ed Emilio Bianchi. Immagine semplice che cerca però di sintetizzare un ben più complesso e articolato negoziato in cui le due Fremm commissionate dalla Marina Militare italiana a Fincantieri rappresentano solo una enorme punta dell’iceberg. L’accordo tra Italia ed Egitto sembra definito in ogni parte e il semaforo verde è arrivato sia da parte dei partiti politici che compongono la maggioranza, sia da parte del consiglio dei ministri, che ha già detto di aver dato l’ok alla vendita delle due fregate. Vendita non certo a cuor leggero visto che la Marina resta senza due fregate Fremm che potevano essere molto importanti per la flotta italiana. Ma le conferme arrivate da Fincantieri di una prossima consegna di due navi più moderne, meglio equipaggiate e in dotazione in meno di quattro anni rende meno difficile da accettare. Tolta la questione di natura militare, resta il nodo politico. Perché se è vero che anche il Partito democratico aveva dato sostengo (seppur silenzioso) all’accordo con l’Egitto, nel momento della notizia della conclusione delle trattative tra Roma e il Cairo si è alzato un polverone che rischia di minare le basi dell’accordo. O quantomeno di rinviare quello che a tutti gli effetti è un segnale di dinamismo strategico da parte dell’Italia in Nord Africa e nel Mediterraneo orientale. Il problema resta la questione Regeni. Secondo gli avversari dell’accordo, non può esserci un patto di naturale militare senza la verità sul brutale omicidio del ricercatore italiano in Egitto. E a ribadirlo è stato non una personalità qualunque, ma Nicola Zingaretti, segretario del Partito democratico e quindi leader del secondo partito di maggioranza. Non certo una personalità secondaria nel panorama del già debole governo giallorosso. Il segretario dem ha scritto una lettera a Repubblica con cui dichiara che senza un processo per i cinque agenti egiziani indagati per il sequestro del ricercatore non può esserci alcun passo avanti nei rapporti tra i due Paesi. Parole dure che arrivano non a caso nel momento di una possibile svolta nelle relazioni bilaterali tra i due governi e che sembra far tornare le lancette dell’orologio indietro di qualche anno, quando addirittura l’Italia rinunciò ad avere un ambasciatore nella capitale egiziana come protesta per il trattamento riservato al dossier Regeni. Mossa dettata dall’emotività e dalla doverosa condanna nei confronti della morte misteriosa di un nostro connazionale, ma che è costata parecchio all’Italia in termini di interessi strategici. Costi che sono invece tramutati in affari (e anche grandi) per altri nostri competitor internazionali, in particolare per la Francia, che ha ovviamente sfruttato a pieno titolo le frizioni tra Italia ed Egitto per provare a completare l’opera di inserimento di Parigi nel mercato egiziano. A partire da quello della difesa, strumento strategico fondamentale per Macron e i suoi predecessori e che è da sempre uno dei pilastri della diplomazia economica e politica dell’Eliseo. Ma ecco che nello schema francese si rompe qualcosa. Il Cairo, dopo aver acquistato già una fregata Fremm dalla Francia, decide che è arrivato il momento di cambiare. Quella classe di fregate piace eccome al governo di Abdel Fattah al Sisi, ma piace ancora di più la versione italiana. Iniziano le trattative e lentamente si raggiunge l’intesa. Ed è chiaro che per Parigi è uno schiaffo non di poco conto. Non solo perché, come detto, per la Francia è imprescindibile il ruolo dell’industria militare, ma anche perché le navi le aveva già vendute all’Egitto (due sono anche navi d’assalto anfibie in precedenza indirizzate alla Russia ma negate a Mosca per via dell’annessione della Crimea e la condanna della comunità occidentale). Se a questo si aggiunge il fatto che il vantaggio va all’Italia, il quadro è completo e si capisce perché anche i media francesi abbiano iniziato a trattare la questione come di un ulteriore schiaffo egiziano verso la Francia. Lo spiega bene Formiche, che descrive la faccenda riportando le parole de La Tribune, quotidiano francese da sempre molto attento alle dinamiche belliche e che parla di “ironia del destino” e di vendite tra i due Paesi che sembrano “completamente sepolte”. Vendite che però in Italia qualcuno sembra intenzionato a dissotterrare, specialmente a sinistra. E il governo rischia di traballare su un tema fondamentale, specificamente perché nel frattempo la Turchia si sta armando, in Libia siamo tagliati fuori e Il Cairo può rappresentare un partner imprescindibile, dal gas al fronte di Tripoli. I tentennamenti non piacciono quando un accordo è ormai concluso  e il pericolo esiste. Specie perché l’esecutivo Conte si sente pressato da sinistra. Zingaretti chiede chiarezza, ma qualcuno al Cairo potrebbe leggerlo come un attacco. Luigi Di Maio, prossimo a un viaggio ad Ankara, scrive un post su Facebook in cui ricorda di aver inviato una lettera al ministro degli Esteri egiziano attendendosi un “segnale di svolta sul caso di Giulio Regeni”, “perché il tempo dell’attesa è finito”. Un post che sembra contraddire l’accordo in consiglio dei ministri, come fa notare anche Paolo Grimoldi della Lega che fa notare il cambio di posizione dopo la rivolta della base grillina. Un avvertimento che non tiene conto di due fattori. Il primo è l’importanza del ruolo del Regno Unito, in cui Regeni lavorava per conto dell’università di Cambridge, e di cui nessuno chiede ancora contezza. Ma soprattutto il rischio di un raffreddamento che possa riportare in auge il nostro rivale parigino, che ora attende con ansia che Roma e Il Cairo rompano su un tema così delicato e che significherebbe perdere un partner per quanto riguarda il gas, l’industria bellica e la Libia. Come ricorda Portale Difesa, “Ankara ha proiettato in Libia, ovvero nel Mediterraneo Centrale, oltre 10.000 miliziani siriani filo-turchi, 300-400 consiglieri (appartenenti in particolare forze speciali ed intelligence), decine di UAV armati, sistemi veicolari KORAL per la guerra elettronica ed una fregata a dare copertura contro gli attacchi degli UAV emiratini WING LOONG operanti in supporto alle forze di Haftar”. Se a questo si aggiunge una prossima base militare (forse due) e un inserimento nel mercato del petrolio con l’asse con Tripoli, avere un riequilibrio delle forze in campo potrebbe essere essenziale. Ed è meglio che sia fatto con mezzi prodotti in Italia e non in Francia… sempre che le quinte colonne pro Macron non diano spallate molto pericolose. Del resto non è un mistero che in alcuni settori della sinistra italiana si guardi più all’interesse esterno che a quello interno. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Claudio Bozza per il Corriere della Sera il 13 giugno 2020. «Dopo 4 anni e mezzo di menzogne e depistaggi... Lo Stato italiano ci ha tradito. Siamo stati traditi dal fuoco amico, non dall' Egitto. E da cittadino uno non si aspetta di dover lottare contro il proprio Stato per ottenere verità e giustizia». Sono durissime le parole di Claudio e Paola Regeni, genitori di Giulio, barbaramente ucciso in Egitto, all' indomani del via libera di Palazzo Chigi alla vendita di due navi da guerra al governo di al-Sisi. Il padre e la madre del giovane ricercatore friulano, intervistati a «Propaganda live» su La7 , dicono che «la vendita di armi all' Egitto è un tradimento per tutti gli italiani e coloro che credono nella giustizia». E poi: «Chiediamo che i cinque ufficiali della national security vengano consegnati all' Italia per essere processati: finché non otterremo questo ci sentiremo traditi». La madre di Giulio ha poi rivelato di aver ricevuto, ieri, una chiamata dal presidente della Camera Roberto Fico (M5S), i cui parlamentari di riferimento stanno pressando il governo: «Abbiamo fiducia in Fico: ci ha ribadito che sta con noi e ci ha chiesto come stiamo. È l' unico uomo di Stato che ci ha chiamato, perché ha pensato che noi possiamo anche stare male». Zoro, conduttore di Propaganda Live, durante la trasmissione ha poi intervistato ironicamente un vaso («Il Vaso degli Esteri», alludendo al ministro degli Esteri Luigi Di Maio), che ha risposto con la voce dell' ex premier Enrico Letta: «È stata una brutta figura dell' Italia», ha detto. Giovedì sera, con la tensione in maggioranza arrivata a livelli tali da mettere a repentaglio un affare da quasi 10 miliardi tra Fincantieri e Leonardo, Giuseppe Conte è stato costretto a un blitz in Consiglio dei ministri. A Palazzo Chigi, a poche ore dall' inizio degli Stati generali, il premier ha riferito sulla vicenda ai componenti del governo, per poi ufficializzare il via libera per la vendita agli egiziani della Spartaco Schergat e della Emilio Bianchi, due navi militari commissionate per la nostra Marina militare e poi dirottate verso l' Egitto in cambio di 1,2 miliardi di dollari. Ascoltando la relazione di Conte, nessuno dei ministri si sarebbe opposto all' operazione. Unica eccezione il ministro della Salute Roberto Speranza, esponente della sinistra di Leu, che, pur non presente alla riunione, ha ribadito la netta contrarietà. Se da un lato il blitz di Conte ha chiuso «economicamente» la vicenda, dall' altro ha acuito la frattura politica all' interno dei due principali alleati di governo: Pd e M5S. Il ministro Dario Franceschini, capo delegazione dei dem nell' esecutivo, per provare a contenere il danno ha chiesto a Conte una «iniziativa pubblica» per garantire che l' Italia andrà avanti nella ricerca della verità sulla morte di Giulio. Critica la posizione di Lia Quartapelle, capogruppo del Pd in commissione Esteri: «Il governo deve chiarire quali sono le linee della nostra politica nei confronti dell' Egitto - spiega -. Con le missioni internazionali stiamo aumentando il sostegno alla guardia costiera libica del governo di Tripoli, mentre vendendo le navi all' Egitto rafforziamo la capacità navale del Cairo, che combatte il governo di Tripoli». Mentre l' ordine del giorno di Matteo Orfini, altro dem critico, ha già raccolto 500 firme per chiedere al partito di fermare la vendita delle due navi da guerra.

Annalisa Cuzzocrea e Giulio Foschini per la Repubblica il 13 giugno 2020. Il governo, chiuso in una strada stretta, che prova a trovare una maniera per motivare davanti all'opinione pubblica la posizione fin qui tenuta: ottenere qualche risposta dall' Egitto, «anche un atto simbolico», per poter giustificare la vendita delle due fregate Fremm. E i genitori di Giulio Regeni che, però, non mollano di un centimetro. «Ci sentiamo traditi - dicono - E dopo quattro anni e mezzo il tempo delle chiacchiere è scaduto: non si pensi che basterà darci quattro indumenti e cianfrusaglie » hanno spiegato ieri Paola e Claudio, ospiti della trasmissione di La7 Propaganda live. «Noi chiediamo fatti. E cioè la risposta esaustiva alla rogatoria dell' aprile 2019. E la consegna da parte dell' Egitto delle cinque persone iscritte nel registro degli indagati della procura di Roma». Le parole dei Regeni non sono casuali. In queste ore a chi nella maggioranza - pur avendo avallato senza troppo rumore in Consiglio dei ministri l' operazione - ha chiesto una posizione concreta, il premier Guseppe Conte ha risposto che «qualcosa sta accadendo». Lo ha detto al capo delegazione del Pd, Dario Franceschini, che gliene aveva chiesto conto in Consiglio dei ministri. Lo ha detto Leu, che fin dal principio si è detta contraria all' operazione. E anche un pezzo di 5 Stelle. Palazzo Chigi, insieme ai Servizi, sta lavorando a una piattaforma che si muove attorno a tre fatti: la prima è una videoconferenza, che dovrebbe arrivare a breve (sicuramente prima della sospensione estiva, forse già a giugno) tra il procuratore generale del Cairo, Hamada Al Sawi, il procuratore di Roma, Michele Prestipino, e il sostituto Sergio Colaiocco, titolare del fascicolo d' inchiesta. La seconda è "un atto simbolico". Il 6 dicembre del 2016 Paola e Claudio, insieme con il loro avvocato Alessandra Ballerini, avevano chiesto all' Egitto di restituire almeno i vestiti e gli effetti personali di Giulio. Era una richiesta, evidentemente, importante non tanto per la sostanza quanto per la forma: chiedevano un segnale di collaborazione. Quel segnale non arrivò. E, ieri, i Regeni hanno spiegato chiaramente che da loro troppe cose sono cambiate. «Non basterà darci quattro indumenti » ha detto Claudio, chiudendo quindi la questione. Cosa, allora? Il lavoro più delicato che Palazzo Chigi sta facendo con l' Egitto è ottenere qualcosa di "concreto". Qualcosa che consenta alla procura di Roma di andare avanti nell' inchiesta sui cinque agenti della National security, indagati per il sequestro di Giulio. Inchiesta che, come hanno denunciato nei giorni scorsi gli stessi Regeni, rischia di finire in un vicolo cieco se diventa impossibile processare gli egiziani. «Noi chiediamo verità che significa verità processuale» ha spiegato Paola. «Su Giulio sono stati violati tutti i diritti umani: è finito il tempo dell' ipocrisia, come la vendita delle navi». Le possibilità sul tavolo sono due: una risposta seria alla rogatoria inviata 409 giorni fa dal sostituto procuratore Colaiocco ai colleghi egiziani. La consegna, o la possibilità per lo meno di renderli raggiungibili, dei cinque indagati: dall'ufficializzazione dell' inchiesta su di loro, sono passati 576 giorni, si è interrotta ogni collaborazione con l' Egitto. «Credo che sia arrivato il momento che tutti tirino giù le carte sulla vicenda Regeni» nota il leader di Italia Viva, Matteo Renzi. «È arrivato il momento che anche gli inglesi dicano la verità». Il riferimento è alla reticenza della professoressa di Cambridge, Maha Abdelrahmanche non ha mai collaborato pienamente.

Caso Regeni, i genitori di Giulio: "Zone grigie anche dall'Italia, la politica non collabora". Il padre e la madre del giovane ricercatore ucciso in Egitto parlano davanti alla commissione parlamentare d'inchiesta: "Bisogna scegliere da che parte stare. Da voi ci aspettiamo che smuoviate le acque. L'ambasciatore italiano al Cairo da tempo non ci risponde, non cerca la verità". La Repubblica il 04 febbraio 2020. Nell'inchiesta su Giulio Regeni permangono "zone grigie sia dal lato del governo egiziano, recalcitrante da più di un anno perché non collabora come ci si sarebbe aspettato, sia da parte italiana: da molto tempo chiediamo il ritiro dell'ambasciatore che non ci sta riferendo cosa stia facendo". Lo dice Claudio Regeni, padre del ricercatore friulano all'università di Cambridge, assassinato in Egitto nel 2016, riferendo davanti alla commissione parlamentare di inchiesta istituita ad hoc. La madre di Giulio, Paola Deffendi, spiega: "Dalla commissione abbiamo l'aspettativa che voi smuoviate la politica. Se la politica non collabora a costruire un certo quadro, la procura di Roma non può andare avanti". Bisogna "scegliere da che parte stare". Un intervento durissimo, quello dei due coniugi che da quattro anni si battono per arrivare alla verità sul sequestro, l'omicidio e la tortura del figlio: non hanno mai mollato. E oggi insistono: ""L'ambasciatore italiano al Cairo, Cantini, da molto tempo non ci risponde. Evidentemente persegue altri obiettivi rispetto a verità e giustizia, mentre porta avanti con successo iniziative su affari e scambi commerciali tra i due Paesi". La signora Deffendi ricorda gli incontri con i vari presidenti del Consiglio - Renzi e Conte - e con il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio. "I ministri dell'Interno che si sono succeduti sono stati Alfano, Minniti e Salvini, attori principali che noi non abbiamo mai incontrato". "La sera del 31 gennaio 2016 - prosegue il papà di Giulio nel corso del suo intervento -  l'ambasciatore Massari ci conferma di aver incontrato il ministro dell'Interno egiziano senza aver avuto informazioni utili sulla scomparsa di Giulio. Anzi, ci dice che il ministro aveva avuto nei suoi confronti un atteggiamento non collaborativo e sprezzante. Per questo era giusto dare alla stampa la notizia della scomparsa di Giulio. L'avrebbe data lui stesso, ma noi avremmo dovuto avvisare i nostri parenti". È poi la mamma a riprendere la parola: "Quel che era successo nei dettagli a Giulio, e cioè che era stato torturato, l'abbiamo scoperto leggendo i quotidiani online. Forse non ci è stato detto" dalle autorità italiane "per una sorta di tutela, per non farci soffrire, ma nell'epoca dell'informazione, fake news a parte, tutto si viene a sapere. Giulio era andato al Cairo come ricercatore, non perché gli piaceva girare al Cairo per bancarelle. Doveva essere un approfondimento sul campo di una ricerca molto più ampia, storico-sindacale. L'Egitto doveva essere un focus come quello sui sindacati, sia quelli indipendenti sia quelli filo governativi. La sua ricerca era più ampia di quella che la stampa ha pensato di evidenziare". Parlando con varie persone ed esperti, ha spiegato la mamma, è emerso che "la ricerca di per sé non era pericolosa, sono tematiche abbastanza nella norma". Ma "dopo l'uccisione di Giulio abbiamo capito che l'Egitto è un Paese con una forte dittatura, che potrà essere comoda" per i rapporti commerciali, "ma che ha molte paranoie". E ancora: "Al funerale di Giulio - raccontano i genitori - c'erano tantissimi amici e amiche di mio figlio che hanno deciso di consegnare spontaneamente cellulari e computer agli inquirenti. C'era anche la professoressa che non ci pare però abbia dato risposte. Sembrava indispettita. Un atteggiamento che ha mantenuto sia quando siamo andati alla cerimonia del college sia con gli inquirenti ai quali ha detto di accettare solo domande scritte alle quali ha sempre risposto non so e non ricordo".

Giulio Regeni: a 4 anni dalla morte continua la battaglia per la verità. Laura Pellegrini il 25/01/2020 su Notizie.it.  Il 25 gennaio 2016 moriva Giulio Regeni, il ricercatore torturato e ucciso a Il Cairo: a quattro anni dall’omicidio, però, non esiste ancora la verità. Il padre Claudio rivela che non è tempo ancora per le degne commemorazioni: occorre una nuova partecipazione più decisa dell’Italia e degli Stati europei nella vicenda. Nel frattempo, però, tutta l’Europa si mobilita per ottenere la verità per un omicidio che non si può considerare come unico caso isolato. “L’impegno che i cittadini europei sono chiamati a prendersi per Giulio Regeni è un impegno per loro stessi” ha detto Giorgio Stamatopoulos di EuropaNow!. In ricordo del giovane sono previste oltre 100 fiaccolate in giro per il Paese. “Ci saremmo aspettati un’azione più decisa e determinata nei confronti dell’Egitto – ha spiegato Claudio -, con un coinvolgimento più efficace dell’Europa“. Il caso dell’omicidio di Giulio Regeni, avvenuto a Il Cairo il 25 gennaio 2016, è ancora avvolto nel mistero. Nato a Trieste, Giulio si era trasferito prima a Cambridge per proseguire gli studi e poi in Egitto, dove purtroppo ha trovato la morte. A Il Cairo si occupava dello studio del ruolo istituente dei nuovi sindacati nati dopo le primavere arabe. Una posizione alquanto scomoda ad al Sisi che forse gli ha procurato le tremende conseguenze. Da tutta Europa sono previste commemorazioni e fiaccolate: “La verità negata a Giulio è una cosa che ci riguarda tutti e tutte. Se si lavorasse insieme, 28 Paesi riuscirebbero a dichiarare l’Egitto un posto non sicuro”. Ciò che è successo a Giulio, per molti, non è da considerare come un caso isolato. “Ottenere la verità per Giulio significa ottenerla per tutti e tutte. Riprodurre gli striscioni in Europa sarà un primo passo per far capire che si tratta di una questione a livello europeo“. In tutto il continente europeo sono previste oltre 100 fiaccolate in ricordo del giovane ricercatore triestino, ma papà Claudio ritiene che non possa ancora esistere una pacifica commemorazione. Giorgio Stamatopoulos, invece, ha rivelato che “in questa vicenda, l’Italia è stata gravemente e ciecamente lasciata sola“. Europa Now! è nata per promuove i valori della democrazia, della libertà e della solidarietà; per promuovere uno spirito europeo e un senso di appartenenza civico. “La nostra campagna – ha detto ancora Giorgio – invita tutti i cittadini europei ad appendere alla finestra striscioni e cartelli per chiedere in tutte le lingue verità per Giulio Regeni”. Da tantissime città arrivano le prime foto di manifestazioni per ricordare il triestino classe 1988: da Berlino a Cambridge, da Wageningen (Paesi Bassi) fino al Belgio. “Vogliamo che la battaglia per Giulio faccia un salto di qualità a livello europeo, come chiedono gli stessi genitori”.

Regeni, il Cairo tace anche sul testimone kenyota che accusa gli 007. Pubblicato sabato, 25 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Famiglia e magistrati: «Responsabilità morali e civili dei docenti di Cambridge». Il 25 gennaio 2016, quando Giulio sparì, gli agenti della sicurezza egiziana che lo seguivano pensavano che dovesse incontrare «una persona sospetta». È il motivo per cui decisero di sequestrarlo quella sera, lo caricarono in macchina e lo picchiarono subito al volto. Così ha detto uno degli ufficiali della National security inquisiti dalla Procura di Roma per il rapimento, secondo quanto riferito da un testimone kenyota che ha ascoltato il suo racconto durante una riunione di poliziotti. È l’ultima acquisizione della magistratura italiana che dallo scorso aprile attende risposte dal Cairo per trovare i necessari riscontri. Ma non arrivano. Quattro anni dopo, siamo fermi al silenzio egiziano. E al ricordo di Paola e Claudio Regeni della notizia che ha sconvolto la loro vita. «Il 27 gennaio alle 14,30 ero a lavorare nel mio ufficio di casa, quando ho ricevuto una telefonata dalla console dal Cairo che mi informava che Giulio non era arrivato a un appuntamento la sera del 25, e che non si sapeva dove fosse in quel momento», rammenta il padre. Sua moglie non c’era, la chiamò senza dirle della telefonata. Aspettò che rientrasse, le chiese di sedersi, lei non voleva ma lui insisté. Poi le riferì l’informazione appena ricevuta. «Ricordo di aver chiuso gli occhi e di aver visto un’immagine: un cassonetto dell’immondizia e, a fianco di quel cassonetto, buttato per terra, Giulio. Gli ho detto: ce lo butteranno così», scrive Paola Regeni nel libro Giulio fa cose, composto insieme al marito e all’avvocata Alessandra Ballerini, appena pubblicato da Feltrinelli. È un diario di viaggio nel dolore di questi quattro anni e alla ricerca della verità, che dietro ogni curva trova un muro. Nonostante le promesse dell’ambasciatore del Cairo in Italia, a nome del governo di Al Sisi, che accolse la famiglia e la salma di Giulio a Roma: «Ci ha dato il suo biglietto da visita, per contattarlo in caso di necessità. Stava iniziando la farsa egiziana, ma ancora non lo potevamo immaginare. Per i quattro anni successivi hanno continuato a ripetere che volevano collaborare, ma a oggi non fanno che occultare la verità e negare giustizia». Per questo la famiglia e l’avvocata Ballerini continuano a invocare un nuovo richiamo dell’ambasciatore italiano in Egitto che però, in un momento di così alta tensione in Medio Oriente, sembra molto improbabile. La visione di Paola Regeni quando seppe che il figlio era scomparso non era distante da ciò che sarebbe avvenuto; invece che in un cassonetto il cadavere di Giulio riapparve il 3 febbraio tra le sterpaglie che costeggiano la strada verso Alessandria d’Egitto, con i segni di torture inflitte a più riprese e per diversi giorni. Finché gli fu «rotto l’osso del collo», come hanno illustrato con fredda ma efficace precisione il procuratore reggente di Roma Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco alla commissione parlamentare d’inchiesta. I pm della Capitale, nell’indagine parallela a quella un po’ evanescente della Procura generale del Cairo, hanno raggiunto attraverso un certosino lavoro diplomatico-investigativo-giudiziario, la ragionevole certezza del coinvolgimento di cinque funzionari della sicurezza locale: il generale Sabir Tareq, il colonnello Uhsam Helmy, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, l’assistente Mahmoud Najem e il colonnello Ather Hamal. Tutti artefici, a vario titolo, della «ragnatela in cui è caduto Giulio», costruita con la complicità di alcuni amici che tradirono la fiducia del giovane ricercatore, e nei successivi depistaggi: il coinquilino Mohamed El Sayad, che prima e durante il sequestro ebbe almeno otto contatti con la Ns; l’amica Noura Wahby, che riferiva tutto a un informatore della Ns; il sindacalista Mohamed Abdallah, a diretto contatto con Sharif. Sono loro, gli agenti coinvolti nella trama, che potrebbero raccontare perché sospettavano di Regeni e che cosa è accaduto dopo il suo arresto, ma dal Cairo non sono arrivati nemmeno i dati per le notifiche dell’indagine italiana. Così come dall’università di Cambridge, per la quale Giulio stava svolgendo le ricerche «sul campo» sui sindacati autonomi egiziani, non c’è stata la collaborazione che la Procura di Roma e la famiglia Regeni si attendevano. «Noi sappiamo che non sono stati i docenti, l’università, a uccidere Giulio — scrivono nel libro i genitori del ragazzo —. Di sicuro però ci sono delle responsabilità morali e civili».

Giulio Regeni, che cosa sappiamo del delitto quattro anni dopo. Pubblicato venerdì, 24 gennaio 2020 su Corriere.it da Giovanni Bianconi. Quattro anni dopo, il mistero sul sequestro e la morte di Giulio Regeni è fermo ai silenzi dell’Egitto. Alle mancate risposte all’ultima rogatoria inviata dai magistrati italiani, la primavera scorsa, per trovare riscontri alla deposizione di un testimone che sostiene di aver sentito un poliziotto del Cairo raccontare, durante una trasferta in Kenya, di come avevano arrestato e ucciso Giulio. Domande precise, richieste di nomi, date, certificazioni di ingressi e uscite dal Paese, alle quali le autorità egiziane hanno evitato di dare seguito. Con il risultato di bloccare l’indagine: da lì non ci si muove. Dal Cairo, e dalle responsabilità della polizia locale, non si va avanti; neppure indietro, però, perché è e sarà difficile negare ciò che la Procura di Roma ha scoperto in questi quattro anni, riferito con dovizia di particolari il mese scorso alla neonata commissione parlamentare d’inchiesta sul delitto Regeni. Sul sequestro, le torture e l’omicidio consumati tra il 24 gennaio e il 2 febbraio 2016 ci sono le impronte della National security egiziana, l’apparato di sicurezza che sulla scomparsa e la morte del ricercatore friulano ha costantemente depistato e ostacolato ogni accertamento. Dal momento della scoperta del cadavere, avvenuta sul ciglio della strada che conduce dal Cairo ad Alessandria la mattina del 3 febbraio, in avanti. C’è stato un unico intervallo di tempo, da allora, nel quale l’autorità giudiziaria del Cairo ha fornito elementi utili, e coincide con l’anno e mezzo in cui l’Italia (dopo la rottura di aprile 2016) richiamò a Roma il suo ambasciatore; in quel periodo inquirenti e investigatori hanno individuato «la ragnatela in cui è caduto Giulio», per usare le parole del pubblico ministero Sergio Colaiocco davanti alla commissione d’inchiesta. Ma dal 14 agosto 2017, quando il governo annunciò con un blitz di mezza estate il ritorno a normali relazioni diplomatiche, tutto s’è fermato di nuovo. E ancora adesso l’Egitto continua a negare informazioni; da ultimo i dati per le notifiche ai cinque funzionari della Sicurezza individuati e indagati dalla Procura di Roma per sequestro di persona, essendo emerso — da testimonianze, tabulati telefonici e altri indizi — un loro pressoché certo coinvolgimento nelle «attenzioni» riservate a Regeni fino al momento della sua scomparsa. La richiesta del magistrato romano è stata inviata al Cairo il 30 aprile scorso, e non c’è stata risposta. L’audizione in Parlamento del procuratore reggente Michele Prestipino e del sostituto Colaiocco è stata un puntiglioso, inedito e ufficiale resoconto di atti giudiziari che s’è tramutato in un corposo atto di denuncia politico-diplomatico. Restituendo oneri e responsabilità allo stesso Parlamento e al governo. E quella relazione rimane, nel quarto anniversario del sequestro di Giulio, un «patrimonio conoscitivo» collettivo e imprescindibile su quel terribile delitto. «Abbiamo individuato il contesto, per non dire il movente, dell’omicidio, insieme alla stringente attività degli apparati egiziani nei confronti di Giulio, culminata col sequestro», ha spiegato il procuratore Prestipino. E Colaiocco, che dal giorno in cui fu fatto ricomparire il corpo martoriato del ragazzo coordina l’indagine per ragioni di competenza dettate dal codice di procedura penale, ha raccontato «con grande imbarazzo e rispetto» che Regeni fu torturato per giorni, a più riprese, prima che gli venisse «rotto l’osso del collo». Al ritrovamento del cadavere seguirono almeno «quattro tentativi di depistaggio» da parte della National security che aveva anche infiltrato un paio di soggetti, oggi inquisiti dalla Procura, nel team investigativo italo-egiziano. Nei mesi precedenti al rapimento ogni aspetto della vita di Giulio (in casa, con gli amici e sul lavoro) venne spiato attraverso tre persone a lui vicine e rivelatesi ingranaggi del meccanismo che l’ha stritolato: il coinquilino Mohamed El Sayad, che immediatamente prima e durante il sequestro, tra il 22 gennaio e il 2 febbraio 2016, ebbe almeno otto contatti con la Ns; l’amica Noura Wahby, che riferiva ogni conversazione a un informatore della Ns; il sindacalista Mohamed Abdallah, legato al maggiore Magdi Sharif, tra i maggiori indiziati del rapimento. «C’è stata un’attenzione sempre più alta intorno a Giulio ha riferito il pm — ed è difficile pensare che il 25 gennaio 2016, in una città blindata per la ricorrenza della rivolta di piazza Tahir, qualcuno lo abbia sequestrato senza che la Ns si accorgesse di nulla». Il coinvolgimento delle autorità di sicurezza egiziane può dunque essere considerato ragionevolmente certo. Resta da capire il movente dell’arresto-rapimento, delle torture inflitte nel corso della detenzione e della scelta di uccidere il prigioniero. I sospetti ci sono, ma dare corpo a idee e supposizione per poi trarne delle conseguenze (processuali e non solo) è necessaria la collaborazione dell’Egitto. Che però continua a latitare. I genitori di Giulio, Paola e Claudio Regeni, insieme all’avvocato Alessandra Ballerini che dal primo giorno li affianca nella battaglia per la verità, continuano a reclamare un nuovo richiamo in Italia dell’ambasciatore in Egitto, visto che i soli risultati ottenuti sono arrivati dopo la rottura diplomatica del 2016. Ma ci sono ragioni piuttosto evidenti di politica internazionale, in un momento di altissima crisi nel Mediterraneo, che rendono difficile e complicata questa scelta. Si resta alle generiche promesse di collaborazione e disponibilità ribadite anche la settimana scorsa al termine dell’ennesima riunione tra investigatori dei due Paesi. Il risultato, al di là delle dichiarazioni ufficiali, continuano ad essere i silenzi egiziani e gli imbarazzi istituzionali (non solo egiziani) che, a quattro anni di distanza dal crimine compiuto contro un cittadino italiano ed europeo, rendono più accidentata la via della giustizia.

Presidente Al Sisi ricordi la promessa: consegni i colpevoli della fine di Giulio. La lettera dei genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio, al capo di Stato egiziano. La Repubblica 10 maggio 2019. Buongiorno presidente Al Sisi, siamo i genitori di Giulio Regeni, il ricercatore italiano sequestrato, torturato e ucciso al Cairo. A marzo di tre anni fa sulle pagine di questo giornale Lei si rivolgeva a noi «come padre prima che come presidente» e prometteva «che faremo luce e arriveremo alla verità, lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio». Sono passati tre anni. Nessuna vera collaborazione c’è stata da parte delle autorità giudiziarie egiziane e dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, da parte della procura italiana, di cinque funzionari dei Vostri apparati di sicurezza, la procura egiziana ha interrotto tutte le interlocuzioni. Oggi sappiano che Giulio è stato sequestrato da funzionari dei Vostri apparati di sicurezza e lo sappiamo grazie al lavoro incessante degli investigatori e dei procuratori italiani e dei nostri legali. Lei è venuto meno alla sua promessa. Lei, lo apprendiamo dai media, ha un potere smisurato. Risulta, quindi, difficile da credere che chi ha sequestrato, torturato, ucciso nostro figlio Giulio, chi ha mentito, gettato fango sulla sua persona, posto in essere innumerevoli depistaggi, organizzato l’uccisione di cinque innocenti ai quali è stata attribuita la responsabilità dell’omicidio di nostro figlio, tutte queste persone abbiano agito a Sua insaputa o contro la sua volontà. Non possiamo più accontentarci delle sue condoglianze né delle sue promesse mancate. Generale, Lei sa bene che la forza di un uomo e ancor più di un capo di Stato non può basarsi sulla paura ma sul rispetto. E non si può pretendere rispetto se si viene meno ad una promessa fatta a dei genitori ed a un intero Paese orfano di uno dei suoi figli. Giulio, lo sa bene anche lei, era un portatore di Pace, Giulio amava il popolo egiziano: ha imparato la Vostra lingua e ha fatto diversi soggiorni al Cairo cercando di vivere come un egiziano. Invece, è morto come, purtroppo, muoiono tanti egiziani. Presidente, Lei dice di comprendere il nostro dolore, ma lo strazio che ci attraversa da 39 mesi non è immaginabile. Lei, però, può intuire la nostra risolutezza e la nostra determinazione che condividiamo con migliaia di cittadini in tutto il mondo. Siamo una moltitudine severa e inarrestabile. Finché questa barbarie resterà impunita, finché i colpevoli, tutti i colpevoli, qualsiasi sia il loro ruolo, grado o funzione, non saranno assicurati alla giustizia italiana, nessun cittadino al mondo potrà più recarsi nel Vostro Paese sentendosi sicuro. E dove non c’è sicurezza non può esserci né amicizia né pace. Presidente, Lei ha l’occasione per dimostrare al mondo che è un uomo di parola: consegni i cinque indagati alla giustizia italiana, permetta ai nostri procuratori di interrogarli, dimostri al mondo che la osserva che Lei non ha nulla da nascondere. Lei ha il privilegio e l’occasione di fare giustizia, sprecarli sarebbe imperdonabile. Con l’augurio di verità e giustizia.

La ricostruzione dei pm sul caso Regeni: "Torturato svariati giorni". I pm in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio Regeni: “Torture avvenute a più riprese tra il 25 e il 31 gennaio”. Federico Giuliani, Martedì 17/12/2019, su Il Giornale. Giulio Regeni è stato vittima di una tortura “in più fasi” e durata “svariati giorni”, nel corso della quale “gli sono state rotte diverse ossa”. È questo il resoconto emerso dalle audizioni del sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco, e del procuratore facente funzioni, Michele Prestipino, in commissione parlamentare di inchiesta sull'omicidio del ricercatore italiano. Colaiocco ha spiegato che l’autopsia, eseguita in Italia, ha evidenziato che “le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 e il 31 gennaio”. Le analisi effettuate sulla salma del ragazzo lasciano presupporre “una violenta azione su varie parti del corpo”. Gli stessi medici legali hanno riscontrato “varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze”. Giulio è probabilmente morto il 1 febbraio in seguito alla rottura dell'osso del collo.

La ricostruzione dei pm alla commissione d’inchiesta. È inoltre emerso che nel corso dell’indagine sull’omicidio di Regeni sono avvenuti quattro depistaggi da parte degli apparati egiziani. Colaiocco ha spiegato quanto accaduto: "Nell'immediatezza dei fatti sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini. In primis l'autopsia svolta a Il Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale con Regeni che viene fatto ritrovare nudo”. Esistono poi altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini. Il primo, ha proseguito il pm, alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016: "Due giorni prima un ingegnere parla alla tv egiziana raccontando di avere visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano e fissa alle 17 del 24 gennaio l'evento. È tuttavia emerso che il racconto è falso e ciò è dimostrato dal traffico telefonico dell'ingegnere che era a chilometri di distanza dal consolato e dal fatto che Giulio a quell'ora stava guardando un film su internet a casa". L'uomo che ha messo in atto il tentativo di depistaggio ha ammesso “di avere ricevuto quelle istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo-egiziano”. Un depistaggio voluto per tutelare “l’immagine dell'Egitto e incolpare stranieri per la morte di Regeni”. Arriviamo infine al quarto tentativo di depistaggio, legato invece “all'uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani erano stati loro gli autori dell'omicidio".

Roma, «Giulio Regeni torturato in più fasi. E sulla sua morte  continui depistaggi». Pubblicato martedì, 17 dicembre 2019 su Corriere.it da Giovanni Bianconi e Laura Martellini. Il sostituto procuratore Colaiocco e il procuratore Prestipino alla commissione d’ inchiesta: «Gli egiziani allontanarono la verità». Giulio Regeni è stato vittima di una tortura in più fasi, durata giorni, nel corso della quale gli sono state rotte diverse ossa: una verità dolorosa, quella rilanciata dal sostituto procuratore di Roma, Sergio Colaiocco, e dal procuratore facente funzioni, Michele Prestipino. Nel corso dell’audizione in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio del ricercatore, Colaiocco ha spiegato: «L’autopsia eseguita in Italia ha dimostrato che le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 e il 31 gennaio. L’esame della salma depone per una violenta azione su varie parti del corpo. I medici legali hanno riscontrato fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il primo febbraio, per la rottura dell’osso del collo». Rivelazioni inquietanti, anche sui numerosi depistaggi: «Molteplici sono stati i depistaggi. L’autopsia svolta al Cairo faceva ritenere che il decesso fosse legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio - ha spiegato Colaiocco - è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale. Esistono poi altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini». Il primo si svolse alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016: «Due giorni prima, un ingegnere raccontò alla tv egiziana di aver visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano. È tuttavia emerso - ha proseguito il pm - che il racconto era falso, come dimostra il traffico telefonico del professionista, a chilometri di distanza dal consolato. E Giulio a quell’ora stava guardando un film su Internet a casa». Ancora: «L’uomo ha ammesso di avere ricevuto le istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo-egiziano. Un disegno voluto per tutelare, come ha riferito poi l’ingegnere, l’immagine dell’Egitto, e incolpare gli stranieri per la morte di Regeni. Su questo episodio - ha affermato Colaiocco - non ci risulta che la procura del Cairo abbia mai incriminato nessuno. Il quarto tentativo è legato invece all’uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani erano legati all’omicidio». Così, commossi, commentano gli aggiornamenti e la relazione i genitori di Giulio, Paola e Claudio: «Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e con la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio, e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati, lo dobbiamo a loro». «L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale. Pretendere, senza ulteriori dilazioni né distrazioni, verità per Giulio e per tutti noi è un dovere e un diritto inderogabile» concludono. Per Prestipino «l’eccezionalità è che un cittadino italiano sia stato sequestrato, torturato e assassinato in un territorio estero. Alla difficoltà sul fronte delle indagini si aggiungono regole penali in Egitto molto diverse dalle nostre. Siamo riusciti a ricostruire il contesto dell’omicidio, i giorni precedenti al sequestro, l’attività degli apparati egiziani nei confronti di Giulio, culminata col sequestro. Abbiamo sgomberato il campo da ipotesi fantasiose, dall’attività spionistica alla rapina. E iscritto i presunti colpevoli nel registro degli indagati». Un passo dopo l’altro, alla ricerca della verità.

Regeni, i quattro depistaggi del Cairo. I pm: tradito anche dall'amica Nour. I procuratori di Roma al Parlamento: 5 ufficiali dei Servizi egiziani coinvolti. Ora le decisioni toccano a Di Maio. Carlo Bonini e Giuliano Foschini il 17 dicembre 2019 su La Repubblica. Dopo quattro anni, per la prima volta, la Procura di Roma, con i crismi di un atto ufficiale, rassegna di fronte al Parlamento, nell’aula di Palazzo San Macuto dove la Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni ha avviato ieri i suoi lavori, le conclusioni «univoche» di un’inchiesta il cui destino è ora solo e soltanto nelle mani delle decisioni di Palazzo Chigi, se mai deciderà di assumerne. Sono conclusioni che il procuratore reggente Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco declinano, per oltre due ore, con il rigore dei fatti raccolti in un’indagine che non ha precedenti per contesto, interlocutori, impiego di capacità investigative (Sco della Polizia e Ros dei Carabinieri). Che i lettori di “Repubblica” conoscono bene. E molto semplice da riassumere: quello di Giulio furono un sequestro e un omicidio di Stato. Perché concepito e messo in atto da almeno cinque ufficiali della National Security Agency, il Servizio segreto civile del regime egiziano. E perché sono stati almeno quattro i depistaggi con cui la stessa Nsa ha tentato di coprire le proprie responsabilità. A cominciare dall’autopsia del corpo di Giulio (le cui conclusioni, “morte per emorragia cerebrale”, dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto), per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), con la testimonianza farlocca di un ingegnere egiziano che voleva la morte di Giulio esito di una lite avuta al Cairo, fino alla cruenta messa in scena che, il 24 marzo 2016, doveva accollare la responsabilità della fine di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti “fucilati” a freddo dalla Nsa per simulare un conflitto a fuoco. E tuttavia la mattina di San Macuto non è stata una semplice ricognizione del “noto”. Al contrario. E non tanto per l’emersione di alcuni nuovi dettagli che hanno svelato come all’elenco di chi tradì Giulio nei suoi ultimi mesi di vita si aggiunga ora anche quello dell’amica di cui Giulio più si fidava in Egitto: Noura, studentessa conosciuta a Cambridge. Ridotta a delatrice dei suoi spostamenti e incontri (ne riferiva a un operatore turistico del Cairo, tale Rami, che, a sua volta, le girava al maggiore Sharif della Nsa). Ma perché con la testimonianza dei procuratori Prestipino e Colaiocco cade ora, definitivamente, ogni ulteriore alibi per Parlamento e governo. Nessuno potrà più pensare di guadagnare tempo rispetto alle decisioni da assumere con il Cairo. A maggior ragione dopo che Colaiocco ha spiegato come la già difficilissima cooperazione giudiziaria con la magistratura egiziana si sia interrotta a novembre dello scorso anno. Quando «la Procura del Cairo, pur di fronte a circostanze indizianti univoche nei confronti dei cinque ufficiali della Nsa, ha ritenuto che queste non fossero sufficienti a sottoscrivere un comunicato congiunto che desse conto di come l’indagine aveva ormai circoscritto il perimetro delle responsabilità». Da quel novembre di un anno fa, nulla infatti è più accaduto. Nessuno, insomma, da oggi, potrà più dire «lasciamo lavorare la magistratura». Perché quel lavoro è di fatto chiuso. A meno che — e l’ipotesi appare al momento assai improbabile — un annunciato nuovo incontro tra i magistrati egiziani e la Procura di Roma in gennaio non dovesse improvvisamente vedere la consegna di nuovi atti o evidenze. È il tempo delle decisioni, insomma, per vincere l’arrocco egiziano. E il primo a doverle prendere è il ministro degli Esteri Luigi Di Maio. La Commissione, per voce del suo presidente, Erasmo Palazzotto, ha promesso ieri il massimo sforzo («non faremo sconti a nessuno»). La famiglia Regeni, con una nota alle agenzie, ha giustamente ricordato quale è la posta in gioco: "L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi, sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale". "La Repubblica si batterà sempre in difesa della libertà di informazione, per i suoi lettori e per tutti coloro che hanno a cuore i principi della democrazia e della convivenza civile".

Caso Regeni, i pm di Roma: “Quattro depistaggi dagli apparati egiziani. Giulio torturato più volte”. Il Riformista il 17 Dicembre 2019. “L’autopsia eseguita in Italia ha dimostrato che le torture sono avvenute a più riprese, tra il 25 gennaio e il 31 gennaio. L’esame della salma depone per una violenta azione su varie parti del corpo. I medici legali hanno riscontrato varie fratture e ferite compatibili con colpi sferrati con calci, pugni, bastoni e mazze. Giulio è morto, presumibilmente il 1 febbraio, per la rottura dell’osso del collo”. Questo è quanto dichiarato dal sostituto procuratore Sergio Colaiocco e il procuratore facente funzioni di Roma Michele Prestipino durante l’audizione in commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio di Giulio Regeni, il giovane ricercatore friuliano ucciso tra il mese di gennaio e febbraio del 2016, ritrovato senza vita il 3 febbraio nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani.

I DEPISTAGGI – Nell’audizione tenutasi oggi è emerso che ci sarebbero stati quattro depistaggi degli apparati egiziani sulla morte del giovane Regeni. “Nell’immediatezza dei fatti sono stati fabbricati dei falsi per depistare le indagini. In primis l’autopsia svolta al Cairo che fa ritenere il decesso legato a traumi compatibili con un incidente stradale. Un altro depistaggio – ha spiegato Colaiocco – è stato quello di collegare la morte di Giulio a un movente sessuale con Regeni che viene fatto ritrovare nudo. Esistono poi, altri due più rilevanti tentativi di sviare le indagini”. Il primo alla vigilia della trasferta dei pm romani del 14 marzo del 2016. “Due giorni prima un ingegnere parla alla tv egiziana raccontando di avere visto Regeni litigare con uno straniero dietro al consolato italiano e fissa alle 17 del 24 gennaio l’evento. E’ tuttavia emerso – ha spiegato il pm – che il racconto è falso e ciò è dimostrato dal traffico telefonico dell’ingegnere che era a chilometri di distanza dal consolato e sia dal fatto che Giulio a quell’ora stava guardando un film su internet a casa”.

“L’uomo, che ha messo in atto il tentativo di depistaggio, ha ammesso di avere ricevuto quelle istruzioni da un ufficiale della Sicurezza nazionale che faceva parte del team investigativo congiunto italo egiziano. Un depistaggio voluto per tutelare, come ha raccontato l’ingegnere, l’immagine dell’Egitto e incolpare stranieri per la morte di Regeni. Su questo episodio – ha spiegato Colaiocco – non ci risulta che la Procura del Cairo abbia mai incriminato nessuno. Il quarto tentativo di depistaggio è legato invece all’uccisione di cinque appartenenti a una banda criminale morti nel corso di uno scontro a fuoco. Per gli inquirenti egiziani era stati loro gli autori dell’omicidio”.

LE PAROLE DEI GENITORI – “Siamo grati ai nostri procuratori e alle squadre investigative per il lavoro instancabile svolto in questi quattro anni in sinergia con noi e la nostra legale. Se oggi abbiamo i nomi di alcuni dei responsabili del sequestro, delle torture e dell’uccisione di Giulio e se alcuni di quei nomi sono iscritti nel registro degli indagati lo dobbiamo a loro”. Queste le parole di Paola e Claudio Regeni, i genitori di Giulio. “In questi anni di dolori, fatiche e amarezze in cui abbiamo dovuto lottare contro violenze depistaggi, omertà, prese in giro e tradimentiabbiamo imparato quanto è preziosa la fiducia. Oggi per la prima volta i nostri procuratori hanno potuto rendere pubblici gli sforzi e – sottolinea la famiglia- i risultati del loro lavoro e da oggi chiunque in Egitto e in Italia sa che la nostra fiducia in loro è ben riposta. Il loro e il nostro lavoro di indagine va sostenuto con decisione e onestà dalla nostra politica e da qualsiasi istituzione europea che si professi democratica”. “L’intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale. Pretendere, senza ulteriori dilazioni né distrazioni, verità per Giulio e per tutti noi è un dovere e un diritto inderogabile. Confidiamo che la commissione d’inchiesta sappia sostenere con umiltà, rispetto e intelligenza il lavoro della nostra magistratura e della nostra legale“, concludono.

Carlo Bonini per “la Repubblica” il 12 dicembre 2019. La chiave in grado di aprire definitivamente l'arrocco del regime egiziano a protezione dei responsabili del sequestro e dell' omicidio di Giulio Regeni è qui. A 5.200 chilometri a Sud del Cairo. Nell' africa sub Sahariana orientale. Nella capitale del Kenya, Nairobi. Perché è qui che un poliziotto keniota ha raccontato di aver raccolto le confidenze autoaccusatorie dell' uomo chiave nel sequestro di Giulio, il maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif. L'ufficiale della National Security Agency (l' Intelligence egiziana) che, al Cairo, condusse l' istruttoria che doveva dimostrare ciò che Giulio non era: una spia al soldo degli inglesi. E che per questo è ora indagato per sequestro di persona con altri 4 ufficiali della Nsa dalla Procura di Roma. E' a Nairobi infatti che la scorsa estate, il pm di Roma, Sergio Colaiocco, dopo aver raccolto la testimonianza del poliziotto keniota, ha inviato una rogatoria per fissare e verificare le circostanze di questa confessione e l' attendibilità del testimone. Con un caveat . Del testimone la Procura di Roma non ha rivelato il nome alle autorità keniote, né il contenuto del suo verbale di testimonianza. Per ragioni - è stato spiegato - di incolumità del testimone kenyota e di genuinità nell' accertamento dell' identità dell' ufficiale dell' intelligence egiziana di cui ha raccolto le confidenze. Una partita a scacchi, insomma. Di cui conviene riprendere il filo. Così come documentato nel verbale raccolto dalla Procura di Roma. E' l'agosto del 2017 e, a Nairobi, viene convocata una riunione dei rappresentanti dei servizi di intelligence africani impegnati nelle attività antiterrorismo. La scelta del luogo non è casuale. Perché il Kenya, insieme all' Etiopia, è l' avamposto della guerra che gli islamisti di Al Shabab hanno aperto nel Corno d' Africa, porta di accesso orientale del continente: tra il 2013 e il 2017, il Kenya subisce infatti 373 attacchi terroristici che provocano 929 morti, 1.149 feriti e 666 sequestri di persona. L'ufficiale scelto dalla National Security Agency egiziana per partecipare all' incontro di Nairobi è il giovane maggiore Sharif, 35 anni, le cui credenziali sono documentate dal numero di tessera identificativa 505. Il maggiore, a quanto pare, ha un' inclinazione alla chiacchiera. Si vanta dei metodi spicci dell' intelligence egiziana. E lo fa anche nella coda della "riunione interafricana" degli apparati di sicurezza. Una cena in uno dei grandi alberghi di Nairobi. Il poliziotto keniota racconta di averlo distintamente sentito rivendicare la propria partecipazione al sequestro di Giulio e al breve pedinamento che, la sera del 25 gennaio del 2016, lo precedette, mentre, a piedi, il ricercatore italiano prendeva la metropolitana che da Dokki, il quartiere dove abitava, lo avrebbe dovuto portare a un appuntamento non lontano da piazza Tahrir. Sharif dice qualcosa di più. Conferma che Giulio era stato oggetto di attenzioni della Nsa da mesi. Che il fermo e il suo sequestro fu una decisione presa la sera stessa del 25, nella convinzione che Giulio stesse per incontrare una persona sospetta. «L' abbiamo preso, messo in macchina e picchiato» si lascia andare il maggiore, secondo quanto racconta il testimone keniota. L'importanza della confessione rubata al maggiore Sharif è direttamente proporzionale alla tensione che ha innescato lungo l' asse Roma, Nairobi, Cairo. I rapporti tra l' Egitto e il Kenya sono infatti d' acciaio. In ragione di un' antica amicizia. Dei legami economici che rendono l' Egitto snodo vitale nelle rotte di importazione delle derrate necessarie a soddisfare il fabbisogno alimentare del Kenya. Della forza dell' apparato di intelligence e militare egiziano nel quadrante africano orientale. Insomma aiutare Roma, mettendo il Cairo con le spalle al muro di fronte alla giustizia italiana, significherebbe per il Kenya doversi attrezzare a ritorsioni significative. Non è una decisione da niente. Che pesa sulle spalle del magistrato cui quattro mesi fa è stata consegnata la rogatoria della Procura di Roma: il Director of Public Prosecution (Dpp), la massima autorità inquirente del Paese. Si chiama Noordin Haji. E' un uomo di 46 anni, cresciuto in una delle famiglie più influenti del Kenya (ha otto tra fratelli e sorelle nati dal padre senatore ed ex ministro della Difesa, Mohammed Yusuf Haji). Ha studiato legge e sicurezza internazionale in Galles e Australia, è un musulmano osservante, e, poligamo come il padre, ha due mogli e otto figli. E' stato nominato Dpp nella primavera scorsa dal Parlamento, cui risponde. In pochi mesi, si è guadagnato le prime pagine dei giornali europei per la sua offensiva nei confronti della corruzione dei membri del Governo e dell' amministrazione, una delle piaghe del Paese insieme alla minaccia terroristica. Viene dai ranghi del Servizio segreto - il National intelligence service - di cui è stato, fino alla primavera del 2019, vice direttore. Di quanto accaduto in quell' agosto del 2017, Haji dovrebbe dunque aver avuto piena consapevolezza. E se si dovesse stare a quello che almeno una fonte qualificata interna al servizio keniota riferisce a Repubblica , in quell' agosto del 2017, in quell' albergo di Nairobi, le cose sarebbero effettivamente andate proprio come ha raccontato alla Procura di Roma il poliziotto che teme per la sua vita. E tuttavia, come sempre accade nelle questioni che incrociano le responsabilità dei Servizi, le certezze non esistono e c' è bisogno di dare alle parole un nome e un cognome. E dunque, se c' è un indirizzo, a Nairobi, dove bussare è proprio quello di Haji, il Dpp. Nel quartiere residenziale di Upper Hill, al secondo piano di un compound che è stato a lungo la sede degli uffici dell' Unione europea e che ora è protetto da filo spinato, sorveglianza armata e rigidissimi controlli di sicurezza. Con una domanda in fondo semplice: cosa sa Noordin Haji di quella confessione del maggiore della Nsa egiziana Sharif?

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per “la Repubblica” il 18 dicembre 2019. Dopo quattro anni, per la prima volta, la Procura di Roma, con i crismi di un atto ufficiale, rassegna di fronte al Parlamento, nell' aula di palazzo san Macuto dove la Commissione parlamentare di inchiesta sul sequestro e omicidio di Giulio Regeni ha avviato ieri i suoi lavori, le conclusioni «univoche» di un' inchiesta il cui destino è ora solo e soltanto nelle mani delle decisioni di Palazzo Chigi, se mai deciderà di assumerne. Sono conclusioni che il procuratore reggente Michele Prestipino e il sostituto Sergio Colaiocco declinano, per oltre due ore, con il rigore dei fatti raccolti in un' indagine che non ha precedenti per contesto, interlocutori, impiego di capacità investigative (Sco della Polizia e Ros dei Carabinieri). Che i lettori di "Repubblica" conoscono bene. E molto semplici da riassumere: quello di Giulio fu un sequestro e un omicidio di Stato. Perché concepito e messo in atto da almeno cinque ufficiali della National Security Agency, il Servizio segreto civile del Regime egiziano. E perché sono stati almeno quattro i depistaggi con cui la stessa Nsa ha tentato di coprire le proprie responsabilità. A cominciare dall' autopsia del corpo di Giulio (le cui conclusioni, "morte per emorragia cerebrale", dovevano accreditare un incidente stradale mai avvenuto), per proseguire con il ritrovamento del suo cadavere denudato (utile a sostenere la pista del movente sessuale), con la testimonianza farlocca di un ingegnere egiziano che voleva la morte di Giulio esito di una lite avuta al Cairo, fino alla cruenta messa in scena che, il 24 marzo 2016, doveva accollare la responsabilità della fine di Giulio a un banda di rapinatori del Cairo che altro non erano che innocenti "fucilati" a freddo dalla Nsa per simulare un conflitto a fuoco. E tuttavia la mattina di san Macuto non è stata una semplice ricognizione del "noto". Al contrario. E non tanto per l' emersione di alcuni nuovi dettagli che hanno svelato come all' elenco di chi tradì Giulio nei suoi ultimi mesi di vita si aggiunga ora anche quello dell' amica di cui Giulio più si fidava in Egitto: Noura, studentessa conosciuta a Cambridge. Ridotta a delatrice dei suoi spostamenti e incontri (ne riferiva a un operatore turistico del Cairo, tale Rami, che, a sua volta, le girava al maggiore Sharif della Nsa). Ma perché con la testimonianza dei procuratori Prestipino e Colaiocco cade ora, definitivamente, ogni ulteriore alibi per Parlamento e governo. Nessuno potrà più pensare di guadagnare tempo rispetto alle decisioni da assumere con il Cairo. A maggior ragione dopo che Colaiocco ha spiegato come la già difficilissima cooperazione giudiziaria con la magistratura egiziana si sia interrotta a novembre dello scorso anno. Quando «la Procura del Cairo, pur di fronte a circostanze indizianti univoche nei confronti dei cinque ufficiali della Nsa, ha ritenuto che queste non fossero sufficienti a sottoscrivere un comunicato congiunto che desse conto di come l'indagine aveva ormai circoscritto il perimetro delle responsabilità». Da quel novembre di un anno fa, nulla infatti è più accaduto. Nessuno, insomma, da oggi, potrà più dire «lasciamo lavorare la magistratura » . Perché quel lavoro è di fatto chiuso. A meno che - e l'ipotesi appare al momento assai improbabile - un annunciato nuovo incontro tra i magistrati egiziani e la Procura di Roma in gennaio non dovesse improvvisamente vedere la consegna di nuovi atti o evidenze. È il tempo delle decisioni, insomma, per vincere l' arrocco egiziano. E il primo a doverle prendere è il ministro degli esteri Luigi Di Maio. La Commissione, per voce del suo presidente, Erasmo Palazzotto, ha promesso ieri il massimo sforzo («Non faremo sconti a nessuno»). Mentre la famiglia Regeni, con una nota alle agenzie, ha giustamente ricordato quale è la posta in gioco: «L' intangibilità dei corpi e della vita umana, la tutela dei diritti inviolabili e tra questi il diritto dei cittadini ad avere verità e ottenere giustizia, la dignità di persone e governi, sono valori irrinunciabili che devono prevalere su qualsiasi opportunismo politico o personale». I procuratori di Roma al Parlamento: 5 ufficiali dei Servizi egiziani coinvolti. Ora le decisioni toccano a Di Maio Il video Giulio Regeni al Cairo, ripreso dal leader del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah che lo aveva segnalato come "spia" agli 007. Regeni, dopo le torture, fu trovato cadavere il 3 febbraio 2016.

Carlo Baron per "la Stampa" il 10 maggio 2019. «Non rispetta i nostri sentimenti. Questo cantautore ha settant' anni. Potrebbe andare in pensione». A Paola Regeni non piace la canzone che Roberto Vecchioni ha dedicato a Giulio, ucciso al Cairo nel 2016. E non lo manda a dire. La sala del Bookstocks Village è gremita. C' è gente in coda da mezz' ora. Molte scolaresche. Ci sono la mamma e il papà di Giulio. Venuti alla giornata inaugurale del Salone del libro per tenere viva una denuncia e perché non diventi solo un ricordo. Forse è questo che fa male a Paola Regeni. «Non abbiamo bisogno di canzoni su Giulio - spiega - come quella scritta da un noto cantautore settantenne (non citerà mai Vecchioni ndr ) o di scoop giornalistici. Se qualcuno ha qualche informazione utile o qualche scoperta che noi non abbiamo, venga da noi a raccontarla e poi scrive i libri. Chi ha fatto libri su Giulio è gente che ha tempo a disposizione, tempo di fare copia e incolla. A noi i libri copia incolla non servono». «Ci sono rimasto male - replica Vecchioni in un' intervista a Rolling Stone -. Le ho detto che questa è una canzone simbolo, in cui la madre protagonista è in realtà una madre universale. Come Andromaca, la mamma di Cecilia nei Promessi sposi, Ida per la Morante o la Madre coraggio di Brecht. Al centro del pezzo ci sono le mamme del mondo, e i loro figli meravigliosi. Si fa accenno alla vicenda di Giulio, ma in maniera corretta e innamorata, senz' altro dalla sua parte. Per questo non credo di aver leso alcun diritto della signora, che conosco e a cui voglio bene». E, aggiunge, «ho mantenuto la promessa di non cantarla in tv o parlarne con i giornalisti. L' ho cantata in teatro e la farò in tour, ma l' ho tenuta in un angolo. Non l' ho fatta diventare un singolo per rispetto a lei, anche se ci avevo pensato. Non volevo strumentalizzare la vicenda, non so cos' altro avrei dovuto fare». Alla richiesta di Paola Regeni di rinunciare al brano risponde di no, «perché me lo imponeva la mia libertà espressiva, non mi si può togliere una canzone». «Queste parole mi hanno addolorato moltissimo - interviene Sergio Staino -. Sono fin dall' inizio vicino ai genitori di Giulio. Abbiamo organizzato incontri, tenuto accesi i riflettori di una denuncia che deve arrivare alla giustizia e alla verità. Sono anche amico di Vecchioni. Credo si tratti di un' incomprensione. La canzone vuole essere un atto d' amore. Credo sia rispettosa del dolore e dei sentimenti dei genitori di Giulio. Lo capisco quando viene cantata in concerto nei teatri. C' è sempre una standing ovation quando termina il pezzo. E non è per Roberto. Ma tutta per Giulio». Al Salone Paola Regeni ha portato anche i libri che ha trovato nella camera di Giulio. «Volevo farvi una sorpresa così sono andata a sbirciare nella libreria di Giulio, cosa che ho fatto tante volte Ho portato anche Topolino, perché Giulio a 5 anni ne era ghiotto». Un viaggio illuminante nelle letture preferite del giovane ricercatore. E a rileggere oggi i titoli c' è l' idea di un uomo dalla curiosità infinita. Ci sono romanzi e saggi di sociologia ed economia. Il Dio delle piccole cose dell' indiana Arundhati Roy e La scomparsa dell' Italia industriale di Luciano Gallino. Fino alle Lettere luterane di Pier Paolo Pasolini, friulano come Giulio. Ucciso anche lui. Anche lui con una giustizia che ha faticato a farsi strada. Pier Paolo Pasolini al quale un altro grandissimo, Fabrizio De Andrè, dedicò una canzone: Una storia sbagliata . Paola Regeni mostra anche un libro su Doris Lessing «che Giulio amava in modo particolare e per il cui Nobel fu felicissimo». E 201 Arabic words, uno degli strumenti di lavoro del giovane ricercatore. «Purtroppo lo studio lo ha portato alla morte». (Ha collaborato Giorgia Mecca)

Carlo Bonini e Giuliano Foschini per "la Repubblica" il 10 maggio 2019. Dopo quella al presidente del Consiglio Giuseppe Conte, la lettera di Paola Deffendi e Claudio Regeni al presidente Al Sisi, la scelta di diffonderla oggi in tre lingue - italiano, inglese, arabo - sul sito di Repubblica e a disposizione dei quotidiani del Consorzio internazionale " Lena", si mangia, dopo 39 mesi, ciò che resta del tempo residuo concesso al regime egiziano per compiere un atto politico che apra concretamente la strada all' accertamento della verità sul sequestro, le torture e l' omicidio di Giulio. E lo fa, non a caso, circoscrivendo la forma e la sostanza di quell' atto, a questo punto non più chiesto ma preteso dalla famiglia, a una dimensione squisitamente giudiziaria, la sola che ora conta. A maggior ragione nella prospettiva aperta dai progressi che la procura di Roma, con un ennesimo e ultimo sforzo, ha ottenuto acquisendo la testimonianza di un funzionario della sicurezza di un paese africano testimone oculare, nell' estate 2017, delle ammissioni di uno dei 5 ufficiali dei Servizi egiziani indagati dalla procura di Roma circa la loro piena responsabilità nel sequestro di Giulio il 25 gennaio 2016. La richiesta ad Al Sisi di « consegnare » e dunque mettere a disposizione della procura di Roma i 5 funzionari della " National security agency" indagati perché vengano interrogati è infatti il corollario, o comunque l' altra faccia, della richiesta di rogatoria che la procura di Roma, venerdì, ha trasmesso al Cairo per ottenere nuove e cruciali informazioni su uno di quei 5 funzionari indagati. Quello indicato dal nuovo testimone. Insomma, se Al Sisi vuole dimostrare di « essere uomo di parola » deve soltanto istruire la Procura generale del Cairo a rimettere in moto un' indagine che ha volutamente e scientificamente affossato ai primi di dicembre 2018. Rispondendo alla rogatoria e lasciando che il generale Sabir Tareq, i colonnelli Usham Helmy e Ather Kamal e il maggiore Magdi Sharif siano nella disponibilità inquirente del pm Sergio Colaiocco. Come è evidente, la scelta di Paola Deffendi e Claudio Regeni di sfidare Al Sisi a una sorta di ultima chiamata per la verità è lo strumento con cui mettere definitivamente in fuorigioco, smascherandolo, il nulla che il presidente egiziano ha continuato a rivogare con il governo del nostro Paese ancora nell' ultimo incontro di Pechino con Conte (27 aprile). E costringerlo, in ogni caso, quale dovesse essere la sua risposta, a impiccarsi a una presa di posizione che sarà, arrivati a questo punto, definitiva. Sia sul piano politico che, appunto, su quello giudiziario. Rispondere alla nuova rogatoria della procura di Roma - e dunque indicare gli spostamenti di uno dei cinque indagati della " National security agency" nell' estate 2017 ( quando cioè il nuovo testimone ne avrebbe raccolto l' involontaria confessione) costringerà infatti comunque gli apparati egiziani a esporsi con circostanze di fatto che la magistratura italiana potrà poi autonomamente verificare come vere o false, con quel che ne consegue. Così come mettere a disposizione i 5 funzionari dell' Intelligence li esporrà all' incognita di contestazioni che sono nella sola disponibilità della procura di Roma. Mossa dunque non da poco e tutt' altro che banale o rituale quella dei Regeni. Da non confondere con la mozione degli affetti o con la supplica al vertice di un regime militare. Non fosse altro perché puntare al bersaglio grosso - Al Sisi - significa anche indirettamente strappare al vuoto delle sue intenzioni prive di concretezza lo stesso Giuseppe Conte. Venerdì scorso, infatti, a dimostrazione di quanto scoperto sia il nervo di chi pensa di uscire da questa vicenda spostando semplicemente l' appuntamento con la verità a data da destinarsi e alla buona volontà dell' interlocutore, il presidente del Consiglio ha voluto mettere immediatamente il cappello ( comunicandone l' esistenza) all' inoltro attraverso il nostro ministero di Giustizia della nuova rogatoria della procura di Roma al Cairo provando a vendere un atto autonomo della magistratura di cui, per legge, l' esecutivo è soltanto tramite, come un atto politico. Ad oggi, assente. A meno di non voler considerare come tale l' insediamento della Commissione parlamentare d' inchiesta che, va da sé, nulla ha a che fare con le prerogative e i poteri del governo. P. S. Anche " Repubblica" è in attesa da parte del presidente del Consiglio di una cortese risposta, quale essa sia, alla lettera aperta con cui il 29 aprile lo ha invitato a considerare la possibilità di assicurare protezione giuridica a chi, cittadino straniero, dovesse rendere alla procura di Roma testimonianza utile ad avvicinarsi alla verità sull' omicidio di Giulio Regeni.

«Regeni l’abbiamo sequestrato noi»: la confessione dell’agente egiziano. Pubblicato domenica, 05 maggio 2019 da Giovanni Bianconi su Corriere.it. Oltre agli indizi, ora c’è una confessione, sia pure indiretta. Uno dei funzionari della National security egiziana sospettati del sequestro di Giulio Regeni ha raccontato di aver partecipato al «prelevamento» del giovane ricercatore italiano rapito al Cairo la sera del 25 gennaio 2016 e ritrovato cadavere una settimana più tardi: «Credevamo che fosse una spia inglese, lo abbiamo preso, io sono andato e dopo averlo caricato in macchina abbiamo dovuto picchiarlo. Io l’ho colpito al volto». È la sintesi di ciò che l’agente della sicurezza egiziana ha confidato a un collega straniero nel corso di una riunione di poliziotti africani, avvenuta in un Paese di quel continente nell’estate 2017. A rivelare l’episodio — che può rappresentare una svolta nell’inchiesta condotta dalla Procura di Roma sulla fine di Giulio — è una persona che ha assistito alla conversazione tra il funzionario del Cairo e il suo interlocutore. Un testimone occasionale, presente a un momento conviviale d’incontro, che ha potuto ascoltare e comprendere ciò che diceva l’egiziano perché conosce la lingua araba. Ora questa persona ha deciso di raccontare tutto ai legali e consulenti della famiglia Regeni, coordinati dall’avvocato Alessandra Ballerini che assiste i genitori di Giulio, i quali hanno messo queste dichiarazioni a disposizione dei magistrati romani. Il procuratore di Roma Giuseppe Pignatone e il sostituto Sergio Colaiocco considerano la testimonianza attendibile, logica e congruente con altri elementi acquisiti nell’indagine, per questo nei giorni scorsi hanno inoltrato al Cairo una nuova rogatoria in cui chiedono informazioni che potrebbero fornire ulteriori riscontri. È l’atto di cui ha parlato ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte, rivelando di aver avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente egiziano Al Sisi: «C’è una rogatoria da perorare oltre che un aggiornamento della situazione libica». Per i magistrati italiani, che insieme agli investigatori del Ros dei carabinieri e dello Sco della polizia stanno cercando da oltre tre anni di raccogliere ogni elemento utile a scoprire la verità sul sequestro, le torture e l’omicidio di Regeni, con un’inchiesta parallela a quella della Procura generale del Cairo, le nuove dichiarazioni del testimone sono molto importanti. Il funzionario indicato dal testimone, infatti, è uno dei cinque che la Procura di Roma ha iscritto sul registro degli indagati con l’accusa di sequestro di persona. Se infatti per gli inquirenti egiziani non ci sono elementi utili ad avviare un processo, secondo quelli italiani ci sono indizi sufficienti a ipotizzare il coinvolgimento del generale Sabir Tareq, del colonnello Uhsam Helmy, del maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, dell’assistente Mahmoud Najem (tutti in forza alla Ns) e del colonnello Ather Kamal, all’epoca capo della polizia investigativa del Cairo e coinvolto anche nel depistaggio con cui si voleva chiudere il caso addossando ogni responsabilità a una banda di criminali comuni, uccisi in un presunto conflitto a fuoco. Finora ci si era basati essenzialmente sull’elaborazione dei tabulati telefonici e le testimonianze raccolte in Egitto, a cominciare da quella del sindacalista Mohamed Abdallah, il finto amico di Regeni che l’ha denunciato alla polizia del Cairo. Ora si aggiunge una prova testimoniale — sebbene de relato — che arricchisce la stessa ipotesi investigativa. Anche sul movente del sequestro. La persona che ha ascoltato la confessione ha indicato nome e cognome del funzionario perché l’ha visto consegnare al collega straniero il proprio biglietto da visita. Probabilmente gli interlocutori non sapevano che il testimone conosceva l’arabo, e il discorso è caduto su Regeni nell’ambito di uno scambio di considerazioni sulla repressione degli scontri di piazza. In questo contesto l’indagato egiziano ha rivelato che a gennaio 2016 la sua struttura indagava su Regeni, rapito il giorno in cui al Cairo c’era il timore di manifestazioni anti-regime, perché ricorreva l’anniversario della rivolta di piazza Tahrir.  Il protagonista — secondo quanto riferito dal testimone — s’è soffermato sulle modalità dell’operazione, aggiungendo che dopo il sequestro Giulio fu picchiato. Anche da lui. In quel colloquio l’uomo non avrebbe detto nulla sulle successive torture e sull’esecuzione di Giulio, trovato morto il 3 febbraio sul ciglio di una strada. Nella rogatoria inviata in Egitto la Procura romana chiede lumi su altri nominativi individuati attraverso i tabulati telefonici e ulteriori testimoni da ascoltare, ma la parte più importante sono i possibili riscontri alla confessione che conferma e arricchisce il quadro probatorio costruito fin qui.

Regeni, si tace sulle colpe di chi lo espose e si vuole che Trieste eternizzi lo striscione. Un gruppo numeroso di cittadini e di universitari triestini e friulani s’è fatto promotore di una petizione volta a mantenere sul Palazzo della Giunta Regionale lo striscione per Giulio Regeni. Dino Cofrancesco il 27 giugno 2019 su Il Dubbio. Un gruppo numeroso di cittadini e di universitari triestini e friulani s’è fatto promotore di una petizione volta a mantenere sul Palazzo della Giunta Regionale lo striscione per Giulio Regeni. «Da più di tre anni, vi si legge, migliaia e migliaia di persone insieme a enti locali, università, scuole e associazioni chiedono la verità |…| Sembra impossibile che proprio nella città di Trieste, dove Giulio ha studiato, si tolga lo striscione che incita a trovare la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione». Del caso del ricercatore scomparso al Cairo e assassinato da agenti di polizia o da squadroni della morte, al loro servizio disposti a fare il lavoro sporco, si è parlato molto nel 2016. Ma nessun giornalista era stato più chiaro di Carlo Panella che su ‘ Huffingtonpost’— Le cattive maestre di Regeni del 17 febbraio 2016– aveva scritto : «Cosa si penserebbe di due professori che avessero assegnato a uno specializzando una ricerca sull’opposizione al regime di Pinochet, o di Videla nel periodo della loro massima ferocia repressiva? La risposta è scontata: che esponevano il loro sottoposto ( perché c’è una gerarchia tra professore e specializzando) a pericoli gravissimi e non giustificabili sotto nessun profilo. Bene, il regime di al Sisi è dieci volte più autoritario e pericoloso di quelli di Pinochet e Videla, anche perché combatte concretissimi e attivissimi jihadisti islamici. Ma Maha Abdelrahman dell’Universitá di Cambridge e Rabab El Mahdi dell’American University del Cairo, non si sono fatte scrupoli a spingere Giulio Regeni ad esporsi frequentando riunioni sindacali in cui si progettavano scioperi illegali e lo hanno incitato a prendere contatti con esponenti dell’opposizione. L’hanno usato cinicamente e irresponsabilmente per potere poi pubblicare, apponendo i loro nomi accanto al suo, i loro bei pamphlet accademici di denuncia tanto tanto politically correct e tanto utili per le loro carriere accademiche». ( Un articolo analogo aveva pubblicato sull’Occidentale del 12 aprile 2016, Daniela Coli, Ma l’Italia si mobilita per Regeni o contro Al Sisi? ) Delle colpe di chi ha messo in pericolo la vita di Regeni si continua a tacere mentre rabbia e risentimento sono rivolte al Rais, che si è comportato con un potenziale eversore venuto da fuori come continua a comportarsi con quelli di casa. Ci si chiede: ma cosa vogliono gli studenti di Trieste ( e quei professori che li sostengono?) Che al Sisi ammetta dinanzi alla comunità delle nazioni che il massacro di Regeni si deve, direttamente o indirettamente, a lui? Deve cospargersi il capo di cenere e chiedere perdono al mondo intero per il carattere poliziesco e illiberale del suo regime? E se non lo fa, l’Italia deve ritirare l’ambasciatore e rompere i rapporti col Cairo incurante, per ragioni di principio, della perdita di affari per milioni di euro? A tutti ( a destra come a sinistra) stringe il cuore, pensando alla sorte toccata a Giulio Regeni e si vorrebbe fare qualcosa per la sua memoria e ( soprattutto) per evitare il ripetersi di casi del genere ma c’è da scandalizzarsi se molti, non vedendo vie d’uscita, ritengono che lo striscione vada rimosso una buona volta anche perché di altre vittime da ricordare, a Trieste, ce ne sarebbero tante ( a cominciare dalle ‘ pulizie etniche’ che per qualche intellettuale militante del luogo non sarebbero state tali, dal momento che coinvolsero anche persone con cognomi slavi— slavi, sì, ma italianizzati da quattro secoli!).

Al di là di ogni considerazione di merito, però, sconcerta la pretesa di imporre a un Consiglio Regionale di centro- destra una battaglia ideale che la maggioranza dei suoi membri non sente. Quello striscione dovrà rimanere sulla facciata della Regione Friuli VG a tempo indeterminato, finché non verrà fatta giustizia? Neppure i dreyfusardi o i compagni di Giacomo Matteotti avrebbero forse chiesto tanto. In realtà, sorge il sospetto di una rivincita morale: in Friuli il centro- destra ha stravinto le elezioni regionali e a quanti non l’hanno votato sembra essere rimasta soltanto la gratificazione di sbattere sulla faccia dei vincitori un simbolo di antifascismo, di antisovranismo, di antinazionalismo, di anticapitalismo ( Regeni collaborava al ‘ Manifesto”). Agli uni i voti, agli altri la custodia dei valori repubblicani. Nel ventennio durante le sfilate dei gagliardetti e delle bandiere era imposto ai passanti l’obbligo di togliersi il cappello– anche ( e soprattutto) agli scettici e agli indifferenti. Se ci si riflette bene i tempi non sono cambiati, anche se, per fortuna, alla violenza fisica si è sostituita la gogna morale e la delegittimazione di quanti non onorano Che Guevara e i suoi fratelli. A Trieste si vuole imporre il pensiero fisso di Regeni a tutti indistintamente, anche a quelli che, al di là dell’umana pietas, ritengono la battaglia per «la verità sulle responsabilità per la sua sparizione, la tortura e l’uccisione» inutile o, comunque, non prioritaria. A ragione o a torto. Diventeremo mai liberali?

