Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

ANNO 2023

L’AMBIENTE

TERZA PARTE


DI ANTONIO GIANGRANDE

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A Tutela delle Piante.

La Pulizia.

La Conservazione.

La Ristorazione.

Il Pomodoro.

L’Origine Controllata.

Made in Italy.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

Gli Alimenti Alternativi.

Il Biologico.

Vegani e Vegetariani.

La Verdura.

Latte e Formaggi.

Il Pesce.

La Carne.

I Legumi.

Grano e suoi derivati: Pane, Pasta, Dolci.

La Polenta.

Cacao e Cioccolato.

Il Torrone.

Il Sughero.

Il Vino.

I Distillati.

L’Olio.

L’Acqua.


 


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le 9 scoperte più curiose del 2022.

A tutela degli animali. 

Il Patriarcato.

Il Matriarcato.

Le Razze Aliene.

Pesci e/o Mammiferi.

I Molluschi.

Polli e… Bio dei paesi tuoi.

Gli Uccelli.

I Primati.

I Lupi.

I Cani.

I Felini.

Le Mucche.

I Maiali.

Il Riccio.

I Topi.

Le Api.

I Cavalli.

Gli Orsi.


 

INDICE TERZA PARTE


 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

2022: eventi meteo estremi.

I Giorni della Merla.

La Siccità.

Le Valanghe.

Il Pantano delle Ricostruzioni interminabili.

Terremotati e… mazziati.

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Buco nell’Ozono.

A tutela dell’ambiente.

Auto Elettriche.

Gli Inquinanti: i PFAS.

Gli Inquinatori.

Gli Inquinati.

L’Edilizia.

Non abbastanza verdi: il Greenwashing.

Le Vittime.

L’oro dai rifiuti.

Quelli che…i Pneumatici.

Quelli che…la Plastica.

Quelli che … il Fotovoltaico.

Quelli che…l’Eolico.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che …Il Nucleare.

Quelli che…il Petrolio.

Quelli che … il metanolo verde.

Quelli che …Il Gas.

Quelli che …Il BioGas.

Quelli che …Il Carbone.

Quelli che …l'estrazione mineraria.

Quelli che … l’Amianto.

Quelli che…l’Uranio.

Quelli che…le Terre Rare.

Gli Anti-gretini.

I Gretini.

I Nimbini. Quelli che…sempre no.

La Peronospora.

La Xylella.

 

TERZA PARTE


 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

Il 2022 è anno record per gli eventi meteo estremi: +55% in Italia. Cristina Nadotti su La Repubblica il 30 Dicembre 2022.

I dati del l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, in collaborazione con il gruppo Unipol, rilevano 310 fenomeni, che hanno causato 29 morti. Ciafani: "La prevenzione farebbe risparmiare il 75% delle risorse spese per riparare i danni"

Le piogge torrenziali che hanno provocato la frana di Ischia, o il Po in secca durante i lunghi mesi senza pioggia, sono soltanto i casi più eclatanti. Secondo l’Osservatorio Città Clima di Legambiente, realizzato in collaborazione con il gruppo Unipol, il 2022 ha visto un incremento del 55%, rispetto al 2021, di eventi estremi che hanno provocato danni e vittime.  I dati sintetizzati nella mappa del rischio climatico elaborata dall'associazione ambientalista con l’Osservatorio CittàClima rilevano 310 fenomeni estremi, che hanno causato 29 morti e avuto impatti drammatici sull'economia e l'ambiente da Nord a Sud. 

Nello specifico, la mappa conta 104 casi di allagamenti e alluvioni da piogge intense, 81 casi di danni da trombe d’aria e raffiche di vento, 29 da grandinate, 28 da siccità prolungata, 18 da mareggiate, 14 eventi con l’interessamento di infrastrutture, 13 esondazioni fluviali, 11 casi di frane causate da piogge intense, 8 casi di temperature estreme in città e 4 eventi con impatti sul patrimonio storico. Molti gli eventi che riguardano due o più categorie, ad esempio casi in cui esondazioni fluviali o allagamenti da piogge intense provocano danni anche alle infrastrutture. Nel 2022 sono aumentati, rispetto allo scorso anno, i danni da siccità, che passano da 6 nel 2021 a 28 nel 2022 (+367%), quelli provocati da grandinate da 14 nel 2021 a 29 nel 2022 (+107%), i danni da trombe d’aria e raffiche di vento, che passano da 46 nel 2021 a 81 nel 2022 (+76%), e allagamenti e alluvioni, da 88 nel 2021 a 104 nel 2022 (+19%).

 Il Nord l'area più colpita, Roma la città più vulnerabile

A livello territoriale, quest’anno il nord della Penisola è stata l’area più colpita, seguita dal sud e dal centro. A livello regionale, la Lombardia è la regione che registra più casi, ben 37, seguita dal Lazio e dalla Sicilia, con rispettivamente 33 e 31. Rilevanti anche i casi registrati in Toscana, 25, Campania, 23, Emilia-Romagna, 22, e Piemonte, 20, Veneto, 19, Puglia, 18. Tra le province, quella di Roma risulta quella più colpita con 23 eventi meteo-idro, seguita da Salerno con 11, Trapani con 9, Trento, Venezia, Genova e Messina con 8 casi. Tra le città, Roma (13) e Palermo (4).

 La mappa del rischio climatico in sintesi

I dati dell’Osservatorio Città Clima raccolti nella mappa online del rischio climatico contengono un focus sul progetto europeo LIFE+ AGreeNet che ha l’obiettivo di rendere le città della costa del Medio Adriatico più resilienti al cambiamento climatico attraverso vari interventi.

Focus siccità. Nel 2022 secondo i dati di Isac-Cnr, nei primi sette mesi dell’anno le piogge sono diminuite del 46% rispetto alla media degli ultimi trent’anni. Cruciale la prima parte dell’anno con cinque mesi consecutivi gravemente siccitosi, e un’anomalia, da gennaio a giugno, pari a - 44% di piogge, equivalente a circa 35 miliardi di metri cubi di acqua in meno del normale. In crescente difficoltà i fiumi, come il Po che al Ponte della Becca (PV) risultava con un livello idrometrico di -3 metri, e i grandi laghi con percentuali di riempimento dal 15% dell’Iseo, al 18% di quello di Como fino al 24% del Maggiore.

In autunno è peggiorata la situazione delle regioni del centro, soprattutto in Umbria e Lazio. Nel primo caso il deficit pluviometrico si è attestato sul 40%, il lago Trasimeno ha raggiunto un livello ben inferiore alla soglia critica, con -1,54 metri. Nel Lazio, il lago di Bracciano è sceso a -1,38 metri rispetto allo zero idrometrico. Gravi le conseguenze per l’agricoltura e per gli habitat naturali. L’11% delle aziende agricole si è ritrovata in una situazione talmente critica da portare alla cessazione dell’attività. In molte aree urbane si sono dovute imporre restrizioni all’uso dell’acqua.

La siccità ha causato la perdita di produzione di energia, in particolare da idroelettrico. Nonostante i dati di Terna1 relativi ad aprile abbiano evidenziato un record assoluto di energia prodotta da fonti rinnovabili, è mancato all’appello l’idroelettrico. La produzione di energia da questa fonte, infatti, segnava -41% per effetto delle scarse precipitazioni, che hanno portato per mesi i livelli di riempimento degli invasi prossimi ai valori minimi registrati negli ultimi 50 anni. A dicembre, il livello del Po è rimasto inferiore alla media degli ultimi 20 anni ed a preoccupare è soprattutto la situazione delle falde, con livelli tra il 35 ed il 50% in meno della media mensile.

Focus caldo e ondate di calore. Nell'anno che si sta chiudendo in Italia si sono registrate temperature eccezionali già da maggio con punte di 36,1 °C a Firenze, 35,6 °C a Grosseto, 34 °C a Pisa e 32,8 °C a Genova. Ma anche a Ustica con 33,4°C e Torino con 29,2°C. Il mese di giugno ha visto un’anomalia della temperatura media di +3,3°C se consideriamo l’Italia nel suo insieme, con punte di 41,2 °C a Guidonia Montecelio (RM), 40 °C a Prato, Firenze, Viterbo e Roma. A luglio record per le città lombarde: a Brescia e Cremona si sono registrati 39,5 °C, a Pavia 38,9 °C e a Milano 38,5 °C.

Ad agosto i termometri hanno segnato tra i 40 e i 45 °C a Palermo, Catania e Reggio Calabria, mentre a Bari si è arrivati a 39 °C. Questi livelli di caldo eccezionale, prolungati per settimane e mesi in gran parte del Paese, hanno portato a gravi conseguenze sulla salute umana. L’ondata di calore che ha impattato più duramente è stata quella della seconda metà di luglio, con un aumento di mortalità che ha raggiunto, stando ai dati di Ministero della Salute e Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, il 36% in tutte le aree del Paese, ma in particolare in alcune città del nord. Tra le città maggiormente colpite Torino che ha visto un eccesso di mortalità pari a +70%, a cui segue Campobasso (+69%), poi Bari (+60%), Bolzano (+59%), Milano e Genova (+49%), Viterbo (+48%), Firenze (+43%), Catania (+42%). Solo nel 2022 sono stati oltre 2.300 i decessi in Italia dovuti alle ondate di calore, secondo le analisi di Ministero della Salute e Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, in crescita rispetto ai 1.472 del 2021 e ai 685 del 20202.

I disastri climatici del 2022

I casi più rilevanti del 2022 – In questo bilancio “clima 2022” Legambiente ricorda alcuni casi rilevanti: il 3 luglio il distacco di una grossa porzione dalla calotta sommitale del ghiacciaio della Marmolada, 11 le vittime e 8 i feriti. Tra il 27 e il 28 luglio in Val Camonica è caduta in poche ore la stessa quantità di pioggia caduta sulla provincia di Brescia nei sette mesi precedenti. Le intense piogge hanno provocato anche delle frane che hanno colpito la Val di Fassa, in Trentino, il 5 agosto. Ad agosto a Scilla (RC), il litorale è stato investito da un’imponente massa d'acqua che ha invaso le strade. Occorre, in questo caso, evidenziare il legame con la cementificazione avvenuta negli anni e al tombamento del torrente Liurni.

Il 18 agosto raffiche di vento a oltre 110 km/h hanno colpito la provincia di Massa Carrara. Quattro persone sono rimaste ferite in un camping a Marina di Massa a causa della caduta di alberi e in tutto il territorio si sono contate fino a 7mila persone senza corrente. L’evento alluvionale che ha segnato il 2022 è quello che ha colpito il 15 e 16 settembre le Marche, 13 i morti. Tra fine settembre e inizio ottobre Trapani per tre volte è stata colpita da violenti temporali ed è finita sott’acqua. Tragedia a Ischia il 26 novembre, a Casamicciola Terme (NA) dove le piogge intense hanno provocato una frana ed un'alluvione, con 12 vittime registrate. Record di pioggia, con 126mm caduti in 6 ore. Il 22 novembre, una mareggiata di forte intensità ha colpito Jesolo (VE), mentre il 3 dicembre in provincia di Messina sono stati registrati diversi danni provocati da piogge intense e frane.

Le richieste di Legambiente al governo

Per Legambiente i dati del bilancio dell’Osservatorio CittàClima indicano ancora una volta l’urgenza per l’Italia di un deciso cambio di passo nella lotta alla crisi climatica, attraverso politiche più ambiziose e interventi concreti non più rimandabili. Tra le azioni urgenti da mettere in campo, secondo l'associazione, l’approvazione in tempi rapidi del Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici aggiornato e pubblicato nei giorni scorsi sul sito del Mase, e che ora dovrà essere oggetto di consultazione pubblica secondo quanto previsto dalla procedura di Valutazione Ambientale Strategica.

La fotografia scattata dal nostro Osservatorio CittàClima – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – ci restituisce un quadro preoccupante di un anno difficilissimo, concluso con le notizie sulle temperature primaverili di fine dicembre in Italia, sulla tempesta artica che ha colpito il Nord America, causando decine di morti, e sull’ ondata di freddo in Giappone. Nella lotta alla crisi climatica il nostro Paese è ancora in grave ritardo, rincorre le emergenze senza una strategia di prevenzione, che farebbe risparmiare il 75% delle risorse spese per riparare i danni. Al Governo Meloni, al posto di nuovi investimenti sul gas, chiediamo cinque azioni urgenti da mettere al centro dell’agenda dei primi mesi del 2023".

Giorni della merla: perché si chiamano così, le origini e la storia.  Redazione su Il Corriere della Sera il 29 Gennaio 2023.

La tradizione dei Giorni della Merla vuole che gli ultimi giorni di gennaio e i primi di febbraio siano considerati i più freddi dell’anno

Il momento più gelido di tutto l'anno. I «Giorni della Merla» sono per tradizione i più freddi (ce lo ricordano dalle scuole elementari), ma non ci sono conferme scientifiche di questa credenza popolare. Alcuni sostengono che combacino con gli ultimi tre giorni di gennaio (29, 30 e 31), altri invece spostano la terna all’inizio del nuovo mese (30, 31 gennaio e primo febbraio).

Le origini dei Giorni della Merla in una leggenda

Secondo una leggenda, la cui origine si perde nel tempo, una merla si vantava di avere delle belle piume bianche, come la neve. A darle fastidio, un freddo gennaio, che si prendeva gioco di lei, non appena usciva a cercare il cibo per affrontare la gelida stagione. La merla, furiosa, decise di chiedere tre giorni in prestito a febbraio (all’epoca gennaio durava 28 giorni) per far abbattere sulla Terra un’ondata di freddo e gelo. E così, con l’arrivo della bufera, l’animale cercò riparo in un caminetto. Si salvò dal gelido gennaio, sporcandosi — però — le piume. Da allora gennaio ha 31 giorni e i merli le piume nere.

Se sono freddi, ci aspetta una primavera bella e calda

Un’altra credenza accompagna questo periodo: se i «Giorni della Merla» sono freddi, si dice che la primavera sarà bella e calda; se sono caldi, arriverà in ritardo. Una credenza che ricorda la tradizione made in Usa del giorno della marmotta (2 febbraio): negli Stati Uniti si osserva il rifugio dell’animale. Se questa emerge e non riesce a vedere la sua ombra perché il tempo è nuvoloso, l’inverno finirà presto; se invece vede la sua ombra perché è una bella giornata, l’inverno continuerà per altre sei settimane). 

Tra cannoni e nobildonne, lungo il fiume Po

Altre due versioni della leggenda sono spiegate da Sebastiano Pauli nel suo Modi di dire toscani ricercati nella loro origine del 1740. Si riferiscono a un periodo in cui le temperature rigide ghiacciavano la superficie del fiume Po rendendolo percorribile. Secondo la prima versione, la merla sarebbe un pesante cannone di ghisa che - grazie al freddo di fine gennaio - è stato trascinato da una riva all'altra del fiume camminandoci sopra. La quarta leggenda invece narra della nobildonna De Merli, che ha attraversato il Po per raggiungere il marito che si trovava oltre la sponda opposta. A Lodi nei «Giorni della Merla» due cori si chiamano dai lati opposti del fiume Adda.

Fenomeni Estremi.

Il Climatizzatore.

Il Dissalatore.

L’Ideologia.

Il Meteorologo.

Il cambiamento climatico e l’economia.

Le Alluvioni.

La Siccità.

Fenomeni estremi.

Antonio Giangrande: Catastrofi naturali e salute. Fatalismo e prevenzione.

La demagogia degli scienziati e la sicurezza impossibile.

Prevenzione. Costi e burocrazia: la protezione irrealizzabile.

Antonio Giangrande: Razzismo e Disastri Ambientali.

Disastri Ambientali e Dissesti idrogeologici: morte e distruzione.

Alluvioni, Allagamenti, Smottamenti, Frane.

Per i media prezzolati e razzisti.

Al Nord Italia: Eventi e danni naturali imprevedibili dovuti al cambiamento climatico in conseguenza del riscaldamento globale e causati da Vortici di Bassa Pressione dovuti all'alta Pressione perenne del Sud Italia con i suoi 30 gradi anche ad ottobre.

Al Sud Italia: Disastri meritati dovuti a causa dell'abusivismo; degli incendi dolosi e del disboscamento; dell'incuria e dell'abbandono delle opere pubbliche di contenimento e prevenzione.

“Per fortuna il maltempo si è spostato al sud”: la gaffe del TG5. Da Redazione di Cefalù Web 13 novembre 2014. Elena Guarnieri, presentatrice del TG5 ieri sera si è resa protagonista di una brutta gaffe parlando di maltempo. La giornalista in diretta durante l’edizione serale del popolare tg della rete ammiraglia di Mediaset, parlando della perturbazione che imperversa su tutta la penisola ha affermato: “Il peggio sembra essere passato, la perturbazione si è spostata al Sud“. Forte lo sdegno dei telespettatori soprattutto del meridione che condannano con fermezza l’imperdonabile gaffe.

Inchiesta del Dr. Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

Nelle tv salottiere e sui giornali gli “Esperti” si cimentano a dare le loro opinioni. "Ormai abbiamo osservato che ogni 4 o 5 anni c'è un sisma che colpisce la dorsale appenninica. Eppure gli amministratori non fanno prevenzione. Il risultato è che l'Italia è arretrata come il Medio Oriente: in un paese avanzato una scossa di magnitudo 6 non provoca crolli e vittime". Mario Tozzi, geologo e noto divulgatore scientifico in tv, non usa giri di parole contro la politica che a sette anni dal tragico terremoto dell'Aquila non ha fatto quasi nulla per prevenire il disastro di questo 24 agosto 2016 ad Amatrice e dintorni.