Giulio Regeni, un anno senza verità. Dal 25 gennaio 2016, giorno della scomparsa, fino ad oggi: le tappe della vicenda del ricercatore ucciso al Cairo. I depistaggi e le bugie delle autorità egiziane, gli appelli, l'impegno del nostro giornale con la piattaforma RegeniLeaks, le dichiarazioni del governo. Con una certezza. A dodici mesi da quella morte assurda, ancora non sappiamo chi ha ucciso il nostro concittadino, scrive Brahim Maarad il 20 gennaio 2017 su “L’Espresso”.

25 GENNAIO 2016. Giulio Regeni si era trasferito al Cairo dal settembre 2015 per una ricerca di dottorato sui diritti dei lavoratori e i sindacati egiziani. Scompare nella capitale egiziana fra le 19.30 e le 20.00.

3 FEBBRAIO. Il ministro dello Sviluppo economico, Federica Guidi, che si trova al Cairo alla guida di una missione imprenditoriale, fa sapere che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha assicurato la propria «personale attenzione» al caso di Giulio Regeni. Il ministro Guidi dice: «Ho rappresentato al presidente tutta la preoccupazione non solo della famiglia» ma anche «del Governo italiano». E poi: «Posso dire che il presidente mi ha assicurato la sua personale attenzione». Nel tardo pomeriggio dello stesso giorno il corpo di Giulio Regeni viene rinvenuto in un fosso alla periferia del Cairo.

4 FEBBRAIO. Sul corpo di Giulio Regeni vi sarebbero «segni di tortura». Lo scrive il sito del giornale egiziano "Al Watan". Il direttore dell’Amministrazione generale delle indagini di Giza, il generale Khaled Shalabi, sostiene che «non c’è alcun sospetto crimine dietro la morte del giovane italiano Giulio Regeni, il cui corpo è stato ritrovato sulla strada desertica Cairo-Alessandria»: lo riporta il sito egiziano 'Al Youm7'. In dichiarazioni esclusive al sito, il generale dichiara che le indagini preliminari parlano di un incidente stradale e smentisce che Regeni «sia stato raggiunto da colpi di arma da fuoco o sia stato accoltellato». Su indicazione del Ministro degli Affari Esteri Paolo Gentiloni, il Segretario Generale della Farnesina convoca con urgenza l’Ambasciatore egiziano Amr Mostafa Kamal Helmy per esprimere «lo sconcerto del Governo italiano per la tragica morte del giovane Giulio Regeni al Cairo». L’ambasciatore egiziano esprime «a nome del suo Paese profondo cordoglio per la morte di Regeni» e assicura che «l’Egitto fornirà la massima collaborazione per individuare i responsabili di questo atto criminale». Sul corpo di Giulio Regeni ci sono segni di bruciature di sigaretta, tortura, ferite da coltello e segni di una “morte lenta”. Lo riferisce il procuratore egiziano alla Associated Press. Palazzo Chigi fa sapere che il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha sentito nel pomeriggio il presidente egiziano Abdel Fattah Al Sisi al quale ha rappresentato l’esigenza che il corpo di Giulio Regeni sia presto restituito alla sua famiglia. Inoltre ha espresso l’esigenza che sia dato pieno accesso ai rappresentanti italiani per seguire da vicino, nel quadro dei rapporti di amicizia che legano Italia ed Egitto, «tutti gli sviluppi delle indagini per trovare i responsabili dell’orribile crimine» che ha portato alla morte di Giulio Regeni ed «assicurarli alla giustizia». Una nota del Quirinale fa sapere che «il Presidente Mattarella auspica che, attraverso la piena collaborazione delle autorità egiziane, sia fatta rapidamente piena luce sulla preoccupante dinamica degli avvenimenti, consentendo di assicurare alla giustizia i responsabili di un crimine così efferato, che non può rimanere impunito». L’agenzia Mena riporta la notizia che il presidente egiziano Abdel Fattah al Sisi ha telefonato al premier Matteo Renzi, riferendogli di aver ordinato al ministero dell’Interno e alla Procura generale di «perseguire ogni sforzo per togliere ogni ambiguità» e «svelare tutte le circostanze» della morte di Giulio Regeni, un caso al quale «le autorità egiziane attribuiscono un’estrema importanza».

5 FEBBRAIO. Arriva al Cairo un team di sette uomini di Polizia, Carabinieri e Interpol per seguire le indagini, in collaborazione con le autorità egiziane. Fonti dell’intelligence smentiscono le notizie apparse su alcuni organi di stampa di collegamenti tra il giovane ucciso al Cairo e i servizi italiani. Per queste notizie gli 007 esprimono «stupore e costernazione». «Acquisire ogni elemento utile» che consenta di «ricostruire quanto accaduto». È la delega che la procura di Roma dà al team di investigatori in trasferta al Cairo per indagare sulla morte di Regeni. Quella della procura di Roma, in attesa di vedere come si comporteranno le autorità egiziane e quale sarà la qualità della loro collaborazione, è dunque una “delega aperta”, senza indicazioni particolari e specifiche, in modo da consentire agli investigatori il più ampio margine di manovra. L’obiettivo è quello di riuscire a parlare con il maggior numero di testimoni che hanno avuto a che fare con il giovane negli ultimi giorni prima della morte, a partire da chi ha trovato il cadavere e dal medico legale fino a quelli che lo hanno visto prima della sua scomparsa; perquisire l’abitazione in cui Regeni viveva; poter accedere, qualora fossero disponibili, al suo cellulare, ai tabulati e al computer. Il New York Times racconta la morte di Giulio Regeni, parlando di un omicidio brutale che gela le relazioni tra Italia ed Egitto. Sottolinea l’ira di Roma «profondamente scettica sul fatto che l’Egitto sia in grado o abbia la volontà di trovare gli assassini». Il quotidiano statunitense parla di «complicazioni, seppur taciute» nei rapporti tra Roma e il Cairo, anche perché le bruciature di sigarette trovate sul corpo di Regeni, così come i segni di un colpo alla testa, sarebbero «i segni distintivi degli abusi frequentemente associati alle forze di sicurezza egiziane». Il Times parla di «preoccupazioni crescenti per l’impunità» di cui godono queste forze speciali del regime di al Sisi. Viene fatta circolare al Cairo la notizia che «sono state arrestate due persone sospettate dell’omicidio dello studente italiano Giulio Regeni». La fonte delle agenzie di stampa esclude «che l’omicidio Regeni abbia riferimenti terroristici o politici» e ha sostenuto che «si tratterebbe di un atto criminale».

6 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri, Paolo Gentiloni, ricordando che i familiari e la salma di Regeni hanno lasciato il Cairo e sono attesi a Trieste dopo uno scalo a Roma, dice: «A quanto risulta dalle cose che ho sentito sia dall’ambasciata sia dagli investigatori italiani che stano cominciando a lavorare con le autorità egiziane, siamo lontani dal dire che questi arresti abbiano risolto o chiarito cosa sia successo. Credo che siamo lontani dalla verità». Le due persone fermate per l’uccisione di Regeni vengono rilasciate. Fonti della sicurezza al Cairo si limitano a dire che si trattava di “sospetti” nei confronti dei quali non è stata formalizzata alcuna accusa che giustificasse un arresto.

7 FEBBRAIO. «Fonti mediche e giudiziarie» citate dal sito del quotidiano indipendente egiziano «Al-Masry Al-Youm» riferiscono che «il rapporto del medico legale ha affermato che lo studente» Giulio Regeni «è stato ucciso 10 ore prima di essere ritrovato». Viene «escluso che egli sarebbe stato oggetto di un incidente stradale», aggiunge il sito confermando attraverso le stesse fonti che «lo studente è stato torturato». L’indicazione temporale precisa quella fornita il 4 gennaio dal «Al-Youm 7» che, citando «inchieste preliminari», sosteneva che il corpo si trovava sul luogo del rinvenimento «da meno di tre giorni».

8 FEBBRAIO. Il generale Magdi Abdel Ghaffar, ministro dell’Interno egiziano, in una conferenza stampa tenuta al quartier generale della sicurezza nazionale egiziana al Cairo dice: «Non trattiamo assolutamente l’italiano come una spia ma come se fosse egiziano. È un atto criminale». Aggiunge che «il corpo è stato ritrovato sopra il cavalcavia Hazem Hassan sull’autostrada» del deserto tra Il Cairo e Alessandria «ed è stato scoperto da un autista di taxi la cui vettura era finita in panne». E poi afferma: «Respingiamo tutte le accuse e le allusioni ad un coinvolgimento della sicurezza». Il caso Regeni entra nelle conversazioni tra Barack Obama e Sergio Mattarella. I due presidenti parlano al termine del loro incontro alla Casa Bianca e il presidente americano, riferiscono fonti italiane, conferma che gli Usa collaboreranno per la ricerca della verità.

9 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry in un’intervista a 'Foreign Policy' riportata dal sito del quotidiano egiziano al Ahram, ribadisce che l’assassinio di Giulio Regeni è stato «un crimine» e che l’Egitto respinge ogni accusa di coinvolgimento. Puntualizza pure che i giornalisti che si occupano della vicenda stanno «saltando a conclusioni» e stanno facendo «speculazioni senza alcuna informazione autorevole o una verifica di ciò a cui alludono». Il ministro egiziano ha poi liquidato come «bugie» le accuse che in Egitto ci siano prigionieri politici. Secondo un sito egiziano, il telefonino di Giulio Regeni è stato agganciato per l’ultima volta nel quartiere sulla sponda sinistra del Cairo dove risiedeva. «La Procura ha ricevuto ufficialmente una notifica da parte di una società di telecomunicazioni secondo cui, seguendo il telefono di Regeni» l’apparecchio «è stato localizzato nella zona di Dokki», il quartiere di Giza al Cairo «nei pressi del suo appartamento», scrive il sito del quotidiano indipendente Al Masry Al Youm. In risposta alla lettera di protesta di accademici pubblicata dal Guardian, il portavoce del ministero degli Esteri egiziano Ahmed Abu Zeid sostiene che è «prematuro» giudicare i risultati delle indagini sulla morte dello studente italiano, lo scrive l’agenzia Mena.

10 FEBBRAIO. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni alle Commissioni Esteri-Politiche Ue di Camera e Senato dice: «Confermo alla Camere l’impegno del governo sull’orribile vicenda dell’uccisione di Giulio Regeni».

13 FEBBRAIO. Il New York Times scrive che «tre funzionari della sicurezza egiziana coinvolti nelle indagini affermano che Regeni è stato preso» da alcuni agenti il 25 gennaio. Il ragazzo «ha reagito bruscamente, si è comportato come un duro», sostengono le fonti. Tutti e tre, intervistati separatamente, scrive ancora il Nyt, dicono che Regeni aveva sollevato sospetti a causa di contatti trovati sul suo telefono di persone vicine ai Fratelli Musulmani e al movimento 6 Aprile, considerati nemici dello Stato. Chi ha fermato Regeni «ha pensato fosse una spia», aggiungono le fonti. Sempre secondo il giornale statunitense, un “testimone” sostiene che il fermo del giovane italiano sarebbe stato «ripreso da quattro telecamere di sorveglianza» di altrettanti negozi del quartiere: ma la polizia egiziana «non ha ancora chiesto le registrazioni video». Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry sostiene che nei colloqui del Cairo con il governo italiano «non viene sollevata una simile illazione o accusa» circa un coinvolgimento di forze di sicurezza egiziane nella tortura a morte del giovane Giulio Regeni. Come riferisce il New York Times, Shoukry afferma anche alla radio nazionale pubblica egiziana.

14 FEBBRAIO. Gli investigatori italiani al Cairo faticano a raccogliere elementi sull’uccisione di Giulio Regeni. Le attività investigative nella capitale egiziana vanno avanti con lentezza anche per le metodologie di indagine utilizzate dagli apparati di sicurezza egiziani diverse dalle nostre.

15 FEBBRAIO. «In un comunicato ufficiale pubblicato dal ministero dell’Interno, una fonte del Dipartimento dell’informazione ha smentito le informazioni pubblicate dai media occidentali secondo le quali l’accademico italiano Giulio Regeni sarebbe stato arrestato da elementi appartenenti ai servizi di sicurezza prima della sua morte», scrivono i media egiziani, tra cui l’agenzia ufficiale Mena. Il premier Matteo Renzi, intervenendo all’Università di Buenos Aires e parlando dei ragazzi italiani nel mondo, dice: «Giulio Regeni è stato ucciso in circostanze ancora da chiarire». L’affermazione fa scattare un lungo applauso della platea.

16 FEBBRAIO. Ricercatore, non spia. La famiglia Regeni, attraverso il proprio legale, «smentisce categoricamente ed inequivocabilmente che Giulio sia stato un agente o un collaboratore di qualsiasi servizio segreto, italiano o straniero». Secondo la famiglia: «Provare ad avvalorare l’ipotesi che Giulio Regeni fosse un uomo al servizio dell’intelligence significa offendere la memoria di un giovane universitario che aveva fatto della ricerca sul campo una legittima ambizione di studio e di vita».

18 FEBBRAIO. Il quotidiano filo-governativo egiziano AlYoum7 online citando fonti vicine alla procura egiziana che indaga sul caso, scrive che Giulio Regeni «sarebbe stato ucciso da agenti segreti sotto copertura, molto probabilmente appartenenti alla confraternita terrorista dei Fratelli musulmani, per imbarazzare il governo egiziano». Le stesse fonti aggiungono che «il procuratore egiziano e la sua controparte italiana stanno raccogliendo tutti gli elementi possibili per individuare l’autore del crimine».

20 FEBBRAIO. Il premier Matteo Renzi fa anticipare in serata sulle agenzie di stampa un passaggio del suo intervento previsto per l’indomani all’assemblea del Pd: «Noi dagli amici vogliamo la verità, sempre, anche quando fa male. Vogliamo i responsabili, quelli veri, con nome e cognome, e vogliamo che paghino. Abbiamo promesso alla mamma e al papà di Giulio che saremmo andati fino in fondo e confermo che non faremo nessun passo indietro».

21 FEBBRAIO. Intervistati da Repubblica, i genitori di Giulio Regeni, Paola e Claudio dicono: «Abbiamo molta fiducia nelle nostre forze di polizia, nel pm Sergio Colaiocco, nelle istituzioni, e chiediamo che i nostri investigatori al Cairo ritornino in Italia solo quando sarà stata fatta completa chiarezza. Contiamo sull’impegno che hanno preso con noi alcuni rappresentanti delle istituzioni italiane che ci hanno assicurato che la storia di Giulio non cadrà nell’oblio. Vogliamo soltanto la verità su cosa è accaduto a Giulio. Chiediamo che non ci sia nessuna omissione, nessun tentennamento. Giusto per lui. Giusto per tutti».

23 FEBBRAIO. Fonti della sicurezza della prefettura di Giza in Egitto riferiscono al sito del quotidiano ‘Al-Masry Al-Youm’ che «le inchieste hanno svelato che la vita di Giulio Regeni era piena di ambiguità e che il giovane italiano intratteneva relazioni con un gran numero di persone». Le stesse fonti «hanno anche affermato che l’equipe di inchiesta non è ancora giunta a nuove informazioni sui criminali».

24 FEBBRAIO. Secondo un comunicato del ministero dell’interno, la morte di Giulio Regeni sarebbe un omicidio premeditato per una vendetta causata da motivi personali. Secondo gli egiziani le indagini avrebbero accertato che la vittima aveva numerose relazioni con abitanti del quartiere in cui viveva. Il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni in un question time alla Camera dice: «L’Italia chiede semplicemente ad un paese alleato la verità e la punizione dei colpevoli. Non ci accontenteremo di una verità di comodo ne’ di piste improbabili, come quelle evocate oggi dal Cairo». L’ambasciatore egiziano in Italia, Amr Helmy, citato dall’agenzia ufficiale Mena, sostiene che l’omicidio Regeni potrebbe essere un atto criminale o terroristico compiuto da chi «vuole minare le relazioni tra Italia ed Egitto». Tra Roma e il Cairo «c’è piena cooperazione» sul caso, sottolinea l’ambasciatore invitando ad attendere gli esiti dell’inchiesta.

28 FEBBRAIO. Pier Ferdinando Casini, presidente della Commissione Esteri del Senato, chiede verità dal Cairo «o richiamiamo ambasciatore». «O arrivano entro pochi giorni risposte vere oppure il governo, che pure si è mosso con grande saggezza, per dare valore alle parole inequivocabili del presidente del Consiglio, deve considerare alcuni gesti simbolici forti», come il richiamo in Italia del nostro ambasciatore al Cairo, perché «dovremmo far capire la gravità della vicenda e che noi non scherziamo».

4 MARZO. L'attivista 28enne Mohamed Al Jundi è scomparso da piazza Tahrir il 25 gennaio 2013. Durante l’anniversario della rivoluzione. Stesso giorno e a pochi metri dal luogo della sparizione di Regeni, tre anni dopo. Al Jundi è stato ritrovato abbandonato in fin di vita sul bordo della strada, il corpo pieno di segni di tortura. Si è arreso alla morte il 4 febbraio. Per la polizia si è trattato di un incidente stradale. Il caso è stato archiviato.

10 MARZO. Il parlamento europeo condanna la tortura e l'assassinio del ricercatore italiano e nella sua risoluzione chiede maggiore collaborazione e trasparenza dalle autorità egiziane. Le esorta inoltre a fornire alle autorità italiane tutte le informazioni e tutti i documenti necessari per consentire lo svolgimento di indagini "congiunte rapide, trasparenti e imparziali”.

14 MARZO. L'ex ministro della giustizia Mohammed Al Zend dichiara: «Ciò che è stato riscontrato sul corpo dev’essere fedelmente riportato. A qualsiasi costo, politico e non solo. Nulla può giustificare le menzogne. La direzione di medicina legale ha consegnato un rapporto veritiero che conferma, con assoluta chiarezza, ciò che tutti noi sappiamo e che non stiamo qui a ripetere sul crimine che è stato commesso».

16 MARZO. «Vi prometto che faremo luce e arriveremo alla verità, che lavoreremo con le autorità italiane per dare giustizia e punire i criminali che hanno ucciso vostro figlio», dichiara il presidente al-Sisi in un’intervista a Repubblica. Aggiunge però che «bisogna interrogarsi sulla tempistica del delitto: perché hanno fatto ritrovare il corpo durante la visita del vostro ministro?».

24 MARZO. Per la polizia si tratta di una banda specializzata nelle rapine e nei sequestri ai danni degli stranieri. Il collegamento al caso Regeni è immediato. I cinque sono stati uccisi in una sparatoria davanti a un posto di blocco. E’ il primo atto di un nuovo depistaggio.

25 MARZO. “Gli assassini di Giulio Regeni sono stati uccisi nel blitz di ieri mattina”. Questo è quanto sostengono gli inquirenti egiziani. Sostengono di aver recuperato, nella casa di un componente della presunta banda, una borsa con tutti gli effetti personali del ricercatore italiano. La messinscena è durata poche ore.

29 MARZO. «Se il 5 aprile prossimo gli investigatori egiziani non arriveranno in Italia con delle notizie veritiere sulla sorte di Giulio Regeni, allora sarà il momento in cui il nostro governo dovrà avere una reazione forte: richiamare in Italia il nostro ambasciatore al Cairo». E’ la richiesta della madre Paola in conferenza stampa, che sostiene di «aver visto sul viso di Giulio tutto il male di questo mondo».

31 MARZO. «La concreta possibilità di indagare pienamente sull’omicidio di Giulio Regeni è delle autorità egiziane. Non abbiamo il diritto, per il rispetto della sovranità nazionale, di disporre intercettazioni in Egitto o altre attività giudiziarie. E il nostro team non può di propria iniziativa effettuare in un paese straniero pedinamenti o indagini autonome. Noi possiamo offrire, come stiamo facendo, la nostra piena collaborazione a sviluppare meglio le indagini». Così il procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone a l’Espresso.

5 APRILE. «Le verità di comodo in questi ultimi due mesi sono circolate con troppa frequenza. Noi ci fermeremo solo davanti alla verità, quella vera». È l'impegno del ministro degli Esteri Paolo Gentiloni che riferisce in Senato sull'assassinio di Giulio Regeni.

7 APRILE. L’incontro tra la delegazione di magistrati e investigatori arrivati dal Cairo e i pm e detective del servizio centrale operativo della polizia e del Ros dei carabinieri potrebbe essere decisivo per chiarire i punti ancora oscuri. Dal Cairo però portano una documentazione che è ritenuta assolutamente insufficiente dalla Procura guidata da Giuseppe Pignatone.

8 APRILE. Il vertice tra italiani ed egiziani sul caso Regeni è stato un vero e proprio fallimento. La collaborazione tra le autorità giudiziarie può considerarsi di fatto interrotta. Il Governo decide quindi di richiamare l’ambasciatore dal Cairo, Maurizio Massari. Ufficialmente per consultazioni, cioè per inviare un messaggio preciso ad Al Sisi: la misura è ormai colma. «In base a tali sviluppi si rende necessaria una valutazione urgente delle iniziative più opportune per rilanciare l'impegno volto ad accertare la verità sul barbaro omicidio del ricercatore», si legge nella nota della Farnesina.

11 APRILE. «A questo punto le nostre indagini si fermano qui. Il caso Regeni è ormai una questione diplomatica di primo livello. Noi continuiamo il nostro lavoro investigativo solo qualora emergessero nuovi elementi utili alla procura». Lo dichiara il procuratore generale egiziano Nabil Sadeq durante il colloquio con il suo vice, Mostafa Soliman, di ritorno dall’incontro con i pm italiani a Roma.

13 APRILE. «Il problema dell’omicidio Regeni è stato creato da noi egiziani. Dal primo giorno alcuni giornali e alcuni social media hanno accusato la polizia di essere responsabile". Così il presidente dell'Egitto Abd Alfattah Al Sisi nel suo discorso davanti ai rappresentanti della società civile. Prima di tutto però rinnova le condoglianze alla famiglia Regeni e ricorda l’egiziano scomparso a Roma. Omar Afifi, ufficiale della polizia egiziana esiliato negli Usa, racconta a l’Espresso: «L’ordine di uccidere Regeni è arrivato dall’alto. Ecco i nomi dei responsabili: Il capo di gabinetto di Al Sisi, Abbas Kamel, che lo ha fatto trasferire per farlo interrogare dai servizi segreti militari; il generale Mohamed Faraj Shehat, direttore dei servizi segreti militari. Naturalmente il ministro degli Interni Magdy Abdel Ghaffar e il presidente Al Sisi erano al corrente già dal trasferimento».

21 APRILE. L’Agenzia stampa Reuters cita fonti interne della polizia e dei servizi segreti egiziani: «Giulio Regeni arrestato dalla polizia prima dell'omicidio». La versione viene smentita dal ministero degli Interni: «Mai tenuto in nessun commissariato».

26 APRILE. Si stringe la morsa di Al Sisi. In seguito alle proteste di piazza il regime egiziano ha reagito con un'ondata di arresti. Tra cui quello di Ahmed Abdallah, il presidente della ong che offre consulenza ai legali dei familiari del ricercatore ucciso.

12 MAGGIO. Il Governo nomina un nuovo ambasciatore al Cairo: al posto di Maurizio Massari, che viene trasferito a Bruxelles, viene nominato Giampaolo Cantini. Non prende però ancora servizio nella sede diplomatica del Cairo.

16 MAGGIO. L'Espresso lancia una piattaforma protetta per raccogliere testimonianze di whistleblower sulle torture e le violazioni dei diritti umani. Per chiedere giustizia per Giulio e per tutti i Regeni d'Egitto.

27 MAGGIO. Paola Deffendi: «Basta depistaggi e azioni diplomatiche poco incisive. La battaglia per la verità deve andare avanti. Tutti quelli che sanno, hanno visto o sentito cosa è successo a Giulio in quei terribili otto giorni, lo dicano. E la piattaforma dell’Espresso è un’ottima opportunità».

3 GIUGNO. I documenti arrivati alla nostra piattaforma denunciano la scomparsa di tre studenti prelevati in facoltà. «Ci sono tre studenti, come Giulio Regeni. Sono rinchiusi da qualche parte e chiedono aiuto. Ma il mondo non li ascolta. Noi tutti abbiamo bisogno che voi facciate in modo che il mondo li ascolti prima che vengano uccisi dai loro rapitori». E’ stato segnalato anche il caso del reporter condannato all’ergastolo.

6 GIUGNO. Interviene la madre Paola che chiede “verità e giustizia per la vittima di una tragedia disumana”. «A Giulio non piacevano le cerimonie, non abbiamo mai assistito ad una sua graduation, quindi essere qui oggi per me è particolarmente doloroso; forse per il termine del suo dottorato avrebbe fatto una festa. Noi siamo qui, non è una festa, e Giulio non c’è».

7 GIUGNO. «Non rilascio dichiarazioni alle autorità italiane». Così ha risposto Maha Abdelrahman, professoressa di Giulio, agli investigatori italiani che si sono recati in Inghilterra per una rogatoria internazionale. A niente è servito l'appello della madre al «coraggio di vincere l'indifferenza morale».

15 GIUGNO. Una nuova segnalazione su RegeniLeaks, la nostra piattaforma protetta, mostra la fine in carcere di un alto dirigente del ministero del Culto. E ogni giorno tre persone nel paese scompaiono per non tornare più a casa.

22 GIUGNO. Azione dell'organizzazione internazionale rivolta a Matteo Renzi e Paolo Gentiloni: «Di fronte all'attuale inerzia del governo italiano, il 25 e il 26 giugno (Giornata internazionale per le vittime della tortura) facciamo sapere al presidente del Consiglio e al ministro degli Affari esteri che siamo in tanti a non aver dimenticato Giulio e che si può e si deve fare di più per arrivare alla verità».

29 GIUGNO. Palazzo Madama approva l’emendamento Regeni con cui viene bloccata la fornitura dei pezzi di ricambio degli F-16.

4 LUGLIO. Il giornalista Mustafa Bakry, durante una trasmissione in prima serata sulla tv egiziana, parla della morte del ricercatore italiano. E nel goffo tentativo di assolvere la polizia e il ministero degli Interni spiega in sostanza quali sono i modi attuati dalla polizia per fare sparire i dissidenti: «Lo avrebbe messo nel cemento e nascosto, non sarebbe andata a denunciare se stessa».

7 LUGLIO. I figli del generale occupano posti chiave negli apparati dello Stato. E potrebbero avere avuto un ruolo nel caso Regeni come sembra emergere da alcune segnalazioni giunte alla nostra piattaforma protetta. In particolare su Mahmoud, il figlio di al Sisi ufficiale dei servizi segreti.

14 LUGLIO. L’attivista per i diritti umani, ora in esilio, Abdelrahman Mansour: «Ora il dittatore al-Sisi ha paura di Giulio Regeni perché per i ragazzi egiziani è diventato un simbolo dei loro valori: cioè internet e libertà. Che l'Egitto ha soffocato».

19 LUGLIO. Braccio di ferro tra procura italiana e parlamento egiziano che afferma di aver respinto le richieste di «estradare tre sospetti e fornire le conversazioni telefoniche e i filmati». Ma gli investigatori a Roma smentiscono: «L'Italia non ha mai chiesto all'Egitto l'estradizione di alcuno».

10 AGOSTO. Il senatore Lucio Barani in visita in Egitto con una delegazione di imprenditori italiani: «Un grave errore da parte dell’Italia interrompere i rapporti perché il governo egiziano non ha avuto nessun ruolo nell’uccisione di Giulio Regeni. E’ stato danneggiato almeno quanto quello italiano. E Renzi lo sa che il governo egiziano è innocente. Tutto il resto è colpa delle opposizioni che non vogliono la verità ma semplicemente rovinare le relazioni».

29 AGOSTO. I genitori di Giulio intervistati da Riccardo Iacona a Presadiretta: “Noi dobbiamo arrivare alla verità diretta, vera, non finta”.

31 AGOSTO. Nata su proposta di Luigi Manconi, del presidente di Amnesty Italia e del presidente di Antigone, ha come primi firmatari i genitori di Giulio e l'avvocato della famiglia. Con un messaggio chiaro: non riallacciare i rapporti diplomatici con l'Egitto di al-Sisi.

7 SETTEMBRE. Nei dieci faldoni arrivati alla procura romana dopo la rogatoria internazionale anche un documento sul rischio firmato dal ricercatore e dalla sua professoressa Maha Abdelrahman. Vertice degli investigatori nella Capitale.

9 SETTEMBRE. Gli inquirenti del Cairo ammettono per la prima volta l’interessamento della polizia a Regeni nei primi giorni di gennaio a seguito di un esposto presentato dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah. Consegnano dei tabulati ancora parziali.

12 OTTOBRE. Lo dichiara il ministro del turismo egiziano, in Italia per fare promozione. Gli inquirenti del Cairo ammettono per la prima volta l’interessamento della polizia a Regeni nei primi giorni di gennaio a seguito di un esposto presentato dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah. Consegnano dei tabulati ancora parziali.

7 DICEMBRE. Dai tabulati di Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti, emergono contatti continui con la sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Vengono identificati i poliziotti a cui Abdallah forniva informazioni, quelli che hanno effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista. I magistrati cairoti tengono a precisare che questi accertamenti sono durati "solo tre giorni" a inizio gennaio e si sono conclusi con un nulla di fatto. Identificati anche i poliziotti coinvolti nell’uccisione di cinque persone, accusate di essere responsabili della morte di Giulio.

28 DICEMBRE. Mohamed Abdallah in una dichiarazione all'Huffington Post arabo conferma la sua collaborazione con i servizi segreti: "Noi stiamo dalla loro parte, Giulio faceva troppe domande sulla sicurezza nazionale. Lo avranno ucciso le persone che lo hanno mandato qua, dopo che io l'ho fatto scoprire. Sono orgoglioso di averlo fatto e ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso".

29 DICEMBRE. Il presidente del Consiglio durante la conferenza stampa di fine anno sostiene che, dopo iniziali depistaggi, «c'è una strada che il governo ha cercato di seguire, quella della fermezza e della richiesta di cooperazione. Ultimamente ho visto segnali di collaborazione molto utili dall'Egitto che spero si sviluppino, il governo lavorerà in questo senso».

15 GENNAIO 2017. LA MADRE: “E’ IL PRIMO NON COMPLEANNO DI GIULIO”.

17 GENNAIO. Il ministro degli Esteri Angelino Alfano riferendo alla Camera: «Rivolgo a Giulio Regeni un pensiero commosso, insieme alla prosecuzione dell'impegno per la ricerca della verità, che non verrà mai meno. Sulla ricerca della verità è impegnato il nostro sistema giudiziario e quello diplomatico».

Giulio Regeni, la verità in quel diario. Il ricercatore trovato ucciso un anno fa annotava tutti gli sviluppi del suo lavoro. E dal documento emergono nuovi dettagli su chi lo voleva morto, scrive Floriana Bulfon il 25 gennaio 2017 su "L'Espresso". Giulio Regeni aveva un diario. Lo scriveva sul suo pc. Sono considerazioni e analisi delle sue giornate al Cairo. Il testo ha un carattere 9, giustificato, scritto in un ottimo inglese. Giulio ha annotato così in dieci report sensazioni, perplessità, aspetti umani e professionali delle persone conosciute nell’ambito della ricerca che svolgeva in Egitto. Per ogni incontro una, al massimo due cartelle in cui focalizza la sua attenzione su una decina di ambulanti incontrati in tre diversi mercati, sulle loro condizioni sociali, economiche e sindacali. Una copia è tra le carte dell’inchiesta della procura di Roma, un’altra nelle mani della famiglia. In quei file, scritti tra il 29 ottobre e il 18 dicembre 2015, c’è Giulio, il suo rapporto con i venditori di strada, i suoi interrogativi su cosa pensassero di lui e su quanto quel metodo dell’osservazione partecipata potesse influenzare i loro comportamenti. Li ha scoperti il pubblico ministero Sergio Colaiocco analizzando il Mac portatile ritrovato, nella stanza dove viveva, dai genitori accorsi al Cairo pochi giorni dopo aver appreso la notizia della scomparsa. In quella stanza, nel quartiere di Dokki, il figlio passava ore a studiare, a programmare le attività, a riflettere sugli sviluppi della ricerca. Le note dicono molto sull’ambiente in cui è maturato il sequestro. Ci raccontano il quotidiano, la curiosità nella conoscenza di esperienze apparentemente distanti, ma in quel momento vicine, l’evoluzione di un rapporto di fiducia che Giulio considerava basilare per un arricchimento umano. Lunghe chiacchierate a sorseggiare del tè offerto dai venditori e lui che, per ricambiare la gentilezza, si sente fin da subito in dovere di portare i pasticcini. Ogni sera accende il suo computer e scrive di un clima sereno: dopo qualche incontro finiscono a parlare come amici di mogli e fidanzate. Giulio osserva con attenzione le merci disposte per strada, le luci accese, si interessa alle tecniche utilizzate per la vendita. Da una parte braccialetti, dall’altra vestiti. Annota di chi tiene d’occhio il banco dell’altro quando va in moschea a pregare e si offre di dare una mano. E, tra un cliente che si ferma e un altro che cerca di spuntare un prezzo più basso, può succedere di tutto. Una sera, l’attenzione del giovane ricercatore viene richiamata da un ragazzino. Non si regge in piedi. In mano ha una bottiglia di colla da sniffare. Il venditore che gli sta accanto, smette di parlare e decide di intervenire. Afferra la bottiglia, la butta via e rimprovera il ragazzo. Quella sera, quando ritorna nella sua stanza, Giulio trascrive stupito quell’episodio. Gli ambulanti sembrano aver fiducia in lui e toccano anche argomenti importanti: le difficili condizioni economiche, la scarsa possibilità di influenzare le scelte dello Stato in merito ai loro diritti. Parlano di piazza Tahrir, di quei giorni d’inverno del 2011 quando un milione di persone si erano radunate per gettare le basi di una rivoluzione mai concretizzata. Giulio annota tutto sul suo diario. Un tardo pomeriggio, non appena si fa buio, al mercato irrompe la polizia. Un uomo dal fondo della strada grida: «Baladia» (una sorta di municipale ndr). È il 29 ottobre. Tutti spengono le luci, raccolgono in fretta le merci e scappano, hanno paura della confisca e di finire in prigione. Giulio segue i venditori nella fuga. Trovano riparo dentro la moschea dietro l’angolo. Si muovono secondo un copione. È qualcosa che succede spesso. Anche più volte al giorno. Giulio descrive quella difficile convivenza tra ambulanti e polizia. Qual è la necessità di un controllo così invasivo? Perché essere costretti a scappare? La televisione di stato egiziana ha mostrato un estratto del video ripreso di nascosto dal capo del sindacato degli ambulanti, Mohamed Abdallah, durante un suo incontro (forse l'ultimo) con Giulio Regeni. Nelle immagini si mostra la richiesta di denaro da parte del capo del sindacato ambulanti, quelle 10mila sterline di cui si è parlato dai primi giorni dopo l'uccisione del ricercatore. Abdallah cerca di convincere Giulio a fare in modo che possa utilizzare i fondi della fondazione inglese Antipode a fini personali. L'italiano, invece, parlando un buon arabo insiste sull'impossibilità di un'azione del genere. Ecco la trascrizione e la traduzione del dialogo tra i due:Abdallah: Il giorno 5 mia moglie ha un intervento per un cancro, ho bisogno di soldi…Regeni: Però Mohamed, questi soldi non sono miei. Non li posso utilizzare come voglio. Non posso segnare nell’application dell’Università che li ho utilizzati per fini personali. Se dovesse succedere questo sarebbe un grosso problema. Abdallah: Non c’è un canale alternativo ad esempio per un utilizzo personale? Regeni: Giuro che non lo so, perché questi soldi sono legati a me. Dalla Gran Bretagna al Centro egiziano. E dal Centro egiziano alla banca. Abdallah: il mio timore è che il Centro egiziano ci prenda in giro e non ci dia nulla. Regeni: Io non ho l’autorità per intervenire su questo, non posso utilizzare questo denaro a mio piacimento. Abdallah: E quanto tempo ci vuole? Regeni: Dipende, se abbiamo un’idea, un progetto, partecipiamo. Ci sono progetti da tutto il mondo, quindi non è sicuro che arriveranno questi soldi. Ci dobbiamo provare, partecipare con un’idea. Dobbiamo avere le informazioni. Abdallah: Che tipo di informazioni? Che comincio a lavorarci fin da subito. Regeni: Ad esempio, cosa serve di più al sindacato. Per cosa utilizzerebbe le 10mila sterline. Abdallah: Non ho capito. Regeni: Questa è la domanda… Abdallah: Quindi tu hai bisogno di idee? Regeni: Sì, vorrei da te idee. Idee che possiamo poi elaborare insieme.Abdallah: Quindi, in cosa utilizzeremo questi soldi. Regeni: Esattamente. (testi e traduzione a cura di Brahim Maarad). Regeni frequenta gli ambulanti per realizzare la sua ricerca di dottorato all’università di Cambridge. Arriva al Cairo a settembre 2015 e, attraverso la American University of Cairo, entra in contatto con il Centro egiziano per i diritti economici e sociali (Ecesr). Qui incontra Hoda Kamel Hussein, la responsabile dei dossier in materia di lavoro esperta in campo sindacale, che lo aiuta nei contatti. È lei a presentargli alcuni venditori e sindacalisti, tra i quali Mohamed Abdallah. L’uomo che l’ha poi tradito e consegnato nelle mani dei carnefici. La prima volta si conoscono nella sede del Centro che oggi rischia di chiudere a causa di una legge che limita le attività delle associazioni per la difesa dei diritti umani. È il 13 ottobre 2015. Si vedranno altre sei volte. Abdallah, a capo del sindacato autonomo degli ambulanti e con un passato da giornalista di tabloid, mette a verbale davanti ai magistrati egiziani: «Mi ha chiamato Hoda per dirmi che c’era un ricercatore che stava facendo un dottorato, mi ha chiesto di incontrarlo per vedere come aiutarci a vicenda».  Ne segue una lunga intervista registrata, cui prende parte anche Hoda. Abdallah risponde alle domande di Giulio raccontando la composizione del sindacato, il programma, le quote associative, la mancanza di una pianificazione delle aree dedicate. E poi il blocco imposto dal ministero del Lavoro per le iscrizioni, le garanzie sociali inesistenti, le leggi e i regolamenti sul lavoro emananti da Abd al-Fattah al Sisi che hanno determinato un aumento delle tasse e dei prezzi aggravando le condizioni dei venditori e dei più poveri. Passa oltre un mese e mezzo prima che si rivedano. Abdallah lo motiva così alla procura del Cairo: «Mi ha chiesto di accompagnarlo ai mercati, di fargli conoscere altri ambulanti. Io mi sono rifiutato perché era uno straniero». Eppure l’8 dicembre inspiegabilmente acconsente e cerca Giulio che già da fine ottobre frequenta i mercati, conosce altri venditori. Un cambio di posizione che appare strano, considerando che i primi contatti di Abdallah con la Polizia a cui segnala Regeni «come un ragazzo che faceva troppe domande», perché è «illogico che un ricercatore straniero si occupi dei problemi degli ambulanti se non lo fa il ministero degli Interni», sono nebulosi. Si vedono al calar della sera di quel giorno al mercato di Ahmed Helmy, un’area adibita a parcheggio vicino alla stazione. Di quell’incontro ci sono due versioni. Giulio rimane sorpreso del ruolo e delle capacità di leadership di Abdallah. I venditori lo salutano, lo omaggiano, discutono delle loro condizioni. Abdallah racconta la storia dei sindacati in Egitto, parlano del loro ruolo fondamentale nella costruzione di una democrazia e consegna al giovane ricercatore documenti, articoli di legge, persino una mappa con un piano di trasferimento del mercato nel centro del Cairo con tanto di spazi adibiti per regolarizzarli. Abdallah però aveva preparato tutto, sceneggiato in ogni dettaglio quella visita. «Siccome non mi fidavo», spiega agli inquirenti cairoti «prima di andarlo a prendere alla stazione Ramses ho fatto un giro e ho detto di stare attenti a quello che dicevano, di non farsi coinvolgere in discussioni con lui. Avevo spiegato di non fare commenti, di lasciare fare a me». Qualche giorno dopo, l’11, Giulio lo incontra alla Casa dei servizi sindacali e del lavoro. È in corso l’assemblea in cui i sindacati indipendenti discutono sul futuro e sulle azioni da intraprendere per contrastare le politiche di Al Sisi. Nel suo intervento Abdallah sottolinea il ruolo dei venditori di strada nello sviluppo del tessuto commerciale del Cairo, tanto che Ahmed Helmy è il primo mercato pubblico in Medio Oriente alimentato da energia solare. Lamenta la mancanza di comunicazione tra venditori e sindacati indipendenti e dichiara il supporto dei venditori ai sindacati indipendenti nell’ipotesi della creazione di una loro federazione. È proprio durante quell’assemblea che Giulio si accorge di essere fotografato. Passa una settimana. L’appuntamento è di nuovo al mercato, ma tutto è cambiato. Giulio scopre chi è Abdallah. Quel personaggio oscuro si tradisce, il suo unico interesse sono i soldi. Giulio gli consegna un foglio tradotto in arabo che descrive il progetto della Fondazione inglese Antipode: offre contributi fino a 10 mila sterline per la promozione e lo sviluppo di ricerche in materie sociali. Giulio ragiona su come ottenere una sovvenzione, condivide l’idea anche con Hoda, ma ad Abdallah poco importa del progetto, vuole quel gruzzolo tutto per sé. Per questo è una «miseria umana». Ai magistrati del Cairo, che l’hanno sentito a febbraio, aprile e maggio scorsi, sostiene di far risalire a quell’incontro «di natura politica» il suo cambio di opinione: «Ho iniziato ad avere i primi dubbi e anche un altro venditore Saied mi ha chiesto: perché l’hai portato, non lo voglio incontrare. Mi risultava sospetto che potesse ottenere soldi per noi da parte di un paese straniero». Abdallah è l’uomo delle bugie, pronto a cambiar versione a seconda della piega delle indagini. Dice di aver incontrato Giulio «più di dieci volte», poi «solo sei», assicura di non essersi rivolto alla polizia: «Non sono una spia. Anche se dovessimo trovare un cadavere, ci gireremmo dall’altra parte» salvo poi dichiarare con orgoglio e amor di patria all’Huffington Post edizione araba: «Sì, l’ho denunciato e l’ho consegnato agli Interni, ogni buon egiziano, al mio posto, avrebbe fatto lo stesso. Noi collaboriamo con il ministero degli Interni. Solo loro si occupano di noi ed è automatica la nostra appartenenza a loro». Dalle informazioni fornite alla procura di Roma Abdallah segnala Regeni a due poliziotti della municipale proprio il 18 dicembre, dopo il loro incontro al mercato. Il giorno dopo Giulio torna a casa per le vacanze. Farà rientro al Cairo il 4 gennaio. Abdallah in quel periodo si dà da fare e i suoi contatti con la polizia si intensificano: riferisce a ben cinque ufficiali superiori della Sicurezza Nazionale, il Servizio segreto interno egiziano. Quando Giulio rientra si affretta a chiamarlo, probabilmente sollecitato proprio dalle forze di sicurezza e fa di tutto per incontrarlo al mercato di Ahmed Helmy il giorno dell’Epifania. Abdallah arriva preparato, indossa una telecamera nascosta. Inquadra ogni movimento. Il video, che dura circa due ore, lo registra mentre passeggia, si guarda attorno, osserva. Poi, dopo circa un’ora arriva Giulio. Per cinquanta minuti Abdallah in arabo lo incalza, lo provoca, tenta in ogni modo di portare il discorso sul progetto della Fondazione Antipode. Si vede Giulio inquadrato dal basso che risponde a malapena, diventa vago e sfuggente davanti a quell’uomo di cui ha ben compreso l’interesse economico. Al procuratore generale d’Egitto Ahmed Nabil Sadek, Abdallah rivela: «Quel video l’ho consegnato alla Sicurezza Nazionale, sono stati loro a chiedermelo». Di contro i servizi egiziani ammettono di averlo ricevuto ma non richiesto e sostengono che Abdallah s’è dato da fare autonomamente per trovare e far funzionare quell’attrezzatura. E poi, ad allontanare da loro i sospetti, sottolineano che in ogni caso Regeni rifugge dal parlare di soldi, quindi per loro non ha alcun interesse. Insomma smettono di spiarlo. Avevano anche detto di aver effettuato accertamenti sul giovane dopo l’esposto del sindacalista, ma «solo tre giorni» a inizio gennaio, e si era tutto concluso con un nulla di fatto. Eppure da una recente analisi dei tabulati telefonici di Abdallah, effettuata dai nostri investigatori di Ros e Sco, i rapporti tra lui e la Sicurezza Nazionale non sono cessati alla consegna del video. Il 7, l’8, il 9 e poi l’11 e il 14 gennaio si sentono. Utilizzando un sistema di utenze esclusive i nostri investigatori individuano cinque numeri che entrano in contatto con Abdallah solo in quel periodo. Sono numeri che rispondono alla sede centrale della Sicurezza Nazionale a Nasr City. Abdallah ormai sempre più chiuso nell’angolo delle sue menzogne conferma quei contatti e anzi si compiace di essere stato ringraziato. «Erano molto interessati per le informazioni che avevo fornito alla vigilia del 25 (il giorno del quinto anniversario della Rivoluzione ndr)». Informazioni preziose nel contesto generale di paranoia in cui è immerso l’Egitto di al Sisi. Un regime che ha limitato la libertà delle persone, reprime il dissenso, usa la tortura, le sparizioni forzate. Abdallah riceve l’ordine di non chiamare Giulio e di aspettare. Giulio si fa risentire il 22 gennaio alle 20:56 e poi alle 21:02. Gli chiede il contatto di un giornalista freelance egiziano esperto di mondo sindacale con il quale fissa un incontro per il 26 gennaio. A quell’appuntamento Giulio non andrà mai. Forse Abdallah lo sapeva, certi ne erano i suoi aguzzini. La sera del 25 gennaio esce dalla sua stanza sulla riva destra del Nilo, senza farvi più ritorno.

Giulio Regeni, l’intervista al sindacalista che lo denunciò ai servizi: "Ho fatto tutto da solo. Dio mi ricompenserà". Mohamed Abdallah, capo del sindacato degli ambulanti egiziani, in un filmato - poi consegnato alle autorità egiziane - assilla con richieste di denaro il ricercatore italiano. La sua figura resta centrale per capire cosa sia accaduto al giovane. E i tabulati telefonici analizzati dagli inquirenti lasciano pochi dubbi sul fatto che fosse lui a spiare Giulio per conto dei servizi segreti. Ecco la sua versione, scrive Laura Cappon il 28 gennaio 2017 su "Il Fatto Quotidiano". Da mesi i media lo cercavano. Da giorni gli spettatori – italiani e non – lo sentono parlare in quel video sgranato e sgradevole che fornisce anche l’ultima immagine da vivo di Giulio Regeni. Nel filmato Mohamed Abdallah, il capo del sindacato degli ambulanti egiziani, assilla con richieste di denaro il ricercatore italiano scomparso esattamente un anno fa e poi ritrovato senza vita nove giorni dopo alla periferia del Cairo. Secondo i Ros dei carabinieri e lo Sco della polizia di Stato che coadiuvano le indagini della procura di Roma, la figura di Abdallah resta centrale per capire cosa sia successo a Giulio. E piena di contraddizioni. La giustificazione per le sue azioni è quella ribadita anche in altre interviste alla stampa araba, e cioè che Giulio fosse una spia. Ma i tabulati telefonici analizzati dagli inquirenti lasciano pochi dubbi sul fatto che fosse lui a spiare Giulio per conto dei servizi segreti, e lui ad averlo denunciato alle forze di sicurezza egiziane. Questa, comunque, è l’intervista integrale di cui una parte è andata in onda su Tv7 nel servizio di Amedeo Ricucci e di cui abbiamo avuto la trascrizione.

Ha visto il video trasmesso alcuni giorni fa dalla tv di Stato? Conferma di averlo girato lei?

«No, non l’ho visto. L’ho saputo per caso, perché alcuni giornalisti mi hanno chiamato dopo la trasmissione. Non ne sapevo nulla. Confermo di aver fatto il video ma non so se l’hanno trasmesso tutto oppure in parte. La versione intera durava mezz’ora, anche di più».

Perché ha deciso di filmare la conversazione tra lei e Regeni?

«L’ho fatto per difendere la mia nazione. Sono una persona onesta e credo che la verità prima o poi verrà fuori. Se ho fatto quello che ho fatto è per tre motivi: perché amo la mia patria, e perché era un dovere morale e religioso. Ma non mi aspetto ringraziamenti da nessuno. Mi ricompenserà solo Dio».

Gli inquirenti italiani dicono che il video è stato girato con una videocamera nascosta. Vuol dire che le è stato commissionato, che qualcuno le ha dato quella telecamera perché non può essersela procurata da solo. 

«No, quelle immagini non sono chiare perché le ho fatte con un telefonino. Nessuno mi ha aiutato né ordinato nulla, ho fatto tutto da solo. La verità prima o poi verrà fuori. E allora tutti capiranno che io non sono un informatore della polizia. Io ho fatto tutte queste domande a Giulio per capire bene questa storia dei soldi: da dove venivano e a cosa servivano. Per questo ho registrato quell’incontro».

I tabulati telefonici provano che lei è stato in costante contatto con la sicurezza nazionale. Perché lo ha fatto se non è al loro servizio? E quando ha consegnato quel video?

«Io sono stato sotto inchiesta per due mesi, e in quel periodo ho dovuto consegnare il video alla procura generale del Cairo. L’ultima volta che ho visto il procuratore è stato un mese e mezzo fa. Sono stato interrogato da tanti. Tutti qui mi hanno indagato. E non so proprio perché: cosa ho fatto? Io ho solo presentato il mio punto di vista. Non auguro a nessuno quello che è successo a Giulio. A nessuno al mondo. Anche se non sapevo che era stato torturato. Io non sapevo nulla. Ora non voglio che l’attenzione si concentri ancora una volta su di me. Io adesso, anche se vedo un morto sulla mia strada, non ne parlo con nessuno».

Perché aveva chiesto dei soldi a Giulio? Il ricercatore le ha spiegato ripetutamente che l’eventuale finanziamento è solo un grant per delle ricerche accademiche e che quei soldi non potevano essere assolutamente usati a fini personali.

«No, ho bisogno di soldi, speravo arrivassero dall’Italia, anzi dalla Gran Bretagna. Eravamo d’accordo con Giulio che sarebbero arrivati questi soldi per un workshop. Non ho chiesto soldi per me, hanno capito male, perché mai Giulio avrebbe dovuto dare dei soldi a me?»

Vuole chiarire almeno quando ha visto Giulio per l’ultima volta?

«C’è un sacco di gente che racconta falsità su questa storia. Tutti sostengono che io abbia visto Giulio il 22 e il 23 gennaio. Ma sono bugie, l’ultima volta che l’ho incontrato è stata il 7 gennaio. Lui era tornato il 4 gennaio, e il 5 o il 6 mi ha chiamato chiedendo di vedermi. Ci siamo incontrati il 7, che è il giorno del video. Alla fine dell’incontro lui ha capito che stavo registrando, facevo domande strane e molto particolari. Anche se esplicitamente non me l’ha detto, me ne sono accorto dalla sua espressione e dalle sue risposte verso la fine del nostro dialogo. L’ultima volta che ho sentito Giulio per telefono è stato il 23 gennaio, due volte prima della sua sparizione perché per le sue ricerche voleva incontrare Adel Zakaria, un ragazzo che lavora con il centro per i sindacati e i servizi dei lavoratori. Poi, più nulla».

Regeni, la verità che non si vuole, scrive Guido Rampoldi il 9 giugno 2016 su "Il Fatto Quotidiano". Con il suo rifiuto di incontrare un magistrato italiano, la docente dell’Università di Cambridge che coordinava le ricerche di Giulio Regeniha deluso molti, inclusi i genitori dello studioso assassinato. Ma, piuttosto che sdegnarsi, sarebbe utile riflettere sulla sfiducia che quel diniego esprime. Si può dare torto alla professoressa Maha Abdelrahman se diffida della “collaborazione” tra la Procura di Roma e la Procura generale del Cairo? Se non vuole offrire pretesti a quella parte dell’informazione italiana che, fin dall’inizio, mentre difendeva Al-Sisi, accusava ambienti accademici britannici di aver “mandato allo sbaraglio” Regeni, o peggio, di opachi legami con servizi segreti anglosassoni? E soprattutto, avrebbe torto, la docente di Cambridge, se giudicasse vacui e insinceri i proclami con i quali Renzi e il suo governo hanno ripetuto, settimana dopo settimana, che mai avremmo rinunciato alla verità? Vediamo. Dopo molto viaggiare tra Roma e Il Cairo, il fascicolo intitolato “Giulio Regeni” è pieno di carte che dicono nulla. Quel che è peggio, dovrebbe intitolarsi “Regeni+5”, i cinque sventurati che la polizia egiziana ha fucilato e trasformato negli assassini dell’italiano, salvo poi correggersi. Questa esuberanza investigativa non ha impressionato la Procura di Roma, chiamata a svolgere un compito improprio: protrarre la finzione che vuole un’Italia fattiva e determinata, un paese che batte i pugni sul tavolo e, alla fine, otterrà. Malgrado ormai l’opinione pubblica sia sedata, la commedia della “collaborazione” continua. Eppure sappiamo già quel che il procuratore del Cairo mai potrà dirci. Giulio Regeni era noto ai servizi segreti egiziani per i suoi contatti con i sindacalisti; arrestato nel giorno in cui il regime è più nervoso, l’anniversario della “primavera egiziana”, è stato torturato a morte. L’ha ucciso il “sistema Al-Sisi”, il resto sono dettagli. Beninteso, i dettagli (chi comandò, chi torturò) non sono irrilevanti, e anzi i nostri servizi segreti potrebbero far sapere cosa hanno scoperto, se hanno scoperto. Ma la sostanza è che, in quanto a violazioni dei diritti umani, il regime egiziano non è diverso dal Cile di Pinochet. Con questa elementare verità avremmo dovuto fare i conti fino in fondo: e sarebbe stato il tributo migliore alla memoria di Giulio Regeni. Avremmo dovuto chiederci perché il regime è così impaurito dal sindacalismo libero; perché massacra studenti e laici mentre dice di combattere il terrorismo; e se il nucleo della crisi egiziana non abbia a che fare con il dominio di un’oligarchia militare rapace e violentissima che non vuole mollare quel 40-65% dell’economia nazionale che, direttamente o indirettamente, controlla. Domande che magari ci avrebbero evitato gli entusiasmi per il migration compact renziano, non privo di qualche spunto felice ma fermo alla vecchia logica delle sovvenzioni a regimi nefandi che sono concausa dell’esodo di moltitudini. Inoltre, giornali e parlamento avrebbero potuto interrogarsi su una politica estera che condusse Renzi a pronunciare lodi sperticate di Al-Sisi: a quale visione del mondo e delle relazioni internazionali rimanda questo sprofondare così in basso? Fossero questioni scomode o troppo complicate, la politica se ne è tenuta lontano. Per diverse settimane, le direzioni dei grandi media hanno lasciato intendere che Regeni era stato assassinato per nuocere a Renzi e al nostro amico Al-Sisi, baluardo contro l’islam. Poi un giorno Al-Sisi ha smentito gli estimatori con un discorso che era un’intimazione a dimenticare Regeni e, dodici ore dopo, era un tagliagole perfino per l’adorante Unità; quindi il governo ha ritirato l’ambasciatore, misura di dubbia utilità, minacciato rappresaglie economiche mai attuate e ripetuto il “mai rinunceremo”. Da allora più nulla. Né fatti né parole. In tutto questo non c’è una coerenza, una strategia, una logica stringente. Solo un barcamenarsi mesto, badando ai vantaggi del momento, ai titoli, agli umori della piazza mediatica, alle richieste di questo e di quel potentato economico. Se poi occorre contraddirsi, nessun problema: i media italiani da tempo hanno abolito il principio di non contraddizione, fondamento del Logos occidentale. Da noi A può essere anche B, dipende dalle convenienze. Sicché non c’è da meravigliarsi se una rappresentante della cultura occidentale, come la professoressa Abdelrahman, non si fidi di questo strano Oriente a bagno nel Mediterraneo.

Giulio Regeni usato inconsapevolmente dai servizi Usa e Uk, scrive su "L'Huffington Post" Andrea Purgatori il 22/04/2016. Usato inconsapevolmente dai servizi segreti britannici e americani attraverso le istituzioni accademiche per ottenere informazioni sulla leadership sindacale che si oppone al regime di al Sisi. E per questo vittima dell’ossessione degli apparati di sicurezza egiziani per lo spionaggio occidentale. Scambiato per una pedina di agenti dell’MI6 e della Cia infiltrati nell’Università di Cambridge e nell’American University del Cairo. Quindi, arrestato non tanto per costringerlo a rivelare chi incontrasse durante le sue ricerche – questo la polizia lo sapeva perfettamente, visto che lo marcava da molto tempo – ma per estorcergli i nomi delle spie che lo manovravano. Questa, in estrema sintesi, potrebbe essere la motivazione che a Giulio Regeni è costata quasi una settimana di feroci torture e infine la morte. Una verità inconfessabile, ma non solo per gli egiziani. Al momento è un’ipotesi. Ma in assenza di elementi di fatto (che probabilmente dall’Egitto non arriveranno mai) è soltanto sulle ipotesi che stanno lavorando gli investigatori. Sono state esaminate tutte le testimonianze degli amici di Giulio, e analizzate a fondo la memoria del suo computer e le mail che aveva ricevuto dai docenti del Department of Politics and International Studies di Cambridge: sono continue richieste, indicazioni, nomi di sindacalisti e oppositori da rintracciare, contattare, intervistare per poi compilare schede, feedback, relazioni. Per Giulio era tutto normale: era andato al Cairo proprio per studiare i sindacati e la loro leadership, non faceva mistero dei suoi incontri, ne parlava apertamente con gli amici. Invece per gli egiziani quello scambio di informazioni coi docenti inglesi e anche all’interno della stessa American University potrebbe aver fatto scattare un diverso campanello d’allarme: quello dello spionaggio. Che l’ossessione delle spie dentro casa sia una costante per i diversi apparati di sicurezza egiziani lo racconta la cronaca. Nel 2009 (c’era ancora Hosni Mubarak) l’autorevole quotidiano indipendente Al Masry Al Yawm (“Egitto oggi”) attaccò frontalmente l’American University rivelando l’esistenza di un contratto da alcuni milioni di dollari col Pentagono per lo “Studio e la ricerca applicata sulle malattie infettive in Egitto”, che secondo il giornale nascondeva un interesse di tipo strategico e dunque una forma mascherata di spionaggio ai danni del paese. L’università rigettò l’accusa, ma questo non bastò a scatenare un duro dibattito in parlamento contro le ingerenze americane negli affari interni. E poco più di due anni fa (con al Sisi al potere), la magistratura egiziana accusò formalmente Ehmad Shahin, un docente dell’American University, di avere svolto attività di spionaggio a favore dei Fratelli Musulmani e lo incluse in una lista di 36 imputati che comprendeva anche l’ex presidente Mohamed Morsi. L’American University del Cairo era l’istituzione d’appoggio di Giulio Regeni per il suo lavoro di ricercatore. Ma per i servizi di sicurezza egiziani che seguivano tutti i suoi incontri con esponenti dell’opposizione, potrebbe essere stato quasi automatico applicare anche a lui l’equazione “studente uguale spia”. Secondo l’agenzia Reuters, che ha citato sei diverse fonti anonime dei servizi di sicurezza, ad arrestarlo la sera del 25 gennaio insieme ad un cittadino egiziano davanti alla stazione della metropolitana di Gamal Abdel Nasser sarebbe stata la polizia, che poi lo avrebbe trasferito nel famigerato compound di Lazoughli e consegnato agli uomini della sicurezza interna. Il resto, non sono sospetti, è il massacro di cui è stato vittima. L’Egitto ha subito smentito la ricostruzione della Reuters, ma questa davvero non è una notizia.

"Regeni morto in una faida dei Fratelli musulmani, ai quali era vicina la sua professoressa", scrive “L’Antidiplomatico" il 26/01/2017. «Regeni era uno studente che svolgeva un lavoro assegnato da una università inglese. Ma a Londra chi ha assegnato la ricerca a Regeni in Egitto è una professoressa, Abdelrahman, di origine egiziana e vicina alla Fratellanza musulmana, ostile all’attuale governo. Lei voleva scandagliare la situazione egiziana, ma sono metodi dei servizi segreti inglesi che fanno svolgere certe attività a imprenditori e altre persone. Lui era inconsapevole, ma chi lo ha mandato lo ha mandato nella bocca del leone, la professoressa non poteva non saperlo». Lo ha detto il generale Mario Mori, ex capo dei Ros dei carabinieri, alla Zanzara su Radio 24, aggiungendo: «E’ stato venduto ed è stato fatto ritrovare per una lotta di fazioni all’interno del governo egiziano». Nota a margine. L’intervistato parla con cognizione di causa, essendo parte di certe dinamiche proprie dei servizi segreti. Poco da aggiungere se non che quanto accaduto a Regeni ha allontanato Roma dal Cairo, anche per via del movimento Verità per Regeni che, pur lodevole e condivisibile nelle intenzioni, è diventato uno strumento di destabilizzazione contro l’Egitto piuttosto che rimanere una sollecitazione volta a chiarire la realtà dei fatti. Tanto è vero che è agitato esclusivamente verso (anzi contro) il Cairo, mai verso Londra, che pure dovrebbe dare spiegazioni che non vengono. Sta di fatto che l’establishement egiziano, sentendosi minacciato nella sua stabilità, ha cercato puntelli da Mosca, allontanandosi dalle Cancellerie occidentali. A subire le conseguenze di tale distacco, in particolare sotto il profilo commerciale, soprattutto l’Italia, mentre Francia e Gran Bretagna hanno approfittato degli spazi lasciati vuoti da Roma per ampliare l’interscambio commerciale con il Paese Mediterraneo. 

Regeni era uno studente che svolgeva un lavoro assegnato da una università inglese, scrive Maurizio Blondet il 25 gennaio 2017. Ma a Londra chi ha assegnato la ricerca a Regeni in Egitto è una professoressa, Abdelrahman, di origine egiziana e vicina alla Fratellanza musulmana, ostile all’attuale governo. Lei voleva scandagliare la situazione egiziana, ma sono metodi dei servizi segreti inglesi che fanno svolgere certe attività a imprenditori e altre persone. Lui era inconsapevole, ma chi lo ha mandato lo ha mandato nella bocca del leone, la professoressa non poteva non saperlo”. Lo dice il generale Mario Mori, ex capo dei Ros dei carabinieri, a La Zanzara su Radio 24. “E’ stato venduto – dice Mori – ed è stato fatto ritrovare per una lotta di fazioni all’interno del governo egiziano”. Anche lei ha fatto questo tipo di operazioni, chiedono i conduttori? “Sì, le ho fatte anch’io. Se mando uno dei miei agenti è più difficile, ma se utilizzo persone come Regeni sono facilitato”. L’Italia ha reagito bene? “Secondo me no. La Francia ci ha fregato un po’ di appalti. Abbiamo ottenuto risultati modesti. C’è stato un momento di crisi nelle relazioni con l’Egitto e la Francia ne ha approfittato con una serie di operazioni brillantissime grazie al presidente della Repubblica. Tu non puoi offendere in maniera brutale e plateale, come abbiamo fatto noi”.

"Come si diventa una spia in Italia". L'ex capo degli 007 vuota il sacco, scrive “Libero Quotidiano" il 16 Febbraio 2016. Quando si parla agli agenti dei servizi segreti è facile immaginare a scena da film alla James Bond, esplosioni e inseguimenti alternati ad appassionate storie d'amore. Non proprio la trasposizione plastica di come sia composto il corpo di intelligence italiano, come chiarisce il generale Mario Mori al Giorno, forte della sua esperienza da direttore del Servizio informazione per la sicurezza democratica (Sisde) dal 2001 al 2006. Il reclutamento per i servizi italiani si avvale prevalentemente di Carabinieri, anche se negli ultimi tempi: "si sono aperte altre vie come scuole, università, tecnici specifici". Da quel che racconta il generale Mori, non sarebbe poi così improbabile che gli egiziani abbiano potuto scambiare il ricercatore Giulio Regeni per una spia, per quanto sul caso specifico l'ex direttore del Sisde non vuole parlare perché: "Non conosco i dettagli della vicenda". Il reclutamento - Ogni Paese ha un suo metodo per reclutare agenti e collaboratori del controspionaggio. Tutti però hanno un unico comune denominatore: "Si propone qualcosa a seconda delle debolezza di chi si contatta". Per esempio gli inglesi, racconta Mori, se ha bisogno di informazioni in Nigeria, può contattare dipendenti di aziende inglesi che lavorano sul posto e offrire loro denaro o commesse industriali. Mori però sottolinea una caratteristica tutta inglese: "Loro lavorano anche gratis, per l'amore della patria. Quando ci sono italiani, succede meno". Gli incidenti - In un'operazione andata a buon fine in Costa d'Avorio, un italiano che viveva in quella zona ha aiutato nell'arresto di un mafioso latitante. Ma non sempre va tutto per il meglio: "Qualcosa - dice Mori - sfugge sempre". Per esempio può succedere che una spia venga uccisa: "Bisogna vedere se entrambi i Paesi riconoscono la vittima come spia o no. Non esiste un protocollo per queste evenienza, ogni volta si agisce in modo diverso. A me un caso del genere non è mai capitato. Non è un episodio ricorrente uccidere una spia. Nei Paesi civili non succede". Di norma, quando una spia viene scoperta, secondo Mori ci sono tre eventualità: "Gli tolgo i documenti e lo mando fuori dal Paese oppure lo 'sdoppio', lo seguo sapendo che è una spia e gli prendo tutte le informazioni possibili. In alternativa, tento di farlo diventare un mio agente". Di sicuro non esistono casi di tortura, assicura Mori, almeno in Italia.

Capuozzo, la verità sull'omicidio di Giulio: "Vi dico io chi può averlo ucciso", scrive Adriano Scianca il 6 Febbraio 2016 su “Libero Quotidiano”. Non è stato un omicidio di Stato, il colpevole va cercato negli ambienti fondamentalisti. Sull' omicidio di Giulio Regeni, il giornalista Toni Capuozzo ha una tesi ben precisa. «La mia», spiega, «è una conclusione logica: il regime non aveva interesse a compiere questa uccisione. Sapremo mai la verità? Dipende da quanto la cercheremo. Ma siamo pur sempre il Paese che lascia due soldati all' India per quattro anni...». La morte di Giulio Regeni è ricca di lati oscuri.

Quante possibilità ci sono di arrivare alla verità, secondo lei?

«Io credo che al-Sisi abbia tutto l'interesse a collaborare. L' Egitto ha bisogno del sostegno occidentale, è lo Stato che riceve maggiori armamenti dagli americani. Se Regeni è stato attenzionato da ambienti dissidenti, il regime avrà tutto l'interesse a far luce sulla vicenda. Ovviamente il fatto che la verità venga a galla dipende molto da quanto la si cerca».

Insomma, dipende più dall' Italia che dall' Egitto?

«Sì, dipende da quanto l'Italia investirà in questa ricerca della verità. In fin dei conti abbiamo scoperto chi c'era dietro alcuni rapimenti avvenuti in Siria, che è un teatro di guerra, possiamo scoprire la verità anche su questo omicidio, se vogliamo. Certo, l'Italia è lo Stato che ha lasciato per quattro anni due suoi soldati nelle mani della giustizia indiana...».

Perché è convinto che gli autori dell'omicidio vadano cercati negli ambienti fondamentalisti?

«La mia è una conclusione logica, ovviamente non ho alcuna informazione supplementare su questo caso. Penso solo che i più imbarazzati di tutti, per questo omicidio, siano i funzionari del regime. Mi sembra improbabile che sia stato un omicidio di Stato».

In base a cosa lo dice?

«Vede, qualche giorno fa le autorità egiziane hanno arrestato un vignettista molto noto, nel Paese. Evidentemente le autorità avevano un conto da regolare con questa persona. Dopo qualche giorno, tuttavia, è stato rilasciato. Perché uno studente di 28 anni doveva rappresentare una minaccia maggiore?».

Forse per il suo impegno giornalistico, politico e sindacale.

«Sono problemi che l'Egitto poteva risolvere con un visto negato o un'espulsione. Francamente il regime mi sembra abbastanza solido da non essere messo in discussione da Giulio Regeni. No, credo che i colpevoli vadano ricercati altrove».

Dove?

«I dettagli dell'omicidio raccontano di un interrogatorio condotto con odio e volontà punitiva. Mi pare più probabile che alcuni gruppi organici ai Fratelli musulmani o comunque all' opposizione fondamentalista ad al-Sisi lo abbiano scambiato per una spia. Giulio era un occidentale, frequentava l'università americana, faceva domande in giro: evidentemente qualcuno lo ha scambiato per ciò che non era e lo ha interrogato, torturandolo, affinché confessasse cose che in realtà non sapeva. Poi l'ha lasciato in condizioni tali da imbarazzare il regime. Viceversa, anche il peggiore squadrone della morte al servizio di al-Sisi lo avrebbe fatto sparire senza lasciare tracce».

Anche qualche organo di stampa italiano ha ipotizzato rapporti fra il ragazzo e l'intelligence, tant' è che i nostri servizi hanno dovuto smentire ogni legame. Lei che ne pensa di queste teorie del complotto?

«Francamente troverei preoccupante se la nostra intelligence dovesse affidarsi a uno studente di 28 anni. Mi sembrano ipotesi del tutto campate in aria».

Altri hanno mosso l'obiezione opposta: si tratterebbe del solito italiano ingenuo che va in giro per il mondo senza valutare i rischi. È d'accordo?

«Io penso che l'ingenuità non sia una colpa. Intanto spesso l'ingenuità si accompagna all' innocenza. E poi anche certi giornalisti che cadono nelle mani di bande terroristiche sono stati "ingenui" nel valutare questo o quel contatto, questa o quella situazione. E parliamo di persone forse più avvertite ed esperte di Regeni. Il quale, peraltro, aveva espresso perplessità e timori sulla propria incolumità, sia pur senza entrare nel dettaglio di quale fosse il pericolo che più temeva. Lui era uno studioso, purtroppo ci sono luoghi in cui anche la curiosità scientifica può essere mal vista. C'è stata ingenuità? Probabilmente sì, ma come ce n' è stata nei casi dei rapimenti in teatri di guerra dei giornalisti Mastrogiacomo o Quirico».

Capuozzo: «Per Regeni e i marò usati due pesi e due misure». Striscioni e appelli per la verità sulla fine del ricercatore friulano, anche nei cortei del Primo Maggio. «Perché non c’è stata una mobilitazione simile per i due fucilieri?», si è chiesto il giornalista, scrive Alessandro Cesare lunedì 2 maggio 2016. «La verità dovrebbe valere per tutti». Toni Capuozzo, da Chiusaforte, ospite dell’associazione ‘Chei dal rinc’ e del Comune per presentare il suo ultimo libro ‘Il segreto dei Marò’, è stato chiaro parlando delle ultime vicende di politica estera che hanno visto protagonista l’Italia. «Mi ha colpito la differenza di reazioni tra la vicenda Regeni e quella dei marò. Probabilmente in Italia, chi porta la divisa, non è molto simpatico». Capuozzo è convinto che la politica e l’ideologia abbiamo avuto un ruolo determinante per come i due casi sono stati raccontati all’opinione pubblica: «I marò sono stati trattati da cittadini di serie B: Amnesty International ha fatto gli striscioni per chiedere verità sul caso Regeni. Giusto. Ma perché non farlo anche per i marò? Al corteo del Primo Maggio, a Cervignano, ho visto tre o quattro striscioni pro-Regeni e nemmeno un manifesto per i due fucilieri della Marina. In fondo Giulio era un ricercatore, un figlio di papà al pari dei miei figli. I marò invece sono due lavoratori, servitori dello Stato, in giro per il mondo per guadagnarsi il pane. Che dire poi degli italiani come Salvatore Failla uccisi in Libia? Qualcuno si ricorda ancora di loro?». Il giornalista originario di Palmanova punta molto sulla differenza di trattamento in atto: «Una persona di buon senso dovrebbe chiedere verità per Regeni ma anche giustizia per i due marò. Se nel primo caso un ragazzo ha subito una morte atroce, nel secondo ci sono due vite in ballo, per la cui salvezza si può fare ancora molto». Dietro all’esposizione mediatica del caso Regeni, Capuozzo è certo ci siano ragioni politiche, di vicinanza con il governo di centrosinistra: «Spesso si usano due pesi e due misure. Fateci caso: quando a essere rapiti sono giornalisti o volontari di organizzazioni politiche o politicizzate, la mobilitazione è totale. Quando invece a morire è un volontario di un’associazione non politica o politicizzata, come accaduto per Giovanni Lo Porto in Pakistan, ucciso da un drone americano, non ci sono funerali di Stato e non si chiede il ritiro dell’ambasciatore». ​Capuozzo è intervenuto anche su Libia («inutile un impegno militare dell’Italia») e migranti: «Uno Stato dovrebbe stabilire quante persone può accogliere, con mogli e figli al seguito, dare loro un tetto sotto cui dormire, garantendo il posto a scuola, distribuendoli sul territorio. Che inserimento è quello delle caserme? Dov’è la dignità di guadagnarsi da vivere con il lavoro delle proprie mani? Questa non è accoglienza e nemmeno integrazione, è indifferenza e ipocrisia». Il giornalista non si è risparmiato sul caso marò, raccontando retroscena, errori nella ricostruzione dei fatti, menefreghismo politico. «I due fucilieri si sono visti voltare le spalle dallo Stato per il quale erano pronti a sacrificarsi. Qual è il messaggio che è passato? Che se i due marò si fossero girati dall’altra parte, probabilmente la nave sarebbe stata sequestrata, ma di Girone e Latorre nessuno avrebbe mai saputo nulla. Quindi cosa dovrebbero fare i militari, i carabinieri, i poliziotti in situazioni difficili? Fare finta di non vedere per non avere problemi?». Una vicenda vissuta dagli stessi protagonisti con grande amarezza. Capuozzo si sente spesso con Latorre, essendo stato quest’ultimo un componente della sua scorta. «E’ un disoccupato per forza: non ha nulla da fare, è costretto a un limbo giudiziario che non lo fa stare bene». Come andrà a finire questa vicenda? La decisione del Tribunale internazionale dell’Aja, che ha dato la possibilità a Salvatore Girone di rientrare in Italia durante l’arbitrato (Latorre si trova già in Patria), va nella direzione tracciata da Capuozzo: «Chiunque processerà i due marò non potrà condannarli: le prove hanno subito falsificazioni tali da non avere più alcun valore. La cosa più logica è che i governi italiano e indiano si mettano d’accordo e che in attesa del giudizio del Tribunale dell’Aja facciano restare in Italia Girone e Latorre». Scenario diventato realtà nella giornata di lunedì. 

L’idillio, la morte, le tre autopsie: Mario Biondo è stato ucciso? La morte di Mario Biondo è ancora avvolta nel mistero: mentre la famiglia chiede a gran voce verità, se ne parla in una miniserie Netflix. Angela Leucci il 24 Ottobre 2023 su Il Giornale.

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 La morte

 Suicidio o omicidio?

 La vicenda giudiziaria e mediatica

Quello di Mario Biondo fu un suicidio, come stabilì la giustizia spagnola, o fu un omicidio, come non si sentì di escludere la giustizia italiana? A 10 anni dalla scomparsa, la vicenda del cameraman italiano è stata oggetto di una docu-serie Netflix che, lungi dal rispondere agli interrogativi, ne apre tanti altri.

È davvero difficile dire quale sia la verità: certo è che la famiglia non crede all’ipotesi di suicidio non solo a livello teorico - ovvero per il fatto che l’uomo avesse numerosi progetti in cantiere - ma anche pratico, ossia relativo alle dinamiche del ritrovamento del corpo, delle successive indagini e del modo in cui la vicenda fu trattata a livello mediatico almeno in Spagna.

La morte

Mario Biondo era un cameraman italiano che viveva a Madrid. Nel 2011 aveva lavorato alla versione spagnola de L’isola dei famosi, dove aveva conosciuto Raquel Sánchez Silva, una conduttrice televisiva, che aveva sposato poi nel 2012, dopo un anno di convivenza. La loro sembrava una storia d’amore patinata come molte altre, ma l’idillio finì presto.

Il 30 maggio 2013 infatti, mentre la conduttrice era lontana da casa, Biondo fu ritrovato dalla colf, che aveva preso servizio alle 6 del mattino, impiccato con una pashmina a un mobile libreria. Ciò che da subito ha colpito i genitori fu la posizione in cui Biondo fu trovato, ovvero con i piedi che toccavano terra. Ma non solo.

Suicidio o omicidio?

La docu-serie Netflix Le ultime ore di Mario Biondo cerca di ricostruire appunto le ultime ore prima della morte e i presunti accadimenti. La moglie testimoniò alle autorità iberiche che la sera prima del presunto suicidio c’era stata tra loro una discussione accesa: la donna avrebbe bacchettato Biondo a causa del suo uso - a suo dire - di cocaina, che avrebbe influito sulla fertilità e quindi sulla loro possibilità di avere un figlio. Ma secondo i genitori di Biondo, il figlio non avrebbe mai avuto problemi di tossicodipendenza.

Stando ad alcune testimonianze, Biondo si sarebbe recato, invitato da un pr, all’interno di un bordello, dove sarebbero risultati dei pagamenti per alcuni drink, altra circostanza cui la famiglia non ha mai creduto. Esattamente come per alcune ricerche effettuate al computer la sera della morte, morte che secondo gli inquirenti spagnoli sarebbe avvenuta tra l’altro per asfissia autoerotica. La domanda della famiglia Biondo è e resta: c’era qualcuno con il cameraman, tanto più che nella stanza in cui fu ritrovato erano presenti varie bottiglie di birra e mozziconi di sigaretta?

La vicenda giudiziaria e mediatica

In Spagna c’è stata un’autopsia, seguita successivamente dall’esumazione e due autopsie in Italia, tra cui una di parte. E dopo l’archiviazione madrilena, anche la procura di Palermo ha aperto un’indagine, in cui tuttavia si è escluso sia il consumo di cocaina sia l’asfissia autoerotica.

L’inchiesta è stata però archiviata nel 2022 anche in Italia, perché secondo il gip Nicola Aiello, “gli elementi che si traggono dal fascicolo del pubblico ministero ad avviso del giudice smentiscono la tesi del suicidio e lasciano pensare che Mario Biondo fu ucciso da mani rimaste ignote e successivamente collocato in una posizione atta a simulare un suicidio”, ma purtroppo non si è potuta prendere una posizione netta “alla distanza di tempo dai fatti”. Nondimeno da Palermo si è attestato che “al momento del ritrovamento del cadavere, nell’immediatezza dei fatti, avrebbero dovuto essere svolte attività investigative (intercettazioni ambientali, telefoniche, acquisizioni di tabulati) che non sono state svolte” e non hanno aiutato le “contraddizioni contenute nelle deposizioni rese dalla vedova Biondo”.

E mentre in Italia c’è stata una certa eco mediatica sul caso, lo stesso non si può dire sia avvenuto in Spagna, cosa che ha sollevato ulteriori sospetti da parte della famiglia di Mario Biondo. Che vuole continuare a scavare. La madre Santina D’Alessandro infatti, nella docu-serie, afferma: “Non mi darò pace fin quando gli assassini di mio figlio non saranno in carcere”.

Estratto dell'articolo di Roberto Chifari per corriere.it lunedì 14 agosto 2023

La serie Netflix su Mario Biondo fa discutere e non potrebbe essere diversamente, considerando il fatto che la vicenda giudiziaria  ha coinvolto il cameraman palermitano, morto a Madrid il 30 maggio 2013 […] 

Dopo l'uscita su Netflix del documentario 'Le Ultime Ore di Mario Biondo',  la mamma di Mario ha raccontato ha rincarato la dose. «Siamo ai primi di novembre - ha raccontato la donna - L’ordinanza è uscita ad agosto. Mi contatta tramite whatsapp una certa Maria Pulido, proponendomi di fare un documentario su Netflix, che sarebbe stato visto da 200 paesi. Io pensavo che sarebbe stata una cosa, non dico a favore, ma che avrebbero raccontato almeno i fatti, sia la versione spagnola, che quella italiana».

E ancora: «Parlo con gli avvocati e mi mandano un contratto intestato a 'The Voice Village'. Successivamente scopriamo che dietro 'The Voice Village' c’è 'Marguera Film', una società che appartiene a Guillermo Gomez Sancha, il manager di Raquel Sanchez (la moglie di Mario Biondo; ndr). Lo abbiamo scoperto dopo che ho rilasciato l’intervista a dicembre a Roma, dopo che ho inviato documenti sensibili, perizie di parte, che nel documentario non vengono assolutamente menzionate». 

[…] «Non avrei mai dato il mio consenso sapendo che dietro c’era Guillermo Gomez Sancha. Io sono stata intervistata per 6 ore e con me hanno fatto taglio e cucito - ha spiegato la donna - così come con gli altri intervistati che sostenevano la tesi dell'omicidio come Tarruella, Pasca ed Ercoletti. Per esempio, nella parte del documentario in cui si dice che ho trovato un foglio con un link sotto la tastiera del computer di Mario. Lei me lo ha strappato dalle mani dicendo: "Questo link l’ho spento cinque anni fa, come ha fatto Mario a scoprirlo. Questa parte l’hanno tolta». 

«A Madrid abbiamo notato il comportamento un po’ strano di Raquel - spiega Santina a DonnaClick - ha dato tre diverse versioni. La prima all’Istituto anatomico forense il 31 maggio in cui sosteneva che Mario si era suicidato, perché aveva fatto il test di fertilità e risultava che aveva pochi spermatozoi. Ma uno si ammazza per questo motivo? Nel pomeriggio ha dato un’altra versione. 

La sua idea era che avesse assunto cocaina e siccome non riusciva ad addormentarsi avrebbe usato la tecnica del rilassamento, mimando il gesto di una persona che si strangola con le sue mani. La terza possibilità era che la sua amica aveva controllato il computer e aveva visto che Mario aveva fatto ricerche porno ed era quindi morto praticando un gioco erotico. La Procura di Palermo ha trovato delle ricerche nel computer sull’autoasfissia erotica e su siti porno, ma queste risalgono al 12 luglio, quando mio figlio era più che morto». 

Il documentario - ha concluso la donna - è servito soltanto a «infangare la memoria di mio figlio, senza prove. Nella terza autopsia sono stati analizzati i capelli di Mario, 28 cm di capelli, ed è emerso che mio figlio non era un consumatore abituale di cocaina, alcol o di altre sostanze. Mario viene dipinto come un depravato e noi come dei pazzi. Noi con una sentenza del giudice che dice che è stato omicidio, noi siamo pazzi e Raquel è la povera vittima, nelle mani di questa famiglia. Mario Biondo non ha mai sofferto di problemi di depressione, era un ragazzo pieno di vita, con tanti progetti per il futuro, come dimostra la chat con i fratelli avuta la sera prima della morte in cui non vedeva l’ora di riabbracciarli a luglio».

Estratto dell’articolo di palermotoday.it giovedì 10 agosto 2023.

E' stata annunciata solo poche settimane fa da Netflix, ma già dal giorno del suo debutto è subito entrata nella top 10 diventando la serie Netflix più vista in Italia al momento. Parliamo de "Le ultime ore di Mario Biondo", la docuserie spagnola che ricostruisce il caso della morte del cameraman siciliano, trovato impiccato nel suo appartamento di Madrid lo scorso il 30 maggio del 2013 che, da diversi giorni, è il titolo al primo posto della top 10 italiana di Netflix.

Una storia tragica che lascia ancora molti punti in sospeso che oggi, con questa serie, torna a essere oggetto di dibattito pubblico. […]

Estratto dell'articolo di Valeria Vantaggi per vanityfair.it giovedì 10 agosto 2023. 

La storia è una di quelle tristi, di quelle che finiscono con una vittima. Lui si chiamava Mario Biondo, un bell'uomo di 30 anni, faceva il cameraman ed era sposato con Raquel Sánchez Silva, una celebre conduttrice televisiva spagnola. Il 30 maggio 2013 fu trovato morto, impiccato con una pashmina a una libreria della sua casa di Madrid.

 Suicidio od omicidio?

La sua famiglia non ha mai potuto credere che Mario si fosse tolto la vita: «Non mi darò pace fin quando gli assassini di mio figlio non saranno in carcere», ha urlato a gran voce Santina D'Alessandro, la madre. 

La moglie di lui, Raquel, in questi anni è stata sospettata, se non come responsabile della morte, comunque come persona coinvolta nei fatti, restia - dicono i familiari di Mario - a collaborare con la giustizia.

Ma la polizia spagnola non ha mai avuto dubbi: «Mario si è ammazzato».

La conclusione comunque è che nel 2022 il gip di Palermo Nicola Aiello ha archiviato l’inchiesta sul decesso del ragazzo per limiti processuali dovuti «alla distanza di tempo dai fatti». 

Ora è uscita una docu-serie su Netflix, Le Ultime ore di Mario Biondo, in cui, in tre puntate, si tenta di ricostruire quanto avvenuto il giorno della morte. E si riaccendono i riflettori su tutta la vicenda.

«Da quello che ho visto», interviene l'avvocato Fabio Falcone, che insieme a Carmelita Morrale ha portato avanti, per conto della famiglia di Mario Biondo, la tesi dell'omicidio, «La serie dà un'impronta contraria rispetto al nostro percorso giudiziario, cosa che non mi stupisce visto che comunque è stata prodotta da Guillermo Gómez, ex manager di Raquel Sánchez Silva. Si sostiene l'ipotesi di una pratica di auto-asfissia, un gioco di autoerotismo spinto all'estremo, cosa che non è mai uscita negli atti giudiziari». 

Dunque, stando a quello che si fa intendere nella serie, potrebbe essere stato un incidente, una sorta, se così si può dire, di suicidio involontario?

«In quella morte», continua l'avvocato Fabio Falcone, «ci sono tante cose che non quadrano. Anche il gip Nicola Aiello, che ha archiviato il caso, l'ha fatto dicendo che era passato troppo tempo, che non c'erano elementi sufficienti per poter andare avanti, ma nemmeno lui credeva all'ipotesi del suicidio, o comunque non era cosa così ovvia come la polizia spagnola ha voluto far passare. Gli elementi che si traggono dal fascicolo del Pubblico Ministero, ad avviso del giudice, smentiscono la tesi suicidaria e lasciano pensare che Mario Biondo fu ucciso da mano rimasta ignota e successivamente collocato in una posizione atta a simulare un suicidio». 

L'avvocata Carmelita Morrale va ancora più dritta: «Questo documentario, se così si può chiamare, non corrisponde alla realtà processuale che è emersa dagli atti giudiziari. Mario non era un assuntore di sostanze stupefacenti: il tossicologo che ha lavorato per conto della procura ha prelevato una ciocca dei capelli di Mario e non è stato rilevato nulla. Una forzatura, dunque, quella del film che vuole ritrarlo come un cocainomane abituale e incallito. 

Per quanto riguarda l'erotomania, anche quella non è dimostrabile: le uniche ricerche sui siti porno che Mario aveva fatto avevano per oggetto il nome della moglie, quasi avesse dei dubbi su di lei. Le ricerche apparse sul suo computer relative alla pratica dell'auto-asfissia sono tutte state fatte dopo la sua morte. In più, il telefonino non è stato mai consegnato alle autorità italiane: era uno smartphone intestato alla società per cui lavorava il cugino della signora Raquel e si sono appellati a questo per non consegnarlo. I pm hanno potuto consultare solo il computer fisso e il portatile, e da questi dispositivi è stato appurato che qualcuno ha avuto accesso al pc di Mario da remoto. Per fare cosa?». 

[…] Ma questo film può aiutare in qualche modo a riaprire il caso e a raccontare di nuovo i fatti o è anzi fuorviante?

«No, non aiuta. Ci sono cose che non tornano: dell'incidente autoerotico, prima di questa serie, ai magistrati non è mai stato detto nulla. Questa ipotesi è emersa in maniera giornalistica […] ».

Ma come mai la madre, il padre e i fratelli hanno partecipato a questo film così poco dalla loro parte? 

«Quando i signori Biondo hanno firmato il contratto per autorizzare le riprese, c'era il nome di una società diversa da quella che poi ha gestito la produzione e che si è scoperto essere di Guillermo Gómez, che aveva interessi per far uscire un'altra versione dei fatti. […] se avessero saputo fin dal principio cosa sarebbe uscito, non avrebbero mai prestato il consenso a partecipare a questa docu-serie. È stato fatto tutto senza disvelare chi c'era dietro nella produzione».

«L'idea, dunque, è che si voglia accreditare la figura di Raquel», conclude l'avvocato Fabio Falcone. 

Intanto la vita di lei è andata avanti: dal 2014, anno successivo alla morte di Mario Biondo, Raquel Sánchez Silva è legata al produttore audiovisivo argentino Matias Dumont, dal quale ha avuto due figli.

"Le ultime ore di Mario Biondo”, la serie Netflix che svergogna il nostro giornalismo d’ inchiesta. Il docufilm spagnolo mette in luce la mancanza di un vero giornalismo di inchiesta giudiziaria, esplora il processo mediatico che asseconda la fragilità emotiva di una famiglia, la magistratura palermitana che lascia spazio al complotto e le conseguenze sulla percezione pubblica. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 9 agosto 2023

Il processo mediatico, la magistratura nostrana che asseconda l’idea del grande complotto e l'inevitabile ripercussione sull'opinione pubblica, con la conseguenza di alimentare il linguaggio d'odio e lo stigma nei confronti di chi, in realtà, è innocente. Questi sono temi affrontati da Il Dubbio, ma ritrovarli concentrati nelle “Le ultime ore di Mario Biondo”, la serie spagnola prodotta da Netflix e diretta da María Pulido, ha un effetto coinvolgente, quasi un riscatto.

Nel contempo, c'è anche un sentimento di amarezza, poiché per un tema che ci riguarda così da vicino, abbiamo avuto bisogno di osservatori stranieri. Non è un caso che questo docufilm sia stato snobbato da grandi giornali o criticato – almeno finora – nei piccoli. Ma, in fondo, era inevitabile, considerando che la quasi totalità del giornalismo italiano ha cavalcato le legittime convinzioni dei famigliari. Ovviamente, la famiglia ha tutto il diritto di perseguire ciò in cui crede, ma la prima regola del giornalismo è quella di mantenere la giusta distanza. Dopodiché adottare un approccio scientifico, leggere le carte, porre domande e, alla fine, attenersi ai fatti. Se i fatti non concordano con le istanze dei famigliari, non è corretto assecondarli. Come giustamente ha osservato Selvaggia Lucarelli, intervistata nel documentario, in Italia non esiste un vero giornalismo di inchiesta giudiziaria, e noi, che ci siamo occupati anche di grandi temi, come il teorema trattativa Stato-mafia, sappiamo bene quanto sia vero. Fa cinema, romanza, abituando così le persone a non interessarsi dei fatti oggettivi, ma esclusivamente le suggestioni.

La serie spagnola approdata di recente su Netflix inizia con l'incontro che ha cambiato per sempre la vita di Mario Biondo, un talentuoso cameraman palermitano, e Raquel Sanchez-Silva, la famosa conduttrice spagnola, durante il reality show “Survivor Spain”. L'amore scocca tra i due, e nel 2012 coronano il loro sentimento con il matrimonio. A causa della celebrità di Raquel, la loro relazione e il loro matrimonio vengono ampiamente coperti dai tabloid spagnoli e dai siti web di intrattenimento. Ma meno di un anno dopo, la coppia attraversa un periodo difficile a causa dei problemi di fertilità – così ricostruisce il docufilm - derivanti dalla tossicodipendenza di Mario. La notte della sua morte, Raquel lascia l'appartamento dopo una discussione, e Mario cerca su Google se le droghe possano danneggiare la fertilità. Il giorno seguente, viene trovato impiccato.

Le prove sul luogo e la successiva autopsia indicano chiaramente un suicidio per asfissia. Molto probabilmente un gioco erotico. Non ha nulla di perverso l’auto asfissia erotica (tra l’altro da anni è diventata pratica molto più comune di quanto si crede), ma purtroppo può essere fatale se non si è lucidi. Tuttavia, la famiglia Biondo sembra non essere in grado di accettarlo. A complicare ulteriormente la questione c'è il rapporto conflittuale con Raquel, che pochi giorni dopo la morte del marito, commette degli errori di comunicazione postando foto durante una vacanza a Formentera. Queste immagini innescano una reazione immediata nei genitori di Mario, portandoli a dubitare che la donna stia provando dolore per la scomparsa del marito a nemmeno un anno dal matrimonio. A ciò si aggiungono altre abitudini che non riescono ad associare al figlio. Questi dubbi spingono i genitori a intraprendere una propria indagine, convinti che dietro la scomparsa di Mario si nasconda un omicidio. Programmi televisivi, giornali e il dolore e la fragilità emotiva dei familiari vengono assecondati e riportano ipotesi di complotto ordito con la complicità della magistratura spagnola e i periti.

Non sorprende che la procura palermitana, nel 2016, apra un'indagine e accetti le istanze dei genitori. Tuttavia, il perito della procura, Paolo Procaccianti, persona stimata e perbene, giunge alla stessa conclusione dei suoi colleghi spagnoli: si tratta di un suicidio. Nonostante ciò, i genitori di Biondo lo denunciano per falsificazione della perizia. Le indagini non confermano l'accusa, e l'archiviazione dell'inchiesta ne è la conseguenza: il perito non ha commesso alcun falso e nessuna frode processuale. Procaccianti ha svolto in maniera professionale il suo lavoro. Nonostante tutto, i genitori non si arrendono e chiedono l'avocazione delle indagini sulla morte del figlio, poiché la procura ha concluso per l'archiviazione, giungendo alle stesse conclusioni degli investigatori spagnoli. In modo sorprendente, la procura generale di Palermo, all'epoca guidata da Roberto Scarpinato, accoglie la richiesta, riaprendo così le indagini. Di conseguenza il caso ritorna sotto i riflettori mediatici e sui social network, alimentando l'idea di una “indicibile” verità.

Alla fine, il Procuratore Generale chiede l'archiviazione, e anche se accolta, il Gip lascia comunque aperta l'ipotesi di un omicidio, seppur non esistano prove per appurarlo. Questo atto fa emergere un'immagine poco lusinghiera dell'Italia all'estero, come riportato nella serie. Ma perché? Prendendo in prestito le parole del magistrato Onelio Dodero durante una sua requisitoria al processo Capaci bis, possiamo ribadire: "Quello che non è provato, non esiste". Se l'omicidio di Biondo non è provato, teoricamente non dovrebbe essere contemplato in un atto giudiziario. Non esiste. Ma è la nostra magistratura, dopotutto. La vera separazione delle carriere dovrebbe essere quella tra magistrati e giornalisti.

La serie Netflix “Le ultime ore di Biondo” ha deluso una parte consistente degli italiani, poiché il pubblico nostrano era pronto a vederla con le aspettative create dal nostro palcoscenico mediatico-giudiziario. Sia chiaro, non c'è nessuna delle tante teorie riportate in questi dieci anni che non viene trattata dalla serie, nessuna delle ipotesi lanciate dalla famiglia che venga omessa. Però, adottando un approccio scientifico, la serie ha fatto emergere una realtà completamente diversa. L'intervista a Selvaggia Lucarelli è stata particolarmente significativa, specialmente quando ha affermato che in Italia non esiste un vero giornalismo giudiziario investigativo. I giornalisti non studiano realmente i documenti, ma si concentrano sull'intrattenimento. Ed è vero.

In sintesi, è stato necessario l'intervento di osservatori stranieri per far emergere ciò su cui Il Dubbio contrasta da anni. Il documentario evidenzia anche altri aspetti interessanti, come il modo in cui tutto ciò alimenta odio, stigma e morte sociale. I familiari di Biondo hanno tutto il diritto di perseguire ciò in cui credono, ma coloro che li hanno appoggiati e assecondati, alimentando l'idea di un complotto senza alcun fondamento e dicendo ciò che il pubblico vuole sentire, non hanno giustificazione alcuna. Questo vale anche per altri temi giudiziari. Paradossalmente, su Netflix stessa, c'è ancora quel vecchio docufilm di Sabina Guzzanti sulla Trattativa. Un misto di deliri superati e demoliti dopo anni di battaglia giudiziaria. Ma rimane l'odio verso gli ex Ros Mori e De Donno, che saranno per sempre colpevoli nell'immaginario italiano. È l'esempio perfetto di come il giornalismo di inchiesta sia morto da tempo in questo Paese. Bisogna affidarsi ad altre serie straniere come questa. A noi, in fondo, manca una regista come María Pulido.

Mario Biondo morto in Spagna dieci anni fa: le indagini, la moglie Raquel Sanchez, la verità della giustizia italiana. Chiara Marasca su Il Corriere della Sera l'8 agosto 2023.

Nella serie Le ultime ore su Netflix la storia del cameraman palermitano sposato con la giornalista tv Raquel Sanchez Silva che fu trovato impiccato nella sua casa di Madrid. Da subito le indagini si orientarono sul suicidio. Ma la sua famiglia ha lottato per una diversa verità

Si chiama Le ultime ore di Mario Biondo la docu-serie appena uscita su Netflix, nella quale, in tre puntate, si tenta di ricostruire quanto avvenuto il giorno della morte del cameraman trovato senza vita in Spagna, a Madrid, il 30 maggio 2013. Biondo era palermitano, 30 anni, lavorava in tv ed era sposato con la nota conduttrice e giornalista spagnola Raquel Sánchez Silva. 

Suicidio o omicidio?

Giovani, entrambi molto belli, il colpo di fulmine sul set in Honduras della versione iberica de "L'isola dei famosi",  un anno dopo le nozze in Sicilia, a Taormina. Le foto che li ritraevano sorridenti e innamorati dopo la morte di Mario hanno iniziato a riempire le pagine dei giornali, mentre le cronache provavano a ricostruire la vicenda, con molte ombre sin dall'inizio. Lui fu trovato impiccato con una pashmina a una libreria della sua casa di Madrid e da subito la polizia spagnola ha seguito la pista del gesto volontario: un mese e mezzo e le indagini erano chiuse, con la certificazione di questa verità. Un'inchiesta veloce, un'autopsia per la quale il medico legale è finito poi indagato, e una ipotesi, quella del suicidio, che non ha mai convinto la famiglia del giovane, i genitori e i due fratelli, che, negli anni ha continuato a sollecitare la ricerca di una diversa, possibile, realtà dei fatti: «Non mi darò pace fin quando gli assassini di mio figlio non saranno in carcere», ha gridato più volte la madre, Santina D'Alessandro. 

La tesi del gip di Palermo

E di omicidio ha espressamente parlato un anno fa il gip di Palermo Nicola Aiello che per la prima volta ha messo nero su bianco la possibilità che ci fossero dei responsabili per la sua morte. Ormai, però, impossibili da individuare. Nove gli anni trascorsi, invalicabili, secondo il magistrato, i limiti processuali dovuti «alla distanza di tempo dai fatti». «Gli elementi che si traggono dal fascicolo del pubblico ministero ad avviso del giudice smentiscono la tesi suicidiaria e lasciano pensare che Mario Biondo fu ucciso da mani rimaste ignote e successivamente collocato in una posizione atta a simulare un suicidio», scrive il magistrato nel provvedimento di archiviazione, escludendo anche che il giovane avesse assunto cocaina e che fosse morto al culmine di una pratica autoerotica, due aspetti sui quali, nel giorni successivi al decesso, si concentrò l'attenzione dei media spagnoli e che avrebbero spazio rilevante anche nella ricostruzione della docu-fiction.

La moglie Raquel

La moglie del cameraman, Raquel, in questi anni è stata sospettata, se non come responsabile della morte, comunque come persona coinvolta nei fatti, restia - secondo i familiari di Mario - a collaborare con la giustizia. Tesi in parte condivisa dal gip palermitano Aiello che ha messo in luce le «contraddizioni contenute nelle deposizioni rese dalla vedova Biondo». Fu la donna di servizio a scoprire alle sei del mattino il cadavere del cameraman, mentre la moglie quella notte era nella sua città natale, a 300 chilometri, a trovare uno zio malato. 

Le indagini in Spagna

La stanza nella quale Mario Biondo fu trovato morto era piena di bottiglie di birra e di cicche di sigarette: forse quella sera non era solo. Ma la magistratura spagnola non sequestrò l'appartamento. E anche il gip di Palermo un anno fa ha ribadito che «al momento del ritrovamento del cadavere, nell’immediatezza dei fatti, avrebbero dovuto essere svolte attività investigative (intercettazioni ambientali, telefoniche, acquisizioni di tabulati) che non sono state svolte». 

La vicenda processuale a Palermo

Troppi aspetti non convinsero dunque la famiglia di Biondo, che si determinò a chiedere giustizia a Palermo e ad affidare una consulenza informatica, per analisi sui dispositivi in uso al cameraman, alla società italo-statunitense Emme Team. Una vicenda processuale che si è rivelata lunga e complessa: i pm palermitani nel 2016 svolsero una rogatoria, al termine della quale conclusero per l’ipotesi del suicidio e chiesero l’archiviazione. La conclusione dell’inchiesta non piacque alla Procura Generale che avocò il fascicolo nel 2020 salvo poi giungere per ben due volte alla conclusione che Biondo si era tolto la vita. Nel 2021 il gip ordinò ai magistrati nuove indagini, che terminarono con la terza richiesta di archiviazione. Infine, un anno fa, il provvedimento del giudice Aiello che smonta la tesi del suicidio.

La docu-fiction

Nella docu-fiction Netflix ci sono anche alcune testimonianze dei familiari di Mario Biondo, ma la ricostruzione che esce fuori dalla produzione, a lavoro finito, non li ha per nulla convinti. Attraverso il loro legale, l'avvocato Fabio Falcone, intervistato da Vanity Fair, sostengono che la serie, prodotta da Guillermo Gómez, ex manager di Raquel Sánchez Silva, «dà un'impronta contraria rispetto al nostro percorso giudiziario e sostiene l'ipotesi di una pratica di auto-asfissia, un gioco di autoerotismo spinto all'estremo, cosa che non è mai uscita negli atti giudiziarie». Non è da escludere dunque che, anziché riaprire il caso sollecitando nuove possibili letture della vicenda di cronaca, la docu-fiction possa invece dare vita ad una battaglia legale. 

Domenico Morrone.

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Domenico Morrone.

Il caso di Domenico Morrone. Casi Nostri su art643.org

Quanto accaduto a Domenico Morrone...

Quanto accaduto a Domenico Morrone è il più eclatante caso di condanna di un innocente della storia giudiziaria italiana ad oggi,

che tale si è sempre professato nell'arco dei suoi 15 anni di reclusione e che costituisce un clamoroso errore giudiziario, anzi un caso - simbolo.

E' stato accusato di duplice omicidio, mentre la madre (che aveva dichiarato che il figlio era dai vicini al momento del delitto) e due vicini di casa (per i quali nelle ore del delitto l'uomo stava lavorando proprio nella loro abitazione per riparare un acquario) sono stati condannati per falsa testimonianza. A questo si aggiunga che l'identikit dell'assassino dei due ragazzi, calvo ed al volante di una macchina nera, non corrisponde al Morrone, che ha tutti i capelli e non ha un'auto di quel tipo.

Nonostante tutto questo, nessun giudice ha mai creduto loro, fino alla sentenza della Corte d'Appello di Lecce del 21/04/2006.

Per due volte la Cassazione ha rinviato il processo alla corte d'appello perchè Morrone aveva un alibi credibile, ma i giudici hanno ugualmente confermato la condanna. Quattro precedenti tentativi di revisione sono stati rigettati, fino a quando, per ottenere la revisione del processo, abbiamo trovato riscontro nelle dichiarazioni di due pentiti che hanno rivelato, che ad uccidere i due ragazzi era stato un soggetto tutt'ora in carcere, per vendicare lo scippo subito dalla madre la mattina del delitto.

Se i due detenuti non avessero testimoniato e se la Corte d'appello di Lecce non li avesse ascoltati, Domenico Morrone sarebbe ancora in carcere, pur non avendo commesso alcun reato ed essendo incensurato.

Nel caso Morrone si possono individuare gravi problemi del pianeta giustizia:

1) la lunghezza dei processi;

2) la responsabilità dei magistrati;

3) la situazione delle carceri.

L'errore giudiziario di Morrone si caratterizza proprio per la lunghezza della ingiusta detenzione (ha scontato 15 anni, su una condanna di 21 del processo incriminante) e si differenzia da altri casi come Barillà o Ragusa per tipologia, trattandosi di incensurato, evidenziando altresì il problema della difficoltà della revisione processuale in Italia.

Secondo il codice di procedura penale, i giudici hanno la possibilità di rigettare de plano senza entrare nel merito e perciò, difficilmente concedono la revisione processuale ed i casi sono troppo pochi rispetto ai tanti innocenti nelle carceri. Sembra necessaria una riforma in senso garantista della revisione.

Altro problema della giustizia è costituito dall'eccessiva lunghezza dei processi, nel caso di Domenico Morrone abbiamo avuto sette gradi di giudizio, cinque revisioni, ma sono passati ben quindici anni.

I cittadini hanno diritto ad una giustizia giusta in tempi rapidi ed in linea con questa affermazione vi è la possibilità di ricorrere alla Legge Pinto.

Quando i processi, siano essi civili, penali o amministrativi, durano più di quattro anni, il cittadino può ricorrere contro il ministro competente (sia esso della Giustizia, della Difesa o dell'Economia e Finanze) e chiedere un risarcimento fino a duemila euro per ciascun anno. Qualora i cittadini italiani esperissero in massa tale rimedio, lo stato sarebbe costretto dal debito pubblico giudiziario che ne deriverebbe, a riformare il pianeta giustizia.

Questa legge però si scontra con due problemi.

Da un lato si segnala da parte della magistratura la non applicazione in toto della legge, a questo proposito va ricordato che la stessa Corte Europea con sentenza del 28/07/99, afferma che: "Le questioni inerenti il rispetto dei diritti dell'uomo dipendono da un attivo e consapevole coinvolgimento di tutte le componenti del sistema interno", mentre è il nostro stesso C. S. M. a tentare di sensibilizzare la magistratura verso le disposizioni della Convenzione, richiamando i capi degli uffici giudiziari al "dovere di vigilanza sull'andamento dei processi". Senza un'attiva collaborazione della magistratura è impossibile mutare la prassi della irragionevole lentezza processuale. Per questo motivo siamo stati sottoposti a monitoraggio da parte del comitato CEDU. I criteri di risarcimento di Strasburgo, non sono rispettati dai giudici nazionali. Con l'art. 5 della Legge 24 marzo 2001, n. 89, il legislatore ha stabilito che al versamento di ogni somma a titolo di indennizzo, per i danni causati al ricorrente dagli irragionevoli tempi processuali, è sottesa la possibilità, teorica e demandata all'attività del Procuratore Generale presso la Corte dei Conti, di individuare in modo preciso e specifico i singoli responsabili, individuabili nella figura del magistrato e di ogni altra autorità chiamata a concorrere al procedimento o comunque a contribuire alla sua definizione.

A conferma di questa possibilità, l'art. 5 della legge Pinto obbliga le adite Corti d'Appello a comunicare il decreto di accoglimento del ricorso al procuratore generale della Corte dei Conti, ai fini dell'eventuale avvio di un procedimento di responsabilità, nonchè ai titolari dell'azione disciplinare dei dipendenti pubblici comunque interessati dal procedimento.

A questo proposito, il gruppo Magistratura indipendente dell'Associazione Nazionale Magistrati, risponde esprimendo viva preoccupazione per l'entrata in vigore della Legge n. 89/2001, a causa del rischio per lo stato di dover pagare somme molto ingenti a titolo di risarcimento per la propria inefficienza , nonchè del lavoro extra e da sbrigare in tempi brevi, di cui saranno subissate le Corti D'appello, uscendo da queste situazioni con ulteriore discredito. In realtà il problema dell'eccessiva lunghezza dei processi coinvolge ,in Italia, la responsabilità dello Stato, prima che la responsabilità dei magistrati. A parte qualche caso, la responsabilità è dello stato ed oggettiva. La legge Pinto ha tentato, responsabilizzando anche ingiustamente e sempre i magistrati, di disincentivarli dal riconoscere risarcimenti equi, a causa della responsabilità correlata.

Il problema della responsabilità dei magistrati di ben sette gradi di giudizio/pronunce emerge chiaramente dal caso Morrone, dove c'è stata un'analisi sommaria per alcune prove, mentre altre sono state completamente ignorate. Ad esempio la legge sulla responsabilità dei magistrati non ha prodotto, ad eccezione di una recente pronuncia della Corte d'Appello di Genova, che condanna la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad euro 432.000, a favore di Fabio e Silvina Petroni per responsabilità dei magistrati, grandi risultati. Il referendum sulla responsabilità civile dei giudici è stato, di fatto, del tutto disatteso, per non parlare della responsabilità disciplinare. Con la tipizzazione degli illeciti, dalla riforma Castelli, si tenta di responsabilizzare l'organo giudicante.

In conclusione la responsabilità dei magistrati, a tutti i livelli civile, penale, disciplinare, deve costituire una delle principali garanzie del cittadino ad un processo equo, in virtù del principio "nemo super legem" e dell'autonomia della magistratura, ma financo della necessità di un controllo autentico ed effettivo dei controllori. In tal modo il principio di separazione dei poteri determinerebbe un riequilibrio dello strapotere di quello giudiziario.

Ultimo, ma non meno grave, è il problema che emerge dal caso di Domenico Morrone, che riguarda la vita dei detenuti all'interno degli istituti penitenziari, indegna di un paese che si definisce civile.

Anche qui sono i dati statistici che parlano. Al 31/12/2005 erano 59.523 i soggetti reclusi, contro la capienza complessiva di 41.470 detenuti. Attualmente perciò, nelle carceri italiane abbiamo più di 18.000 unità in più. Secondo la stessa statistica un detenuto su tre (37,33%) dice di vivere in condizioni di sovraffollamento intollerabili ed il 52,08% in condizioni non regolamentari, solo il 10,59% ritiene di vivere in condizioni regolamentari. A questo si aggiunga che la qualità della vita in cella è pessima: il 69,31% dei detenuti non ha l'acqua calda in cella, il 60% dorme a fianco del bidet o del water ed il 55,6% vive senza poter accedere ai colloqui in spazi aperti. Tali condizioni costituiscono una pena aggiuntiva a quella che già si sconta.

Il risarcimento del danno chiesto da Morrone, se e quando la sentenza di revisione sarà definitiva, considererà tutto quanto sopra ed oscillerà tra gli otto ed i dodici milioni di euro: c'è un danno esistenziale, biologico, morale e patrimoniale che è incalcolabile.

L'errore giudiziario ha tolto molto a Domenico Morrone: la giovinezza, il lavoro, la donna con cui si doveva sposare ,che per la vergogna lo ha lasciato; non ha potuto assistere la madre che malata, aveva bisogno di lui; oltre ad essere marchiato agli occhi della comunità con l'infamia di un duplice omicidio. Quindi la parte più consistente del risarcimento verterà sul danno biologico ed esistenziale.

La nozione di danno biologico è frutto di elaborazione giurisprudenziale, ma recentemente ha trovato significative conferme a livello legislativo con l'entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e della legge 57/2001 ed è costituito dalla compromissione, di natura reddituale, dell'integrità psicofisica della persona. Generalmente è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.

La Corte Costituzionale dalla sentenza 372/94 in poi, identifica il danno biologico in un processo patogeno che porta ad un trauma fisico o psichico permanente, accettabile da un punto di vista medico - legale. Esso si concreta in una lesione dell'integrità psico - fisica, che bene si presta ad accertamenti medico - legali e la quantificazione avviene sulla base di criteri tabellari.

Il danno esistenziale si pone su un piano diverso: si distingue dal danno morale perchè non consiste in uno stato di sofferenza momentanea, e dal danno biologico perchè non attiene al profilo dell'integrità psico - fisica del soggetto leso; così come si distingue chiaramente dal danno patrimoniale in quanto può sussistere a prescindere da qualsiasi compromissione del patrimonio.

Ricostruito in positivo, esso consiste nel danno legato al peggioramento della qualità della vita derivante dalla lesione di un diritto fondamentale della persona costituzionalmente garantito. A tal proposito va evidenziato che Domenico Morrone, prima dell'arresto, stava per formarsi una famiglia e svolgeva l'attività di pescatore, con numerosi progetti per il futuro. Oggi si ritrova senza una moglie, la possibilità di avere figli e disoccupato, senza aver maturato i contributi per fini pensionistici.

Con la sentenza n. 2050 del 22 gennaio 2004, la Suprema Corte di Cassazione ha riconosciuto la risarcibilità di danni patrimoniali e non patrimoniali ad un cittadino ingiustamente condannato per errore giudiziario, con una scarcerazione superiore ai sette anni. Essa ha precisato che "Il danno esistenziale è cosa diversa dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o psichica, nè una compromissione della salute della persona , ma si riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito.

Il danno esistenziale sta vivendo un fortunato sviluppo in seguito alle note sentenze gemelle della Suprema Corte n. 8827/2003 e 8828/2003 ed alla pronuncia del Giudice delle leggi, dove è stato definito come un danno a valori della persona, diversi dalla salute.

Esso sarebbe una categoria risarcitoria dove far convergere tutti i diritti costituzionalmente garantiti attinenti alla persona umana, in quanto nascerebbe da una lettura combinata dell'art. 2059 c.c. con i principi della stessa Costituzione; la stessa giurisprudenza penale, poi, sarebbe del medesimo avviso, tanto che ha ritenuto di considerare il danno da ingiusta detenzione come un danno esistenziale perchè, appunto, vi sarebbe stato un danno lesivo di un diritto costituzionale come la libertà personale, tenendo presente anche che la suddetta tipologia di danno si riferisce agli sconvolgimenti delle abitudini di vita e delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito.

La dottrina che si è occupata dell'argomento, ha avuto modo di precisare che, in fondo, il danno esistenziale sarebbe un "non fare", o meglio un "non poter più fare", un "dover agire altrimenti", un "relazionarsi in altro modo", diversamente dal danno morale che riguarderebbe un "sentire": il danno esistenziale, pertanto, riguarderebbe proprio le attività realizzatrici della persona umana, per cui ogni illecita compressione ovvero limitazione ne dovrebbe imporre il risarcimento, soprattutto alla luce dell'art. 2 Cost.

Se la Costituzione garantisce taluni diritti a livello "esistenziale", è necessario trovare un riscontro applicativo nel codice civile, nell'ambito delle responsabilità, al fine di non individuare un vulnus nella stessa Carta Fondamentale, riducendola a mero dato letterale e astratto; in questa prospettiva di interpretazione concreta, allora, il riscontro applicativo sarebbe individuabile nell'art. 2059 c.c.

A differenza del biologico, tale voce di danno sussiste indipendentemente da una lesione fisica o psichica suscettibile di accertamento e valutazione medico legale; rispetto al morale, inteso come transeunte turbamento dello stato d'animo della vittima, non consiste in una sofferenza od in un dolore, ma nella rinuncia ad una attività concreta; diversamente dal patrimoniale, prescinde da una diminuzione della capacità reddituale.

Per inciso, l'esigenza sottesa alla creazione del danno esistenziale non era certo cosa nuova.

Secondo un calcolo compiuto dall'istituto di ricerca Eurispes1 nell'arco degli ultimi cinquant'anni sarebbero 4 milioni gli italiani vittime di svariati errori giudiziari ed ingiuste detenzioni, dichiarati colpevoli, arrestati e solo dopo un tempo più o meno lungo, rilasciati perchè innocenti. Un dato che al ministero di Giustizia non confermano, e che è stato ricavato da un'analisi delle sentenze e delle scarcerazioni per ingiusta detenzione nel corso di cinque decenni.

Dal '92 c'è la possibilità per gli innocenti ritenuti colpevoli e poi rimessi in libertà, di chiedere e ottenere un risarcimento per in giusta detenzione. Negli ultimi anni, rivela il rapporto Eurispes, basato sulle cifre fornite dal ministero del Tesoro, i casi di indennizzi concessi sono in continuo aumento: erano 197 nel '92, 360 nel '93, 476 nel '94. Fino ai 738 del '99 e ai 1.263 del 2000. Nel '99 i risarcimenti hanno superato i 14 miliardi di vecchie lire, quasi il triplo rispetto al '92.

Da tutto ciò non può che derivare una sempre più pressante necessità di riforma del pianeta giustizia, perchè non vi siano altri Domenico Morrone che debbano rischiare di morire colpevoli benchè innocenti. Avv. Clauio Defilippi

L’errore giudiziario più assurdo d’Italia: dopo più di 30 anni Domenico Morrone racconta la sua storia. Sette processi. E oltre 15 anni in cella per un reato mai commesso. Con un solo giornalista a credere alla sua innocenza. A oltre 30 anni dall’arresto, Domenico Morrone racconta la sua storia. Ma il suo non è un caso isolato. Ogni anno sono quasi 1.000 e costano allo Stato decine di milioni di euro. Gaetano de Monte l'11 Febbraio 2023 su tpi.it.

Taranto, gennaio 1991. Nel quartiere Tamburi che oggi è diventato agli occhi dell’opinione pubblica italiana il simbolo della devastazione ambientale per la sua prossimità allo stabilimento dell’ex Ilva, a cavallo tra gli anni ’80 e ’90, imperversa una cruenta guerra di mala che lascia sul campo, in soli due anni, tra l’89 e il ’91, oltre un centinaio di morti. 

Nella città dei due mari in quegli anni si fronteggiano, contendendosi il territorio, due clan: i De Vitis-D’Oronzo e un altro gruppo di fuoco che fa capo ai fratelli Claudio, Gianfranco e Riccardo Modeo. Un quarto fratello, Tonino, detto il Messicano negli ambienti della mala jonica per una vaga somiglianza all’attore Charles Bronson, è invece dall’altra parte. E per questo verrà ucciso proprio dai fratellastri. Stesso destino i fratelli Modeo riserveranno alla loro comune madre, Cosima Ceci, freddata sul pianerottolo di casa da un killer che si fa aprire la porta chiamandola “Zia Mina”, e che la donna considera, appunto, quasi un nipote acquisito.

Città criminali

È in questo contesto spaventosamente criminale che il 30 gennaio del 1991, nel cortile della scuola media del quartiere che è adiacente allo stabilimento siderurgico più grande d’Europa, l’ex Ilva, allora Italsider, e di proprietà pubblica, che due adolescenti cresciuti troppo in fretta, Antonio Sebastio e Giovanni Battista, 15 e 17 anni, vengono uccisi da un killer vestito di nero che, dopo averli chiamati per nome, gli scarica addosso l’intero caricatore di una pistola calibro 22. 

Manca qualche minuto alle 14:00 quando quel duplice omicidio viene commesso e, esattamente 20 minuti dopo, la vita di un altro abitante del quartiere, Domenico Morrone, verrà stravolta per sempre. Domenico è un pescatore incensurato di 27 anni a cui nel quartiere Tamburi vogliono bene tutti. Quando può aiuta i vicini di casa a risolvere piccoli problemi domestici. Nei minuti in cui si consumava quell’omicidio, a pochi metri da casa sua, Domenico stava aiutando una coppia di abitanti del palazzo dove abitava, a sistemare il loro acquario. E poi, subito dopo si siederà a tavola per pranzare con l’anziana madre, come faceva ogni giorno. Quel pomeriggio del 31 gennaio del 1991, però, la routine di casa Morrone verrà sconvolta dall’arrivo nell’abitazione di un poliziotto in borghese della squadra mobile di Taranto. Il detective bussa alla porta, si fa aprire, e, dopo qualche minuto di conversazione, Domenico Morrone verrà portato in commissariato. Da lì comincerà la sua odissea, durata quindici anni, quattro mesi e ventidue giorni. Ecco l’ingiusta detenzione subita da un pescatore incensurato di 27 anni.

È l’errore giudiziario più grande d’Italia. E ora la sua storia è diventata un libro, “Vita Dentro 15.4.22”, uscito il 25 gennaio scorso per la casa editrice Antonio Mandese. Un racconto firmato a quattro mani, insieme all’unico giornalista che aveva creduto all’innocenza di Morrone, Luigi Monfredi, allora caporedattore di una tv locale, Telenorba, trent’anni dopo caporedattore a Rainews24. 

Quando Monfredi vede scorrere la notizia dell’assoluzione dell’uomo dopo 15 anni di ingiusta detenzione, mentre si trova nella redazione romana, fa un balzo dalla sedia. E decide di riannodare i fili del racconto lì dove si era interrotto. «Questo non è un libro di finzione letteraria che dipinge una storia immaginandola, ma il duro resoconto della vita di un uomo che incontra un altro uomo e lo aiuta a rialzarsi dopo una caduta», sostiene Monfredi. «Questa è la storia vera di un grande dolore che può e deve essere narrata dalla voce contrita dei protagonisti e senza filtri o abbellimenti. Ma questa è anche la storia di una grande amicizia dentro la quale si trovano tutti gli elementi straordinari e ricorrenti delle grandi amicizie che nascono tra persone che vivono e provengono da mondi diversi, eppure s’incontrano».

Ma, soprattutto, questo è il racconto di un calvario giudiziario che attraversa sette processi prima che Morrone potrà dimostrare la sua estraneità da una accusa infamante: quella di aver perso la testa ed aver ucciso due ragazzini con cui aveva litigato perché trafficavano motorini rubati davanti al portone della sua abitazione. Per quel litigio Morrone verrà anche ferito con un colpo alla gamba. Secondo il pubblico ministero dell’epoca, Vincenzo Petrocelli, sarebbe stato questo il movente che avrebbe spinto un pescatore incensurato di 27 anni ad armarsi e uccidere. Le indagini provano anche a collegarlo ai clan, alla guerra di mala che allora imperversa nelle strade di Taranto. In carcere gli chiedono: «A chi appartieni?». «A mamma e papà», risponde ingenuamente. 

Domenico Morrone non è un assassino, ne sono convinti in molti, ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede, fino a quando due pentiti non fanno il nome del vero colpevole. Ma intanto sono già passati tredici anni. È il 2004 quando inizia il processo di revisione davanti alla Corte d’appello di Lecce durante il quale due pentiti, Alessandro Blè e Saverio Martinese, ammettono che con quegli omicidi quell’uomo non c’entra nulla. «Il vero colpevole è il figlio malavitoso di una donna che da quei ragazzini aveva subito uno scippo. Ce l’ha detto lui», dicono. Così, nel 2006, a 15 anni, 4 mesi e 22 giorni dal suo arresto avvenuto davanti alla madre il 30 gennaio del 1991, viene scarcerato. E sarà risarcito con quattro milioni di euro. Ottocento euro per ogni giorno di carcere. Questo per lo Stato italiano è il prezzo di una ingiustizia subita.

Ingiusta detenzione

«Ogni magistrato, prima di condannare qualcuno, dovrebbe vivere per una settimana in carcere», ha dichiarato qualche tempo fa durante la trasmissione televisiva “Mezz’ora in più” condotta da Lucia Annunziata, Gherardo Colombo, uno dei più apprezzati magistrati italiani, commentando i dati sulle vittime di ingiusta detenzione e di errori giudiziari che in trent’anni, dal 1991 agli inizi del 2021 hanno coinvolto quasi 30mila persone. Per una spesa complessiva per lo Stato, tra indennizzi e risarcimenti veri e propri di 869.754.850 milioni di euro, 28 milioni e 990mila euro l’anno.

Non ci sono solo gli errori, però, a caratterizzare le criticità che oggi affliggono il sistema giudiziario e detentivo italiano. C’è l’abuso dei tempi di custodia cautelare. «È vero, in Italia si abusa della custodia cautelare, spesso al di fuori del dettame costituzionale degli articoli 13 e 27 della nostra Carta fondamentale, quelli che parlano dell’inviolabilità della libertà personale e della non colpevolezza fino a sentenza definitiva», riconobbe pubblicamente lo stesso Colombo. 

Secondo quanto ha riferito l’Osservatorio Carcere dell’Unione delle Camere Penali italiane: «l’Italia è il quinto Paese in Europa per tasso di detenuti in custodia cautelare». Un detenuto ogni tre, dunque, attende il processo privato della libertà, nella maggior parte dei casi in carcere. E, come testimonia peraltro l’ultima relazione annuale del ministero della Giustizia sulle misure cautelari, tale scelta risulta ingiusta una volta su 10. Sono circa 1.000 persone l’anno, 3 al giorno, dunque, tenendo conto solo di coloro che hanno chiesto il risarcimento, le persone recluse ingiustamente. Come Domenico Morrone, che però detiene il record, 15 anni, quattro mesi e ventidue giorni, dentro, da innocente.

Domenico Morrone, quindici anni in carcere da innocente: «Ecco il mio calvario». ENZO FERRARI, Direttore di Tarantobuonasera.it il 2 febbraio 2023.

MARINA DI GINOSA - Il risentimento glielo si legge ancora negli occhi. Guizzano di rabbia quando ricorda la sua disavventura giudiziaria: quindici anni in cella con l’accusa di aver ammazzato due ragazzi. Trattenuto in carcere per anni anche dopo essere stato scagionato da diversi collaboratori di giustizia. Poi, al termine di un lungo e tortuoso percorso giudiziario, il riconoscimento della sua innocenza. Domenico Morrone non aveva commesso il fatto, non era stato lui ad uccidere due adolescenti, uno di quindici e l’altro di diciassette anni. Rione Tamburi, 30 gennaio 1991: è lì che si consuma il duplice delitto, davanti alla scuola Deledda. Erano anni di fuoco e piombo, quelli. Taranto insanguinata dalla guerra tra i clan: i fratelli Modeo, da una parte; l’altro fratello, il Messicano, dall’altra. Altri gruppi, a latere, componevano il mosaico delle alleanze criminali. Morrone viene arrestato in men che non si dica: è la risposta forte di uno Stato in grande affanno nel contenere quella violenta faida che seppellirà oltre un centinaio di vite; alcune innocenti, del tutto estranee a quella brutale scia assassina. «Quel pomeriggio - racconta - ero a tavola a pranzare con mia madre. Bussarono alla porta e vennero a prendermi per portarmi in questura. Da lì al carcere. Quindici anni in cella». Un calvario, un tormento esistenziale, una fetta della propria vita strappata via per non aver commesso nulla: «Avevo 27 anni». Oggi Domenico Morrone la sua tragica storia l’ha raccontata in un libro (Vita dentro, 15-4- 22, Antonio Mandese Editore) scritto a quattro mani con Luigi Monfredi, il giornalista oggi alla Rai che in quegli anni maledetti seguì il caso come cronista di Telenorba. «Voglio che venga riconosciuta la responsabilità civile dei magistrati», tuona Morrone nella sua casa in campagna, a Marina di Ginosa, dove si è ritirato a vivere dopo aver riacquistato la libertà, nel 2006. Stride quel sentimento gonfio di rancore nella quiete di quel pezzo di terra abbracciato dagli ulivi ai quali Morrone ora dedica le sue giornate. «Io - racconta - a Ginosa Marina ci sono nato. Mio padre era di Taranto, ma era perseguitato dai fascisti. Era comunista, antifascista, e venne a rifugiarsi qui, insieme ad altre famiglie. Tra contadini si viveva scambiandosi i prodotti della propria terra. Poi mio padre mise su un piccolo villaggio vicino al mare. Tutto bello fino agli anni ’70, quando l’ambiente cominciò a guastarsi. La camorra cominciava a infiltrarsi da queste parti, dall’altra ci fu espropriato tutto e quel villaggio fu raso al suolo. Fummo letteralmente deportati a Ginosa paese. Fu un atto di barbarie. Ricordo che il nostro cane, Leone, fu schiacciato da una ruspa. Da Ginosa, in seguito, ci trasferimmo a Taranto». Nella città dei Due Mari una vita da pescatore, dopo una breve esperienza come paracadutista nella Folgore: «Mi arruolai nel 1984, un anno dopo mi congedai. Avevo fatto domanda anche nei Carabinieri, mi chiamarono ma rifiutai». Non immaginava, Morrone, che da lì a qualche anno per lui si sarebbero aperte drammaticamente le porte del carcere di via Speziale. «Sezione 1A, cella 3, in isolamento. Furono momenti terribili. I detenuti del piano superiore mi invitavano provocatoriamente a salire da loro. Per assurdo mi consideravano affiliato al clan De Vitis, loro nemico. Eravamo ancora negli anni della guerra di mala. Se appena appena salutavi qualcuno del clan avverso rischiavi di essere ammazzato». Le lunghe giornate trascorse in cella, non proprio un soggiorno in hotel: «Le celle erano sporche, i materassi lerci. Da mangiare ci davano mortadella di cavallo. A colazione qualcosa che aveva il colore del latte. Un’ora d’aria la mattina e una la sera. È dura la vita del carcere, in quindici anni ho contato diciannove suicidi». Poi accade che via Speziale cambia nome e non per un capriccio della toponomastica: diventa via Carmelo Magli, l’agente di polizia penitenziaria assassinato dai clan all’uscita del suo turno di lavoro. «Era buono come il pane», ricorda Morrone. Qualche giorno prima di essere ucciso era stato proprio nella mia sezione». Ma quell’episodio segna un’altra esperienza nella sua vita carceraria: «Fui avvicinato dal cappellano, voleva sapere da me se io sapessi chi fossero gli assassini di Magli. Da allora non sono più andato in chiesa». E in carcere non deve essere semplice trovare un equilibrio nel rapporto con gli altri detenuti: «È come il porto: trovi il pesce buono e quello cattivo. Tocca a te decidere con chi stare». Morrone comunque è un detenuto modello. Prima il trasferimento in cucina, dove scopre di essere un cuoco sopraffino, poi al casellario per fare lavoro impiegatizio. Tra le persone speciali che conosce, c’è suor Celestina: «Una sorella carica di umanità. Una volta rimproverò bruscamente una autorità che mi aveva dato già per “sepolto”». «I momenti più malinconici? I giorni di festa. A Capodanno sentivamo i botti che arrivavano dalla città e dalla finestra, attraverso le sbarre, vedevamo i fuochi in cielo. Ecco, pensavo, è passato un altro anno. Da quella stessa finestra seguivo con lo sguardo mia madre quando, dopo i momenti di colloquio, si allontanava verso la fermata del pullman. Seppi solo molto dopo il mio arresto che aveva subito anche lei ripercussioni per quella vicenda. È vissuta giusto il tempo di vedermi tornare a casa da uomo libero». Da uomo libero, appunto. «Oggi vivo alla giornata, sono passati gli anni in cui si facevano progetti, oggi i progetti non si fanno più. Vivo con i miei 137 alberi di ulivo e ho ancora l’attrezzatura da sub per andare a pesca. Adesso ho 59 anni, ma la mia vita è stata distrutta quando di anni ne avevo 27. Non si cercava la verità, ma un capro espiatorio. L’errore è sempre dietro la porta, ma nei miei confronti si scatenò una crociata personale. Ho persino rischiato di essere coinvolto in una guerra tra clan a cui ero completamente estraneo. Il 30 gennaio ho compiuto l’anniversario di quella assurda ingiustizia. Sì, sono stato risarcito, ma gran parte dei soldi li ho spesi per pagarmi gli avvocati. Non potrò riacquistare serenità fino a quando ci sarà una sola persona che subirà una ingiustizia come quella che ho subìto io». Il congedo dal cronista è lancinante: «Hai visto un martire vivente». Enzo Ferrari Direttore responsabile  

«La giustizia prima o poi arriva»

«Quando lessi il lancio Ansa sul pescatore tornato in libertà cominciai a saltare per la gioia. Tutti si chiedevano perché. Allora ero nella redazione del Tg1. Arrivò il capo della cronaca, gli raccontai la storia di Domenico Morrone e mi fece fare il pezzo per il tg delle 20. Lo montammo con le immagini dell’epoca, perché il caso volle che l’unica videocassetta che mi ero portato dietro fosse proprio quella con i servizi su Morrone che avevo realizzato per Telenorba». Luigi Monfredi, oggi capo redattore a Rainews 24, la storia di Domenico Morrone l’ha seguita dal principio e oggi ha dato alle stampe il libro che ricostruisce quella sconcertante vicenda. La memoria ritorna a quegli anni bui in cui Taranto era devastata da una guerra di mala senza precedenti: «Ero l’unico giornalista innocentista.Sulla stampa Morrone era presentato, senza possibilità di appello, come l’assassino di due ragazzi. All’epoca facevo il cronista di nera e giudiziaria e mi resi conto che c’erano cose che non tornavano in quella vicenda: non c’era l’arma del delitto, c’erano testimoni che avevano ritrattato, la prova dello stubb ripetuta dopo mesi, erano spariti gli indumenti dall’Ufficio Corpi di Reato. Nel processo un testimone arrivò persino ad accusare il pubblico ministero di averlo subornato. Insomma, troppe cose non quadravano e io non ho fatto altro che coltivare il dubbio». Con Morrone, solo un fugace contatto diretto: «Sì, lo conobbi personalmente il giorno della sentenza di condanna a 21 anni di carcere. Mi avvicinai alla gabbia dove era rinchiuso, gli diedi la mano e gli dissi “In bocca al lupo». Lui mi rispose: “Monfredi, non sono stato io”». Luigi Monfredi e Domenico Morrone si sono rivisti quindici anni dopo, a conclusione del calvario vissuto da una persona che la giustizia ha riconosciuto con così grave ritardo di essere innocente. «Tante cose in quel processo mi avevano lasciato perplesso. Anni dopo, quando Morrone era tornato libero, riuscii a strappare una dichiarazione di 34” al pm che ne aveva chiesto la condanna. Mi disse che era dispiaciuto, ma che aveva agito in base agli atti che aveva a disposizione». Sfiducia nella giustizia? «No, affatto. La giustizia, in fondo, ha dimostrato di esistere. Certo, cammina sulle gambe degli uomini e prima o poi arriva chi rimette le cose a posto. Tardi, ma arriva». E.F.    

Vita dentro 15.4.22, 15 anni, 4 mesi e 22 giorni in carcere da innocente. Storia di un clamoroso errore giudiziario di Sabrina Colombo

Vita dentro 15.4.22

Autore: Luigi Monfredi, Domenico Morrone

Editore: Antonio Mandese

Anno edizione: 2023

Genere: Biografia

Pagine: 123

Consigliato a chi segue la cronaca giudiziaria, a chi è sensibile alle problematiche legate all’amministrazione della giustizia in sede penale.

Taranto, quartiere Tamburi. Domenico Morrone, ex paracadutista della Folgore e pescatore dalla condotta irreprensibile, ha 27 anni quando nel 1991 viene accusato ingiustamente di essere l’assassino a sangue freddo di due ragazzini.

Sono anni difficili per la città, diverse bande criminali si contendono il territorio: gli inquirenti, pressati dall’opinione pubblica, cercano un colpevole che soddisfi la sete di sicurezza che hanno i tarantini e indirizzano le indagini a senso unico su Domenico. I vicini che testimoniano a suo favore non vengono creduti, si dà credito alle dichiarazioni di alcuni giovani che parrebbero averlo riconosciuto sul luogo del delitto. I riscontri sono discordanti, la prova dello Stub dà esito negativo, l’arma da fuoco non viene mai trovata ma – nonostante tutto – Domenico viene prima incarcerato in via preventiva, poi condannato per omicidio.

Luigi Monfredi – oggi giornalista Rai e all’epoca dei fatti giovane cronista di Telenorba – segue il caso, si avvede che le indagini fanno acqua e che le sentenze che si succedono si fondano su risultanze assolutamente discutibili: gli stessi sedicenti testimoni arrivano ad ammettere di essere stati subornati dagli inquirenti e ritrattano le iniziali dichiarazioni.

L’inaccettabile imperizia con cui tutta la sequela giudiziaria viene istruita – tuttavia – conduce a una pena definitiva a 21 anni di reclusione: le porte del carcere si spalancano per Domenico Morrone, che inizia il suo percorso nel mondo degli istituti di detenzione con lo sguardo attonito di chi si sente protagonista di un dramma kafkiano, un incubo da cui non ci si sveglia.

Quando due pentiti riferiranno di conoscere il vero colpevole del gesto criminoso, finalmente il caso giungerà a una svolta e si creeranno i presupposti per accogliere l’istanza di revisione, la quinta presentata dalla difesa.

La Corte di appello di Lecce nel 2006 revocherà la condanna assolvendo Morrone dai fatti ascrittigli con la più ampia formula, “per non aver commesso il fatto”.

Una giustizia a metà quella riconosciuta a Morrone che – pur risarcito per l’ingiusta detenzione – ha visto respingere la sua domanda di condanna dei magistrati che illo tempore lo giudicarono colpevole, ritenuti non responsabili ai sensi della vigente normativa: un nonsense giuridico.

L’idea del libro nasce dall’amicizia, rinsaldatasi dopo la scarcerazione, tra Morrone e Luigi Monfredi, unico innocentista, a suo tempo autore di un servizio andato in onda su Telenorba in cui metteva in dubbio le risultanze e smontava punto per punto il castello accusatorio costruito attorno all’indagato.

Al resoconto giornalistico di Monfredi, si alternano le memorie di Morrone: la vita in carcere, il racconto della solitudine provata, dei momenti di nera disperazione superati volgendo il pensiero alla madre, il conforto della fede, il ricordo dell’amicizia nata con alcuni compagni, il rispetto guadagnato all’interno della struttura carceraria tra i funzionari e gli stessi agenti di polizia penitenziaria, la voglia di rinascita, la forza di mettersi a studiare il codice penale, l’incontro con alcuni legali e attivisti della Fondazione Enzo Tortora, impegnati a porre all’attenzione del pubblico il tema della denegata giustizia.

Vita dentro 15.4.22 – 15 anni, 4 mesi e 22 giorni, tanto è il tempo del suo calvario – è un piccolo pamphlet che mette il focus sul tema dell’errore giudiziario e che costituisce un contributo al dibattito in corso in ordine all’uso distorto della carcerazione preventiva, all’urgenza di migliorare e attualizzare la legislazione sulla responsabilità civile dei magistrati, all’opportunità o meno di implementare gli strumenti premiali in favore dei detenuti capaci di mantenere una buona condotta.

Il tutto in quell’ottica rieducativa, come sancita dalla costituzione, secondo il modello del cosiddetto doppio binario, che vorrebbe finalizzare la pena della privazione del bene della libertà non solo all’emenda del reo ma – soprattutto – al suo pieno recupero sociale.

Il libro in una citazione

«Non penso più al futuro, non mi appartiene più, mi è stato rubato, vivo alla giornata, così come viene, potranno risarcirmi ma non potranno restituirmi tutto quello che ho perso.» 2 marzo 2023

Un nuovo libro sulla storia di Domenico Morrone detenuto innocente per 15 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Agosto 2023

Morrone durante il processo portò in aule due testimoni che confermarono il suo alibi, ma entrambi vennero denunciati per falsa testimonianza. I giudici infatti scelsero di non tenere in considerazione

Presentato a Taranto il libro “Vita Dentro 15.4.22”, scritto “a quattro mani” dal giornalista Luigi Monfredi e da Domenico Morrone, pubblicato dall’ editore Librerie Mandese. Il risultato letterario è un racconto consigliato per chi segue la cronaca giudiziaria, e le tematiche della amministrazione della giustizia, soprattutto in questa epoca di giustizialismo e colpevolismo che si propaga anche attraverso i social: “Non penso più al futuro, non mi appartiene più, mi è stato rubato, vivo alla giornata, così come viene, potranno risarcirmi ma non potranno restituirmi tutto quello che ho perso”” ha detto Domenico Morrone.

il giornalista Luigi Monfredi

Il libro è la continuazione della storia di Domenico Morrone, raccontata nel libro precedente “Il Rumore Delle Chiavi “ pubblicato nel 2020, che narra del clamoroso errore giudiziario che ha visto Morrone ingiustamente detenuto per oltre quindici anni, dal 1991 al 2006, per una accusa di duplice omicidio sostenuta dal pm Vincenzo Petrocelli della procura di Taranto, per la quale successivamente Morrone è stato ritenuto innocente. Domenico Morrone venne accusato di aver ucciso due studenti di scuola media solo per vendicarsi di un litigio. Quel giorno lui era altrove, ma il suo alibi non è stato creduto. Così Morrone è diventato il protagonista di uno dei più gravi errori giudiziari italiani, trascorrendo ingiustamente 5.475 giorni di detenzione, 15 anni in carcere da innocente.

All’epoca dell’arresto, Morrone era incensurato ed è un pescatore di Taranto dalla fedina impeccabile. Il giorno del suo arresto non perse tuttavia solo la propria libertà e dignità, ma anche la fidanzata, mentre sua madre venne ridotta in povertà in quanto riusciva a sostenersi solo grazie al lavoro di pescatore del figlio e in sua assenza non era più in grado di poter condurre una vita normale e stabile.

L’unica colpa di Morrone era stata quella di aver litigato con un ragazzino che è stato poi ucciso. Contro di lui c’è un movente fortissimo: si sarebbe vendicato dell’agguato subito, quindi viene arrestato. Testimoni oculari, un esame dello stub dall’esito incerto e un movente fortissimo: questi sono gli elementi che lo portano in cella. Morrone durante il processo portò in aule due testimoni che confermarono il suo alibi, ma entrambi vennero denunciati per falsa testimonianza. I giudici infatti scelsero di non tenere in considerazione l’alibi di Morrone, confermato dai vicini di casa Masone, dalla madre e da un amico appuntato.

La vicenda giudiziaria si tinte di giallo allorquando dall’ufficio corpi di reato sparirono delle prove che lo scagionano. Nei 15 anni di carcere Morrone ha però conosciuto l’umanità di guardie e operatori carcerari. Dopo nove anni dietro le sbarre ottenne un permesso di tre giorni che decise di trascorrere con sua madre.Per i suoi 15 anni trascorsi in carcere da innocente ha ricevuto 4 milioni di euro di risarcimento. A tal proposito aveva dichiarato: “La libertà di ogni singolo giorno della nostra vita non ha prezzo“.

Mentre nel primo libro i fari erano puntati sulle indagini e sul processo, in questa seconda opera è centrale la vita di Morrone “prigioniero“, del carcere con tutti i passaggi, i rapporti e le abitudini che contraddistinguono la vita dei detenuti: “All’interno del carcere” dice Morrone “c’è una ‘regola’ a cui devi attenerti, diversa e lontana da quella della società civile”

Il libro attraversa nuovamente l’epopea di Morrone, un uomo che urlava la propria innocenza alle pareti di celle in cui tutti capivano che non era colpevole, questa volta con una maggiore attenzione anche al fatto “dall’esterno”, a partire dalla serie di “incongruenze” dietro all’accusa, passando per le inconsistenti analisi delle prove e delle parole dei pentiti.

Il punto focale del racconto diventa quindi Morrone ora non più persona, ma ora numero nelle ganasce della macchina della giustizia che necessita di colpevoli da castigare, dei suoi sogni e delle sue speranze nella giustizia, che il giornalista tarantino Luigi Monfredi, attuale caporedattore di RAINEWS24 ha trasformato nella storia di un essere umano, cercando la verità e la redenzione di una vita altrimenti perduta attraverso anche gli archivi raccolti all’epoca dallo stesso Monfredi, al tempo giornalista di Telenorba, e sin da subito unico garantista dichiarato, e quindi “innocentista” al contrario della stampa locale di quel periodo, compre sempre schierata sulle teorie accusatorie della Procura.

Un esempio chiave del racconto, e di grande efficacia narrativa, è la storia dei gettoni del telefono, collezionati da Morrone in previsione del suo primo permesso d’uscita, ad ormai quasi dieci anni dalla sua condanna, e la sorpresa nell’incontrare il telefono che richiedeva una scheda per chiamare, e ad oggi per lui come per tutti noi obsoleto, emblema della libertà e del tempo di vita sottrattogli ingiustamente fino, finalmente, al crollo del muro di gomma nel 2002, alla accettazione della richiesta di revisione e la conseguente assoluzione dell’ormai non più giovante tarantino, innocente con la formula “per non aver commesso il fatto“.

Sette processi e 15 anni di carcere prima di essere dichiarato innocente. Domenico Morrone non è un assassino, è incensurato e ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede. Sette processi e 15 anni di carcere: la sua storia. SIMONA MUSCO su Il Dubbio il 27 agosto 2021

Quindici lunghi anni in carcere. Ovvero 5475 giorni dentro una cella malconcia, senz’acqua e senza dignità, per uno scambio di persona. O forse peggio, per una macchinazione o per superficialità. Domenico Morrone non è un assassino, è incensurato e ha pure un alibi. Ma nessuno gli crede, fino a quando due pentiti non fanno il nome del vero colpevole. Ci vorranno sette processi prima che quell’uomo, che ormai ha perso tutto, possa dimostrare la sua innocenza. Un’innocenza sempre proclamata, urlata, sbandierata ma mai creduta.

La storia di un pescatore

La sua vita cambia il 30 gennaio 1991. Domenico è un pescatore, viene da una famiglia onesta, ha una fidanzata. Una vita normale, insomma. La sua fedina penale è immacolata. Ma all’improvviso viene macchiata da un’accusa terribile: aver ucciso due ragazzini, due minorenni. Trucidati davanti alla scuola media Grazia Deledda di Taranto. Sono le 13.50 di quel giorno di 29 anni fa quando un sicario spara diversi colpi con una pistola calibro 22 contro due studenti, Antonio Sebastio (15 anni) e suo fratello Giovanni Battista (17 anni). I proiettili volano in mezzo alla gente, i due ragazzi rimangono a terra senza vita mentre tutti intorno scappano in preda al panico. Una scena orribile. Poche ore dopo la squadra mobile ha già una pista: si presenta a casa di Morrone, su ordine del Pm del Tribunale di Taranto, Vincenzo Petrocelli. Cerca delle armi, ma non ci sono, e così i poliziotti trascinano l’uomo fino in Questura e poi, a sera, nel carcere di Taranto. Domenico non capisce nulla.

Gli dicono che in base agli indizi raccolti da polizia e carabinieri è quasi sicuramente colpevole, anche se lui non sa nemmeno di cosa si stia parlando. Così, poche ore dopo i fatti, viene sottoposto a fermo per duplice omicidio, detenzione e porto illegale di arma da fuoco e munizioni e spari in luogo pubblico. Lo incastra la testimonianza di alcune persone, ragazzini, per lo più. Morrone scuote la testa, spiega che non c’entra nulla. Che è tutto un clamoroso errore.

Le accuse contro Domenico Morrone

Secondo l’accusa, Morrone avrebbe perso la testa per un litigio avuto una ventina di giorni prima con quei ragazzetti, che trafficavano pezzi di motorini rubati davanti al portone. Eppure dopo il litigio qualcuno ferisce Domenico alle gambe. Qualche giorno dopo, secondo una testimonianza poi ritrattata, avrebbe minacciato i due ragazzini, ritenendoli responsabili di quel ferimento. E tanto basta, secondo la procura, a spingere un uomo di 27 anni innamorato del mare ad armarsi e uccidere. Provano a collegarlo ai clan, ma lui non sa cosa significhi quella domanda, “a chi appartieni”. «A mamma e papà», dice ingenuamente. Urla di essere incensurato, «ma non è una carta di credito», contesta il pm. In tempo record la notizia finisce in tv: l’assassino della scuola è stato acchiappato. Viene sbattuto in isolamento per due mesi, con il divieto di parlare con i suoi difensori e la madre. Ci rimane con i vestiti intrisi di salsedine che aveva al momento dell’arresto, che riesce a cambiare solo dopo una settimana e che prova a lavare da solo, tra quelle quattro mura, con una saponetta. Ma quello è solo l’inizio di un calvario lungo 15 anni, 2 mesi e 22 giorni.

I processi

Al processo, Morrone spiega il suo alibi: al momento del delitto non era davanti alla scuola, ma nell’appartamento di alcuni vicini di casa ai quali stava riparando un acquario. Lo confermano i coniugi e la madre di Domenico, che quel giorno incontra anche un appuntato dei Carabinieri all’angolo di una salumeria. Per i giudici è tutta un’invenzione: è impensabile, sostengono, che all’ora di pranzo qualcuno ripari un acquario. E così sia i vicini sia la madre di Morrone vengono condannati per falsa testimonianza. Per i giudici, il duplice omicida è lui e basta. Ma in quell’aula i fatti prendono pieghe strane. A Morrone, una volta arrivato in Questura, viene eseguito lo stub. Un esame di rito che in un primo momento conforta la speranza dell’uomo di affermare la propria innocenza.

Sulla mano sinistra vengono rintracciate due piccole particelle di piombo ed ammonio, sostanze che avrebbe potuto trovare quasi ovunque. Così nell’immediatezza viene annotato che quelle mani, quel giorno, non hanno impugnato un’arma. Ma un anno dopo viene effettuata una nuova perizia e il risultato è sconvolgente: Morrone ha sparato con tutte e due le mani e oltre al piombo e all’antimonio viene individuato anche il bario, che fornisce la prova dello sparo. Ma c’è di più: gli abiti di Domenico che quel giorno indossa jeans e camicia col colletto marrone - spariscono dalla cancelleria del Tribunale dopo esser stati visionati dai testimoni oculari e che non li riconoscono come gli abiti usati dal killer, che invece sono neri. Nemmeno l’identikit corrisponde a quello di Morrone: chi ha sparato è quasi calvo ed alto, mentre lui, anche oggi, ha ancora tutti i capelli ed è poco più di un metro e sessanta. Quanto al mezzo, l’assassino spara da un’auto nera, Domenico ne ha una bianca, parcheggiata in garage perché con le ruote a terra e malconcia.

La procura non gli crede

Ma tutti questi elementi non bastano. Per la procura le prove sono granitiche, anche se Domenico, leggendo le carte, capisce che le cose non tornano. I testi che lo accusano, due ragazzini, sembrano poco credibili. Dicono di averlo indicato come il colpevole forse in un momento di confusione e ritrattano tutto. Morrone si convince di poter essere assolto. Ma a fine ‘ 91, con già un anno di custodia cautelare sulle spalle, arriva la stangata: 21 anni di condanna. La sua fiducia nella giustizia si incrina.

La condanna, processo dopo processo, diventa definitiva. Domenico perde il lavoro e la fidanzata, che lo lascia per la vergogna. La madre anziana, senza di lui, vive da sola e in povertà. Per due volte la Cassazione annulla la sentenza d’appello e per altrettante i giudici di secondo grado di Bari confermano la condanna a 21 anni. Morrone non ci crede più. Ma dopo sei anni, a settembre del 1996, qualcuno parla. Due collaboratori di giustizia squarciano il velo: non è stato Morrone. Ma devono passare altri 10 anni per poter ottenere una revisione del processo, perché la richiesta della difesa viene respinta quattro volte. Solo la quinta volta, quando già Domenico ha trascorso 13 anni in carcere, ce la fa: nel 2004 inizia il processo di revisione davanti alla Corte d’appello di Lecce. Domenico torna a guardare in faccia dei giudici, ma questa volta gli credono, credono ai testimoni, credono ai pentiti.

Il colpevole è un altro

A sparare, spiegano, è stato in realtà un uomo che voleva vendicare lo scippo subito da una donna la mattina del delitto proprio dai due ragazzini. Saverio Martinese e Alessandro Ble, i due collaboratori di giustizia, lo dicono chiaramente, indicando Domenico Morrone: «Quell’uomo è estraneo agli omicidi, il vero colpevole è un altro. Si tratta del figlio della donna che ha subito lo scippo, ce lo ha detto lui». Nel 2006, 15 anni, 2 mesi e 22 giorni dopo il suo arresto, la verità bussa alla porta: assoluzione per non aver commesso il fatto, Domenico ha ormai 42 anni.

In carcere ha contratto l’epatite b e ne esce psicologicamente devastato e con 20 chili in più. Il suo primo pensiero è avvisare la madre: «Sono innocente, mamma - le dice al telefono piangendo -. Mi hanno detto che sono innocente!». Quando la sentenza diventa definitiva, gli avvocati di Morrone presentano il conto allo Stato: una richiesta di risarcimento tra gli 8 e i 12 milioni di euro per errore giudiziario. Ne ottengono 4 e mezzo, poco più di 800 euro per ogni giorno passato dentro da innocente. «Oggi sono libero e felice. Però non è una felicità piena. Continuo a chiedermi perché nessuno mi ha mai creduto? Era tanto difficile ammettere di aver sbagliato? Mi hanno umiliato. Perché?».

Sono Innocente torna in onda domenica 15 aprile 2018 con Alberto Matano: le storie di Domenico Morrone, Stefano Messore e Aldo Scardella al centro della puntata, scrive Stella Di Benedetto il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". Oggi, domenica 15 aprile, alle 21.20 su Raitre, torna l’appuntamento con Sono Innocente, il programma condotto dal giornalista Alberto Matano che racconta le storie di persone che si sono ritrovati ad essere coinvolti in vicende giudiziarie pur essendo innocenti. Storie di uomini e donne che, da un giorno all’altro, si ritrovano in carcere pur essendo totalmente estranei alla vicenda. Mesi, in alcuni casi anni trascorso dietro le sbarre di una cella non riuscendo a spiegarsi il motivo. In ogni puntata, Alberto Matano racconta tre casi giudiziari diversi e uguali allo stesso tempo.

IL CASO DI DOMENICO MORRONE. Il primo caso della serata è quello di Domenico Morrone, pescatore tarantino di 27 anni, che nel 1991 è stato accusato dell’omicidio di due ragazzini minorenni. Gli inquirenti non hanno dubbi convinti che Morrone abbia agito per vendicarsi di un affronto subito da uno dei ragazzini. L’uomo viene condannato a 21 anni di reclusione. La sua innocenza è stata dimostrata dopo 15 anni unitamente alla testimonianza di due pentiti e a cinque richieste di revisione di processo.

IL CASO DI STEFANO MOSSORE. La seconda storia della puntata odierna di Sono Innocente è quella di Stefano Mossore, ex paracadutista della Folgore, da molti anni impegnato nel volontariato, dopo il terremoto del 2016 che ha distrutto il Centro Italia, decide di andare ad aiutare quelle popolazioni. Affitta così un furgone, lo riempie di cibo, vestiti, giocattoli e con un amico parte per Amatrice. Mossore si impegna per aiutare quelle popolazioni e contribuisce a costruire anche la tendopoli. Il 3 settembre 2016 torna a casa sua dove, ad attenderlo, trova i carabinieri che lo accusano di sciacallaggio. Mossore trascorre cinquanta giorni di carcere e dieci mesi agli arresti ai domiciliari. Prima di essere assolto, Stefano Mossore ha subito anche il dramma di perdere il lavoro.

IL CASO DI ALDO SCARDELLA.

La terza ed ultima storia dell’appuntamento di oggi con Sono Innocente è quella di Aldo Scardella che nel 1985 a soli 25 anni, viene accusato dell’omicidio del titolare di un piccolo market di liquori durante un tentativo di rapina. La banda è formata da tre persone, ma viene arrestato solo Aldo Scardella. Gli inquirenti sono convinti che sia uno dei colpevoli perché nei pressi del palazzo dove abita viene ritrovato uno dei passamontagna usati dai banditi e sulle testimonianze di alcuni, che nei giorni precedenti lo avrebbero visto nei pressi del locale rapinato. Aldo viene arrestato e trascorre quasi sei mesi dietro le sbarre in regime di totale isolamento, senza poter vedere i suoi avvocati e i suoi familiari. Non reggendo il peso della situazione e non potendo dimostrare la sua innocenza, Aldo si impicca nella sua cella il 2 luglio del 1986. Prima di togliersi la vita lascia un biglietto che si conclude con le seguenti parole: "Muoio innocente".