Scrive Maurizio Ribechini il 25 agosto 2016: “Un interessante studio su questo circa un anno e mezzo fa è stato effettuato dal "Consiglio Nazionale degli Ingegneri", il quale con una precisa valutazione dei costi economici, ha calcolato che, fino al novembre 2014, ammontavano a più di 120 miliardi di euro gli stanziamenti dello Stato per i terremoti verificatisi in Italia negli ultimi 50 anni: da quello siciliano del Belice nel 1968, all’ultimo del maggio 2012 in Emilia Romagna, passando per quello del Friuli del 1976, quello dell'Irpinia del 1980, il primo avvenuto in Umbria e Marche del 1997, quello del Molise del 2002 e quello dell'Aquila nel 2009. Per una spesa media annua di circa 2,5 miliardi di euro. Cifre ancora più elevate sono quelle che fornivano, ormai quattro anni fa (quindi senza considerare i costi del sisma del 2012 in Emilia) Silvio Casucci e Paolo Liberatore nel saggio dal titolo "Una valutazione economica dei danni causati dai disastri naturali", dove hanno stimato un costo di ben 147 miliardi di euro, per una spesa media annua di 3,6 miliardi. Tale stima arrivava da un dossier sul rischio sismico redatto dal Dipartimento della Protezione Civile che recitava "i terremoti che hanno colpito la Penisola hanno causato danni economici valutati per gli ultimi quaranta anni in circa 135 miliardi di euro (a prezzi 2005), che sono stati impiegati per il ripristino e la ricostruzione post-evento. A ciò si devono aggiungere le conseguenze non traducibili in valore economico sul patrimonio storico, artistico, monumentale". Attualizzando tale valore al 2012, si otteneva un totale complessivo pari a circa 147 miliardi. Ma appunto tale cifra non considerava i costi della ricostruzione in Emilia. Se vogliamo contare anche questi, possiamo prendere dei dati ufficiali diffusi dalla Regione Emilia Romagna nel maggio 2015, che parlavano di 1 miliardo e 770 mila euro di contributi concessi. Ecco pertanto che la somma complessiva dei costi per i terremoti lievita a circa 149 miliardi complessivi. Ma quanto sarebbe costato mettere in sicurezza il territorio? L’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso, nei mesi scorsi aveva dichiarato che per mettere in sicurezza tutto il nostro paese occorrerebbero tra i 20 e i 25 miliardi di euro. Mentre proprio ieri, l’ex ministro dell’Ambiente Corrado Clini ha dichiarato: "Nel 2012 presentai un piano da 40 miliardi per la prevenzione, oltre all'assicurazione obbligatoria per il rischio sismico. Non se ne fece nulla, ma quegli interventi sono la grande opera di cui abbiamo bisogno". Numerose altre stime tecniche ed economiche parlano tutte di cifre che oscillano appunto fra i 25 e i 40 miliardi di euro. Ovvero fra circa 1/3 e 1/4 di quanto abbiamo speso in 50 anni per ricostruire dopo i terremoti.”

Detto questo gli esperti omettono di dire che il costo della prevenzione va quasi tutto a carico del privato, salvo quella minima parte a carico del pubblico, secondo la sua pertinenza, mentre la ricostruzione, con tutte le sue deficienze, è tutta a carico del pubblico. Bene. Si dimenticano i cosiddetti esperti che i cittadini italiani non sono come i profughi, ospitati negli alberghi a 5 stelle e con vitto gratis. I cittadini italiani hanno bisogno di un tetto sulla testa, anche abusivo e prevedibilmente pericolante. Abusivo, stante l’incapacità degli amministratori locali di prevedere un Piano Urbanistico Generale. I soldi son pochi e non ci sono per lussi, burocrati e prevenzione. L'alternativa al tetto insicuro sono le arcate dei ponti. Spesso i cittadini italiani, se non ci fossero i morti a corredo, sarebbero contenti dei terremoti, in quanto gioverebbero della ricostruzione delle loro vecchie case. Lo stesso vale per le alluvioni ed altri eventi naturali.

Ed ancora in tema di prevenzione non bisogna dimenticare poi gli esperti sanitari che ci propinano consigli sulla prevenzione delle malattie, specie tumori ed infarti. Impossibile da seguire. E non stiamo parlando delle vecchie ed annose liste di attesa o dell'impedimento al ricorso del pronto soccorso ormai solo aperto ai casi pre-morte.

Il 21 gennaio 2016 è entrato in vigore il cosiddetto “decreto Lorenzin” sull’appropriatezza delle prescrizioni approvato il 9 dicembre 2015. Il decreto che porterà alla stretta sulle prescrizioni di visite mediche ed esami a rischio di inappropriatezza ed il giro di vite riguarderà oltre 200 prestazioni di specialistica ambulatoriale, scrive Rai News. E' stato infatti pubblicato in Gazzetta ufficiale il 20 gennaio il decreto "Condizioni di erogabilità e indicazioni di appropriatezza prescrittiva delle prestazioni di assistenza ambulatoriale erogabili nell'ambito del Servizio sanitario nazionale". Si tratta di prestazioni di Odontoiatria, Genetica, Radiologia diagnostica, Esami di laboratorio, Dermatologia allergologica, Medicina nucleare. Il decreto Enti locali da cui scaturisce il DM appropriatezza, prevede che le 203 prestazioni se prescritte AL DI FUORI DELLE CONDIZIONI DI EROGABILITA' contemplate dal DM saranno poste A TOTALE CARICO DEL PAZIENTE. Esempio. "Ai fini dell’applicazione delle condizioni di erogabilità nella prescrizione delle prestazioni di radiologia diagnostica di cui al presente decreto, per la definizione del «sospetto oncologico» di cui all’allegato 1, note n. 32, 34, 36, 38 e 40 devono essere considerati i seguenti fattori: 1) anamnesi positiva per tumori; 2) perdita di peso; 3) assenza di miglioramento con la terapia dopo 4-6 settimane; 4) età sopra 50 e sotto 18 anni; 5) dolore ingravescente, continuo anche a riposo e con persistenza notturna. Altro esempio. L'esame del colesterolo totale: le condizioni di erogabilità dell'esame a carico del Ssn prevedono che sia da eseguire come screening in tutti i soggetti di età superiore a 40 anni e nei soggetti con fattori di rischio cardiovascolare o familiarità per dislipidemia o eventi cardiovascolari precoci. Ma in assenza di valori elevati, modifiche dello stile di vita o interventi terapeutici, si precisa, l'esame è da ripete a distanza di 5 anni. Per quanto riguarda poi le condizioni di erogabilità delle prestazioni odontoiatriche, si valuteranno le condizioni di "vulnerabilità sanitaria" (condizioni sanitarie che rendono indispensabili le cure odontoiatriche) o di "vulnerabilità sociale" (ovvero di svantaggio sociale ed economico). Anche per l'erogazione delle dentiere sono previsti gli stessi criteri. Secondo Costantino Troise, segretario del maggiore dei sindacati dei medici dirigenti, l'Anaao-Assomed, "da oggi, per sapere come curare, i medici dovranno leggere la gazzetta ufficiale e non più i testi scientifici".

E dulcis in fundo ci sono gli esperti dei sinistri stradali. Quelli che dicono è sempre colpa dell'insobrietà, della disattenzione e della velocità dell’autista. Questi signori probabilmente non conoscono le cause dei sinistri:

riconducibili al conduttore (inabilità alla guida permanente o temporanea);

riconducibili al mezzo (malfunzionamento delle componenti tecniche per tutti i veicoli o bloccaggio del motore per le moto);

riconducibili alla strada (sconnessione o ostacoli improvvisi o non segnalati);

riconducibili ad eventi atmosferici che limitano visibilità o aderenza.

In conclusione la prevenzione spesso e volentieri è impossibile attuarla per l’imprevedibilità degli eventi, ma ancor di più per i costi e per la burocrazia esosa ed assillante ed è inutile che in tv gli esperti ce la menano sulla prevenzione: la realtà la impedisce.

Dr Antonio Giangrande Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie.

LO DICE LA SCIENZA. I dati smentiscono gli eco-catastrofisti: disastri naturali in calo. La ricerca di due studiosi italiani: il riscaldamento globale non è correlato all’aumento dei disastri naturali. I casi e i morti si riducono. Redazione Nicolaporro.it il 16 Agosto 2023

Nell’articolo pubblicato sulla rivista Environmental Harzards di Taylor & Francis, due studiosi italiani, Gianluca Alimonti dell’Istituto nazionale di fisica nucleare e della Statale di Milano e Luigi Mariani, professore all’Università di Brescia, hanno riportato una scoperta interessante. A loro dire, le catastrofi naturali e le relative vittime sono in diminuzione negli ultimi vent’anni. Inoltre, pare che l’innalzamento delle temperature non influenzi direttamente l’incidenza di tali disastri.

Gli autori, come racconta Alessandro Rico sulla Verità, hanno analizzato l’Emergency events database, un accurato censimento di frane, smottamenti, alluvioni, cicloni e altre calamità, istituito nel 1988 dal Center for research on the epidemiology of disasters (Cred) della Cattolica di Lovanio. Attraverso questa analisi, hanno notato un andamento che potrebbe essere controintuitivo per molti: i disastri hanno iniziato ad aumentare intorno alla metà del secolo XX, sono cresciuti velocemente dagli anni Settanta e hanno raggiunto un picco negli anni Novanta. Dopodiché, nonostante le previsioni di organizzazioni come l’ONU, le catastrofi hanno iniziato a diminuire nel periodo 2002-2022, così come le vittime.

La spiegazione? Non è che fino agli anni Cinquanta il mondo fosse un posto sereno; era semplicemente più difficile rilevare un evento e inserirlo in un database. Negli anni, sono state sviluppate tecnologie avanzate e i meccanismi di segnalazione sono stati perfezionati. Questo, naturalmente, ha contribuito all’apparente aumento della frequenza dei disastri nel corso degli ultimi cinquant’anni. E che dire delle vittime? Anche il loro numero è diminuito per motivi simili: nonostante ci siano ancora molte misure di prevenzione da prendere e, in particolare in Italia, la manutenzione del territorio viene spesso trascurata, siamo diventati più efficienti nel gestire le emergenze e nel proteggerci dai pericoli della natura.

Ma quello che è ancora più interessante è che, negli ultimi venti anni, la tendenza è alla diminuzione, non all’aumento delle catastrofi. Questo risultato, come evidenziato da Alimonti e Mariani, è in netto contrasto con le previsioni di due organismi delle Nazioni Unite (Fao e Undrr), che prevedono un aumento dei disastri naturali.

E il cambiamento climatico? Nonostante la percezione diffusa, sembra che l’innalzamento delle temperature medie non abbia un impatto direttamente proporzionale sull’aumento dei disastri naturali. Al contrario, fenomeni naturali come terremoti, eruzioni vulcaniche e sussulti del pianeta, che non sono influenzati dal clima, registrano un andamento simile agli eventi legati alle emissioni di CO2.

Estratto dell’articolo di Chiara Comai per “La Stampa” martedì 15 agosto 2023.

Luca Mercalli, presidente della società meteorologa italiana, si sarebbe potuto evitare quanto accaduto a Bardonecchia?

«Un episodio come quello che abbiamo visto non aveva tempi di preavviso. Io avevo parcheggiato l'auto accanto al fiume proprio la sera prima, anche se fossi stato sul posto non avrei potuto farci nulla. Non c'erano segni premonitori, il fiume me l'avrebbe portata via. Il temporale era lontano da Bardonecchia, era in alto sulla montagna, verso il confine con la Francia» […]

 Quali sono le cause dell'esondazione?

«È una questione meteorologica e geologica insieme. Le montagne della Val Susa hanno terreni estremamente friabili e instabili. Quando ci sono delle piogge anche modeste, come in questo caso, si creano delle vere e proprie colate di fango. Domenica sera sono scesi 30 mm di acqua, che non è tantissima, ma in un breve periodo di tempo. A valle è arrivato un flusso di roccia e detriti, che pesa 2mila litri al metro cubo, il doppio dell'acqua. Per questo ha un maggiore potere distruttivo ed è poi in grado di portare via le macchine, come è successo».

Come mai non è scattata l'allerta?

«Esisteva la previsione di temporali la sera e questo è già sufficiente. L'allerta deve essere motivata da intensità ed estensione. In questo caso, il temporale si estendeva per 500 metri, era modesto. Le stazioni meteorologiche hanno registrato una pioggia da 3 mm. Anche se poi nell'epicentro ne sono venuti giù 20 mm, non sono tanti. Il problema non è stato il temporale di per sé, ma la combinazione con un territorio predisposto a questi rischi». 

È l'ennesimo effetto del cambiamento climatico?

«In questo caso no. O almeno, in minima parte. In Val Susa ci sono sempre stati episodi di questo genere, è nella sua conformazione. I cambiamenti climatici recenti possono però aumentare le condizioni che favoriscono questi fenomeni. D'altronde, gli effetti dell'emergenza clima non si esprimono ovunque allo stesso modo» […]

Quindi era già successo un episodio simile.

«Sì. L'ultima volta era il 7 agosto 2009, ma ci sono altri casi precedenti. Certo che oggi fa impressione, perché siamo in un periodo in cui la città è completamente piena di persone in vacanza». 

È possibile in qualche modo prevenire queste esondazioni?

«Il torrente è già costeggiato da briglie, cioè traverse di cemento che servono per rallentare il flusso d'acqua. Purtroppo in questi casi la violenza è tale per cui anche opere di contenimento cedono. Forse però sarebbe stato peggio se non ci fossero state». 

Le fotografie e i video dell'esondazione fanno paura. Come non farsi prendere dall'ecoansia?

«Bisogna trasformare l'ansia in attenzione. L'ansia non serve a nulla, serve essere attenti e informati. Ovunque c'è un livello di rischio meteorologico un po' più elevato rispetto al passato, non solo in montagna. È giusto esserne consapevoli, non farsi prendere dal panico, e rimanere aggiornati. Ci basta il telefono, ce l'abbiamo tutti».

Eppure, lei stesso ha detto che l'esondazione non si poteva prevedere.

«È vero, in questo caso specifico non si poteva fare molto. Però se fosse capitato a me, che conosco questi fenomeni ed ero lì 24 ore prima, magari al primo boato avrei avuto quei 10 secondi di anticipo rispetto a chi non sapeva cosa stesse succedendo. È importante essere informati e attenti, sapendo però che non tutto si può prevedere con anticipo. Giusto guardare le previsioni meteo e tenerne conto nel momento in cui si pianifica un'uscita. Ricordiamoci però che non si può controllare tutto. Che esistono diverse categorie di rischio, come quando si va in strada. L'ansia non evita che un ubriaco in macchina ti possa investire. Ma se l'ansia viene trasformata in attenzione, magari può salvarti la vita».

Violento nubifragio a Bardonecchia, esonda il torrente Merdovine: circa 60 sfollati. Nuova allerta: "Restate a casa". Il torrente Merdovine è esondato a Bardonecchia a seguito di un violento nubifragio. Il Comune ha invitato i cittadini a restare a casa. Jacopo Romeo su Notizie.it il 14 Agosto 2023

L‘Alta Val di Susa è stata colpita da un violento nubifragio nella serata di ieri. le forti piogge hanno causato l’esondazione del torrente Merdovine e del torrente Frejus e una colata di fango e detriti è arrivata fino al centro abitato di Bardonecchia. Cinque persone risultavano disperse ma sono poi state ritrovate. Gli sfollati sono circa una sessantina.

Nubifragio a Bardonecchia, esonda il Merdovine: decine di sfollati

Nella tarda serata di ieri hanno iniziato a circolare online tantissimi video amatoriali in cui si vede la colata di fango e detriti arrivare fra le strade di Bardonecchia (Torino). Il centro abitato del paese situato in Alta Val di Susa è stato ricoperto, almeno in parte, dall’acqua che ha causato tantissimi danni. A causare la piena del torrente Merdovine sarebbe stata una frana staccatosi in alta quota in montagna: al momento risultano esserci cinque dispersi, oltre a centoventi sfollati. Questo particolare evento si chiama “debris flow” e consiste nel movimento verso valle di un’importante massa d’acqua accompagnata da detriti.

Per quanto riguarda i dispersi, le cinque persone segnalate sono poi state ritrovate dopo alcune ore di ricerche. È stato, invece, riferito che alcune auto sono state trascinate anche per 10 chilometri dall’abitato di Bardonecchia.

Il disastro durante la festa: intervengono i vigili del fuoco

A peggiorare la situazione, ci sarebbe anche il fatto che questo disatro è avvenuto proprio la sera della festa di san Ippolito, quando per le strade di Bardonecchia solitamente si radunano tantissime persone. I vigili del fuoco sono stati subissati di telefonate e richieste di intervento: la colata ha interessato anche la zona di un hotel e del commissariato di polizia di Bardonecchia.

La reazione del Comune e del Governo al nubifragio a Bardonecchia

Nel primo pomeriggio di lunedì 14 agosto, il bilancio aggiornato a seguito del nubifragio e dell’inondazione che hanno colpito Bardonecchia, è di circa sessanta sfollati. Intere frazioni, inoltre, sono senza acqua e senza luce. Saltate, poi, anche le linee telefoniche rendendo le comunicazioni con le zona interessate dal disastro estremamente complesse.

“Tecnici e soccorritori sono da ieri sera al lavoro, senza sosta, per ripristinare i gravi danni causati dalla frana che ha colpito a Bardonecchia. Al momento non risultato dispersi e ci momento ancora una sessantina di persone sfollate”. A dichiararlo è stato il sindaco di Bardonecchia, Chiara Rossetti.

Il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, invece, ha detto: “Sono in stretto contatto con il presidente della Regione Alberto Cirio che mi ha assicurato di aver già sentito il Governo tramite il ministro Tajani. Ringrazio quanti si sono adoperati e si stanno adoperando senza sosta e i numerosi residenti e turisti che in queste ore stanno offrendo la loro collaborazione”.

Sul dramma che ha colpito Bardonecchia, è intervenuto anche il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin. “Dai dati raccolti è emerso che nell’area erano già stati finanziati interventi di consolidamento e monitoraggio. Sulla base dei dati messi a disposizione dal progetto ReNDiS, infatti, nel territorio del comune di Bardonecchia risultano realizzati lavori di mitigazione del rischio idrogeologico per oltre 5,5 milioni di euro. È tuttavia un territorio con elevata pericolosità ed essendo prevista altra pioggia sarà necessario la messa in allerta della popolazione”, ha spiegato.

“Resta sotto costante monitoraggio la situazione a Bardonecchia, in Piemonte, dopo la alluvione che ha colpito l’abitato, con fanghi e detriti. Nessuna vittima, per fortuna, e alcune decine di persone sfollate. La Protezione civile e i vigili del fuoco stanno lavorando senza tregua, con la collaborazione delle Forze dell’ordine, mentre si resta in allerta per il possibile ritorno del maltempo nelle prossime ore. Inutile assicurare che il governo nazionale, per quanto di sua competenza, farà la propria parte per rimuovere le cause strutturali che hanno determinato la calamità”, ha precisato, invece, il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci.

Il Comune ai cittadini: “Restate a casa”. I residenti temono il fenomeno dello sciacallaggio

Mentre si dà il via alla conta dei danni nella zona, il meteo continua a destare timori tra gli esperti. Proprio per questo motivo, il Comune ha invitato i cittadini a rimanere in casa in attesa che gli interventi di ripristino e di messa in sicurezza giungano a compimento.

La situazione della viabilità è molto complessa dato che decine di strade sono state rese impraticabili dal maltempo. Il Comune, quindi, ha esortato i cittadini a non usare l’auto “se non in caso di necessità”.

“Oggi possibilità di temporali anche forti in sviluppo a ridosso dei rilievi o in arrivo dalla Francia con successivo transito sulle pianure”, si legge nel bollettino dell’Agenzia regionale protezione ambiente (Arpa). “Ancora instabilità in serata e nella notte per l’ingresso di aria più fresca in quota. Allerta gialla per rischio idrogeologico su buona parte della regione fino alla notte odierna”.

In attesa che la situazione si risolva, a preoccupare i residenti di Bardonecchia non è solo il maltempo ma anche gli sciacalli. Per questo motivo, carabinieri e gendarmi francesi stanno pattugliando le strade in modo tale da impedire saccheggi a case e strutture momentaneamente evacuate.

I grandi roghi che hanno aiutato a dare forma alla civiltà. Da Nerone alle Hawaii, storia degli incendi che hanno devastato il mondo: la caccia ai ‘terroristi dei roghi’. Erasmo D'Angelis su Il Riformista il 17 Agosto 2023 

Era la calda notte tra il 18 e il 19 luglio del 64 a.C. quando, dalla zona delle botteghe artigiane, sul lato del Circo Massimo, l’incendio trasformò la città eterna in un enorme falò. Fu spento solo dopo nove giorni, con migliaia di morti carbonizzati ritrovati soprattutto nei tre rioni popolari andati in fumo: Circo Massimo, Palatino e Suburra. “La catastrofe più grave e spaventosa che si sia mai abbattuta su Roma…attraverso le botteghe che contenevano merci combustibili, rafforzato e sospinto dal vento si diffuse impetuoso nelle zone pianeggianti, salì nelle parti alte, poi tornò a scendere in basso, distruggendo ogni cosa”, scrive Tacito negli Annali.

La cronaca racconta ancora roghi spaventosi come le 36 ore di fuoco che hanno appena incenerito l’isola hawaiana di Maui, il peggior incendio negli Stati Uniti dal 1918 finora con 93 morti, migliaia di edifici in cenere e una catastrofe ambientale che ricorda altre grandi città del mondo polverizzate da furiosi incendi come Costantinopoli che vide l’inferno per ben cinque volte tra il 406 e il 1204, Londra dei roghi del 1212 con il The Great Fire of Southwark e 3.000 morti e del 1666, Boston devastata nel 1872, Chicago nel 1871 con 17.000 edifici bruciati, nel 1906 San Francisco con 25.000 case bruciate con 3.000 arsi vivi, Tokyo nel 1923, Texas City nel 1947.

Ma l’incendio più celebre, non solo dell’antichità, resterà per sempre legato al nome di Nerone che per i senatori suoi acerrimi nemici lo avrebbe fatto appiccare per la sua follia e per liberare spazi urbani alla megalomania di progetti come la gigantesca Domus Aurea. Vero o falso, l’unica certezza nell’allora più grande metropoli con un milione di abitanti, erano gli innumerevoli inneschi: torce, lampade, bracieri e fuochi accesi in ogni casa con spazi interni dove ammassavano legna e fieno per i cavalli. Anche una piccola fiamma diventava incontrollabile, e i romani antichi hanno dovuto fronteggiare almeno un vasto incendio in media ogni 10 anni. Alle fiamme urbane si aggiungevano poi i colossali roghi di foreste e boschi appiccati per aprire radure e pianure per campi agricoli e urbs, e che sfuggivano di mano, portando Cicerone nel 58 a.C. a denunciare la distruzione “della foresta madre dell’Appennino”.

Ma arrivò il giorno in cui, stufi di esorcizzare le fiamme ogni 23 agosto nelle cerimonie della Volcanalia supplicando il dio Vulcanus, nel 289 a.C., istituirono i primi servizi di vigilanza e soccorso con milizie di schiavi, che nel 22 a.C. Augusto riorganizzò nel primo corpo dei vigili antincendio della storia: la Militia Vigilum Regime o Cohortes Vigilum, il cui motto Ubi Dolor Ibi Vigiles è nell’effige dei nostri eroici Vigili del Fuoco. Contava sette Coorti con 7.000 liberti, gli schiavi liberati e inquadrati militarmente e riconoscibili dalle tuniche giallo-marrone e dall’elmo di cuoio, che pattugliavano le strade pronti a intervenire con secchi, scale, asce, ramponi, zappe, seghe e coperte bagnate per soffocare sul nascere le fiamme. E utilizzavano anche tubi di cuoio collegati ai siphones, le prime pompe antincendio capaci di un getto d‘acqua fino a venti metri di distanza.

Crollato l’Imperium, l’Italia divenne per un millennio terra di conquista e un inferno di fuochi e fiamme. L’antincendio ritornò solo con le Gilde medievali, le Pie Società di Mutuo Soccorso frutto di patti tra mercanti e artigiani, ma soprattutto con il primo Corpo della Guardia del Fuoco istituito nella Firenze del 1344 che impegnava muratori, fabbri, falegnami e volontari in 4 squadre organizzate nei 4 quartieri cittadini. E dopo oltre tre secoli di incendi furiosi per le fiamme che sfuggivano anche al controllo di contadini, pastori, carbonai e legnaioli, nel 1664 furono promulgate in Toscana le prime norme che vietavano di “cocere braci o carboni” nei boschi, e l’Opera del Duomo di Firenze, proprietaria delle foreste del Casentino, concesse ai suoi guardaboschi di portare “armi offensive e difensive contro chi abbrucia” come pugnali, sciabole, picche e alabarde. Il Granduca di Toscana autorizzò anche l’uso dell’archibugio a ruota. Nemmeno la Serenissima di Venezia scherzava col fuoco, e condannava chi bruciava o segava alberi senza permesso a “Sette anni in galera, a vogar il remo con ferri ai piedi”, e nel 1676 aggiunse le sue Guardie del Fuoco composte dai facchini veneziani. Il re del Piemonte Vittorio Amedeo di Savoia nel 1630 istituì la “Reale Compagnia dei Brentatori” con 150 carpentieri, falegnami e muratori.

Roma lo fece nel 1738, attivando i Focaroli che erano muratori e falegnami. E nel 1809, Napoleone re d’Italia riorganizzando il “Corpo delle Gardepompes” in tutto l’Impero, fece nascere i primi “Corpi Pompieri” comunali di Firenze, Roma, Milano, Napoli e Torino.

Ma solo il 27 febbraio del 1939, con il Regio Decreto 3333, fu istituito il “Corpo Nazionale dei Vigili del Fuoco” con 94 “corpi” provinciali, poi smilitarizzato dalla legge 469 del 13 maggio 1961, e riorganizzato e inserito con la legge 225 del 24 febbraio 1992 nel Servizio Nazionale della Protezione Civile e poi nel Dipartimento guidato oggi da Fabrizio Curcio di cui i Vigili del Fuoco sono la principale componente operativa con circa 30.000 operatori, coordinati dal Prefetto Laura Lega. Sono loro sulla prima linea del fuoco, e li abbiamo visti lanciarsi anche contro le fiamme di questa estate superorganizzati, ma anche stremati, feriti e ustionati gravi dopo spericolati spegnimenti da terra per salvare vite umane e beni e aree verdi, supportati dalle acrobazie dei Canadair con lanci da 6.000 litri d’acqua fuori in 12 secondi.

Ma la cronaca di questi anni ci racconta come passiamo dal paradiso all’inferno in un attimo fatale, totalmente indifesi e nella totale sottovalutazione degli enormi rischi che corriamo negli anni più roventi della storia dell’Umanità. Supertecnologici e iperconnessi, continuiamo a trasportare il “paradosso di Nerone”: se è sempre chiarissima la matrice colposa e dolosa e patologica dell’innesco, restano quasi sempre senza volto gli incendiari, sia i piromani con seri disturbi mentali che i distratti o i criminali del fuoco. Perché, al tempo di satelliti spia e di telecamere spioni, di droni e geo-localizzazioni, non si becca quasi mai uno che appicca il fuoco? E per quale maledizione le fiamme devono essere alimentate anche dalla complicità di chi deve sorvegliare e prevenire e colpire, e non lo fa?

Dal 1980 ad oggi sono stati ridotti in cenere oltre 4 milioni di ettari di boschi, foreste, macchia mediterranea, vegetazione, con una media di 106.894 ettari all’anno. Non per autocombustione o fenomeni naturali come un fulmine che può capitare ma incide per circa l’1% ma, al 99% dei casi per crimini contronatura di chi è pronto a uccidere, a mandare in fumo ecosistemi secolari e ad aumentare anche i dissesti geo-idrologici perché un incendio brucia persino le radici degli alberi, rendendo sterile il suolo e aumentando lo scorrimento dell’acqua e lo smottamento di terreni.

I terroristi dei roghi, chiamiamoli così perché così è, con il loro sadismo hanno triplicato gli attacchi negli ultimi anni più tropicali, appiccando in media dal 2020 quasi due incendi al giorno. I dati satellitari dell’European Forest fire Information System mostrano le nostre aree sempre più vaste andare in fumo, e ci seguono Spagna, Grecia, Portogallo e Francia. Abbiamo alle spalle i picchi del 2017 con 160 mila ettari in fumo per 8.000 roghi, il 2021 con 110 mila ettari, il 2022 con 5.207 incendi, e dall’inizio del 2023 già oltre 59.000 ettari inceneriti, con l’aggiunta delle discariche di Bellolampo a Palermo e di Ciampino a Roma con nubi nere alla diossina sulle aree urbane.

Le cause? Un impunito ventaglio di resti non spenti di barbecue, lancio dalle auto di fiammiferi e cicche di sigarette ancora accesi, ripulitura col fuoco di incolti e scarpate stradali e ferroviarie, rinnovazione del pascolo con bruciatura di stoppie, macchinari agricoli che producono fiamme libere e scintille, lanci di petardi e razzi, lucrare su bonifiche e rimboschimenti, ritorsioni della criminalità per vendette, regolamento di conti personali tra confinanti, reazione ai vincoli sulle aree protette. E si moltiplicano gli inneschi multipli posizionati nei punti più irraggiungibili dalle squadre di soccorso ma ben conosciuti da chi appicca il fuoco quanto soffiano i venti più forti. E in un ettaro di superficie in cenere perdono la vita in media anche 400 animali selvatici tra rettili e mammiferi e 300 uccelli. È un problema anche di fronte alla ritrovata ricchezza di biodiversità della penisola con il clamoroso quasi raddoppio della nostra superficie verde rispetto all’immediato dopoguerra. Oggi alberi e vegetazione occupano un terzo della penisola, per l’esattezza 11.778.249 ettari sui 30.133.800. Incredibile, se pensiamo che solo 80 anni fa erano 5 milioni, e nel Settecento ancora meno, dopo deforestazioni amazzoniche medievali e rinascimentali.

Ma se l’Italia degli incendi è altro caso da manuale del farsi male da soli, la Sicilia martire dei roghi, dove dal 2018 sono andati in fumo oltre 200.000 ettari di superfici verdi, è la case history mondiale. Può schierare un esercito di 22.226 uomini tra dipendenti regionali, delle aziende Foreste Demaniali e gli stagionali. È quasi la metà dei 47.313 forestali italiani – in Lombardia sono 416, in Toscana 449, in Veneto 578  -, cinque volte più dei Ranger canadesi che però sorvegliano 400.000 km2 di boschi a fronte dei 3.400 dell’isola, e se in Canada c’è un sorvegliante ogni 95 km2, la Sicilia ne avrebbe uno ogni 0,136 km. Non dovrebbe permettere nemmeno l’accensione di un cerino, ma assiste impreparata all’assalto degli incendiari. Perché delle 125 torrette antincendio solo il 60% è presidiato, ma non di notte e le telecamere e foto-trappole non individuano colpevoli? Perché la manutenzione boschiva parte sempre in ritardo e strade, autostrade e ferrovie arrivano in piena estate con erba secca e alte sterpaglie ai lati? Perché i mezzi antincendio sono in gran parte obsoleti non arrivano le nuove 120 autobotti acquistate nel 2022? Come mai i piani antincendio comunali restano nei cassetti e non parte la centrale operativa?

Ma è l’Italia intera che potrebbe applicare la legge 353/2000 che stabilisce divieti e limitazioni allo sfruttamento economico dei terreni percorsi dal fuoco, e non lo fa. Il 44% dei comuni colpiti da incendi, rileva l’Arma dei Carabinieri, non ha né adottato né aggiornato il “Catasto Incendi” per censire i suoli percorsi dal fuoco. Questa “dimenticanza” guardacaso impedisce di censire i terreni da sottoporre a vincolo. Mentre la Commissione parlamentare bicamerale sulle ecomafie ha accertato oltre 250 incendi di discariche di rifiuti legali o abusive in tre anni, e la Direzione nazionale antimafia ha accertato che “si brucia per coprire altri reati” come rifiuti illegalmente stoccati. Insomma, il Nerone di turno incombe ancora.

Erasmo D'Angelis

Estratto dell’articolo di Lorena Loiacono e Angelo Paura per “il Messaggero” lunedì 14 agosto 2023

«Qui abbiamo bisogno di aiuto, dove sono i funzionari della contea? Nessuno qui ha internet e ho appena scoperto che non possiamo bere l'acqua». Josh Masslon è uno delle migliaia di sopravvissuti agli incendi di Maui che hanno devastato l'isola delle Hawaii uccidendo quasi cento persone e raso al suolo intere comunità. 

[…] Nelle zone attorno alla città che fu la capitale del Regno delle Hawaii non resta nulla, e si continuano a cercare tra le aree deserte almeno 1.000 dispersi secondo quanto annunciato dal governatore Josh Green, cercando di identificare i corpi con il Dna, visto che i cadaveri sono irriconoscibili.

I roghi che hanno colpito Maui e Big Island sono i peggiori dal 1918 negli Stati Uniti. Quelli che hanno lasciato più morti, anche se le stime dicono che i numeri saliranno in modo notevole nei prossimi giorni. 

Infatti per ora è stato perlustrato solo il 3% dell'area coinvolta. Ma le ricerche non saranno solo su terra, visto che centinaia di persone sono dovute scappare in mare per evitare le fiamme e il fumo che tra martedì e mercoledì hanno avvolto una delle aree più turistiche di Maui, a pochi chilometri dalla spettacolare spiaggia di Kaanapali. 

Una giovane donna ha raccontato di essere rimasta in acqua per oltre sei ore, tornando di tanto in tanto verso la riva per scaldarsi ed evitare l'ipotermia, prima di essere salvata dalla U.S. Coast Guard. E poi ci sono i vivi, le persone rimaste, i residenti. Si dorme nei parchi, nelle case degli amici che sono rimaste intatte. Si cerca in modo disperato benzina, una rete per poter connettersi a internet e restare informati, cibo visto che ci sono enormi parti della regione ovest dell'isola senza elettricità e i frigo e i fornelli non funzionano.

[…]  La devastazione della rete elettrica ha anche causato il malfunzionamento delle sirene di allarme, in tutto 80 quelle che si contano sull'isola, che non hanno funzionato e non hanno inviato in tempo ai residenti e ai turisti i messaggi di allerta. Intanto c'è una mobilitazione internazionale per inviare aiuti e denaro per la ricostruzione che potrebbe costare oltre 5 miliardi di dollari, secondo le stime degli ufficiali. 

Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, non esclude di fare visita a Maui. «Stiamo esaminando» la possibilità, ha detto ai giornalisti che lo hanno fermato mentre era in bici vicino alla sua casa di Rehoboth Beach, Delaware, dove sta trascorrendo il fine settimana. Biden ha dichiarato i roghi di Maui un disastro e in questo modo ha sbloccato milioni di dollari di fondi federali che serviranno per ricostruire l'isola. 

[…]  Ma ci sono anche le polemiche da parte dei cittadini delle Hawaii. Sì, perché si cominciano a vedere turisti che fanno il bagno e giocano sulle spiagge hawaiane, proprio come se nulla fosse accaduto. E si divertono sotto gli occhi della popolazione locale che, appena pochi giorni fa, in quelle acque e su quelle spiagge, ha visto morire decine di persone, amici e famigliari.

Di quelle immagini apocalittiche, che hanno fatto il giro del mondo, sembra non esserci più traccia, almeno non negli occhi dei turisti che ora sono lì a godersi la loro vacanza. «Le stesse acque in cui la nostra gente è appena morta tre giorni fa - commenta ai microfoni della Bbc una donna, originaria dell'isola di Maui - sono le stesse acque in cui, dal giorno successivo, questi visitatori stavano nuotando. Questo la dice lunga su dove si trovano, ora, il loro cuore e la loro mente e dove, invece, sono il nostro cuore e la nostra mente». «In questo momento esistono due Hawaii: le Hawaii in cui viviamo noi e le Hawaii in cui vivono loro - commentano altri abitanti ancora sotto choc - nessun hawaiano avrebbe mai nuotato, fatto snorkeling e surf in circostanze così tragiche». E ancora, sempre ai microfoni della Bbc, c'è chi aggiunge: «Nessuno può divertirsi nella tragedia e continuare la propria vita come se niente fosse».

Dichiarato stato di emergenza. Disastro Hawaii, i morti salgono a 53 ma il bilancio finale sarà “tragico e orribile”: incendi aggravati dalla siccità estrema. Redazione su L'Unità l'11 Agosto 2023 

Un bilancio sempre più grave e una situazione sempre più difficile. Le Hawaii, l’arcipelago statunitense nel Pacifico, da mercoledì fanno i conti con i roghi che stanno devastando in particolare l’isola di Maui, che conta su una popolazione di quasi 170mila persone ed è la seconda più grande delle Hawaii.

Il bilancio delle vittime ad oggi è di 53 persone trovate senza vita, ma potrebbe aumentare ulteriormente poiché il fuoco impedisce alle squadre di soccorso di raggiungere alcune zone.

Lo sceriffo della contea di Maui, John Pelletier, ha spiegato durante una conferenza stampa in cui sono stati forniti tutti gli aggiornamenti che il bilancio delle vittime sta crescendo e che alla fine sarà “tragico e orribile“

La situazione più grave è certamente quella della città di Lahaina, quasi 13mila abitanti, che nell’Ottocento fu per alcuni anni la capitale dell’allora Regno delle Hawaii. Qui le fiamme hanno distrutto praticamente l’intero centro abitato: “Lahaina, con poche rare eccezioni, è ridotta in cenere“, ha confermato il governatore delle Hawaii, il democratico Josh Green. 

Un incendio divampato già da martedì e che, alimentato dalla forte siccità e dai venti dell’uragano Dora, ha colto di sorpresa in particolare l’isola di Maui. Qui ha ridotto in cenere ettari di vegetazione arida e ha poi travolto case, negozi, uffici: le fiamme si sono propagate con tale rapidità che almeno una decina di persone hanno cercato scampo gettandosi nell’Oceano Pacifico, dove sono state tratte in salvo dalla Guardia Costiera.

Il problema più grave al momento è che nessuno degli incendi divampati sull’isola di Maui è stato ancora completamente contenuto. L’incendio di Lahaina è contenuto all’80%, quello di Pulehu, nell’area di Kihei, è stato contenuto al 70% e c’è un terzo grande rogo ancora da valutare, hanno fatto sapere i vigili del fuoco impegnati nella difficile missione. 