DOMENICO MORRONE. Risarcito dopo 15 anni di carcere: “Ma la libertà non ha prezzo” (Sono innocente). Questa sera, domenica 15 aprile, a Sono innocente sarà raccontata la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere prima di essere assolto dall'accusa di duplice omicidio, scrive Morgan k. Barraco il 15 aprile 2018 su "Il Sussidiario". “Sono innocente” ha raccontato nella puntata di oggi la storia di Domenico Morrone, che ha trascorso 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva per il duplice omicidio di due studenti minorenni. Era il 1991 e a Taranto era in corso una guerra tra clan. L'unica colpa di Morrone è quella di aver litigato con un ragazzino che è stato poi ucciso. Contro di lui c'è un movente fortissimo: si sarebbe vendicato dell'agguato subito, quindi viene arrestato. Testimoni oculari, un esame dello stub dall'esito incerto e un movente fortissimo: questi sono gli elementi che lo portano in cella. Morrone durante il processo tira in ballo due testimoni che confermano il suo alibi, ma entrambi vengono denunciati per falsa testimonianza. Il caso si tinge di giallo quando dall'ufficio corpi di reato spariscono prove che lo scagionano. Nei 15 anni di carcere ha però conosciuto l'umanità di guardie e operatori carcerari. Dopo nove anni dietro le sbarre ottiene un permesso di tre giorni che decise di trascorrere con sua madre. In due pentiti ripose le sue uniche speranze di scarcerazione. Per i suoi 15 anni trascorsi in carcere da innocente ha ricevuto 4 milioni di euro di risarcimento. A tal proposito ha dichiarato: «La libertà di ogni singolo giorno della nostra vita non ha prezzo». (agg. di Silvana Palazzo)

Oggi 55enne, Domenico Morrone aveva 42 anni quando è stato riconosciuto innocente per l'accusa di duplice omicidio ai danni di due studenti minorenni. Il tarantino dovrà trascorrere infatti 15 anni in carcere a causa della condanna definitiva, prima di poter riavere la propria libertà. Il caso di Domenico Morrone si chiuderà definitivamente nel 2006, quando la Corte d'Appello di Lecce stabilirà grazie al processo di revisione che si è trattato di un errore giudiziario. Quanto accaduto a Domenico Morrone verrà raccontato nella puntata di oggi, domenica 15 aprile 2018, del programma “Sono Innocente”. Si tratta forse del caso più eclatante di errore giudiziario della storia italiana, come ha sottolineato il suo legale, l'avvocato Claudio DeFilippi, pochi giorni prima del rilascio del suo assistito. All'epoca dell'arresto, Morrone è incensurato ed è un pescatore di Taranto dalla fedina impeccabile. Il giorno del suo arresto non perderà tuttavia solo la propria libertà e dignità, ma anche la fidanzata. Ed anche se affermerà fin dalle prime ore di non essere colpevole del duplice delitto dei due studenti, gli inquirenti saranno convinti della sua colpevolezza. A dimostrarlo delle prove inconfondibili per il pm Vincenzo Petrocelli, ricorda Il Corriere della Sera, due testimonianze che affermano di averlo visto sulla scena del crimine. 

Domenico Morrone e l’omicidio di due minorenni. Domenico Morrone verrà considerato per 15 anni il responsabile della morte di Giovanni Battista, all'epoca dei fatti 17enne, e del quindicenne Antonio Sebastio. I due ragazzi infatti sono stati uccisi mentre si trovavano di fronte alla scuola alla periferia di Taranto che frequentavano entrambi. Un delitto brutale, compiuto con una calibro 22 da un sicario che ha sparato diversi colpi verso le due vittime. Secondo gli inquirenti, Morrone ha ucciso i due studenti per via di una lite avvenuta con Battista qualche giorno prima e durante la quale era stato ferito. Alcuni testimoni riferiranno in sede processuale di aver sentito l'imputato minacciare di morte le due vittime, accusandoli di essere legali alla criminalità locale. A nulla sono servite le prove portate all'attenzione dei giudici dal difensore Claudio DeFilippi. Secondo il legale di Morrone, infatti, i due delitti erano da collegare ad uno scippo messo in atto dalle due vittime ai danni di una donna. Eppure la condanna per omicidio verrà confermata, anche se l'imputato fornirà subito un alibi confermato nel corso dell'iter processuale. La Cassazione infatti, ricorda Il Corriere della Sera, non terrà in considerazione il fatto e della conferma dei coniugi Masone, che come la madre di Morrone verranno accusati invece di falsa testimonianza. 

In carcere a 27 anni. Il giorno del suo arresto Domenico Morrone aveva appena 27 anni e riuscirà a uscire dal carcere solo in età adulta. L'esperienza carceraria non impedirà solo all'uomo di poter vivere la sua vita da incensurato, ma provocherà nel suo animo profondi turbamenti. Al momento del rilascio, Morrone infatti mostrerà un fisico stravolto dalla sofferenza, in preda a forti depressioni e malattie virali. Oltre al danno anche la beffa: Morrone perderà a causa della condanna anche la fidanzata, mentre la madre verrà ridotta in povertà. La donna infatti riusciva a sostenersi solo grazie al lavoro di pescatore del figlio e in sua assenza non era più in grado di avere una vita agiata. La madre di Morrone tra l'altro morirà l'anno successivo alla scarcerazione del figlio, dietro le sbarre fin dal 1991. Per l'errore giudiziario subito, l'uomo chiederà infine un risarcimento di 12 milioni allo Stato italiano. Soprattutto alla luce dei due annullamenti avvenuti in Cassazione e delle successive conferme della condanna a 21 anni invece messe in atto dalla Corte d'Assise di Bari. I giudici infatti hanno scelto di non tenere in considerazione dell'alibi di Morrone, confermato dai vicini di casa Masone, dalla madre e da un amico appuntato. Il movente del duplice delitto di Giovanni Battista e Antonio Sebastio era riconducibile ai loro occhi a quella denuncia che l'uomo aveva sporto contro i due ragazzini, per via di una strana attività collegata a dei motorini. Per questo e per le testimonianze di due minorenni, sottolinea La Repubblica, verrà considerato autore della tragedia.

Gli innocenti in galera: non solo Tortora dice Concetto Vecchio su “La Repubblica”.

Domenico Morrone fu riconosciuto innocente dopo 15 anni, due mesi e ventitré giorni passati ad ammuffire in carcere. Il più grave errore giudiziario nella storia della Repubblica. Aveva 27 anni il giorno dell'arresto, 30 gennaio 1991, accusato del duplice omicidio di due minorenni a Taranto, la sua città. Pescatore incensurato, famiglia onesta, una fidanzata. Era un uomo di 42 anni piegato dalla malasorte quando lo fecero uscire: i capelli ingrigiti dalla sofferenza, preda di gravi depressioni, un fisico appesantito di venti chili. Nella promiscuità aveva contratto alcune malattie, tra cui l'epatite b. Inutilmente aveva gridato al vento la sua innocenza. Nessuno gli aveva creduto. In Italia dal dopoguerra - ha calcolato l'Eurispes - 4 milioni di persone sono state vittime di errori giudiziari o di ingiusta detenzione. Fino al 1989. Ad oggi bisogna aggiungerne un altro milione. L'errore giudiziario si verifica quando, dopo i tre gradi di giudizio un condannato viene riconosciuto innocente solo in seguito a un nuovo processo, detto di revisione.

Due avvocati, Claudio Defilippi e Debora Bosi, raccontano l'inferno delle ingiustizie in Toghe che sbagliano, Aliberti editore. Il caso più reclamizzato è quello di Enzo Tortora. Ma è solo il più noto. Un altro caso limite fu quello di Massimo Carlotto: sei anni di carcere, altrettanti di latitanza. Fu arrestato il 20 gennaio 1976. La grazia del presidente Scalfaro arrivò il 7 aprile 1993. Carlotto, forse non a caso, scrive fortunati noir. Daniele Barillà, condannato per traffico di droga perché con la sua auto si trovò sulla tangenziale sbagliata durante un inseguimento a un carico di 50 chili di cocaina: sette anni, cinque mesi e dieci giorni di galera. Arresto il 13 febbraio 1992. Il verdetto favorevole alla revisione del processo: il 23 luglio 1999. La sua storia è diventata un film. Ora vive all'estero. Lo Stato gli ha riconosciuto un indennizzo di tre milioni di euro. Massimo Pisano nel '93 fu accusato per avere ucciso la moglie, Cinzia Bruno, a Riano, vicino Roma. Cadavere trovato sul greto del Tevere. A condannarlo fu la confessione dell'amante, Silvana Agresta. Movente: voleva liberarsi della moglie per potersi risposare. Il 18 aprile 1996 la Cassazione chiude il caso: ergastolo. Otto anni in carcere. Poi la revisione del processo. Cambia tutto. La mattina del delitto si trovava al catasto. Ci sono ventidue riscontri documentali e testimoniali. Ad uccidere la moglie fu l'amante. Motivo: il rapporto tra i due amanti era in crisi e la donna temeva che Pisano volesse rompere la relazione. Salvatore Gallo, accusato di aver ucciso il fratello Paolo nel 1954 ad Avola, fu scarcerato dopo sette anni perché Paolo invece che al camposanto viveva sotto mentite spoglie in un casale. Una messinscena tremenda, per far condannare il fratello all'ergastolo. Fu scarcerato, ma non ebbe una lira. All'epoca l'ingiusta detenzione non era contemplata dalla legge. Il caso Morrone è il più sconcertante di tutti. L'anziana madre è morta un anno dopo la sua liberazione, il 21 aprile 2006. Fa lo spazzino e ha chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro. La notte si sveglia di soprassalto, sente il rumore delle pesanti chiavi delle guardie carcerarie. Pensa di essere ancora in prigione. La sua storia mette inquietudine. Per due volte la Cassazione annullò le sentenze d'appello, ordinando nuovi processi e per altrettante volte la Corte d'assise di Bari confermò la condanna a 21 anni, una pena relativamente esigua per un delitto così efferato, segno, fanno notare gli autori, uno dei quali è il difensore del pescatore, che i giudici erano tormentati dai dubbi. La mattina del delitto aveva incontrato un amico appuntato, avevano conversato, poi aveva aggiustato l'acquario dei vicini. I vicini avevano confermato. Non bastava come alibi. I giudici trovarono il movente nel fatto che Morrone aveva denunciato i due ragazzini per un oscuro traffico di motorini, e perciò era stato vittima di un agguato. L'omicidio sarebbe stato una vendetta. Finì in cella accusato da due minorenni semianalfabeti che sostenevano di averlo riconosciuto sul teatro del delitto. Gli fecero l'esame sulla polvere da sparo: negativo. La giustizia fu celere: due anni dopo era già condannato in secondo grado. Fece lo sciopero della fame due volte. Scrisse ad Amnesty international. Interpellò il capo dello Stato. Presentò sei istanze di revisione del processo. Sette gradi di giudizio e quindici anni dopo (quindici!) due pentiti rivelarono che l'omicida era un tale Antonio Boccuni, che si era voluto vendicare dello scippo che i due minorenni avevano compiuto a danni della madre.

Altro precedente. È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso. Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita. Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto. Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

IL CASO MORRONE

È il più clamoroso errore giudiziario del dopoguerra. Ora il ministero dell’Economia ha deciso di staccare l’assegno più alto mai dato a un innocente per risarcirlo: 4 milioni e 500mila euro. Circa nove miliardi di lire, a fronte di 15 anni, 2 mesi e 22 giorni trascorsi in carcere per un duplice omicidio mai commesso.

Il caso di Domenico Morrone, pescatore tarantino, si chiude qua: con una transazione insolitamente veloce nei tempi e soft nei modi. Il ministero dell’Economia ha capitolato quasi subito, riconoscendo il dramma spaventoso vissuto dall’uomo che oggi può tentare di rifarsi una vita.

Così, per il tramite dell’avvocatura dello Stato, Morrone si è rapidamente accordato con il ministero e la corte d’appello di Lecce ha registrato come un notaio il «contratto». In pratica, Morrone prenderà 300mila euro per ogni anno di carcere. E i soldi arriveranno subito: non si ripeteranno le esasperanti manovre dilatorie già viste in situazioni analoghe, per esempio nelle vertenza aperta da Daniele Barillà, rimasto in cella più di 7 anni come trafficante di droga per uno sfortunato scambio di auto.

Morrone fu arrestato mezz’ora dopo la mattanza, il 30 gennaio ’91. Sul terreno c’erano i corpi di due giovani e le forze dell’ordine di Taranto cercavano un colpevole a tutti i costi. La madre di una delle vittime indirizzò i sospetti su di lui. Lo presero e lo condannarono. Le persone che lo scagionavano furono condannate per falsa testimonianza. Nel ’96 alcuni pentiti svelarono la vera trama del massacro: i due ragazzi erano stati eliminati perché avevano osato scippare la madre di un boss. Morrone non c’entrava, ma ci sono voluti altri dieci anni per ottenere giustizia. E ora arriva anche l’indennizzo per le sofferenze subite: «Avevo 26 anni quando mi ammanettarono - racconta lui al Giornale - adesso è difficile ricominciare. Ma sono soddisfatto perché lo Stato ha capito le mie sofferenze, le umiliazioni subite, tutto quello che ho passato». Un procedimento controverso: due volte la Cassazione annullò la sentenza di condanna della corte d’assise d’appello, ma alla fine Morrone fu schiacciato da una pena definitiva a 21 anni. Non solo: beffa nella beffa, fu anche processato e condannato a 1 anno e 8 mesi per calunnia. La sua colpa? Se l’era presa con i magistrati che avevano trascurato i verbali dei pentiti.

Ora, finalmente, la giustizia si mostra comprensiva con chi è stato vittima di un errore così grave: la corte d’appello di Lecce nota anzitutto che l’Avvocatura dello Stato «non si oppone alla liquidazione» della cifra. La scorsa estate Morrone aveva chiesto allo Stato un risarcimento di 12 milioni di euro; il tempo di condurre una rapida trattativa e il ministero si è detto disponibile a chiudere la pratica a quota 4, 5 milioni di euro. Senza opposizioni e contestazioni. La somma totale di 4,5 milioni è così ripartita: 1 milione e 300mila euro per la privazione della libertà; 1 milione e 700mila euro per i danni non patrimoniali; 1 milione per il danno patrimoniale da mancato guadagno; 500mila euro per le spese legali e per gli onorari del difensore. Un record per l’Italia. E anche un primato di velocità.

Ma non finisce qui. Morrone vuole presentare il conto anche ai magistrati che hanno sbagliato e per questo ricorrerà alla legge sulla responsabilità civile dei giudici. Il pescatore, come impone la norma, si rivolgerà alla Presidenza del consiglio, chiedendo 8 milioni di euro per l’operato di Vincenzo Petrocelli, il magistrato di Taranto che l’aveva messo sotto accusa.

Fabio Sturani.

(ANSA sabato 21 ottobre 2023) E' finito "un incubo, un calvario" per l'ex sindaco di Ancona Fabio Sturani, durato oltre 15 anni, dall'avviso di garanzia ricevuto all'inizio del 2008 fino alla conclusione definitiva il 9 ottobre. In tutto "5.585 giorni complessivi" con "7 procedimenti giudiziari: due processi penali conclusi con assoluzione al Tribunale di Ancona, tre gradi di giudizio alla Corte dei Conti, una causa civile con AnconAmbiente", tutti estinti in maniera a lui favorevole. 

In un incontro stampa Sturani, che ha guidato la città dal 2001 al 2009, si è tolto alcuni sassolini dalla scarpa: "Oggi dormo finalmente tranquillo, ma vorrei sottolineare alcune cose, e ringraziare prima di tutto la mia famiglia che mi è stata sempre vicina, gli avvocati che mi hanno difeso e gli amici, l'ex presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli, l'Anci, Federsanità e Coni, che mi hanno consentito di continuare a lavorare. Sono stato l'unico sindaco a dimettersi dopo avere ricevuto un avviso di garanzia".

I guai giudiziari di Sturani sono legati all'acquisto nel 2001 dell'ex area Ccs per lo stoccaggio dei rifiuti nel porto di Ancona da parte della municipalizzata AnconAmbiente, per poco più di cinque miliardi di vecchie lire. Sturani fu accusato di aver favorito il proprietario dell'area. "In realtà - ha spiegato l'ex sindaco - i 18mila mq comprati da AnconAmbiente, dove lo stoccaggio si fa da 25 anni, servivano a non pagare l'affitto". Concussione, corruzione, tentata truffa, oltre ad un danno erariale, le accuse mosse all'ex sindaco, che ha avuto ruoli anche nell'Anci, tutte cadute.

"Il primo interrogatorio da parte del pm è stato fissato il giorno del mio 50simo compleanno - ha ricordato -, aggiungendo all'accusa di corruzione quella di concussione, per evitare la prescrizione. Inoltre "mi sarei aspettato in atteggiamento un po' diverso" da parte del Pd, dove ha continuato a militare. "Non rinnego la scelta fatta all'epoca - ha concluso - poiché l'investimento è stato ripagato in otto anni oltre al valore dell'area, ma mi domando quanto i 7 procedimenti giudiziari siano costati alla collettività. E a causa delle mie dimissioni, molti progetti per la città sono stati interrotti".

Il tritacarne della giustizia impunita, che quando sbaglia (spesso) non paga mai. Redazione CdG 1947 il 22 Ottobre 2023 su Il Corriere del Giorno.

5.585 giorni complessivi con 7 procedimenti giudiziari: due processi penali conclusi con assoluzione al Tribunale di Ancona, tre gradi di giudizio alla Corte dei Conti, una causa civile con AnconAmbiente, tutti estinti in maniera favorevole all'ex sindaco di Ancona Fabio Sturani

E’ finito “un incubo, un calvario” per l’ex sindaco di Ancona Fabio Sturani, durato oltre 15 anni, dall’avviso di garanzia ricevuto all’inizio del 2008 fino alla conclusione definitiva il 9 ottobre. In tutto durato 5.585 giorni complessivi con 7 procedimenti giudiziari: due processi penali conclusi con assoluzione al Tribunale di Ancona, tre gradi di giudizio alla Corte dei Conti, una causa civile con AnconAmbiente, tutti estinti in maniera a lui favorevole, aggiungendo “In coscienza ho sempre saputo di essere innocente. Perseguitato dalla giustizia? No, ma a livello personale è stato un calvario. Credo, però, che il prezzo più alto di tutti l’abbia pagato la città“. 

Sturani, che ha guidato la città dal 2001 al 2009, In un incontro con la stampa si è tolto alcuni sassolini dalla scarpa: “Oggi dormo finalmente tranquillo, ma vorrei sottolineare alcune cose, e ringraziare prima di tutto la mia famiglia che mi è stata sempre vicina, gli avvocati che mi hanno difeso e gli amici, l’ex presidente della Regione Marche Luca Ceriscioli, l’Anci, Federsanità e Coni, che mi hanno consentito di continuare a lavorare. Sono stato l’unico sindaco a dimettersi dopo avere ricevuto un avviso di garanzia“.

I guai giudiziari di Sturani sono legati all’acquisto nel 2001 dell’ex area Ccs per lo stoccaggio dei rifiuti nel porto di Ancona da parte della municipalizzata AnconAmbiente, per poco più di cinque miliardi di vecchie lire. Sturani fu accusato di aver favorito il proprietario dell’area. “In realtà – ha spiegato l’ex sindaco – i 18mila mq comprati da AnconAmbiente, dove lo stoccaggio si fa da 25 anni, servivano a non pagare l’affitto”. Concussione, corruzione, tentata truffa, oltre ad un danno erariale, le accuse mosse all’ex sindaco, che ha avuto ruoli anche nell’ Anci, tutte cadute nel vuoto.

I fatti

Siamo nel 1993 e la Giunta Galeazzi deve fronteggiare la chiusura della discarica di Monte Umbriano, che non era più a norma. Fino al 1998 verrà utilizzata per lo stoccaggio dei rifiuti, poi la necessità di trovare un nuovo sito. “Appunto l’area ex Ccs al porto – spiega Sturani in conferenza stampa – Per un totale di 18mila metri quadri, acquistati da Anconambiente, piuttosto che pagare l’affitto altrove. Nessuno ha mai protestato, compresi comitati e cittadini. La dice lunga il fatto che viene utilizzata oggi, a 25 anni di distanza, giorno e notte. Ad un magistrato dissi: ‘non posso certo realizzare una discarica in piazza Cavour’“, osserva l’ex sindaco.

L’area fu acquistata dalla Partecipata comunale per 5 miliardi di lire. Troppo per i magistrati dell’epoca perché – scrivevano – l’area si sarebbe svalutata. Furono effettuate 18 perizie tecniche sul valore: “Ben 16 hanno sostenuto una cifra simile o più alta del prezzo di acquisto, sui 2 milioni e 600mila euro – evidenzia Sturani – Invece due, fatte fare dal magistrato della Corte dei Conti, hanno dichiarato che il valore era pari a zero. Impossibile, l’area non si è mai svalutata. E Anconambiente, in appena otto anni, tramite canoni di locazione attivi e passivi si è ripagata l’investimento fatto, disponendo di uno spazio di proprietà”, osserva.

Riflette anche su stesso nella consapevolezza di non aver mai mollato: “Ho molti più capelli bianchi e quell’episodio ha cambiato la mia carriera professionale. Ma sono andato in giro senza nascondermi, soltanto con un profilo più basso – aggiunge – Quindici anni dopo so riconoscere i veri amici e gli opportunisti. Ringrazio chi mi è stato vicino e mi ha aiutato umanamente, nel lavoro e nello sport”. Citazioni sparse: “Alla mia famiglia e ai miei legali. Poi l’Anci Marche (di cui è stato presidente) , la Federsanità, il Coni Nazionale e l’ex presidente della Regione Marche, Luca Ceriscioli, che mi volle come capo di gabinetto nonostante il procedimento in essere: mi ha subito mandato un messaggio quando ha saputo”.

Il “costo” della malagiustizia

15 anni sotto processo hanno avuto un costo significativo per Fabio Sturani: “Appena ricevuto il rinvio a giudizio ho deciso di dimettermi per affrontare il processo. In questi anni non mi sono mai nascosto, ma ho vissuto una vita con un profilo più basso, rinunciando ad essere protagonista. Devo ringraziare prima di tutto la mia famiglia, ma anche gli avvocati che mi hanno seguito (Michele Brunetti, Roberto Gusmitta, Ennio Amodio, Paolo Coppari, Guido Calvi e Ranieri Felici)”.

Si potrebbe aprire una nuova parentesi sul pagamento delle spese processuali. Ad oggi non sarebbe chiara l’applicazione della normativa nei casi antecedenti al 2015, ma Sturani potrebbe richiedere al comune di Ancona il rimborso delle spese processuali sostenute per difendersi dalle accuse da cui è stato assolto. Quanto sono costati dal punto di vista economico 15 anni e 7 mesi di processo? L’ex sindaco non risponde, però una cosa la rivela: “Ho speso per le spese processuali molto più di quanto ho guadagnato in 10 anni da assessore e 9 da sindaco“.

Un percorso che ha visto però esiti incerti in casi paragonabili. Per ora prevale il sollievo di aver meso la parola fine ad una vicenda che mostra le criticità del sistema giudiziario italiano per i suoi tempi decennali: “Sono sempre stato sereno e determinato ad arrivare fino in fondo. Ci sono state occasioni in cui avrei potuto accettare una condanna, patteggiando rimborsi di molti inferiori al costo della difesa, ma non sarebbe stato giusto. Sono innocente e siamo arrivati a questo risultato. Ora posso tornare a dormire. Sono sempre stato sereno, ma questa vicende inevitabilmente è stato un peso portato per 15 anni”.

“Mi astengo dal dare giudizi sulla magistratura – chiarisce – Ma vorrei citare due fatti che, più di altri, hanno lasciato il segno. Il primo interrogatorio da parte del pm è stato fissato il giorno del mio 50simo compleanno – ha ricordato -, aggiungendo all’accusa di corruzione quella di concussione, per evitare la prescrizione“.  Il secondo che, a detta del magistrato, “è stato aggiunto il reato di concussione oltre alla corruzione, poiché per la corruzione il reato era già prescritto”. “Non rinnego la scelta fatta all’epoca – ha concluso – poiché l’investimento è stato ripagato in otto anni oltre al valore dell’area, ma mi domando quanto i 7 procedimenti giudiziari siano costati alla collettività. E a causa delle mie dimissioni, molti progetti per la città sono stati interrotti“.

Inoltre “mi sarei aspettato in atteggiamento un po’ diverso da parte del Pd“, dove ha continuato a militare. Ci sarebbe, però, anche chi non lo ha fatto “Giusto alcuni tesserati di Ancona si sono fatti sentire. Cosa mi sarei aspettato? Una dichiarazione, una presa d’atto della chiusura della vicenda giudiziaria. Ma non per me, quanto per la città, perché è stata la certificazione che quell’ombra non c’è più. Si sono riaffermate coerenza, piena agibilità politica e credibilità nel lavoro svolto dalle Giunte di centrosinistra”. Un centrosinistra che non governa più ad Ancona: in molti gli chiedono cosa sarebbe accaduto se non avesse affrontato questa situazione? Sturani glissa: “Il centrosinistra ha perso le elezioni, non ha vinto il centrodestra. E anche i pali della segnaletica sanno di chi è colpa. Punto”. Come quel punto che lui ha messo quel 9 ottobre. Quindici anni dopo. “L’incubo è finito”, e sorride. Da gran signore. Redazione CdG 1947

Mario Rossetti.

Finisce il calvario del manager di Fastweb. Rossetti risarcito per ingiusta detenzione. Scontò 366 giorni per un presunto maxi-riciclaggio a cui era totalmente estraneo. Massimo Malpica il 17 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il tempo sa essere galantuomo, ma i tempi della giustizia sono talmente lunghi da sfibrare chi la giustizia la deve attendere. Come Mario Rossetti, che da direttore finanziario di Fastweb venne svegliato all'alba di un giorno di febbraio di 13 anni fa dagli uomini delle Fiamme gialle. Rossetti si ritrova tra le mani un'ordinanza di custodia cautelare in carcere per una storia di maxiriciclaggio della quale non sa nulla, finisce in caserma, poi a San Vittore e da lì a Rebibbia. Passa quattro mesi dietro le sbarre, poi quando viene scarcerato lo attendono altri otto mesi ai domiciliari. In tutto 366 giorni di libertà negata, per un reato, la presunta maxifrode da due miliardi di euro dell'inchiesta Fastweb-Telecom Italia Sparkle, al quale era del tutto estraneo. Rossetti per vedersi riconosciuta la propria innocenza dovrà attendere 150 udienze e due sentenze di assoluzione, dopo quasi otto anni di gogna mediatica e di graticola giudiziaria cancellati dalle sentenze, l'ultima delle quali nemmeno la procura decide più di impugnare. Rossetti torna libero, scrive un libro sulla sua odissea giudiziaria («Io non avevo l'avvocato», Mondadori), racconta le storture del sistema giustizia e la durezza del carcere, vissuto da innocente, con una moglie e tre figli che lo attendevano a casa, e quegli anni di attesa prima che l'errore giudiziario del quale è stato vittima venisse conclamato. E poi chiede un risarcimento per quei 366 lunghissimi giorni di privazione della libertà, per quella detenzione ingiusta che oltre a togliergli un pezzo di vita lo ha danneggiato anche economicamente. Così a settembre del 2021 l'ex manager e fondatore di Fastweb presenta la sua istanza alla corte d'appello di Roma, per chiudere una volta per tutte una dolorosa pagina di vita segnata da un clamoroso abbaglio del sistema giustizia. E la giustizia, dopo due anni, decide di riconoscere le sue ragioni. Ribadendo la mancanza di qualsiasi profilo di colpa, oltre che sottolineando le due assoluzioni incassate, e la totale inconsistenza delle accuse, i giudici romani sottolineano nella decisione come a rendere «verosimilmente molto più pesante la custodia sofferta» siano state «la notevole rilevanza mediatica della vicenda», «la presenza di procedimenti cautelari che bloccarono l'intero patrimonio» e «la presenza di una famiglia con tre bambini piccoli». Un errore da riparare, insomma, anche se la cifra liquidata dalla corte d'Appello di Roma - intorno agli 80mila euro - non restituisce certo a Rossetti quel tempo rubato ai suoi affetti e al suo lavoro, l'umiliazione e il dolore di anni passati ad attendere giustizia.

Errori giudiziari. Il lungo calvario di Mario Rossetti, cento giorni di carcere e otto mesi ai domiciliari: era innocente. La storia dell’ex dirigente Fastweb, risarcito con una somma non sufficiente a pagare le spese legali. Eppure, per Pietro Grasso si trattava di “Una delle più grandi truffe mai scoperte”. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 18 Ottobre 2023 

Purtroppo ci ritroviamo a parlare della malagiustizia italiana, di quanti danni produce sulla pelle delle persone innocenti, sempre di fronte a un’assoluzione. Pochi sono quelli che riescono a denunciarne gli abusi, le storture, lo strapotere, mentre il danno sta avvenendo. Perché è vero che si è innocenti fino a sentenza definitiva, ma pubblicare le intercettazioni anche non rilevanti (come in questi giorni per i casi di Genova o Santa Marinella), e marciare sulle notizie di reato, fa comodo a tutti. Tranne a chi ne è vittima. E poi c’è il motivo più grande: nessuno in questo Paese vuole mettersi contro i magistrati. Proprio perché il loro potere è sconfinato, e quando sbagliano non pagano quasi mai. E anche attraverso il sistema delle correnti, se vogliono fare una vittima, ci possono riuscire ovunque. E la politica, unico potere che avrebbe la possibilità di limitare queste storture, se ne guarda bene dal farlo. Proprio per non diventarne a sua volta vittima. Però poi sono tutti bravi, le belle anime, a farsi paladini di garantismo di fronte a un’assoluzione. Senza contare che però nel frattempo sono passati anni, soldi, speranze, e un processo che è esso stesso la pena. E che nessun risarcimento ripaga una vita distrutta. Ingiustamente. Per mano di chi, appunto, abusa del suo potere. Senza pagare.

Oggi è la volta di Mario Rossetti, l’ex dirigente Fastweb, che nel 2015 è stato assolto dall’accusa di maxi-truffa. È notizia di ieri, riportata da Massimo Malpica sul Giornale, che solo oggi, finalmente, ha avuto il suo risarcimento: 80 mila euro. E nient’altro. Mario Rossetti, da innocente, una notte fu svegliato dalla guardia di finanza e portato in caserma, poi a San Vittore, e poi a Rebibbia. Cento giorni di carcere. Poi otto mesi ai domiciliari. In tutto 366 giorni in custodia cautelare. Prima di un processo. Senza che vi fossero le esigenze cautelari. Rito ambrosiano. Se parli ti rilascio. Ma Rossetti non aveva niente da dire, perché niente sapeva, e perché non aveva commesso il reato. “Una delle più grandi truffe mai scoperte”, disse il giorno del suo arresto l’allora procuratore anti-mafia Pietro Grasso. Anche lui fece carriera, nel Pd e nelle istituzioni. Mentre a Rossetti veniva rovinata la vita per sempre.

Sette anni di processo e 150 udienze. E sono pure poche considerando ad esempio che per i Riva e Nichi Vendola dopo 10 anni e 300 udienze per il caso Ilva inizierà solo nel 2024 il secondo grado. Rossetti fu assolto in primo grado. Ma ovviamente la procura fece appello. Dove fu assolto definitivamente nel 2015. E scrisse un libro “io non avevo un avvocato”. Ce ne sono voluti altri 7 per avere il risarcimento. Ribadendo la mancanza di qualsiasi profilo di colpa, e sottolineando le due assoluzioni incassate, e la totale inconsistenza delle accuse, i giudici romani nella decisione odierna scrivono che a rendere “verosimilmente molto più pesante la custodia sofferta” siano state ”la notevole rilevanza mediatica della vicenda”, ”la presenza di procedimenti cautelari che bloccarono l’intero patrimonio” e ”la presenza di una famiglia con tre bambini piccoli”. Tutto questo per avere 80 mila euro. Che non servono neppure per pagare le spese legali. Che comunque Rossetti, come qualunque altro cittadino innocente, non dovrebbe pagare. Perché se la giustizia sbaglia, e ti rovina anche la vita, le spese legali deve comunque pagarle l’indagato?

“Ho fatto 4 mesi di carcere e 8 mesi agli arresti domiciliari. Mi hanno sequestrato tutti i beni e siamo riusciti a fare la spesa grazie all’aiuto degli amici che ci hanno mantenuto,“ ha dichiarato Rossetti. C’è qualcosa che non va in tutto questo, e ce lo ripetiamo ogni volta, senza però che, almeno da 30 anni, cioè dal famoso caso Tortora che tutti ricordano come se oggi non accadesse più, le cose siano cambiate. “Ho fatto la fine di quei 30 mila italiani in custodia cautelare, 15 mila dei quali, in attesa di giudizio, e buona parte, come me, che saranno poi assolti al processo”, ha detto Rossetti. E pure con qualunque legislatura, di ogni colore, anziché depenalizzare, ridurre le possibilità di custodia cautelare, e il potere dei magistrati sottoponendoli a responsabilità diretta, ogni governo aumenta le pene, la possibilità di intercettare, e di andare in galera.

Sta accadendo anche ora. E non solo nelle aule del parlamento, e in quelle dei tribunali. Anche nel dibattito pubblico. Non è normale che intercettazioni non rilevanti, come abbiamo detto per i casi di Genova e Santa Marinella, finiscano sulle prime pagine del più importante quotidiano d’Italia, in evidente violazione della legge. E nessuno dica niente. E poi al prossimo tentativo di riforma per limitarne la pubblicazione, Andrea Orlando e l’Anm dicano che sono già vietate. Come non è normale quello che la procura di Torino sta facendo all’ex senatore del Pd Stefano Esposito, intercettato 500 volte senza chiedere il permesso al Parlamento, e dopo Il Riformista anche Il Foglio a raccontarlo. Come non è normale quello che il Pd ha fatto all’europarlamentare Andrea Cozzolino. Sbattuto fuori dal partito per decisione di Enrico Letta e la sua commissione di garanzia, solo perché il suo nome era finito sui giornali nel Qatar gate, ancora prima di essere indagato. Messo alla gogna, preventivamente, dal suo stesso partito, nel tentativo di scaricare lui per salvare la ditta. Poi Elly Schlein fa un tweet al prossimo anniversario dell’assoluzione di Enzo Tortora. Mario Rossetti evidentemente non sa neanche chi è. Chissà se almeno i magistrati se lo ricorderanno. Annarita Digiorgio

Giulio Petrilli.

È morto Giulio Petrilli, ora può perdonare i suoi persecutori. Risarcimento? Niente, sempre negato, perché dissero che lui aveva dato risposte confuse ai giudici, e quindi era colpa sua se i giudici si erano sbagliati. Piero Sansonetti su L'Unità il 6 Ottobre 2023 

È morto nei giorni scorsi Giulio Petrilli. Persona dolcissima , davvero dolcissima, che aveva subito una terribile persecuzione giudiziaria. Gli hanno spezzato la vita. L’andarono a prendere in assetto da guerra in una triste mattina del 1980, a casa dei genitori. Era un ragazzino, viveva ancora col papà e la mamma. Aveva 19 anni. Manette e poi via col furgone blindato, Alfa Romeo di scorta e sirene spiegate.

Dall’Aquila a Torino. Carcere duro. Solo, niente ora d’aria. Lui non capiva perché. Era uno studente di “Democrazia Proletaria”, gruppo politico legalissimo. Il Pm gli disse che loro – la Procura – erano sicuri invece che fosse un capo di Prima Linea e allora doveva dirgli i nomi dei suoi complici, sennò si beccava 20 anni. Povero Giulio. Lui non poteva dire niente, lui non sapeva niente. È rimasto dietro le sbarre 6 anni. Sei. Gioventù svanita. Poi fu assolto in appello e in Cassazione.

Gli hanno riconsegnato l’orologio, gli occhiali, la penna stilo e a casa. La penna non scriveva più. Risarcimento? Niente, sempre negato, perché dissero che lui aveva dato risposte confuse ai giudici, e quindi era colpa sua se i giudici si erano sbagliati. Da allora Giulio si è sempre battuto contro la giustizia ingiusta. Ci siamo conosciuti in piazza, c’era anche Pannella. E il capo di Rifondazione, Maurizio Acerbo.

Ciao Giulio. Sei stato un grande. Perdonali quelli, non sapevano cosa facevano. Piero Sansonetti 6 Ottobre 2023

L'odissea giudiziaria. Chi era Giulio Petrilli, sbattuto in galera da innocente senza nessun risarcimento. Arrestato nel 1980 con l’accusa di aver partecipato a Prima Linea, il pm Spataro chiese per lui 11 anni di reclusione. Condannato a 8, dopo 6 anni l’assoluzione in appello poi confermata dalla Cassazione. Ma il ristoro per l’ingiusta detenzione gli fu rifiutato. Il motivo? Frank Cimini su L'Unità il 6 Ottobre 2023 

È morto Giulio Petrilli protagonista di una incredibile vicenda giudiziaria relativa alla storia degli anni ‘70 e del “terrorismo”, quindi non la sola, ma molto significativa. Arrestato nel 1980 con l’accusa di aver partecipato a Prima Linea, il pm Armando Spataro chiese per lui 11 anni di reclusione, fu condannato a 8 anni. In appello arrivò l’assoluzione poi confermata dalla Cassazione.

Ma dentro questa vicenda resta “esemplare” la motivazione con cui i giudici rifiutarono il risarcimento per ingiusta detenzione. L’errore contenuto nella sentenza di primo grado era stato indotto dalle sue “pessime frequentazioni”. Furono parole pesantissime che portarono Petrilli a combattere fino al termine dei suoi giorni per un’amnistia e contro il 41bis, figlio del famigerato articolo 90 che lui aveva provato sulla sua pelle. Ma andiamo con ordine.

Lasciamo la parola allo stesso Petrilli in uno scritto del primo dicembre del 2014. “Ho letto che il nuovo procuratore di Torino è l’ex pm di Milano Armando Spataro. Famoso magistrato di cui si parla sempre in positivo, ma nessuno sa che ha commesso anche gravi errori giudiziari. Lo dico avendolo vissuto sulla mia pelle. Spataro emise un mandato di cattura nei miei confronti il 23 dicembre 1980 dove mi accusò di partecipazione a banda armata con funzioni organizzative, Prima Linea – racconta Petrilli – In primo grado Spataro chiese 11 anni di carcere. La corte di assise mi condannò a 8 anni. Dopo 5 anni e 8 mesi la corte di Appello mi assolse e poi la Cassazione confermò”.

Petrilli scontò ingiustamente sei anni di carcere. “E non mi hanno risarcito perché secondo i giudici preposti a stabilire se dovevo avere il risarcimento io avevo avuto cattive frequentazioni. I magistrati come Spataro che commettono errori clamorosi vengono promossi, le persone che subiscono gravi errori giudiziari manco vengono risarcite – conclude – È giustizia o sopraffazione? Avevo fatto anche a luglio richiesta al capo del governo chiedendo danni per dieci milioni di euro per sei anni di ingiusta detenzione. Chiedevo la responsabilità civile del magistrato, non ho avuto risposta”.

“Giulio Petrilli ci ha lasciato prematuramente a causa di una embolia polmonare. Ricoverato d’urgenza non ce l’ha fatta – dice Paolo Persichetti – corpo possente da vero rugbista lo ricordiamo per la sua incredibile umanità per la generosità debordante. Nel 1984 era stato anche picchiato duramente dalla polizia penitenziaria dopo una fermata all’aria di protesta fatta con i suoi compagni per denunciare le condizioni di detenzione. Si è battuto fino all’ultimo contro il 41bis”. La vicenda del mancato e negato risarcimento aveva acceso dentro di lui un fuoco inesauribile, ricorda ancora Persichetti secondo il quale soltanto un terzo delle richieste di ristoro per il carcere ingiusto vengono accolte. Infatti non basta la sentenza di assoluzione e non basta nemmeno che la giustizia abbia riconosciuto l’illegittimità della misura cautelare.

Chi è stato in carcere ingiustamente deve dimostrare di non aver tenuto un comportamento tale da aver tratto in inganno i magistrati con atteggiamenti omissivi o perché non si è avvalso delle funzioni difensive che restano un diritto fondamentale dell’imputato anche sotto il profilo delle frequentazioni. In sostanza le sentenze di assoluzione valgono fino a un certo punto perché poi vengono sottoposte a un nuovo processo dove la personalità di chi è stato assolto viene giudicata a livello morale. Insomma una sorta di quarto grado di giudizio per resuscitare la colpa con tanti saluti all’assoluzione fino all’inversione dell’onore della prova.

Chi viene assolto per reati avvenuti in posti dove c’è la criminalità organizzata diventa responsabile del fatto di frequentare contesti pieni di pregiudicati. Chi viene assolto da accuse di eversione, se ha frequentato luoghi di conflitto recepito come culture antagoniste e irregolari secondo la norma politico morale dominante, viene ritenuto responsabile di una sorta di concorso ambientale.

In questo modo si arriva alla teologia giudiziaria. È una giustizia che sta nell’alto dei cieli che processa dopo il processo penale la presunta doppiezza o ambiguità dell’imputato assolto. È il meccanismo che ha stritolato Giulio Petrilli in un’epoca in cui il populismo penale dilaga sempre di più e continua a colpire a ormai mezzo secolo di distanza da quel periodo degli anni ‘70 con il quale la politica, a cominciare dalla sinistra, rifiuta di fare i conti. Frank Cimini 6 Ottobre 2023

Pietro Tatarella.

Cinque anni da incubo. Tatarella assolto, la ‘lezione’ dell’imputato Ranucci e la morte della madre: flop epico dei pm, politici fate qualcosa o cambiate mestiere. Il fatto non sussiste. Ma sussitono cinque anni di massacro mediatico, processi e carcere. Aggredito da un Pm, abbandonato da FI, ha la vita rovinata. Non aveva fatto niente. E ora chi paga? Andrea Ruggieri su Il Riformista il 4 Ottobre 2023

Quella di Pietro Tatarella è una storia vergognosa e drammatica, tutta e solo italiana.

Una giovane vita e una carriera brillantissima distrutte, assieme a quella di una intera famiglia, per il fanatismo di una magistrata che in una nazione che si voglia bene verrebbe cacciata a calci. E per quello di nove giornalisti su dieci che godono nello sputtanare innocenti, avvolgendo il loro ius sputtanandi nel velo ipocrita del diritto di cronaca.

Il tutto, nel silenzio pavido di un partito dove il talento di questo ragazzo era visto come una minaccia anziché come opportunità. Silvio Berlusconi oggi lo avrebbe chiamato e ricevuto. Da Forza Italia, manco una telefonata di scuse.

Pietro Tatarella è un ragazzo brillante, che io selezionai nel 2015 su indicazione proprio di Silvio Berlusconi, che mi chiedeva di trovare in tutta Italia dieci giovani promettenti da usare in tv per rinfrescare l’immagine di un partito che già allora appariva usurato: “Diamo valore agli amministratori locali che sono fuori dal giro ma sono brillanti”. E Pietro Tatarella era un grandissimo politico: una valanga di voti, coraggio, dimestichezza. Avrebbe servito benissimo la causa. Eppure, dal suo stesso partito gli viene inopinatamente tolta la possibilità di entrare alla Camera nel 2018 (candidarono gente che sei mesi dopo avrebbe abbandonato Forza Italia, cosa che Pietro si rifiutò di fare malgrado laute offerte e dopo la cocente delusione incassata). Anzi, un anno dopo decide di candidarsi alle Europee. Ma il 7 maggio, quando a Linate si sta imbarcando per andare in tv a Roma, viene arrestato da uno stuolo di uomini manco fosse Al Capone in fuga.

Associazione a delinquere, corruzione e finanziamento illecito, per fatti di due anni prima. Con lui, finiscono dietro le sbarre in 43. Milano era stata invasa da cimici e microspie. Segue immancabile conferenza stampa in cui Francesco Greco, capo della Procura, tratteggia la “sinergia tra cosche e imprenditori” e “spaccati di società che fatica a cambiare tra faccendieri, politici e imprenditori”.

Seguono settimane di sputtanamento totale da parte di tutti i tg e i quotidiani d’Italia (ancora ricordo il Tg1, all’epoca grillino, sversare di tutto contro lui e Fabio Altitonante, altro bersaglio forzista di questa inchiesta ridicola che voleva affermare che si incassassero tangenti emettendo fattura per il proprio lavoro svolto, e pagandoci le tasse, ahahah). Perché qualcuno aveva già apparecchiato filmati, immagini e intercettazioni con regie suggestive, degne dei migliori film, offrendoli a tutti i media della nazione per orientare l’opinione pubblica contro gli indagati. In Italia funziona così: se ti arrestano devi essere già considerato colpevole e per farlo si allestiscono sapientemente filmati tagliati e cuciti, alla Report per intenderci, che ti dipingono come un criminale. Sarà proprio Report, anche se in ottima compagnia devo ammettere, a cantare col suo conduttoriello, le lodi di questa inchiesta ridicola, con Ranucci che diceva ai suoi spettatori, parlando di Fabio Altitonante che, indagato anche lui per questa storia, si era dimesso da sottosegretario ma non da consigliere regionale: “Eh, ma il posticino e lo stipendio pubblico da consigliere regionale se li è tenuti però…”. Come se il fatto di essere indagati per poi essere immancabilmente assolti ma di non dimettersi, per evitare di essere oltre che vittima di un Pm anche poveri, fosse criticabile o un furto (che poi… parlava lui che, dipendente pubblico Rai, pagato coi soldi pubblici dei cittadini, è pluri-indagato e rinviato a giudizio, dunque imputato, e col cavolo che fa altrettanto, lasciando il posto e i soldini pubblici. Alcuni sono coerenti solo con le vite degli altri).

Tatarella viene dunque placcato come un latitante in fuga e buttato in carcere per quattro mesi con la patente del ladro, per giunta vicino alla ‘ndrangheta. 120 giorni di galera, di cui 46 in isolamento. Un luogo dove il cervello viaggia e non sai a quali decisioni ti possa portare. Io lo vado a trovare ad Opera. Normale visita ispettiva di un deputato. Verrà segnalata alla P.g. (una roba che suona tipo: “Come si permette, questo, di andare a trovare quel gaglioffo…”). Arriva l’interrogatorio del pubblico ministero Silvia Bonardi (una che si è candidata per guidare la procura di Brescia, pericolo per fortuna scampato). La Pm sembrava Toninelli, con continue obiezioni populiste e sciatte come: “Scusi Tatarella, ma io da cittadina le oppongo che…”. Che uno dovrebbe risponderle: “Cara, tu fai il Pm, non la cittadina. Perché ogni cittadino che sbaglia sul lavoro, paga. Tu che stracci vite, no. Datti un tono, please”.

Il verbale rivela un contegno che trasuda pregiudizio etico, è la negazione del diritto e del lavoro da Pm, che per legge dovrebbe valutare anche gli elementi a favore dell’accusato.

Dopo quattro mesi di carcere e uno spostamento improvviso da Opera a Busto Arsizio per cui se ne perdono le tracce per due giorni, Tatarella torna a casa, scarcerato per decorrenza termini corredata da un giudizio che a leggerlo oggi viene il vomito (“ha tratto sufficiente monito per astenersi dal commettere altri reati simili”, scrisse il magistrato), ma ai domiciliari per altri due mesi. E ci torna tra gli insulti, consumati anche al bar sotto casa, di chi lo crede colpevole. Legge i suoi social e al danno si somma la pena. Per tutti è un reietto. Scaricato del tutto da Forza Italia (anche se io mi vanto di aver messo nero su bianco in un lancio d’agenzia, e purtroppo in splendida solitudine, che: “La scarcerazione di Pietro, che è chiaramente innocente, è un atto più che dovuto. L’inchiesta a suo carico è semplicemente ridicola”), abbandona la politica e comincia la sua lunghissima traversata nel deserto verso la sentenza, sempre mascariato. La moglie Miriam vacilla disperata, il padre Dino, uomo del sud e grande lavoratore è abbattutissimo e patisce il pregiudizio che sente sulla propria pelle, la mamma, affranta per il suo unico figlio prima incarcerato e poi additato da tutta Italia come Al Capone, si ammala e muore. Pietro vive il suo anno terribile fatto di una quotidianità infernale, perde la sua contagiosa solarità, appanna la sua naturale brillantezza, ma resiste, assistito da una donna coriacea, l’avvocato Nadia Alecci. Incassa la delusione di vedere il Comune costituirsi parte civile contro di lui (ma non contro alcuni suoi dipendenti coinvolti nella stessa inchiesta), malgrado diversi suoi avversari del Partito Democratico lombardo siano andati a trovarlo in carcere e lo difendano in aula con le testimonianze.

Io stesso, testimoniando a suo favore (e spiegando al Pm che gli contestava una corruzione per due biglietti dello stadio, che i biglietti erano per me, non per lui. Quanta superficialità…), respirai il pregiudizio che due signori in toga nutrivano verso questo ragazzo.

Ieri, dopo 5 interminabili anni, la sentenza: assolto perché il fatto non sussiste. Tradotto: abbiamo scherzato. Non c’era nulla. Tatarella, in lacrime. Fuori, esultanza. E rabbia. Perché ora la domanda resta la solita: chi si scusa a nome di uno Stato che troppe volte sbaglia, perché qualche Pm si innamora delle proprie idee anziché della verità? Chi restituisce a questo ragazzo, nel frattempo diventato papà una seconda volta, cinque anni di inferno che mai avrebbe dovuto vivere, la carriera che con merito e fatica stava costruendo, la reputazione sociale che si era guadagnato, la serenità persa e la possibilità di chiudere gli occhi alla mamma dicendole: “Mi riconoscono innocente, tranquilla”? E cosa accadrà a un Pm che, dopo aver diretto le danze della propaganda da procura, su 60 sentenze emesse ieri, ne incassa 52 di assoluzione a fronte di altrettante carriere e vite stracciate? Che farà il Procuratore Generale? Fermerà questo scempio? Ci auguriamo di sì. Intanto si è ristabilito l’ovvio: Tatarella è innocente. E io non avevo dubbi. Ma ora basta. Riformate la giustizia una volta per tutte. Perché oltre a chi difende certa magistratura e certa stampa, che confondono intenzionalmente il fare giustizia col giustiziare, c’è una categoria che fa ancora più schifo: quei politici pavidi che non trovano il coraggio di opporvisi, fifoni.

Fate qualcosa che serva a non avere più casi Tatarella, o cambiate mestiere. Andrea Ruggieri

Fabio Altitonante.

"Il pm mi disse: lei fa il figo, ma qui comando io". L’ex consigliere di Forza Italia assolto a Milano dopo gli arresti: "Svegliato e perquisito alle sei del mattino". Luca Fazzo su Il Giornale il 4 Ottobre 2023

«Ero convinto che nell’interrogatorio avrei avuto la possibilità di spiegare tutto. Invece mi trovai davanti un pubblico ministero che diceva: lei arriva tutto figo pensando di essere ancora in Regione, invece qui comando io. E lei può solo rispondere sì o no». Sono passate ventiquattr’ore da quando, nell’aula maggiore del tribunale di Milano, il giudice Paolo Guidi ha pronunciato la sentenza che smantella quasi per intero l’inchiesta «Mensa dei poveri», l’ultima indagine della procura ambrosiana sul fronte della politica. Quarantasei assoluzioni, undici condanne, una Caporetto per la pubblica accusa. Fabio Altitonante, ex consigliere regionale di Forza Italia, non se l’è sentita di entrare in aula a sentire il verdetto. Altrimenti si sarebbe messo a piangere come il suo amico Pietro Tatarella. Assolti anche loro, tutti e due, «il fatto non sussiste». «Pietro si era fatto anche tre mesi di carcere, tra Opera e Busto Arsizio. Con me erano stati più teneri: tre mesi di domiciliari».

Come è cominciata?

«Con una telefonata alle sei del mattino dei carabinieri, il 7 maggio 2019: “siamo sotto casa sua, ma non troviamo il nome sul citofono". Salirono, perquisirono la casa, poi mi dissero: c’è un’ordinanza di arresti domiciliari. Mi portarono in caserma e mi fecero delle domande. Erano i nomi di gente che non sapevo neanche chi fosse. Chiesi: ma siete sicuri che sia io?».

Quando capì di cosa la accusavano?

«Quando lessi le carte, e rimasi di sasso. Mi accusavano di corruzione per una telefonata fatta al Comune per chiedere informazioni per un amico che doveva rifare una facciata, e di finanziamento illecito per una festa di pugliesi insieme a Tatarella, quando eravamo tutti e due candidati. Vicende di questo livello venivano raccontate dai telegiornali come una storia enorme, una nuova Tangentopoli, al caso “Mensa dei poveri" venne dedicata persino una puntata di Porta a porta. Smisi di guardare i telegiornali, mi sembrava di essere in una realtà parallela. A scuola mio figlio che aveva tredici anni lo chiamavano il figlio del ladro, dovette smettere di andare a lezione. Dopo tre mesi il tribunale del Riesame mi derubricò il reato di corruzione in traffico di influenze e mi liberò. Uscire dai domiciliari fu più traumatico dell’arresto, avevo paura ad attraversare la strada, ogni Volante mi sembrava che fosse lì per me».

Quest’anno si è ripresentato alle elezioni regionali, col processo ancora aperto.

«Un giornale manettaro mi ha definito “impresentabile". Ho preso quattromila voti, terzo di Forza Italia. Evidentemente c’è qualcuno che ha ancora fiducia in me. Ma intanto ho perso tutto quello che avevo costruito in dieci anni di attività politica».

Ha seguito il processo?

«Poco. Qualcuno mi diceva: i processi di primo grado a Milano sono dei plotoni di esecuzione. Io non ho mai perso la fiducia nella giustizia, e la sentenza mi ha dato ragione. Ma questi anni non me li ridarà nessuno».

La sentenza dice che il sistema criminale teorizzato dalla Procura non esisteva. C’era invece una questione morale, un rilassamento dei costumi? Circolavano personaggi come Nino Caianiello, l’ex coordinatore di Forza Italia a Varese divenuto il pentito dell’inchiesta.

«C’erano tante situazioni diverse, e uno dei tanti sbagli della Procura è stato accomunare in un solo minestrone fatti e personaggi lontanissimi gli uni dagli altri».

Cosa le ha insegnato questa vicenda?

«Che la politica è una delle cose più belle che ci siano perchè puoi lasciare un segno positivo nella vita degli altri, ma che in Italia è difficile fare serenamente politica perchè da un momento all’altro puoi sparire senza colpe. Esiste un rischio giudiziario senza avere fatto nulla di illegale e avendo agito nella trasparenza. Io credo che l’errore giudiziario ci possa stare ma non può essere la regola, i ladri devono andare in galera ma gli innocenti vanno tutelati, invece oggi la magistratura ha un potere assoluto sulla vita della gente. La politica deve trovare il coraggio di intervenire».

Sami Shala.

Processato “in assenza”, ma l’avviso non c’è stato: la Cedu condanna l’Italia. Sami Shala era stato ingiustamente dichiarato latitante e condannato senza garantirgli la possibilità di difendersi personalmente. La Corte Europea di Strasburgo condanna il nostro Paese per la violazione dei Diritti Umani. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 2 settembre 2023

Era stato dichiarato latitante, nonostante non fosse stato messo a conoscenza del processo e, soprattutto, non fosse fuggito volontariamente. Il risultato è che viene giudicato in assenza e condannato a ventisei anni di carcere dal Tribunale di Milano il 24 ottobre 2001, sentenza che divenne definitiva il 26 marzo 2002. Ma ora, grazie al ricorso presentato dall'avvocata Marina Silvia Mori e a una dura battaglia contro lo Stato Italiano, che ha tentato di chiudere la questione unilateralmente, la Corte Europea di Strasburgo condanna il nostro Paese per aver violato l'articolo 6 della Convenzione Europea.

Parliamo della sentenza “Shala contro l'Italia” emessa il 31 agosto scorso, nella quale si è affrontata una serie di questioni fondamentali relative al diritto di un individuo a un processo equo e alla protezione dei suoi diritti umani fondamentali. La causa riguarda un cittadino kosovaro di nome Sami Shala, nato nel 1963, che è stato dichiarato “latitante” e giudicato in Italia senza che fosse presente al processo. La questione centrale in discussione era se il signor Shala avesse avuto un processo equo secondo l'articolo 6 della Convenzione per la protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali. In particolare, Shala sosteneva di non avere avuto l'opportunità di esercitare determinati diritti di difesa durante le procedure legali che sono state riaperte dopo la sua cattura.

Tutto inizia nel 2013, quando venne arrestato dalle autorità albanesi in esecuzione di una richiesta di arresto provvisorio a fini estradizionali. Successivamente, il 28 agosto 2013, venne consegnato alle autorità italiane in base a un ordine di esecuzione emesso dalla Procura della Repubblica di Milano. Questo ordine era basato su una sentenza del Tribunale di Milano datata 24 ottobre 2001, che divenne irrevocabile il 26 marzo 2002. Un elemento critico in questa vicenda è che Shala sosteneva di non essere a conoscenza del processo a suo carico prima dell'arresto e della conseguente estradizione. La condanna a 26 anni di carcere per reati di traffico di stupefacenti era chiaramente eccessiva e motivata da uno stato di latitanza illegittimamente dichiarato, a fronte di episodi risalenti a oltre sedici anni prima. Nonostante ciò, la Corte d’Appello respinse tutte le istanze difensive e confermò la condanna. Tra le richieste respinte, c’era anche quella del giudizio abbreviato, che chiedeva la riapertura delle procedure. Tuttavia, questa richiesta fu considerata tardiva, poiché non fu avanzata contemporaneamente all'istanza di restituzione in termini. La Corte d'Appello di Milano respinse la richiesta e, come detto, confermò la condanna di Shala.

La difesa di Shala presentò un ricorso per Cassazione, sollevando numerose questioni, tra cui la nullità del decreto di latitanza, l'inosservanza della legge penale e delle norme processuali in merito all'incompetenza territoriale e la violazione delle norme processuali e della Convenzione Europea dei Diritti Umani in merito all'accesso al giudizio abbreviato. Ma niente da fare. La Cassazione rigettò il ricorso, nonostante il procuratore generale stesso, nelle sue conclusioni, avesse chiesto la riduzione della pena di un terzo in applicazione della richiesta di celebrazione del giudizio con rito abbreviato o, in subordine, la rimessione alle sezioni unite della questione relativa all’ammissibilità del medesimo rito alternativo.

La questione posta dall'avvocata Marina Silvia Mori con il ricorso alla Corte Europea è chiara. Il mancato diritto che spettava all'imputato giudicato in assenza di ottenere la celebrazione di un nuovo giudizio. Il fatto che Shala sia stato considerato latitante, nonostante i suoi recapiti all'estero fossero noti e che quindi poteva essere avvisato. D'altronde, la stessa Corte d'Appello aveva evidenziato che fosse del tutto verosimile che l'imputato non avesse avuto conoscenza della pronuncia della sentenza prima dell'instaurazione della procedura di estradizione. Ricordiamo che i fatti riguardanti Shala risalgono a prima della riforma Cartabia. Fatti che hanno dimostrato quanto siano state gravi le carenze che hanno afflitto, fino a poco tempo fa, l'ordinamento italiano in materia di giudizio in assenza dell'imputato. La riforma Cartabia, purtroppo venuta dopo, non poteva andare a beneficio dell'imputato in questione.

La Corte Europea ha esaminato attentamente questa controversia presentata dall'avvocata Mori e ha emesso la sua sentenza il 31 agosto scorso. Innanzitutto, la Corte ha respinto la richiesta del governo italiano di eliminare il caso dalla sua lista in base all'articolo 37 della Convenzione. La Corte, sposando la memoria presentata dall'avvocato, ha ritenuto che la dichiarazione unilaterale presentata dal governo non offrisse una base sufficiente per concludere che il rispetto dei diritti umani, come definito nella Convenzione, non richiedesse alla Corte di continuare l'esame del caso.

Nel merito del ricorso, la Corte ha esaminato attentamente le circostanze del caso e ha ritenuto che vi fosse una violazione dell'articolo 6 della Convenzione. In particolare, la Corte ha stabilito che Shala, condannato “in absentia”, non aveva avuto un'effettiva opportunità di ottenere una nuova determinazione delle accuse contro di lui da parte di un tribunale che lo avesse ascoltato conformemente ai suoi diritti di difesa. La Corte di Strasburgo ha sottolineato che Shala non aveva avuto l'opportunità di ricominciare da capo il processo, ma solo di appellarsi contro la sentenza di primo grado. Non risultava che fosse stata svolta alcuna attività di acquisizione di prove davanti alla Corte d'Appello, né che Shala fosse stato ascoltato personalmente da quel tribunale.

Gli furono negati i diritti di contestare la giurisdizione territoriale dei tribunali e di essere giudicato con la procedura abbreviata, diritti che avrebbe potuto esercitare se fosse stato presente nel processo di primo grado, quando invece era assente e rappresentato da un avvocato d'ufficio. La Corte Europea ha sottolineato che essere rappresentati da un avvocato d'ufficio in procedimenti svolti in assenza non costituisce di per sé una garanzia sufficiente contro il rischio di ingiustizia. Inoltre, essere giudicati da un tribunale competente in conformità alla legge nazionale è un problema rilevante per stabilire la giustizia complessiva ai sensi dell'articolo 6 della Convenzione.

La Corte ha quindi concluso che l'equità complessiva dei processi era stata viziata e che, contrariamente all'opinione del governo italiano, Shala non aveva ottenuto una nuova determinazione efficace delle accuse contro di lui in conformità con i requisiti dell'articolo 6. Infine, per quanto riguarda la questione dei danni, Shala non ha presentato alcuna richiesta in tal senso, ma ha chiesto il rimborso delle spese legali sostenute davanti alla Corte. La Corte ha ritenuto ragionevole concedere a Shala la somma di 7.000 euro per le spese sostenute davanti alla Corte, oltre a eventuali imposte dovute. La sentenza di Strasburgo nella causa Shala contro l'Italia rappresenta un importante riconoscimento dei diritti di un individuo a un processo equo. Ora la riforma Cartabia, ricordiamolo, ha messo mano alla disciplina del processo in assenza e può permettere ai casi come Shala di poter riaprire la procedura.

Gergo Hetey.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scarpa per “la Repubblica – ed. Roma” mercoledì 30 agosto 2023.

«Chi visita Roma non si dimentica mai il Colosseo o la basilica di San Pietro, ecco a me invece resterà per sempre impressa la cella del carcere di Rebibbia, non era certo la vacanza che volevo fare». Scherza Gergo Hetey, turista ungherese di 40 anni. 

La settimana romantica che avrebbe voluto trascorrere in compagnia della futura moglie si è trasformata in un soggiorno obbligato di 13 giorni a Rebibbia, dal 3 al 16 agosto. Dietro le sbarre da innocente, salvo poi essere liberato. Scarcerato dai giudici della sezione feriale della Corte d’Appello di Milano con questa motivazione: Hetey in Italia è stato processato senza esserne stato mai informato. […]

Partiamo dall’inizio, il giorno in cui è arrivato a Roma

«Il due agosto sono arrivato in albergo, era la prima volta che mettevo piede in Italia. Io e la mia compagna abbiamo lasciato le nostro valigie in stanza, poi siamo andati a visitare Roma, il Colosseo, il Vittoriano, Fontana di Trevi». […] 

Racconti pure...

«Il tre agosto dopo una passeggiata sono rientrato in hotel e ho visto la polizia che mi aspettava fuori dalla camera. Gli ho chiesto cosa volessero da me e loro mi hanno arrestato, ho provato a spiegare in inglese che io non ero quella persona, che ci doveva essere un errore».

E invece?

«Invece mi hanno portato in galera, a Rebibbia. La mia fidanzata era scioccata, io ero distrutto. Pareva uno scherzo ben riuscito, ma non lo era e così mi sono trovato dentro una cella a domandarmi “ma cosa cavolo sta succedendo, cosa ho fatto?”». 

In carcere è riuscito a parlare con qualcuno per rappresentare le sue motivazioni?

«La follia ulteriore è che non riuscivo a parlare con nessuno, da Rebibbia non mi facevano mettere in contatto con i miei parenti o con il consolato, stavo letteralmente uscendo fuori di testa. Mettetevi nei miei panni, vengo in vacanza a Roma e poi mi ritrovo in galera senza poter contattare nemmeno un avvocato. Mi dicevo: “qui passeranno mesi prima che si rendano conto dell’errore”».

Poi cosa è accaduto?

«Tramite un cappellano del carcere ho saputo che la mia fidanzata era riuscita a mettersi in contatto con l’avvocato Scaringella che poi ha assunto la mia difesa». 

A quando risale il furto dei suoi documenti?

«Era il 2006, oramai non ricordavo più del furto, ma per fortuna i miei familiari avevano conservato la denuncia. Qualcuno deve aver aperto società a mio nome a Milano. Consideri che io sono venuto per la prima volta in Italia lo scorso due agosto».

Le accuse che hanno mosso nei suoi confronti a quando risalgono?

«Ho scoperto nei giorni scorsi di essere stato indagato nel 2008, e condannato con sentenza definitiva nel 2014». 

Ma un atto giudiziario deve esserle stato recapitato?

«Mai. Non sarei mai venuto a Roma sapendo di avere una condanna, anche ingiusta, di un anno. Avrei prima incaricato un avvocato affinché risolvesse il caso». […]

Domenico Morrone.

Un nuovo libro sulla storia di Domenico Morrone detenuto innocente per 15 anni. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 27 Agosto 2023

Morrone durante il processo portò in aule due testimoni che confermarono il suo alibi, ma entrambi vennero denunciati per falsa testimonianza. I giudici infatti scelsero di non tenere in considerazione l

Presentato a Taranto il libro “Vita Dentro 15.4.22”, scritto “a quattro mani” dal giornalista Luigi Monfredi e da Domenico Morrone, pubblicato dall’ editore Librerie Mandese. Il risultato letterario è un racconto consigliato per chi segue la cronaca giudiziaria, e le tematiche della amministrazione della giustizia, soprattutto in questa epoca di giustizialismo e colpevolismo che si propaga anche attraverso i social: “Non penso più al futuro, non mi appartiene più, mi è stato rubato, vivo alla giornata, così come viene, potranno risarcirmi ma non potranno restituirmi tutto quello che ho perso”” ha detto Domenico Morrone.

Il libro è la continuazione della storia di Domenico Morrone, raccontata nel libro precedente “Il Rumore Delle Chiavi “ pubblicato nel 2020, che narra del clamoroso errore giudiziario che ha visto Morrone ingiustamente detenuto per oltre quindici anni, dal 1991 al 2006, per una accusa di duplice omicidio sostenuta dal pm Vincenzo Petrocelli della procura di Taranto, per la quale successivamente Morrone è stato ritenuto innocente. Domenico Morrone venne accusato di aver ucciso due studenti di scuola media solo per vendicarsi di un litigio. Quel giorno lui era altrove, ma il suo alibi non è stato creduto. Così Morrone è diventato il protagonista di uno dei più gravi errori giudiziari italiani, trascorrendo ingiustamente 5.475 giorni di detenzione, 15 anni in carcere da innocente.

All’epoca dell’arresto, Morrone era incensurato ed è un pescatore di Taranto dalla fedina impeccabile. Il giorno del suo arresto non perse tuttavia solo la propria libertà e dignità, ma anche la fidanzata, mentre sua madre venne ridotta in povertà in quanto riusciva a sostenersi solo grazie al lavoro di pescatore del figlio e in sua assenza non era più in grado di poter condurre una vita normale e stabile. 

L’unica colpa di Morrone era stata quella di aver litigato con un ragazzino che è stato poi ucciso. Contro di lui c’è un movente fortissimo: si sarebbe vendicato dell’agguato subito, quindi viene arrestato. Testimoni oculari, un esame dello stub dall’esito incerto e un movente fortissimo: questi sono gli elementi che lo portano in cella. Morrone durante il processo portò in aule due testimoni che confermarono il suo alibi, ma entrambi vennero denunciati per falsa testimonianza. I giudici infatti scelsero di non tenere in considerazione l’alibi di Morrone, confermato dai vicini di casa Masone, dalla madre e da un amico appuntato.

La vicenda giudiziaria si tinte di giallo allorquando dall’ufficio corpi di reato sparirono delle prove che lo scagionano. Nei 15 anni di carcere Morrone ha però conosciuto l’umanità di guardie e operatori carcerari. Dopo nove anni dietro le sbarre ottenne un permesso di tre giorni che decise di trascorrere con sua madre.Per i suoi 15 anni trascorsi in carcere da innocente ha ricevuto 4 milioni di euro di risarcimento. A tal proposito aveva dichiarato: “La libertà di ogni singolo giorno della nostra vita non ha prezzo“.

Mentre nel primo libro i fari erano puntati sulle indagini e sul processo, in questa seconda opera è centrale la vita di Morrone “prigioniero“, del carcere con tutti i passaggi, i rapporti e le abitudini che contraddistinguono la vita dei detenuti: “All’interno del carcere” dice Morrone “c’è una ‘regola’ a cui devi attenerti, diversa e lontana da quella della società civile”

Il libro attraversa nuovamente l’epopea di Morrone, un uomo che urlava la propria innocenza alle pareti di celle in cui tutti capivano che non era colpevole, questa volta con una maggiore attenzione anche al fatto “dall’esterno”, a partire dalla serie di “incongruenze” dietro all’accusa, passando per le inconsistenti analisi delle prove e delle parole dei pentiti. 

Il punto focale del racconto diventa quindi Morrone ora non più persona, ma ora numero nelle ganasce della macchina della giustizia che necessita di colpevoli da castigare, dei suoi sogni e delle sue speranze nella giustizia, che il giornalista tarantino Luigi Monfredi, attuale caporedattore di RAINEWS24 ha trasformato nella storia di un essere umano, cercando la verità e la redenzione di una vita altrimenti perduta attraverso anche gli archivi raccolti all’epoca dallo stesso Monfredi, al tempo giornalista di Telenorba, e sin da subito unico garantista dichiarato, e quindi “innocentista” al contrario della stampa locale di quel periodo, compre sempre schierata sulle teorie accusatorie della Procura.

Un esempio chiave del racconto, e di grande efficacia narrativa, è la storia dei gettoni del telefono, collezionati da Morrone in previsione del suo primo permesso d’uscita, ad ormai quasi dieci anni dalla sua condanna, e la sorpresa nell’incontrare il telefono che richiedeva una scheda per chiamare, e ad oggi per lui come per tutti noi obsoleto, emblema della libertà e del tempo di vita sottrattogli ingiustamente fino, finalmente, al crollo del muro di gomma nel 2002, alla accettazione della richiesta di revisione e la conseguente assoluzione dell’ormai non più giovante tarantino, innocente con la formula “per non aver commesso il fatto“.

Redazione CdG 1947

Gabriele Elia.

Io, condannato per corruzione, ma senza corruttore. La storia di un ex amministratore di Cellino San Marco: «Trovo veramente inspiegabile che nel 2023, nel Paese di Beccaria, si debba subire e restare inermi davanti ad un giudice relatore di primo grado sui social network in pose plastiche ritratto in fotografie di feste private abbracciato con il Pm che mi ha accusato, oppure osservare un giudice che quasi si assopisce davanti ad un’arringa magistrale del mio legale difensore». Gabriele Elia su Il Dubbio l'1 agosto 2023

Ben 8 anni fa per me iniziò un inferno. Era il 10 aprile 2015 quando elicotteri e mitra vennero a prelevarmi da casa nel cuore della notte su un mandato di cattura emesso dalla procura di Brindisi che mi costò 3 giorni in isolamento, 25 giorni di reclusione nel penitenziario di Brindisi e 9 mesi di arresti domiciliari. Essa rimarrà negli annali per la sua eccezionalità in quanto ha rappresentato l’unico caso di arresto preventivo di amministratori comunali (non più nell'esercizio delle loro funzioni) e di custodia cautelare per reati contro la Pa con una durata pari a 10 lunghissimi mesi. Fu arrestata quasi tutta la giunta del Comune di Cellino San Marco insieme a degli imprenditori. Io ero accusato di corruzione e associazione a delinquere, fui sospeso dall’istituto dove lavoravo come docente di informatica applicata e terminò ogni mia attività all’interno del partito in cui militavo da anni, il PdL. Dopo quello che ho vissuto sulla mia pelle, e due condanne in primo e secondo grado, ora nutro speranza per il giudizio della Cassazione.

Purtroppo la recente sentenza della Corte di Appello, che mi condanna a 6 anni di reclusione, pur di punirmi, non si attiene ad una importante decisione del supremo Giudice amministrativo quale il Consiglio di Stato riguardo una doverosa interpretazione di una decisione del consiglio comunale sull’individuazione di un terreno per fare il centro di raccolta rifiuti. Inoltre per l’altro mio capo di imputazione risulterei un “corrotto senza corruttore”; al tempo stesso non mi sono state riconosciute le attenuanti generiche pur essendo incensurato e cittadino correttissimo e rispettoso delle leggi. Eppure le carte parlano chiaro: sto affrontando un processo ordinario che mi vede come unico imputato con tempi lunghissimi per un’accusa infondata a mio carico equivalente al valore di euro 1.000 (il prezzo di uno smartphone!) quale mera interpretazione di un provento illecito. Leggendo con attenzione i dialoghi delle intercettazioni, si capisce che quella somma era una quota di uno sponsor scaturita nel massimo della trasparenza operativa per una raccolta fondi - per il lancio del Pdl nelle elezioni politiche del 2013 con parlamentari eletti che si tenne con un piccolo evento a Cellino -, ricercata, pubblicizzata ovunque e parzialmente reperita in quanto io, da buon militante politico, ho sempre rimesso di tasca mia il resto delle spese di ogni iniziativa elettorale che interessava la fascia sud della provincia di Brindisi.

A distanza di 8 anni sono sereno, felice, sono titolare di un’azienda con un buon fatturato, ho una cattedra, sono circondato da tantissimi affetti e soprattutto sono il padre di un bellissimo bimbo di 4 anni di nome Tommaso. Purtroppo non mi sento ancora libero, mi pesa interiormente un velo di semilibertà che mi affligge e si ritorce dentro perché la mia passione, i miei ideali, il mio lavoro, le mie conquiste le reputo mutilate dal mio stesso garbo istituzionale. La mia unica e orgogliosa consolazione sono i miei tanti affetti, la mia famiglia, gli amici, i consiglieri, gli assessori, i sindaci che con la loro militanza e attivismo hanno palesemente fatto della “mia” battaglia, la “loro” battaglia. Questi tristi episodi ti segnano, non li dimenticherò mai. Trovo veramente inspiegabile che nel 2023, nel Paese di Beccaria, si debba subire e restare inermi davanti ad un giudice relatore di primo grado sui social network in pose plastiche ritratto in fotografie di feste private abbracciato con il Pm che mi ha accusato, oppure osservare un giudice che quasi si assopisce davanti ad un’arringa magistrale del mio legale difensore. Tra un anno, a distanza di dieci dai fatti contestatimi, probabilmente ritornerò in carcere, e la mia vita sarà nuovamente segnata come quel maledetto 10 aprile del 2015. Non mi resta che pregare Dio, il vero Giudice di tutti Noi. Anche se ora tutto è nelle mani di un Giudice di Roma.

Gerardo Stefanelli

"Il fatto non sussiste". Prosciolto il sindaco Gerardo Stefanelli, l’ennesima indagine si scioglie come neve al sole. Benedetto De Cesaris su Il Riformista il 21 Luglio 2023 

L’ennesima indagine penale che ha coinvolto amministratori e dirigenti pubblici si è squagliata come neve al sole al momento della prima verifica giurisdizionale. E’ accaduto a Cassino, dove il Giudice per l’udienza preliminare, Dott. Domenico Di Croce, ha prosciolto “perché il fatto non sussiste” Gerardo Stefanelli, attuale Presidente dell’Amministrazione Provinciale di Latina, Sindaco di Minturno nonché componente della Direzione Nazionale di Italia Viva, unitamente ad altri dirigenti comunali coinvolti in una delle tantissime vicende giudiziarie nelle quali, troppo spesso amministratori e funzionari pubblici finiscono ingiustamente nelle maglie della giustizia penale.

In breve i fatti: è il 10 marzo 2022 quando la Guardia di Finanza di Formia si presenta presso gli uffici comunali per notificare al Sindaco Stefanelli un’informazione di garanzia riguardante una contestazione di turbativa d’asta. Ovviamente la notizia viene lanciata sui media a tutta pagina e alcune conversazioni del tutto irrilevanti vengono pubblicate con il consueto danno reputazionale a carico degli interessati.

La vicenda che viene contestata a Stefanelli si riferisce ai lavori di installazione del sistema di videosorveglianza comunale e la partecipazione ad un bando per un finanziamento regionale, successivamente erogato, che consentì nel 2018 la realizzazione di un sistema di monitoraggio sul territorio comunale a beneficio in particolare delle forze dell’ordine. Viene contestato al Sindaco l’affidamento dei lavori di installazione del sistema a una ditta in assenza di gara e in violazione delle soglie massime previste dal codice appalti.