Il presidente americano Joe Biden ha dichiarato lo stato di emergenza alle Hawaii e ha ordinato di sbloccare aiuti federali. Soldi che saranno fondamentali non solo per la ricostruzione ma anche per fornire la prima assistenza agli sfollati. I roghi hanno lasciato “migliaia” di persone senza casa, ha detto giovedì il governatore dello Stato americano. “Avremo bisogno di ospitare migliaia di persone“, ha dichiarato Josh Green, annunciando che le autorità stavano “inizialmente cercando 2.000 camere” per soddisfare le esigenze e stavano contattando gli alberghi dell’arcipelago. Green ha anche fatto appello alla generosità dei privati in grado di ospitare gli sfollati nelle loro case.

Il ministro degli Esteri italiano Antonio Tajani ha riferito su Twitter che “gli italiani sull’arcipelago sono circa 60 e li stiamo rintracciando”, ma “le autorità Usa ci hanno confermato che tra le vittime non ci sono connazionali”. Redazione - 11 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Massimo Gaggi per “il Corriere della Sera” sabato 12 agosto 2023.

«Quando ho sentito suonare le sirene d’allarme era già troppo tardi: fiamme ovunque. Sono scappato correndo lungo strade intasate da auto in fuga: bloccate negli ingorghi. Ho corso per ore e ore con mio fratello Eduardo. Tutta la notte e la mattina dopo, perché le fiamme continuavano ad avanzare, ci inseguivano». 

Nel drammatico racconto di Marlon Vasquez, un cuoco di 31 anni arrivato nell’isola di Maui dal Guatemala all’inizio del 2022, ci sono due indizi su gravità e responsabilità di quello che, probabilmente, a ricerche completate, risulterà il più devastante incendio americano del secolo.

Fin qui il macabro primato spetta al Camp Fire che nel 2018 causò 85 vittime e spazzò via la cittadina californiana di Paradise. Ieri sera il bilancio del rogo che nell’isola di Maui ha distrutto Lahaina, l’antica capitale del regno delle Hawaii, era salito a 55 morti, ma le autorità avvertono che ci sono ancora centinaia di dispersi e che le vittime conteggiate sono solo quelle trovate nelle strade o bruciate nelle loro auto: 

nessuno è ancora entrato in ciò che resta degli edifici, in attesa che arrivino le squadre specializzate della Fema, la protezione civile Usa, addestrate e attrezzate per disastri di questo tipo.

[…] «Sembra una città bombardata a tappeto», commenta il governatore delle Hawaii, Josh Green, per il quale «i mutamenti climatici sono qui e stanno colpendo le nostre isole». Si discuterà a lungo dell’impatto del global warming: le fiamme sono state favorite dalla vegetazione rinsecchita da un lungo periodo di siccità e da venti insolitamente potenti, portati da un uragano in transito a qualche centinaio di chilometri di distanza. 

Ma la tragedia sembra essere figlia anche della trasformazione di Maui in mecca turistica, col conseguente abbandono dell’agricoltura: le piantagioni di canna da zucchero e ananas sostituite da prati di sterpaglie che nella stagione secca prendono facilmente fuoco.

Le autorità dell’isola dovranno difendersi però soprattutto dall’accusa di non aver dato l’allarme per tempo: quello che dice Marlon — sirene attivate soltanto quando le fiamme erano già ovunque — è confermato da molti altri racconti. 

A causa del rischio di uragani e tsunami le Hawaii hanno sofisticati sistemi di sorveglianza: stavolta pare non siano stati usati in modo adeguato. In alcune zone le sirene non sono state nemmeno attivate. Gli allarmi mandati via cellulare forse non sono nemmeno arrivati: il fuoco ha distrutto i ripetitori e la rete elettrica. […]

Estratto dell’articolo di Matteo Castellucci per “il Corriere della Sera” sabato 12 agosto 2023.

Si sono viste «scene da Pompei». A Maui, nelle Hawaii divorate dalle fiamme, nessuno se lo aspettava. Chi si trovava a Lahaina, l’antica capitale ridotta in cenere, è rimasto «in trappola». La chef Rosalinda Mariotti, originaria di Perugia, si è trasferita a Kihei otto anni fa dopo aver vissuto nell’Oregon. Racconta «una disgrazia così grande per un’isola così piccola». 

Com’è la situazione ora?

«Bruttissima. Il numero dei morti aumenta, momento dopo momento. Conosco persone che cercano ancora i familiari: c’è una lista nei posti di accoglienza, tutti pieni. Hanno dovuto mandare via i turisti e quelli che sono arrivati sono rimasti in aeroporto». 

Erano arrivate segnalazioni dalle autorità?

«A Lahaina non sapevano, non hanno ricevuto informazioni. Il vento e il fuoco hanno interrotto le linee elettriche, è piuttosto normale che capiti, ma lì non è più arrivato il segnale, la tv, niente. Non si era mai vista una cosa del genere. Nessuno si aspettava che un uragano così lontano facesse questi danni, nessuno era preparato. Ci sono dieci caserme, cento pompieri in tutta l’isola: non abbastanza».

Che racconti arrivano?

«La strada che collega Lahaina era piena di macchine quel giorno: non esiste più. Molti sono rimasti intrappolati, perché non avevano abbastanza benzina, l’unico altro percorso, verso Nord, è tortuoso, sono ore di auto. 

Molti che si sono buttati in acqua non ce l’hanno fatta: il mare era grosso con venti fino a 130 chilometri orari, le barche sono esplose. Le fiamme sembravano lontane, ma in due minuti ti trovavano». […]

Maui, cenere e polemiche. "Tutti gli allarmi fuori uso". Già 80 vittime accertate ma molti ancora dispersi La denuncia: "Nessuna sirena, solo passaparola". Valeria Robecco il 13 Agosto 2023 su Il Giornale.

Cenere e devastazione. È questo lo scenario che domina quello che una volta era considerato uno dei paradisi del pianeta, letteralmente polverizzato dalla furia del fuoco. Il bilancio degli incendi che hanno colpito l'isola di Maui, alle Hawaii, è salito ad almeno 80 morti, come hanno reso noto le autorità della Contea, numero che lo rende il peggior disastro naturale di sempre nella storia del 50º stato americano, superando le 61 vittime dello tsunami del 1960. E si tratta comunque di una conta provvisoria e destinata a crescere, come prevede «senza alcun dubbio» il governatore Josh Green. Ci sono infatti un migliaio di dispersi e i soccorritori non hanno ancora controllato l'interno delle case, dove molti potrebbero essere rimasti intrappolati, né terminato le ricerche in mare, dove diversi abitanti si sono gettati per sfuggire alle fiamme.

Almeno 1.418 persone sono ospitate in rifugi di emergenza, e quasi 15 mila turisti hanno lasciato l'isola, dove le autorità sconsigliano «i viaggi non essenziali». I residenti sopravvissuti, invece, cominciano a tornare a Lahaina, un tempo capitale del Regno delle Hawaii, trovando la storica cittadina praticamente rasa al suolo. E col passare delle ore stanno aumentando le polemiche sui ritardi del sistema di allerta e sulla gestione dell'emergenza da parte del governo, tanto che la procuratrice generale dello stato, Anne Lopez, ha aperto un'inchiesta per «capire le decisioni prese prima e durante gli incendi», promettendo di rendere pubbliche le conclusioni. «Abbiamo sottovalutato la letalità e la rapidità del fuoco», ha ammesso da parte sua la deputata delle Hawaii Jill Tokuda, sottolineando: «Dobbiamo assicurarci di fare meglio». Maui ha subito numerose interruzioni di corrente durante le ore più drammatiche, e il numero di emergenza 911 ha smesso di funzionare in alcune parti dell'isola, mentre le sirene degli allarmi antincendio non sono state attivate. «Non potevamo contare che sul passaparola», ha denunciato William Harry, uno dei residenti nelle aree colpite. Gli abitanti di Lahaina hanno raccontato di non aver sentito alcuna sirena e aver capito il pericolo solo quando hanno visto le fiamme. Come Thomas Leonard, postino in pensione di 70 anni, che non si è reso conto dell'incendio finché non ha sentito odore di fumo.

Intanto la Fema, l'agenzia federale Usa per la protezione civile, stima che saranno necessari 5,5 miliardi di dollari per la ricostruzione, con oltre 2.200 immobili che sono stati danneggiati o distrutti. I pochi che hanno avuto la fortuna di ritrovare l'abitazione intatta, invece, non la vogliono più lasciare temendo gli sciacalli, nonostante il rischio che sia insicura e con acqua contaminata. Per aiutare gli abitanti è partita una gara di solidarietà, e il fondatore di Amazon Jeff Bezos e la sua fidanzata Lauren Sánchez hanno già annunciato che doneranno 100 milioni di dollari. «Jeff e io abbiamo il cuore spezzato per quello che sta succedendo a Maui - ha scritto Sánchez su Instagram - Stiamo creando un Fondo e dedicando 100 milioni per aiutarla a rimettersi in piedi ora e nei prossimi anni». Al momento degli incendi, a Maui c'erano anche 60 italiani, e il ministro degli Esteri Antonio Tajani venerdì ha spiegato su X: «Li stiamo rintracciando. Le autorità statunitensi ci hanno confermato che tra le vittime non ci sono connazionali». Tra di loro, chi continua a cercare amici e conoscenti di cui non ha notizie, chi aspetta di fare ritorno nella propria casa per vedere cosa ne è rimasto. E tra i turisti, il 48enne Emanuele Gallozzi, manager di un'azienda digitale a Milano in vacanza alle Hawaii con la fidanzata, spiega che lui si trova ad Honolulu, ma «il dolore e l'apprensione per quanto accaduto coinvolgono l'intero arcipelago, così come la mobilitazione per i soccorsi».

In sei mesi il clima costa 200 miliardi. Redazione su L'Identità il 5 Agosto 2023 

di CLAUDIA MARI

194 miliardi di dollari.

Questa la stima dell’ammontare delle perdite causate dai disastri naturali a livello globale, calcolate nel primo semestre del 2023. Questi sono i dati che emergono dal report Global Catastrophe Recap: Fist Half of 2023 diffuso da Aon. Si tratta di una cifra che supera la media del primo semestre del XXI secolo, che è pari a 128 miliardi di dollari, e si attesta come la maggiore dal 2011 e la quinta più alta mai registrata. In particolar modo, in questa prima parte dell’anno, a far salire la cifra sono stati i terremoti in Turchia e in Siria che hanno registrato perdite economiche pari a circa 91 milioni di dollari.

Un disastro naturale costoso di vite umane ma anche di denaro, tanto da diventare il disastro globale più letale dal 2010 e il più costoso nella storia moderna per i due Paesi. Un evento catastrofico che ha causato perdite nell’area EMEA (Europa, Medio Oriente e Africa) senza precedenti, ovvero pari a 111 miliardi di dollari. Un record, considerando che la cifra più alta era stata (per il primo semestre) quella stabilita nel 1990 quando erano stati calcolati danni per 71 miliardi di dollari. Terremoti a parte, anche se davvero costosi, a far alzare la soglia delle perdite a livello globale sono state le tempeste collettive gravi (SCS) che si sono abbattute sugli Stati Uniti. Nella prima metà dell’anno, l’attività di SCS negli Stati Uniti è stata responsabile di almeno 13 eventi individuali da un miliardo di dollari e di 35 miliardi di dollari di perdite assicurate totali preliminari, stabilendo un nuovo record per il primo semestre.

Dall’Asia, alle Americhe, passando per l’Europa, le catastrofi naturali hanno colpito anche il vecchio continente, facendo registrare, anche qui, grosse perdite. In Italia, soprattutto, non possiamo non ricordare l’alluvione che ha colpito a maggio l’Emilia-Romagna “Nei primi mesi dell’anno si sono verificati anche nel nostro Paese eventi climatici estremi dalle conseguenze molto severe”, ha commentato Pietro Toffanello, amministratore delegato di Aon Reinsurance Italia. Tofanello, poi, riporta anche i dati riguardanti la nostra penisola, per nulla rassicuranti: “Da uno studio realizzato dal Disaster Risk Management Knowledge Centre del Joint Research Centre della Commissione europea (Vulnerability to Disasters in Europe. A 30-year analysis of the vulnerability of European countries. Risk Data Hub – October 11, 2022) è emerso come l’Italia sia tra i paesi più vulnerabili alle catastrofi naturali in Europa, con la Calabria tra le regioni più fragili dello Stivale” dice.

“Diventa quindi sempre più urgente avviare una stretta collaborazione tra i diversi soggetti coinvolti, dalle istituzioni al comparto assicurativo, per la salvaguardia ambientale e sociale del nostro Paese e di quelli più fragili, attraverso iniziative per la tutela dei territori” conclude.

I piccoli cicloni. Che cosa sono le Supercelle, il fenomeno temporalesco tipico degli Usa che si è abbattuto sul Nord Italia. Piccoli cicloni tipici della Tornado Alley, si sono diffuse anche nell'area del Mediterraneo a causa dei cambiamenti climatici. Redazione Web su L'Unità il 26 Luglio 2023

Sono piccoli cicloni, fenomeni tipici delle pianure degli Stati Uniti. Si sono diffusi dalla fine degli anni Novanta anche nell’area del Mediterraneo a causa dei cambiamenti climatici. Gli esperti hanno parlato proprio di supercelle a proposito dei violenti nubifragi che si sono abbattuti nei giorni scorsi nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia e Friuli Venezia Giulia. Ben tre supercelle si sono create ieri a su Milano, Verona e Venezia.

Le supercelle temporalesche durano poco tempo. Quando si stanno formando il cielo si oscura in pochi minuti. Sono imprevedibili e intense, in grado di arrecare gravi danni a infrastrutture e coltivazioni. Al loro interno si creano una corrente ascensionale in rotazione dove convivono masse d’aria calda e fredda e nubi a muro. I venti che salgono in quota ruotano in senso orario. Rispetto ai normali temporali, il vento tende a intensificarsi. Al loro interno si forma una zona di bassa pressione definita mesociclone. L’aria che entra dal basso alimenta il temporale e il moto con tagli di vento.

Il fenomeno può spostarsi a velocità che arrivano anche a 150 chilometri orari su una superficie anche di 60 chilometri – un singolo temporale ha di solito la larghezza di un chilometro. Possono essere alti fino a dieci chilometri. Le raffiche di vento che scaricano sono definite in gergo downburst: correnti discendenti che escono dal sistema con moto orizzontale.

Le supercelle sono ricorrenti soprattutto nella Tornado Alley, l’area che si trova tra i fiumi Mississippi, Ohio e Missouri. Sono state decodificate dagli scienziati americani Horace R. Byers e Roscoe R. Brahams. Si differenziano in High Precipitations (HP) e Low Precipitations (LP) a seconda della quantità di precipitazioni che scaricano a terra. Possono formare dei tornado o intensi temporali capaci di scaricare a terra grandi volumi di pioggia e grandine anche di grandi dimensioni in un piccolo lasso di tempo – la media va dai 15 ai 30 minuti – prima di spostarsi.

Sono imprevedibili, avvertiti dal cielo che si oscura o da richiami di aria calda o da un rafforzarsi del vento. Nel caso delle violente precipitazioni che hanno colpito il Nord Italia: gli anticicloni Cerbero e Caronte hanno fatto accumulare così tanto calore e umidità nei bassi strati sulla Pianura Padana che al primo contatto con aria fredda le supercelle hanno scatenato copiosi nubifragi con grandine e trombe d’aria. Così come successo nei giorni scorsi le perturbazioni sono così potenti da far cadere o sradicare alberi, allagare strade e sottopassaggi, danneggiare edifici e infrastrutture, distruggere coltivazioni.

Come ha spiegato a Repubblica Marcello Miglietta, dirigente di ricerca dell’Istituto di Scienze dell’Atmosfera e del Clima, nella pianura Padana il fenomeno si è scatenato con grande potenza per il sussistere di tre condizioni specifiche: il vento caldo secco che scende dagli Appennini si scontra con l’aria più fredda del Nord e quella più calda umida in arrivo dal mare Adriatico. Se negli ultimi anni si è verificato più spesso è per le ondate di calore e l’aumento delle temperature del mare che portano alla formazione di più energia.

Redazione Web 26 Luglio 2023

Fuoco, ghiaccio e vento: l'Italia spaccata in due. Soltanto 1500 chilometri dividono Palermo da Milano, ma gli scenari sono completamente diversi. Da una parte il caldo africano e gli incendi hanno messo in ginocchio la Sicilia occidentale, dall'altra Milano, investita questa notte da un nubifragio. Gabriele Cappi e Emanuele Fragasso il 25 Luglio 2023 su Il Giornale.

Guardando le foto e i video sembra di essere in due punti diversi del mondo: da una parte Palermo che oggi ha toccato punte di 48 gradi, dall'altra Milano, che nella notte è stata investita da un potente nubifragio. Soltanto 1500 chilometri dividono le due città, ma la differenza è abissale.

Palermo più calda del Sahara

Nelle ultime 72 ore il capoluogo della Sicilia è stato investito da un tremendo aumento delle temperature. Un assist vincente e irrinunciabile per i piromani che hanno appiccato diversi incendi in alcune zone verdi della Sicilia occidentale. Le prime fiamme sono state viste a Monreale, all'altezza dell'abbeveratoio e del cimitero comunale. In poche ore quello che era un piccolo focolaio si è ampliato, per merito anche dello scirocco. Dopo non molto l'intero monte Caputo, polmone verde della cittadina normanna e di Palermo era in fiamme.

In città l'aria è irrespirabile, nelle zone di Palermo più vicine alla discarica di Bellolampo e a Monte Pellegrino c'è una continua e insistente puzza di bruciato. I molti turisti che in questa stagione visitano Palermo sono rimasti terrorizzati. "Siamo venuti fin qui dall'Irlanda - confessa a ilGiornale.it una turista - per ammirare le meraviglie della città araba-normanna e per fare qualche bagno nella suggestiva Mondello e nella Riserva naturale di Capogallo. Alla fine però siamo rimasti chiusi in casa per due giorni. Mai in vita nostra abbiamo visto una scena simile. ieri sera (24 luglio n.d.r) sembrava di essere all'inferno. Alloggiamo vicino Mondello e abbiamo visto tutta la montagna infuocata sembrava un vulcano".