Immediatamente Stefanelli prova a spiegare al pubblico ministero che la sua attività amministrativa si era limitata, in esecuzione ad una precedente delibera di Giunta, a presentare un progetto per la partecipazione del Comune al bando finalizzato ad ottenere il finanziamento per la realizzazione di un’opera di pubblica utilità per monitorare il territorio e a tutela della sicurezza dei cittadini. Non dovrebbe essere particolarmente complicato capire che il Sindaco nulla ci potesse entrare sulla successiva fase di affidamento dei lavori la cui competenza “per legge” è attribuita al Dirigente Comunale, peraltro anch’egli prosciolto con la medesima formula e che, dunque, neanche in linea astratta potesse ipotizzarsi a carico di Stefanelli una turbativa d’asta.

Il pubblico ministero, come nulla fosse invece procede diritto per la sua strada coltivando questa improponibile contestazione sul piano fattuale oltre che giuridico e formula nei confronti del Sindaco e degli altri Dirigenti una richiesta di rinvio a giudizio. Le spiegazioni e le diverse memorie che Stefanelli ed il suo Avvocato si affannano con la massima celerità di sottoporre al vaglio degli inquirenti non ottengono alcun risultato Non è azzardato ipotizzare che forse non siano state ritenute neanche degne di lettura.

Si arriva così, tra un fisiologico rinvio e l’altro, all’odierna udienza preliminare nella quale il Gup, leggendo l’incartamento processuale, comprende quello che in realtà emergeva palesemente dagli atti di indagine e proscioglie non solo il Sindaco, che nella fase di affidamento dei lavori per legge nulla poteva entrarci, ma anche il Dirigente Comunale che aveva adottato le determine di affido e l’imprenditore coinvolto nella vicenda. Era infatti presente in atti la documentazione che dimostrava che i pagamenti erogati in favore della ditta esecutrice si riferissero anche a lavori diversi da quelli contestati e che dunque non era stato un alcun modo superato il tetto soglia che aveva legittimamente consentito l’affidamento diretto alla ditta.

Il difensore del Sindaco Stefanelli, l’Avv. Renato Archidiacono, felice per il buon esito della vicenda processuale commenta sconfortato: il tema dell’abrogazione del reato di abuso in atti di ufficio o la individuazione di condotte tipiche che rispettino il principio di tassatività in alcuni casi rischiano di essere degli inutili esercizi intellettuali quando accade che gli inquirenti mostrano nei fatti di non avere la giusta attenzione nella semplice lettura degli atti processuali. In questo caso se ciò fosse accaduto Stefanelli non sarebbe dovuto neanche essere iscritto nel registro degli indagati. Benedetto De Cesaris

Danilo Coppola.

Il finanziere Coppola: “Vivo come un fuggitivo per colpa di un giudice che non ammette un errore”. Edoardo Sirignano su L'Identità il 17 Luglio 2023 

di EDOARDO SIRIGNANO

La legge in Italia non è uguale per tutti. Chi ha investito milioni e milioni di euro per il Paese non deve scappare solo perché qualche magistrato non ammette di aver sbagliato”. A dirlo il noto finanziere Danilo Coppola, passato alle cronache per il suo arresto in mondovisione, che esorta il ministro Nordio a fare subito la tanto discussa riforma della Giustizia.

Dove si trova in questo momento?

Pur avendo fatto tanto per la mia comunità, senza mai averlo mai pubblicizzato, perché il bene non deve essere propagandato, la mia vita è come quella del fuggitivo interpretato da Harrison Ford. Non è bastato comprare ambulanze, orfanotrofi, dare migliaia di euro alla Caritas, per evitare un calvario, che non auguro a nessuno. Neanche 250 milioni non dovuti all’Agenzia delle Entrate sono stati sufficienti fermare il rancore nei miei confronti da parte di taluni soggetti.

A chi si riferisce?

A qualche magistrato, che ha chiaramente detto, ci sono audio a testimoniarlo, che non l’avrebbe smessa fino a quando non sarei fallito del tutto. Così, però, non solo si è rovinata la mia esistenza, di una compagna malata, adesso in stato terminale e che non posso neanche vedere, dei miei figli, dei miei cari, ma di cinquemila famiglie, che a causa di accuse, rivelatesi sempre non fondate, non sanno come sbarcare il lunario. Questa, purtroppo, è l’Italia. Non siamo un Paese normale.

Da quanto tempo vive in questo stato?

Sono venti anni che lotto tra tribunali e avvocati. Penso, a volte, che è stato architettato contro di me un vero e proprio piano diabolico su cui uno staff di persone, purtroppo, continua a lavorare giorno e notte. Stiamo parlando di capi di imputazione costruiti a tavolino.

Cosa chiede al ministro Nordio?

Le sembra giusto che un processo duri quindici, dodici, venti anni e intanto un uomo vede finire quanto gli è di più caro. Le sembra normale che qualche Pm, pur sbagliando dolosamente, continui a fare carriera, ricoprire cariche apicali o addirittura entra nel Csm?

Le sue parole sono rivolte a qualcuno in particolare?

A chi ha bloccato un’Opa di mercato come Bnl, facendola colonizzare dai francesi. Le nostre start up, i giovani se devono chiedere un finanziamento, adesso, devono andare a Parigi. Le operazioni oltre i cinque milioni di euro certamente non vengono decise in Italia. Pur essendo stati tutti assolti, chi pagherà il danno? Tutti possono sbagliare. Se commette un errore un chirurgo, però, viene condannato per omicidio colposo, stesso discorso vale per un autista di un tram che investe un pedone. Perché, invece, se inciampa un Pm addirittura viene promosso?

Come invertire il trend?

Nel sistema delle correnti, presente all’interno dell’Anm, non si fa carriera per meritocrazia, ma per appartenenza e scambio di favori. Ecco perché la separazione delle carriere è la priorità delle priorità. Non è un problema di Nordio, Cartabia o di chi non c’è più, ma di tutti gli italiani. Il garantismo non è un qualcosa di destra, come vuol farlo passare qualcuno. Tutti dovrebbero stare dalla parte di chi è vittima di un sistema più grande. Le porcherie, come insegna la storia, possono capitare a chiunque, conservatore o progressista che sia. Lo stiamo, d’altronde, vedendo negli ultimi giorni.

Demonizza tutti i magistrati?

Assolutamente no! Sono pochissimi a rovinare la credibilità di un’intera categoria. Ancora oggi sono convinto che la maggioranza dei giudici sono onesti e fanno al meglio il proprio lavoro. Schegge impazzite che si distinguono per lotte ad personam, tese a ottenere visibilità sui giornali, però, mettono in imbarazzo un intero Paese, a maggior ragione se rischiamo di trovarcele alla guida della Consulta.

Perché ha questo timore?

Perché ho paura che prenda il sopravvento un apparato di potere che ha messo spalle a muro un giovane imprenditore solo perché aveva voglia di cambiare. La mia non vuole essere una battaglia contro nessuno. L’unico fine di questa intervista si chiama verità. Voglio far capire al mondo che il mio avvicinamento alla Banda della Magliana nel 2005 è solo un’invenzione, una porcheria, che quell’arresto da Hollywood nel 2007 è stato uno spettacolo per dare visibilità a chi non la meritava. Non voglio una nuova esistenza, perché ormai la mia già mi è stata rovinata. Intendo, piuttosto, far capire al pianeta che tutto ciò è avvenuto solo perché ho dato fastidio a qualche salotto, che ancora oggi teme che un cittadino, senza aiuti e interferenze, possa arrivare al 5 per cento di Mediobanca. In questa vicenda, qualche toga, purtroppo, è stata utilizzata come il miglior cameriere, così come qualche organo di informazione che diffonde notizie create ad arte.

Si ritiene, quindi, completamente innocente?

Ci sono documenti, carte, telefonate che dimostrano come per arrestarmi è stata fatta fallire una società all’insaputa di tutti. Un gruppo che fatturava 3,5 miliardi di euro è stato costretto ad abbassare la saracinesca per un presunto debito di 7 milioni. Le sembra normale? Non è certamente questa la sede per raccontare la mia storia e difendermi da ogni accusa. Ci vorrebbe più di un libro. Voglio solo dire, comunque, che esiste un’altra storia rispetto a quella che qualche potente ha fatto passare. Voglio far sapere alle nuove generazioni che Coppola è diverso da quel personaggio che invece è stato creato ad arte da qualcuno.

Nicola Alfano.

(ANSA il 14 luglio 2023) - Dopo quasi tre anni, tra carcere e domiciliari, e condannato in primo e secondo grado a 15 anni per omicidio volontario, oggi è stato scarcerato con i giudici dell'appello bis che hanno riqualificato l'accusa in omicidio colposo portando la pena a 2 anni e 2 mesi. Un caso "kafkiano", come lo aveva già definito il sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, il quale, come di solito non accade dal fronte dell'accusa, aveva presentato ricorso contro la prima condanna. Ricorso che era stato accolto dalla Cassazione.

Oggi si è chiuso il nuovo processo d'appello, dopo che la Suprema Corte aveva rimandato indietro gli atti, accogliendo la tesi del sostituto pg, lo stesso, tra l'altro, che ha scritto l'ormai noto atto per chiedere di riaprire la vicenda della strage di Erba. Un anno fa la Corte d'Appello milanese aveva confermato quei 15 anni per omicidio volontario, decisi dal gup di Pavia, per Nicola Alfano, visagista accusato di avere ucciso nel 2019 l'amico Bruno Lazzerotti, simulando un incidente d'auto in una roggia nel Pavese.

Lazzerotti, 78 anni e vedovo, aveva iniziato ad uscire con una donna e, secondo l'accusa, la paura di perdere l'eredità da circa cinque milioni di euro sarebbe stato il motivo per cui Alfano, 49 anni, legato da una lunga amicizia con il pensionato di cui era erede, lo avrebbe affogato in una roggia nel Pavese, fingendo che l'auto su cui i due viaggiavano fosse finita nel canale. Il pg Tarfusser ha fatto ricorso chiedendo di cancellare l'accusa per Alfano, difeso dai legali Federico Cecconi e Nicolò Velati, e insistendo sul fatto che si fosse trattato semmai di un omicidio colposo, di un incidente.

Nell'atto ha scritto di essere andato di persona a fare una "ispezione dei luoghi". La condanna, per il pg, era stata "frutto, non della valutazione delle prove" che "non ci sono", ma solo del "giudizio di inverosimiglianza della versione" dell'imputato. Nell'atto lo stesso pg ha segnalato che il 9 giugno 2020, dopo quasi un anno dalla morte dell'anziano, la Procura emise un decreto di intercettazioni "d'urgenza". Intercettazioni che hanno portato la Procura, ma anche i giudici, a concludere che "proclamarsi innocenti", come faceva l'uomo al telefono, "equivale a dichiararsi colpevoli".

Salvato dal ricorso del Pg. Condannato senza prove a 15 anni per omicidio, scarcerato dopo 3 anni: il caso ‘kafkiano’ di Nicola Alfano. Redazione su L'Unità il 14 Luglio 2023

Lo hanno “salvato”, se così si può dire, i giudici del processo d’Appello bis assieme al sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, lo stesso che tra l’altro ha chiesto di riaprire le indagini sulla strage di Erba.

È grazie a loro che, dopo tre anni trascorsi tra carcere e arresti domiciliari, Nicola Alfano è tornato un uomo libero. Il visagista 49enne era stato condannato in primo e secondo grado a 15 anni di reclusione per omicidio volontario in un processo che, secondo il pg Tarfusser, era “senza prove” contro di lui.

Alfano era stato accusato di aver ucciso nel 2019 l’amico Bruno Lazzerotti, simulando un incidente d’auto in una roggia nel Pavese. La vittima, 78enne vedovo di cui Alfano era erede in virtù di una lunga amicizia, prima del presunto delitto aveva iniziato ad uscire con una donna. Secondo l’accusa la paura di perdere l’eredità da circa cinque milioni di euro sarebbe stato il motivo per cui Alfano lo avrebbe affogato in una roggia nel Pavese, fingendo che l’auto su cui i due viaggiavano fosse finita nel canale.

Una ricostruzione dei fatti e una condanna, nei primi due gradi di giudizio, che secondo il sostituto pg di Milano Tarfusser era stata “frutto, non della valutazione delle prove” che “non ci sono“, ma solo del “giudizio di inverosimiglianza della versione” dell’imputato.

Tarfusser aveva definito il caso “kafkiano” e aveva quindi deciso di fare ricorso contro la condanna in Appello, con i giudici che avevano confermato quei 15 anni per omicidio volontario decisi dal gup di Pavia.

Il sostituto procuratore aveva chiesto di cancellare l’accusa per Alfano, difeso dai legali Federico Cecconi e Nicolò Velati, e insistendo sul fatto che si fosse trattato semmai di un omicidio colposo, ovvero di un ‘semplice’ incidente. Nell’Appello bis, deciso con la scelta della Suprema Corte di rimandare indietro gli atti accogliendo la richiesta di Tarfuser, per Alfano è finalmente arrivata giustizia: i giudici hanno riqualificato l’accusa in omicidio colposo portando la pena a 2 anni e due mesi.

Nell’atto che ha spinto la Suprema Corte a rifare il processo d’Appello, il sostituto pg di Milano scriveva di essere andato di persona a fare una “ispezione dei luoghi” in cui è avvenuto l’incidente. Nell’atto, aggiunge l’Ansa, lo stesso Tarfusser ha segnalato che il 9 giugno 2020, dopo quasi un anno dalla morte dell’anziano, la Procura emise un decreto di intercettazioni “d’urgenza”. Intercettazioni che hanno portato la Procura, ma anche i giudici, a concludere che “proclamarsi innocenti”, come faceva l’uomo al telefono, “equivale a dichiararsi colpevoli”.

Redazione - 14 Luglio 2023

Salvato dal ricorso del Pg. Condannato senza prove a 15 anni per omicidio, scarcerato dopo 3 anni: il caso ‘kafkiano’ di Nicola Alfano. Redazione su L'Unità il 14 Luglio 2023

Lo hanno “salvato”, se così si può dire, i giudici del processo d’Appello bis assieme al sostituto pg di Milano Cuno Tarfusser, lo stesso che tra l’altro ha chiesto di riaprire le indagini sulla strage di Erba.

È grazie a loro che, dopo tre anni trascorsi tra carcere e arresti domiciliari, Nicola Alfano è tornato un uomo libero. Il visagista 49enne era stato condannato in primo e secondo grado a 15 anni di reclusione per omicidio volontario in un processo che, secondo il pg Tarfusser, era “senza prove” contro di lui.

Alfano era stato accusato di aver ucciso nel 2019 l’amico Bruno Lazzerotti, simulando un incidente d’auto in una roggia nel Pavese. La vittima, 78enne vedovo di cui Alfano era erede in virtù di una lunga amicizia, prima del presunto delitto aveva iniziato ad uscire con una donna. Secondo l’accusa la paura di perdere l’eredità da circa cinque milioni di euro sarebbe stato il motivo per cui Alfano lo avrebbe affogato in una roggia nel Pavese, fingendo che l’auto su cui i due viaggiavano fosse finita nel canale.

Una ricostruzione dei fatti e una condanna, nei primi due gradi di giudizio, che secondo il sostituto pg di Milano Tarfusser era stata “frutto, non della valutazione delle prove” che “non ci sono“, ma solo del “giudizio di inverosimiglianza della versione” dell’imputato.

Tarfusser aveva definito il caso “kafkiano” e aveva quindi deciso di fare ricorso contro la condanna in Appello, con i giudici che avevano confermato quei 15 anni per omicidio volontario decisi dal gup di Pavia.

Il sostituto procuratore aveva chiesto di cancellare l’accusa per Alfano, difeso dai legali Federico Cecconi e Nicolò Velati, e insistendo sul fatto che si fosse trattato semmai di un omicidio colposo, ovvero di un ‘semplice’ incidente. Nell’Appello bis, deciso con la scelta della Suprema Corte di rimandare indietro gli atti accogliendo la richiesta di Tarfuser, per Alfano è finalmente arrivata giustizia: i giudici hanno riqualificato l’accusa in omicidio colposo portando la pena a 2 anni e due mesi.

Nell’atto che ha spinto la Suprema Corte a rifare il processo d’Appello, il sostituto pg di Milano scriveva di essere andato di persona a fare una “ispezione dei luoghi” in cui è avvenuto l’incidente. Nell’atto, aggiunge l’Ansa, lo stesso Tarfusser ha segnalato che il 9 giugno 2020, dopo quasi un anno dalla morte dell’anziano, la Procura emise un decreto di intercettazioni “d’urgenza”. Intercettazioni che hanno portato la Procura, ma anche i giudici, a concludere che “proclamarsi innocenti”, come faceva l’uomo al telefono, “equivale a dichiararsi colpevoli”. Redazione - 14 Luglio 2023

Raffaele Marra.

Ne va dello stato di salute del nostro Stato di diritto. Fine dell’incubo per Raffaele Marra, non fu abuso d’ufficio: adesso i giornali perché non scrivono nulla? Luca Longhi su Il Riformista il 28 Giugno 2023 

La Corte di Cassazione, con sentenza emessa il 22 giugno, ha annullato senza rinvio la condanna per abuso d’ufficio nei confronti di Raffaele Marra, ex capo del Dipartimento risorse umane del Comune di Roma e già ufficiale della Guardia di Finanza, perché il fatto non sussiste. La nota vicenda, risalente all’ottobre 2016, che aveva ad oggetto il conferimento di un incarico dirigenziale nell’amministrazione di Roma Capitale, aveva lungamente riempito le prime pagine dei quotidiani ed i palinsesti dei principali talk show televisivi dell’epoca, solleticando, come spesso accade, la furia giustizialista di una certa parte del Paese, sempre a caccia di scandali da gettare in pasto al grande pubblico.

L’epilogo processuale, ancorché tardivo, restituisce giustizia ai protagonisti, essendo stato investito anche il fratello Renato, che, per effetto della vicenda, si era visto ingiustamente revocare la nomina, di competenza del Sindaco, al vertice della Direzione turismo del Campidoglio, sebbene, com’è ovvio, non possa ridare loro tempo ed occasioni perdute.

È opportuno che la stampa, perché possa veramente assolvere alla nobile funzione che le è riconosciuta, inizi a dare un’eco maggiore a notizie come questa, che, invece, passano perlopiù inosservate, per risarcire, in qualche modo, chi è incappato in disavventure giudiziarie del danno d’immagine patito nella circostanza.

Questo giornale ha sempre meritoriamente sposato la causa del garantismo, evitando di cedere ai facili sensazionalismi, utili solo a vellicare i pericolosi sentimenti anti-casta che tuttora si annidano nella pancia della nazione e che di certo non giovano alle istituzioni democratiche. È tempo che, in mancanza di una cultura adeguatamente sintonizzata sullo spirito costituzionale, si riveda l’ambito di applicazione dell’esercizio del diritto di cronaca rispetto a vicende giudiziarie che, a fronte del clamore iniziale, culminano, poi, in provvedimenti favorevoli per gli interessati, nell’assoluta indifferenza degli organi di informazione.

Ne va dello stato di salute del nostro Stato di diritto, troppe volte invocato nel dibattito pubblico, senza attribuire, tuttavia, il giusto peso all’effettivo significato di questa locuzione fondamentale. È giunto, ritengo, il momento perché, una volta tramontata (e presto dimenticata) l’iniziativa referendaria del giugno scorso, questo Parlamento si incarichi di elaborare una riforma organica della macchina giudiziaria che affronti anche il delicato tema dei rapporti tra processo e media.

Sarebbe il modo migliore anche per celebrare la memoria di Enzo Tortora, a quarant’anni dall’inizio del terribile calvario che lo vide coinvolto, affinché la sua figura non sia più solo una bandiera da sventolare secondo convenienza, ma soprattutto un esempio condiviso da onorare concretamente per far avanzare la nostra civiltà giuridica. Luca Longhi – Ordinario di Istituzioni di diritto pubblico – Università Telematica Pegaso

Simone Uggetti.

Estratto dell’articolo di Cesare Zapperi per il “Corriere della Sera” il 23 luglio 2023.

Simone Uggetti, perché ha detto alla segretaria Elly Schlein che aspetta ancora la sua telefonata?

«Perché dopo la mia assoluzione definitiva – spiega l’ex sindaco di Lodi arrestato per un’inchiesta giudiziaria che si è conclusa dopo 7 anni con l’assoluzione – avevo detto ad un giornale che mi sarebbe piaciuto ricevere una sua chiamata. Lei aveva fatto sapere che l’avrebbe fatto. Dal 20 giugno ad oggi, però, il telefono è rimasto muto». 

Cosa vorrebbe dirle?

«Mi piacerebbe spiegarle cosa è successo con la giustizia a me e a molti amministratori. Vorrei che il Pd avesse una linea più laica e autonoma». 

Anche lei è per l’abolizione dell’abuso d’ufficio, vero?

«Sarebbe disastroso dal punto di vista politico e culturale se lasciassimo questa battaglia al centrodestra. Dobbiamo stare dalla parte dei sindaci perché sono loro i primi garanti del sistema democratico». 

Cosa teme?

«Nella stragrande maggioranza dei casi i primi cittadini sono dei volontari civici. Noi dobbiamo essere durissimi con chi ruba o si fa corrompere, ma va tutelato chi si spende con spirito di servizio per la sua comunità». 

[…]

Lei sa che la linea del partito è diversa.

«Il Pd non è un monolite. Ha tante anime. Ci sono garantisti come Giorgio Gori, Antonio Decaro, Matteo Ricci. Chi ha fatto l’amministratore sa di cosa parlo». 

[…] 

Lei ha anche detto che il Pd non deve avere paura di riconoscere che anche i magistrati sbagliano.

«Non conosco professionisti che non sbagliano. Succede agli architetti e ai medici, perché escluderlo per le toghe? L’indipendenza è un cardine, ma non significa de-responsabilizzazione».

Fine dell’incubo per Uggetti, assoluzione bis per l’ex sindaco di Lodi: “Ma dopo 7 anni non è giustizia”. Redazione su Il Riformista il 20 Giugno 2023 

Una gogna durata sette anni, oggi la seconda assoluzione in secondo grado. L’ex sindaco di Lodi Simone Uggetti, tra gli imputati a Milano nel processo d’Appello bis per una turbativa d’asta relativa alla gara di gestione delle piscine scoperte, è stato assolto in quanto non punibile per la particolare tenuità del fatto.

L’ex primo cittadino era stato arrestato il 3 maggio 2016 e posto in carcere per 10 giorni per una inchiesta della Guardia di Finanza sul bando di gara per l’affidamento delle piscine coperte del Comune di via Ferrabini e Belgiardino, secondo la Procura “manipolato” e assegnato “illecitamente”.

Il procuratore generale Massimo Gaballo ha spiegato che non impugnerà in quanto “non è una questione di legittimità. Inoltre, il fatto è stato accertato ma è stato ritenuto tenue”.

La nuova assoluzione in Appello, dopo l’annullamento della Cassazione, era seguita alla condanna a 10 mesi in primo grado, ma in entrambi i casi i giudici avevano rilevato che il sindaco aveva agito nell’interesse comune, tanto da spingere ad un clamoroso “mea culpa” da parte di Luigi Di Maio, che chiese scusa in una lettera a Il Foglio per la campagna di accuse orchestrata ai suoi danni dal Movimento 5 Stelle, definendo “grottesche e disdicevoli” le manifestazioni di piazza organizzate dal suo partito (così come dalla Lega di Salvini).

Oltre a Uggetti sono stati assolti anche l’avvocato Cristiano Marini e il dirigente comunale Giuseppe Demuro. Una gioia accolta con un pianto liberatorio ma, allo stesso tempo, dal sapore amaro per Uggetti che commenta: “Dopo 7 anni di sofferenza è emersa la verità: abbiamo agito nell’interesse pubblico”.

“Siamo felici e sollevati dell’esito, ma una giustizia che arriva così tardi non è necessariamente una buona giustizia e un buon servizio per i cittadini” commenta Uggetti dopo l’assoluzione arrivata “dopo sette anni di sofferenza incredibile mia e delle altre persone che sono state coinvolte ingiustamente in questo processo”. Per Uggetti “la verità processuale è emersa dopo quella fattuale, già evidenziata nei procedenti gradi di giudizio”, ovvero che “tutte le persone coinvolte in questo procedimento hanno solo ed esclusivamente agito per interesse pubblico”. Questo perché “sin dall’inizio”, nel maggio 2016, “c’è stato uno sbilanciamento” con l’arresto e la custodia in carcere, una misura cautelare “al di fuori di ogni criterio giuridico” che poi “ha profondamente compromesso l’inizio di questa lunga e tormentata maratona giudiziaria”.

L’ex sindaco di Lodi auspica poi “una riflessione molto seria su un equilibrio tra diritto penale e responsabilità amministrativa”, perché “non può essere che sindaci, assessori e anche funzionari abbiano il terrore della firma, il terrore del fare o del non fare”. Temi affrontanti nella riforma della giustizia voluta dal ministro Carlo Nordio.

Stefani Binda.

«È rimasto in silenzio anche se innocente, il risarcimento a Binda va rivalutato...» Omicidio Macchi, torna in appello la decisione sull’indennizzo per ingiusta detenzione: l’uomo aveva trascorso in cella 1.286 giorni con l’accusa di aver violentato e ucciso la giovane amica. Simona Musco su Il Dubbio il 13 giugno 2023

Servirà un nuovo giudizio per stabilire se Stefano Binda, in carcere per oltre tre anni ingiustamente per l’omicidio della giovane Lidia Macchi, vada risarcito o meno per il torto subito. La Corte di Cassazione ha infatti annullato con rinvio la sentenza con la quale ad ottobre scorso la Corte d'Appello di Milano aveva accolto l’istanza di riparazione per l’ingiusta detenzione patita da Stefano Binda, rimasto ingiustamente in cella 1.286 giorni.

I giudici avevano riconosciuto a titolo di indennizzo la somma di 303.277,38 euro, una cifra che avrebbe dovuto rappresentare le scuse dello Stato per quell’umiliazione subita da innocente a trent’anni dal delitto. Ma la Cassazione ha accolto la richiesta della procura generale, secondo cui «con i suoi silenzi» Binda avrebbe «contribuito all'errore sulla sua carcerazione». Si tratta di una questione giurisprudenziale di rilievo, dal momento che la facoltà di non rispondere è un diritto dell'indagato e che la recente normativa sulla presunzione d'innocenza ha ribadito che tale condotta non incide sulla riparazione per ingiusta detenzione.

L’assist per la procura generale era arrivato dalla IV Sezione della Cassazione, secondo cui «la condotta mendace» negli interrogatori costituisce «condotta fortemente equivoca» tale, evidentemente, da creare concorso nell'errore. Binda era stato condannato all'ergastolo in primo grado nel 2018 a Varese e poi assolto in appello, sentenza confermata dalla Cassazione. In carcere ha trascorso circa tre anni e mezzo ma non rispondendo all'interrogatorio di garanzia dopo il suo arresto, secondo i magistrati, avrebbe contribuito «all'errore sulla sua carcerazione».

Binda, assistito da Patrizia Esposito, era stato arrestato all’alba del 15 gennaio 2016, con l’accusa di aver ucciso la 21enne, violentata e uccisa con 29 coltellate nel 1987 a Cittiglio (Varese). È rimasto in carcere fino al 24 luglio 2019, quando la corte d’Assise di Appello ha ribaltato la sentenza dei giudici di primo grado assolvendolo. Il 27 gennaio 2021 la Cassazione ha dunque messo la parola fine sulla vicenda, confermando l’assoluzione.

«È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri», aveva raccontato al Dubbio subito dopo la decisione della Suprema Corte. Il suo nome era stato tirato in ballo con un colpo di scena degno di un crime movie: una lettera anonima contenente una poesia - “In morte di un’amica” - con dettagli che solo l’assassino poteva conoscere e recapitata alla famiglia il giorno del funerale della ragazza. Poesia che, secondo la ricostruzione dell'accusa, fu scritta proprio da Binda. Ma l’assassino non era lui.

«Esperienze come questa lasciano macerie. Ho attraversato gli estremi del codice - ci aveva spiegato -, dalla pena massima all’assoluzione con la formula piena. Sono stato sfortunato nel primo grado o sono stato fortunato oggi? Credo che bisogna interrogarsi su quanto il sistema sia affidato alle scelte dei singoli, di quali garanzie dia. Francamente, come cittadino, non mi sembra responsabile dire che il sistema funziona sulla base della logica “tutto è bene quel che finisce bene”. È una sciocchezza. Ho passato tre anni e mezzo in carcere, il che vuole dire essere stato messo in pericolo. Il sistema giustizia non può non farsi carico di queste cose. È importante e delicatissimo. Ma a questo livello il dibattito pubblico è insufficiente e l’impostazione culturale non è all’altezza». Secondo Binda, era stato montato «un processo indiziario», che nonostante le prove a discarico si era concluso con l’ergastolo.

L’unico elemento in mano all’accusa era quella famosa lettera anonima, attribuita a Binda da una consulenza di parte, smentita, ovviamente, da quella della difesa. «A fronte di ciò, la mia consulente è stata querelata per diffamazione e addirittura la procura generale ha chiesto che venisse depennata dall’albo dei consulenti - ha raccontato Binda al Dubbio -, alla quale peraltro l’esperta della procura non è mai stata iscritta. Fortunatamente il consiglio dell’ordine dei consulenti tecnici ha manifestato la massima fiducia in lei».

Binda, peraltro, aveva un alibi: dall’1 al 6 gennaio si trovava in vacanza a Pragelato. «La stessa Patrizia Bianchi (la superteste che ha affermato di aver riconosciuto la grafia di Binda, ndr) mi ha sentito fino al 31 per farmi gli auguri e poi il 7. Nessuno mi ha visto da nessun'altra parte, men che meno a Cittiglio, e tre testimoni ricordavano di avermi visto a Pragelato - aveva spiegato -. Ci sono prove documentali, ovvero una mia agenda che riportava i nomi delle quattro persone che erano in stanza con me e le indagini hanno portato a evidenziare che in quell’albergo c’era un unico piano con una stanza da cinque persone. Quindi io avrei dovuto inventarmi il numero di una stanza che era l’unica per cinque persone, scrivere il nome di quattro persone che davvero c’erano e che si sono ricordate di essere in stanza insieme, toglierne una che non si è mai fatta avanti e sostituirmi a lei. Un’assurdità. E sto citando i verbali».

Anche se la perizia grafologica attribuì quella lettera a Binda, l’esame del dna trovato sulla busta non diede esito positivo. Così come quello trovato sul corpo della giovane vittima non corrispondeva a quello di Binda: sul cadavere furono infatti trovate quattro formazioni pilifere, tutte della stessa persona, ma non dell’imputato. Ciononostante «ho preso l’ergastolo», ha sottolineato. Le prove del dna furono infatti ritenute neutre. «Il dna è stato comparato con quello dell’addetto delle pompe funebri di allora, per verificare un’eventuale contaminazione, ma non con quello degli altri che erano stati sospettati prima di me - ha raccontato Binda -. La sentenza d’appello parla di deserto probatorio. Dice chiaramente che, consapevoli di non avere in mano niente, in violazione di legge, hanno approvato l’idea che l’autore del delitto dovesse avere un certo profilo per cucirmelo addosso».

Ezio Stati.

Estratto dell'articolo di Ermes Antonucci per ilfoglio.it il 9 maggio 2023.

Ha rinunciato alla prescrizione per veder riconosciuta la propria innocenza da un’accusa di corruzione. Ne è derivato un processo di primo grado durato oltre dodici anni, terminato con una sentenza di assoluzione, con la formula piena “perché il fatto non sussiste”, non impugnata dai pm e quindi diventata definitiva. Protagonista della vicenda è l’ex consigliere regionale abruzzese Ezio Stati, figura di spicco di Forza Italia. 

Nel 2010 venne coinvolto insieme alla figlia, Daniela Stati, all’epoca assessore regionale con delega alla Protezione civile della giunta guidata da Gianni Chiodi, all’ex compagno di quest’ultima Marco Buzelli, e a due imprenditori, Vincenzo Angeloni e Sabatino Stornelli. Ezio Stati venne arrestato (trascorse quindici giorni in carcere e altri quindici ai domiciliari), la figlia Daniela fu costretta a dimettersi.

L’accusa era di essere stati corrotti nell’ambito dell’assegnazione dei lavori per il post terremoto del 6 aprile 2009 all’Aquila, ricevendo non soldi ma regali: auto, gioielli, oggetti di valore. Secondo il procuratore capo dell’Aquila, Alfredo Rossini, il quadro probatorio era “incontestabile”, corroborato da “prove evidenti dei ‘doni’ e delle utilità che i privati hanno corrisposto al pubblico ufficiale (Daniela Stati) e alle persone a lei vicine”.

Il castello accusatorio è lentamente crollato, fino a quando lo scorso dicembre il tribunale di Avezzano, al quale era stato trasferito il procedimento, ha decretato l’assoluzione di tutti gli imputati. 

Vista la scarsa evidenza ottenuta dalla notizia sugli organi di informazione, Ezio Stati ha deciso di affittare uno spazio su un camion vela, con la sua fotografia e la scritta a caratteri cubitali: “Assolto dopo dodici anni, quattro mesi, tredici giorni e nove ore perché il fatto non sussiste”.

La vela sta andando in giro per Avezzano per ricordare agli abruzzesi che la famiglia Stati non c’entrava nulla con le accuse di corruzione. “Devo raccontare agli amici, a quelli che mi sono stati vicini e anche a quelli che non mi conoscono direttamente che io non sono un delinquente. Né io né altri membri della mia famiglia”, dichiara al Foglio Ezio Stati, difeso nel processo dall’avvocato Alfredo Iacone. […] 

“I magistrati si erano accorti che si trattava di un errore fin dal primo interrogatorio di garanzia, ma anziché ammettere un errore così clamoroso hanno preferito calciare la palla in tribuna e far trascorrere tutti questi anni – continua Stati – Intanto, però, la mia famiglia è stata distrutta. Per anni mia figlia ha dovuto portare i suoi figli a scuola sotto gli sguardi ironici di chi pensava che fosse una delinquente”. […]

Paolo Signorelli.

Chi era Paolo Signorelli, perseguitato per le sue idee fasciste e libertarie. Silvia e Luca Signorelli su Il Riformista il 20 Aprile 2023 

Pubblichiamo questa lettera molto bella dei figli del professor Signorelli. Che è stato un intellettuale e un militante politico. Di idee fasciste, e poi di idee libertarie. Io invece, da sempre, sono antifascista. E proprio per questa ragione mi indigno per la persecuzione subita da Signorelli, che è stata particolarmente accanita e crudele e che è avvenuta indiscutibilmente per via delle idee che Signorelli professava.

Io sono convinto di questo, e lo dico alla vigilia del 25 aprile: l’antifascismo esiste solo se è opposizione intransigente alle persecuzioni, alle crociate giudiziarie o di stampa, e alla caccia alle idee “storte”. Un grande abbraccio ai figli di Signorelli, che hanno subito sulla loro carne i danni della persecuzione giudiziaria e della lunga detenzione di loro padre. Piero Sansonetti 

Il 1 dicembre 2010, dopo due anni di malattia affrontata con lo stesso coraggio e dignità con cui aveva vissuto, moriva nostro padre Paolo Signorelli. La sua vita è stata tutta dedicata ai principi e ai valori che aveva abbracciato da quando era uno studente del liceo Augusto di Roma, e l’attività politica, che di quei principi e valori è il riflesso, nella società degli uomini avrebbe assorbito tutta la sua esistenza. Le sue idee erano indubbiamente controcorrente, non ortodosse, divisive e lui stesso era un personaggio “scomodo”, un Ribelle, un Eretico come amava definirsi. Era ovvio che un uomo con le sue convinzioni avrebbe finito per scontrarsi con il Potere ed i suoi detentori e pagare il prezzo per la sua irriducibilità in termini di libertà personale.

Fare l’elenco dei procedimenti e dei processi subiti da nostro padre sarebbe lungo e quindi evitiamo di addentrarci nei particolari, basta però considerare che nel decennio 1980/1990 non c’è stata inchiesta contro la cosiddetta “eversione nera” di cui il nostro genitore è stato considerato uno dei leader più importanti e in cui, in un modo o nell’altro, non figurasse tra gli imputati se non il maggiore imputato. Si arrivò anche a toccare il ridicolo quando un organo di stampa riportò la notizia che il “professore nero”, come spesso veniva definito in quegli anni, poteva avere un qualche legame con l’attentato a Papa Wojtyla…

Dopo dieci anni trascorsi in carcere, trasferito da un istituto di pena all’altro (a volte senza neanche informarne noi familiari), con la salute minata da condizioni di detenzione spesso non degne di un paese civile, al termine di decine di processi, il nostro amato padre veniva prosciolto e assolto da tutte le accuse e l’unica condanna riportata riguardava il reato di associazione sovversiva di cui non venivano neanche indicati i sodali (sic). Riguadagnata la libertà ha poi dedicato tutti gli anni a venire, fino alla scomparsa, alla battaglia per i diritti dei detenuti tramite il periodico “Giustizia giusta” già di area radicale e di cui diventò l’anima.

Dopo la sua morte, ovviamente, c’è stato per noi famigliari il momento del dolore e della mancanza di un uomo che, nonostante le sue scelte di vita, non ci ha mai fatto mancare il suo amore e la sua guida; quando questa fase è rientrata nell’accettazione della ineluttabilità della fine terrena abbiamo pensato che il nostro genitore avrebbe finalmente trovato la pace da un’esistenza terrena che non gli aveva risparmiato amarezze ed ingiustizie. Ed infine, noi figli e nostra madre, finchè ha vissuto, credevamo di poterci dedicare alla custodia della sua memoria.

Purtroppo non è stato così, ci siamo sbagliati.

Infatti in questi anni con una periodicità quasi regolare hanno continuato ad essere pubblicati articoli giornalistici che, nella maggior parte dei casi, riportavano le dichiarazioni di questo o quel “testimone della corona” per i quali, nel nostro cattolicissimo paese, abbiamo creato la categoria e il termine di “pentiti”, riguardo il ruolo da lui avuto nelle vicende dell’estrema destra italiana e sempre per fatti per cui, ripetiamo ancora una volta, nostro padre è stato pluri-processato e pluri-assolto. Tanto che ci siamo dovuti affidare agli avvocati per denunciare il “pentito” di turno e la testata giornalistica corresponsabile avendo soddisfazione in alcuni casi mentre, per altri, siamo ancora in attesa della pronuncia del giudice.

Quello che è certo per noi figli è che per nostro padre non c’è pace neanche da morto e nei suoi confronti continua la persecuzione che ha dovuto affrontare in vita. Neanche nostra madre è stata risparmiata da questo “accanimento terapeutico” in versione giudiziaria; nell’ottobre 2019, infatti, gli scrupolosi magistrati della procura di Bologna vennero in trasferta a Roma per interrogarla sulle frequentazioni del marito alla ricerca di chissà quali clamorose rivelazioni da parte di una donna ottantacinquenne peraltro ammalata per una patologia neurodegenerativa. Una schifezza assoluta, di più, una porcata inutile che ebbe, come unico effetto, quello di aggravare il già fragile equilibrio psichico di mamma.

Ma, come si suol dire, “al peggio non c’è mai fine”: ci riferiamo alle motivazioni, di recente pubblicate, della sentenza della Corte di Assise di Bologna pronunciata contro l’imputato Bellini nella quale il nome del nostro congiunto viene citato la bellezza di 250 volte (sic). Chi legge questi motivi, alla fine della lettura, non potrebbe che ricavarne la convinzione che il Professor Paolo Signorelli sia stato un auten.tico dominus dell’eversione nera, interno ai serevizi esegreti, in barba a tutte le sentenze di assoluzione pronunciate negli anni da diversi tribunali della Repubblica e vagliate, in ripetute occasioni, dalla suprema corte di Cassazione la quale, al contrario di quanto affermato dai giudici di Bologna, è spesso entrata nel merito delle accuse rivolte a nostro padre senza limitarsi agli aspetti formali.

Nostro padre è stato un uomo contro, incompatibile con ogni contesto che avesse operato contro il Popolo; quelle affermazioni sono false, ignobili, mortificanti ed offensive per chi non può più ribattere di persona. Al termine di questa nostra lettera chiediamo a lei e a tutti coloro che avranno la pazienza di leggerci se questo processo infinito al nostro genitore sia lecito, giusto, in linea con i principi della nostra civiltà giuridica e se un uomo che in vita ha pagato un duro prezzo per le sue idee non debba essere lasciato in pace almeno da morto visto che, almeno fino a prova contraria, è un morto ASSOLTO!!! 

Silvia e Luca Signorelli

Beniamino Zuncheddu.

Assuefatti all’errore. Il caso Zuncheddu racconta la giustizia italiana più di un’enciclopedia. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2023

L’allevatore sardo ha passato in carcere più di trent’anni per crimini che non ha commesso, a causa di accuse improbabili e di testimonianze quanto meno fragili. Oggi ancora non sappiamo se sia davvero innocente, ma nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, eppure succede

Ora che la vicenda di Beniamino Zuncheddu pare procedere verso una soluzione di tardiva salvezza vale la pena di farne una ricognizione. Perché ora se ne parla sulla scorta degli ultimi sviluppi giudiziari del caso, ma sono antichi i fatti che dall’inizio lo contrassegnavano in modo tanto evidente quanto trascurato.

Zuncheddu era stato condannato alla pena dell’ergastolo, e ha passato in carcere più di trent’anni, per essere stato riconosciuto responsabile dell’omicidio di tre persone e del tentato omicidio di un’altra, nel 1991, in un ovile sulle montagne di Sinnai (Cagliari).

Se non appariva proprio un altro caso Tortora è perché le prove contro questo pastore sardo erano anche più inconsistenti rispetto al ciarpame che l’accusa pubblica raccolse contro il conduttore televisivo, il «cinico mercante di morte» rammostrato in manette sulla scena piena di fotografi e giornalisti sapientemente organizzata dagli inquisitori.

Dopo molti anni (decenni) saltava fuori qualcosa che avrebbe dato speranza alle prospettive di revisione del processo, e cioè che la testimonianza dell’unico testimone (un sopravvissuto alla mattanza) sulla base della quale Zuncheddu era condannato sarebbe risultata improbabile. Ma la verosimile ingiustizia di questo caso era appunto evidente – o almeno se ne aveva grave indizio – ben prima delle scoperte (ci arriviamo immediatamente) che poi avrebbero militato per la revisione del processo e per un possibile annientamento della condanna.

Quella testimonianza, infatti, che era l’unica “prova” acquisita per appioppare l’ergastolo all’imputato, si era sviluppata in modo assai strano: con il presunto testimone oculare dell’eccidio che aveva in un primo momento riferito di non poter riconoscere l’assassino, perché aveva il viso mascherato da una calza, e poi, dopo più di un mese, riferiva invece di poterlo riconoscere e di averlo identificato in una certa fotografia. Già così – si ammetterà – la faccenda appariva di molto fragile portata probatoria; e già così – si ammetterà ancora – quella testimonianza era esposta a qualche legittimo dubbio di attendibilità.

Di fatto, la vicenda raccontava che in Italia è possibile rinchiudere qualcuno in prigione per tutta la vita perché qualcun altro dice di averlo riconosciuto dopo aver dichiarato, settimane prima, di non potere dir nulla circa l’identità dell’assassino perché questi aveva una calza sul viso ed era dunque irriconoscibile. Una giustizia abbastanza avventata, diciamo.

Solo che non bastava, e veniamo appunto alle successive emergenze (in realtà ormai risalenti a qualche anno addietro), che ulteriormente e forse definitivamente parevano destituire di credibilità quell’unica prova, quel percorso testimoniale già in origine ambiguo e auto-contraddittorio. Si trattava di questo: del fatto che il presunto testimone oculare avrebbe riconosciuto l’imputato in una fotografia che un poliziotto gli aveva fatto vedere “prima”, e in particolare nell’intervallo di tempo tra le sue dichiarazioni iniziali (quelle secondo cui non poteva riconoscere l’assassino, che aveva il viso mascherato dalla calza) e quelle successive, secondo cui sarebbe stato in grado di riconoscere l’autore del delitto. Un intervallo di tempo di trenta o quaranta giorni durante il quale il testimone era stato in commerci colloquiali con la polizia e, in particolare, con il poliziotto che, appunto, prima che fosse nuovamente ascoltato dai magistrati, aveva mostrato al testimone la fotografia di Zuncheddu.

La difesa ha argomentato che il poliziotto potrebbe aver fatto pressioni sul testimone: ma se pure questo non fosse stato cambierebbe poco, perché a compromettere l’affidabilità del presunto riconoscimento bastava quel fatto, il fatto che la fotografia fosse stata offerta diciamo così privatamente all’esame del teste.

Ma bastava? No, non bastava ancora. Perché emergeva ulteriormente che il testimone, che era sottoposto a intercettazione, in un colloquio con la moglie, appena successivo a un incontro con i magistrati, si lasciava andare a preoccupate considerazioni circa i dubbi degli inquirenti sull’attendibilità del riconoscimento e sul fatto che quella fotografia gli fosse stata messa sotto il naso già precedentemente, al di fuori e in violazione di ogni regola di indagine e processuale. Con la moglie – altro dettaglio emergente da quel dialogo – a sua volta preoccupata che il marito potesse aver detto qualcosa che desse materia buona per la revisione del processo. E per finire: il presunto testimone oculare che, messo alle strette da questi nuovi intendimenti della giustizia, non chiamava un amico, un parente o, come si immagina naturale per chiunque, il proprio avvocato ma, vedi la combinazione, il poliziotto con il quale aveva avuto occasione di intrattenersi nei giorni della sua resipiscenza e che gli aveva mostrato la fotografia di Beniamino Zuncheddu.

Non sappiamo se è innocente, come lui ha sempre sostenuto e come la sua difesa insisteva e insiste a voler dimostrare. Sappiamo che nessuno dovrebbe essere condannato senza prove, o in base a prove false, a stare in prigione neppure un giorno: figuriamoci tutta la vita. E sappiamo che invece può succedere. Sappiamo che invece succede.

 Magistratura, lo scandalo è la malagiustizia: non le pagelle alle toghe. Libero Quotidiano il 02 dicembre 2023

Beniamino Zuncheddu, libero da pochi giorni, che voto avrebbe dato al magistrato che gli ha fatto passare 32 anni di carcere, per errore? La Corte di Appello di Roma, tre anni fa, aveva riconosciuto come legittima la richiesta dell’avvocato di Zuncheddu di procedere a una revisione del processo che lo aveva visto colpevole per l’uccisione di tre pastori in Sardegna. Anche per questi tre anni di ritardata liberazione il voto per i magistrati competenti potrebbe non essere altissimo. Parliamo di voti ai giudici non a caso. In questi giorni si è dato il via libera alla cosiddetta “pagella” del magistrato.

La norma, contenuta nella riforma Cartabia, richiedeva un decreto attuativo per diventare operativa. Quindi voti per tutti? Sì e no. La prima valutazione la potremo avere tra quattro anni, tanto è il tempo previsto dalla legge per compilare il primo giudizio. Palla lunga e attesa certa. Ma l’urgenza c’è tutta. Nel 2022, lo Stato ha dovuto pagare 27 milioni di euro per risarcire 539 casi di ingiusta detenzione. Mentre, per gli errori giudiziari dal 1991 al 2022, il costo totale per lo Stato è stato di oltre 76 milioni di euro.

ERRORI GIUDIZIARI

È come se ogni anno lo Stato pagasse un biglietto da circa 2,5 milioni di euro per gli errori giudiziari. Un biglietto molto scontato (i danni provocati per le sentenze sbagliate sono di molto più onerosi e comunque pagati in media dopo tre anni dal diritto acquisito), ma pur sempre indicatore di un problema serio, che riguarda l’efficienza e la credibilità del sistema giudiziario. E nello specifico la mancata valutazione dei magistrati che sbagliano. Usando i dati ufficiali del Ministero della Giustizia l’Aivm stima che negli ultimi anni ci siano stati 700mila procedimenti che hanno violato le normative esistenti.

Nel tempo della meritocrazia invocata ed esibita perché i magistrati dovrebbero essere sottratti a una valutazione rigorosa sulla loro efficienza e sulla qualità dell’amministrazione della giustizia? Scontata l’ostilità dell’Associazione Nazionale Magistrati (Anm), che sembra trascurare il fatto che un terzo dei detenuti italiani è in attesa di giudizio, quindi innocenti a norma di Costituzione. Negli ultimi 25 anni oltre 26mila italiani hanno subito un periodo di ingiusta detenzione. Più di mille all’anno.

DURATA DEI PROCESSI

Da anni la Banca Mondiale e il Consiglio d’Europa mostrano dati impressionanti per l’Italia e ci dicono che tribunali inefficienti sono fra i fattori principali che rendono difficile fare impresa in Italia. Nell’ultima edizione del Rapporto della Banca Mondiale l’Italia si colloca al 122esimo posto su 190 paesi per la categoria “Tempo e costi delle controversie”. Il problema sono i tempi. Il Rapporto redatto dal Consiglio d’Europa ribadisce due cose molto chiare: la prima riguarda la durata media dei processi: 2.656 giorni peri tre gradi di giudizio, ossia sette anni e tre mesi. In Francia e Spagna i processi durano la metà (poco più di tre anni), in Germania circa un terzo (2 anni e 4 mesi). In Europa siamo all’ultimo posto dopo la Grecia. Per chiudere una causa civile, dunque, possono volerci in media fino a 15 anni. Responsabilità dei magistrati, della loro capacità di giudizio, della loro quantità di lavoro, o della organizzazione degli uffici giudiziari?

L’esperienza ci dice che ci sia di tutto un po’. Certamente non ci si può stupire se la malagiustizia (e le lentezze del sistema giudiziario) sia considerata una delle ragioni principali per cui l’Italia non viene ritenuto un Paese dove investire (o almeno non investirne quanto si potrebbe). Il principale ostacolo, rilevato dal 69% degli intervistati di una recente indagine Ey, è l’incertezza regolatoria, seguita per il 65% del campione da un eccessivo rischio di contenzioso per le imprese. Antonio Mastrapasqua Ex presidente dell’Inps

Caso Zuncheddu, un familiare delle vittime: «E se fosse davvero innocente?». Davanti alla Corte d’Appello di Roma parla la donna, figlia e sorella di due delle vittime e cognata del superstite della strage. Il Dubbio l'1 dicembre 2023

«Mia sorella Maria recentemente aveva iniziato a dire “poveretto, pensa se è innocente e si è fatto tutti questi anni di carcere. I nostri dubbi sono cresciuti quando c'è stata la revisione del processo, allora abbiamo iniziato a chiederci “e se fosse innocente”?». E' quanto ha detto Maria Caterina Fadda, sentita come teste nel processo di revisione in corso davanti alla Corte d'Appello di Roma per il caso di Beniamino Zuncheddu, l'ex allevatore di Burcei, che si è sempre proclamato innocente, condannato all'ergastolo per il triplice omicidio avvenuto nel 1991 nelle campagne di Sinnai e liberato dopo 32 anni di carcere sabato scorso proprio dai giudici della Capitale che hanno accolto la richiesta di sospensione della pena.

«Dubbi che sono aumentati - ha aggiunto la donna, figlia e sorella di due delle vittime e cognata del superstite della strage - quando sono emerse le intercettazioni fra il super-teste Luigi Pinna e la moglie. Allora abbiamo iniziato a chiederci se Pinna avesse davvero riconosciuto Zuncheddu, anche perché sapevamo che chi sparò quel giorno aveva una calza sul viso».

«Sin dall'inizio, parlando con i nostri familiari e per come sono andate le indagini, ci avevano sempre fatto capire che era lui il colpevole. Io ho seguito tutte le udienze del processo - ha concluso Fadda - e ricordo Zuncheddu sempre seduto fra gli avvocati, e mi chiedevo, ma se è innocente perché non parla mai?».

Il caso Zuncheddu e l’assuefazione ai rischi dell’errore giudiziario. E' finalmente libero dopo 22 anni di carcere. Il futuro non punta all'aumento delle garanzie, ma a soluzioni più rapide. Francesco Petrelli (presidente dell’Unione delle Camere Penali italiane) su Il Dubbio il 28 novembre 2023

Dovrebbe provocare gioia la notizia che un innocente, riconosciuto tale dopo una ingiusta condanna, torni in libertà. Ma se gioia si prova, questo sentimento viene immediatamente sopraffatto da altri pensieri e da differenti emozioni, specialmente se quell’uomo, scarcerato mentre è ancora in corso un drammatico processo di revisione davanti alla Corte di Appello di Roma, ha già scontato trentadue anni di reclusione. Una vita intera trascorsa da recluso quella di Beniamino Zancheddu condannato per omicidio.

Inevitabile provare infatti anche indignazione nei confronti di una giustizia penale incapace di evitare simili errori (e simili orrori). Pur consapevole della terribilità dello strumento penale e dei danni atroci e irreparabili che può determinare nelle vite degli imputati, il nostro sistema processuale continua a perpetrare una disinvolta assuefazione nei confronti dei rischi dell’errore giudiziario. Anziché salvaguardare con convinta determinazione i pochi e imperfetti strumenti di garanzia e di salvaguardia costituiti dalle impugnazioni, il legislatore si affanna a creare impedimenti e a imporre assurdi formalismi al fine di scoraggiare e di ridurre il numero degli appelli e dei ricorsi, che sono i nostri unici rimedi all’errore e all’ingiustizia.

Troppo spesso facciamo del processo penale uno strumento di vendetta sociale. Dimenticando l’errabilità di quello stesso strumento e la presunzione di innocenza, utilizziamo testimonianze incerte, prove tecniche inquinate o errate, procedimenti indiziari di discutibile logicità. Abbassiamo progressivamente e irragionevolmente gli standard probatori e il numero delle garanzie proprio in relazione all’accertamento dei reati più gravi, così accettando che l’errore possa distruggere la vita di un uomo, sottraendogli ciò che nessuno potrà più restituirgli.

Evidente che nella vicenda di Beniamino Zancheddu abbia infatti pesato la gravità del reato, un triplice omicidio. Con la conseguente necessità stringente di fare giustizia, la necessità di dare una celere risposta alle comunità e al territorio, le convinzioni degli investigatori che si trasformano in pressione su di un testimone, la pressione che si risolve in un incerto riconoscimento, oggi smentito da quello stesso testimone sopravvissuto.

Se simili errori possono anche essere attribuiti al dolo, alla colpa o solo alla incapacità degli uomini, non possiamo non riconoscere che spesso pessime leggi e pessimi ordinamenti giudiziari, si incontrano con quelle incapacità. Basti pensare al numero di ingiuste detenzioni che lo Stato italiano paga per l’incredibilmente alto numero di vittime di cautele ingiustamente inflitte, per renderci conto che abbiamo sostanzialmente deciso di convivere con l’errore, di disinteressarci delle vittime potenziali del processo, del tutto ignorando che ci stiamo consegnando a un sistema nel quale a ogni promessa di sicurezza corrisponde la perdita di una garanzia, a ogni promessa di fare giustizia, corrisponde il rischio di sottrarre ingiustamente la libertà ad un nostro simile.

Insomma dobbiamo essere tutti consapevoli che il processo che ci aspetta in futuro, se non invertiamo questa rotta, non mira affatto alla riduzione dell’errore, all’aumento delle garanzie e degli strumenti di controllo sulle decisioni ingiuste, ma alla sola più rapida soluzione dell’affare e allo smaltimento della pratica come richiesto dal Pnrr.

Estratto dell’articolo di Stefano Zurlo per “il Giornale” martedì 28 novembre 2023.

La notizia l'ha colta in contropiede sabato: «Non me l'aspettavo - spiega Francesca Nanni, procuratore generale a Milano - anche se ci avevo sperato». Nel 2019, quando guidava la procura generale di Cagliari, Nanni si era imbattuta nel caso sconvolgente di Beniamino Zuncheddu e aveva firmato una dirompente richiesta di revisione. Ora, dopo 32 anni di prigione, Zuncheddu è libero e all'orizzonte si profila il più grave errore giudiziario della storia italiana. 

Lei sostiene l'innocenza di Zuncheddu, all'ergastolo per la strage di Sinnai, gennaio 1991, con tre morti e un ferito. Perché questa scelta così difficile?

«All'epoca venne a trovarmi il giovane difensore di Zuncheddu, l'avvocato Mauro Trogu, e il suo racconto mi colpì». […] «Dopo 28 anni di galera, Zuncheddu aveva rinunciato alla libertà condizionale, perché per ottenerla avrebbe dovuto ammettere la responsabilità dell'eccidio». 

[…] Dunque, lei ha iniziato a studiare le carte della vicenda Zuncheddu?

«Sì, un'estate intera, e più approfondivo più i conti non tornavano. Il movente ipotizzato, una faida agro-pastorale, mi sembrava spropositato. Zuncheddu era un servo pastore, qui si muove un killer professionista di ben altro spessore. Naturalmente, queste sono ipotesi e dobbiamo aspettare la sentenza del processo di revisione». 

Come ha proceduto?

«Ho passato le informazioni alla procura di Cagliari che ha aperto un fascicolo per omicidio e ha intercettato Luigi Pinna, il sopravvissuto della strage. La sentenza si basava al 90 per cento sul riconoscimento da parte di Pinna di Zuncheddu, ma era lecito chiedersi come avesse fatto a identificarlo, visto che il killer indossava una calza di nylon e aveva agito al buio». 

E è arrivata la prova nuova?

«In un colloquio con la moglie, Pinna aveva ammesso che la verità era un'altra». 

Quale?

«Un poliziotto gli aveva mostrato la foto di Zuncheddu, gli aveva detto che l'assassino era lui e di accusarlo davanti ai magistrati. Lui aveva obbedito, salvo vivere con il tormento per trent'anni». 

In udienza, nei giorni scorsi, Pinna ha confermato: il riconoscimento non fu genuino. A questo punto sono cadute le prove della colpevolezza?

«Vedremo cosa stabilirà la corte d'appello di Roma. Per ora, e non è poco dopo 32 anni, hanno scarcerato Zuncheddu perché le prove vacillano». 

Quale sarebbe dunque la verità di quel massacro?

«Io e l'avvocato Trogu pensiamo che quell'eccidio sia legato al riscatto del sequestro Murgia e riteniamo di aver anche individuato il criminale che sparò quel giorno. Indossava un giubbotto chiaro col colletto coreano, esattamente lo stesso abbigliamento trovato addosso a un bandito sardo, arrestato in seguito […] e poi morto in carcere». 

[…] Cosa le ha confidato Zuncheddu in questi mesi?

«Non l'ho mai visto, […] ma l'avvocato Trogu mi ha fatto un complimento meraviglioso: Prima di incontrare lei, avevo quasi perso la fiducia nel sistema, ora l'ho ritrovata».

Beniamino Zuncheddu torna libero, l’allevatore sardo è stato in carcere per 32 anni. Elisa Campisi sul Il Corriere della Sera sabato 25 novembre 2023.

La svolta nel processo di revisione del caso relativo all’ex allevatore sardo condannato per triplice omicidio. Si è sempre professato innocente. Un testimone chiave ha svelato alcune crepe nel riconoscimento che risale al 1991

Beniamino Zuncheddu dopo 32 anni torna libero. L’ex allevatore 58enne di Burcei (Cagliari) è stato scarcerato. Fu condannato in via definitiva all’ergastolo per gli omicidi di tre pastori e il ferimento di un quarto nelle montagne di Sinnai, l’8 gennaio 1991.

La decisione della Corte d'Appello di Roma è stata resa nota dal suo avvocato Mauro Trogu, che aveva presentato istanza per la libertà condizionale, nell’ambito del più ampio tentativo di arrivare alla revisione del processo.

Zuncheddu nell’ultimo periodo era in regime di semilibertà nel carcere di Uta. Le sue uscite si limitavano alle ore di lavoro. Si è sempre proclamato innocente. La decisione della Corte è dovuta alle circostanze emerse nel corso delle ultime udienze, con le affermazioni dell’unico superstite di quel delitto, Luigi Pinna. Dopo 32 anni ha rivelato che, subito dopo i fatti, aveva riconosciuto Zuncheddu da una fotografia che gli era stata mostrata dal poliziotto Mario Uda, conduttore delle indagini. In realtà, il sopravvissuto Pinna non avrebbe potuto riconoscere l’assassino, che aveva il volto coperto.

L’assurda vicenda di Beniamino Zuncheddu: libero dopo 33 anni di carcere senza prove. Stefano Baudino il 27 Novembre 2023 su L’Indipendente.

L’allevatore Beniamino Zuncheddu ha passato 33 anni in galera con l’accusa di avere consumato una strage, uccidendo tre persone e ferendone una quarta, nel gennaio del 1991 a Sinnai (Cagliari). Ma ora l’uomo, che ha ormai 58 anni e si è sempre dichiarato innocente, è all’improvviso tornato libero. I giudici della Corte d’Appello di Roma hanno infatti accolto la richiesta di sospensione della pena presentata dall’avvocato di Zuncheddu, Mauro Trogu, ritenendo non più attendibile la testimonianza del suo principale accusatore, che è poi l’unico superstite della strage. Il processo di revisione si protrarrà fino a dicembre, ma nelle ultime udienze è già stato certificato che a influenzare in maniera indebita le indagini fu un poliziotto: colui che indicò implicitamente Zuncheddu come responsabile del delitto mostrando al super-testimone che scampò alla morte una sua fotografia.

Nella strage di Sinnai finirono ammazzati il 56enne Gesuino Fadda e suo figlio Giuseppe, di 24 anni, che erano i proprietari di un ovile, nonché il 55enne Ignazio Puxeddu, un loro dipendente. Ad essere ferito fu invece il genero di Gesuino, l’allora 29enne Luigi Pinna. Secondo la ricostruzione degli inquirenti che lavorarono al caso, il killer uccise prima con un colpo di fucile alla faccia Gesuino Fassa all’ingresso dell’ovile, per poi dirigersi verso il recinto degli animali e sopprimere suo figlio. In un secondo momento, dopo aver fatto ingresso in una piccola struttura, l’assassino sparò a Puxeddu – che morì – e a Pinna, che riuscì invece a sopravvivere. A causa di una serie di contrasti precedentemente intercorsi tra i Fadda e l’allora allevatore Zuncheddu, quest’ultimo, che non riuscì a fornire un alibi convincente ai magistrati, venne arrestato in quanto principale indiziato. Nemmeno due mesi dopo il delitto, la svolta: Pinna, che in prima battuta aveva detto di non essere riuscito a riconoscere l’uomo poiché il suo volto era coperto, accusò direttamente Zuncheddu di essere l’autore degli omicidi. In realtà, quest’atto fu la conseguenza di un colloquio avuto con Mario Uda, poliziotto che stava seguendo le indagini, che gli mostrò una foto di Zuncheddu e lo additò come colpevole della strage. Sulla base della testimonianza di Pinna, l’allevatore venne poi condannato all’ergastolo. Movente della strage: “sconfinamenti di bestiame”.

Eppure, lo scorso 14 novembre, a quasi 33 anni dalla strage, Pinna ha ritrattato. E lo ha fatto con parole molto chiare: «Prima di effettuare il riconoscimento dei sospettati, l’agente di polizia che conduceva le indagini mi mostrò la foto di Beniamino Zuncheddu e mi disse che il colpevole della strage era lui. È andata così. Ho sbagliato a dare ascolto alla persona sbagliata». «Penso che quel giorno a sparare furono più persone, non solo una, con un solo fucile non puoi fare una cosa del genere», ha detto ancora Pinna, aggiungendo che in questi anni sarebbe stato «minacciato più volte». Nell’ordinanza con cui è stata concessa la sospensione provvisoria dell’esecuzione della pena, i giudici hanno inquadrato come “realtà processualmente accertata” sia “il fatto storico dell’avere” Uda “segretamente mostrato a Pinna la fotografia di Zuncheddu”, sia “l’aspetto dell’avere indotto Pinna a sostenere che quello era lo sparatore da lui visto in viso ed a tacere che aveva già visto quella fotografia”. Dunque, “l’inattendibilità delle dichiarazioni di Pinna” ha “fatto venir meno la ‘prova diretta’ che la Corte di Assise di Appello di Cagliari ha posto a fondamento della pronuncia di colpevolezza dell’imputato”. Le prossime udienze del processo di revisione per Zuncheddu andranno in scena il 30 novembre e il 12 e 19 dicembre.

Zuncheddu ha ripercorso la vicenda parlando del suo arresto. «Ricordo ancora quel giorno. Era pomeriggio e io ero tornato dal lavoro. Ricordo che mi ero fatto una doccetta per poi uscire in paese. Non avevo la fidanzata ma dopo il lavoro facevo sempre due passi. Bussarono alla porta di casa e mi dissero “Dobbiamo fare qualche verifica, ci aiuta?”. Non avevo nulla da nascondere. Mi misi a disposizione. Non potevo immaginare…». L’uomo si trovava attualmente in regime di semilibertà nel carcere di Uta, da dove poteva uscire solo per lavorare e dove era obbligato a fare ritorno la sera. Ma lo scorso 25 novembre, in occasione del solito rientro nella struttura, un agente della polizia penitenziaria con in mano un documento gli ha detto: «Beniamino perdi ancora tempo? Devi uscire». Dopo 33 anni di vita da detenuto, ad un tratto tutto si è capovolto. Rimane una grande domanda: per quale motivo il poliziotto Uda mise in atto questa condotta, contribuendo a provocare conseguenze tanto gravi? «Me lo sono chiesto in tutti questi anni. Non ho mai fatto male a una mosca. Ma forse ero l’uomo semplice da incastrare…», prova a rispondere Zuncheddu. [di Stefano Baudino]

"Bene Zuncheddu scarcerato. Ora punire i falsi testimoni". Stefano Zurlo il 28 Novembre 2023 su Il Giornale.

La Pg di Milano sul caso dell'uomo in cella 32 anni e adesso libero: "Certa che non poteva essere lui l'autore dell'eccidio"

La notizia l'ha colta in contropiede sabato: «Non me l'aspettavo - spiega Francesca Nanni, procuratore generale a Milano - anche se ci avevo sperato». Nel 2019, quando guidava la procura generale di Cagliari, Nanni si era imbattuta nel caso sconvolgente di Beniamino Zuncheddu e aveva firmato una dirompente richiesta di revisione. Ora, dopo 32 anni di prigione, Zuncheddu è libero e all'orizzonte si profila il più grave errore giudiziario della storia italiana.

Lei sostiene l'innocenza di Zuncheddu, all'ergastolo per la strage di Sinnai, gennaio 1991, con tre morti e un ferito. Perché questa scelta così difficile?

«All'epoca venne a trovarmi il giovane difensore di Zuncheddu, l'avvocato Mauro Trogu, e il suo racconto mi colpì».

Che cosa, in particolare?

«Dopo 28 anni di galera, Zuncheddu aveva rinunciato alla libertà condizionale, perché per ottenerla avrebbe dovuto ammettere la responsabilità dell'eccidio».

Più di vent'anni fa le era successo qualcosa di simile con Daniele Barillà, protagonista di un clamoroso errore giudiziario.

«Anche Barillà mi aveva impressionato: era in carcere da più di sette anni per traffico di droga e in pochi minuti con grande calma mi aveva sintetizzato la sua storia: Sono vittima di uno scambio di persona. Semplice e drammatico».

Dunque, lei ha iniziato a studiare le carte della vicenda Zuncheddu?

«Sì, un'estate intera, e più approfondivo più i conti non tornavano. Il movente ipotizzato, una faida agro-pastorale, mi sembrava spropositato. Zuncheddu era un servo pastore, qui si muove un killer professionista di ben altro spessore. Naturalmente, queste sono ipotesi e dobbiamo aspettare la sentenza del processo di revisione».

Come ha proceduto?

«Ho passato le informazioni alla procura di Cagliari che ha aperto un fascicolo per omicidio e ha intercettato Luigi Pinna, il sopravvissuto della strage. La sentenza si basava al 90 per cento sul riconoscimento da parte di Pinna di Zuncheddu, ma era lecito chiedersi come avesse fatto a identificarlo, visto che il killer indossava una calza di nylon e aveva agito al buio».

E è arrivata la prova nuova?

«In un colloquio con la moglie, Pinna aveva ammesso che la verità era un'altra».

Quale?

«Un poliziotto gli aveva mostrato la foto di Zuncheddu, gli aveva detto che l'assassino era lui e di accusarlo davanti ai magistrati. Lui aveva obbedito, salvo vivere con il tormento per trent'anni».

In udienza, nei giorni scorsi, Pinna ha confermato: il riconoscimento non fu genuino. A questo punto sono cadute le prove della colpevolezza?

«Vedremo cosa stabilirà la corte d'appello di Roma. Per ora, e non è poco dopo 32 anni, hanno scarcerato Zuncheddu perché le prove vacillano».

Quale sarebbe dunque la verità di quel massacro?

«Io e l'avvocato Trogu pensiamo che quell'eccidio sia legato al riscatto del sequestro Murgia e riteniamo di aver anche individuato il criminale che sparò quel giorno. Indossava un giubbotto chiaro col colletto coreano, esattamente lo stesso abbigliamento trovato addosso a un bandito sardo, arrestato in seguito, dopo la condanna di Zuncheddu, per il sequestro Murgia e poi morto in carcere».

Anche Barillà fu incastrato da alcuni carabinieri che giurarono di aver preso il suo numero di targa.

«E invece in aula, al momento della revisione, si scoprì che avevano detto il falso. Ecco, questi falsi gravissimi dovrebbero essere sanzionati con mano molto pesante perché hanno conseguenza catastrofiche».

Cosa le ha confidato Zuncheddu in questi mesi?

«Non l'ho mai visto, a differenza di quel che accadde con Barillà, ma l'avvocato Trogu mi ha fatto un complimento meraviglioso: Prima di incontrare lei, avevo quasi perso la fiducia nel sistema, ora l'ho ritrovata».

Finalmente libero Beniamino Zuncheddu dopo quasi 33 di carcere. Zuncheddu è entrato in carcere a soli 27 anni, da allora non ha mai più visto la libertà,  accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel lontano 1991per la quale si era sempre proclamato innocente. Il Dubbio il 25 novembre 2023

La battaglia di Beniamino Zuncheddu e di tutti quelli che hanno chiesto per anni la sua liberazione finalmente si è conclusa. Per lui si era mosso anche papa Francesco che Ferragosto aveva accolto l’invito di don Giuseppe Pisano, il parroco del piccolo paese sardo di Burcei, a pregare per Beniamino. Ora Zuncheddu, detenuto da quasi 33 anni, è libero. «Non vedo l’ora di spostarmi da qui, perchè il carcere non lo voglio più vedere», dice, felice e sollevato, appena uscito dalla casa circondariale di Uta (Cagliari), dopo che la Corte d’appello di Roma ha accolto la richiesta di sospensione dell’esecuzione della pena avanzata dal suo avvocato Mauro Trogu.

Beniamino Zuncheddu, che si è sempre proclamato innocente, sta scontando l’ergastolo per la strage di “Cuili is Coccus” a Sinnai (Cagliari), in cui nel 1991 tre pastori furono uccisi e una quarta rimase ferite. Davanti alla Corte d’assise d’appello di Roma è in corso il processo di revisione che potrebbe portare alla liberazione definitiva di Zuncheddu, il quale, in regime di semilibertà, al momento esce dal carcere solo la mattina per lavorare. «Non lo so. Sono un po stordito», risponde quando gli si chiede quale sarà la prima cosa che farà appena tornato a casa. Ad accoglierlo davanti al carcere la sorella Augusta, la sua datrice di lavoro e compaesani di Burcei (Cagliari), il paese dove Zuncheddu tornerà stasera e che è pronto ad accoglierlo, e la Garante regionale per i diriti dei detenuti, Irene Testa, convinta della sua innocenza e impegnata a sostenere la battaglia per la revisione della condanna all’ergastolo. «Oggi è una giornata importante», dice Testa all’AGI, dopo aver abbracciato Zuncheddu. «Siamo contenti di questo risultato, il primo ottenuto dopo 33 anni. Spero che questo possa avere un significato in vista dell’udienza del 19 dicembre prossimo, quando ci auguriamo arrivi un’assoluzione piena. Fatti e testimoni, finora, hanno dato ragione a Beniamino che non ha mai smesso di gridare la sua innocenza». Per lui negli ultimi mesi sono state organizzate diverse manifestazione, sia a Roma sia a Cagliari.

La vicenda di Beniamino Zuncheddu ha suscitato indignazione e compassione, grazie alla tenacia dell'avvocato Mauro Trogu. La prima battaglia di Beniamino riguarda la revisione del suo processo, attualmente in corso presso la Corte d'Appello di Roma. Questa revisione è basata su nuove prove schiaccianti che mettono in discussione la sua colpevolezza. La sua storia è così incredibile che alcuni la considerano uno dei più grandi errori giudiziari nella storia italiana.

Zuncheddu è entrato in carcere a soli 27 anni e da allora non ha mai più visto la libertà. La sua condanna si basava principalmente sulla testimonianza di un unico testimone oculare, l'unico sopravvissuto alla terribile strage che ha scosso l'opinione pubblica all'epoca. Inizialmente, questo testimone aveva dichiarato che l'assassino aveva il volto coperto da una calza e quindi non poteva riconoscerlo. Tuttavia, dopo un periodo di tempo, ha improvvisamente cambiato versione, sostenendo che l'assassino aveva il volto scoperto e identificando Beniamino Zuncheddu attraverso un inusuale riconoscimento fotografico, senza il tradizionale confronto diretto.

Ciò che rende questa storia ancora più incredibile è il fatto che le prime indagini stavano seguendo una direzione diversa, forse più vicina alla verità dei fatti. Tuttavia, una svolta improvvisa è avvenuta grazie all'intervento di un sovrintendente della Criminalpol, che ha ricevuto una confidenza che indicava Zuncheddu come l'autore degli omicidi. Questo agente ha iniziato a esercitare una pressione insolita sul testimone oculare, conducendo numerosi colloqui investigativi non verbalizzati. L'agente ha dichiarato che smise di credere che il testimone non avesse visto l'assassino e lo spinse a "dire la verità". Poco dopo, il testimone oculare si dichiarò pronto a riconoscere l'autore degli omicidi e indicò Zuncheddu prima in una fotografia davanti al pubblico ministero e poi in una ricostruzione fotografica.

Nel 2020 la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta Nel 2020, la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta che ha rivelato intercettazioni ambientali tra il testimone oculare e sua moglie. Durante queste conversazioni, è emersa chiaramente la mala fede del testimone. Inoltre, è stato dimostrato che una delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna di Zuncheddu, secondo cui l'aggressore si trovava nella zona illuminata e poteva essere riconosciuto, è stata completamente smentita da una ricostruzione 3D effettuata da un colonnello dei carabinieri. La stessa difesa ha dimostrato che l'aggressore è rimasto nel cono di luce per soli 0,1 secondi ed era con la luce alle spalle, rendendo impossibile il riconoscimento.

Inoltre, Beniamino Zuncheddu non aveva mai usato armi da fuoco in vita sua, a causa di un problema alla spalla che aveva sin dalla nascita. I delitti erano stati chiaramente commessi da professionisti, il che contraddice ulteriormente l'accusa. Nonostante la sua lunga permanenza in carcere, Zuncheddu ha sempre mantenuto una condotta esemplare e non ha mai violato le regole. Dopo aver lavorato all'interno e all'esterno dell'istituto, è stato ammesso al regime di semilibertà nel 2018 e ha dimostrato di essere un individuo capace di reintegrarsi nella società in modo civile e responsabile.

Ora finalmente, dopo tanto patire, la vicenda di Beniamino Zuncheddu ha avuto un lieto fine

Estratto dell'articolo di Ludovica Di Ridolfi per open.online mercoledì 15 novembre 2023.

Trentadue anni in carcere senza un motivo: è questa l’atroce sorte che la difesa di Beniamino Zuncheddu sostiene sia toccata al suo assistito. Tutto inizia nel 1991, quando in un ovile Cuile is Coccus ([…]in provincia di Cagliari) avviene un triplice omicidio. Muoiono assassinati Gesuino Fadda, proprietario dell’allevamento, il figlio Giuseppe e il pastore Ignazio Pusceddu. I morti, però, sarebbero dovuti essere in quattro. […] uno di loro si salva: Luigi Pinna, marito di uno delle figlie di Fadda. 

[…] sostiene di aver riconosciuto Zuncheddu in una foto. E quest’ultimo, all’epoca pastore […] viene arrestato. A giugno 1992, arriva la condanna definitiva: ergastolo. Ma in tutti questi anni Zuncheddu ha continuato a battersi per dimostrare la sua innocenza.

La tesi della difesa, portata avanti oggi nella revisione del processo in corso a Roma, è che la testimonianza determinante sia arrivata dopo presunte pressioni da parte di uno degli agenti che indagava sul triplice omicidio. Oggi, davanti alla Corte d’Appello, Pinna ha confermato: «La verità è che mi è stata mostrata la foto prima del riconoscimento». Che sostanzialmente sarebbe stato dunque “pilotato” dall’indicazione del poliziotto.

«Pensavo di fare una cosa giusta, così mi era stato detto», ha aggiunto Pinna. Una confessione arrivata grazie all’intermediazione di un interprete, che ha tradotto in lingua sarda al teste. Quest’ultimo, rispondendo alle domande del pg, ha inoltre fatto chiarezza su un altro dettaglio fondamentale della vicenda. Affermando che l’assassino indossava una calza sul volto che rendeva irriconoscibili le sue fattezze.

BENIAMINO ZUNCHEDDU

Estratto da rainews.it mercoledì 15 novembre 2023.

''Prima di effettuare il riconoscimento dei sospettati il poliziotto che conduceva le indagini mi mostrò la foto di Beniamino Zuncheddu e mi disse che il colpevole della strage era lui. È andata così''. Lo ha detto Luigi Pinna, unico superstite della strage del 1991 di Cuili is Coccus a Sinnai, nel processo di revisione in corso davanti ai giudici della Corte d'Appello a Roma. Nella strage furono uccisi tre pastori. Per quei delitti Zuncheddu sta scontando l'ergastolo (da 33 anni) ma si è sempre proclamato innocente.  […]

Quei 32 anni in cella. La vita di Beniamino, vittima di un errore, è in attesa di giustizia. Ilaria Sacchettoni su Il Corriere della Sera sabato 28 ottobre 2023.

Un testimone mentì e lo accusò dell’eccidio di Sinnai, avvenuto nel 1991. Nel 2017 la verità ha cominciato a emergere, grazie a un avvocato incrollabile. Adesso c’è la richiesta di grazia, ma il nemico è la burocrazia

Ambiguità che nessuno vuole sciogliere: ma Luigi Pinna, superstite del massacro di Sinnai, davvero ha visto il suo assassino? In questa storia del 1991, riemersa come il fantasma di una Sardegna arretrata eppure garantista, rurale ma solidale, c’è in ballo l’innocenza di una comunità. E soprattutto quella di un uomo. E infatti per Beniamino Zuncheddu, 59 anni, trentadue dei quali trascorsi in carcere per omicidio plurimo, si stanno muovendo i Radicali e la Camera penale di Roma, Gaia Tortora e pezzi di istituzioni sarde, chiedendo ai giudici della Corte d’Appello di Roma di superare la loro stessa inerzia. Era il 2020 quando il procuratore generale di Cagliari, Francesca Nanni, inoltrò la richiesta di revisione del processo per via di nuove prove raggiunte. Da allora Beniamino Zuncheddu, detenuto nel penitenziario di Uta (Cagliari), s’è fatto più stanco e più fragile come racconta oggi sua sorella Augusta: «Mio fratello ha sempre avuto un’ossessione per la propria dignità, lavava da solo la propria biancheria ma ora non ci arriva più. Sono triste e preoccupata». Nel Tribunale dall’arretrato endemico la decisione è rinviata, la prossima udienza sarà il 31 ottobre con l’ascolto di alcuni testimoni. Poi si vedrà.

Passo indietro

Torniamo allora al buio di quella sera: l’8 gennaio 1991, in un ovile di Su Enazzu Mannu (Sinnai), un fucile fa fuoco su Gesuino Fadda di 57 anni, suo figlio Giuseppe di 25 e il loro pastore Ignazio Pusceddu, 57 anni anche lui. Il quarto uomo, Luigi Pinna (genero di Gesuino: è sposato con la figlia Daniela), colpito alla gamba e alla spalla, respira in silenzio senza darsi per vinto: la mattina dopo lo troveranno ferito ma vivo le forze dell’ordine, unico sopravvissuto al massacro. L’eccidio di Sinnai ha un testimone ma subito appare incerto. Chi ha fatto fuoco, spiega, aveva il volto coperto da una calza di nylon. Siamo nell’Italia del pentapartito che si prepara alla rivoluzione felpata del pool milanese e alle Mani pulite dell’anticorruzione. A chi interessano gli allevatori del Cagliaritano? Ne parlano per un po’ le cronache nazionali ma poi il caso scivola giù sulle pagine locali e i tormenti del supertestimone Pinna finiscono nel cono d’ombra mediatico. Il pubblico ministero dell’epoca si indirizza verso un movente «agropastorale», mucche trucidate con vecchi fucili al confine fra ovili, gli allevatori hanno la loro ferocia e punto. Si fa avanti però un ambizioso dirigente di polizia, Mario Uda, che vuol chiudere la faccenda, archiviare il faldone della procura trovando un colpevole. Fa sapere, allora, ai magistrati dell’epoca di aver ricevuto una confidenza speciale, una dritta. L’autore del triplice omicidio, denuncia, è un servo pastore con la seconda media: si chiama Beniamino Zuncheddu. Il sopravvissuto Pinna, tornando sui suoi passi, lo indica come responsabile della mattanza. Il servo pastore finisce dentro a ventisei anni, cinque mesi prima sua madre è morta in un incidente stradale, lui è già provato e quasi incapace di combattere contro quella che appare una circostanza più grande di lui. Il tempo trascorre lento quando si sta in una cella finché nel 2017 accade qualcosa.

Il nuovo scenario

Il nuovo difensore, Mauro Trogu, un avvocato che, all’epoca, non ha ancora quarant’anni porta avanti indagini difensive. Studia di buona lena il caso del rapimento coevo di Giovanni Murgia che si era concluso positivamente dietro il pagamento di un riscatto di 600 milioni di lire e rintraccia dei punti in comune. Il massacro di Sinnai cambia tonalità e da truce vicenda pastorale diventa sanguinoso indotto di un antico business sardo, quello dei rapimenti.

Il fascicolo Zuncheddu viene riaperto dalla Procura di Cagliari che dispone nuove intercettazioni. Si controllano i cellulari e, sorpresa, emergono nuovi elementi che tradotti dal perito della Procura (il dialetto sardo si conferma complesso) rivelano un’altra storia.

L’inganno

Pinna, spossato, confida a sua moglie l’inganno. Affiora in particolare che il sopravvissuto, trentadue anni prima, era stato sottoposto a pressione, la foto del giovane Beniamino Zuncheddu gli era stata prima mostrata da Uda quindi era stato invitato a riconoscerlo come il killer dell’ovile. Lei, Daniela Fadda, sottolinea come sia importante mantenere sempre la stessa versione dei fatti. Qualunque reato un magistrato possa ravvisare in questa presunta manipolazione delle prove da parte dell’ambizioso Uda oggi sarebbe prescritto. Però. C’è un però. Anche una giustizia lenta e lacunosa, stavolta, non può voltarsi dall’altra parte, deve fare i conti con l’enormità della scoperta. Ricorda l’avvocato Trogu: «Ho bussato a varie porte per cercare di far capire la necessità di porre rimedio a quella ingiustizia e ogni volta che quelle porte restavano chiuse perdevo sempre più fiducia nel sistema della giustizia. Poi, però, alcune porte si sono aperte, persone di spessore straordinario hanno iniziato a voler ascoltare quella storia e con il loro lavoro hanno messo in moto una macchina che è arrivata fin qui».

La bugia originale

Ricapitoliamo allora: ci sono le nuove intercettazioni nelle quali Pinna confida in modo inequivocabile il peccato originale di quel riconoscimento che ha aperto le porte dell’ergastolo a Zuncheddu. E c’è un nuovo movente che i magistrati rintracciano all’interno del rapimento Murgia. Le vittime di Sinnai, i Fadda, avrebbero avuto qualche legittimo appetito verso il riscatto pagato per liberare Murgia. Dunque sarebbero diventate rivendicative e ingombranti. È un radicale cambio di prospettiva. La pg Nanni indirizza alla Corte d’Appello di Roma, competente a decidere, una corposa istanza di revisione (firmandola con Beniamino). «La dinamica dell’assalto all’ovile ricostruita nei punti precedenti consente di sostenere che gli omicidi furono commessi da un professionista del crimine per causali molto più rilevanti di qualche pallino sparato contro delle bestie» scrive. Tutto procede velocemente allora? Macché. La richiesta di revisione affonda nella palude delle pendenze processuali romane, circa 50mila fascicoli di arretrato (censite nel 2016 dall’allora presidente della Corte d’Appello Luciano Panzani, forse al momento sono di più). Beniamino ora deve guardarsi anche dalla burocrazia.

Istanze e ricorsi

Un’istanza di scarcerazione al tribunale di sorveglianza di Cagliari, intanto, viene respinta. Scatta il ricorso di Trogu. La Cassazione riconosce che non vi è un motivo valido per tenerlo ancora dentro ma nulla si smuove se non che anche dalla Procura generale presso la Corte d’Appello di Roma viene chiesta la revisione del processo. L’avvocato, con tutti i suoi dubbi, porta avanti la propria battaglia. «Quando ho letto» confida «per la prima volta la sentenza della Corte d’Assise d’appello di Cagliari che nel 1992 aveva confermato la condanna all’ergastolo di Beniamino ho avuto paura. Ho pensato che se un giudice può valutare le prove in quel modo nessun cittadino può sentirsi al sicuro».

Don Giuseppe Pisano, intanto, il parroco del paese da cui viene Beniamino lo ricorda nelle sue omelie e tiene i rapporti con Augusta. La garante dei diritti dei detenuti di Cagliari, Irene Testa, chiede un nuovo processo. C’è chi come il fotografo Alessandro Spiga realizza un servizio per lui, gli scatti lo mostrano compito nella sua rassegnazione. Un piccolo movimento d’opinione inizia a farsi strada. Oggi Zuncheddu usufruisce di un permesso per lavorare al mattino all’esterno delle mura carcerarie. Di giorno si può incontrare in un bar al centro di Cagliari, Le Bon Bec Cafè, una pasticceria specializzata in delicatessen alla cioccolata e cappuccini spumosi. All’ora di pranzo, però, la sua vita di lavoratore si conclude e l’ex servo pastore riprende il pullman che lo porta in carcere. Sua sorella, che tiene dentro di sé la sofferenza per questa vita trascorsa alla luce di accuse infamanti, lo vede la domenica. «Ha il permesso» dice «di mangiare con noi. Cucino io, mangia tutto con gusto, fosse anche un tozzo di pane e pecorino. Che in carcere il cibo è una tortura...»

Tempi assurdi

Una richiesta di grazia inviata al Quirinale per competenza è ferma ma esplicita. Tutto, il rispetto degli orari e delle norme penitenziali, la capacità di sopportazione e la dignità del detenuto, fanno di Beniamino Zuncheddu un «modello». Remissivo e collaborativo si è sempre sforzato di convivere con l’inaccettabile realtà. Tra il 10 e il 13 ottobre si è svolto un doppio sit in segno di solidarietà per il detenuto modello. L’assurdo resta, dice il presidente della Camera Penale di Roma, Gaetano Scalise: «Beniamino ha diritto di veder definito in tempi ragionevoli un processo di revisione in cui sono emersi fatti che fanno pensare al suo coinvolgimento in un drammatico errore giudiziario».

Tutta la comunità di Burcei, paese natale di Beniamino, combatte al suo fianco. Beniamino Zuncheddu, da 33 anni è in carcere: ennesimo orrore giudiziario? Condannato per un reato che non ha commesso, Beniamino è accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel 1991. Da 33 anni è in carcere da innocente. A breve si terrà la revisione del processo. Gaia Tortora su Il Riformista il 20 Settembre 2023 

33 anni. 33 anni di carcere da innocente. Un caso senza precedenti quello di Beniamino Zuncheddu 58 anni, condannato per un reato che non ha commesso. Beniamino è accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel 1991 quando in località Cuili is Coccus, furono uccisi tre pastori e una quarta persona rimase gravemente ferita. Ma la condanna all’ergastolo si basa su elementi inconsistenti.

A far condannare all’ergastolo in via definitiva Beniamino Zuncheddu furono le dichiarazioni dell’unico superstite della strage. Una sola dubbia prova, una, e l’ergastolo. Una testimonianza definita dubbia dalla difesa, arrivata dopo presunte pressioni da parte di uno degli agenti che indagava sul triplice omicidio. Il poliziotto avrebbe fatto vedere al testimone, che inizialmente aveva detto di non ricordare il volto dell’assassino perché coperto, una foto di Zuncheddu spingendolo a fornire una dettagliata descrizione dell’omicida che combaciava con quella del pastore.

Da qui la condanna. Tutta la comunità di Burcei paese natale di Beniamino combatte al suo fianco, tutta. Il sindaco, il sacerdote e tutti gli abitanti. Senza mai far venire meno il supporto ad un uomo che non si sa come ha resistito 33 anni ma che ora, dovete saperlo, sta per crollare. La revisione del processo in corso presso la Corte di appello di Roma è basata su prove schiaccianti con i giudici chiamati a decidere sull’ammissione dei testimoni nel procedimento di revisione del processo sfociato nella condanna e anche sulla richiesta di sospensione della pena. L’udienza avrebbe dovuto essere riservata all’audizione del perito incaricato di trascrivere alcune ultime intercettazioni di comunicazioni ambientali e telefoniche, ma visto che i file audio gli sono stati trasmessi in ritardo il tecnico ha chiesto e ottenuto una proroga fino al 4 ottobre. Il processo è stato rinviato al 13 ottobre e in quella data saranno esaminati anche i due testimoni indicati dal pubblico ministero: il carabiniere al quale il testimone rese le prime dichiarazioni (in cui non accusava Beniamino Zuncheddu) e un amico della famiglia delle vittime.

33 anni. 33 anni in carcere da innocente a pregare e sperare. Beniamino è una persona semplice, un ex pastore, un ragazzo facile da mettere in mezzo, da incastrare. Uno che tanto non avrebbe avuto i mezzi ne la voce per difendersi. A Beniamino è rimasta solo la fede, incrollabile quella sì, ma oggi non basta più neanche quella. Beniamino da tre settimane sta male, si è lasciato andare, non reagisce, e di certo non può più aspettare i tempi di una giustizia di cui sì oggi mi vergogno. Lo stato sta tenendo in carcere un uomo innocente. Tre anni dalla revisione del processo e forse solo oggi si è fatto un piccolo passo avanti con il giudice che ha mostrato tutta l’intenzione di velocizzare l’iter. Perché probabilmente il o i colpevoli di quel reato forse sono ancora fuori, ma di certo sappiamo che un innocente è in carcere per qualcosa che non ha commesso.

Stringo forte la mano ad Augusta, la sorella di Beniamino che è arrivata fin qui con alcuni compaesani per manifestare davanti alla Corte di appello e poi presenziare all’udienza. Augusta è stremata quando le passano il microfono la stringo ancora di più e ascolto. Questa donna dolce e forte come solo una sorella certa dell’innocenza di un fratello sa essere, dice con un filo di voce, tremando “la giustizia deve fare il suo corso…” volendo dire che la giustizia in quanto giusta deve riconsegnare suo fratello alla libertà. Ecco ho un sussulto e mi dico “no diamine non deve fare il suo corso altrimenti Beniamino non vedrà riconosciuta la sua innocenza, non con questi tempi, la giustizia deve sbrigarsi a riconsegnare Beniamino alla sua vita da uomo innocente”. 33 anni. 33 anni. Provate a pensare quante cose avete fatto voi in 33 anni. I concittadini di Beniamino, chi ha potuto è arrivato fino a Roma per manifestare ancora una volta la solidarietà.

Io voglio ricordare le parole di una giovane ragazza presente davanti alla Corte di appello, Paola: “Chiedo alle istituzioni che venga ridata fiducia, molte volte si dice che noi giovani non rispettiamo le leggi, non abbiamo fiducia nelle istituzioni, non è vero. Noi chiediamo però che oggi venga dato un segnale molto forte ovvero di fiducia affinché gli italiani e i giovani continuino ad avere fiducia nelle istituzioni e nella giustizia, perché’ oggi un cittadino sta pagando ingiustamente mentre l’autore del reato è ancora fuori. Chiedo ad ognuno di noi di mettersi per un istante nei panni di Beniamino ed essere privati della libertà. Basta un secondo per capire”

Ecco provateci anche voi che leggete queste righe. 33 anni sono una vita. Per un crimine orrendo mai commesso. Beniamino Zuncheddu non deve aspettare oltre. E io di questa giustizia mi vergogno.

Gaia Tortora

Dietro le sbarre ingiustamente dal 1991: si mobilitano Partito Radicale e Papa. L'ergastolano Beniamino Zuncheddu lotta per la liberazione condizionale mentre il processo di revisione procede lentamente. Ora si è ammalato in carcere. I radicali organizzano per il 19 settembre a Roma una manifestazione, mentre Papa Francesco prega per lui. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 4 settembre 2023

Il giorno successivo a Ferragosto, don Giuseppe Pisano, il parroco del piccolo paese sardo di Burcei, ha scritto una lettera a Papa Francesco chiedendo di pregare per Beniamino Zuncheddu, un uomo che trascorre gran parte della sua vita dietro le sbarre, accusato di essere coinvolto in una strage avvenuta nelle montagne di Sinnai nel lontano 1991. Tuttavia, come già riportato da Il Dubbio,  la condanna all’ergastolo si basa su basi estremamente fragili, tanto che il suo processo di revisione è attualmente in corso, seppur con estrema lentezza. Questa situazione potrebbe rappresentare uno dei più gravi errori giudiziari italiani.

Ciò che rende questa lettera ancora più significativa è il ricordo di un incontro avvenuto molti anni fa nella Basilica di Bonaria, durante la visita di Papa Francesco a Cagliari. In quell'occasione, il Pontefice si è fermato per alcuni istanti proprio con Beniamino Zuncheddu, che aveva portato un dono da parte di tutti i carcerati. Quel momento di umanità e compassione ha lasciato un'impronta indelebile nel cuore di don Giuseppe, il quale ora cerca l'assistenza del Papa per un uomo che ha costantemente dichiarato la sua innocenza.

Papa Francesco ha telefonato al parroco di Burcei

A raccontare questa storia, nella scorsa settimana, è stato proprio don Giuseppe, ai microfoni di Radio Radicale. Inoltre, ha aggiunto che la lettera non è rimasta senza risposta: Papa Francesco, dopo averla ricevuta, ha risposto alla richiesta del parroco con una telefonata, in cui ha assicurato che avrebbe pregato per Beniamino Zuncheddu. Questa semplice promessa ha portato conforto e speranza a un uomo che oggi ha 58 anni e la vita distrutta. La vicenda di Beniamino ha catturato l'attenzione del Partito Radicale, che sta conducendo una battaglia per la sua liberazione. L’avvocato Mauro Trogu, intervistato da Radio Radicale durante la trasmissione “Lo stato del Diritto” condotta da Irene Testa, ha raccontato questa vicenda giudiziaria agghiacciante, che ha colpito profondamente coloro che seguono questa storia. La telefonata di Papa Francesco al parroco di Burcei è stata un gesto di solidarietà e compassione che ha contribuito a mantenere viva la speranza di giustizia per Beniamino Zuncheddu. Il 19 settembre è prevista una manifestazione del Partito Radicale a Roma, di fronte alla Corte d'appello, per sensibilizzare l'opinione pubblica sulla vicenda di Zuncheddu e per chiedere che sia fatta giustizia.

Il processo di revisione è in corso alla Corte d’Appello di Roma

Ripercorriamo la vicenda. Zuncheddu sta scontando una condanna all'ergastolo per un triplice omicidio e un tentato omicidio avvenuti a Cagliari l'8 gennaio 1991. La sua vicenda ha suscitato indignazione e compassione, grazie alla tenacia dell'avvocato Mauro Trogu, sta combattendo su due fronti per ristabilire la sua innocenza. La prima battaglia di Beniamino riguarda la revisione del suo processo, attualmente in corso presso la Corte d'Appello di Roma. Questa revisione è basata su nuove prove schiaccianti che mettono in discussione la sua colpevolezza. La sua storia è così incredibile che alcuni la considerano uno dei più grandi errori giudiziari nella storia italiana.

Zuncheddu è entrato in carcere a soli 27 anni e da allora non ha mai più visto la libertà. La sua condanna si basava principalmente sulla testimonianza di un unico testimone oculare, l'unico sopravvissuto alla terribile strage che ha scosso l'opinione pubblica all'epoca. Inizialmente, questo testimone aveva dichiarato che l'assassino aveva il volto coperto da una calza e quindi non poteva riconoscerlo. Tuttavia, dopo un periodo di tempo, ha improvvisamente cambiato versione, sostenendo che l'assassino aveva il volto scoperto e identificando Beniamino Zuncheddu attraverso un inusuale riconoscimento fotografico, senza il tradizionale confronto diretto.

Ciò che rende questa storia ancora più incredibile è il fatto che le prime indagini stavano seguendo una direzione diversa, forse più vicina alla verità dei fatti. Tuttavia, una svolta improvvisa è avvenuta grazie all'intervento di un sovrintendente della Criminalpol, che ha ricevuto una confidenza che indicava Zuncheddu come l'autore degli omicidi. Questo agente ha iniziato a esercitare una pressione insolita sul testimone oculare, conducendo numerosi colloqui investigativi non verbalizzati. L'agente ha dichiarato che smise di credere che il testimone non avesse visto l'assassino e lo spinse a "dire la verità". Poco dopo, il testimone oculare si dichiarò pronto a riconoscere l'autore degli omicidi e indicò Zuncheddu prima in una fotografia davanti al pubblico ministero e poi in una ricostruzione fotografica.

Nel 2020 la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta

Nel 2020, la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta che ha rivelato intercettazioni ambientali tra il testimone oculare e sua moglie. Durante queste conversazioni, è emersa chiaramente la mala fede del testimone. Inoltre, è stato dimostrato che una delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna di Zuncheddu, secondo cui l'aggressore si trovava nella zona illuminata e poteva essere riconosciuto, è stata completamente smentita da una ricostruzione 3D effettuata da un colonnello dei carabinieri. La stessa difesa ha dimostrato che l'aggressore è rimasto nel cono di luce per soli 0,1 secondi ed era con la luce alle spalle, rendendo impossibile il riconoscimento.

Inoltre, Beniamino Zuncheddu non aveva mai usato armi da fuoco in vita sua, a causa di un problema alla spalla che aveva sin dalla nascita. I delitti erano stati chiaramente commessi da professionisti, il che contraddice ulteriormente l'accusa. Nonostante la sua lunga permanenza in carcere, Zuncheddu ha sempre mantenuto una condotta esemplare e non ha mai violato le regole. Dopo aver lavorato all'interno e all'esterno dell'istituto, è stato ammesso al regime di semilibertà nel 2018 e ha dimostrato di essere un individuo capace di reintegrarsi nella società in modo civile e responsabile.

Il 19 settembre la manifestazione del Partito Radicale a Roma

Tuttavia, la sua richiesta di liberazione condizionale subisce ostacoli. Il tribunale di Sorveglianza di Cagliari ha respinto la richiesta due volte, sostenendo che Zuncheddu non confessava i reati per cui era stato condannato. Tuttavia, la Cassazione ha annullato per tre volte queste decisioni, stabilendo chiaramente che il ravvedimento non richiede la confessione del reato. L'avvocato Mauro Trogu ha ribadito che la professione di innocenza non è incompatibile con la liberazione condizionale. Tante sono le prove che smentiscono la colpevolezza di Zuncheddu.

Nonostante abbia trascorso più di tre decenni in carcere, la speranza di ottenere la sua liberazione e la revisione del processo rimane viva. Eppure la Corte d’Appello di Roma – competente per la revisione - continua a non sospendere la pena. Mentre il tribunale di sorveglianza di Cagliari va a rilento, fissando l’udienza per il 10 ottobre. In compenso Beniamino si è ammalato in carcere. Il Partito Radicale, come detto, ha organizzato una manifestazione davanti la Corte d’Appello per il 19 settembre. Il Papa sta pregando per lui. Rimangono solo i radicali e i preti, affianco a un ergastolano recluso ingiustamente.

All’ergastolo da oltre 30 anni sulla base di una sola (e debole) prova. Per Beniamino Zincheddu, che da 4 anni lotta per la liberazione condizionale, è in corso la revisione del processo: potrebbe trattarsi di uno dei più gravi errori giudiziari italiani. Damiano Aliprandi su Il Dubbio il 12 aprile 2023

Sta scontando l’ergastolo da oltre 30 anni per un triplice omicidio e un tentato omicidio avvenuto nel cagliaritano l’8 gennaio 1991. Si chiama Beniamino Zuncheddu, attualmente in regime di semilibertà presso il carcere di Cagliari, e grazie alla tenacia dell’avvocato Mauro Trogu sta lottando su due fronti: da una parte la revisione del suo processo attualmente in corso innanzi alla corte d’Appello di Roma, grazie alle nuove schiaccianti prove che delineano la sua innocenza; dall’altra l’ottenimento della liberazione condizionale che trova ostruzionismo dal tribunale di Sorveglianza che per ben due volte ha rigettato la richiesta, nonostante la Cassazione abbia annullato per l’ennesima volta l’ordinanza di rigetto.

La vicenda ha dell’incredibile. Come ha sottolineato il blog Terzultima Fermata, con un articolo a firma di Riccardo Radi, la storia di Zuncheddu potrebbe essere annoverata tra i più grandi errori giudiziari della storia italiana. Parliamo di un uomo che ha varcato la soglia del carcere a 27 anni e non è più uscito. Un’intera esistenza privata della sua libertà per una sola e unica prova: la testimonianza dell’unico teste oculare, colui che è sopravvissuto alla terribile strage che all’epoca creò tanto scalpore. Inizialmente ha raccontato che l’autore degli efferati omicidi aveva il volto coperto da una calza e quindi non poteva riconoscerlo. Poi a distanza di giorni cambia versione e dice che sì, l’omicida aveva il volto scoperto e tramite un inusuale riconoscimento fotografico (senza il classico confronto all’americana) ha indicato Zuncheddu.

Ebbene, come si legge nella richiesta di revisione del processo avanzata dall’ex procuratrice generale di Cagliari Francesca Nanni, oggi in servizio a Milano, e dall’avvocato Mauro Trogu, accade che le primissime indagini stavano andando in una direzione ben precisa, forse quella più vicina alla realtà dei fatti. Ma hanno avuto una brusca inversione di rotta tramite un sovrintendente della Criminalpol. Lui stesso riferirà che sul finire del gennaio 1991 aveva ricevuto una confidenza nella quale si indicava Beniamino Zuncheddu come l'autore degli omicidi. Da quel momento iniziò a esercitare una insolita pressione sul testimone, intrattenendo con lui numerosissimi colloqui investigativi mai verbalizzati. L'ispettore riferirà a dibattimento che, dal momento in cui acquisì la confidenza, smise di credere al fatto che lui non avesse potuto vedere l'assassino, e fondamentalmente lo trattò da bugiardo, spingendolo a dire la "verità". Circa venti giorni dopo le rivelazioni della fonte confidenziale, e all'esito di quelle pressioni, il testimone oculare si dichiarerà pronto a dire la verità e capace di riconoscere l'autore degli omicidi, affermando che costui in realtà aveva agito a volto scoperto, individuando Zuncheddu dapprima in fotografia davanti al pubblico ministero e successivamente in una ricognizione in sede di incidente probatorio.

Nel frattempo, nel 2020, la procura generale di Cagliari ha avviato una nuova inchiesta e sono spuntate fuori delle intercettazioni ambientali tra il testimone oculare e sua moglie. Era appena stato sentito dalla procura e – secondo la perizia della difesa - dialogando con la consorte emergerebbe chiaramente la sua mala fede. Non solo. Altro elemento che la difesa ha rilevato è la completa smentita di un passaggio delle motivazioni della sentenza di appello che ha confermato la condanna a Zuncheddu. I giudici hanno affermato che la posizione occupata dall'aggressore nel locale “era all'interno della zona illuminata, e consentiva alla luce di porre in piena evidenza i lineamenti del suo volto, e le caratteristiche del suo abbigliamento”. Passaggio completamente smentito da una ricostruzione a 3D da parte di un colonnello dei carabinieri dell’ufficio tecniche investigative di Velletri. La stessa difesa ha effettuato l’esperimento in sede di indagini difensive: l'aggressore è rimasto nel cono di luce per soli 0,1 secondi e con la luce alle spalle. Impossibile averlo riconosciuto.

A tutto ciò si aggiunge il fatto che Zuncheddu non ha mai usato fucili o pistole in vita sua, anche per un suo problema alla spalla che ha avuto fin dalla nascita. Non solo. I delitti, delle vere e proprie esecuzioni, sono stati chiaramente opera di killer professionisti. Queste e altre prove confermerebbero la assoluta innocenza di Zuncheddu e lui si è sempre proclamato tale. Nonostante ciò, in carcere, ha avuto una condotta – come scrive l’avvocato Trogu nell’ennesimo ricorso alla Cassazione per il rigetto della liberazione condizionale – “specchiata, intonsa e scevra anche della minima sbavatura”. Dall'ottenimento del primo permesso premio in avanti si è sempre dimostrato meritevole dei benefici ottenuti, non incappando mai nella benché minima violazione delle prescrizioni imposte. Dopo aver lavorato prima all'interno dell'istituto, poi all’esterno, nel 2018 è stato ammesso al regime di semilibertà. Dal 12 novembre 2020 è stato ammesso alla licenza speciale legata all’emergenza epidemiologica – purtroppo non più rinnovata dall’attuale governo - dimostrando ancora una volta una perfetta capacità di reinserimento in società secondo le regole del vivere civile.

Eppure, anche su questo fronte, la vicenda ha del surreale. Il tribunale di Sorveglianza di Cagliari per due volte ha negato la liberazione condizionale perché non confessa di aver commesso i reati per cui è stato condannato, e per la terza volta la Cassazione ha annullato le ordinanze di rigetto. Il procedimento di sorveglianza sta per compiere 4 anni, una abnormità. La Cassazione è stata chiara sul punto: il sicuro ravvedimento, parametro per ottenere il beneficio, non impone la confessione del reato per il quale si è stati condannati e si sta espiando la pena.

Come ribadisce l’avvocato Mauro Trogu nell’ennesimo ricorso puntualmente accolto dalla Cassazione, la professione di innocenza non è incompatibile con la concessione della liberazione condizionale. E ricorda il passaggio della Corte suprema dove si afferma che la nozione di sicuro ravvedimento non può implicare l’obbligo per il condannato di confessare la propria responsabilità, ma “comprende il complesso dei comportamenti concretamente tenuti ed esteriorizzati dal condannato durante il tempo dell’esecuzione della pena, obiettivamente idonei a dimostrare, anche sulla base del progressivo percorso trattamentale e di rieducazione e di recupero, la convinta revisione critica delle pregresse scelte criminali e a formulare in termini di certezza, o di elevata e qualificata probabilità, confinante con la certezza, un serio, affidabile e ragionevole giudizio prognostico di pragmatica conformazione della futura condotta di vita all’osservanza della legge penale in precedenza violata”.

Tanti, troppi gli elementi che smentiscono la sua colpevolezza. Da oltre 30 anni è in carcere, per espiare una condanna basata su una prova, di fatto, decostruita. Nonostante ciò tanta difficoltà e tanti anni per ottenere non solo il meritato beneficio penitenziario, ma anche un nuovo giudizio che gli riconosca la sua innocenza e sancisca il grave errore giudiziario.

Nikola Kastratovic.

Verona, condannato per rapina ma era all'estero: «L'arresto, la cella ma ero innocente: dieci anni da incubo». Laura Tedesco su Il Corriere della Sera il 21 febbraio 2023.

Dopo l’assoluzione per non aver commesso il fatto parla la vittima del clamoroso scambio di persona: «Un inferno»

Nikola Kastratovic, 31 anni

«Mi sento come chi è appena uscito dall’inferno». Arrestato, detenuto, condannato a 12 anni di reclusione per un clamoroso scambio di persona, per un errore giudiziario che solo ora è stato riconosciuto in un’aula di tribunale, per una rapina in villa con sparatoria a Gazzolo d’Arcole, nel Veronese, che lui non poteva aver commesso perché durante il colpo si trovava all’estero. La notte del 3 gennaio 2013 «ero in Serbia a festeggiare il Capodanno con amici» ha sempre protestato la sua innocenza Nikola Kastratovic, presunto colpevole di 31 anni di cui gli ultimi 10 «vissuti in un incubo che non augurerei a nessuno, essere trattato da criminale senza aver commesso reati ma soprattutto senza essere creduto dai giudici. Tremendo, un’atroce sensazione di impotenza».

Signor Kastratovic, cos’ha provato quando la Corte d’Appello di Venezia, ribaltando il primo grado, l’ha assolta per non aver commesso il fatto?

«Ho pianto, la giustizia aveva finalmente vinto».

Come sono stati questi anni da presunto delinquente?

«Vivevo in costante stress e paura di ciò che il nuovo giorno avrebbe portato, dopo tutto quello che io e la mia famiglia avevamo già passato onestamente era molto difficile andare avanti. Non è facile convivere con quel pensiero, è terribile non sapere cosa avrebbe portato il domani...».

Temeva il ritorno in cella?

«Ne ero terrorizzato, perché pur essendo innocente ero già stato arrestato e detenuto per 12 mesi (fino a scadenza dei termini, ndr), per cui sapevo che se avessero confermato la condanna sarei tornato dentro e chissà quando mi avrebbero rilasciato».

Ha mai perso la fiducia nella giustizia?

«In quei momenti così difficili ho confidato solo in Dio e nelle capacità del mio avvocato Fabiana Treglia che mi incoraggiava ad avere fiducia, perché la verità sarebbe venuta a galla. Ci sono voluti 10 anni, ma ora che la mia innocenza è stata finalmente riconosciuta, posso credere di nuovo nella giustizia».

Pensa di tornare in Italia, stavolta da uomo libero?

«Da amante della storia apprezzo e rispetto molto il Paese e il popolo italiano, credo che tornerò come turista, senza pensare a tutte le brutte cose che mi sono successe».

È riuscito a entrare nel mondo del lavoro, a creare una famiglia?

«All’inizio è stato molto difficile perché il posto dove vivo in Serbia è una piccola area, ho avuto problemi per questa vicenda. Ora lavoro da molto tempo, ho creato una famiglia, che è la gioia più grande della mia vita, e ho avuto una bellissima figlia. Per quanto riguarda il futuro, vorrei avere altri figli ed educarli a diventare persone buone, laboriose e oneste , come hanno fatto i miei genitori con me».

Come ha vissuto i dodici mesi di detenzione, prima in Croazia e poi a Verona?

«Molto, molto duri. Ero stato arrestato al confine croato dove ho trascorso due mesi e mezzo in prigione e per me che sono serbo è stato difficilissimo, stare lì non era per niente piacevole, scusate se non voglio parlarne, ma è stato un grande stress, mentale e fisico. In Italia le condizioni in cella erano migliori, ma anche lì per me è stato molto difficile perché quando è venuta a trovarmi mia madre non pesava nemmeno 30 chilogrammi dal dispiacere per me. Le dissi “mamma, non venire mai più a trovarmi”, perché mi era molto difficile vederla in quello stato. Mio padre è venuto in Italia per starmi più vicino, e non potrò mai dimenticare che per mettere da parte ogni denaro per me, ha preso il cibo dalla Croce Rossa. Quel periodo è stato atroce, ma dovevo essere forte soprattutto per mia madre, che ha anche avuto un infarto».

Chiederà un risarcimento?

«Certo che lo chiederò, anche se la mia salute e quella della mia famiglia non possono essere compensate da nessuna somma di denaro. Mia madre ha avuto un infarto, mio padre anche, e io dopo la condanna a 12 anni ho avuto due attacchi epilettici per lo stress. Voglio dare un futuro migliore ai miei figli».

Chi le è stato più vicino?

«Grazie a Dio avevo al mio fianco la mia famiglia e il mio avvocato, poi una coppia di amici e mia moglie che ha partecipato al processo quando sono stato condannato a 12 anni, e nonostante ciò, è rimasta al mio fianco, mi ha incoraggiato e regalato mia figlia Tara, meravigliosa creatura. A chi vive il mio stesso incubo, dico di non arrendersi mai ed essere forte, la verità prima o poi emerge». Per Nikola sono serviti «dieci anni infernali» per tornare finalmente a «vivere senza il terrore di dover rientrare in prigione da innocente». Laura Tedesco

Maurizio Bettazzi.

Estratto dell’articolo di Andrea Vivaldi per firenze.repubblica.it l’8 febbraio 2023.

Ha fatto tappezzare Prato di manifesti. Il suo volto sorridente, il nome e un titolo a caratteri cubitali: "Assolto". E poi la motivazione del giudice, altrettanto grande e sottolineata in rosso, affinché sia ben chiara a tutti: "Il fatto non sussiste". Maurizio Bettazzi, ex presidente del Consiglio comunale di Prato, nel 2013 era stato accusato di abuso d'ufficio e concussione. Adesso, dopo essere stato assolto con formula piena dal tribunale, è partito al contrattacco. […]

 Una risposta della giustizia dove forse mai si era vista, appesa tra un condominio, un parcheggio e una promozione di Mondo Convenienza. "I manifesti saranno presto una decina e resteranno almeno per un mese - dice Bettazzi a Repubblica - Purtroppo non posso più farlo sapere alle persone che sono morte in questi anni e confermargli ciò che gli dicevo. Chi mi aveva tolto il saluto e chinava la testa quando mi incrociava, adesso vedrà il cartellone e saprà che ero la stessa persona di prima di questa vicenda".

[…] "Un lungo procedimento su un fatto che non esisteva. La giustizia giudicante mi ha sempre assolto, mentre i pubblici ministeri hanno continuato una persecuzione verso di me" dice senza troppi giri di parole l'ex presidente del Consiglio comunale pratese che a causa dell'inchiesta decise, in autonomia, di dimettersi a luglio 2013.

 Le indagini generarono risonanza mediatica, attenzione pubblica e politica, causarono l'interruzione della sua carriera politica. E ora è forte il desiderio di far sapere a tutti che era innocente. […]

 In un angolo basso del cartello c'è anche una piccola sigla "P.d.M", ovvero "Il Partito di Maurizio" spiega Bettazzi, che aveva pensato anche di fondare un partito a suo nome per raccontare la travagliata vicenda giudiziaria vissuta in questi anni. "Ma potrebbe anche essere - aggiunge ironico, in un senso di liberazione - la sigla di 'perseguitati dalla magistratura'".

Sui giornali non si può contare. Assoluzioni dopo la gogna, manifesti fai-da-te a Prato e ribaltone a Trani: sindaco pulito e pm condannato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 13 Febbraio 2023

Proprio una bella idea, pur nel secolo tecnologico, quella di Maurizio Bettazzi da Prato, che ha tappezzato la sua città di grandi cartelli per certificare la propria innocenza e assoluzione “perché il fatto non sussiste”, dopo dieci anni di gogna e tribolazioni. È un’idea straordinaria, anche se fa un po’ cascare le braccia per l’enorme senso di sfiducia che esprime nei confronti di certa stampa, la gran parte, che, quando l’esibizione del pm mediatico è terminata, non ha più interesse per la medesima persona che prima aveva messo alla gogna, men che meno per una sentenza di assoluzione.

Ma c’è anche una bella quantità di sfiducia nei confronti dei propri concittadini, dei vicini di casa, dei compagni di scuola dei tuoi figli. Il bisogno di togliere dalle facce quell’espressione dubbiosa, quel pensiero fastidioso e petulante del “se lo indagano, se lo arrestano, qualcosa ci sarà, qualcosa avrà fatto”. Il paradosso che vuole ci sia sempre arrosto, cioè peccato, laddove ci sia anche un sol filo di fumo. E allora un bell’applauso a Maurizio Bettazzi, che nel 2013 era presidente del consiglio del Comune di Prato, al tempo unica città della rossa Toscana governata dal centrodestra. Lo indagano per una consulenza da 2.800 euro che gli fu affidata nella sua veste di mediatore finanziario e che fu scambiata per tangente.

Gli contestano la corruzione per poterlo intercettare, come sottolinea l’ex presidente del consiglio comunale in un’intervista a Paolo Ferrari di Libero. Un particolare che dovrebbe far riflettere lo stesso ministro Nordio, se non fosse per il fatto che uno dei due pm che esercitarono quell’astuzia e che avevano anche chiesto invano al gip la custodia cautelare in carcere per Maurizio Bettazzi, Antonio Sangermano, sia oggi uno dei principali consiglieri del guardasigilli. Del resto questo pm non è lo stesso che al fianco di Ilda Boccassini si era accanito nell’accusa ingiusta di prostituzione minorile e concussione nei confronti di Silvio Berlusconi che fu poi assolto?

Ci sono sempre, in questi processi fallimentari nei confronti di esponenti politici e pubblici amministratori, queste figure di toghe che vengono poi premiate con veloci carriere professionali, fin dai tempi di Enzo Tortora. Magistrati che sbagliano, che spesso si impuntano caparbiamente su un’ipotesi, e si accaniscono. E intorno c’è sempre la gran fanfara, o la gran cagnara dei giornalisti-cicisbei. Ci sono poi anche fatti più gravi, dei quali comunque mai si è occupato il Csm. Perché pare normale quel che accadde, molti anni fa, per esempio a Lamezia, dove una giudice arrestò il sindaco e fece sciogliere il Comune per mafia per poi candidarsi lei stessa alle successive elezioni e prendere il posto di colui che lei stessa aveva tolto di mezzo.

Anche quando non si arriva a questi comportamenti estremi, una regola è comunque quella del terremoto politico che certe inchieste determinano sull’elettorato, che inevitabilmente nella tornata che consegue alla bufera giudiziaria votano gli avversari degli amministratori uscenti. È capitato in Umbria, dove grande responsabilità hanno avuto gli esponenti del Pd locale (e nazionale) nel non sostenere la propria presidente Catiuscia Marini, costringendola suo malgrado alle dimissioni in quanto indagata, salvo poi dover assistere al ribaltone politico con la vittoria del centrodestra e i seguito, ma molto dopo, all’assoluzione della ex presidente.

Ma la situazione più paradossale è forse quella recentissima di Trani. Il sindaco di centrodestra Luigi Riserbato era stato arrestato nel 2014 per associazione per delinquere (ecco il reato che consente anche le intercettazioni, oltre alla custodia cautelare), tentata concussione, tentata turbativa d’asta, tentata truffa. Reati che crolleranno uno dopo l’altro come birilli, e per primo quello che aveva determinato l’arresto. Ma intanto la giunta era caduta con le dimissioni del sindaco e puntualmente vincerà in seguito la sinistra. L’imprevisto è che poi, mentre Luigi Riserbato sarà assolto perché il fatto non sussiste, il pm che lo aveva accusato, Michele Ruggiero, è stato invece condannato in via definitiva nei giorni scorsi per concorso in tentata violenza privata per minacce ad alcuni testimoni durante gli interrogatori.

Ecco come finiscono certe storie. A Trani ribaltone politico e fine di una carriera, mentre il pm continua tranquillamente il suo lavoro alla procura di Trani. Ora a nessuno verrebbe in mente di tappezzare Trani di manifesti con la faccia del procuratore condannato, ma si potrebbero esporre quelli con la notizia dell’assoluzione dell’ex sindaco, e potrebbe pagarglieli il procuratore Ruggiero.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.


 

La "persecuzione" dei magistrati. Assolto dopo 10 anni, tappezza la città di cartelloni per rivendicare la sua innocenza: il caso di Maurizio Bettazzi. Carmine Di Niro su Il Riformista l’ 8 Febbraio 2023

Ci sono voluti 10 anni, ma Maurizio Bettazzi ha ottenuto finalmente giustizia e anche una sorta di “vendetta” politica. Perché l’ex presidente del Consiglio comunale di Prato, che nel lontano 2013 era stato accusato di abuso d’ufficio e concussione, dopo una lunga trafila giudiziaria può finalmente rivendicare l’assoluzione con formula piena.

E così, in una sorta di riedizione toscana del film capolavoro “Tre manifesti a Ebbing, Missouri”, pellicola vincitrice di due premi Oscar, Bettazzi ha tappezzato la città di cartelloni 6×3 in cui spicca il suo volto e le scritte a caratteri cubitali “Assolto dopo dieci anni, il fatto non sussiste”.

Una rivincita per l’ex presidente del Consiglio comunale, incarico ricoperto dal 2009 al 2013, quando nel luglio di quell’anno si dimise per l’indagine che ora lo vede assolto.

Ora dunque il passaggio al contrattacco per rivendicare la sua innocenza e riabilitare la sua immagine, ovviamente macchiata dalle accuse e dalla lunga indagine. Inchiesta che riguardava il suo ruolo professionale di mediatore creditizio: l’ex politico di centrodestra aveva fornito una consulenza a una banca del territorio e a una società partecipata dal Comune, la Asm, in cerca di finanziamenti per alcune linee di credito: la procura ipotizzava che la consulenza fosse una “tangente mascherata”.

I manifesti saranno presto una decina e resteranno almeno per un mese – dice Bettazzi a Repubblica – Purtroppo non posso più farlo sapere alle persone che sono morte in questi anni e confermargli ciò che gli dicevo. Chi mi aveva tolto il saluto e chinava la testa quando mi incrociava, adesso vedrà il cartellone e saprà che ero la stessa persona di prima di questa vicenda“.

Bettazzi sottolinea anche la “persecuzione” della magistratura inquirente nei suoi confronti: “La giustizia giudicante mi ha sempre assolto, mentre i pubblici ministeri hanno continuato una persecuzione verso di me”, spiega senza tanti giri di parole.

Venerdì scorso il politico, fresco di assoluzione, aveva subito convocato una conferenza stampa per comunicare la ‘liberazione’ dalla battaglia giudiziaria, poi l’insolita scelta dei cartelloni sparsi per la sua città. “Ho passato gli ultimi dieci anni a soffrire da innocente, passerò i prossimi dieci a spiegare ciò che mi è successo a chiunque vorrà ascoltare“, aveva detto in conferenza Bettazzi.

Idea, quella dei cartelloni, che “amici e conoscenti hanno apprezzato”, spiega oggi Bettazzi, che non nasconde la possibilità di tornare a fare politica. Nel cartellone infatti è presente in basso la dicitura “PdM”, ovvero “Partito di Maurizio”. Ironicamente però l’ex presidente del Consiglio comunale di Prato spiega che “potrebbe anche essere a sigla di ‘perseguitati dalla magistratura’“.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

IL 15 SETTEMBRE 1986. Al giudice che assolse Enzo Tortora il Premio Nassiriya. Non abbiamo sentito parlare quasi mai di lui, se non grazie allo splendido documentario in cui la Rai, poche settimane fa, lo ha addirittura intervistato. Errico Novi su Il Dubbio il 22 novembre 2023

«Eravamo sul divano, a casa, in via dei Piatti. Muti. Enzo aveva deciso, su consiglio dei suoi avvocati, di non presenziare all’udienza in Corte d’appello. Ascoltavamo in diretta su Radio Radicale la voce di questo magistrato, Michele Morello, che della Corte era il giudice relatore. Più andava avanti, più ci guardavamo increduli. Era un’altra storia». E quella storia si sarebbe conclusa con la lettura del dispositivo che forse più di qualunque altra provoca e provocherà per sempre i brividi: parliamo della sentenza con cui Enzo Tortora sarà assolto, il 15 settembre 1986. La lesse il presidente del collegio Antonio Rocco, e al suo fianco c’era il giudice relatore che Francesca Scopelliti, compagna di Enzo, ascoltò quel giorno da lontano, grazie alla radio di Marco Pannella. Ebbene, Morello non ha fatto la carriera di Lucio di Pietro e Felice di Persia, cioè dei colleghi che Tortora lo avevano fatto condannare in primo grado. Non abbiamo sentito parlare quasi mai di lui, se non grazie allo splendido documentario in cui la Rai, poche settimane fa, lo ha addirittura intervistato. Ma adesso c’è chi si ricorda di insignire quel garbato e coraggioso signore, finalmente, e non più i carnefici di Enzo, come hanno fatto diverse, ineffabili consiliature del Csm.

A Morello infatti è andato il Premio internazionale Nassiriya per la pace, riconoscimento promosso dall’Associazione Culturale Elaia col patrocinio di presidenza del Consiglio e ministero della Difesa. A ritirarlo dalle mani di Giuseppe Antoci, lo scorso 10 novembre a Marina di Camerota, è stato il figlio di Michele Morello, Tullio, a propria volta magistrato e attuale consigliere Csm. Tullio può vantare un piccolo, coraggioso atto di fede compiuto quando ancora il papà non aveva assolto Tortora: diede al presentatore e giornalista il primo voto da diciottenne.

Tornato dal seggio, il padre e giudice gli chiese chi avesse scelto. Il figlio non esitò: «Ho votato per il Partito radicale, e per Enzo Tortora». «Ma come», fu la replica, «voti per un indagato?». Poi, quel 15 settembre dell’ 86, appena Michele entrò in casa di ritorno da Castelcapuano, il figlio disse: «Così io avrei votato per un indagato?...». E si abbracciarono.

Nelle motivazioni che accompagnano l’assegnazione del premio Nassiriya a Michele Morello, si legge: “Il giudice Morello, senza enfasi mediatiche, con la forza della sua cultura giuridica e la pace della sua coscienza, studiò le carte processuali, riportando la vicenda giudiziaria sui binari della verità e mettendo fine ad uno dei più clamorosi casi di malagiustizia verificatisi in Italia”. È la frase che Francesca Scopelliti ha pronunciato il 18 maggio scorso a Montecitorio, all’evento celebrato nel trentacinquesimo anniversario della morte di Enzo. Il cerchio non si chiude: casomai, finalmente, quella traiettoria segnata da tanti atti discutibili comincia ad assomigliare, almeno un po’, a un arcobaleno.

Gaia Tortora: «Il documentario Rai su mio padre e la presentazione alla Camera una vera cialtronata». VANESSA RICCIARDI su Il Domani il 10 ottobre 2023 •

La figlia di Enzo Tortora non è stata avvertita dell’esistenza del nuovo video, e nessuno l’ha invitata alla presentazione: «Dove c’era solo la destra, avrebbero dovuto coinvolgere tutte le parti politiche». La replica di Scopelliti: «Lei ha preferito non sapere», il vicepresidente Gasparri (Fi), per l’occasione ha organizzato «una sorpresa: ha messo il video della canzone “La calunnia” di Edoardo Bennato»

Gaia Tortora riassume così: «Una vera cialtronata». Martedì 10 ottobre alle 16, nell’Aula dei Gruppi parlamentari della Camera dei Deputati, è stato proiettato il docufilm “Enzo Tortora – Ho voglia di immaginarmi altrove”, regia di Tommaso Cennamo, coproduzione Rai documentari e Moviheart.

Il parterre è quello delle grandi occasioni. Indirizzo di saluto del presidente della Camera, Lorenzo Fontana (Lega). Tavola rotonda con Francesco Paolo Sisto, vice ministro della Giustizia (Forza Italia), Maurizio Gasparri (Forza Italia), vice presidente del Senato, Federico Mollicone, presidente della Commissione Cultura della Camera (Fratelli d’Italia), Francesco Rutelli, presidente Anica, Fabrizio Zappi, direttore Rai documentari.

Moderatrice Francesca Scopelliti, presidente della Fondazione per la giustizia Enzo Tortora e ultima compagna del celebre volto Rai. Nessuno ha invitato la figlia, che non sapeva nemmeno dell’esistenza del documentario: «Ne sono venuta a conoscenza per caso, tre giorni fa, da una pubblicità».

Enzo Tortora è stato l’esempio più celebre di malagiustizia in Italia. Arrestato 40 anni fa, il 17 giugno del 1983, con l’accusa di associazione camorristica e spaccio, venne assolto dopo quattro anni. Il suo caso è diventato un simbolo, anche perché Tortora morì nel 1988, a 59 anni, un anno dopo la definitiva assoluzione in Cassazione, combattendo di fatto fino all’ultimo per la sua innocenza.

RAI E POLITICA

La figlia non ha mai messo limiti alle ricostruzioni giornalistiche, né impedito che il caso Tortora accendesse il dibattito ancora 40 anni dopo. Il problema non è quello, racconta.

«La Rai – spiega - fa un documentario che può essere di qualunque tipo, non mi interessa, e neanche si degna di dirmelo. E in più lo presenta e neanche viene invitata l'unica che è di fatto l’erede, perché la signora che modera la tavola rotonda ha fatto parte parte della famiglia per un periodo della sua vita che è passato».

Scopelliti replica: «Non avrei mai voluto entrare in questa sterile polemica con Gaia Tortora ma la verità, la dignità mi obbligano a farlo. Sono erede di Enzo Tortora: erede materiale insieme alle tre figlie, Monica, Silvia e Gaia, erede morale (insieme a Marco Pannella e altri autorevoli radicali) per la Fondazione sulla giustizia».

Il documentario, aggiunge «è bellissimo, un lavoro che avrebbe voluto anche la partecipazione di Gaia (non è credibile la sua esclusione da parte della Rai) se lei non avesse preferito “non sapere”».

Secondo Scopelliti, la giornalista non avrebbe voluto rispondere alle telefonate e ai ripetuti messaggi. La «battaglia di Enzo è politica, ma non di parte. Di tutta quella politica che vuole farsi carico delle necessarie e urgenti riforme per la giustizia proprio nel nome di Enzo Tortora». Il vicepresidente Gasparri, per l’occasione, racconta, ha organizzato «una sorpresa: ha messo il video della canzone “La calunnia è un venticello” di Edoardo Bennato, poi dicono che i politici sono noiosi», conclude. Della scelta degli ospiti comunque non si è occupata lei.

«UNA STRUMENTALIZZAZIONE»

Tortora non ha dubbi: «Una strumentalizzazione». Una strumentalizzazione politica: «Io l’avrei fatto allargando a una platea politica di tutti gli schieramenti perché la giustizia è un argomento che appartiene a tutti».

Non vuole però aggiungere altro e specificare ulteriormente: «Andatevi a cercare i personaggi coinvolti e il perché chiedetelo a loro. Non è maleducazione, siamo oltre, a partire dalla Rai. Mio padre non appartiene a uno schieramento politico, ma rappresenta un caso giudiziario, ritengo che sia da poveretti ridurlo a una parte politica».

Da Gasparri a Mollicone, Tortora vicedirettrice del Tg di La7 e capo del servizio politico li conosce tutti: «È abbastanza curioso e fuori forma, se dietro c’è una regia non lo so. Nessuno si è chiesto come mai non sia stata coinvolta la figlia. So che i fatti sono questi, è un cambiamento di stile. Chiedete a Giampaolo Rossi o al nuovo presidente Rai, o a Rai documentari. Io so solo che è una cialtronata, destra o sinistra non mi interessa». Lei non contatterà nessuno: «Ho fatto dei tweet, poi ognuno si guarda allo specchio».

In uno dei tweet Tortora menziona anche Rai documentari, braccio Rai diretto da Zappi, dato in quota lega: «Questo tipo di strumentalizzazione mi fa schifo».

VANESSA RICCIARDI. Giornalista di Domani. Nasce a Patti in provincia di Messina nel 1988. Dopo la formazione umanistica e la gavetta giornalistica nella capitale, ha collaborato con Il Fatto Quotidiano e Roma Sette, e lavorato a Staffetta Quotidiana. Idealista.

Lite per il documentario su Tortora, la compagna Francesca Scopelliti replica alla figlia Gaia. Il Domani il 12 ottobre 2023

«Enzo ha voluto affidarmi la sua battaglia con l’impegno di rinnovare la memoria della sua vita di uomo onesto e perbene. Dal 1988 ho tenuto fede a questo impegno: è stata dura e purtroppo non ho raggiunto molti degli obiettivi prefissati, ma ho evitato, questo sì, che il nome di Tortora venisse dimenticato»

Dopo la rabbia della figlia di Enzo Tortora, Gaia Tortora, l’ultima compagna del volto Rai divenuto simbolo di uno dei più gravi casi di malagiustizia, replica sul documentario Rai a cui la figlia non sarebbe stata invitata a partecipare: «Non avrei mai voluto entrare in questa sterile polemica con Gaia Tortora ma la verità, la dignità mi obbligano a farlo. Sono erede di Enzo Tortora: erede materiale insieme alle tre figlie, Monica, Silvia e Gaia, erede morale (insieme a Marco Pannella e altri autorevoli radicali) per la Fondazione sulla giustizia.

Prima di morire, con atto notarile, Enzo ha voluto affidarmi la sua battaglia con l’impegno di rinnovare la memoria della sua vita di uomo onesto e perbene e di denunciare le disfunzioni che avevano reso possibile il processo napoletano.

Dal 1988 ho tenuto fede a questo impegno: è stata dura e purtroppo non ho raggiunto molti degli obiettivi prefissati, ma ho evitato, questo sì, che il nome di Tortora venisse dimenticato. Prova ne è che oggi la Rai produce – direi “finalmente” - un documentario bellissimo, un lavoro che avrebbe voluto anche la partecipazione di Gaia (non è credibile la sua esclusione da parte della Rai!) se lei non avesse preferito “non sapere”.

E rinunciare a una operazione verità, di grande pregio, con esplicite e chiare dichiarazioni di personaggi importanti, giornalisti, giuristi, politici, testimoni diretti di quella triste vicenda, avvalorata poi da un eccezionale colpo giornalistico: per la prima volta rilascia un’intervista televisiva il giudice Michele Morello, l’uomo che senza enfasi mediatiche, con la forza della sua cultura giuridica e la pace della sua coscienza, studiò le carte processuali che avevano condannato Tortora riportando la vicenda giudiziaria sui binari della verità.E della piena assoluzione.

La Rai è stata ospite con tutti noi del presidente della Camera, Lorenzo Fontana e, fra gli altri, sono stati invitati tutti i parlamentari, di destra e di sinistra: qualcuno è venuto, molti sono stati trattenuti dagli importanti lavori d’aula. Ma la sala era ugualmente gremita di donne e uomini che si sono commossi, si sono indignati. Di persone che hanno capito quale abominio fu costretto a vivere Enzo. E questo è importante.

La battaglia di Enzo è politica, ma non di parte. Di tutta quella politica che vuole farsi carico delle necessarie e urgenti riforme per la giustizia proprio nel nome di Enzo Tortora».

Fu processo politico, esperimento selvaggio di una casta codina e anticipo di una rivoluzione sostitutiva della divisione dei poteri. Giuliano Ferrara nella prefazione al libro, scrive. «Tortora è morto al culmine della tragedia, segnando della tragedia l'aspetto sinistro dell'inevitabilità. Eppure era tutto evitabile. Il carcere era afflittivo, inutile. Affermazione di un potere senza significato sul piano del diritto». Giuliano Ferrara su Il Dubbio il 31 agosto 2023

Facile dire che i colletti bianchi, quando cadono nel baratro, non meritano la nostra attenzione o compassione. Enzo Tortora era un liberale, un televisivo di estremo successo, colletto candido. Travolto dal carcere e dall’ingiustizia, fino alla condanna della morte passando per l’assoluzione della Corte, il colletto bianco non si vedeva più. Che cosa restasse dopo la retata, dopo l’umiliazione, dopo la decisione favorevole alla “custodia preventiva in carcere” (lessico burocratico), queste lettere lo dicono dallo sprofondo di un tempo remoto e di una memoria presente. Restavano la solidarietà, l’umanità cocente e disperata, il senso di essere uno come altri, il bisogno d’aria della bestia in gabbia, l’autocontrollo, lo struggimento d’amore, la malattia dell’innocenza, lo sbalordimento del gentiluomo, il passaggio senza fine di un tempo che si faceva platonicamente immagine mobile dell’eternità, la rivolta contro un paese rivelatosi oppressore, un sistema capace di tutto, e sopra tutto la logica del partito preso, la spirale dell’interesse ad accusare, a trovare indizi nella testimonianza della feccia più feccia per difendere la reputazione della toga più toga, la sensazione di essere braccato da una follia cinica rivestita dei panni augusti della giustizia e della forza dello Stato oltre che dalla carognaggine dei giornali e delle tv, eccezioni rare e solo esemplari, inefficaci per lo più e comunque lontane, in dissolvenza per tutto il primo periodo del carcere.

Francesca Scopelliti è la primizia d’amore che insieme alle figlie, alla sorella di Tortora, collabora come può, separata per legge dal convivente detenuto, con i telegrammi, l’ansia, la compostezza greca, e “greca” lui spesso la chiama, compostezza greco- classica, di una calabrese bella e sorprendente, che gli terrà la mano fino all’ultimo respiro e solo ora licenzia questo tesoro di lettere, di dolcezze d’uomo vero, di seduzioni e apprensioni (“va’ in vacanza”), di ricordo, di desiderio, di dialogo tra adulti innamorati costretti a vivere e a imparare nella tempesta. Colletto bianco, mi fanno ridere. Uomo di successo, viene da piangere.

Tortora fu colosso abbattuto dell’invidia pulsante, perché “gli uomini non chiedono che di adagiare la propria felicità sull’altrui sofferenza” ( Salvatore Satta), nella società chiusa dello spettacolo rischiò il più rigido isolamento sociale, il suo passato disinvolto, un po’ snob, faceva da guarnizione perché non passasse l’aria della comprensione, della interpretazione di quella storia vera che solo amici, solo liberali, solo radicali riuscirono a respirare e a fargli respirare.

Tortora è morto al culmine della tragedia, segnando della tragedia l’aspetto sinistro dell’inevitabilità. Eppure era tutto evitabile. Il carcere era afflittivo, inutile, affermazione di un potere senza significato sul piano del diritto. Le lettere lo mostrano a dito, il pregiudizio che devasta, che rinvia, che non tiene conto, che va in vacanza d’estate, che non si cura del rispetto del diritto, che conta sulla ignobile trafila dell’accusato in catene, in schiavettoni.

La procedura penale avrebbe consentito un processo senza gogna, e della procedura morbosa fecero parte invece le parole assertive, cattive, disumane che furono pronunciate in toga contro l’inerme tra gli inermi, contro il “cinico trafficante di morte” che si preparava a scambiare la sua vita, quella delle figlie di Francesca dei suoi, con la desueta ma in lui viva funzione dell’onore personale. Il processo fu processo politico, avanscena della carica contro la Repubblica appena di là da venire, esperimento selvaggio di una casta codina intenzionata a regnare sullo spirito degli italiani, con brindisi di cronisti appiccicato, anticipo di una rivoluzione sostitutiva della divisione dei poteri, dell’equilibrato controllo reciproco.

Da queste lettere a Francesca, Tortora esce vivo ancora una volta, ma dal processo così costituito non poteva uscire vivo, lui che volle il microfono della televisione dal letto di agonia per dire che “una bomba atomica mi è scoppiata dentro”, lui che onorò consegnandosi la giustizia che lo aveva disonorato. Qui nelle lettere è nel cominciamento tenebroso della tragedia, è nel suo prologo in teatro, quando ancora può leggere i libri della Yourcenar, quando può informarsi dagli avvocati, e può pensare allo splendore del ritrovamento con la sua Cicciotta ( abbi la certezza che ti amo, non potevamo prevedere che le cose assumessero il passo dell’inferno).

Dopo mesi atroci si accorge che sarà un “liberante”, uno che sta per uscire, che deve preparare la “zampogna”, il fagotto, che deve salutare ed è straziante, lo scrive a Francesca, gli amici della pasta scotta, dei cessi intasati, dell’iperbolica sofferenza carceraria che si aggiunge alla sofferenza del giudizio ingiusto, dell’inchiesta penale guidata dalla mala attraverso le testimonianze da giornalismo tabloid spacciate e credute per vere con la disattenzione senza scrupoli che abbiamo conosciuto. Riceve gli stati maggiori, s’impegna per la politica, che avrà le sue curve e le sue incredulità, le sue nobiltà, e gli consentirà di essere un italiano utile a tutti gli italiani. Ma fino a un certo punto. Il processo Tortora, lo sappiamo, non è mai veramente finito. Il carcere, lo sappiamo, non è tuttora veramente adeguato allo stato di diritto ( per usare un tremendo eufemismo). E ogni tanto penso, mia cara Francesca, che morendo di passione e di dolore il tuo Enzo ha perso tutto, e si è perso a tutti, ma ha guadagnato l’oblio su quel che sarebbe seguito.

Tortora, Moro e il volto arcigno di uno Stato che fu ottuso...Col caso di Enzo Tortora la magistratura italiana ruppe definitivamente il filtro che la inchiodava al rispetto, almeno formale, delle regole del “giusto processo”.  Davide Varì su Il Dubbio l'1 agosto 2023

«Signori della corte, io dovrei concludere dicendo ho fiducia. Rimbalzo la domanda: avreste fiducia voi? Io vi dico sono innocente, lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi in questo dibattimento. Io sono innocente! Io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi!».

Erano passati tre lunghi anni dal giorno in cui Enzo Tortora pronunciò il suo grido di dolore davanti ai giudici del tribunale di Napoli. Tre anni di galera, di umiliazioni, di diritti negati. Tre anni dal giorno in cui fu prelevato all’alba da un gruppo di carabinieri e condotto in caserma per rispondere di accuse terribili e inaudite; tre anni, infine, dall’infamia di quella foto con gli schiavettoni ai polsi preparata come si prepara un set cinematografico: una pausa a favore di macchina e la schiera di fotografi a immortalare il “mostro insospettabile”. Fu quella la prova generale di un sistema che di lì in poi divenne prassi consolidata. Di più fu il grande salto nel processo mediatico-giudiziario: la nuova era in cui giustizia e stampa siglarono un patto d’acciaio che cambiò per sempre i connotati del processo penale.

Col caso di Enzo Tortora la magistratura italiana ruppe definitivamente il filtro che la inchiodava al rispetto, almeno formale, delle regole del “giusto processo”. Col nuovo processo, mediatico-penale l’indagato è il colpevole certo, il pm è identificato col giudice e l’avvocato è presentato come una sorta di fiancheggiatore il cui unico scopo, come direbbe qualcuno, è quello di aiutare il “colpevole” a farla franca. La caratteristica del processo mediatico del resto è proprio quella di zittire la difesa e far strame dei diritti dell’indagato.

Ecco, il caso Tortora è il nostro caso Dreyfus, è una cicatrice che la nostra giustizia cerca di celare ma che in questi anni ha reso ancora più profonda. Per questo, noi del Dubbio, abbiamo deciso di pubblicare le bellissime Lettere a Francesca che Tortora inviò in quei giorni drammatici alla sua compagna Francesca Scopelliti, il cui coraggio e la cui dedizione alla causa di Enzo Tortora, e di tutti i Tortora italiani, è semplicemente commovente.

Lettere a Francesca è un dono che Enzo, e Francesca naturalmente, hanno consegnato a noi tutti. Leggendo le sue parole, la sua disperazione, ma anche al tenerezza con cui spesso si rivolge alla donna che amava, Tortora per un attimo sembra assumere i tratti di Aldo Moro; il Moro che scrive alla moglie Eleonora, la sua «dolcissima Noretta», e alla quale affida, nella lettera più struggente, il suo commiato dagli affetti più cari: «Bacia e carezza per me tutti, volto per volto, occhi per occhi, capelli per capelli. A ciascuno una mia immensa tenerezza che passa per le tue mani».

Un paragone che potrebbe apparire avventato quello tra Moro e Tortora, forse addirittura “eretico”. Eppure non v’è dubbio che nelle lettere dello statista prigioniero di una banda di terroristi e quelle del presentatore finito nelle mani del nostro sistema giudiziario, c’è un filo rosso, un “lamento” comune che riecheggia lo stesso dramma. Di certo, in entrambi i casi, c’è l’ottusa ferocia di uno Stato che in quei momenti presentò il suo volto più insensato e spietato.

Alla fine trovammo un giudice a Napoli e io mi riappacificai con la magistratura. Enzo Tortora, vittima di errore giudiziario. Il ricordo di Raffaele Della Valle, che difese Tortora con Alberto dall'Ora e Antonio Coppola. Raffaele Della Valle su Il Dubbio il 2 agosto 2023

Per chi come me lo ha vissuto in prima persona nell’aula di un tribunale, resta ancor oggi difficile descrivere che cosa sia stato il caso Enzo Tortora: dall’inizio delle indagini (quali?) sino all’allucinante sentenza di condanna di primo grado, poi legittimamente riformata nei successivi gradi di giudizio ( presso la Corte di Appello di Napoli e la Corte di Cassazione) che hanno sancito la sua assoluta innocenza.

Per evitare di farmi prendere dalla passione mi richiamo pertanto al pensiero di alcuni autorevoli esponenti del giornalismo (Enzo Biagi, Leonardo Sciascia, Alessandro Galante Garrone, Italo Mereu, Giorgio Bocca, Piero Angela e Vittorio Feltri) che sollevarono immediatamente il beneficio del dubbio con dichiarazioni perentorie e critiche sull’operato dei magistrati titolari di quel procedimento. A queste si sono poi aggiunte voci importanti dallo stesso mondo giudiziario. Giancarlo Caselli, già procuratore generale presso la Corte di Appello di Torino, parlò di sciatteria e di grandi omissioni degli inquirenti.

Franco Ippolito, già segretario di Magistratura Democratica, discutendo sul caso “de quo” ebbe a esprimersi in questi termini: «Non si può continuare a tacere sui comportamenti tenuti da alcuni colleghi. La vicenda drammatica di Enzo Tortora ha costituito una lacerazione profonda che ogni magistrato dovrebbe sentire bruciante dentro di sé».

Per parte mia e dei colleghi coi quali ho condiviso questa drammatica vicenda (il compianto professor Alberto Dall’Ora e l’avvocato Antonio Coppola di Napoli), posso semplicemente ricordare che quando nel corso di quell’assurda, lacunosa se non inesistente istruttoria compresi scoraggiato che gli inquirenti accettavano acriticamente la scorciatoia facile e appagante del pentitismo rozzo, strumentale e chiaramente interessato – rifiutando la strada faticosa della rigorosa ricerca dei riscontri – mi consolavo dicendomi: «ci dovrà pur essere un Giudice a Berlino!». E invece nella maxi- aula del tribunale di Napoli trovammo giudici più amici di “Federico” che della giustizia. Giudici che hanno cominciato a dileggiarci prima ancora di avere chiarito per quali reati (e non apparenti e cervellotici motivi) Enzo Tortora fosse colpevole. Giudici che non hanno esitato a emettere un giudizio profondamente errato, arrogandosi addirittura il diritto di deriderci.

Fortunatamente la mia mal riposta speranza non andò completamente distrutta. Fu così che mi accinsi a predisporre i lunghi motivi di appello, criticando con puntiglio la metodologia improntata a parzialità di scelte probatorie, a travisamenti e a omesse indagini, ricca di proposizioni illogiche gratuite oltre che di non necessarie cattiverie. La Corte di Appello di Napoli – rinnovando l’istruttoria e assumendo quelle testimonianze che, pur richieste ripetutamente nel corso delle indagini e in dibattimento, non erano mai state accolte – pronunciò infine una ineccepibile sentenza assolutoria. Spiegherà tempo dopo, anche a nome dei suoi colleghi Antonio Rocco e Carmine Ricci, il consigliere relatore Michele Morello: «Per condannare Enzo Tortora avremmo dovuto affermare una infinità di bestialità… Lo abbiamo invece giudicato con indipendenza, serenità e chiarezza». Una precisazione questa che mi ha restituito quel sentimento profondo e affettuoso per la magistratura che nel corso delle indagini e del giudizio di primo grado si era fortemente appannato.

C’è ora da chiedersi cosa resti del caso Enzo Tortora. Le sue ceneri sono custodite al cimitero monumentale di Milano in una colonna di marmo con capitello corinzio dove campeggia la scritta “Che non sia un’illusione”. Credo restino un monito per tutti noi, un invito a restare vigili contro il riaffiorare della cultura del sospetto, del pregiudizio, di una ragione di giustizia che talvolta fa del magistrato una parte irridente, quasi vendicativa. Col rischio che in mancanza di attenti controlli l’avvocato difensore venga sottomesso e diventi remissivo o, peggio ancora, indifferente per rassegnazione. Sarebbe la sconfitta della democrazia. E con essa si esaurirebbe la funzione stessa del giudice, a quel punto sostituito da un computer privo di lingua oltre che di cuore.

Tutti i magistrati del caso Tortora fecero carriera. Tranne il giudice che lo assolse. Ecco il prologo al libro del libro “Lettere a Francesca”, con gli scritto inviati alla compagna Scopelliti, che Il Dubbio pubblicherà nel corso di agosto. Stefano Bargellini su Il Dubbio il 28 luglio 2023

L’articolo che segue, a firma di Stefano Bargellini, fa da prologo alla ripubblicazione, che il Dubbio offrirà nel mese di agosto, di “Lettere a Francesca”, il volume con gli scritti inviati da Enzo Tortora alla compagna Francesca Scopelliti.

Sono trascorsi quarant’anni dal 17 giugno 1983 quando, alle quattro di notte, i Carabinieri bussarono alla porta della stanza dell’hotel Plaza in cui Enzo Tortora stava dormendo, ignaro della sporcizia che stava per sommergerlo. Lo scorso 17 giugno, nell’anniversario, utilizzando i documenti originali, Aurelio Aversa ha raccontato su Radio Radicale la tragedia di un uomo onesto incarcerato senza aver fatto nulla di male.

Il pubblico ministero: “Il signor Enzo Tortora è un camorrista… Ma lo sapete voi signori che l’ultima persona che i giudici napoletani volevano portare in questa vicenda era Enzo Tortora? Sapete voi perché Enzo Tortora è in questo processo? Perché più si cercavano le prove della sua innocenza, più uscivano le prove della sua colpevolezza!”. Il presidente del Tribunale che consente la prosecuzione del confronto fra Tortora e Melluso “tanto per non dire che io non do spazio alla difesa”. Il coraggio dell’imputato prima della camera di consiglio in appello: “Io sono innocente, io spero, dal profondo del cuore, che lo siate anche voi”. Ascoltare l’accusa, rivivere la condizione d’impotenza di una persona irreprensibile costretta a difendersi da imputazioni più assurde che infondate, lascia un senso di vertigine.

Se Vent’anni dopo è l’ottimo seguito di un magnifico romanzo, Quarant’anni dopo potrebbe essere il titolo dell’attuale replica di una tragedia. Il caso Tortora non è un caso ma il frutto di un sistema. Quello che ha colpito e poi contribuito a uccidere Tortora non è un errore giudiziario ma un abominio che avrebbe dovuto spingere, anzi costringere, la magistratura a profonde trasformazioni. Viceversa, i colleghi penalisti denunciano che orrori simili continuano a verificarsi nell’indifferenza di chi li crea o li consente. Qualche considerazione.

1. I magistrati che inquisirono e condannarono Tortora fecero tutti carriera. Nessuno subì un qualsiasi provvedimento disciplinare o vide rallentata la normale progressione professionale.

2. Uno dei magistrati che sostenne l’accusa nei confronti di Tortora venne eletto al Csm. Cioè i magistrati italiani scelsero uno degli inquisitori di Tortora quale rappresentante nel loro organo di autogoverno. Circostanza che conferma quale insegnamento la magistratura abbia tratto dal sacrificio dell’imputato.

3. Non fece carriera il consigliere Michele Morello, estensore della sentenza d’appello che assolse Tortora. Dopo la decisione alcuni colleghi gli tolsero il saluto. A lui andrebbe invece intitolata almeno un’aula della Corte d’appello di Napoli, non solo per l’opera che ha saputo svolgere nella circostanza, ma per l’attitudine a rappresentare i tanti magistrati indipendenti, preparati e schivi ai quali sono affidate le nostre cause. Non sempre, purtroppo.

4. La mancanza di una concreta valutazione dell’attività professionale dei magistrati è probabilmente la causa principale del malfunzionamento della giustizia. Il deputato Enrico Costa ha ricordato che il 99,6% (novantanove virgola sei per cento) dei giudici italiani ottiene una valutazione positiva e che dal 2010 i magistrati condannati in applicazione della legge sulla cosiddetta responsabilità civile sono stati 8 (otto). Più o meno 1 ogni 2 anni. Che la legge sull’asserita responsabilità civile sia stata approvata nel 1988 a seguito del processo Tortora e del successivo referendum abrogativo conferma che quanto accaduto al popolare presentatore costituisce per alcuni più un fastidio da rimuovere che una lezione da tenere a mente.

5. Non essendo generalmente coinvolta la libertà delle persone, nel settore civile parliamo di errori e non di orrori. Anche quando le inadempienze e i ritardi comportano conseguenze gravi. Il discorso resta comunque il medesimo: fino a quando i giudici saranno tutti egualmente eccellenti, tutti maratoneti da due ore e dieci, tutti centometristi da dieci netti, dubito che i cittadini potranno guardare all’amministrazione della giustizia con maggiore fiducia.

6. Nella (irrealistica) attesa che una classe politica impreparata e impaurita riesca a imporre criteri di razionalità, efficienza e uniformità all’organizzazione giudiziaria e nella (impossibile) aspettativa che la magistratura provveda a riformare se stessa, gli avvocati costituiscono l’unico appiglio cui i cittadini possano aggrapparsi. Che, almeno questa, “non sia un’illusione”! (così come è inciso sulla lapide di Enzo Tortora).

Capii solo dopo molti anni la grandezza di Tortora, quella foto di lui coi ceppi ai polsi mi tormenta ancora oggi. Il ricordo di Domenico Tomassetti dell’arresto del presentatore. Domenico Tomassetti su Il Dubbio il 2 agosto 2023

Quando arrestarono Enzo Tortora ero molto giovane. Avevo sedici anni e ancora pensavo che «male non fare, paura non avere». Non avevo simpatia per Tortora. Era il presentatore, dai modi affettati, di una trasmissione noiosa che mia madre vedeva tutti i venerdì in televisione. Lo spettacolo dell’arresto, portato via in manette da casa sua, non mi suscitò alcuna indignazione. Era uno spacciatore, così dicevano. Della vicenda si parlava sui giornali, ma non con i miei amici, allora interessati più alla Roma neocampione d’Italia che a vicende giudiziarie che non immaginavamo, neanche lontanamente, ci riguardassero. Ricordo però, verso metà di quella estate, le fotografie pubblicate su un rotocalco che sfogliai in spiaggia: ritraevano quell’uomo camminare nel cortile del carcere di Monza insieme ad altri detenuti, con i capelli tagliati a zero, la camicia in mano e lo sguardo perso in un incubo dal quale sapeva non si sarebbe mai risvegliato. Qualche fotografo si era arrampicato chissà dove per rubare quegli scatti, che già all’epoca, prima che prendessi coscienza di me e di quello che mi accadeva intorno, mi sembrarono una violenza accanita e ingiustificabile. Ma non fu abbastanza per appassionarmi alla vicenda, tanto che rimasi sorpreso quando Tortora fu eletto al Parlamento europeo con i Radicali. Per guadagnare due lire, facevo lo scrutatore al seggio volante dell’ospedale Fatebenefratelli, all’isola Tiberina, a Roma. Raccoglievo i voti delle persone ricoverate e, aiutandole nelle operazioni, spesso riuscivo a vedere per chi votavano. Rimasi stupito dell’enorme quantità di preferenze che ottenne Enzo Tortora, anche dalle suore dell’ospedale che, per eleggere lui, non si facevano “scrupolo” di votare per i Radicali abortisti. Pensai al potere della televisione. C’era molto di più, ma non volli capirlo, distratto dall’abbraccio di una giovane rappresentante di lista del Partito Comunista, che mi stringeva gridandomi «ce l’abbiamo fatta, ce l’abbiamo fatta». Era l’estate del 1984, quella della morte di Enrico Berlinguer e dell’effimero sorpasso del Pci.