L'emergenza non si è fermata soltanto a Palermo e alle sue province più vicine. Nelle ultime ore anche la provincia di Trapani è stata data alle fiamme dai piromani. A San Vito Lo Capo - paese che in questo periodo si riempie di turisti per le sue acqua cristalline - sono stati appiccati più incendi in diversi punti strategici, così che le fiamme potessero diffondersi con più facilità. Migliai di turisti hanno passato la notte chiusi in casa con le fiamme a poche centinaia di metri dalle loro abitazioni. Oltre 400 persone sono state evacuate e mandate nel Teatro comunale. "Scene da film horror - dice un turista sanvitese a ilGiornale.it - ero uscito con la barca per ritirare le reti e dopo poco tempo davanti a me ho visto l'inferno. L'acqua era diventata rossa perchè rifletteva le fiamme, sembrava di stare sullo Stige".

Milano dilaniata dal nubifragio

Se Palermo brucia Milano e la Lombardia sono alle prese con bombe d’acqua, vento, grandine e alberi sradicati. Il capoluogo lombardo si è risvegliato in uno scenario da campo di battaglia. Le strade, i cortili, i garage invasi da acqua frasche e detriti. Strade bloccate da alberi caduti e giardini pubblici inagibili. Tutto frutto del breve ma violento nubifragio che si è abbattuto su Milano e zona settentrionale della Brianza intorno alle quattro di notte. I vigili del fuoco stanno lavorando ininterrottamente per provare a riportare la normalità e rimuovere alberi e rottami che mandano in tilt le arterie della città.

Nessuna zona è stata risparmiata, da via Pacini zona Lambrate, passando per Bande Nere fino al parco Sempione lo scenario è il medesimo. Tronchi rovesciati e immense pozzanghere guadate da sparute moto che riescono a sgusciare il traffico completamente bloccato. Disagi per i passeggeri dei mezzi pubblici ammassati alle banchine aspettando bus e tram che non passeranno. Alberi e rami caduti hanno infatti tranciato cavi aerei dei mezzi. L’Atm, tramite i suoi canali ufficiali, ha informato che ci sono ritardi e cancellazioni per autobus, tram e filobus.

Il sindaco Beppe Sala, in un video pubblicato sul suo profilo Instagram, ha fatto il punto della situazione, dichiarando: “Abbiamo vissuto una notte insonne. Solo per dare un'idea, il vento in città ha superato i 100 chilometri all'ora, dalle quattro del mattino siamo al lavoro con i tecnici del comune sono personalmente al lavoro per coordinare le attività allo scopo di limitare i danni derivanti dal nubifragio che ha colpito la nostra città. Da subito vigili del fuoco, protezione civile e agenti sono intervenuti a fronte delle centinaia di richieste. Ora, se le metropolitane funzionano regolarmente e discreto è il servizio dei bus, è estremamente problematica la situazione per tram e filobus". Milano, quindi, riparte con un meteo che sembra, per ora, dare un po' di respiro alla città e la provincia.

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per “Il Foglio” lunedì 31 luglio 2023.

Al Festival di Giffoni, dedicato ai giovani, una bella ragazza con tono accorato e sincero si dice affetta da ecoansia, esordisce così, […] poi piange al microfono, dice che la terra brucia, che la sua Sicilia brucia, che sente di non avere un futuro, che non vuole avere figli, che non sa niente del clima ma non capisce come si possa pensare a un orizzonte di dieci, quindici anni, e piange ancora, rivolta al ministro dell’energia Pichetto Fratin, alla platea commossa, e infine gli domanda se non abbia anche lui paura del futuro per i suoi figli e per i suoi nipoti.

Il ministro che fa? Piange anche lui, parla del dubbio che sarebbe la sua forza, chissà, esita, gigioneggia, forse la ragazza ha ragione, s’intende a visionare il clip, anche lui ha paura per figli e nipoti, anche lui ha ecoansia, e s’interrompe, la voce si incrina, poi la recita collettiva, il coro tragico di Giffoni, finisce su un tono di demoniaca stupidità collettiva, di emozionalismo sensazionalista. 

Che vergogna, che profondissima vergogna. Ci sarebbe da fare una class action contro l’Onu, l’ebollizione di quel Guterres, contro chi nasconde gli incendiari sotto lo scirocco, contro i giornali di merda, contro le tv di merda, contro un’atmosfera demenziale e criminale di incitazione alla paura, contro gli influencer dell’apocalisse, contro chi trasforma luglio nell’inferno dantesco […]

[…] mentre professoroni e premi Nobel che dissentono vengono presi per mattocchi, e si fa l’elogio della “maestà del potere che ridenomina le cose”, le imbruttisce, le rende idolatricamente testimoni del fallimento del mondo, e intanto l’anticiclone africano se ne va, torna il sogno delle Azzorre, fa meno caldo, come sempre avviene e è avvenuto al passaggio dal solleone alla prima rottura dei tempi, l’uomo c’entra niente, meno di zero, è una canna che ha smesso di pensare (come direbbe un orripilato Pascal) e la CO2 che è in natura e sparacchia le sue cartucce climatiche come le pare diventa un mostro spielbergiano, un ritrovato commerciale green che mette ecoansia, cresce una generazione di frustrati del clima, si diffonde la nevrosi o sindrome di Greta Thunberg.

Ministro Fratin […] Che fa, si mette anche lei sulla scia dei guru del green washing, di quell’apparato tecnico-scientifico universale che è molto peggio del complesso militare-industriale? Alla ragazza doveva rispondere che comprendeva i suoi sentimenti, ma a ciglio asciutto, perché ci vedeva il riflesso di un idolo dei nostri tempi, l’opinione, la fuffa, la chiacchiera, e che forse avrebbe dovuto pensare alla storia, all’Ucraina, ai pericoli veri che corre l’Europa, doveva farsi un’iniezione di spirito cosacco, reggere botta come fanno gli eroi, dissipare la paura con uno sforzo di conoscenza, altro che questo insopportabile chiagni e fotti […]

Ci sono tante cose su cui piangere, compresi gli incendiari, e tanti fenomeni climatici allarmanti da arginare con la cura del territorio, il riparo di sempre dall’acqua e dai fenomeni elettrici, invece di piangere su un incubo collettivo, su un pensiero dominante obbligatorio, su una palese manifestazione di sostituzione stupida della menzogna alla realtà. 

Si tiri su, caro ministro. La sua colpa è inesistente. Se c’è, è la colpa di compiacere l’ecoansia per figli e nipoti che se la caveranno senza di noi, senza il pettegolezzo climatico ossessivo, senza Crisanti, senza incendiari annidati al limite dei boschi e delle redazioni di giornale.

Ecco la Compagnia di giro dell’eco-ansia. Fabio Dragoni l'1 Agosto 2023 su Culturaidentita.it

Giorgia Vasaperna piange perché ha l’ansia. Anzi l’eco-ansia. Giorgia fa l’attrice. Durante il Giffoni Film Festival scoppia in lacrime. Vedere la sua Sicilia in fiamme le crea un’ansia insostenibile per il suo futuro. È un circo che non finisce mai di stupirci, come fa notare la brava Allegra Bonomi su twitter. La capitana Carola Rackete sperona la motovedetta della finanza ma sotto processo finisce Salvini. La sardina Santori in consiglio comunale a Bologna è angosciato dalle oche. Soumahoro deputato si presenta con gli stivali a Montecitorio. Ma qualcuno nella sua famiglia faceva affari con l’immigrazione incassando 62 milioni in 15 anni su 23 progetti. Patrick Zaki non spiccica una parola di italiano e fa di tutto per non stringere la mano al Presidente del Consiglio Giorgia Meloni che più di ogni altro si è ovviamente speso per liberarlo. Patrick si è subito dichiarato pronto a scendere in politica. Chissà con chi. Ci mancherebbe cose che ci stanno. A destra non ne sentiranno la mancanza. Infine l’attrice che piange e che fa giustamente l’influencer. E che pubblicizza un orribile rossetto nero. Qualche maligno fa giustamente notare che l’eco-ansia per l’anidride carbonica emessa nei viaggi necessari a far viaggiare il prodotto da lei reclamizzato, durante quelle pubblicità non traspariva. Così come non traspare nessuna eco-ansia per l’anidride carbonica emessa ogni volta che dal suo blog parte una mail. Il bravo Carlo Cambi si mette a fare di conto: “Chissà se qualcuno le ha mai spiegato che gestire un blog inquina. Giocare coi telefonini inquina di più che allevare le vacche. Ogni giorno si inviano nel mondo 350 miliardi di mail. Ognuna di queste pesa 20 grammi in termini di CO2 emessa. Moltiplica tutto per 365. Ottieni l’inquinamento totale dell’Europa e te ne avanza”. Il ministro Pichetto Fratin a sua volta si commuove davanti all’attrice. Rimane da capire se fosse serio o pure lui stesse recitando. Avrebbe forse dovuto abbracciarla e rincuorarla: “non saranno le scoregge delle vacche a cancellare un pianeta con oltre 4 miliardi di anni di età. Qualcosa cancellerà il pianeta. Ma non quelle scoregge”. Fabio Dragoni

Ci mancava solo la fascioansia. Francesco Maria Del Vigo il 6 Agosto 2023 su Il Giornale.

Le parole sono lo spirito dei tempi, il termometro che segna la temperatura di ebollizione della nostra società. E, in questo caso, la metafora meteorologica è più che mai pertinente. Il termine più in voga al momento è «ecoansia». Ne parlano tutti, dai giovani lacrimevoli a favor di telecamera alla stampa col sopracciglio perennemente inarcato, fino al presidente della Repubblica. L'ecoansia va talmente di moda che, alla mutua del sanitariamente corretto, è l'unica malattia che tutti si autodiagnosticano e millantano di avere. Perché «la profonda sensazione di disagio e di paura che si prova al pensiero ricorrente di possibili disastri legati al riscaldamento globale e ai suoi effetti ambientali» (Treccani dixit) è ormai un fiore all'occhiello del mondo radical, una pochette variopinta da imbustare nel taschino della mimetica degli ambientalisti militanti.

Ma, siccome pure la politica è tracimata nella medicina, noi, sommessamente, ci avventuriamo nella definizione di una nuova preoccupazione che vediamo agitarsi financo più spesso dello sopraccitate paturnie: la fascioansia. Cioè il timore irrazionale dell'arrivo di regimi morti e sepolti da più di settant'anni, timore - in alcuni casi - elevato a motivo della propria esistenza sociale. Pensateci bene: è ovunque e, ancora più dell'ecoansia, non ha alcun motivo d'esistere: perché, almeno dalle nostre parti, la democrazia gode di ottima salute.

Ma facciamo solo qualche numero, attingendo dal mondo culturale di riferimento della galassia progressista e dei salottini radical chic. Dal primo giugno a ieri, 5 agosto, su Repubblica il termine fascista è stato utilizzato 102 volte, fascismo 90, fascisti 50; sulla Stampa rispettivamente 54 volte, 53 e 30; sul Domani 41 volte, 35 e 25. Per non parlare degli innumerevoli allarmi lanciati quotidianamente da decine di esponenti del Partito Democratico, di Sinistra Italiana, del mondo dei centri sociali e dell'antagonismo, degli attori, degli scrittori e dei cantanti engagé e ovviamente dell'Anpi che, a differenza degli altri, nell'antifascismo in assenza di fascismo ha dichiaratamente il suo core business. E poi centinaia di eventi, libri, conferenze e manifestazioni. Il ritorno delle squadracce nere è un'ansia talmente insopprimibile che i più audaci agguantano forchettone e coltello e si attovagliano per una pastasciutta antifascista: secondo l'istituto Cervi sono addirittura 220 all'anno. Dal partigiano al parmigiano.

Ditemi voi se non è un'emergenza questa, se non merita anch'essa - la fascioansia - una voce nel dizionario delle ossessioni che agitano come un elettrostimolatore le nevrosi della nostra società? Perché si staranno sciogliendo i ghiacci ma, ancor di più, si è liquefatto il buonsenso e purtroppo non è ancora in commercio un ansiolitico che plachi i timori di dittature inesistenti.

Chi appicca un incendio in Italia resta impunito. I roghi degli ultimi 15 anni hanno distrutto 850 mila ettari di verde: una superficie grande come L’Umbria. Ma i condannati sono pochissimi. E quasi tutti i responsabili sfuggono alla legge. Paolo Biondani su L'Espresso il 7 Settembre 2023  

Boschi di Cantalice, provincia di Rieti, 23 agosto. I carabinieri forestali sono in emergenza. Nel pomeriggio è scoppiato un incendio di «chiara matrice dolosa», che sta diventando sempre più ampio e pericoloso. Queste verdi terre dell’Alto Lazio sono già state colpite in passato da più roghi, ripetuti nel tempo. La zona è sorvegliata dai militari, che hanno anche nascosto foto-trappole nei punti di passaggio. Prima di sera un uomo di 55 anni viene sorpreso mentre sta appiccando altre fiamme sul ciglio della strada, vicino a cumuli di foglie e legna secca. Ha l’accendino ancora in mano, quando viene arrestato in flagranza di reato. I Vigili del Fuoco riescono a spegnere l’incendio solo a tarda notte, dopo ore di lavoro tra rovi e tronchi carbonizzati. A quel punto si scopre che l’arrestato era già stato denunciato dai carabinieri più volte, in questi anni, come presunto responsabile di precedenti «incendi boschivi». Eppure non si è fatto problemi a riaccendere il fuoco tra le querce secolari dei Monti Reatini. 

«Casi del genere purtroppo sono l’assoluta normalità: la lotta contro gli incendi in Italia non funziona, le sanzioni penali vengono minacciate, ma non eseguite, se non in pochissimi casi, per cui non spaventano nessuno», commenta l’avvocato Stefano Deliperi, l’esperto di diritto ambientale che da anni difende il territorio italiano con il Gruppo d’Intervento Giuridico (Grig). «Prima di tutto, i responsabili degli incendi devono essere scoperti, identificati e denunciati. Ma le indagini sono molto difficili, anche perché il fuoco si accende in un istante e brucia tutto, compresi i possibili indizi. Nei rari casi in cui gli inquirenti sono talmente bravi da trovare prove certe, poi bisogna fare i processi, con tre gradi di giudizio, e arrivare a una condanna definitiva prima della scadenza dei termini di prescrizione: in Italia, per i reati ambientali, è un’impresa quasi impossibile. Quindi i condannati sono pochissimi. E molti dei colpevoli riconosciuti, sotto i quattro anni di pena teorica, restano fuori dal carcere, in affidamento ai servizi sociali. Finisce davvero in prigione solo chi subisce condanne più severe, ma con i vari benefici di legge spesso ci resta per pochi mesi. Non ricordo nessuna condanna definitiva a più di sei anni per un incendio boschivo». 

La crisi generale della giustizia italiana, dunque, garantisce una quasi totale impunità anche per chi brucia i polmoni verdi della nazione. I dati raccolti da L’Espresso confermano che i detenuti per il reato di incendio boschivo sono pochissimi, in rapporto all’enormità delle aree distrutte dal fuoco. Quest’anno, dal primo gennaio al 23 agosto, in Italia sono bruciati 64 mila ettari di verde. In tutte le carceri, alla data del 21 agosto scorso, c'erano 23 accusati di incendio boschivo: 20 condannati (almeno in primo grado), 3 arrestati in attesa di giudizio, secondo i dati ufficiali del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. 

Quasi tutte le indagini per questo reato vengono condotte dai carabinieri, che dal 2016 hanno assorbito anche l’ex Corpo Forestale: nel corso del 2022 i militari dell'Arma hanno effettuano 31 arresti per incendi boschivi. A fine anno (31 dicembre 2022), però, restavano in cella solo 18 detenuti, tutti già condannati (almeno in tribunale). Questo significa che quasi metà degli arrestati sono tornati liberi poco dopo il fermo, in attesa di un processo futuro, o addirittura hanno già espiato per intero una pena ridotta, grazie al patteggiamento o altri benefici processuali. 

Da notare che queste cifre riguardano il nuovo, grave reato di «incendio boschivo» (articolo 423 bis), introdotto nel gennaio 2022 dal governo Draghi (mentre l’attuale esecutivo ha annunciato solo qualche ritocco, ben pubblicizzato) in risposta alla catastrofe dell’anno precedente. Nel 2021 in Italia sono stati inceneriti oltre 169 mila ettari di verde: lo 0,5 per cento del territorio nazionale. Gli incendi più gravi hanno devastato la Sicilia (con roghi in oltre il 60 per cento dei comuni) e la Calabria (con 235 centri colpiti). Nello stesso anno, secondo una ricerca di Legambiente, si sono contati solo 16 arresti con l’accusa di aver bruciato boschi (che rientrava ancora nel reato generico di incendio). 

Di qui, la stretta normativa: un nuovo reato punito con pene più severe, da 4 a 10 anni di reclusione, con via libera alle intercettazioni e indagini più approfondite. Già nel 2022, come si è visto, gli arresti sono raddoppiati. Ma le fiamme hanno continuato a devastare altri 68 mila ettari di boschi e campagne. Nei primi otto mesi di quest’anno ne sono già bruciati quasi altrettanti. E le regioni più colpite, ancora una volta, sono la Sicilia, dove si concentra il 72 per cento delle aree incendiate nel 2023, e la Calabria, con il 17 per cento del totale. 

Negli ultimi 15 anni, in Italia, il fuoco ha distrutto più di 850 mila ettari di verde, una superficie equivalente all’intera Umbria. Per misurare il livello d’impunità, si può ipotizzare che ogni incendiario riesca a bruciare dieci ettari di boschi (una media aritmetica ricavabili dai dati); a conti fatti, il rischio di arresto si concretizza per una quota minima di colpevoli: meno di uno su mille. 

Secondo uno studio dell’Ispra, meno del 2 per cento dei roghi è dovuto a cause naturali, come fulmini o eruzioni. Ancora più rari sono i casi di veri piromani, coartati da patologie psichiche. Quindi c’è un problema gigantesco di criminalità ambientale. I carabinieri forestali continuano ogni giorno a fare indagini e controlli, con oltre 800 stazioni sparse sull’intero territorio nazionale, e con le nuove norme riescono a identificare molti più indagati: nel 2022 il numero delle persone denunciate alla magistratura per il reato di incendio boschivo è salito a 570. Poi però iniziano i procedimenti giudiziari, lentissimi e cavillosi. Molti roghi vanno classificati come colposi, almeno secondo le difese, cioè non volontari, ma provocati da imprudenza, negligenza, disattenzione: la sigaretta accesa, la grigliata spenta male, il falò nei campi dopo la potatura, che in periodi di siccità hanno comunque effetti disastrosi. Gli incendi dolosi, cioè volontari, sono circa la metà del totale: tra il 40 e il 60 per cento, secondo le stime degli esperti. Ma molti casi, almeno stando alle versioni degli accusati, ricordano i delitti preterintenzionali: il contadino o il pastore volevano bruciare solo un’area limitata, per fare spazio alle coltivazioni o al bestiame, ma il fuoco è andato oltre le intenzioni, diventando incontrollabile. In casi come questi, è difficile che il giudice di turno imponga il carcere. A rischiare l’arresto, quindi, sono soprattutto gli incendiari di stampo criminale che agiscono per interesse, speculazione, vendetta, minaccia, intimidazione di stampo mafioso. I professionisti dei roghi, quelli che è più difficile identificare. 