Passarono gli anni, abbastanza casualmente mi iscrissi a giurisprudenza, della vicenda Tortora non mi interessai più. Ricordo solamente il pianto dell’avvocato Della Valle alla lettura del verdetto di assoluzione della Corte di Appello di Napoli. Razionalmente mi diede fastidio: un professionista che piange, quasi consolato dal suo cliente. Inconsciamente scavò qualcosa nel profondo e mi piace pensare che, se oggi faccio l’avvocato, è anche per la passione che quel pianto manifestava nella sua spudorata reazione all’ingiustizia vissuta quasi come ne fosse lui la vittima. Due anni dopo Tortora morì, ma la notizia non mi diede alcuna particolare emozione, oltre quella dei versi di John Donne che Hemingway cita nel titolo del suo romanzo.

Quasi venti anni dopo fui coinvolto nella scrittura del film che la Rai voleva realizzare sulla strage di Piazza Fontana. Il nostro punto di vista (mio e dei colleghi di sceneggiatura, intendo) fu quello delle vittime che morirono la notte del 12 dicembre 69 e dopo: l’anarchico Pinelli e il commissario Calabresi. Approcciai il lavoro con la mentalità dell’avvocato: lessi tutte le carte. E tra le pieghe di quella vicenda ritrovai nuovamente Enzo Tortora.

Studiando, come spesso capita, mi accorsi di quanto le mie opinioni, fino ad allora, fossero dettate da ignoranza e pregiudizi. Calabresi non era nella stanza da cui Pinelli precipitò, morendo sul selciato del cortile della questura di Milano. Era andato al piano superiore, dal suo capo Antonino Allegra, per dirgli che l’anarchico non aveva confessato e che lui lo credeva innocente. Avrebbe vissuto, nei pochi anni che gli rimasero, con il rimorso di averlo interrogato nonostante fosse scaduto il termine massimo del fermo di polizia e di avergli fatto credere che Valpreda avesse parlato, chiamandolo in correità. «Allora tutto è finito», rispose sconfitto e stremato l’innocente Pinelli. Immagino che quelle parole siano rimaste scolpite nella testa del commissario che con il ferroviere anarchico si scambiava libri. L’anno prima Calabresi gli aveva regalato Mille Milioni di uomini e Pinelli aveva ricambiato con l’ Antologia dello Spoon River («È come la gente vede il furto della mela che fa il ragazzo ladro»). Dopo la morte di Pinelli, su Calabresi si scatenò l’inferno: colpevole al di là di ogni inesistente prova. Il commissario fu lasciato solo, soprattutto dalla Questura e dal ministero dell’Interno o, forse, sarebbe meglio dire dall’Ufficio degli Affari Riservati. Mentre oltre settecento intellettuali sottoscrivevano un appello, da cui solo in pochi avrebbero avuto l’onestà intellettuale di dissociarsi molti anni più tardi, una persona gli rimase amica: Enzo Tortora. All’epoca scriveva per Il Giorno e per La Nazione. Era stato allontanato dalla Rai, perché aveva denunciato la lottizzazione politica dell’Azienda. Capiva quanto il linciaggio, subito da Calabresi, fosse ingiusto ed ebbe il coraggio di scriverlo. Quella scoperta mi fece finalmente interessare alla storia giudiziaria di Tortora. Non posso dire di aver cambiato opinione, ma di essermi fatto, con colpevole ritardo, un’idea. Un’idea, oggi, largamente condivisa: Enzo Tortora era una persona intellettualmente libera e onesta. Due qualità, quasi scomparse nella vita pubblica italiana degli ultimi trent’anni. Quella libertà che ti fa stare vicino al commissario Calabresi, quando il mondo gli volta le spalle; quell’onestà che ti fa dire, ai giudici della Corte di appello che stanno per decidere se confermare una condanna di dieci anni emessa in primo grado, «io sono innocente, dal profondo del cuore spero lo siate anche voi».

A rifletterci bene, anche questo breve racconto è una piccola Antologia dello Spoon River: Pinelli, Calabresi, Berlinguer, Tortora, vittime innocenti del loro quotidiano impegno perché, «se la gente vede che sai suonare, be', ti tocca suonare, per tutta la vita» per quanto sia faticoso e inane lo sforzo. In un Paese, che ha dimenticato il significato della loro testimonianza, gli anni, che sono seguiti all’ultima di quelle morti, sono stati un ondeggiamento continuo tra criminalizzazioni giudiziarie e agiografie imbarazzanti, tra pericolosissimi tentativi di moralizzazione della vita pubblica e spudorate, orgogliose ostentazioni di diffusa immoralità. Senza essere capaci di una vera riflessione sulla nostra storia con la quale ci ostiniamo a non fare i conti. Eppure è tutto lì, già scritto. L’avessi capito prima, l’avessimo capito prima.

L’arresto choc di Enzo Tortora narrato dai giornali e dalle televisioni. Il carcere, le lacune nelle indagini e infine l’assoluzione per non aver commesso il fatto. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 24 giugno 2023.

«Per 3 ore Tortora sotto torchio»: è in prima pagina sulla «Gazzetta del Mezzogiorno» il trafiletto sul caso giudiziario che il 24 giugno 1983 monopolizza l’attenzione dell’Italia. Esattamente una settimana prima il Paese si è, infatti, svegliato con la notizia dell’arresto di uno dei volti più popolari della Tv, accusato di associazione camorristica e traffico di droga. Nato a Genova nel 1928, Enzo Tortora è un giornalista e conduttore di programmi di successo, tra cui «Accendiamo la luce», con Raffaella Carrà, e, naturalmente, «Portobello», andato in onda su Raidue a partire dal 1977. All’apice della sua carriera, Tortora viene coinvolto in un colossale blitz anticamorra, un vero «atto di guerra contro la criminalità organizzata», si legge in quei giorni sul quotidiano: 800 mandati di cattura firmati dai magistrati della Procura di Napoli Felice Di Persia e Lucio Di Pietro, più di 500 arresti in tutta Italia. Anche in Puglia si contano 13 fermi, in Basilicata altri 9. Alle 4 e mezzo del mattino del 17 giugno 1983 i Carabinieri hanno bussato alla porta della stanza d’albergo in cui abitualmente Tortora alloggia a Roma.

L’accusa si basa in gran parte sulla testimonianza di un pentito, Pasquale Barra, il quale ha associato il nome del conduttore alla Nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo. Dopo le prime ore di fermo, Tortora ha commentato: «Sono sbigottito. Si tratta di una colossale svista e uno dei più clamorosi errori giudiziari degli ultimi anni. Sono distrutto e senza volontà». Trascorre sette giorni nel carcere di Regina Coeli prima di essere ascoltato dai magistrati. «Davanti al carcere sembrava di essere tornati ai tempi del “calcio scommesse”. Mamme con i loro bambini, pensionati e sfaccendati si erano dati appuntamento in via della Lungara nella speranza di avere notizie di prima mano sulla sorte dell’uomo di Portobello», si legge sulla «Gazzetta» di quarant’anni fa. I sostituti procuratori Di Pietro e Di Persia sono dovuti entrare nel carcere da un accesso laterale per riuscire a evitare i giornalisti e fotoreporter che assediano l’edificio: l’interrogatorio dura 3 ore, ma all’uscita i difensori di Tortora non rispondono alle domande dei cronisti appellandosi al segreto istruttorio. Emerge solo che il presentatore avrebbe definito le accuse nei suoi confronti «delle assurdità». «Ma perché i due pentiti si sarebbero accaniti contro di lui, inserendo il suo nome nell’elenco di oltre mille persone aderenti all’organizzazione di Cutolo?» – ci si interroga sul quotidiano ed è la domanda che si pone l’intero Paese in quei giorni – «Lo stesso Tortora ha detto di non sapersi spiegare la ragione». Intanto, l’Ordine dei giornalisti della Lombardia ha già provveduto a sospenderlo dall’albo e dell’esercizio della professione. Il giorno dopo sulla «Gazzetta» compare una foto di Tortora all’interno del carcere romano. Il conduttore dichiara l’intenzione di dimostrare con chiarezza la sua innocenza: «non voglio essere scarcerato per insufficienza di prove o come un camorristello qualunque e nemmeno per ragioni di salute». Si scopre, inoltre, che i magistrati sono entrati in possesso della corrispondenza di Tortora con un detenuto camorrista, Domenico Barbaro. In alcune di queste lettere il giornalista avrebbe scritto di «non aver ricevuto la roba». «Gli avvocati sosterrebbero che si tratta di centrini inviati per essere presentati a Portobello. Ma i magistrati sono più propensi a credere che per “roba” si intenda la droga». Si scoprirà, invece, che si trattava proprio di centrini prodotti in carcere dal camorrista: al rifiuto di Tortora di mostrarli in tv, Barbaro si sarebbe accanito contro il presentatore inserendolo nella famosa lista degli affiliati alla Nco. 

Tortora trascorrerà altri sette mesi in carcere e poi gli verranno concessi i domiciliari: nel 1985, nonostante gravi lacune nelle indagini, verrà condannato a dieci anni e al pagamento di una multa di 50 milioni di lire. In appello, il castello di false accuse comincerà finalmente a crollare: il 15 settembre del 1986 Enzo Tortora sarà assolto dall’accusa di associazione a delinquere di tipo mafioso per non aver commesso il fatto e da quella di spaccio di droga perché il fatto non sussiste.

Quarant’anni dopo l’arresto di Enzo Tortora, arriva la riforma della giustizia giusta. La giustizia è un bene comune che riguarda tutti e la Riforma Nordio propone finalmente un approccio diverso. Un fatto che lascia sperare che si possa restituire a tutte le cittadine e i cittadini una giustizia giusta. A quarant’anni dal caso Tortora, una riflessione. Gaia Tortora su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Quarant’anni dopo di anni ne ho 54 e alle 8.00 di mattina mi trovo in uno studio televisivo, ironia della sorte per condurre il dibattito di Omnibus che verte sulla giustizia. In Consiglio dei Ministri sono appena passati i primi provvedimenti della Riforma Nordio tanto attesa.

Alla stessa ora, quarant’anni fa uscivo di casa quattordicenne per fare il mio esame di terza media e in poche ore la mia, la nostra vita veniva stravolta. Sono andata a scuola che avevo un padre perbene e onesto. Sono tornata a casa che era diventato per tutti un mostro sbattuto senza pietà in TV ad aprire l’edizione straordinaria.

Tra quei 14 anni e i miei 54 di oggi è passato di tutto. Dolore, rabbia, paura. Mai vergogna. E soprattutto, abbiamo combattuto contro un immondo sistema di macelleria giudiziaria e di un sistema di certa informazione che a quanto pare non vedeva l’ora di contribuire a distruggere una vita e a segnarne profondamente altre.

La riforma della giustizia da sempre è divisiva. Se sei garantista sei ladro, se non lo sei un forcaiolo. Ora io non entro nel merito dei piccoli provvedimenti introdotti dalla prima parte della Riforma Nordio ma reputo che siano segnali culturali importanti. Non cristallizziamoci ancora una volta sul dibattito tra tifoserie.

A me piace pensare che questa sia l’occasione di un approccio diverso perché la giustizia è un bene comune che riguarda tutti. Anche quelli che hanno avuto la fortuna di non incappare nelle maglie non solo di un errore ma anche di un meccanismo perverso, dove devi dimostrare non di non essere colpevole ma di essere innocente. Questo non è l’inizio della Riforma della giustizia di Berlusconi o di Tortora. Questa deve essere la riforma della giustizia giusta di tutte le cittadine e i cittadini. Restituiamola a loro. Gaia Tortora

Quarant'anni dopo l'arresto, l'affettuosa lettera di un amico. Enzo Tortora e il Signor Bonaventura: il ricordo di un allora giovane procuratore legale. Il 17 giugno del 1983 Enzo Tortora viene arrestato. Un calvario durato anni, a base di accuse assurde e linciaggio mediatico. Al termine, Tortora trovò il coraggio di uscirne con una battuta finale legata ad un famoso fumetto. Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 17 Giugno 2023

Caro Enzo, ricordi? Sono passati più di quarant’anni da quando Marco Pannella volle che Tu mi conoscessi. Credo avvenne negli uffici del gruppo radicale alla Camera.

Muovevo i primi passi da procuratore legale, e soprattutto mi occupavo molto di diffamazione e tutela della identità personale con la Fondazione Calamandrei, che Marco aveva costituito destinando ad essa i denari del finanziamento pubblico al partito. Tu volevi combattere non solo nel processo in aula, ma anche contro il linciaggio mediatico che procedeva implacabile. Articoli di una violenza inconcepibile. Eri colpevole e basta, un infame trafficante di droga per conto della camorra napoletana (!!!), dietro le sembianze perbeniste di un borghese colto.

Indimenticabile la copertina di quel famoso settimanale per famiglie, il più famoso allora, con il tuo volto ingrandito a tutta pagina, ad evidenziare le vitiligini sul naso quale prova del tuo abuso di cocaina. Fango, menzogne, cronaca giudiziaria pilotata a tonnellate. Io scrivevo querele, tu le firmavi, e io in giro a costituire parte civile il mercante di morte più odiato d’Italia.

Oggi, stemperata a fatica la nausea, provo quasi un sentimento di tenerezza per quelle imprese impossibili. Poi, quando il calvario finì con la tua definitiva assoluzione, già segnato profondamente dalla malattia, affidasti a me ed a Enzo Zeno Zencovich la causa di responsabilità civile dei magistrati che ti avevano massacrato. Altra “mission impossible”, ovviamente, figuriamoci.

Anzi, tu non lo sai ma appena dopo la tua morte, questione di giorni, noi due avvocati fummo imputati di calunnia su denuncia di quei giudici, nel frattempo tutti promossi con encomio, per quanto scritto nell’atto di citazione, e tenuti a bagnomaria un paio di anni prima del proscioglimento.

Va bene, ma non è questo il punto. Voglio dirTi quanto indelebile è rimasto il ricordo della Tua risposta alla nostra un po’ intimidita domanda: quanto chiediamo di risarcimento danni, Enzo? E tu rispondesti ricordandoci quello storico fumetto de “Il Corriere dei Piccoli”: “qui finisce l’avventura del signor Bonaventura”, questo buffo e goffo signore che ne subiva di ogni, ma alla fine veniva sempre risarcito, e tirava fuori un assegno gigante con su scritto “Un milione”. Però va rivalutato, dicesti: 100 miliardi. Dio santo, stavi morendo assassinato, e trovasti la forza per questa conclusione così ferocemente beffarda.

Qui finisce l’avventura del signor Bonaventura.

Ti abbraccio forte.

Gian Domenico Caiazza 

Molto più di un errore giudiziario. Enzo Tortora, quarant’anni fa l’arresto. Pm e giudici fecero carriera, nonostante l’errore. L’innocente pagò. Nei ricordi dell’avvocato di Enzo Tortora, Raffaele Della Valle, l’arresto a favor di telecamere e le assurde domande dell’interrogatorio. Storia di un granchio colossale dopo il quale, però, giudici e pm fecero carriera. Annarita Digiorgio su Il Riformista il 17 Giugno 2023 

Cade il quarantennale dall’arresto di Enzo Tortora. Un innocente. Ma non potrebbe ricordare degnamente quell’errore giudiziario, se prima non ci chiedessimo: può accadere ancora oggi? E se accadesse, i giudici che, per dolo o colpa, gli hanno rovinato carriera, immagine, vita, pagherebbero? Si potrebbe ancora accadere, e non pagherebbero abbastanza. L’ultimo episodio che possiamo raccontare è quello che vede protagonista i due giudici di Trani Michele Ruggiero e Alessandro Pesce. Sono stati condannati in via definitiva per violenza privata su alcuni testimoni. Nel 2014 aveva arrestato l’allora sindaco di Trani Luigi Riserbato, costringendolo preventivamente alle dimissioni. Pochi mesi fa è stato assolto in via definitiva. Ma ovviamente la sua carriera politica ha perso il treno. Oltre che la dignità rovinata immeritatamente. Ma il tribunale ha invece condannato i due pm che, durante gli interrogatori, avevano usato modalità intimidatorie, violenze verbali e minacce sui testi per costringerli ad accusare gli imputati di aver preso tangenti.

Di fronte a questa condanna, il Csm ha salvato dalla radiazione i due pm, e ha comminato loro solo una sospensione di due anni. Poi potranno tornare a fare danni (e rovinare la vita delle persone) Ruggiero al tribunale di Torino, e Pesce a quello di Milano.

Ma come ha notato Luciano Capone sul Foglio, durante l’iter del processo, i pm hanno continuato a fare il loro lavoro. Mentre a un politico si chiedono le dimissioni (col rito ambrosiano della custodia cautelare) per non incorrere nella reiterazione del reato.

Sostanzialmente, nonostante tutti gli scandali degli ultimi anni, il Csm non è ancora stato riformato, e i pm fra loro non si toccano. Cosi fu per Enzo tortora, quarant’anni fa. Erano le quattro di notte, Enzo Tortora fu arrestato in una stanza dell’Hotel Plaza di Roma per associazione di stampo camorristico e traffico di droga. Lo tennero in una caserma senza poter vedere neppure l’avvocato fino all’ora dei tg. Che appostati con le telecamere a Regina Coeli potettero mandare in diretta le immagini delle manette. Come ha raccontato qualche settimana fa il suo avvocato Raffaele Della Valle, Tortora arrivò su un furgone che si fermò a una cinquantina di metri dall’ingresso del carcere. Lo fecero scendere, ammanettato con ferri da tortura medievale.

La gente lo insultava, gli sputavano addosso. Era stato arrestato quasi nove ore prima: ma tutto veniva ricostruito per la diretta al tg. Oggi la legge vieta di diffondere immagini degli indagati, eppure ne vediamo ogni giorno in primo piano sbattuti sui giornali e in tv. Della Valle ha raccontato che subito sin dal primo interrogatorio, quattro giorni dopo l’arresto, fu evidente che era stato preso un granchio colossale. La prima domanda fu se conosceva Domenico Barbaro, un detenuto, pilastro dell’accusa. Dalla redazione di Portobello saltò fuori una corrispondenza fra l’ufficio legale della Rai e questo Barbaro, che chiedeva 800mila lire per alcuni centrini di seta che aveva mandato per la trasmissione, e che erano andati persi. Quando tirai fuori la prova di quella corrispondenza – racconta Della Valle – il cancelliere diventò bianco come un cencio. La seconda consistette nel mostrare la foto sbiadita di una donna e di chiedere a Tortora se la conoscesse. Enzo chiese al giudice un’indicazione per aiutarlo a ricordare, ad esempio che mestiere facesse quella donna. Il magistrato gli rispose così: “E che mestiere vuole che faccia? La puttana”. La terza domanda fu se era mai stato a Ottaviano. E Tortora rispose di no, disse che di Ottaviano aveva forse scritto sul Monello parlando del terremoto dell’Irpinia. Fine dell’interrogatorio.

Da allora iniziarono le indagini per rendere credibili le accuse dei pentiti che dicevano di aver visto Tortora spacciare nel ristorante La Vecchia Milano. Il pm mandò un carabiniere a verificare se esisteva davvero il ristorante, e siccome il ristorante esisteva veramente, Tortora rimane in carcere… e così via con l’agendina coi numeri sbagliati e tutto il resto. Condannarono Tortora a dieci anni. Poi con l’appello dopo tre anni fu assolto. Ma secondo Della Valle non fu un errore, ma si costruì apposta un processo inventato, con pentiti che potevano stare insieme per coordinare le loro calunnie.

Ma nessuna azione penale, o anche indagine di approfondimento, è stata mai avviata, e nessun procedimento disciplinare è stato mai promosso davanti al Consiglio Superiore della Magistratura a carico dei pm e dei giudici che condannarono Tortora. Lucio di Pietro, diventò Procuratore Generale a Salerno, prima di morire quattro anni fa. Felice di Persia, ex coordinatore della direzione distrettuale antimafia a Napoli, finì al Csm. Mentre il presidente dell’allora collegio dei giudici, Luigi Sansone presidente della sesta sezione penale della Corte di Cassazione, Diego Marmo procuratore generale a Torre Annunziata, Orazio Dente Gattola presidente di sezione del Tribunale di Torre Annunziata. L’errore lo fecero i pm, ma pagò Tortora, l’imputato innocente. Chi può dire che oggi andrebbe diversamente? Annarita Digiorgio

40 anni fa. Storia dell’arresto di Enzo Tortora, un delirio di Stato. Vi racconto come l’hanno preso, come l’hanno vessato, come lo hanno condannato non senza ma contro le prove, come lo hanno spinto a morire. Perché? Francesca Scopelliti su L'Unità il 17 Giugno 2023

Sono le 4,15 di venerdì 17 giugno 1983, Enzo Tortora viene prelevato dalla sua camera in albergo e arrestato, assieme ad altre 855 persone, perchè coinvolto nell’inchiesta contro la Nuova Camorra Organizzata: a firmare il provvedimento i sostituti procuratori di Napoli, Lucio Di Pietro e Felice Di Persia. Un maxi blitz che con la necessaria enfasi mediatica viene definito il “venerdì nero della camorra” e suoi artefici “i Maradona del diritto”.

Tortora viene portato nella caserma dei carabinieri di via In Selci a Roma che lascerà solo per andare in carcere e solo dopo l’arrivo di giornalisti e telecamere. Per costringerlo ad un’indecorosa passerella di cinquanta metri, la gazzella dei carabinieri che lo trasporterà nel carcere di Regina Coeli viene parcheggiata sul lato opposto della strada e lui, con le manette ai polsi, viene così travolto da flash, telecamere, microfoni, insulti e qualche sputo. Ad accusarlo, e a fondamento dell’inchiesta, vi sono soltanto le parole di due pentiti: Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo è pregiudicato per calunnia, omicidio, tentato incendio dell’abitazione dei genitori, minacce a mano armata contro il padre, tentato avvelenamento della madre e della fidanzata quattordicenne. Le cartelle cliniche dei manicomi giudiziari lo definiscono “paranoico, schizoide, dotato di una personalità aggressiva, fortemente condizionata da mania di protagonismo”.

Racconta ai magistrati di aver appreso che Tortora, uomo del boss milanese Francis Turatello, aveva offerto la sua collaborazione a Cutolo dal 1978 al 1981 per lo spaccio di droga: il rapporto si era poi interrotto per il mancato pagamento di una partita di cocaina di 60 milioni. A questo proposito, è necessario precisare che Pandico aveva costruito il famoso “carteggio dei centrini” facendo sì che Domenico Barbaro, suo compagno di cella, inviasse delle lettere a Tortora per richiedere la restituzione di alcuni centrini inviati a Portobello e mai messi in vendita nel mercatino del venerdì. Manchevolezza che aveva provocato lo scatenarsi di rancore e livore maniacali nei confronti di Tortora: si saprà poi che quando lo vede in televisione, Pandico inveisce contro di lui ripetutamente dicendo “te la farò pagare”. E infatti…

Pasquale Barra, detto “O’ animale” per l’efferatezza dei suoi delitti, è un killer delle carceri: ha già trucidato due detenuti quando, nel 1981, nel penitenziario di Bad’e Carros ammazza Francis Turatello, mangiandone poi le viscere. Dichiara di aver saputo che Tortora era entrato a far parte della camorra fin dal 1979 e i magistrati napoletani gli danno credito. Senza un riscontro! In effetti, la procura napoletana è “costretta” a considerarlo attendibile perchè sa bene che il nome di Enzo Tortora diventa la garanzia della credibilità professionale, il “supponto” dell’intera inchiesta, per cui si impegna scientemente in una adeguata informazione di sostegno alle tesi accusatorie e il circolo mediatico-giudiziario, fatte salve alcune autorevoli eccezioni, dà i suoi frutti.

Dal 17 giugno sino alla chiusura della fase inquisitoria, grazie a fonti facilmente intuibili, stampa e televisione diffondono notizie su “Tortora corriere della droga”, “Tortora implicato nel riciclaggio del denaro sporco”, “Tortora esportatore di valuta”, “Tortora intimo di Turatello”, “Tortora affiliato honoris causa a Cutolo tramite Turatello”, “Tortora in visita assidua alla sorella di Cutolo”. Tutte notizie macroscopicamente false. E gli accusatori di Tortora sembrano “lievitare”, tutti alimentati e promossi da una accorta “campagna di stampa”. Come diceva de Beaumarchais: “Calunniate, calunniate, qualcosa resterà”. Il 23 giugno 1983 Tortora – rappresentato dagli avvocati Alberto Dall’Ora, Raffaele Della Valle e Antonio Coppola – incontra per la prima volta i magistrati inquirenti: un interrogatorio, molto breve, alla presenza dei due sostituti procuratori Di Persia e Di Pietro.

Quest’ultimo chiede a Tortora se conosce Domenico Barbaro: l’avvocato Della Valle fornisce la documentazione del carteggio tra Tortora e Barbaro, il quale chiedeva la restituzione o il pagamento di alcuni centrini inviati nel 1977 a Portobello. Il pacco viene smarrito dalla Rai e dopo varie raccomandate, alcune spedite all’indirizzo televisivo altre a quello privato di Tortora, Barbaro ottiene un rimborso di 800.000 lire liquidato dalla televisione di Stato. L’intera vicenda, come abbiamo visto, era stata gestita interamente da Pandico il quale aveva poi riferito ai magistrati che le lettere di protesta di Barbaro nascondevano messaggi in codice: si chiamavano “centrini” ma in realtà era cocaina. Di Pietro sfoglia perplesso il carteggio per dieci minuti e impallidisce, il segretario che sta stenografando si interrompe e scoppia in lacrime ma, nonostante tutto, i due magistrati non si fermano: “per salvare la loro faccia fottono me” scriverà Enzo.

Il 14 agosto 1983, alla vigilia di un caldissimo ferragosto, Tortora viene tradotto nel carcere di Bergamo: chiuso in un cellulare, affronta un viaggio di dieci ore durante le quali i quattro carabinieri di scorta giocano a fare i duri e, nonostante l’afa, non gli offrono neanche da bere.

L’istituto penitenziario di via Gleno ha una struttura più moderna e attrezzata, gli agenti di custodia hanno un diverso atteggiamento ma la galera, la privazione della libertà rimane sempre insopportabile ancor più se ingiusta e ingiustificata.

Una privazione che Tortora avvertirà poi anche agli arresti domiciliari: “un prolungamento più confortevole ma sterile della mia detenzione in carcere” dirà quando viene confinato nel suo appartamento milanese in via dei Piatti 8. E proprio qui, la mattina di sabato 5 maggio 1984, riceve una telefonata di Pannella che gli propone la candidatura per le elezioni europee: Enzo, convinto della necessità di riprendere una sacrosanta battaglia per la giustizia, accetta “la ventata di generosa follia di Marco”. Inizia così la campagna elettorale.

Tortora è agli arresti domiciliari, per cui la sua abitazione diventa la sede elettorale: parla dai microfoni di Radio Radicale realizzando quotidiani editoriali, ospita le televisioni private che da tutta Italia vengono a intervistarlo, partecipa in diretta ai fili diretti di emittenti locali, organizza conferenze stampa. E a tutti sollecita un pronunciamento sul suo caso: non si tratta del caso Tortora, si tratta del caso Italia.

Ad un anno esatto del suo arresto, il 17 giugno 1984, viene eletto al Parlamento europeo con 485.000 preferenze e per lui inizia una nuova vita, a Strasburgo, l’impegno di una battaglia in cui crede profondamente.

Intanto a Napoli si avvia il processo. Un processo farsa, in cui i magistrati scrivono una vergognosa commedia tragicomica con la sapiente complicità dei mezzi di informazione, del presidente Luigi Sansone e del PM Diego Marmo il quale, in assenza di prove documentali, si affida a toni veementi, aggressivi e polemici per poi, implicitamente, ammettere che l’assoluzione di Tortora farebbe saltare l’intero impianto accusatorio del processo. E infatti, il pomeriggio del 17 settembre 1985 viene condannato a dieci anni di carcere, 50 milioni di multa e interdizione perpetua dai pubblici uffici. E’ il frutto di un processo nato da una istruttoria inesistente, basato esclusivamente sulle dichiarazioni dei pentiti, senza uno straccio di riscontri oggettivi, senza uno straccio di prove. Solo le tante concordate più che concordanti accuse dei pentiti.

A Strasburgo, Tortora vuole spogliarsi dell’immunità parlamentare, anche a costo di ritornare in galera e, nonostante l’opposizione dell’intero Parlamento Europeo, dopo un accorato e sincero intervento ottiene un voto favorevole alle sue dimissioni. Torna agli arresti domiciliari e si prepara all’appello. Sarà la quinta sezione del Tribunale di Napoli a giudicarlo: il processo si apre con la relazione del giudice a latere Michele Morello, il quale riporta l’inchiesta e le indagini sui binari della verità, e il 15 settembre del 1986 il Presidente Antonio Rocco dà lettura della sentenza: Tortora Enzo Claudio Marcello viene assolto con formula piena dalle accuse di associazione a delinquere di stampo camorristico “per non aver commesso il fatto” e di spaccio di droga “perché il fatto non sussiste”.

Assoluzione con formula piena confermata a giugno del 1987 dalla prima sezione della Corte di Cassazione: le motivazioni della sentenza smantellano il teorema accusatorio precisando, fra l’altro, che “quando le dichiarazioni dei pentiti non offrono il minimo riscontro non possono servire in alcun modo ad infliggere condanne”. E nemmeno, aggiungerei, ad arrestare qualcuno. Meno di un anno dopo, il 18 maggio 1988, Enzo Tortora muore nella sua casa a Milano, per un cancro ai polmoni, frutto di quella “bomba al cobalto” che gli era esplosa dentro dopo l’arresto. Muore di malagiustizia.

Marco Pannella ne dà l’annuncio alla Camera dei deputati: “Tortora non va considerato come vittima, perché ha saputo non essere consenziente allo strazio di legalità e di diritto, perché non è stato tonto, non ha accettato il ruolo tragico di vittima, non ha consentito che la giustizia fosse vittima”. E nella Basilica di Sant’Ambrogio a Milano, l’orazione funebre è del senatore radicale Gianfranco Spadaccia: “Caro Enzo, sei stato il protagonista di una grande tragedia, di un autentico dramma. Hai avuto la capacità e il coraggio di fare del tuo caso personale un caso generale, un’occasione di riflessione collettiva e anche di battaglia civile e politica: politica nel senso più alto del termine. Ciao Enzo, adesso puoi riposare in pace. Non ti hanno colpito nello spirito perché lo spirito è stato sempre, in ogni momento, indomito. E per questo sei stato colpito nella carne. Tocca a noi continuare”.

E l’indomani anche Leonardo Sciascia ricorda Enzo Tortora sul Corriere della Sera: “Ho subito creduto nella sua innocenza. Per come potevo, ho poi seguito e incoraggiato la sua battaglia. Una battaglia che ha saputo combattere impeccabilmente, con rigore e con dignità. L’ho rivisto dopo molti mesi, sabato scorso. Era irriconoscibile, parlava stentatamente, atrocemente soffriva; ma parlava con precisione e passione nella grande illusione che il suo sacrificio potesse servire a qualcosa. Con questa illusione è dunque morto. Speriamo che non sia davvero un’illusione”. Dopo 35 anni, tocca ancora a noi evitare che sia un’illusione!

Francesca Scopelliti, Presidente Fondazione per la giustizia Enzo Tortora, il 17 Giugno 2023

Estratto dell’articolo di lastampa.it il 17 giugno 2023.

In un attimo la sua vita si trasformò in un incubo che lo portò alla prigione e poi alla morte. Quarant’anni fa, all’alba del 17 giugno 1983, Enzo Tortora veniva arrestato nella sua stanza dell’hotel Plaza, a Roma. Cominciò così un’odissea giudiziaria che lo portò in carcere per traffico di droga aggravato dall'associazione a delinquere di stampo camorristico. Condannato a 10 anni e 6 mesi e poi assolto in appello, il popolarissimo presentatore televisivo poco tempo dopo si ammalò di tumore e morì. 

Il 17 giugno del 1983 cominciò una vicenda giudiziaria all’inizio controversa e poi sempre più inverosimile e a tratti grottesca. Per molto tempo gli italiani si divisero in colpevolisti e innocentisti, fino a quando apparve chiaro che Enzo Tortora era stato accusa sulla base di un racconto confuso, pieno di lacune e incredibile, di alcuni collaboratori di giustizia. Non esisteva nessun riscontro oggettivo, anzi peggio: i riscontri non erano neppure stati cercati. I media, tranne poche eccezioni, infierirono su Tortora dando credito alle accuse che gli venivano fatte. 

Tortora venne fatto uscire dalla caserma dei carabinieri nel momento in cui fuori si erano radunati curiosi e giornalisti. Venne fotografato e ripreso dalle telecamere in manette mentre raggiungeva l’auto che l’avrebbe portato in carcere, scortato dai carabinieri. Il giorno dopo e per molte settimane le immagini di Tortora in manette furono sulle pagine dei giornali e nei servizi televisivi. 

[…]

Ad accusare il presentatore furono in principio tre soggetti: Pasquale Barra, detto «O’nimale», killer della NCO condannato per 67 omicidi tra cui quello in carcere del boss milanese Francis Turatello; Giovanni Pandico, condannato per omicidio e tentato omicidio oltre che segretario di Cutolo; Giovanni Melluso, detto «il bello» affiliato alla mala siciliana. 

A questi si aggiunsero velocemente altri testimoni. Furono in totale 19 i pentiti che accusarono il volto di Portobello, complice anche la legge Cossiga del 1982 che prevedeva sconti di pena per i collaboratori di giustizia. Tra gli accusatori anche il pittore Giuseppe Margutti e la moglie Rosalba Castellini che dissero di aver visto Tortora spacciare negli studi di Antenna 3. 

Il Partito Radicale di Marco Pannella imbastì una campagna mediatica sul caso. Tortora si candidò proprio con i radicali nel 1984 e divenne parlamentare europeo con 451mila preferenza. All’epoca, dopo sette mesi di carcere, era costretto agli arresti domiciliari. «Sono stato liberale – dichiarò – perché ho studiato, sono diventato radicale perché ho capito».

Rifiutò l’immunità parlamentare affinché venisse concessa l’autorizzazione a procedere nei sui confronti. Il primo grado di giudizio lo condannò a 10 anni di carcere. La Corte d’Appello di Napoli emise sentenza di assoluzione con formula piena nel settembre 1986. Il 13 giugno 1987 la Cassazione confermò la sentenza di secondo grado. “Io grido – dichiarò in aula Tortora – sono innocente! Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente, spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi». 

Tortora tornò in televisione ancora al timone di Portobello. Erano passati quasi 1800 giorni di calvario giudiziario. Da quando era entrato in politica si era impegnato per i diritti umani e civili e aveva visitato molte carceri. Nel suo discorso di ritorno agli schermi sottolineò anche queste sue battaglie. Il suo ultimo programma fu Giallo, l’ultima apparizione televisiva in Il testimone di Giuliano Ferrara.

Il 18 maggio 1988, a 59 anni, morì a Milano. A causa di un tumore ai polmoni, ma lui diceva che fu la bomba di cobalto che le accuse e la detenzione ingiuste gli avevano fatto scoppiare dentro a ucciderlo. Le sue ceneri sono conservate al cimitero monumentale di Milano insieme con una copia della Storia della colonna infame di Alessandro Manzoni, capolavoro del letterato su un caso di malagiustizia ai tempi della peste del XVII secolo.

Enzo Tortora, 40 anni fa l’arresto choc: la storia del più grande errore giudiziario italiano. Corriere della Sera il 17 giugno 2023.

Enzo Tortora, 40 anni fa l’arresto choc: la storia del più grande errore giudiziario italiano© Fornito da Corriere della Sera

L’arresto il 17 giugno 198317 giugno 1983: Enzo Tortora, uno dei più noti presentatori televisivi italiani, viene arrestato e mostrato in manette tra due carabinieri all’uscita dall’hotel Plaza di Roma. I reati che gli vengono contestati sono gravissimi: associazione di stampo camorristico e traffico di stupefacenti. Ad accusarlo tre pregiudicati, Giovanni Pandico, Giovanni Melluso detto «Gianni il Bello» e Pasquale Barra, legato a Raffaele Cutolo, più altre testimonianze: in totale sono 19 le persone che faranno dichiarazioni ritenute come false. Esattamente 4o anni fa inizia un caso che poi si rivelerà forse il più grave errore giudiziario della recente storia italiana.La scarcerazione e la condannaTortora trascorre sette mesi in detenzione, tra carcere e arresti domiciliari. In primo grado, il 17 settembre 1985, viene condannato a dieci anni di carcere.L’assoluzione in Appello e in CassazionePerché sia riconosciuta la sua innocenza, Enzo Tortora deve attendere il secondo grado: il 15 settembre 1986 viene assolto dalla Corte d’Appello di Napoli. L’anno dopo la sentenza viene confermata in Cassazione.PortobelloNato a Genova nel 1928, conduttore radiofonico e televisivo (tra cui La Domenica Sportiva, Giochi senza frontiere e Sabato Sera), Tortora è associato soprattutto a Portobello, la trasmissione che condurrà su Raidue dal 1977 fino all’arresto nel 1983, e poi per un breve periodo nel 1987 dopo la conclusione della sua vicenda giudiziaria.I 4 moschettieriTortora è stato sicuramente uno dei più noti e importanti conduttori della tv pubblica italiana negli anni Sessanta e Settanta. Nella foto qui sotto, da sinistra: Pippo Baudo, Mike Bongiorno, Corrado e appunto Enzo Tortora. Ospiti famosiTanti i personaggi ospitati nelle trasmissioni di Enzo Tortora e, in particolare, a Portobello. Nella foto Tortora con l’esploratore Ambrogio Fogar e il cane Armaduk. L’impegno politicoNel marzo del 1984, mentre è ai domiciliari, Tortora viene candidato nelle liste del Partito Radicale al Parlamento europeo, ed eletto insieme a Marco Pannella ed Emma Bonino, con oltre mezzo milione di preferenze. Nel novembre 1985 è eletto presidente del Partito radicale, nel successivo mese di dicembre si dimette da europarlamentare e poi si consegna a Milano alle forze dell’ordine. In qualità di presidente del partito, anche se è agli arresti domiciliari, il 1º luglio 1986 fa parte della delegazione radicale che incontra al Quirinale il presidente Cossiga, durante la crisi del governo Craxi I. Nella foto è accanto a Emma Bonino.La morteEnzo Tortora è morto il 18 maggio 1988 nella sua casa di Milano, stroncato da un tumore polmonare. Aveva 59 anni. A causa della malattia, aveva dovuto chiudere in anticipo la sua trasmissione Giallo andata in onda nell’autunno 1987 su Rai 2. Dalla realtà alla fictionLa vicenda giudiziaria di Enzo Tortora ha dato spunto a diversi libri e anche a opere cinematografiche. Tra queste anche Il caso Enzo Tortora - Dove eravamo rimasti?, una miniserie televisiva in onda su Rai 1, diretta e interpretata da Ricky Tognazzi, liberamente tratta da Applausi e sputi. Le due vite di Enzo Tortora di Vittorio Pezzuto e da Fratello segreto di Anna Tortora. 

Enzo Tortora, quarant’anni dopo. Egidio Lorito su Panorama il 17 Giugno 2023.

 Il 17 giugno del 1983 il celebre giornalista e conduttore televisivo venne arrestato tra lo sgomento dell’opinione pubblica che fino a quel momento lo aveva osannato con ascolti record.

Il suo storico legale, l’avvocato Raffaele Della Valle, appena uscito in libreria con una conversazione con il giornalista Francesco Kostner, “Quando l’Italia perse la faccia. L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora” (Pellegrini Editore), ci ricorda come «l’unico auspicio che rimane è che un caso del genere non si ripeta mai più». Panorama.it ha chiesto al noto penalista di ricostruirci uno degli errori giudiziari più celebri del nostro Paese ai danni di una delle personalità più amate della televisione, capace di far raggiungere picchi di 28 milioni di telespettatori alla sua trasmissione Portobello. Avvocato Della Valle, dopo quarant’anni da quel celebre arresto, il caso Tortora non smette di far parlare di sé… «Quando venne arrestato per ordine della Procura di Napoli con l’accusa di associazione a delinquere di stampo camorristico, l’Italia intera sbigottì davanti alle immagini di quel celebre giornalista e conduttore televisivo che veniva fatto sfilare davanti alle telecamere con le manette ai polsi, scortato da due carabinieri. Iniziava un calvario umano e giudiziario: Enzo si sarebbe dovuto difendere dalla gravissima contestazione di far parte della Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Un orrore giudiziario, appunto!». Partiamo da molti anni prima: eravate amici. «Conoscevo Enzo in quanto entrambi militanti nel Partito liberale ed una vicenda particolare -candidati, nel 1978, alla carica di consigliere nazionale di quel partito, a Roma- ci aveva ravvicinati ancor di più. Allo spoglio, dopo una serrata campagna elettorale, i candidati Della Valle e Tortora risultavano inesistenti dai verbali: impugnai la delibera per vizio di forma e poi riuscimmo, tutti e due, a spuntarla. E fu l’inizio del nostro sodalizio: lo avrei difeso anche per ipotesi di diffamazione a mezzo stampa, ma nulla di paragonabile allo tsunami che lo avrebbe travolto qualche anno dopo». All’alba del 17 giugno del 1983, lei ricevette una terribile telefonata… «Erano le 04.40, non potrò mai dimenticarlo. Enzo mi telefonò, aveva la voce rotta dal dolore, pensavo ad uno scherzo, mi lasciò di stucco: “Raffaele, non riesco a capire, sono impazziti, mi stanno accusando di cose assurde. Vieni, corri. Ho bisogno di te”. Era a Roma, alloggiato all’Hotel Plaza ed era appena stato arrestato insieme ad altre 855 persone nell’ambito dell’operazione definita “Il venerdì nero della camorra” condotta dai pm napoletani Lucio Di Pietro e Felice Di Persia». La sua reazione, avvocato? «Mi alzai spaventato e non potei fare altro che svegliare il collega Antonio Coppola, del Foro di Napoli, informandolo dell’accaduto e incaricandolo di attivarsi presso l’ufficio inquirente partenopeo per riscontrare quanto Enzo mi aveva appena dichiarato. Quella data, venerdì 17, per noi che avevamo entrambi origine napoletane, fu un presagio». Lei ha sempre dichiarato che quella telefonata segnò la morte di Enzo Tortora. «Un’immagine terribile. Anni dopo, parlandone con il caro amico Umberto Veronesi, capii che qualcosa fosse esploso nel corpo di Enzo, che fosse praticamente morto quel giorno: un dolore insopprimibile lo aveva sopraffatto, un dolore che per 5 anni si sarebbe insinuato nel suo corpo fino ad ucciderlo il 18 maggio del 1988. Un calvario fisico cui nessuno e niente riuscì a porre fine, neanche la sua completa assoluzione da quelle farneticanti accuse. Quella voce non sua, mi diede l’immagine della sua fine anticipata». A quel punto inizia anche la sua battaglia giudiziaria…

 «Cinque anni di scontro, con a fianco Antonio Coppola e l’indimenticato professor Alberto dall’Ora, con magistrati che avevano anche eretto una barriera insormontabile: riuscivamo ad avere poche notizie, pochi documenti. I documenti venivano praticamente depositati nelle edicole, sui giornali. Capii il senso di un “processo mediatico”: eravamo sprofondati nella più profonda solitudine, aggravata da un rito -quello inquisitorio- che faceva propendere l’ago della bilancia dalla parte dell’accusa. Oggi, le cose, forse, sarebbero andate diversamente». Andiamo al cuore dell’accusa. «Le prime indiscrezioni le appresi dai giornalisti, già ben informati, e ruotavano attorno alla figura di un certo Domenico Barbaro, un asserito camorrista detenuto, considerato il vero pilastro dell’accusa. Questo personaggio aveva inviato un certo numero di centrini di seta, da lui stesso ricamati, perché fossero mostrati durante le puntate di “Portobello”, la celebre trasmissione che in quegli anni faceva 26 milioni di spettatori ogni venerdì sera. Ebbene, il Barbaro, sentitosi preso in giro dalla trasmissione, aveva scritto più volte alla redazione, chiedendo la restituzione o il pagamento della somma di 800mila lire». Tortora accusato per dei centrini? «Per i pubblici ministeri nel linguaggio della Camorra i centrini stavano a significare le partite di cocaina. Ecco, Enzo Tortora era accusato di traffico di stupefacenti. Lo seppi durante l’interrogatorio che si tenne il successivo 23 giugno, il più irreale cui abbia mai partecipato in sessant’anni di professione. Mi resi subito conto del clima intimidatorio nel quale si svolse, all’interno del carcere di Regina Coeli». Toccò con mano l’“orrore giudiziario”… «Tra domande fantasiose e atteggiamenti irriverenti, saltò fuori anche un’informativa dei Carabinieri scritta a macchina, senza data, senza timbro, senza firma, in cui si raccontava dell’asserita affiliazione di Tortora alla camorra. Dava per accertato che Enzo fosse dedito al consumo di sostanze stupefacenti a causa dell’ambiente artistico che frequentava. A rifornirlo di droga alcuni elementi della NCO che operavano a Milano». I magistrati inquirenti avevano alzato il tiro. «E spuntarono i nomi dei due accusatori di Tortora, nomi storici della camorra napoletana, Giovanni Pandico e Pasquale Barra. Il primo, detto “ ’O pazzo”, era addirittura detenuto poichè condannato, con sentenza definitiva, per un duplice omicidio commesso nel Comune di Liveri nel 1970: mi sconvolse che agli atti risultava che questo delatore fosse stato certificato come “paranoico, schizoide, dotato di personalità aggressiva, fortemente condizionato da mania di protagonismo”». Un mitomane, in cerca di appagamento da protagonismo, si disse… «Soprattutto pronto a chiamarsi in causa in tutti i più clamorosi casi dell’epoca, dall’attentato a Papa Giovanni Paolo II all’omicidio di Francis Turatello e al sequestro dell’assessore regionale alla sanità della Campania Ciro Cirillo. Evidentemente lo status psichiatrico del Pandico non interessò minimamente i magistrati napoletani…». Di Pasquale Barra le cronache sono traboccanti. «Basta partire dal suo soprannome, “’O animale”, per l’efferatezza con cui eliminava i suoi avversari, soprattutto i detenuti. Barra fu capace di costruire un’accusa contro Enzo Tortora che ancora oggi grida vendetta: raccontò che “Enzo Tortora era un caro amico di Turatello, fu conosciuto da Cutolo nel 1978 e fu fidelizzato, come camorrista, nella casa milanese di Nadia Marzano”, ovvero la donna che compariva nella copia sgualcita della carta di identità mostrata a Tortora dal pm Di Pietro nel corso dell’interrogatorio del 23 giugno del 1983». Raccontò dell’affiliazione di Tortora alla Camorra.

«Barra sostenne che dopo le avances di Tortora a Cutolo affinchè lo accogliesse, quest’ultimo effettivamente gli aprì le porte dell’organizzazione criminale perché il presentatore era un volto pulito, era rassicurante, era insospettabile e riusciva a fare breccia nel cuore dei telespettatori, Insomma, un’ottima copertura». Una costruzione inquisitoria che ha dell’assurdo… «Che aveva dell’assurdo già 40 anni addietro! E sulla quale la Procura napoletana non ebbe alcuna remora ad affermare che “Barra dice il vero su Tortora, perché la verità su Tortora gli è stata rivelata, a mezzo di terze e quarte persone, da Cutolo”. In quei mesi spuntavano testimoni come funghi: come non ricordare Rosalba Castellini e il marito pittore Giuseppe Margutti che misero a verbale, il 15 luglio, di aver visto Tortora consegnare una busta con droga ad un gruppo di sodali e di aver ricevuto in cambio una valigetta piena di denaro negli studi di Castellanza della nota emittente televisiva lombarda Antenna 3.». In questa surreale vicenda, l’accusa a Enzo Tortora si reggeva a stento su nomi errati… «Sul nome si è compiuta una vera e propria ingiustizia nell’ingiustizia: nei mesi precedenti alla data dell’arresto, all’interno di un’agendina telefonica rinvenuta nell’abitazione di un camorrista, un certo Giuseppe Puca detto “O’ Giappone”, gli inquirenti rinvennero un nome che a prima vista sembrava Tortora, ma che, invece, era di Enzo Tortona, con a fianco alcuni numeri apparentemente telefonici. Solo a distanza di mesi venne appurato che il nome corrispondesse a quelle del noto presentatore televisivo ma ad un tale Enzo Tortona di Salerno. Nemmeno il recapito telefonico risultò appartenere al presentatore». …e numeri di telefono. «Durante una delle udienze del processo, i numeri 442160 e 325095, anch’essi rinvenuti in quell’agendina, vennero scomposti e ricostruiti in ogni modo e maniera per ricavarne tutta una serie di combinazioni che, in ogni caso, per i due Giudici istruttori e per il PM non corrisposero all’unico numero telefonico di Enzo Tortora. Il teste Enzo Tortona, esaminato, disse con calma olimpica che “c’è scritto Enzo Tortona, sono io, e i numeri indicati appartengono alla mia utenza». E si arrivò alla prevedibile sentenza di condanna. «Il 17 settembre del 1985, dopo 214 giorni di carcere ed un processo che definire tale, oggi, mi fa ancora inorridire, Enzo Tortora venne condannato a 10 anni di reclusione per traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico sulla base delle sole accuse, mai riscontrate, dei due pentiti Pandico e Barra. Personalmente vissi giorni terribili, ero in preda ad una crisi di coscienza, volevo abbandonare l’avvocatura. Enzo Tortora era stato ritenuto affiliato alla Camorra, ma scattò qualcosa in me, nel ritiro in Brianza, dove mi ero rifugiato per redigere i motivi d’Appello, condensati in 484 pagine che depositai presso la Pretura di Monza, per rogatoria, l’8 marzo del 1986». L’Appello le diede ragione… «Facemmo leva, tra i tanti motivi, sull’idea che quell’imputato non fosse stato giudicato da Giudici imparziali ma da chi altro non voleva che fare scempio dell’uomo Enzo Tortora. Fui costretto a richiamare tutti i più elementari principi del diritto e della Costituzione per dare una spallata ad un teorema che ancora mi sconvolge. Basti pensare che all’indomani dell’assoluzione, il Procuratore generale di Napoli, Armando Olivares, ricorrendo in Cassazione, esternò alla stampa che sull’assoluzione avessero pesato pressioni della politica e della stessa Camorra». Come si fa a credere nella Giustizia, quarant’anni dopo quel processo mediatico-inquisitorio? «L’aspetto più sconcertante di quel drammatico arresto, delle fantasiose indagini e del processo di primo grado è tutto incardinato nell’inaccettabile cultura, oggi come allora, di alcuni magistrati, siano requirenti che giudicanti, che sembrano ignorare quel fondamentale principio di non colpevolezza in favore di un principio, direi medievale, di colpevolezza provata dalle sole indagini, da persone tutt’altro che affidabili, da delazioni, da informatori senza scrupoli». Tra le foto che ricordano quella vicenda, il suo pianto liberatorio all’esito dell’Appello… «Avevamo vinto. Aveva vinto un uomo perbene…». * Raffaele Della Valle, alessandrino di Aqui Terme, classe 1939, figlio di un magistrato napoletano, è uno dei più importanti avvocati penalisti italiani. Trasferitosi a Monza nel 1946 e laureatosi alla Cattolica di Milano, iniziò la carriera di avvocato, occupandosi -parallelamente- di politica nel Partito Liberale Italiano di cui fu membro del consiglio nazionale. Nel 1994, dopo essere stato uno dei fondatori di Forza Italia, venne eletto Deputato diventando primo capogruppo a Montecitorio e successivamente Vicepresidente della Camera. Ha fatto parte della Commissione Giustizia, nella quale ha svolto l'attività di relatore nel disegno di legge sulla custodia cautelare ed è stato altresì membro della Commissione Stragi. Dal 1996 ha rinunciato ad ogni incarico istituzionale, preferendo dedicarsi agli impegni  professionali ed alle innumerevoli associazioni di cui fa parte. Oltre ad aver seguito la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, è stato il legale della famosa modella americana Terry Broome.

Guglielmina Aureo per il “Secolo XIX” il 15 giugno 2023.

«Lo accusarono di essere camorrista, trafficante di droga e cocainomane. Non era camorrista, né trafficante di droga e nemmeno cocainomane: era cardiopatico, non beveva e ed era vegetariano». 

Così Antonello Piroso, giornalista, riassume la storia di Enzo Tortora, la tragedia di un uomo perbene che ha scelto di raccontare a teatro nel monologo "L'Estraneo". Il titolo è presto spiegato: l'estraneità del celebre conduttore di "Portobello" dal castello di menzogne che ne spezzarono l'esistenza. L'appuntamento con la prima nazionale è per domani a Genova, alle 21, al Teatro Gustavo Modena di Sampierdarena. 

Il monologo è prodotto da Baobab e promosso da Associazione Psyco con la collaborazione del Teatro Nazionale con il patrocinio della Regione Liguria e del Comune di Genova. L'ingresso è libero.Piroso, 62 anni, giornalista e autore (direttore del tg de La7 fino al 2010, conduttore per la stessa rete di "Niente di personale e "(ah)iPiroso", attualmente è a "Domenica Dribbling" su Raidue) ha già affrontato il caso Tortora e oggi torna a teatro a quarant'anni da quel terribile 17 giugno in cui l'ingiustizia ebbe inizio.

Come ha concepito "L'Estraneo"?

«Un monologo in cui ricostruisco la vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, come si è svolta e com'è finita, anzi come non è finita con la morte del protagonista visto che anche dopo si è continuato a infierire. Si tratta di una ricostruzione giornalistica, una riflessione in cui coinvolgo il pubblico. Ci saranno video e foto storiche». 

Lei ha studiato a fondo il caso.

«È una storia che racconto da oltre vent'anni per passione civile e per motivi personali. Sono vicino alla famiglia Tortora. Gaia, una delle figlie di Enzo, è giornalista e fu assunta a La7 quando io ero direttore. Ha scritto recentemente "Testa alta, e avanti", edito da Mondadori. Ho conosciuto l'altra figlia Silvia (morta nel 2022) e l'ultima compagna di Tortora, la giornalista Francesca Scopelliti (oggi presidente della Fondazione Internazionale per la giustizia a lui intitolata, ndr)  

(...)

Impossibile non essere critici con quella magistratura.

«Tengo a sottolineare che con questo monologo non voglio fare un processo alla magistratura ma un processo a quel processo. A come fu gestito da parte dei giudici istruttori a come si giunse alla condanna in primo grado a 10 anni e 50 milioni di multa. A come Tortora fu considerato camorrista, trafficante, cocainomane senza alcun riscontro logico. A come proseguì il processo. Un esempio di macelleria giudiziaria. A come nessuno dei magistrati inquirenti e giudicanti in primo grado pagò per quello scempio, facendo tutti brillanti carriere».

Le accuse contro Tortora si basarono su dichiarazioni di pregiudicati legati al boss Raffaele Cutolo e alla Nuova Camorra.

«Pentiti o presunti tali produssero un cumulo di bugie che ridussero un uomo in ceppi. Mancarono i riscontri. Naturalmente i pentiti sono stati spesso utilissimi, come nella lotta al terrorismo, ma il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa non è che si bevesse le loro dichiarazioni come oro colato». 

Il presentatore fu erroneamente coinvolto in una maxi-inchiesta che culminò in una retata con 856 arresti, tra cui il suo.

«Sì. Fu prelevato alle 4 del mattino del 17 giugno 1983 dall'hotel Plaza di Roma.

Con lo sguardo stralunato viene portato in caserma, quando gli comunicano l'ordine di cattura si sente male, come succede agli innocenti. Dopo sette ore viene portato a Regina Coeli. Per motivi mai chiariti i carabinieri non lo fanno salire in auto davanti all'ingresso della caserma per portarlo in carcere, ma lo fanno sfilare con le manette ai polsi davanti a un plotone di esecuzione mediatico. Un'orrenda passerella, un rituale di degradazione». 

Dopo sette anni tra carcere e arresti domiciliari l'assoluzione arriva il 15 settembre 1986, con sentenza confermata dalla Cassazione nel 1987. Tortora che era stato anche eurodeputato per il Partito Radicale fa in tempo a tornare alla guida del popolarissimo programma Rai, "Portobello", il 20 febbraio del 1987 dove pronunciare la storica frase "Dunque dove eravamo rimasti?", prima di morire il 18 maggio 1988.

 Un anno dall'assoluzione. Una tempistica che non può non turbare.

«Morì di tumore. Si è discusso molto di psicosomatica. Non sappiamo se la terribile vicenda, la demolizione della sua immagine e della sua reputazione grazie anche a un giornalismo antropofago, abbia causato il tracollo del sistema immunitario che lo portarono alla malattia e alla morte. Giorgio Bocca che fu un convinto assertore dell'innocenza di Tortora, e che fu il primo a cui il presentatore concesse un'intervista una volta assolto, disse "È una verità banale fin dalla notte dei tempi: si può morire di crepacuore"». E oggi? «Talvolta mi dicono "ti occupi di una vicenda datata e conclusa, e che ha coinvolto un privilegiato". Appunto, rispondo io: purtroppo è capitato pure dopo, e figuriamoci cosa può succedere a una persona qualsiasi».

«Chi ha fatto arrestare Enzo sapeva di perseguire un innocente...» Parla Francesca Scopelliti: «Il desiderio di vedere il mostro in prima pagina è aumentato. Più la tv offre le manette, più la società chiede manette». Gennaro Grimolizzi su Il Dubbio il 12 giugno 2023

Francesca Scopelliti è stata la compagna di Enzo Tortora. Ha vissuto da vicino tutta la vicenda giudiziaria che ha riguardato il giornalista e conduttore tv, arrestato quarant’anni fa, il 17 giugno 1983. «Enzo – dice al Dubbio Francesca Scopelliti – è stato vittima di un crimine giudiziario. Coloro che lo hanno fatto arrestare sapevano di perseguire un innocente».

Quella di Enzo Tortora è stata una storia di ordinaria ingiustizia?

Partirei da una premessa. Bisogna distinguere quello che ha vissuto Enzo Tortora da quello che invece egli ha denunciato. La sua vicenda non si può definire la conseguenza di un furore giudiziario, ma un “crimine giudiziario”. Un errore viene commesso quando qualcuno non sa quello che fa. Enzo diceva, prendendo spunto dalle parole di Gesù e dalla frase “perdona loro perché non sanno quello che fanno”, che coloro che lo hanno fatto arrestare sapevano di perseguire un innocente. La vicenda che lo ha riguardato gli ha, comunque, permesso di fare la battaglia per la giustizia giusta contro gli errori giudiziari.

Quali sono i ricordi che conserva di Enzo Tortora, al netto della vicenda giudiziaria?

Ogni momento vissuto accanto ad Enzo è stato bellissimo, perché anche nel dolore più profondo, nella disperazione più profonda, lui si è sempre manifestato e dichiarato come uomo generoso e perbene. Un uomo di grande cultura. Abbiamo sofferto insieme, ma anche gioito insieme. Ogni momento di dolore e di gioia rappresenta per me un bel ricordo.

Le immagini di Tortora con gli schiavoni ai polsi appartengono a un’epoca passata per sempre oppure le pulsioni “punitiviste”, che vogliono sempre il “mostro” sbattuto in prima pagina, si riaccendo in continuazione?

Il desiderio di vedere il mostro in prima pagina c’è tuttora. Direi, anzi, che è aumentato rispetto all’epoca del processo Tortora, perché è cambiata molto la società. Io non so se si tratti di una conseguenza della pandemia, di quanto accaduto pochi anni fa, ma la società è molto più giustizialista. Non ci si chiede, davanti a un arresto, se la persona privata della libertà sia innocente. La società è più rancorosa, ha perso il gusto del sano vivere civile. La televisione, inoltre, offre quello che la società chiede. Più la televisione offre le manette, più la società chiede sempre più manette.

Una prospettiva inquietante… 

Faccio un esempio, forse, impopolare in questo momento. Il continuo ribadire, se prendiamo in considerazione l’omicidio di Senago, di tanti particolari a cosa serve? d indignare le persone perbene? La persona perbene si indigna anche senza che le vengano presentati di continuo tanti particolari. Quei particolari descritti in continuazione a cosa servono? Al folle, a mio avviso, che ha già delle idee in testa e una mente malata per capire cosa può fare. Si può provocare una sorta di emulazione. Io vorrei che tanti particolari fossero raccontati solo nei palazzi di giustizia e negli uffici giudiziari. Le lunghe cronache televisive di questi giorni le trovo davvero eccessive.

A proposito dell’arresto di quarant’anni anni fa, le immagini di persone arrestate ed esposte ai flash dei fotografi e alle telecamere sono state riproposte qualche anno dopo con Tangentopoli. Non ha insegnato nulla la vicenda di Enzo Tortora anche per l’approccio comunicativo?

Possiamo parlare di un corso della storia che non si è mai fermato. Pochi mesi fa, a febbraio, si parlava dei trent’anni di Tangentopoli e di “Mani pulite”. Tangentopoli ha fatto strage del diritto anche se c’è stata la narrazione dei paladini, degli eroi contro la politica dei corrotti. Non dimentichiamo neppure che una nota rivista mise in copertina Antonio Di Pietro su un cavallo bianco, come Napoleone. Probabilmente la società civile è stata influenzata a essere contro tutto ciò che non è sé stesso. Ognuno si ritiene persona perbene, ma l’altro no. È stato creato un senso dell’altro che, comunque, deve essere corrotto, marcio. Mi reco spesso nelle scuole. Una volta ho parlato di diritti, evidenziando che il mio diritto finisce dove inizia il diritto dell’altro. Uno studente mi ha detto: “Non sono d’accordo. Il mio diritto c’è sempre”. È difficile alcune volte spiegare che esiste una linea che blocca il tuo diritto. Se non si tiene conto di questo, tutto si trasforma in prepotenza. Viviamo mediaticamente una stagione in cui domina il “travaglismo”. Marco Travaglio in ogni suo articolo riesce a diffondere la cattiveria, la malizia. Domina il suo convincimento, senza la necessità di supportare certe argomentazioni con una indagine giornalistica.

Le lettere di Enzo Tortora scritte a Regina Coeli sono caratterizzate da tristezza, ma anche da segnali di speranza. La speranza di uscire dal carcere a testa alta. Continuava quindi a credere nella giustizia durante i giorni più bui?

La sua non era proprio speranza, era determinazione. Era la forza del suo essere una persona non innocente, ma estranea a certe accuse. Una persona perbene. Lui ha sempre contestato le mezze misure. Si è battuto per uscire a testa alta dalla vicenda giudiziaria che lo ha travolto. Un atteggiamento anche caratterizzato da mancanza di fiducia nella giustizia, dovuto all’atteggiamento della Procura di Napoli. I principi basilari della nostra Costituzione o non sono conosciuti o sono volutamente ignorati. Il diritto alla difesa è di tutti.

La storia di Enzo Tortora suscita l’interesse dei grandi registi. Verrà realizzato un docu-film?

Vorrei tanto che venisse realizzato un film dove non si raccontano i dolori della famiglia, ormai emersi in più occasioni. Spero che venga fatto un film capace di denunciare il fatto politico, che ha rappresentato la storia di Enzo Tortora. Enzo ha rappresentato per l’Italia l’occasione di rinsavire. Se fosse stata studiata, come si fa nella medicina legale, la vicenda di Tortora e se fossero state comprese le cause del crimine giudiziario e poi trovare una cura, la sua morte sarebbe servita a qualcosa. A volte invece ho l’impressione, come evidenziò Leonardo Sciascia, che ci si illuda. Ma non mi arrendo: da trentacinque anni porto avanti la battaglia di Enzo. La sua volontà testamentaria è la Fondazione che ha voluto. È una eredità pesante, che porto avanti con le mie forze e le mie capacità. Sono molto felice che oggi si parli ancora di Tortora. Spero infine che venga istituita la “Giornata delle vittime della giustizia”, come proposto a livello parlamentare.

Il caso Tortora non fu un errore della giustizia ma una vergogna per tutto il Paese

Enzo Tortora, 40 anni fa il suo arresto. 40 anni fa l'arresto del celebre conduttore. Le colpe dei giudici, della politica e dei media. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 giugno 2023

Il caso Tortora non fu soltanto un gigantesco errore giudiziario ma l’emblema stesso della deriva giustizialista di un Paese, una vergogna collettiva che ha coinvolto la magistratura, il mondo politico, e (quasi) tutto il sistema dell’informazione. In quel grumo di umori neri c’è tutto: il pregiudizio e la sciatteria delle procure, la vigliaccheria del Palazzo, la gogna pubblica, il processo mediatico, la macchina del fango e della calunnia che fa a pezzi la presunzione di innocenza. In un’escalation kafkiana che non lascia alcuno scampo, tra incredulità e disperazione. All’inizio lo stupore, poi la paura e la solitudine, anche gli “amici” che iniziano ad arricciare il naso a sospettare qualcosa e poi si abbandonano alla vox populi: «Beh se lo hanno arrestato qualcosa avrà pur fatto...».

Rileggere gli articoli di giornale di quei giorni è ancora un tuffo al cuore, plotoni di esecuzione, linciaggi corali, character assassination di stampo lombrosiano e l’infame sarcasmo sulla celebrità che sprofonda nel guano. Il circo dell’informazione italiana dà il peggio di sé, senza distinzione di colore politico, speculando sulla «calma sospetta al momento dell’arresto» (Il Tempo), sul «mestiere con cui fa la parte della vittima innocente» (Il Giorno) ironizzando sulla «lacrimuccia televisiva che nasconde l’ardore per il denaro» (Il Secolo XIX).

Sulla prima pagina del Giornale compare un Elzeviro anonimo (si dice fosse di Indro Montanelli) che recita: «Dicono che la tv di Stato è una droga. Mai detto è stato più vero dopo l’arresto di Tortora». Ma forse la voce che le riassume un po’ tutte appartiene a Camilla Cederna che su la Domenica del Corriere scrive: «Non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni». Eppoi alla Cederna Tortora non piaceva neanche prima: «Mi innervosiva il pappagallo che non parlava mai e lui che parlava troppo, senza mai dare tempo agli altri di esprimere le loro opinioni». Questi sì che sono argomenti. Unica voce fuori dal coro quella di Enzo Biagi che in un editoriale si chiede: «E se Tortora fosse innocente?» .

La Storia rende merito ai galantuomini. Sono passati quarant’anni dal quel 17 giugno del 1983 ma le immagini di Enzo Tortora trascinato via in ceppi dai carabinieri e dato in pasto ai fotografi rimangono vivide negli occhi di tutti noi. «Le manette, le manette!», urlano i cronisti con la bava alla bocca, eccitati come fiere, mentre lo stanno trasportando nel carcere romano di Regina coeli. Gli uomini della benemerita si erano presentati all’alba, alle 4.20, bussando violentemente nella sua stanza dell’hotel Plaza, hanno disfatto le valigie, perquisito ogni cassetto e sequestrato l’agenda con i numeri di telefono. Enzo Tortora, il garbato giornalista genovese, conduttore dell’amatissimo Portobello, che all’epoca collezionava share da finale dei mondiali di calcio, è accusato di appartenere alla nuova Camorra organizzata di Raffaele Cutolo.

Pareva uno scherzo, una scena surreale roba da dissonanza cognitiva, un po’ come l’Ugo Tognazzi “capo delle Br” immortalato dal giornale satirico Il Male. Solo che non era scherzo.

Lo avevano chiamato in causa due pentiti: Pasquale Barra detto O’ animale e soprattutto Giovanni Pandico che racconta una strana vicenda di “centrini” spediti a Portobello da un camorrista, tal Barbaro, che in realtà sarebbero state «partite di droga». C’è poi un’agendina nera rinvenuta nell’abitazione di Gabriele Puca, un altro affiliato all’organizzazione di Cutolo: apparteneva alla moglie e tra i vari numeri telefonici ce n’è uno indicato con il nome Tortora. A dire il vero non si legge benissimo, potrebbe essere Tortona o qualcosa di simile. Sarebbe bastato comporre quel numero per verificare il destinatario, un gesto semplice che in tanti anni non è mai venuto in mente a nessun poliziotto o magistrato. Tortora era convinto di poter chiarire tutto in poche ore, lui che quei nomi non li aveva mai sentiti pronunciare in vita sua, doveva essere uno sbaglio, un ciclopico sbaglio. E invece è l’inizio di un incubo durato quattro anni tra custodia cautelare, domiciliari e due processi penali.

Nuovi pentiti si associano al coro e in cambio di benefici, giurano che Tortora è uno di loro, che in carcere il venerdì sera guardano tutti Portobello e fanno battute sul loro “compare”. Il principale accusatore è Giovanni Melluso, camorrista, che racconta agli inquirenti di aver personalmente consegnato a Tortora sette chili di cocaina in un night club di Milano, musica per le orecchie del procuratore Diego Marmo che definì il presentatore «cinico mercante di morte». Peccato che Melluso si fosse inventato tutto, come confessò nel 2009 in un’intervista all’Espresso.

Prima di ottenere i domiciliari Tortora resta in prigione per oltre sette mesi, due a Roma e cinque nel carcere di Bergamo. In prima linea e unico tra le personalità politiche a sostenere la sua causa è Marco Pannella, che lo visita regolarmente nella casa di Milano e lo candida alle europee per il partito radicale. Tortora viene eletto con una valanga di voti. Ma dopo la condanna a dieci anni nel processo di primo grado rinuncia all’immunità convinto che in appello riuscirà a ribaltare il teorema dell’accusa. Una scelta coraggiosa e lungimirante: i collaboratori di giustizia ritrattano uno dopo l’altro, lo stesso Cutolo afferma che Tortora per la Camorra è un perfetto sconosciuto mentre i giudici della Corte d’appello di Napoli lo assolvono con formula piena. Venne stabilito che i pentiti lo calunniarono per ottenere sconti di pena e farsi pubblicità. E tutto il carrozzone mediatico-politico li ha seguiti in un crescendo spaventoso.

Il conduttore in cella. Quel messaggio dal carcere di Enzo Tortora su un’arancia: “Non dimentico. Con amore, Enzo”. Il ricordo della compagna Francesca Scopelliti. "I giovani hanno bisogno di modelli, Enzo lo è stato perché ha dimostrato che, malgrado tutto, bisogna sempre avere fiducia nello Stato". Il regista Marco Bellocchio al lavoro su una serie sulla vicenda del conduttore. Antonio Lamorte su L'Unità il 5 Giugno 2023

Anche su un’arancia Enzo Tortora scriveva dal carcere, dell’amore e della sete di Giustizia che non lo abbandonava nel suo calvario giudiziario. “Non dimentico. Con amore, Enzo”. Su un’arancia aveva scritto alla fidanzata Francesca Scopelliti, sua giovane compagna al momento dell’arresto a favor di telecamere per associazione camorristica e traffico di droga, un caso che ha sconvolto l’Italia, l’episodio di mala Giustizia più noto ed emblematico nella storia della Repubblica. Il conduttore più noto della televisione italiana venne arrestato il 17 giugno 1983. Passò 271 giorni in carcere e fu condannato a 10 anni. Il 15 settembre 1986 fu assolto con formula piena in Appello. Quei giorni sono stati ricordati in un lungo articolo del settimanale Sette de Il Corriere della Sera.

“Mi sentii sprofondare in un incubo. Associazione camorristica? Traffico di droga? Pazzesco, incredibile, me lo feci ripetere tre volte. Non era vero, non poteva essere vero”, ha ricordato Scopelliti. Proprio in quei mesi Tortora, dopo essersi separato dalla moglie si era legato sentimentalmente alla giovane giornalista 31enne conosciuta durante un’intervista. Lui ne aveva 54. “Al momento dell’arresto stavamo insieme da sei-sette mesi. Il colpo di fulmine fu di Enzo, io ero molto più restìa. Non volevo fosse un’avventura. Ma lui mi conquistò con quella sua galanteria innata, da uomo dell’Ottocento”. La relazione venne a galla dopo che due lettere dal carcere vennero rubate e mandate a una rivista. Soltanto la sorella Anna e i più stretti collaboratori di Enzo erano a conoscenza della relazione. Quell’arancia non si è mai deteriorata, Scopelliti la ebbe tramite una fidata collaboratrice e la conserva ancora.

La compagna alcune delle missive le fece pubblicare grazie alle Camere Penali in Lettere a Francesca, che lui chiamava Cicciotta. Lei non poteva andarlo a trovare in carcere, provava a farsi passare per giornalista. Lui aveva il pudore di non farsi vedere in condizioni difficili. “Qui tutto è infinitamente (per me, assurdamente) difficile, burocratico, lunare. Mi tiene in piedi solo la volontà di dimostrare a quelli che amo che sono innocente, e di uscirne a testa alta. Ma è stato atroce, Francesca: uno schianto che non si può dire – scriveva dopo qualche giorno dal carcere di Regina Coeli – Se è possibile questo, è possibile tutto. Sono cambiato dentro, credimi. Sono diverso. Amaro, distrutto”. Dopo gli arresti domiciliari concessi nella casa di via dei Piatti 8 a Milano il 20 gennaio 1984, il leader dei Radicali Marco Pannella lo convinse a candidarsi al Parlamento Europeo. “Enzo gli disse: ‘Tu sei un pazzo a propormelo, io più pazzo di te ad accettare’. Intraprese quella strada perché voleva dare voce a chi non l’aveva”.

La condanna a dieci anni di carcere arrivò con la definizione: Cinico mercante di morte. “Fu la stessa pubblica accusa, nella persona di Michele Morello, a smontare pezzo per pezzo l’inchiesta e a chiedere di annullare la condanna. Enzo credeva nello Stato di diritto, fu sempre certo che alla fine la giustizia avrebbe trionfato. Si commuoveva se sentiva la banda dei Bersaglieri, si figuri. Non poteva pensare che sarebbe finita male”. Quando tornò in televisione, a Portobello, lo fece con una frase rimasta nella storia: “Dove eravamo rimasti?”. Le sue battaglie politiche si concentrarono sulle condizioni delle carceri e sul referendum sulla responsabilità civile dei magistrati.

Pochi giorni dopo l’assoluzione piena aveva avvertito i primi sintomi di un cancro ai polmoni. “Per la nobiltà della sua battaglia lo affianco a Gandhi, Mandela, Kennedy. È stato l’esempio di un uomo che ha combattuto per una causa giusta, non solo per sé. Da quando ci ha lasciato, anche attraverso la fondazione a suo nome, vado nelle scuole e dovunque mi chiamino per ricordare la sua storia. I giovani hanno bisogno di modelli, Enzo lo è stato perché ha dimostrato che, malgrado tutto, bisogna sempre avere fiducia nello Stato”. Il regista Marco Bellocchio ha deciso di dedicare a Enzo Tortora una serie. Antonio Lamorte 5 Giugno 2023

 Estratto dell'articolo di Vittorio Feltri per “Libero quotidiano” l'1 giugno 2023.

Il lettore dirà: ma allora è una fissazione. Ancora Enzo Tortora? La mia risposta è che finché avrò la forza di tenere un martello tra le mani, che in questo caso è metafora della macchina per scrivere o dei suoi attuali surrogati cibernetici, lo picchierò come fa il batacchio sulla campana per ricordare la sua tremenda vicenda e rendere edotti i distratti che il sistema capace di stritolare un uomo perbene è ancora lì, intatto. 

Una macchina che si avvale di magistrati negligenti e bisognosi di fama in perfetta sincronia svizzera – nel senso dell’orologio – con la cricca di giornalisti cicisbei delle procure e – nel caso di Tortora – invidiosi di un collega mille volte più bravo di loro.

L’occasione di riparlarne sta in un libro che consiglio vivamente. Lo ha scritto, sottoponendosi alle domande del preciso e capace Francesco Kostner, Raffaele della Valle (Quando l’Italia perse la faccia L’orrore giudiziario che travolse Enzo Tortora, Pellegrini editore, pagine 160, € 15. Prefazione di Salvo Andò. Posfazione di Santo Emanuele Mungari). 

Raffaele è stato il primo difensore di Tortora, identificato con il suo cliente al punto di soffrire quanto Enzo, una lacerazione del cuore e della mente che non gli ha tolto la lucidità del grande avvocato, come del resto fu magnifica la squadra dei legali del giornalista e conduttore televisivo (comprendeva, oltre al penalista monzese, Alberto Dall’Ora e Antonio Coppola).

Lo dico a ragion veduta. Ho seguito il processo a Napoli.  

(...) I pubblici ministeri scovarono sull’agenda di un camorrista (tale Giuseppe Puca) il nome Tortora seguito da un numero. Mi dissi: provo. Dalla camera di hotel afferrai così la cornetta: mi rispose sgraziatamente e minacciosamente un “Tortona” napoletano. Mi stramaledisse, non era il fottutissimo Enzo. Erano così predisposti a incastrare Tortora, che interpretarono a comodo loro e delle loro tesi scombinate, la grafia di Puca. Incredibile? Normale.