In questa situazione, l’avvocato Deliperi continua da anni a documentare casi plateali di «recidiva specifica», in particolare in Sardegna, una delle regioni più danneggiate. Il 2 agosto scorso, nella zona di Oristano, viene arrestato per un rogo R. A., 66 anni: ora è accusato di essere l’autore di almeno sei incendi. Nell’estate 2021 è finito in carcere G. F., 53 anni, algherese: secondo la procura di Sassari, ha tentato per otto volte di bruciare la pineta sulle dune di Maria Pia, anche mentre la spiaggia era affollata di bagnanti. Resta per ora insuperato il record di un muratore di 44 anni, L. L., che fu arrestato in flagranza nei boschi di leccio del Linas, con il cerino in mano, e condannato a quattro anni dal tribunale di Cagliari: era sospettato di essere l’autore di ben 63 incendi. 

Ma allora, se nemmeno il rischio della galera basta a fermare i roghi, dobbiamo rassegnarci a un’Italia in fiamme? Secondo l’esperto del Grig, un rimedio rapido ed efficace ci sarebbe: «Un Daspo ambientale. È una misura amministrativa, prevista fin dal 1989 contro le violenze negli stadi e dal 2018 anche contro il degrado urbano, che permette al questore di tenere lontane alcune persone da certi luoghi. La Corte costituzionale, nel 2002, ha stabilito che è una misura di prevenzione, quindi non è necessario provare in un processo la commissione di un reato, purché esistano fondati sospetti. Gli incendiari sono legati a un contesto, dove distruggono natura, abitazioni, attività lavorative: bisogna allontanarli dal territorio minacciato per un congruo periodo di tempo. Basterebbe un provvedimento simile al vecchio “foglio di via”. Gli attentati all’ambiente, e al patrimonio culturale, dovrebbero essere un campo privilegiato per l’adozione di nuove misure di prevenzione».

L’estate d’inferno della Sicilia. Gli incendi, l’incuria e il crimine. Gli aeroporti chiusi e al collasso, i turisti in trappola nell’isola. I blackout, l’acqua che manca. Lasciando solo l’ombra della dignità. E lo scioglimento del patto sociale. Il racconto della scrittrice catanese. Elvira Seminara su L'Espresso il 31 Luglio 2023

Altro che letteratura. Innanzitutto la pietra scotta. Mentre cammini ti brucia le suole con cinica e sorda lentezza, e ti soffia addosso dai muri, in faccia, un fiato caldo malefico che esala dai capitelli, dai fregi barocchi, dai puttini sotto le zanzare, e tutto arde e crepita, feroce e incurante, in un silenzio strano, rotto adesso da un urlo confuso, forse richiesta d’aiuto o un lampo di euforia, perché siamo in centro – piazza Duomo, Catania, 44 gradi – e solo qualche tedesco e un gruppetto di americani, riusciti fortunosamente ad arrivare, hanno l’ardire di uscire in strada rischiando un colpo di sole.

O forse no. Sono rimasti prigionieri qui, per questo imprecano con gli occhi spersi. Intrappolati, perché l’aeroporto di Catania è ancora chiuso per l’incendio, quello di Palermo è minacciato dalle fiamme che assediano l’hinterland della città, e per raggiungere quello di Trapani ci vogliono più di 5 ore in bus, a parte le file nel sole che frigge.

Altro che letteratura. Dimenticate i sogni che la pietra nera nutre e raddensa secondo il gran catanese Vitaliano Brancati, e le gaie scorribande in queste vie di Goliarda Sapienza, e le estati riarse ma vive delle lande verghiane, qua siamo nell’anno 2023 dell’Epocalisse, e questo è il regno della lava, la pietra che scotta di più, perché serba il calore a lungo e lo rilascia sadicamente piano.

Lui sì l’ha detto benissimo, Tomasi di Lampedusa: «Nevica fuoco come sulle città maledette della Bibbia». Le sirene delle ambulanze fanno da esatta colonna sonora, assieme a quelle, farneticanti, degli antifurto di case e auto impazzite per il tilt. Mentre colonne di fumo, e nuvole nere, si alzano e mischiano in cielo.

L’estate che sciolse ogni cosa, nel fortunato romanzo di Tiffany McDaniel, in effetti era opera di un demonio. Dev’esserci, in tutto questo, lo zoccolo del diavolo, se, come dicono amministratori pubblici e portavoce delle aziende di luce e acqua, il calore ha bruciato come per maleficio i cavi elettrici nel sottosuolo e dunque inibito la diffusione idrica.

Tant’è: i superstiti in piazza si lavano la testa e i piedi nella fontana dell’Amenano, che appunto scorre occulto sotto terra, ma è un labilissimo rito propiziatorio. I più audaci – tre ragazzi, qualche giorno fa – si sono immersi nudi alla fonte, generando scandalo e anatemi, rafforzati dal fatto, evidente, che il fanciullo in marmo dell’Amenano ha una foglia sulle pudenda, e l’esempio doveva dissuaderli. O no?

Frammenti e scaglie di narrazioni sciolte. O liquefatte. La città scorre e si apre come un portale sinistro e vertiginoso, dove l’horror, come nei migliori romanzi, non si vede. Lo spavento è dietro le porte chiuse. Nascosto dai muri roventi. Tra le famiglie barricate in casa, dove da giorni sono muti i frigoriferi, i ventilatori, i condizionatori, e non puoi nemmeno caricare il cellulare o il computer, perché manca la luce o arriva a tratti. Dove non puoi, a 40 gradi, nemmeno farti la doccia: manca anche l’acqua. L’angoscia sale dietro le saracinesche chiuse degli alimentari, bar e ristoranti dove non puoi esercitare senza acqua e/o frigorifero, tra le sale dei parrucchieri e i lidi. Mentre i cantieri vengono sospesi, e gli animali e i campi crepano di arsura.

Ecco: conta fino a 45 gradi, togli elettricità e acqua e vedi cosa resta. L’ombra della dignità. Lo scioglimento del patto sociale. Frantumazione della sicurezza.

Tutto questo, ti dici, l’ho già visto. Le risse in strada per inezie, gli ospedali presi d’assalto e con gli impianti a rischio, i roghi lungo le autostrade. I boschi in fiamme, la spazzatura a mucchi. Un déjà-vu. Questi paesaggi li conosciamo, li abbiamo percorsi tra film di fantascienza e climate fiction. Perché la letteratura è spia, avvertimento e premonizione. Solo che te ne accorgi sempre dopo, quando è tardi.

Questa città che arde dentro un Paese che annaspa, straziato dai tornado e dal fuoco, fra l’incoscienza e il delirio di supercelle e downburst, quest’inferno diffuso dove la guerra è un serial che non finisce mai e l’intelligenza artificiale fa più paura dell’atomica, c’era già immaginata, impaginata, nei romanzi di Vandermeer, in quel mondo di oltranza e ultimità dove tutto è labile e indistinto, perché non siamo più i padroni dell’universo e ci occorre una nuova lingua per intenderci – umani, tecnocreature, animali e mutanti, soggetti transgenici. Lui, Vandermeer, lo chiama New Weird, ma la sua Area X, cui è dedicata la sua trilogia, è uno spazio prossimo, contiguo, e ci riguarda tutti.

Ha torto Amitav Ghosh quando dice che l’umanità crede alla letteratura, più che alle teorie e agli allarmi, perché rende visibile l’invisibile trasformando le idee in storie. Noi non crediamo nella letteratura come non crediamo agli scienziati, agli studiosi e agli attivisti che ci spiegano ogni giorno da anni come e perché stiamo uccidendo il pianeta, tra prove e test e documenti.

Alla fine, questo enorme sasso abbrustolito che è la terra, orbitante in moto convulso nel cielo, non finirà la sua storia. Non si avvicina la fine del mondo, tranquilli. Sarà solo la fine – annunciata, autopromossa – del nostro breve e sciagurato soggiorno sulla terra.

Ci sopravviveranno gli androidi, che avranno un rapporto più intelligente e accorto col pianeta, e alcuni animali, come ad esempio la mia tartaruga, che mentre scrivo immerge la testa nella ciotola d’acqua del gatto, inclinandola con le zampine in un prodigio di grazia atletica. Ma chiudo subito il pezzo, la lampada sfarfalla, ed è buio.

Estratto dell'articolo di Valeria Di Corrado per "Il Messaggero" mercoledì 26 luglio 2023.

Una vera e propria «industria del fuoco» si nasconde dietro gli incendi che devastano boschi e campagne in Italia. Vili, armati di un fiammifero, approfittano delle temperature torride che fanno propagare più velocemente le fiamme. […] La Sicilia è tra le regioni più colpite dai roghi estivi: già nel 2021 ce n'erano stati 8.133, con una media di 135 al giorno solo a luglio e agosto. In quell'anno l'isola ha potuto vantare il triste primato nazionale di avere la maggiore superficie coperta dal fuoco, ben 87.000 ettari. Oltre il 77% degli incendi verificatisi nel periodo compreso tra il 2010 e il 2020 è stato di natura dolosa.

Nel piano della Regione Siciliana sull'antincendio boschivo relativo al 2020 si parla chiaramente dell'«industria del fuoco», ossia delle fiamme appiccate volontariamente «per creare posti di lavoro: nelle attività di avvistamento (dei roghi, ndr), di estinzione e nelle attività successive di ricostituzione». «Il ricorso a mano d'opera precaria e poco qualificata, con una finalizzazione spesso più assistenziale che produttiva, ha talvolta indotto l'insorgenza di un ciclo vizioso, dove l'incendio volontario da parte di operai stagionali può costituire lo strumento per mantenere o motivare occasioni di impiego - si legge nel piano Aib della Sicilia - Anche gli incendi appiccati come protesta contro la mancata assunzione o come estrema forma di dissenso contro la minacciata chiusura di cantieri rientrano in questa logica, in cui il bosco assume ruolo di "ostaggio"».

Tra le altre motivazioni che spingono ad appiccare il fuoco c'è anche la volontà di eliminare i boschi per accaparrarsi terreni da coltivare o destinare al pascolo, in modo da intercettare i redditizi contributi comunitari, o la volontà di trasformare aree rurali in aree edificabili. È stato pure ipotizzato un collegamento tra i roghi e il business del fotovoltaico. Ci sono inoltre agricoltori che, per pulire il terreno in vista della semina, bruciano stoppie e cespugli, ma poi perdono il controllo delle fiamme. […]

Ma gli incendi sono spesso legati anche al ciclo dei rifiuti, su cui le mafie nostrane allungano i loro tentacoli. C'è chi li stocca in siti abusivi (per lo più capannoni dismessi in campagna) e poi dà fuoco per poterli smaltire, generando roghi più estesi. […] E poi ci sono incendi che divampano negli impianti di trattamento regolarmente autorizzati a causa di «condotte negligenti di sovra stoccaggio, miscelazione di rifiuti potenzialmente infiammabili, non corretto utilizzo di impiantistica di trattamento meccanico». […] Chissà se, al termine dell'inchiesta della Procura, si accerterà che cause simili hanno generato l'incendio divampato lunedì scorso nei pressi della quarta vasca della discarica di Bellolampo, a Palermo.

Nell'ultima relazione della Direzione nazionale antimafia (primo semestre del 2022), in relazione alla criminalità organizzata pugliese, si legge: «Il fenomeno dei danneggiamenti mediante incendi continua a manifestarsi in tutto il territorio regionale con riferimento soprattutto al settore agricolo. Tali aggressioni sarebbero presumibilmente mirate sia all'assicurarsi un "servizio di protezione" imposto alle strutture produttive, sia alla gestione di aziende particolarmente appetibili per le possibilità di riciclaggio, che per gli introiti derivanti dai finanziamenti pubblici di cui potrebbero godere».

Estratto da tgcom24.mediaset.it mercoledì 9 agosto 2023.

Continua l'emergenza incendi in Calabria, dove un bambino di 10 anni è stato sorpreso da un drone ad appiccare il fuoco nelle campagne di Zungri (Vibo Valentia). A pubblicare le immagini sui social è stato il presidente della Regione, Roberto Occhiuto. 

Il baby piromane, una volta capito di essere stato "beccato", corre verso il nonno sopraggiunto alla guida di un trattore su un terreno agricolo. Poi si vede l'uomo imprecare contro il drone. "Si può chiedere a un bambino di 10 anni di appiccare il fuoco? La Calabria non è questa", commenta Occhiuto. [...]

Estratto dell'articolo di Cristiana Mangani per “il Messaggero” giovedì 27 luglio 2023.

[…] Cosa si accende in una "mente infuocata" quando decide di entrare in azione? «Prima di ragionare sull'argomento - spiega il tenente colonnello Renato Sciunnach del Nucleo informativo antincendio boschivo dei Carabinieri - bisogna fare una distinzione tra piromane e incendiario. La prima è una patologia, la seconda un crimine. Il piromane non agisce così frequentemente. Cosa diversa è chi commette un crimine[…]».

[…]le unità speciali dell'Fbi, […] hanno individuato quattro possibili profili di incendiari e oltre 110 motivazioni che riguardano l'analisi delle cause. […] Gli esperti sono tutti concordi nel dire che, nel caso dei piromani patologici, c'è un forte rischio di emulazione. Per questo - considera il tenente colonnello - «bisogna trattare l'argomento con particolare cautela». «Quello che è già stato accertato con evidenza - speifica - è che, alla base, del raptus incendiario ritornano spesso l'alcolismo e la forte emarginazione sociale». L'età media di chi brucia si aggira tra i 30-40 anni, e coinvolge sia uomini che donne.

Le ricerche hanno individuato diversi profili criminali, a cominciare dal vandalo che è generalmente un giovane sui sedici anni, di origine modesta che si riunisce in "branco" per trovare il coraggio, e ha tra gli obiettivi preferiti le scuole, i giardini e i parchi giochi. C'è, poi, chi appicca il fuoco per vendetta, con l'intenzione di distruggere un bosco, una automobile come forma di risarcimento personale per una presunta ingiustizia subita. Si tratta di un reato tipicamente femminile. Spesso prima di colpire si cerca il coraggio nell'alcol.

L'identikit di chi ama bruciare - secondo i criminologi - è quello di una persona solitaria, che presenta tratti antisociali, un passato di ribellioni adolescenziali, di violenze su animali di piccola taglia. A questi si aggiunge il quarto profilo che riguarda l'incendiario per profitto: in genere un pregiudicato che agisce per proprio interesse o su commissione. «Il più delle volte - spiega l'esperto - si muove in ambito locale per questioni legate al rinnovo del pascolo, al bracconaggio e, in alcuni casi, anche per ritorsioni nello spaccio di droga o per la prostituzione».  […]

Il dramma. Chi è Chiara Rossetti la 16enne colpita e uccisa da un albero nel Bresciano: voleva diventare una cuoca. L'arbusto è stato spezzato dai forti venti che da giorni stanno colpendo la Lombardia. La giovane stava dormendo in tenda, si trovava in un campo scout: il dolore di un'intera comunità. Redazione Web su L'Unità il 25 Luglio 2023

Stava dormendo nella sua tenda quando le feroci raffiche di vento hanno spezzato un albero che l’ha colpita uccidendola. Chiara Rossetti, 16 anni, stava frequentando un campo scout. Si trovava con gli amici a Valle Camonica, località boschiva in provincia di Brescia. La giovane era originaria di Como e andava a scuola presso il Centro di Formazione Professionale di Monte Olimpino, indirizzo cucina: la 16enne aveva un sogno, quello diventare cuoca. Un sogno spezzato dai temporali che da giorni stanno flagellando la Lombardia. Danni e disagi causati in tutte le province, in particolare nel Milanese, in Brianza e nel Pavese.

Chi era Chiara Rossetti la 16enne colpita e uccisa da un albero

Sulla vicenda la Procura di Brescia potrebbe aprire un’inchiesta. Gli inquirenti sono in attesa del rapporto redatto dagli operatori del Soccorso alpino. Ma chi era Chiara Rossetti, la 16enne colpita e uccisa da un albero? La giovane appena un mese fa aveva festeggiato il compleanno. A raccontare chi era è stato il Cardinale Oscar Cantoni, Vescovo di Como: “Partecipo a nome di tutta la comunità al dolore della famiglia di Chiara a cui siamo vicini. È un dolore enorme. Bisogna stare vicini ai ragazzi e ai genitori che conoscono. La nostra è una testimonianza forte della Chiesa per le persone coinvolte. È il momento delle lacrime e del silenzio“. Questo il post di cordoglio pubblicato sui social dalla sua scuola, il Cfp: “Ciao dolce Chiara, resterai per sempre ‘qui’ con noi dove ti abbiamo conosciuta e apprezzata per la tua disponibilità e la tua motivazione. Il tuo C.F.P., incredulo e smarrito“.

Ha commentato Ilario Sabbadini, Sindaco di Corteno Golgi: “Non c’era allerta arancione e neppure rossa. Il maltempo è stato molto più forte di quello che era stato previsto. Abbiamo molti campi e Corteno Golgi è molto gettonato come paese per gli scout. Ne abbiamo ancora oggi che proseguono le attività. In quasi tutti i casi questi campi scout sono su terreni privati e anche in questo caso il campo era stato allestito in un’area privata Molti ragazzi non si sono accorti subito della tragedia. Lo hanno saputo solamente dopo, quando è uscita la notizia. Ora gli amici di Chiara sono con un gruppo di psicologi per ricevere un sostegno in queste ore difficili“.

Redazione Web 25 Luglio 2023

Auto sotto gli alberi caduti, quale assicurazione serve e come ottenere il rimborso. Quale assicurazione serve per essere tutelati in caso di auto sotto gli alberi caduti? Tutti i dettagli su come ottenere il rimborso. Ilaria Minucci su Notizie.it Pubblicato il 25 Luglio 2023

Cosa si deve fare nel caso in cui la propria auto dovesse finire sotto gli alberi e quale assicurazione serve per essere tutelati in caso di danni e ricevere un adeguato rimborso? La violenta ondata di maltempo che ha colpito regioni come la Lombardia e il Veneto sta provocando svarianti incidenti che culmina nella distruzione di vetture a causa della caduta di alberi. Tutti i dettagli su come gli automobilisti possono tutelarsi con polizze che coprono i danni provocati da eventi naturali.

Auto sotto gli alberi, quale assicurazione serve

Quando si tratta di assicurazioni per auto, c’è l’imbarazzo della scelta. Eppure, nell’enorme vastità dell’offerta che caratterizza il settore, è buona norma aggiungere alla RC – obbligatoria per legge – anche gli eventi naturali. Nello specifico, la dicitura della polizza a cui fare attenzione è spesso indicata come “garanzia per gli eventi naturali”. In questo modo, ci si può mettere al riparo dai danni causati da situazioni di maltempo analoghe a quelle che, nelle ultime ore, stanno devastando vaste aree della Lombardia e del Veneto.

L’obiettivo di queste polizze assicurative consiste nell’evitare che il proprietario della vettura debba affrontare un eccessivo esborso di denaro nel caso in cui il mezzo dovesse essere danneggiato da caduta di alberi, grandine, tempeste, alluvioni, frane o anche uragani.

In un simile scenario, però, bisogna fare attenzione all’importo della franchigia. Esistono casi in cui può essere abbastanza alto da coprire interamente il danno come, ad esempio, nel caso di parabrezza distrutto dalla grandine.

Esclusa l’RC obbligatoria, ogni tipologia di assicurazione presenta caratteristiche differenti e dipende dalla compagnia di riferimento. Per questo motivo, bisogna verificare attentamente quali eventi naturali sono inclusi nella polizza che si intende stipulare. La caduta degli alberi, infatti, potrebbe essere compresa oppure non prevista.

Costi, rimborso, differenze tra polizze e limitazioni

Nel caso in cui si dovesse essere vittima di un evento naturale, in prima battuta sarà necessario denunciare l’accaduto alle forze dell’ordine e informare la propria assicurazione per accertare il danno mediante un perito. Per quanto concerne l’ufficialità dell’evento natura, questa è riconosciuta dai bollettini meteorologici e deve essere confermata da più di un proprietario.

È importante, poi, scattare fotografie prima e durante le operazioni svolte per liberare il veicolo dall’albero in modo tale da raccogliere documentazione sui dati riportati. Può essere determinante, ancora, raccogliere i nomi di eventuali testimoni.

Data la varietà del mercato delle assicurazioni, la polizza di eventi naturali da aggiungere all’RC auto obbligatoria può avere un costo annuale che spazia dai 40 ai 100 euro. Inoltre, anche se la legge non pone limiti alle auto per le quali può essere stipulata una simile polizza, le compagnie hanno l’abitudine di non assicurare auto troppo vecchie o, comunque, che non abbiano più di dieci anni.

La differenza tra ciclone, uragano, tifone, tornado e tromba d'aria. Chiara Degl'Innocenti su Panorama il 23 Luglio 2023.

Le perturbazioni climatiche che colpiscono la Terra, analogie e divergenze tra le difinizioni.

Spesso parlando (ma anche scrivendo) i nomi comuni delle tempeste vengono confusi. Invece prendono una denominazione diversa secondo il luogo in cui si originano e quanto sono violente.

Il ciclone Il ciclone tropicale prende il nome secondo la regione in cui si verifica e colpisce il continente indiano dopo essersi formato nell'omonimo oceano. Il ciclone consiste infatti in una perturbazione a carattere rotatorio che raggiunge centinaia di chilometri ed è caratterizzata da venti molto intensi e violenti che partono da una velocità di 119 km orari uniti a forti precipitazioni.

Il tifone Il tifone è il nome che più comunemente si usa per le perturbazioni tropicali dell'oceano Pacifico nordoccidentale, soprattutto nella regione delle Filippine e del Mar Cinese. Se un tifone arriva a 241 chilometri orari viene chiamato "supertifone".

L'uragano L'uragano riguarda invece perturbazioni tropicali ma che colpiscono i Caraibi e gli Stati Uniti meridionali (oceani Atlantico e Pacifico nordorientale). Il nome deriva dallo spagnolo huracán, adattamento di una voce indigena delle Antille per il dio caraibico delle tempeste. Se i venti di un uragano raggiungono la velocità di 179 chilometri orari, la tempesta diventa "uragano intenso". Gli ultimi in ordine cronologico sono stati Irma e Harvey.

Il tornado Il tornado, invece, è un fenomeno circoscritto e simile alle trombe d'aria. Un vortice che può avere un'ampiezza di 300 metri e si sposta in linea retta coprendo un percorso di circa 30 chilometri con una velocità di 600 chilometri orari.

La tromba d'aria Secondo quanto si legge sul sito di 3bmeteo le espressioni "tornado" e "tromba d'aria" sono sinonimi. È sbagliato quindi pensare che un tornado sia una tromba d'aria molto più forte. La consuetudine porta in Italia a chiamare fenomeni del genere come trombe d'aria, mentre in altre parti del mondo (come negli Stati Uniti) si preferisce usare l'espressione tornado (twister in inglese).

Cosa devo fare se grandina, arriva un tornado o mi trovo in mezzo ai fulmini? Le risposte degli esperti. Storia di Paolo Virtuani su Il Corriere della Sera sabato 22 luglio 2023. 

Grandine come palle da tennis, fulmini che cadono ovunque, trombe d’aria, alluvioni improvvise: molti non sanno come comportarsi in caso di eventi estremi che possono mettere a rischio la sicurezza della persone. La Protezione civile ha preparato una serie di consigli su come affrontare le situazioni di emergenza meteorologiche.

Temporali

I temporali possono scoppiare all’improvviso, anche se pochi minuti prima era sereno. Ora esistono siti e app specializzati che mostrano in tempo reale l’evolversi della situazione meteorologica nel punto in cui ci si trova. La stessa Protezione civile ha una piattaforma radar che evidenzia in tutta Italia (e anche nei Paesi vicini) in modo puntiforme le zone in cui sono in atto temporali e precipitazioni che, specie in estate, è difficile prevedere in anticipo l’esatta localizzazione. Comunque anche prima di uscire per un’escursione si possono consultare i bollettini delle previsioni per considerare l’evoluzione nell’arco della giornata. Se si vedono solo i lampi in cielo, specie al tramonto o di notte, il temporale può essere anche a decine di chilometri di distanza. Ma se si sentono anche i tuoni, significa che il temporale è a pochi chilometri, se non più vicino. In questo caso è consigliato trovare per tempo un luogo riparato. Non posteggiare sotto gli alberi: possono essere sradicarti o possono cadere grossi rami. Non usare l’ascensore che si può bloccare per un blackout.

Fulmini

Le montagne sono il luogo più a rischio, ma c’è pericolo anche in qualsiasi luogo all’aperto, specialmente quelli ampi come un prato o un campo da calcio. La presenza dell’acqua aumenta il rischio: quindi non rimanere in spiaggia o vicino a uno specchio d’acqua (mare, lago, piscina) durante un temporale. Cercare riparo in un luogo chiuso, anche in auto (che è isolata dalle ruote, ma con portiere e finestrini chiusi). Stare lontani da pali della luce, alberi, tralicci, specie se sono isolati: i fulmini si scaricano di preferenza sugli oggetti più alti della zona. Se non è possibile trovare un riparo (anche un anfratto, senza toccare le pareti) e si è in luogo aperto, tenere i piedi uniti rendendo minimo il contatto con il suolo per ridurre l’intensità della corrente in grado di attraversare il corpo. Per lo stesso motivo, evitare di sedersi o sdraiarsi per terra: l’ideale sarebbe accovacciarsi con i piedi uniti tenendo le gambe con le braccia all’altezza delle ginocchia. Il metallo di per sé non attira i fulmini, ma è un buon conduttore di elettricità (come l’acqua): tenere orologi, orecchini o anelli non è un pericolo, ma non avvicinarsi a reti o recinzioni metalliche. Se si è in montagna, scendere prima possibile di quota, evitando vette o creste, tenersi alla larga dalle ferrate con funi e chiodi di metallo. Se si è in gruppo, distanziarsi di almeno 10 metri l’uno dell’altro. Vicino ai corsi d’acqua: uscire immediatamente, non rifugiarsi sotto gli ombrelloni, abbandonare le canne da pesca. In tenda: non toccare le strutture metalliche e le pareti della tenda. In casa: meglio staccare gli apparecchi elettrici, stare lontani da porte e finestre.

Grandine

Ripararsi in una struttura protetta, in particolare se i chicchi sono di dimensioni notevoli (sopra i 3-4 centimetri di diametro) che, se si viene colpiti, possono provocare ferite specie alla testa. In strada fare attenzione al percorso, che può essere reso molto scivoloso. Di solito le grandinate sono di breve durata, difficilmente superano i 10 minuti, ma anche in questo breve lasso di tempo possono provocare danni importanti.

Trombe d’aria/tornado

Il consiglio più semplice è: allontanarsi il prima possibile dal percorso del fenomeno. Non sempre però è possibile, perciò cercare un riparo e soprattutto non sostare all’aperto. I venti scatenati da una tromba d’aria sono fortissimi e possono far scoperchiare le coperture in lamiera dei tetti, scagliare con violenza sassi, tegole, fioriere anche pesanti, sradicare alberi, divellere pali e antenne, far cascare le linee elettriche. Per sollevare un’auto da terra serve un evento con una velocità del vento di almeno 178 chilometri all’ora. In casa chiudere porte e finestre, soprattutto stare lontani da queste ultime che possono esplodere lanciando schegge di vetro, portarsi nei piani alti (ma non all’ultimo che può risentire di danni ai tetti), far entrare in casa gli animali domestici, chiudere gas e luce.

Alluvioni lampo

Forti precipitazioni possono far gonfiare in pochi minuti anche torrenti in secca e trasformarli in bombe d’acqua. Lo si è visto a maggio in Emilia-Romagna e nel settembre scorso nelle Marche. In casa le aree più pericolose sono le cantine, i piani seminterrati e i piani terra; all’aperto i sottopassi, i tratti vicini agli argini e ai ponti, le strade con forte pendenza. Se si decide di scappare in auto, valutare bene il percorso per evitare di attraversare corsi d’acqua che si possono gonfiare all’improvviso ma anche zone allagate che possono far perdere aderenza all’auto. In montagna o in collina fare molta attenzione alle frane.

Il Climatizzatore.

Cambio d’aria. Quell’estate del 1902 in cui fu inventato il condizionatore. Alessandro Vanoli su L'Inkiesta l'1 Luglio 2023

Come spiega Alessandro Vanoli nel suo libro uscito per Il Mulino, in una tipografia di Brooklyn fu inventato il prototipo del climatizzatore. Non per evitare il caldo, ma per proteggere la carta dagli sbalzi di umidità

Era il 17 luglio 1902 quando l’ingegnere statunitense Willis Haviland Carrier presentò il primo moderno sistema di condizionatore. Si trattava di un ingombrante apparecchio pieno di congegni che gestivano il passaggio di gas «refrigeranti» dallo stato liquido a quello aeriforme, azione che portava a un abbassamento della loro temperatura e, di riflesso, a una refrigerazione dell’ambiente circostante e alla deumidificazione. E il primo utilizzo del macchinario avvenne in una tipografia di Brooklyn per proteggere la carta dagli sbalzi di umidità.

Nel 1906 Carrier brevettava il suo «Apparatus for Treating Air»: un apparecchio che garantiva il raffreddamento dell’aria sfruttando l’espansione di gas refrigeranti, convogliati in un circuito idraulico dotato di compressori e ventole nel quale essi passavano più volte dallo stato liquido a quello aeriforme. Un processo che implicava due unità collegate tra loro: una «esterna», dove il gas scorreva allo stato liquido, e una «interna», dove tornava aeriforme.

Erano progetti pensati e sviluppati per grandi spazi industriali, ma ci volle pochissimo perché i nuovi condizionatori cominciassero a diffondersi da quell’ambito a teatri, cinema e uffici, anche se per molto tempo rimasero ingombranti e pericolosi. I gas usati, dall’ammoniaca al clorometano, erano infatti tossici, e un’accidentale fuoriuscita poteva risultare fatale. Per questo motivo, nel 1931 furono sostituiti da nuovi composti chimici noti col nome commerciale di «freon», innocui per l’uomo, ma non per l’ambiente, in particolare per l’ozono atmosferico, tanto che oggi sono in gran parte vietati, a favore di gas con minor impatto ambientale.

Nel 1931, sempre negli Stati Uniti, gli ingegneri H.H. Schultz e J.Q. Sherman svilupparono un condizionatore di dimensioni «domestiche», da collocare sui davanzali delle finestre. Poi, nel 1939, con l’americana Packard fu la volta delle automobili e degli altri mezzi di trasporto. Ma fu solo dopo la Seconda guerra mondiale, con quella nuova visione di prosperità che stava avanzando ovunque, che l’aria condizionata trovò davvero la sua strada.

Tra le tante cose, si apriva la possibilità di progettare edifici completamente nuovi, che non tenessero cioè conto dell’aerazione naturale. Uno su tutti, il Pentagono, risalente agli anni Quaranta. Oppure grattacieli di nuova generazione, in grado di mantenere la stessa temperatura indipendentemente dall’altezza. Nel 1945 la rivista «Life» pubblicava un articolo di quattro pagine intitolato L’aria condizionata, dopo la guerra sarà abbastanza economica da entrare nelle case private. Era vero: quello che fino alla metà del Novecento era rimasto comunque un lusso, adesso stava per invadere il mercato.

Di tutto il mondo, furono proprio gli Stati Uniti ad assistere alla prima vera proliferazione dell’aria condizionata nelle abitazioni. La tecnologia originariamente concepita come strumento per migliorare la produttività industriale divenne rapidamente una necessità per le case americane. Oggi è più probabile che una famiglia statunitense abbia l’aria condizionata centralizzata o unità finestra piuttosto che una sala da pranzo, un garage o persino una lavastoviglie. E soprattutto oggi i soli Stati Uniti consumano aria condizionata più di tutte le altre nazioni del mondo messe assieme. Giusto per dare una misura di quello che di fatto è un enorme problema, nel 2016 gli Stati Uniti hanno utilizzato circa 616 terawatt ore (TWh) di elettricità per il condizionamento dell’aria, mentre tutta l’Unione Europea con una popolazione una volta e mezza più grande, ha utilizzato solo 152 TWh per lo stesso scopo. 

Da “Estate – Promessa e nostalgia” di Alessandro Vanoli (Il Mulino), 240 pagine, 17,10 euro

Il Dissalatore.

Siccità, ora la sfida sono i dissalatori. Usare l'acqua di mare costa molto meno, ma l'Italia la snobba. Maria Sorbi il 29 Marzo 2023 su Il Giornale.

Dissalare un metro cubo di acqua del mare costa 2-3 euro al massimo. Trasportare l'acqua dove non c'è costa invece tra i 12 e i 15 euro al metro cubo. Perché, allora, con il secondo anno di emergenza siccità alla porte, non si costruiscono gli impianti per dissalare? Burocrazia, tanta, troppa burocrazia. E un decreto Salva mari che impone cavilli che finora nessuno ha voluto sbrogliare.

Tra le sfide che il super commissario anti siccità dovrà affrontare ci sarà anche questa. Il tema dei costi/benefici della dissalazione dell'acqua marina è tra i punti che la cabina di regia sta affrontando in vista del Consiglio dei ministri della prossima settimana. Ovviamente, se mai si deciderà di investire negli impianti, non si può pensare a un risultato immediato che risolva tutto entro l'estate, ma - tra costruzione e collaudi - ci vorranno almeno cinque anni. «Vero è che se non si comincia non si finisce» sprona Alessandro Marangoni, alla guida di Althesys, società di consulenza che sviluppa strategie per la gestione idrica.

A tifare per la via dei dissalatori anche il presidente del Veneto Luca Zaia e il sindaco di Genova Marco Bucci. I soldi ci sono. Il Pnrr prevede 4,3 miliardi di stanziamento alla voce «Sicurezza dell'approvvigionameto e gestione sostenibile delle risorse idriche» e un impianto di medie dimensione costa circa 15 milioni.

«Ci sono ancora dei punti su cui lavorare per valutare costi e benefici - spiega Marangoni - E cioè come gestire i residui, la cosiddetta salamoia (che non è dannosa ma che non può essere dispersa in mare in un unico punto) e come ottimizzare i consumi energetici. La cabina di regia si confronterà anche su questo, ma direi che per il resto tutto il progetto sta in piedi». Al momento in Italia viene dissalato solo lo 0,1% dell'acqua ma sotto gli occhi abbiamo due esempi che dicono come il piano per dolcificare l'acqua non sia un miraggio: l'acquedotto pugliese a Taranto che produrrà acqua potabile per 385mila persone e sarà il più grande d'Italia. E Barcellona, che utilizza principalmente acqua dissalata e ha evitato di dover deviare il corso del fiume per soddisfare le esigenze della città.

Seppur convinti dell'utilità dei dissalatori, i tecnici sono ben consapevoli che, per preservare l'acqua, prima occorra sistemare la rete idrica Italiana. Innanzitutto a livello amministrativo, per evitare paradossi per cui un unico fiume venga «gestito» da dieci società diverse. Poi per rimodernizzare la rete idrica, fare in modo che gli invasi accolgano più dell'11% dell'acqua piovana. E ancora le dighe: vanno ripulite dai detriti, messe a norma. Addirittura 100 su oltre 500 vanno collaudate.

Il tempo è pochissimo. La cabina degli esperti e dei ministri dovrà prima di tutto pensare agli interventi più urgenti in vista dell'estate e poi dovrà pianificare, senza rinviare anche quest'anno.

Taranto, un dissalatore contro la siccità: «Progetto che è motivo di orgoglio». Oggi l'incontro fra i presidenti di Confindustria Taranto e Acquedotto pugliese. REDAZIONE ONLINE il 28 Marzo 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

«In un momento storico in cui centrale è la crisi climatica e l’acqua diventa inevitabile protagonista nel dibattito economico e politico, e a pochi giorni dalla conclusione della conferenza delle Nazioni Unite sull'acqua a New York (in cui Aqp era presente come unico Acquedotto italiano), la realizzazione di un progetto di così grande impatto per il territorio Ionico e pugliese non può che costituire motivo di soddisfazione e di orgoglio».

Lo sottolinea il presidente di Confindustria Taranto Salvatore Toma dopo un incontro con il presidente di Acquedotto Pugliese, Domenico Laforgia, in merito al progetto per la realizzazione in agro di Taranto, sulle sorgenti del fiume Tara, di un dissalatore ad osmosi inversa, il primo impianto continentale ad uso civile del Paese.

L’entrata in esercizio delle opere è prevista per la metà del 2026. L’impianto, che prevede un investimento di circa 100 milioni di euro, beneficerà dei fondi Pnrr e avrà una potenzialità di 55.400 mq al giorno, «costituendo di fatto - aggiunge Toma - una fonte autonoma di approvvigionamento che andrà a ridurre il prelievo dell’acqua dai pozzi, migliorando lo stato delle falde».

Toma e Laforgia hanno parlato del progetto, che andrà a gara nei prossimi giorni, in occasione di una visita istituzionale alla sede dell’Aqp del vertice degli industriali tarantini, accompagnato dal direttore Mario Mantovani. 