Nessuno aveva verificato nelle stanze dei giudici o della polizia giudiziaria la circostanza che demoliva l’accusa, e soprattutto documentava il pregiudizio di colpevolezza che in primo grado seppellì Tortora con una condanna a dieci annidi carcere. Ricordo lo sbiancare del volto di Raffaele, quando si udì la parola “Condanna!”. 

Stupore assoluto anche nel sottoscritto. Ma non è questo lo scampolo di memoria più amaro: la proclamazione della sentenza suscitò mugugni di soddisfazione in troppi cronisti che facevano sfacciatamente il tifo per i camorristi accusatori. 

Ci sono fatti che non si possono cancellare, e pesano ancora. Mi consola appena il rivedere, a pag. 122 del volumetto, la fotografia di della Valle in lacrime dopo la sentenza di assoluzione. (Chiarisco: non rivendico una superiorità morale rispetto ai gazzettieri, segugi da Procura, amanti della briscola e dell’azzardo: il fatto è che detesto quei passatempi, e li fuggo come la peste. Sono superiore nei passatempi, tutto lì).

Il colloquio ha due fasi. 

La prima, divorante, è il racconto del caso Tortora, che tutti credono di conoscere, ma non è così. La copertina per scelta cosciente propone la fotografia più famosa, documenta l’immortalità di uno scempio. Tortora tra i carabinieri, inerme, in manette, dato in pasto ai precare i carnefici, penso a certi quadri raffiguranti la decapitazione di Giovanni Battista del Caravaggio, o il martirio di santa Cecilia ritratto da Guido Reni.

Dice della Valle: «La “sciatteria”, il pressapochismo, l’inosservanza delle norme processuali la fanno da padrone, tanto che, alla fine, si potrebbe concludere che ci fu un tempo (gli anni dal giugno 1983 all’estate 1986) in cui, inopinatamente, in un Tribunale Italiano, venne ripristinata, ovviamente con il consenso di una larga parte di opinione pubblica, l’inquisizione di manzoniana memoria. Di più. 

A leggere i verbali dei “quattro dell’Ave Maria”, ossia Pandico, Barra, Melluso, Margutti, nonché di altri ancora, e quello del cosiddetto confronto in dibattimento Melluso/Tortora, ci si accorge di essere, nella migliore delle ipotesi, in presenza di discorsi alla fratelli De Rege, noti comici degli anni ’30-’40 del secolo scorso, il cui repertorio venne ripreso tempo dopo dalla celebre coppia Walter Chiari e Carlo Campanini in una loro rappresentazione televisiva dal titolo “Vieni avanti cretino”.

Eppure, nessuno, nonostante l’evidente falsità di tutto quanto andava in onda, nessuno ripeto si accorse di tante stranezze. Non si accorsero di nulla i Pm, altrettanto fecero i Giudici del Tribunale di Napoli, la più parte dei giornalisti compiacenti e, incredibile dictu, neppure una parte dell’avvocatura, la quale si guardò bene dal dare “un’occhiata” all’originale e personale sistema in uso sulla nomina del difensore di ufficio». Il problema è che – secondo Raffaele – non si è deciso a scardinare il sistema dell’ingiustizia ancora vigente e a ricostruire su fondamenta solide il palazzo della Giustizia.

P.S. Ho ritrovato una citazione, che non commento. La traggo dal Processo di Franz Kafka. Il protagonista del romanzo, Josef K. durante la prima udienza dice: «Quello che mi è successo è sì un caso isolato, e come tale non molto importante, perché io non lo prendo molto sul serio, ma è il segno di un provvedimento che viene applicato verso parecchi altri. Io mi batto per costoro, non per me». Raffaele della Valle suona la campana per tutti.

ANTONELLO PIROSO a Dagospia l'1 giugno 2023. Riceviamo e pubblichiamo: 

Caro Roberto, 

avendo appena letto sul tuo sito la notizia del libro dell'avvocato Raffaele della Valle, difensore di Enzo Tortora che ne ricorda la vicenda, e quella relativa al Premio Simpatia, simpaticamente assegnato a una galleria di personaggi e personaggetti tutti simpatici (e non ho motivo di dubitarne), mi permetto di richiamare qui cosa diceva proprio Tortora sui simpatici e gli antipatici del rutilante mondo dello spettacolo. 

Passaggio che richiamerò - scusa se approfitto, ma la causa è giusta (l'ingresso è gratuito, si prenota on line) - il 16 giugno prossimo al teatro Gustavo Modena di Genova, quando racconterò il calvario giudiziario di Tortora a 40 anni esatti da quell'arresto che ancora oggi grida vendetta, avvenuto il 17 giugno 1983. 

Scriveva Tortora:

"In un solo caso, in Italia, si è portati a perdonare tutto, e dico tutto. Si può essere matricidi antropofagi, dilapidatori del denaro pubblico, cocainomani in proprio e per conto terzi, stupratori di vergini, ma a un patto: occorre essere SIMPATICI. 

Di fronte alla "simpatia", l'italiano è come ipnotizzato. Ma se per un drammatico, fatale opposto, si dà il caso contrario (cioè, l'uomo in questione non risponde a quei canoni che per certi italiani sono sacri: dare del tu a tutti, avere certe amicizie a corte, scodinzolare di fronte a chiunque, possedere una verità privata e una pubblica, inchinarsi agli eminentissimi, accettare i soprusi, quando vengono dall'alto, con devota rassegnazione, essere beceri e triviali quel tanto che basta), allora nella terra di Giustiniano si è fottuti. 

La sera del mio arresto un altissimo dirigente comunista che banchettava a Napoli per non so quale convegno salutò l'evento con questo testuale commento: "Finalmente ce lo siamo levato dai coglioni".

Gli ero "antipatico", evidentemente. Non avevo una mia morale, accanitamente perseguita in tutta la mia vita. No, io ero un "moralista".

Perchè da noi questo succede. Abituati a misurare gli altri con il metro di se stessi, i delinquenti reputano impossibile che uno faccia o dica semplicemente le cose in cui crede. 

No: ci deve essere sempre un risvolto, un interesse, una vena di ipocrisia. Ed ecco nascere la mia "leggenda nera", la broda della mia biografia immaginaria e immonda". 

Ciao. Antonello Piroso

Enzo Tortora, la vittima simbolo del giustizialismo e della gogna mediatica. Il surreale processo per camorra segnò la vita dell'amato conduttore televisivo, morto 35 anni fa esatti. L'avvocato Della Valle dirà: "Non fu un errore, ma un orrore giudiziario". Lorenzo Grossi il 18 Maggio 2023 su Il Giornale.

Se la vergogna della malagiustizia italiana potesse essere riassunta in un solo nome e cognome, porterebbe sicuramente quello di Enzo Tortora. Il calvario giudiziario attraversato dal popolarissimo conduttore televisivo - deceduto 35 anni fa esatti a neanche 60 anni di età - è un caso più unico che raro che ha coinvolto non "solo" innocente nel merito del processo, ma proprio completamente estraneo a tutte le infamanti accuse che gli sono state clamorosamente addebitate.

L'arresto di Enzo Tortora

La vicenda, diventata (quasi) inevitabilmente mediatica, è a dir poco scandalosa. Il 17 giugno 1983 Enzo Tortora viene arrestato alle ore 4 di mattina con l'accusa di traffico di stupefacenti e associazione a delinquere di stampo camorristico. Il tutto avviene nell'ambito di un'operazione diretta dalla Procura di Napoli, per l'esecuzione di 856 ordini di cattura. Le indagini si basavano sulle dichiarazioni dei pregiudicati Giovanni Pandico, Giovanni Melluso, Pasquale Barra e di altri otto imputati nel processo alla cosiddetta Nuova Camorra Organizzata creata da Raffaele Cutolo: il volto di Portobello apparterrebbe alla Nco con l'incarico di corriere di stupefacenti. Un'accusa clamorosissima, posta ancora di più in evidenza dalla sua fotografia in manette tra due carabinieri che diventa subito virale.

35 anni dalla morte di Enzo Tortora: lo spettacolo teatrale per ricordarlo in Parlamento

Dato letteralmente in pasto all'opinione pubblica sui giornali e in televisione, senza alcuna forma minima di garantismo, Tortora tenta di difendersi in Tribunale dichiarandosi totalmente innocente. In pochi gli credono: tra i volti più noti al grande pubblico televisivo, solamente Pippo Baudo, Piero Angela ed Enzo Biagi prenderanno le sue difese. Sette mesi in cella; poi l'ottenimento degli arresti domiciliari. Nel frattempo, nel giugno 1984, viene eletto europarlamentare con i Radicali, intenzionati a dargli l'immunità, ma sarà proprio Tortora, una volta torna in libertà, ad annunciare a Bruxelles e Strasburgo che avrebbe chiesto ai suoi colleghi di concedere l'autorizzazione a procedere nei suoi riguardi.

L'Appello ribalta il primo grado: assolto

Si arriva così al 17 settembre 1985: il presentatore tv viene condannato in primo grado a dieci anni di carcere. Dimessosi da eurodeputato nel dicembre successivo, venne posto agli arresti domiciliari. Il tempo si rivela tuttavia galantuomo con lui. A conclusione del processo di Appello, Enzo Tortora rende delle dichiarazioni delle quali viene ricordata, soprattutto, la parte conclusiva: "Sono innocente. Lo grido da tre anni, lo gridano le carte, lo gridano i fatti che sono emersi da questo dibattimento! Io sono innocente. Spero dal profondo del cuore che lo siate anche voi". Il 15 settembre 1986 arriva così finalmente la sentenza di secondo grado che ribalta il primo: assoluzione con formula piena. I giudici smontano le accuse rivoltegli dai camorristi, che avevano dichiarato il falso allo scopo di ottenere una riduzione della loro pena o per trarre pubblicità dalla vicenda. La Cassazione confermò definitivamente la sua innocenza il 13 giugno 1987.

Le ultime apparizioni tv

Tuttavia Tortora non avrà molte occasioni per godersi il meritato riscatto giudiziario. Il 18 maggio 1988, infatti, un tumore polmonare lo stroncò nella sua abitazione a Milano dopo mesi di sofferenza. La malattia dipese molto anche dal processo di Napoli, come lui stesso ebbe modo di dire in un'intervista con Enzo Biagi. Quando era ritornato in tv a condurre il suo Portobello, il 20 febbraio 1987, pronunciò un commovente discorso ai telespettatori.

"Dunque, dove eravamo rimasti? Potrei dire moltissime cose e ne dirò poche", esordì. "Una me la consentirete: molta gente ha vissuto con me, ha sofferto con me questi terribili anni. Molta gente mi ha offerto quello che poteva, per esempio ha pregato per me, e io questo non lo dimenticherò mai. E questo grazie a questa cara, buona gente, dovete consentirmi di dirlo. L'ho detto, e un'altra cosa aggiungo: io sono qui, e lo so, anche per parlare per conto di quelli che parlare non possono, e sono molti, e sono troppi. Sarò qui, resterò qui, anche per loro". Raffaele Della Valle, avvocato difensore e amico del presentatore, commenterà in seguito: "Quello non fu un errore giudiziario: fu un orrore giudiziario".

Normale ingiustizia. Il caso Tortora non è una anomalia, ma il vero volto della giustizia italiana. Carmelo Palma e Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 19 Aprile 2023.

Al di là delle strumentalizzazioni politiche, la vicenda del celebre conduttore televisivo non è da considerarsi un’eccezione, ma il sintomo delle problematiche storiche del sistema giudiziario di questo paese 

Il cosiddetto “caso Tortora” non è mai stato famigerato per quel che fu, cioè il trionfo di un’idea e di una pratica della giurisdizione tutt’altro che minoritarie e desuete, ma per quel che non fu mai: l’episodica e tuttavia correggibile aberrazione di un corso giudiziario altrimenti retto e consono a un’amministrazione dopotutto sana.

L’assoluzione di Tortora e il quasi unanime riconoscimento della sua innocenza – non senza che in primo grado al “cinico mercante di morte” si appioppassero dieci anni di galera – fu salutato, dopo un vero sabba colpevolista, come un benefico ritorno alla normalità, dopo un momento di increscioso, ma circoscritto, impazzimento del sistema.

Invece, il “caso Tortora” riguardava ed esprimeva proprio la normalità quotidiana della giustizia italiana e della tanto celebrata cultura della giurisdizione che sarebbe posta a garantirne l’affidabilità.

La macellazione civile e processuale di quella “persona perbene” era e continua a essere deplorata appunto perché sacrificava un “gentiluomo”, e la giustizia che infieriva su di lui ha sempre rappresentato e continua a rappresentare nella narrativa corrente la manifestazione di una specie di cattiveria ingiustificata, il raptus imprevedibile in un comportamento solitamente a modo.

La realtà è che il caso Tortora discende come un frutto perfettamente naturale dai lombi della giustizia italiana, ma la versione accreditata – comoda innanzitutto per quella giustizia – è che quella vicenda denunciasse tutt’al più la generazione di una stortura, un’escrescenza malformata recisa infine, per quanto tardivamente, con il riconoscimento dell’innocenza del malcapitato.

Ed è, questa, una versione su cui si accomoda anche certa schiatta “liberale”, l’interfaccia del galantuomismo che ripesca il caso Tortora a dimostrazione del fatto che, insomma, certi abusi bisogna denunciarli, fermo restando che però, sempre insomma, garantismo mica vuol dire farsi prendere in giro dalle zingare che si fanno ingravidare per scampare il gabbio, e perché, insomma al quadrato, certi abusi sono abusi se riguardano le persone perbene, quale Tortora era e fu riconosciuto e non se riguardano le persone permale, i presunti ladri di una “razza” di ladri, i presunti mafiosi con la faccia da mafiosi, i presunti assassini di cui non può presumersi, se non per compromissione o complicità, altra disposizione che al sangue e al delitto.

Il caso Tortora è così diventato a destra la scriminante di un garantismo razzista e classista, la sacra icona periodica del retequattrismo collettivo e del giustizialismo a geometria variabile.

Ma il “vero” caso Tortora è indigesto, per così dire, a destra e a manca, proprio perché esso rappresentò il profilo genuino e duraturo, non quello provvisoriamente trasfigurato dal male, della giustizia di questo Paese.

Un profilo sostanzialmente unitario e trasversale alle destre e alle sinistre pro tempore, tutte convinte che il sistema penale adempia a una specifica funzione sociale e sia, come la guerra, la prosecuzione della politica con altri mezzi. E quindi debba rispettare una logica di guerra: degli amici e dei nemici, dei buoni e dei cattivi.

Il “liberale” che oggi rievoca il caso Tortora mentre abbuona ai propri ranghi l’evocazione della ruspa e il precetto meloniano “garantisti nel processo e giustizialisti nella pena” non fa altro che reiterare quella contraffazione, con Enzo Tortora ucciso da un tragico errore anziché in esecuzione del protocollo del rastrellamento e inquisitorio ben rivendicato prima, durante e dopo il suo sacrificio dalla giustizia di questo Paese.

"Mio padre arrestato per un errore che in due ore si poteva risolvere. Invece ci hanno trascinato all'inferno". La figlia, oggi giornalista, in un libro racconta il calvario vissuto dalla sua famiglia 40 anni fa: "Malagiustizia e mala-informazione sono andate di pari passo". Eleonora Barbieri il 31 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il 17 giugno del 1983, quasi quaranta anni fa, una ragazza stava per dare il suo esame di terza media. Non lo sapeva ma, alle 4 del mattino, suo padre era stato arrestato per associazione a delinquere di stampo camorristico. Lei si chiama Gaia. Lui, Enzo Tortora. Quel giorno all'alba è cominciato «uno dei più clamorosi casi di malagiustizia che la storia italiana ricordi, ma anche un calvario umano che sarebbe durato anni, deviando il corso di tante vite», come scrive Gaia Tortora in Testa alta, e avanti (Mondadori, pagg. 126, euro 17,50). È un libro breve, denso e commovente che nel sottotitolo delinea un filo rosso: «In cerca di giustizia, storia della mia famiglia». Gaia Tortora racconta questa storia da figlia, da sorella e da giornalista (lavora in televisione, a La7, dove è vicedirettrice del Tg e conduce Omnibus).

Perché ha deciso di scrivere questo libro?

«Quando c'è un caso di errore giudiziario, anche se io lo chiamo accanimento, perché, volendo, avrebbero potuto risolvere l'errore in poche ore o, esageriamo, in pochi giorni e invece lo hanno volutamente trascinato; ecco, dietro questa discesa all'inferno che ti cambia la vita e alla fine, forse, ti può restituire la vita di prima, ma non la persona di prima, ci sono delle famiglie, dei parenti, dei coniugi, dei figli. Ed era il momento di dire che cosa accade alla famiglia che vive un inferno come quello».

Un inferno a cui non vi siete arresi, come indica il titolo: Testa alta, e avanti.

«È una frase che mio padre mi scrisse in una lettera. Anche se di quell'esortazione non c'era alcun bisogno: nessuno è mai stato sfiorato per un secondo dal dubbio. E poi a testa alta nel difendere principi spesso violati».

A che cosa si riferisce?

«Alla malagiustizia e alla mala-informazione, che sono andate di pari passo: non posso assolvere nessuna delle due. Ovviamente, certa magistratura e certa informazione. Ma sono andate a braccetto per spolpare un essere umano e, di riflesso, quelli intorno a lui».

La mattina dell'arresto lei aveva 14 anni e doveva dare l'esame di terza media.

«Già. Mi sveglio prestissimo e noto che il telefono suona, anche se sono le 6 del mattino... Però non ci faccio caso. Lo stesso quando vedo la vicina di casa che esce da scuola, anche se non ha figli lì, e poi faccio l'esame per prima, anche se avrei dovuto farlo più tardi... E alla fine mi giro e vedo mia sorella sulla porta... Pensavo che fosse successo qualcosa alla mamma. Invece lei mi dice: È papà, ma non ti preoccupare ché si chiarisce tutto subito. E invece».

Quindi all'inizio c'era questa convinzione, che l'errore sarebbe stato subito chiarito?

«Ma sì. Il salone di casa sembrava diventato una war room, con amici e avvocati, e tutti erano convinti che si trattasse di una accusa talmente abnorme che si sarebbe chiarita subito, che fosse una roba da poco...».

Invece suo padre fece sette mesi in carcere, quattordici mesi ai domiciliari e, in tutto, ci vollero quattro anni affinché la sua assoluzione venisse sancita definitivamente dalla Cassazione. Si è spiegata questa persecuzione?

«Negli anni ho pensato al fatto che quella fosse la prima grande retata contro la Nuova camorra organizzata, con ottocento e rotti arresti, anche se poi duecento sono stati assolti. Però doveva stare in piedi... Altrimenti è un problema, dopo che hai arrestato un personaggio così noto e popolare... Oggi faccio fatica a indicare un programma televisivo che abbia tanti spettatori quanti ne aveva il suo Portobello: soltanto i mondiali di calcio raggiungono quelle cifre».

La popolarità ha alimentato la gogna mediatica?

«Da una parte la sua storia è stata più amplificata. Ma, dall'altra, puoi anche usare questa popolarità per combattere in modo più visibile. Tante persone non hanno la stessa possibilità, nel bene e nel male, e fanno fatica a far emergere l'errore e la loro voce».

Lei però parla anche di malafede di certi «intellettuali da bar».

«Mi riferisco alla frase aberrante della signora Cederna secondo cui non si va ad ammanettare uno nel cuore della notte se non ci sono delle buone ragioni. Direi che di intellettuale, in questa frase, c'è poco. Se riesci a dire una cosa del genere... Ma io ho più speranza nelle persone normali che negli intellettuali».

Cita anche qualche voce discordante: Montanelli, Biagi, Bocca, Feltri.

«Feltri fu l'unico a prendersi la briga di non fare come il resto dei colleghi che seguivano il processo: in albergo sfogliò il faldone del caso e capì che qualcosa non tornava. Mi chiedo perché non l'abbiano fatto anche gli altri: in fondo, è semplicemente fare il nostro lavoro, leggere gli atti e farsi venire delle domande, senza pregiudizi o tesi precostituite. Sarebbe interessante chiedere a loro perché».

Feltri se ne accorge, lo scrive, e poi?

«E poi, in questo Paese, ci si divide sempre in innocentisti e colpevoli, come ai tempi di Tangentopoli».

Racconta che, paradossalmente, proprio il momento in cui suo padre era in carcere è stato quello in cui lo ha sentito più vicino.

«Mio padre era già separato da mia madre da anni, da quando io ero piccola, quindi non avevamo una quotidianità da famiglia tradizionale. E la lettera era l'unico modo, in quel momento: uno strumento di vicinanza, di conoscenza e di crescita, con i suoi tempi, quello di scriverla, di spedirla, di aspettare la risposta...».

La mattina dell'arresto di suo padre fu Piero Angela ad aiutarla?

«Prima che un collega, Piero Angela era uno dei migliori amici di mio padre. Ho ricevuto grande affetto da parte sua e di tutta la sua famiglia: per me è un secondo padre».

Scrive che ciò che è successo ha cambiato il vostro «lessico famigliare». Come?

«Tutti noi avevamo un ruolo, un compito, e quella che poteva essere una crisi o una esigenza di una ragazzina la facevo passare in secondo piano, per non pesare o dare ulteriori preoccupazioni a mia mamma e a mia sorella, che già avevano il loro carico. Poi sempre una ragazzina ero... Ma non saprò mai come avrebbe potuto essere, senza quel viaggio all'inferno».

Dal libro emerge una constatazione tragica: anche dopo l'assoluzione, non è mai finita?

«Mai. Per questo la giustizia deve essere veloce, anche nella riparazione: perché se tieni una persona in attesa troppo a lungo prima di liberarla o di decidere se sia innocente o colpevole, è come se le imprimessi un tatuaggio indelebile. Se i tempi sono lunghi, non recuperi più niente: la sentenza non ti restituisce niente, perché la persona non è più come prima».

Suo padre tornò a Portobello il 20 febbraio 1987, ma «era invecchiato di mille anni».

«Non era più lui. Si vedeva dallo sguardo, velato. Come dire: sono qui, ma in realtà non ci sono più. Era contento di tornare in tv e di fare il suo lavoro, ma non era quello di prima: testa e cuore erano rivolti a quanto era successo, al pensiero che anche una sola persona, incontrata per strada, potesse pensare male di lui, e che altri vivessero la stessa esperienza. E su questo si era impegnato».

Per il referendum, promosso con i radicali, sulla responsabilità civile dei magistrati?

«Nei referendum le persone si esprimono in un modo, e poi in Parlamento...».

Srive: «Mi disgusta che lo Stato non si sia fatto in alcun modo carico di questo tragico errore giudiziario, così come che i giudici che l'hanno perseguitato non solo sono stati assolti in tutte le sedi deputate al loro giudizio, ma sono addirittura stati promossi».

«Eh sì, è così. Hanno fatto tutti carriera. Non è il Paese del merito. E poi immagini anche solo i costi economici per sostenere le spese per avvocati, carte, viaggi... Devi essere quanto meno risarcito economicamente, e il giudice che ha sbagliato deve pagare, non essere promosso».

Il 18 maggio 1988, poco più di un anno dopo il ritorno in tv, suo padre muore. È morto a causa di tutto questo?

«Non posso dirlo. Però penso che una bomba atomica, come la chiamava lui, che ti esplode dentro, in qualche modo lavora al tuo interno. Una cosa del genere ti trasforma».

Con tutto questo dolore ha fatto i conti?

«Sì. Ho pagato un prezzo. A un certo punto ho avuto attacchi di panico, il corpo mi ha spinto a dire: fermati. Allora ho iniziato a mostrare le mie debolezze e a trattare ciò che avevo passato non come eventi sfortunati, bensì per quello che sono, cioè traumi. E ci ho lavorato sopra».

È vero che qualcuno ha cercato il suo perdono?

«Sì, sia un ex pm, sia uno di quei cialtroni, perché non posso chiamarli pentiti; ma non se ne parla proprio. È gente in cerca di pubblicità, che qualcuno gli ha dato».

Pensa che il suo libro possa cambiare qualcosa?

«So bene che non basta un libro perché domani il mondo sia perfetto, perché tutti sbagliamo. Ma, se sbagli, devi essere velocissimo a riparare. L'ho scritto perché chi vive o ha vissuto questa esperienza non si senta solo: io ho, diciamo così, la fortuna di poterne parlare e di fare questo lavoro, ma c'è chi si sente all'inferno da solo, è a pezzi, e subisce dei danni da questa fragilità. Questa società ci vuole tutti fortissimi, invece tanti si sentono fragili nel dolore e nella solitudine, e spero si sentano meno soli».

Enzo Tortora, storia di un orrore che in troppi non videro. Nel libro “Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” la figlia Gaia racconta: «Quando mio padre è uscito dalla caserma con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha anche insultato». Valter Vecellio su Il Dubbio il 24 marzo 2023

Il numero: 1.768. Tanti sono i giorni del calvario patito da Enzo Tortora, ma anche dalle figlie, da tutte le persone che gli hanno voluto bene. La prima “stazione” di quel calvario il 17 giugno 1983: Tortora alle 4 del mattino è prelevato dalla stanza dell’hotel Plaza dove alloggia quando è a Roma; l’ultima: il 18 maggio 1988, quando muore stroncato da un cancro ai polmoni.

1.768 giorni scanditi da una incredibile quantità di infamie; ma la cosa più stupefacente, incredibile, terrificante, è che quella catena di orrori che si consumano sono ben visibili. Come dice la figlia Gaia Tortora in un’intervista al “Corriere della Sera”, “era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere”. Talmente chiaro che non si può parlare di “errore”. L’errore è uno sbaglio, un deviare da quello che è o si ritiene vero o giusto. Ma si può parlare di “errore” quando può essere visto, compreso come tale dagli stessi che lo commettono? Non è un “errore”. E’ un orrore, un’ingiustizia. Il pubblico ministero che in aula retorico procombe: “Ma lo sapete voi che più cercavamo le prove della sua innocenza, e più trovavamo le prove della sua colpevolezza?”… quante volte ho sentito quella frase; quante volte ho voluto inserirla nei miei servizi televisivi, perché è giusto ricordare che non c’è giustificazione per quello che è accaduto e Tortora ha patito. Arrestato “per pentito preso” e nessuna prova ci si è dati pena di cercare.

Un’ingiustizia/orrore che poteva benissimo essere vista da quelli che la commettevano. Potranno anche giustificarsi che non sapevano quello che pur facevano, ma si può replicare, confortati dal Manzoni autore della “Storia della colonna infame”, che “se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere”.

Del comportamento dei magistrati titolari di quell’inchiesta, del fatto che una masnada di sedicenti collaboratori di giustizia invece di essere smascherati per le loro menzogne e puniti, vengono considerati oracoli da cui attingere e da premiare, bene o male s’è detto, scritto (più male che bene).

Quello che Gaia nella citata intervista ricorda è l’accanimento bestiale nei confronti del padre da parte di chi invece per compito se non per vocazione, deve porsi domande, cercare risposte: “Quando mio padre è uscito dalla caserma dei carabinieri con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha insultato. Ma io mi riferisco soprattutto a quello che è successo dopo. Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze”.

Sì, era chiaro. Da subito, fin dalle prime ore. Non c’era neppure da sfogliare le migliaia di pagine dell’inchiesta per capirlo. All’epoca ero un cronista di primissimo pelo. Era chiaro a me, subito quel giorno stesso, ne scrivo. Perché non risulta chiaro alla schiera di esperti e smaliziati cronisti accorsi in branco a Roma prima, a Napoli poi? Quella montagna di articoli che giorno dopo giorno si sfornano sul “caso Tortora”, ancor oggi, quando li riguardo e li rileggo provocano sgomento, un senso di vertigine. E’ vero: un amico di una vita, Piero Angela, scrive un appello, insinua il dubbio che Tortora sia essere innocente; il dubbio via via comincia a lacerare le coscienze, ecco Enzo Biagi, Giorgio Bocca, Indro Montanelli. Leonardo Sciascia no: lui dubbi non ne ha. “Sa”, scrive, che è innocente. Pochi altri, con loro: ricordo Massimo Fini, Pierluigi Magnaschi, Guglielmo Zucconi… E si assiste a una sorta di schizofrenia: commenti improntati al dubbio; cronache caratterizzate da certezza della colpevolezza…

Perché quell’accanimento? Per inciso: la stessa sorte subisce Franco Califano, anche lui accusato dei medesimi reati, poi risultato innocente. Su “Paese Sera” e “Il Manifesto” riesco a scrivere una manciata di articoli di segno diverso dalla valanga di altre “cronache” che lo vogliono, al pari di Tortora, colluso con la camorra, “cumpariello”? Perché così pochi dubbi, così tante certezze? Per quel che riguarda i politici: perché tanta paura, tanta pavidità? Marco Pannella e il Partito Radicale si mobilitano, candidano Tortora al Parlamento Europeo. Gli altri partiti, gli altri leader politici muti, immobili, latitanti.

E’ una pagina vergognosa della nostra storia recente; scritta da tanti: magistrati, giornalisti, politici. Non aver parlato, non aver mosso un dito non è meno colpevole di quanti potevano vedere e capire e non vollero vedere e capire. Nessuno ha fiatato, per quell’abominio, a cominciare dal Consiglio Superiore della Magistratura, dell’Associazione Nazionale dei Magistrati, dell’Ordine dei Giornalisti. Silenti e assenti.

E si torna a quell’indimenticabile 17 giugno 1983. La sera prima Guglielmo Zucconi, direttore de “Il Giorno”, riceve una “soffiata” relativa a una maxi-operazione imminente, coinvolto un grosso nome dello spettacolo. A un suo giornalista, Paolo Martini, dice: "So solo che sta nelle ultime lettere dell'alfabeto". Non ci vuole molto: Vianello, Tortora, Tognazzi... Martini contatta Tortora: "Quando lo avvertii che circolava il suo nome tra i possibili implicati in un blitz di camorra, si mise a ridere…”.

Invece… All'alba i carabinieri arrestano Tortora; non solo lui: sono 856 gli ordini di cattura. Mentre lo portano via è ancora convinto che si tratti di un caso di omonimia e che tutto si risolverà in poche ore. Non è così. C’è un’accorta regia: si aspetta la tarda mattinata, perché si ammassino troupe televisive e fotografi, Tortora viene fatto uscire dalla caserma per essere trasferito al romano carcere di Regina Coeli, ammanettato, il volto disfatto. "I polsi, i polsi!", urlano i cameraman; e s’odono voci: "Farabutto, pezzo di merda, ladro". Prendono corpo le accuse più inverosimili: Tortora ha rubato i soldi raccolti per il terremoto dell'Irpinia, ha uno yacht comprato con i guadagni dello spaccio, si incontra con Turatello, Pazienza e Calvi scambiando valigette di droga e dollari.

Questa vicenda viene ricostruita con acribia lodevole da Gaia Tortora nel libro “Testa alta, e avanti. In cerca di giustizia, storia della mia famiglia” (Mondadori). Un libro da comperare, leggere, meditare, regalare. Per non smarrire la memoria; e per cercare di capire.

Per farlo c’è bisogno di inquadrare l’operazione “settembre nero della camorra” in un contesto più vasto, che ci riporta a uno dei periodi più oscuri e melmosi dell’Italia di questi anni: il rapimento dell’assessore all’urbanistica della Regione Campania Ciro Cirillo da parte delle Brigate Rosse di Giovanni Senzani e la conseguente, “trattativa” tra Stato, terroristi e camorra. Per Cirillo si chiede un riscatto, svariati miliardi. Il denaro si trova, anche se durante la strada un po’ se ne “perde”, finito nelle tasche di non si sa bene chi. Un riscatto, si dice, di circa cinque miliardi, raccolti da amici costruttori. Cosa non si fa, per amicizia! Soprattutto se poi ci sono “ritorni”. Il “ritorno” si chiama ricostruzione post-terremoto, affari colossali. La commissione parlamentare guidata da Oscar Luigi Scalfaro accerta che la torta è costituita da oltre 90mila miliardi di lire. Peccato: molti che forse potrebbero spiegare qualcosa non sono più in condizione di farlo, tutti morti ammazzati: da Vincenzo Casillo luogotenente di Cutolo, a Giovanna Matarazzo, compagna di Casillo; da Salvatore Imperatrice, che ha un ruolo nella trattativa, a Enrico Madonna, avvocato di Cutolo…

A legare i “fili” che uniscono Tortora, Cirillo, la camorra, la ricostruzione post-terremoto non è un giornalista affetto da fantasia complottarda. È la denuncia, anni fa, della Direzione Antimafia di Salerno: contro Tortora erano stati utilizzati “pentiti a orologeria”; per distogliere l’attenzione della pubblica opinione dal gran verminaio della ricostruzione del caso Cirillo, e la spaventosa guerra di camorra che ogni giorno registra uno, due, tre morti ammazzati tra cutoliani e anti-cutoliani. Poi ci si rende conto che bisogna reagire, fare qualcosa, dare un “segnale”. In questo contesto che nasce “il venerdì nero della camorra”, che in realtà si rivelerà il “venerdì nero della giustizia”.

Enzo Tortora da quella vicenda non si è mai completamente ripreso. Stroncato dal cancro vuole essere sepolto con una copia della Storia della colonna infame, di Alessandro Manzoni. Dice: “Ero liberale perché ho studiato; sono radicale, perché ho capito”. Sulla sua tomba un’epigrafe, dettata da Sciascia: “Che non sia un’illusione”. Per tutto il tempo che gli è rimasto da vivere ha combattuto per la giustizia “giusta”. Il capo della polizia Antonio Manganelli, un galantuomo, alla figlia Silvia confida: “Quella di tuo padre è stata la merda più gigantesca della storia”. Non c’è bisogno di aggiungere altro.

Estratto dell’articolo di Fiorenza Sarzanini per il “Corriere della Sera” il 19 marzo 2023.

«Ironico ma tagliente, riservato, mai mondano, fumantino. E poi dolce, comprensivo, attento. Ma questo era prima. Il dopo era uguale tranne che negli occhi. Ecco, gli occhi poi sono diventati diversi». C’è un prima e un dopo nella vita di Gaia Tortora. Il dopo comincia un giorno che non potrà mai dimenticare: 17 giugno 1983.

 Quel giorno suo padre viene arrestato con l’accusa di traffico di stupefacenti per la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo. Lei aveva 14 anni. Che cosa ricorda?

«Avevo l’esame di terza media e quindi ero andata a scuola a piedi. In casa c’era grande agitazione ma io non ci ho fatto caso. Dovevo essere la sesta e invece mi hanno interrogata per prima. Non capivo, non volevo. E invece ho dovuto farlo. Quando ho finito e mi sono girata ho visto che c’era mia sorella Silvia. Andiamo a casa. Me l’hanno detto quando siamo arrivate: papà è stato arrestato. Non riuscivo a crederci, pensavo a uno scherzo».

Lei ha scritto un libro che uscirà il 21 marzo per Mondadori, «Testa alta, e avanti». Perché proprio adesso?

«Ho sempre tenuto tutto per me. Un giorno sono andata in tv e ho parlato del sistema dell’informazione. Dopo poco mi hanno fatto questa proposta. Mentre ero nello studio televisivo mi sono sentita una marziana. Anche un po’ rompicoglioni e matta. Ho avuto la sensazione di essere fuoriposto o sopportata. E allora ho deciso di accettare».

 Lei scrive che per suo padre c’è stata malagiustizia, ma anche malainformazione. Che vuol dire?

«Quando mio padre è uscito dalla caserma dei carabinieri con le manette ai polsi erano tutti accaniti. Urlavano, qualcuno l’ha insultato. Ma io mi riferisco soprattutto a quello che è successo dopo. Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere. Nessuno si è mai posto domande. E allora chiedo adesso: come mai soltanto Vittorio Feltri si prese la briga di leggere gli atti e scrivere che forse la realtà non era come la stavano raccontando?».

Lei che risposta si è data?

«Mio padre in quel momento era l’uomo più popolare d’Italia. La sua trasmissione aveva ascolti che oscillavano tra i 28 e i 30 milioni di telespettatori. […] Dava fastidio, ma nello stesso tempo parlare di Tortora faceva fare un salto di qualità ai pentiti e all’inchiesta. Per questo dico che c’è stato dolo […]. […] Sarebbero bastate quattro verifiche sulle cose che raccontavano i pentiti e in 48 ore tutto si sarebbe chiarito. Ne cito soltanto due così si comprende bene. Nell’agendina di Giuseppe Puca, uomo di Cutolo, erano riportati due numeri di tale “Enzo Tortona”, che nei verbali diventò “Enzo Tortora”. Eppure nessuno si prese la briga di controllare, di provare a chiamare. Il giorno in cui Gianni Melluso raccontò di aver consegnato a mio padre una scatola di scarpe piena di droga in realtà era rinchiuso nel carcere di Campobasso. Ma questo fu Feltri a scoprirlo, non i magistrati».

[…] A Melluso che chiese scusa e disse mi inginocchio davanti alla famiglia, lei ha risposto: rimanga pure in piedi. Dopo tanti anni c’è spazio per il perdono?

«Lo ripeto a lui e a tutti gli altri come lui: rimangano in piedi».

 […]  Anni di calvario, poi l’assoluzione.

«Purtroppo l’assoluzione non è servita a cancellare il dolore. Anzi, se possibile ha acuito la sensazione di ingiustizia. Del resto nulla avrebbe mai potuto ripagarlo per ciò che aveva subito. Mio padre non è mai più stato lo stesso uomo. È tornato in tv, ha fatto ripartire Portobello con la frase ormai famosa “dove eravamo rimasti”. Ma i suoi occhi velati mostravano bene quel che era accaduto».

[…] Come era cambiato?

«Nulla era uguale a prima, nonostante tutti provassimo a fingere. Ricordo un viaggio in Africa tutti insieme. Una sera eravamo in un ristorante e mio padre scoprì casualmente che il proprietario era un italiano in fuga dalla giustizia. Chiese il conto e andammo via mentre stavamo mangiando la pizza. Lo avrebbe fatto anche prima, lui era rigoroso, ma la fretta di quella sera mi fece capire quanto fosse diventato importante per lui mettere la distanza da tutto quello che poteva diventare un problema».

 Chi vi è stato più vicino?

«Piero Angela che poi per me è diventato come un secondo padre. Ancora adesso sua moglie Margherita è presente nella nostra vita. Quando lui e Silvia sono mancati si è aperto un baratro. E poi voglio ricordare quei giornalisti, pochi, che lo hanno difeso. Montanelli, Biagi, Bocca hanno avuto il coraggio di denunciare che cosa avevano fatto i magistrati. Oltre a Feltri che, come ho detto, lo ha fatto quando tutti erano allineati».

Poi è arrivata la malattia.

«È durata un anno e poi è morto. Dentro di lui era esplosa una bomba. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Mia sorella Silvia ci ha lasciati a 59 anni, proprio come papà».

 […] La sua decisione di diventare giornalista è stata una rivalsa?

«No, una scelta per dimostrare che l’unico modo per fare questo mestiere è porre, ma soprattutto porsi, domande. E seguire l’insegnamento di mio padre che trattava tutti con lo stesso rispetto, al di là dei ruoli e degli incarichi. […]».

Che tempo che fa, Gaia Tortora e la rivelazione sul papà: "Quella mattina...". Libero Quotidiano il 19 marzo 2023

"C'erano un po' di indizi quella mattina che erano strani, già dalla mattina presto": Gaia Tortora, ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa su Rai 3, è tornata a parlare del calvario del padre Enzo. Che nel giugno del 1983 fu arrestato perché ingiustamente accusato di traffico di droga. La sua innocenza fu riconosciuta solo nel 1986, quando la Corte d’Appello di Napoli lo assolse. Il conduttore poi morì nel 1988. Di questa storia la giornalista di La7 parlerà anche nel libro “Testa alta, e avanti”, in uscita il prossimo 21 marzo. A tal proposito ha confessato: "Mi è costato, come tutti i libri quando si scrivono. Il momento in cui si scrivono è una terapia. Non avevo fatto i conti col doverne parlare dopo".

Parlando del padre Enzo, la Tortora ha raccontato: "Papà era estremamente ironico. Facevano degli scherzi con Piero Angela, con gli altri amici... e pensavo mentre vedevo queste immagini che hanno tolto la possibilità dell'allegria e della leggerezza a un'intera famiglia". Ricordando il momento dell'arresto, la giornalista ha rivelato che "dopo nulla è stato più come prima". E ancora: "Quello che ancora oggi mi addolora molto è come l'informazione ha trattato questa orrenda pagina e purtroppo non ha meno responsabilità di certa malagiustizia".

 Il libro della Tortora, alla fine, si chiude con un estratto di una lettera del padre indirizzata proprio alla figlia Gaia. Fazio ne ha letto una parte alla fine dell'intervista: "So che nei tuoi desideri c'è uno spazio per me e questo, credimi, mi rende felice e mi aiuta tanto".

 Vittorio Feltri, Enzo Tortora: un martirio che grida ancora vendetta. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 19 marzo 2023

Se la memoria non mi tradisce, Gaia Tortora, la figlia del defunto Enzo, ucciso dalla giustizia e dalla stampa, è la prima volta che parla pubblicamente del padre. Lo ha fatto rilasciando una bella intervista a Fiorenza Sarzanini, nota firma del Corriere della Sera, nella quale racconta la straziante vicenda giudiziaria che ha sconvolto la vita del famoso uomo televisivo e della sua famiglia. Quando Enzo fu arrestato era il 1983, sono quindi trascorsi 40 anni dalla vergognosa inchiesta napoletana che lo portò ammanettato in carcere per un reato che non aveva commesso, come poi fu accertato con deplorevole ritardo.

Leggendo le sue parole si avverte che Gaia non ha smaltito il dolore, nonostante si dica che il tempo è medico. La storia di Tortora è nota a chi non è giovanissimo e non mi sembra il caso di ricordarla nei dettagli, cosa che ho già fatto varie volte. Merita comunque qualche cenno per rinfrescare la memoria. Egli conobbe l’umiliazione della galera a causa di magistrati che pasturarono una serie di pentiti i quali non fornirono neanche una prova, non avendola, dei suoi presunti commerci di droga, lui che era sempre stato il più lucido cervello del piccolo schermo. Gaia lo rammenta: fui io quasi per caso ad accorgermi, guardando le carte processuali con attenzione, che le accuse in base alle quali era stato incriminato erano un ammasso impressionante di fandonie, e lo dimostrai. Nulla di eroico, intendiamoci. Semplicemente mi resi conto che le carte erano condite da un sacco di contraddizioni evidenti. Ma ciò non bastò a farlo assolvere nel primo grado di giudizio a Napoli.

Solamente in appello il grande giornalista risultò innocente su tutti i fronti, come per altro avevo dimostrato. Peccato che frattanto la sua salute, rovinata dall’angoscia, perse non dico qualche colpo, ma tutti i colpi finché morì di crepacuore. Il fatto che la realtà mi dette al fine ragione non mi ha mai consolato. Un omicidio con annesse torture non si può scordare. Tantomeno si può perdonare. L’intervista a Gaia è un documento importante che dimostra come talora alcuni nostri magistrati non dovrebbero giudicare un bel niente bensì finire sul banco degli imputati. Se le persone, qualsiasi professione svolgano, mancano di scrupoli, mancano anche della capacità di giudizio.

 Nel clamoroso caso Tortora nessuno ha espiato per gli errori commessi, questa è la tragedia. Tutti pagano per i propri reati tranne quelli che indossano la toga senza rendersi conto di essere colpevoli. Ringrazio Gaia che ha confermato non solo di essere stata una figlia modello, ma anche una persona perbene che merita un abbraccio da parte di chiunque.

La testimonianza a 40 anni dall'arresto. Enzo Tortora, la figlia Gaia racconta il calvario: “Inchiesta piena di incongruenze, nessuno ha voluto vedere”. Redazione su Il Riformista il 18 Marzo 2023

Era chiaro fin dall’inizio che l’inchiesta fosse piena di incongruenze e nessuno ha voluto vedere. Nessuno si è mai posto domande. E allora chiedo adesso: come mai soltanto Vittorio Feltri si prese la briga di leggere gli atti e scrivere che forse la realtà non era come la stavano raccontando?”.

Sono passati quasi 40 anni da quel 17 giugno 1983, quando il popolare conduttore tv Enzo Tortora finì in manette con una accusa tanto ignobile quanto falsa: traffico di stupefacenti per la Nuova Camorra Organizzata di Raffaele Cutolo.

Quel giorno la figlia Gaia, oggi affermata giornalista e vicedirettrice del tg di La7, aveva 14 anni. Oggi, al Corriere della Sera, ricorda quel giorno ma anche “il dopo”, in una intervista Sera in cui evidenzia come il caso del padre fu sì un caso di malagiustizia, ma anche di malainformazione.

Gaia Tortora ricorda come il padre, con una trasmissione come ‘Portobello’ che teneva attaccati davanti allo schermo fino a 30 milioni di telespettatori, “dava fastidio, ma nello stesso tempo parlare di Tortora faceva fare un salto di qualità ai pentiti e all’inchiesta. Per questo dico che c’è stato dolo”.

Secondo la giornalista anche i suoi colleghi dell’epoca non fecero bene il loro lavoro, non solo i magistrati. Perché “sarebbero bastate quattro verifiche sulle cose che raccontavano i pentiti e in 48 ore tutto si sarebbe chiarito. Ne cito soltanto due così si comprende bene. Nell’agendina di Giuseppe Puca, uomo di Cutolo, erano riportati due numeri di tale “Enzo Tortona”, che nei verbali diventò “Enzo Tortora”. Eppure nessuno si prese la briga di controllare, di provare a chiamare. Il giorno in cui Gianni Melluso raccontò di aver consegnato a mio padre una scatola di scarpe piena di droga in realtà era rinchiuso nel carcere di Campobasso. Ma questo fu Feltri a scoprirlo, non i magistrati”.

Neanche l’assoluzione servì però a cancellare il dolore di quel tempo trascorso in carcere, la gogna mediatica subita dal padre, anche perché “nulla avrebbe mai potuto ripagarlo per ciò che aveva subito, mio padre non è mai più stato lo stesso uomo”, ricorda oggi la figlia Gaia.

A starle vicino in quegli anni bui, racconta Gaia Tortora, poche persone: “Piero Angela che poi per me è diventato come un secondo padre. Ancora adesso sua moglie Margherita è presente nella nostra vita”. Quindi un trio di giornalisti, “quei pochi che lo hanno difeso”: oltre a Feltri, Tortora cita Montanelli, Biagi e Bocca “che hanno avuto il coraggio di denunciare che cosa avevano fatto i magistrati”.

Una vita piena, di gioie e di dolori, è finita con l’arrivo della malattia. Quella di papà Enzo “è durata un anno e poi è morto. Dentro di lui era esplosa una bomba. Tutti noi abbiamo pagato un prezzo altissimo. Mia sorella Silvia ci ha lasciati a 59 anni, proprio come papà”.

«Io, vittima di un pregiudizio accusatorio, usato come il mostro da sbattere in prima pagina». Mario Oliverio, assolto con formula piena dopo anni di procedimenti giudiziari, si chiede: «Non è ammissibile che si possa esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza risponderne». Valentina Stella su Il Dubbio il 4 luglio 2023

Ecco la prima intervista a Mario Oliverio, già Governatore della Regione Calabria, dopo che la scorsa settimana ha scoperto di essere indagato sempre a seguito di una inchiesta del Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri. Tra le tante cose ci dice: «Non è ammissibile che in un Paese democratico sia consentito di esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza rispondere delle proprie responsabilità. Nessuno paga per l’incalcolabile danno inferto a persone, e nel mio caso anche all’istituzione alla cui guida il popolo calabrese mi aveva eletto».

Come ha saputo di essere indagato?

Come sempre dalla stampa. Per la verità ero nel vigneto, approfittando delle ore fresche della mattina. Tra le 7 e le 8 guardo il telefono e vedo in primo piano La Repubblica on line e apprendo di essere in stato d’arresto: “Ndrangheta, l’ex presidente della Calabria Oliverio tra i 43 arrestati nella maxi operazione antimafia della Dda di Catanzaro – gli indagati sono accusati di vari reati dall’associazione mafiosa a omicidio” a firma di Alessia Candito. Notizia virale che si è diffusa anche nei Tg in cui si affastellano crimini tra cui mafia, omicidio, riciclaggio etc. Una cosa davvero pesante proiettata sui media nazionali con la mia fotografia utilizzata come attrattore mediatico.

Cosa pensa delle contestazioni mosse dalla Procura?

Cosa vuole che le dica? Siamo alle solite. Anche questa volta il Gip ha rigettato la richiesta del Pm di associazione per stampo mafioso e di misure cautelari nei miei confronti. In questo meccanismo infernale hanno un ruolo anche i produttori di fake news. In realtà mi è stata notificata un'informazione di garanzia come indagato. Anche in questo caso la malafede ha alimentato la regia della spettacolarizzazione nella scientifica divulgazione del falso. La notizia del mio arresto e dell’aggravante mafiosa è stata divulgata sapendo che il Gip li aveva rigettati e questo la dice lunga. Perché i giornalisti hanno divulgato questa notizia falsa che “casualmente” corrisponde ai desiderata del Pm? Chi gliel’ha fornita?

Crede che verso di lei ci sia accanimento e pregiudizio da parte della magistratura?

Non vorrei doverlo credere. Purtroppo sono i fatti a confermare questa paradossale propensione da parte della Procura Dda di Catanzaro diretta dal dottor Gratteri. Da oltre quattro anni sono stato tagliato fuori da ogni funzione politica ed istituzionale. Sono stato oggetto di procedimenti giudiziari conclusi da assoluzioni con formula piena perché «il fatto non sussiste». Evidentemente costruiti sul nulla. Si è fatto uno spropositato abuso di intercettazioni nei miei confronti sin dal giorno dopo la mia elezione a presidente della Regione (con dispendio di centinaia di migliaia di euro dei cittadini italiani che pagano le tasse!). In pratica, ho governato una Regione parlando con i miei Assessori, con i Dirigenti e tutta l’azione politica ed amministrativa veniva vagliata in tempo reale da una Procura, che era lì per inseguire fantasmi oliveriani, con l’intento di costruire operazioni giudiziarie! Non semplice abuso di intercettazioni, ma gravissime violazioni ed improprie intrusioni dei massimi organi politici ed amministrativi della Regione, che si volevano (dovevano?) piegare ad un vero e proprio delirio di onnipotenza ed onnipresenza!

Ma allora lei non crede che si tratti di fisiologici errori del sistema giustizia?

A questo punto non si può parlare di “errori giudiziari”. L’errore, intendiamoci, ci può anche stare quando è limitato ad un caso. D’altronde è la stessa Corte di Cassazione ad aver evidenziato «un chiaro pregiudizio accusatorio» verso di me. Purtroppo devo prendere atto di una vera e propria ossessione personale nei miei confronti.

Crede che il suo nome sia servito per dare maggiore mediaticità all'inchiesta?

Mi dica lei. In questi giorni la mia immagine è stata nuovamente proiettata sulle Tv e sui giornali nazionali per accompagnare un’operazione giudiziaria caratterizzata da ‘ndrangheta, omicidio, traffico internazionale, nella quale io da semplice indagato vengo trasformato in un mostro mediatico. I titoli dei giornali e dei Tg, tutti con il mio nome e la mia faccia abbinati alla parola ‘ndrangheta! La mia storia, una intera vita dedicata, con coerenza a contrastare la ‘ndrangheta ed il malaffare, sfregiata con spregiudicatezza e con irresponsabile disinvoltura per fini carrieristici e manie di protagonismo mediatico che certo non fanno bene alla credibilità della magistratura il cui importante, prezioso e delicato esercizio dovrebbe essere improntato a equilibrio, sobrietà, responsabilità e rigore.

Pensa che la stampa calabrese sia asservita troppo alle Procure?

Se fosse solo un problema della stampa calabrese la malattia sarebbe comunque preoccupante, ma circoscritta. Purtroppo negli anni che abbiamo alle spalle la spirale giustizialismo - gogna mediatica ha prodotto populismo e squilibrio tra i poteri con un progressivo indebolimento della politica e dei luoghi della rappresentanza costituzionalmente preposti all’esercizio della sovranità del popolo. In Calabria la situazione è ancora più grave. A prevalere è la paura, purtroppo non solo della criminalità organizzata. Tuttavia anche in questa difficile terra vi sono uomini liberi e giornalisti seri che non sono disponibili a subire il bavaglio per misero opportunismo e, mi creda, in questo contesto assumono una dimensione eroica.

Il Pd calabrese in una nota ha scritto: «Ci auguriamo che i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza». Non dovrebbe essere l’accusa a dimostrare la colpevolezza?

Certo che è l’accusa a dover dimostrare la colpevolezza dell’imputato! Il Pd anche in quest’occasione ha scelto di collocarsi nella platea degli agnostici e qualcuno lo considera già un passo avanti. Persino di fronte alle sentenze assolutorie pronunciate dalla magistratura giudicante con motivazioni chiare ed inequivocabili il Pd ha scelto di nascondersi per non turbare il manovratore. Una linea di rinunzia alla difesa e alla affermazione del principio costituzionale dello stato di diritto. La retorica che «i soggetti coinvolti possano dimostrare la loro innocenza» è un cliché a cui si ricorre per assumere atteggiamenti pilateschi. In sostanza per abdicare al ruolo che dovrebbe essere proprio della politica.

Come commenta la reazione di Occhiuto: «Grazie Gratteri, noi in discontinuità col malaffare»?

Mah! Ci vuole davvero faccia tosta! C’è da rimanere allibiti. Quanta ipocrisia. Prendo atto che Occhiuto è garantista con chi regala le Maserati e fa il giustizialista quando si tratta di allisciare Gratteri. Forse un modo per dormire sonni tranquilli. Occhiuto fa finta di non sapere che l’indagine nei miei confronti è fondamentalmente basata sulla presunzione del reato di associazione per avere tenuto riunioni e incontri con Enzo e Flora Sculco. Fatti naturalmente riconducibili esclusivamente alla sfera politica che nulla hanno a che vedere con il codice penale. Ad Occhiuto vorrei ricordare che, nelle ultime elezioni regionali, Flora Sculco è stata candidata a suo sostegno. Credo che anche con Occhiuto non siano mancate riunioni ed incontri! Anzi, presumo che per il riconoscimento dell’apporto elettorale datogli dagli Sculco, il presidente Occhiuto abbia poi, legittimamente, conferito a Flora Sculco un incarico attribuendole importanti funzioni di rapporto con gli enti locali e con l’intero territorio della Provincia di Crotone…A proposito di discontinuità…ammesso che, come lui dice, ci fosse il malaffare.

Ha fiducia nella giustizia?

Le ripetute sentenze assolutorie con formula piena mi hanno consentito di non perdere fiducia nella giustizia. Tuttavia dopo essere stato buttato e tenuto per anni nella fornace della gogna, devo dire che una sentenza è importante, ma non è sufficiente. Non è ammissibile che in un Paese democratico sia consentito di esercitare una sorta di potere di condanna “a morte civile” senza rispondere delle proprie responsabilità. Nessuno paga per l’incalcolabile danno inferto a persone, e nel mio caso anche all’istituzione alla cui guida il popolo calabrese mi aveva eletto. Penso anche a tanti sindaci ed imprenditori stritolati da un sistema malato che non esita a confondere e a sovrapporre la giusta e necessaria lotta alla ‘ndrangheta e al malaffare, con fatti e persone che nulla hanno a che fare con attività criminose.

Quindi?

È necessario combattere a viso aperto e senza timore una battaglia di civiltà contro questa barbarie e per l'affermazione della legalità e dello stato di diritto. Il Paese ha bisogno di una vera riforma della Giustizia come condizione per proiettarsi nel futuro con fiducia e forza competitiva ed inclusiva. Per questo mi auguro che la riforma annunciata dal Ministro Nordio possa andare in porto. Un Paese normale non ha bisogno di masanielli alimentatori di pulsioni populiste e di gogne giustizialiste, ma di Giustizia con la G maiuscola.

Crede che la Calabria sia un laboratorio dove in nome di una certa antimafia si mettono in atto torsioni dei diritti di indagati e imputati, anche per far carriera all'interno della magistratura?

É evidente! Non sono io a dirlo. Purtroppo è così non da ora. In tal senso parlano i fatti e non solo per la scalata di carriere dentro alla magistratura, ma anche come trampolino per scalate politiche e di potere nelle istituzioni.

Il caso dell'ex presidente della Regione. Oliverio condannato dalla Corte dei Conti, ma per il tribunale il reato non c’è…Tiziana Maiolo su Il Riformista il 10 Gennaio 2023

Per il tribunale penale di Catanzaro il fatto non sussiste, ma la Corte dei Conti si allinea alla procura di Nicola Gratteri e condanna ugualmente Mario Oliverio per danno erariale. Le telenovelas della Calabria giudiziaria paiono non finire mai. Anche nei piccoli processi, ammesso che sia una cosuccia di tutti i giorni un’accusa di peculato. Bisogna tornare al 2018, quando la Regione Calabria aveva partecipato al Festival dei due mondi di Spoleto per promuovere le bellezze turistiche del proprio territorio, investendo nell’evento 95.000 euro. Per la procura di Nicola Gratteri la cifra in realtà era stata spesa per pagare “una personale promozione politica” del presidente Mario Oliverio e del suo partito, il Pd.

Di lì l’imputazione di peculato, il rinvio a giudizio e il processo, nel quale la rappresentante dell’accusa Graziella Viscomi aveva chiesto quattro anni di carcere. Ma il fatto non sussiste, ha decretato il tribunale, nel processo di primo grado. Quindi l’ipotesi dell’accusa era miserevolmente crollata, il 9 novembre del 2022. Come del resto era finita in niente l’altra inchiesta per corruzione e abuso d’ufficio nei confronti dell’ex presidente della Regione Calabria, quella intitolata “Lande desolate”, quella che aveva determinato un vero capovolgimento politico nella storia della regione. In quel caso si trattava della destinazione di fondi europei. In seguito a un’indagine della Dda di Catanzaro il procuratore Gratteri in un’intervista al Tg1 aveva dichiarato che “con quasi 17 milioni di euro la Regione ha contribuito a ‘ingrassare’ alcune cosche grazie a lavori non eseguiti o eseguiti in minima parte”. E aveva chiesto le manette per Oliverio. Senza però ottenerle, neanche nella forma attenuata di detenzione domiciliare.

Il gip però aveva stabilito per il presidente della Regione l’obbligo di firma al suo paese, San Giovanni in fiore, provincia di Cosenza, così mettendolo comunque in difficoltà per l’esercizio del suo mandato. Il problema divenne immediatamente politico, e il fatto determinò sul piano formale e anche sostanziale, la fine di una brillante carriera. A causa della proverbiale lungimiranza del Pd, a partire da quei giorni il governo della Calabria è passato al centrodestra che, dopo la breve stagione di Jole Santelli, ha saputo riconquistare i voti dei cittadini con le elezioni regionali del 2021 e la nomina di Roberto Occhiuto a Presidente. E intanto il procuratore Gratteri aveva lanciato la propria sfida alle cosche con l’operazione “Rinascita Scott” e la scommessa sulla famosa area grigia che avrebbe tenuto insieme la mafia con i livelli istituzionali e professionali e che sembrava cucita addosso all’avvocato Giancarlo Pittelli, tenuto sequestrato agli arresti per tre anni con l’evanescenza del concorso esterno.

La vicenda di Mario Oliverio è stata paradossale, perché il suo partito non l’ha ricandidato, mentre intanto il procuratore Gratteri, dopo che l’ex presidente veniva assolto perché il fatto non sussiste, non presentava appello. Forse ricordando le parole con cui la Cassazione, mentre annullava la misura cautelare, aveva irriso al modo in cui erano state interpretate le intercettazioni dagli uomini della procura. E anche il giudizio dei periti tecnici dell’Unione europea sulla gestione dei fondi da parte della Regione. Dopo controlli a tappeto su tutte le opere e i cantieri, aveva rilevato che nessuna frode era stata compiuta. Ecco perché la sentenza di assoluzione dopo il primo grado non aveva più avuto seguito. Fatto straordinario, sintomo di vergogna, prima di tutto. Si vergognava la procura di colui che si riteneva invincibile, ma non arrossiva la segreteria del Pd, da Zingaretti a Letta, per la svolta grillina sui processi, che ha di fatto giustiziato molti tra i suoi uomini migliori, non solo in Calabria.

Per quel che riguarda l’accusa di peculato, “La domanda del pubblico ministero risulta sostanzialmente fondata -scrivono i giudici contabili-e merita l’accoglimento integrale, atteso che nella fattispecie ricorrono tutti gli elementi costitutivi della responsabilità erariale”. E condanna l’ex residente della Regione Oliverio, in solido con l’imprenditore Mario Lucchetti e anche la dirigente regionale Sonia Tallarico (che al contrario degli altri due non era stata neppure imputata nel processo penale), a rimborsare alla Regione Calabria circa 90.000 euro, in quanto, secondo una propria valutazione, solo 4.500 sarebbero stati investiti per valorizzare il territorio. Tutto molto arbitrario, naturalmente. Tanto che, come previsto dall’articolo 652 del codice di procedura penale, qualora gli imputati fossero assolti in via definitiva con la formula piena, come accaduto in primo grado, nessun danno verrebbe riconosciuto ai danni della Regione né di altri soggetti. Ma il procuratore Gratteri avrà il coraggio di appellarsi contro le assoluzioni rischiando l’ennesimo flop, o resterà passivo con il rossore della vergogna come già nel processo “Lande desolate”? E il Pd, nel frattempo?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

L'accusa: falso ideologico. Caso Open, Carrai querela il procuratore Luca Turco. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 28 Dicembre 2022

Il caso Open, sarà la maledizione del nome, non si chiude. E anche dove la Cassazione aveva deposto la pietra tombale, disponendo la distruzione dei brogliacci delle intercettazioni – ritenute illecite – che riguardano Matteo Renzi, Marco Carrai ed altri, ecco che nuove copie affiorano qua e là, impunemente prodotte in violazione della sentenza della Corte suprema. A sollevare il caso è oggi una denuncia-querela depositata da Marco Carrai. L’amico e consulente di Renzi ha dato mandato ai suoi legali, Massimo Dinoia e Filippo Cei, di procedere contro il Procuratore, Luca Turco.

Al titolare delle indagini fiorentine viene contestata la violazione dell’art.479 c.p., falso ideologico in atti pubblici, riservandosi di costituirsi parte civile. Per descrivere la situazione che Carrai fa oggetto del suo esposto, l’imprenditore fiorentino ricorre al titolo dell’indimenticabile film di Miklós Jancsó: “Vizi privati, pubbliche virtù”. Perché duplice sarebbe stato l’approccio del Procuratore Turco – che a Firenze è facente funzione, in attesa della nomina del nuovo Procuratore Capo – alle disposizioni della Suprema corte. Nella ricostruzione di Carrai tutto starebbe su un doppio binario: “La condotta che ha tenuto Turco è stata, per quanto appariva dall’esterno, del tutto ineccepibile, mentre parallelamente, ed in gran segreto, faceva l’esatto contrario di quanto dava mostra di voler fare”.

Se il 18 febbraio scorso il Procuratore aveva preso atto della notifica con la quale la Cassazione ordinava l’esecuzione del dispositivo della sentenza, che prescriveva “la restituzione di quanto in sequestro senza trattenimento in copia dei dati”, ovvero la distruzione di tutte le copie dei dati copiati dai cellulari, il successivo 8 marzo egli stesso avrebbe segretamente inviato dei materiali proibiti al Copasir. Di cosa si sarebbe trattato? Non solo dell’annotazione della Guardia di Finanza contenente l’esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati ma anche “dell’intera copia forense del materiale sequestrato al Carrai”. Quindi mentre la Procura dava atto di aver distrutto tutte le copie dei documenti di Carrai, ne mandava una copia al Copasir. Dove si sa, per effetto della codificazione documentale segreta gli atti vivono poi una vita propria, entrando, volenti o nolenti, nella disponibilità del vertice dei servizi stessi.

È lo stesso soggetto indagato ad apprenderlo, con comprensibile sorpresa, all’indomani del 26 aprile: “Il giorno prima dell’udienza preliminare la stampa dava notizia che la Procura di Firenze avrebbe inviato al Copasir il materiale che mi era stato sequestrato e che in quel momento si riteneva essere tutto cancellato o in fase di cancellazione”, mette agli atti Carrai. Le conclusioni della denuncia sono conseguenziali alla descrizione dei fatti: “Il dott.Turco – conclude Carrai – nella sua qualità di pubblico ufficiale ha dichiarato, in due atti pubblici, circostanze false, sapendo perfettamente che fossero tali”. Il fascicolo passa a Genova, competente per la Procura di Firenze. Se i colleghi genovesi di Turco decidessero di non archiviare, recependo l’esortazione del ministro Carlo Nordio di smetterla con l’autotutela delle toghe, le carte passerebbero direttamente al Csm.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

L'inchiesta. Carrai archiviato, un nulla di fatto la folle inchiesta contro l’imprenditore fiorentino. Redazione su Il Riformista il 15 Dicembre 2022

Il gip di Firenze ha archiviato in via definitiva il procedimento penale per riciclaggio per il quale i coniugi Marco Carrai e Francesca Campana Comparini sono stati indagati nel 2019. Il procedimento è stato archiviato per “infondatezza della notizia di reato”. Marco Carrai e Francesca Campana Comparini “non dimenticano le visite nella notte della guardia di finanza, l’umiliante perquisizione di Francesca in stato di gravidanza e la successiva violenta persecuzione a mezzo stampa, tv e social network. Esprimono tuttavia la loro amara soddisfazione per la fine di tale incubo che non sarebbe mai dovuto iniziare e che ha arrecato a loro e ai loro cari tanta sofferenza e danni materiali”.

L'anticipazione del nuovo libro. Senza prove e reati, così il pm Nastasi decise di perseguitare Carrai. Matteo Renzi su Il Riformista il 17 Maggio 2022

Uno dei miei amici più cari si chiama Marco Carrai. Anche lui è stato indagato con me per la vicenda Open. E lui ha vinto tre ricorsi in Cassazione contro i Pm fiorentini. Nessuno sa che nelle stesse ore della perquisizione Open, Carrai è stato vittima di uno strano comportamento del dottor Nastasi, nel frattempo trasferitosi a Firenze per impreziosire la squadra guidata da Creazzo. Davvero un dream team di investigatori, talmente capaci da farsi smentire in più circostanze dalla Cassazione.

La vicenda Carrai è meno grave, ovviamente, di quella di Rossi, ma altrettanto incredibile. Il mattino del 15 novembre 2019 atterra a Firenze la signora Banybah, assistente personale del presidente della Repubblica del Togo.

Il presidente è cliente storico di un prestigioso negozio di via Tornabuoni appartenente alla famiglia di Francesca Campana Comparini, moglie di Marco Carrai. La sua assistente ha con sé una cifra in contanti superiore di qualche migliaio di euro a quella prevista dalle norme statali e dunque viene giustamente sanzionata in via amministrativa dalle autorità doganali. E qui iniziano le stranezze. La signora non parla italiano. Il verbale viene redatto senza un interprete. Mentre la signora se ne va in albergo – da cui non uscirà fino al mattino successivo per lasciare immediatamente l’Italia dopo ciò che è accaduto – inizia uno strano intreccio di telefonate a vari livelli.

Nel pomeriggio Marco Carrai – che peraltro è il presidente della società di gestione dell’aeroporto –, informato dalla moglie dell’inconveniente occorso alla signora Banybah, alza il telefono e chiama il funzionario delle dogane. Per evitare problemi fa la telefonata in presenza di testimoni, tra cui un esponente delle forze dell’ordine. Sono le 16.58 e Carrai chiede di conoscere se è possibile e con quale procedura effettuare un ricorso per via amministrativa per chiedere il dissequestro. Domanda tecnica, ovviamente fatta per capire come aiutare la signora che non parla italiano e che è legata da uno storico rapporto di amicizia con la famiglia della moglie.

Tra l’ufficio delle dogane, la guardia di finanza e la procura si respira una strana eccitazione: forse qualcuno pensa di aver trovato la prova di strani giri di soldi all’estero. È come se gli inquirenti fossero da tempo a caccia di qualcosa e finalmente potessero collegare Carrai – che tutti sapevano essere uno dei miei più cari amici e che comunque in procura avevano particolarmente attenzionato – a finanziamenti esteri. Dalle 17 alle 20 l’attività è frenetica. Si scambiano documenti, si inviano verbali, si studiano le carte. Ma alle 20 il primo nucleo operativo metropolitano della guardia di finanza di Firenze mette per iscritto che «non sussiste elemento per procedere a un sequestro penale ipotizzando, nell’eventualità, il reato di riciclaggio». E spiega perché: «Le visure delle banche hanno dato esito negativo e le banconote non erano occultate in maniera particolare all’interno dei bagagli». Dunque, non c’è alcun elemento di problematicità nella relazione che la guardia di finanza consegna al Pm di turno. Solo che il Pm di turno si chiama Nastasi.

In procura lavorano su Open da tempo, anche se ancora non hanno iscritto tutti gli indagati, e paventano che ci siano ipotesi di finanziamento dall’estero. Ecco perché un banale controllo amministrativo diventa il pretesto per una indagine in grande stile, condotta con notevole dispendio di energia, correndo sui tempi. Ma la guardia di finanza mette nero su bianco che il reato di riciclaggio non è ipotizzabile. Solo che a Nastasi non interessa. Alle 20 Nastasi riceve il rapporto della guardia di finanza. Lo legge. E decide comunque di fare come vuole. Alle 20.20 ordina l’iscrizione nel registro degli indagati della signora Banybah. Le dà un avvocato difensore, ma ovviamente non le dà un interprete, pur sapendo benissimo fin dal mattino che non parla italiano. Nel frattempo non indaga Carrai e la moglie, subito. L’avviso di garanzia immediato ai coniugi Carrai avrebbe costretto il Pm a interrogare i due in presenza di un avvocato. E dunque invierà l’avviso di garanzia solo dopo qualche settimana.

Nel frattempo però ordina di mettere sotto controllo le utenze telefoniche dei coniugi Carrai e invia a casa loro la finanza, in piena notte. Ma perché un cittadino, normale, incensurato, non indagato deve ricevere questo trattamento? La relazione peraltro dice che non c’è riciclaggio ma Nastasi va avanti lo stesso e non li indaga subito in modo tale che l’interrogatorio sia senza avvocato. Un interrogatorio notturno: nemmeno nei film. Suona il campanello in via dell’Erta Canina. Si svegliano tutti, madre, padre, due figli, i cani. Francesca Comparini Carrai, incinta, viene torchiata dalla guardia di finanza su richiesta di Nastasi dalle 0.55 fino alle 2 di notte davanti ai bambini preoccupati dall’intrusione notturna. E per cosa? Perché il presidente del Togo è suo cliente e la sua assistente non conosce le leggi italiane sul contante. Pazzesco. Carrai se la cava in meno di mezz’ora. Alle 2.20 del mattino il verbale viene firmato. Perché? Che bisogno c’era?

Che senso ha questo trattamento che non viene riservato neppure ai mafiosi? E perché, se il reato è così grave, non vengono iscritti in modo da interrogarli senza avvocato difensore? Dopo qualche settimana i Carrai vengono indagati. Nelle carte non c’è nulla. Nelle intercettazioni l’unica cosa che pare attirare l’attenzione degli investigatori è una telefonata tra la signora Carrai e mia moglie, amica e madrina di battesimo del piccolo Leone Carrai, una telefonata in cui Francesca si lamenta per la visita della GdF a notte fonda «molto fuori misura per entrare in casa nostra, ecco capito». Casualmente l’unica cosa che sembra interessare è che parli con mia moglie, chissà perché. E Agnese che naturalmente si limita a condividere lo stupore e il dispiacere per la sofferenza di Francesca. Tutto qui. Una ipotesi di reato che non c’è. Un inspiegabile interrogatorio notturno. Una particolare modalità di procedere per cui la finanza mette per iscritto una cosa e il Pm fa l’opposto. Intercettazioni senza senso.

Voi direte: lo dici tu che sei di parte. No, non lo dico io. E stavolta non lo dice nemmeno la Cassazione. Non fa in tempo, la Cassazione. Perché ad annullare la follia di Nastasi è direttamente il Tribunale del riesame che ordina di distruggere tutto il materiale sequestrato ai coniugi Carrai, perché questa storia non sta insieme.

Chissà se Nastasi si ricorda «nitidamente» perché ha voluto mandare la finanza a svegliare una donna incinta e i suoi bambini piccoli. Quanto accadde a Siena in una notte tragica del marzo 2013 è molto più grave di quanto è accaduto a Firenze in una notte fortunatamente non tragica del novembre 2019. Ma questo modo di procedere mi è sufficiente perché io possa dire a Nastasi, a voce alta, «Io di lei non mi fido».

Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.

Il caso della direttrice sanitaria. La vicenda di Paola Navone, sbattuta in cella per un cesto di Natale e poi assolta: nessun reato. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 27 Dicembre 2022

Se è dolce il Natale per la dottoressa Paola Navone, ex direttrice sanitaria dell’ospedale ortopedico di Milano Gaetano Pini, assolta in appello alla vigilia, decisamente amarognolo è stato per il pm Eugenio Fusco, smentito nella sua ipotesi, e non è la prima volta. Perché è lo stesso pubblico ministero che aveva contribuito a portare a processo Roberto Maroni per due episodi che non erano reati, ma neanche semplice malcostume o segnalazione che il codice penale ormai definisce “traffico di influenze”. Erano semplici atti di ordinaria amministrazione, tranne per chi non abbia nello sguardo sempre e comunque il reato.

La dottoressa Paola Navone era stata posta agli arresti domiciliari nell’aprile del 2018 per corruzione. Era il direttore sanitario di un polo nell’eccellenza dell’ortopedia milanese, il Cto-Gaetano Pini. L’inchiesta, condotta dal pm Cristian Barilli e dall’aggiunto Eugenio Fusco, riguardava l’acquisto da parte degli ospedali Cto-Pini e Galeazzi di presidi ortopedici, in particolare di un dispositivo sanitario anti-infezione creato da due medici, finiti pure loro nell’inchiesta. La direttrice sanitaria era stata accusata di corruzione per aver accettato in dono un cesto di tipo natalizio del valore di trecento euro e per aver partecipato a tre convegni come relatrice, senza compenso ma con il rimborso del viaggio. Si potrebbe non crederci, ma l’accusa era tutta qui.

Pure, nelle parole del pm, la dottoressa veniva definita come “un soggetto indispensabile e attraente per via dei suoi appoggi…”. E tra le “utilità ricevute” non erano considerate solo quelle materiali, come un cesto o un rimborso del viaggio, ma anche, in aggiunta, quelle più impalpabili, come “l’interesse ad affermarsi professionalmente” della dottoressa. Corrotta e carrierista! Fatto sta che da quel giorno di aprile del 2018 la vita di un affermato sanitario con brillante carriera finisce nel cestino della carta straccia. Licenziata e processata, con l’umiliazione di vedere come parte civile l’ospedale Cto-Pini, l’Ordine provinciale dei medici e la Regione Lombardia, tutti a chiedere il risarcimento anche per il danno d’immagine. Il mondo che ti crolla addosso. Il giorno prima hai tutto, sei stimata e di buon umore, e racconti al telefono alla figlia della gentilezza di chi ti ha regalato il famoso cesto, e non sai di aver commesso peccato e reato. Non sai che ti ascoltano e deducono. E così finisci in quel vortice su cui potremmo ormai riscrivere l’intero vocabolario dei “casi” dalla A alla Z.

Passano due anni dal giorno dell’arresto e il 3 marzo del 2020 Paola Navone viene condannata dalla decima sezione del tribunale di Milano, pur con l’attenuante della “lieve entità del fatto”, a due anni e mezzo di carcere. Nei suoi confronti è disposta anche la confisca di 5.000 euro e l’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. Le parti civili, ospedale Cto-Pini, Ordine provinciale dei medici e Regione Lombardia vengono risarcite con 36.000 euro. E intanto trascorrono altri due anni e mezzo, cioè siamo a quasi cinque da quel giorno dell’arresto. In appello cambia tutto. Cambia il pm, che non si chiama più Eugenio Fusco, ma Celestina Gravina, la stessa che ha demolito mattoncino su mattoncino il processo Eni e la costruzione accusatoria del pm Fabio De Pasquale.

Si comincia con il modificare l’accusa nei confronti dei due medici, i professori Lorenzo Drago e Carlo Luca Romanò, i quali erano stati condannati in primo grado a sei anni e mezzo di carcere per non aver segnalato all’ospedale di cui erano dipendenti non solo di essere gli inventori del famoso farmaco, ma anche di esser diventati soci del proprietario della ditta che produceva il dispositivo. La pg Gravina chiede la derubricazione della corruzione in abuso d’ufficio e la seconda corte d’appello ratifica il patteggiamento concordato tra le parti. Ma soprattutto assolve, su richiesta della stessa pubblica accusa, che ha parole durissime nei confronti sia di chi l’aveva accusata che del tribunale che l’aveva condannata, la ormai ex direttrice sanitaria Paola Navone perché “il fatto non sussiste”.

Il presidente Maurizio Boselli ha ritenuto non solo che il ruolo della direttrice sanitaria non fosse determinante per introdurre quel dispositivo nell’ospedale, ma anche che le famose “utilità” non avevano certo la forza di indurre qualcuno a farsi corrompere. Arriva il momento della verità. Il pianto liberatorio della dottoressa, il rammarico del suo legale Piero Magri, che ricorda il calvario subito dalla sua assistita, saranno sufficienti a inserire questo “caso” tra quelli già citati come vergogna per uno Stato di diritto dal ministro Carlo Nordio? Noi crediamo che lo meriti. 

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.