Servono i dissalatori contro la siccità, ma non si fanno e non se ne parla. Sergio Barlocchetti su Panorama il 22 Giugno 2023

L'acqua è una risorsa sempre più preziosa e rara. Servirebbero strutture di cui siamo leader mondiali tecnologicamente parlando ma continuiamo a non voler vedere le cose

Il periodo di siccità appena vissuto dall'anno scorso a questa primavera ha riacceso l’interesse verso i dissalatori per l’acqua marina. Del resto con oltre settemila chilometri di coste, con la tecnologia che esportiamo in tutto il mondo, specialmente in quello arabo, logica vorrebbe che come Malta anche l’Italia avesse almeno qualche impianto pronto per i momenti più complicati. In realtà non è così semplice e anche il processo che permette di ripulire l’acqua marina e renderla dolce fino a essere potabile risente del costo dell’energia necessaria per far funzionare gli impianti stessi. Tanto che, facendo due conti in modo meno approssimativo possibile, è probabile che un metro cubo di acqua, quindi mille litri, arriverebbe a costare tre o quattro euro contro poco più di un euro (1,1 circa) che è il costo oggi in una città come Milano. Ma abbondantemente sotto i 10-13 euro al metro cubo dell’acqua che viene trasportata con le autocisterne fino sulle isole italiane del sud. Qui come sempre casca l’asino: se per ottenere mille litri potabili servono da uno a otto chilowatt di energia a seconda della tecnologia utilizzata (l’osmosi inversa o la meno efficiente distillazione), ma anche delle condizioni climatiche ed energetiche del luogo di trattamento, se l’energia arriva dal nucleare o dall’eolico è un conto, meglio ancora se proviene dal nucleare, ma se si tratta di centrali termo-elettriche tanto varrebbe investire il denaro necessario per creare in fretta gli impianti di desalinizzazione (300-400 milioni a sito), per sistemare una rete idrica che perde il 40% dell’acqua trasportata, anche se ci vorrebbe più tempo. C’è poi un’altra questione non di poco conto: il trattamento di microfiltraggio implica la produzione di scorie e queste non possono essere semplicemente ributtate in mare, quindi servirebbe altra energia per trattarle e smaltirle. I dissalatori sono comunque inseriti tra le priorità per l’emergenza idrica nazionale, poiché è evidente che comunque sarebbe poco prudente non disporne soprattutto dove esistono periodi nei quali le reti di taluni comuni ricevono picchi di consumo, come per esempio le città del sud o isole nel periodo estivo. Una breve ricerca sul web mostra che la società Suez, che nel mondo ha progettato oltre undicimila impianti, oggi ne sta realizzando uno all’isola d’Elba che sarà inaugurato l’anno prossimo, con una capacità di 80 litri al secondo. E non c’è soltanto l’acqua di mare, poiché a ben guardare si possono anche trattare le acque reflue, allontanando quindi gli impianti dalle coste. Dunque realizzare alcuni impianti e tenerli in funzione al minimo della capacità per poterne disporre in caso di emergenza idrica dovrà diventare anche in Italia parte di una strategia alla quale purtroppo, a partire dal gas, non eravamo abituati. E le piccole dimensioni del nostro Paese consentirebbero di creare impianti relativamente ridotti, ovvero per un fabbisogno tipico di 60.000 metri cubi al giorno di una città medio grande, contro i 500.000 o 600.000 che aziende italiane come Fisia hanno creato in Medioriente. La memoria digitale di internet ci ricorda che comuni italiani come Andora, nel ponente ligure, nel 2022 hanno avuto gravi problemi di approvvigionamento nonostante si trovino sulla costa. Attualmente in Italia sono attive una dozzina di centrali che forniscono meno di 300 milioni di metri cubi al giorno, nulla se paragonato al volume di acqua desalinizzata prodotta in nazioni come la Spagna, con oltre due miliardi di metri cubi d’acqua potabilizzata da 768 centrali. La morale è facilmente intuibile: servono dissalatori per le zone critiche, siano tali per posizione geografica o per vocazione turistica, ma non ne servono di giganteschi, quanto di piccoli-medi impianti posizionati in modo strategico più vicino possibile al luogo del prelievo, sia esso fatto a fini sanitari o per l’irrigazione. La domanda da porsi però è un’altra: faremo anche per i dissalatori le stesse scene all’italiana che abbiamo fatto per i termovalorizzatori e i rigassificatori, fino a volerne decidere il colore? Sono aperte le scommesse.

Dissalatori, cosa sono e come funzionano. Francesca Catino su Panorama il 16 Giugno 2023.

La desalinizzazione delle acque marine e oceaniche si sta affermando come una delle vie per affrontare la crisi idrica a livello mondiale

La grave ondata di siccità che si sta abbattendo sul pianeta ha reso la crisi idrica più concreta che mai, ridando forza al dibattito sul perché non si usino i dissalatori dal momento che il 70% della superficie terrestre è coperta dagli oceani? Concettualmente, “dissalazione” significa che si prende l'acqua del mare, si toglie il sale e si ottiene l’acqua dolce (o potabile). E dal momento che la tecnologia esiste ed è avanzata come non lo è mai stata prima, perché esiste il problema della mancanza dell’acqua? Attualmente ci sono due soluzioni, la prima è la distillazione e la seconda è l’osmosi inversa.

DISTILLAZIONE La “distillazione” consiste nel far bollire l’acqua salata per far evaporare le molecole d’acqua (perché il sale rimane e non evapora). Il vapore ottenuto viene raccolto e poi trasformato nuovamente in liquido tramite la condensazione. Per ottenere il risultato voluto da questo processo c’è bisogno di 8kWh per produrre 1 metro cubo d’acqua dolce. Si tratta di molta energia e, dunque, togliere il sale dall’acqua di mare è un processo energivoro. OSMOSI INVERSA La seconda tecnica, “l’osmosi inversa”, è quella più utilizzata nonché la più efficiente: l’acqua salata viene spinta ad alta pressione verso una membrana cosiddetta semipermanente che fa passare le molecole d’acqua ma non quelle dei sali. Non si tratta di un processo spontaneo ma dev’essere forzato. Per forzarlo c’è bisogno di energia e in questo caso il fabbisogno energetico si aggira tra 1,5 kWh e 4 kWh per produrre 1 m cubo di acqua. Dati energetici notevolmente diversi rispetto alla tecnica della distillazione tramite l’ebollizione (come descritto nel primo processo di "distillazione").

PERCHÈ GLI IMPIANTI DI DISSALAZIONE SONO UNA DELLE MIGLIORI ALTERNATIVE Uno dei punti nodali del dibattito intorno alla carenza idrica in Italia è che ogni anno si perde il 40% d'acqua dagli acquedotti. Finanziare una grande opera di ammodernamento della rete idrica può essere una soluzione, ma si scontra con le tempistiche lunghe di un intervento che copra tutte le criticità. Molto meno tempo servirebbe per la costruzione degli impianti di dissalazione. La dissalazione dell’acqua salata tramite il processo di osmosi inversa non è una soluzione in una situazione ordinaria, ma bensì è una soluzione di emergenza: una soluzione estrema perché le condizioni sono estreme. Ma secondo gli esperti sarebbe saggio considerare la soluzione della dissalazione non solo come un costo ma come un vero e proprio investimento. Perché i dissalatori, oltre ad offrire un’alternativa rapida alle problematiche idriche del pianeta, danno una soluzione continua e duratura nel tempo.

QUANTO COSTA DISSALARE L’ACQUA? I costi di distillazione nell’osmosi inversa, si attestano intorno a 1 dollaro per ogni metro cubo. In realtà il costo dipende direttamente dal costo dell’energia ed è una variabile non fissa. Nel 2022, ad esempio, il costo dell’energia è schizzato alle stelle e anche desalinizzare l’acqua salata ha avuto un costo lievitato. Secondo le stime più recenti ad oggi saremmo tra i 2 e i 3 euro per metro cubo di acqua.

IL RUOLO DELL'ITALIA NEL SETTORE DEGLI IMPIANTI DI DISSALAZIONE L'Italia ha una tradizione nella costruzione, fornitura e gestione di impianti di dissalazione. In Oman, a Salalah, c’é un impianto di osmosi inversa in grado di  produrre circa 113.000 metri cubi al giorno di acqua potabile, in Arabia Saudita, a Shoaiba, ce n’é un altro che produce 250.000 metri cubi al giorno di acqua dolce, riuscendo a fornire acqua potabile ad oltre 1 milione di persone. A Dubai c’é un impianto enorme: 636.000 metri cubi d’acqua potabile al giorno. Anche in Qatar, a Doha, ce n’é uno che produce circa 340.000 metri cubi d’acqua, sempre al giorno. Tutti gli impianti elencati sono stati realizzati dall'industria italiana. Ad oggi nel mondo ci sono circa 20.000 impianti di dissalazione. Ma in Italia solo il 4% dell’acqua che utilizziamo viene da questi impianti. A differenza, ad esempio, della Spagna, dove la percentuale sale fino al 56%.

I PROBLEMI LEGATI ALLE POLITICHE AMBIENTALI Nel processo di distillazione per osmosi inversa, oltre all’acqua dolce, si ottiene un prodotto di scarto: la “salamoia”, una sostanza considerata tecnicamente come scoria perché è costituita da sale e tracce di metalli. Di conseguenza, le problematiche legate allo smaltimento di tale sostanza sono diverse e sempre più studiate dagli esperti. Se nel mare viene gettato un eccesso di sale, l’equilibrio idro salino locale potrebbe avere un grosso impatto negativo nei confronti di piante e animali. Per far fronte a questa problematica, oggi gli impianti di dissalazione vengono costruiti in zone dove questo materiale di scarto viene rilasciato nei pressi di forti correnti marine o oceaniche in modo da facilitare la miscelazione con il resto degli oceani. In Italia ci sono forti limitazioni dovute alle politiche ambientali e ai rischi associati alla produzione delle scorie di distillazione. Nel giugno 2022 è entrata in vigore la legge “Salvamare” secondo la quale la costruzione di nuovi impianti come quello di distillazione, è ammissibile solo in situazioni di comprovata carenza idrica e in assenza di alternative.

L'Ideologia.

Il Bestiario, il Caldigno. Giovanni Zola il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

Il Caldigno è un animale leggendario, sostenitore del cambiamento climatico, che si riconosce dall’odore di propaganda

Il Caldigno è un animale leggendario, sostenitore del cambiamento climatico, che si riconosce dall’odore di propaganda.

Il Caldigno è un essere mitologico che, al fine di raggiungere l’obiettivo di un rivoluzionario e irrealistico cambiamento economico, lavora da diversi decenni sul concetto di “cambiamento ambientale” utilizzando tecniche di manipolazione della realtà e di propaganda comunicativa. Il Caldigno ha messo in agenda l’abbattimento dell’effetto serra nei prossimi anni (2030-2050) in un progetto di medio-lungo termine. Per questo si è avvalso di una giovane attivista come Greta Thunberg, capace di irretire i giovani che dovranno accompagnare con convinzione il grande Green Deal. Per comprendere la falsità del messaggio della antipatica ragazzina svedese costruita a tavolino dal Caldigno, basti pensare che quest’anno ha dovuto cancellare un suo Tweet del 2018 in cui aveva scritto con tono da tragedia classica: “Un importante scienziato del clima avverte che il cambiamento climatico spazzerà via l’intera umanità se non smettiamo di utilizzare i combustibili fossili nei prossimi cinque anni”. L’ha detto la scienza.

Il Caldigno cerca di convincere del “cambiamento climatico” anche un pubblico più adulto utilizzando i “professionisti dell’informazione”, quelli che senza vergogna fanno a gara per spararla sempre più grossa fino a ricoprirsi di ridicolo. Così il Caldigno detta ai suoi cercando di drammatizzare il nulla: “L'alterazione termica nelle diverse zone urbane incide sulla vivibilità. E con l'incremento atteso in termini di intensità, frequenza e durata delle ondate di calore, il fenomeno è destinato ad aumentare con conseguenze per la nostra salute”, oppure: “Ridurre l'impronta dell'uomo sul pianeta, frenando il trend in crescita del riscaldamento globale, e progettare città più resilienti, in grado già nell'immediato di sostenere ondate di calore così frequenti e intense, scongiurando dunque danni alle popolazioni, in particolare nelle metropoli”. Nessun “professionista dell’informazione” ha il coraggio di fare una ricerca sulle punte di calore del secolo scorso che smentirebbero un’altra volta la scienza.

Il Caldigno europeo si crede al centro del mondo e ha la presunzione di cambiare il clima nei prossimi trenta, quaranta anni. Tutta l’Unione Europea nel 2021 ha prodotto il 7,3% della Co2 contro il 92,7% del resto del mondo che non ha nessuna intenzione di ridurre le proprie emissioni e infatti – che cosa strana - non deve affrontare nessuna emergenza climatica.

Meteo e riscaldamento globale, "perché i meteorologi sbagliano". Fausto Gnesotto su Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Come paletnologo che si deve avvalere scientificamente della palinologia connessa ai carotaggi pollinici dei geologi per poter ricostruire l’ambiente climatico dei siti oggetto dei miei scavi archeologici, devo stigmatizzare il fatto che tutt’oggi il tema dell’emergenza climatica viene affrontato su basi fuorvianti. Infatti ne parlano i meteorologi, che ne avrebbero competenza solo per gli avvenimenti dal 1800 in poi, e non i geologi, che sono i soli veri “storici” del clima.

Così si ignora il fatto “storico” che il clima muta periodicamente ogni 400 anni circa. Per esempio, dopo l’optimum climatico romano-imperiale, nell’Alto Medioevo dal ”400 all’800 circa si ebbe un raffreddamento (che favorì la Peste di Giustiniano), sostituito da un innalzamento della temperatura nel Pieno Medioevo: esso permise la Rivoluzione agricola del Mille, le coltivazioni in Groenlandia (“Terra Verde”!), oggi impossibili, e mostrò ai Vichinghi le viti selvatiche nel Labrador.

A questo picco climatico subentrò, dal 1300, la “Piccola Glaciazione” (Peste del Boccaccio), che si protrasse per i soliti 400 anni fino al 1680 circa, allorché le temperature aumentarono di nuovo e progressivamente fino ad oggi: ma il 1680 è di ben cento anni precedente alla Rivoluzione Industriale e a qualsivoglia emanazione antropica di CO2! Purtroppo i climatologi dell’Ipcc (che dettano legge) sono dei meteorologi che possono conoscere le temperature solo dal 1800 in poi, mentre gli unici scienziati idonei a tracciare una storia del clima sono i geologi che, coi loro carotaggi pollinici, riescono a ricostruire gli ambiti vegetali (e quindi il clima) del passato tramite la palinologia.

Rispetto alla ricostruzione della “Storia del Clima”, la differenza tra geologi e meteorologi è la stessa che intercorre tra storici (del passato) e giornalisti (del presente): per cui, mi chiedo, faremmo noi trattare la storia politica dai giornalisti piuttosto che dagli storici? (Con tutto il dovuto rispetto perla funzione dei giornalisti...). Per lo stesso motivo, la Storia del Clima va affidata ai geologi e non ai meteorologi! Concludendo, il clima cambia ogni 400 anni per cause astronomico-solari e non umane, e il caldo di oggi aumenterà ancora per circa 80 anni, in barba ad ogni nostro tentativo di contrastarlo con azioni comportanti un inutile danno economico e sociale. Fausto Gnesotto. Professore Università di Trieste

Mattarella striglia i negazionisti: "Il cambiamento del clima è palese. Italia in ritardo sulla prevenzione". Il presidente della Repubblica chiede di accelerare per non perdere i fondi europei: "Un eventuale insuccesso non sarebbe una sconfitta dell’esecutivo, ma del Paese intero". E sulla riforma della giustizia invita i magistrati a smetterla con gli sconfinamenti: "Tengano conto che le leggi le delibera il Parlamento". Massimiliano Scafi il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

E insomma, ne stiamo ancora qui a parlare? Incendi, frane, nubifragi, caldo record, l’alito di Caronte, aeroporti bloccati, isole abbandonate. Sergio Mattarella guarda la tv ed è stupito, anche un po’ irritato, perché tuttora c’è qualcuno che pensa che non stia succedendo nulla di strano. Finiamola con i negazionisti. «L’Italia sta vivendo eventi terribili, legati palesemente alle conseguenze del cambiamento climatico. Di fronte alle drammatiche immagini in arrivo da nord, centro e sud, tante discussioni sulla fondatezza dei rischi e sul livello di allarme appaiono sorprendenti». Che aspettiamo ad agire? «Siamo in ritardo», dice il capo dello Stato. Dobbiamo «incrementare l’impegno per la salvaguardia dell’ambiente per contenere gli effetti dirompenti nel tempo».

E in ritardo siamo pure sul Pnrr. Il presidente, che già da mesi chiede di accelerare per non perdere altri soldi europei, non vuole entrare in polemiche politiche e non accusa Palazzo Chigi. «Non si tratta di una questione del governo o dei due precedenti spiega sotto gli stucchi della Sala del Bronzino, ricevendo la stampa per la cerimonia del Ventaglio - ma dell’Italia. Tutti dobbiamo esserne responsabili, tutti dobbiamo recare apporti costruttivi e nessuno deve restare estraneo». Duecento e rotti miliardi, e quando ci ricapita. L’occasione è troppo grossa, «decisiva per il nostro futuro», per farsela sfuggire di mano. «Un eventuale insuccesso non sarebbe una sconfitta dell’esecutivo, ma del Paese intero. Così sarebbe visto anche all’estero». E visto che il ballo c’è l’interesse nazionale, ecco che tornano buone le parole di Alcide De Gasperi. «Invito tutti a mettersi alla stanga».

Dunque, che ognuno faccia la sua parte, maggioranza e opposizione, guardando al bene comune e non all’utile di bottega. La regola vale per il clima, per il Pnrr e pure per i difficili, nervosi rapporti tra politica e magistratura, tornati tempestosi dopo la presentazione della legge Nordio. «Ciascuno svolga il proprio mestiere e cerchi di svolgerlo bene. I piani non vanno confusi, i poteri della Repubblica restino separati nella logica della collaborazione istituzionale». Basta sconfinamenti. I giudici, autonomi e indipendenti, la smettano di interferire sulla riforma e «tengano conto che le leggi le delibera il Parlamento». E i partiti «rispettino la funzione dei magistrati nel giudicare, soltanto a loro questo compito è riservato dalla Costituzione».

Ancora. Per Mattarella certe «sovrapposizioni», come le commissioni d’inchiesta sul Covid e sul caso di Emanuela Orlandi, sono impraticabili, fuori dalla Carta. Infatti, sostiene, non spetta a Palazzo Madama e a Montecitorio frugare e indagare nel lavoro politico di governi precedenti. Non è il loro ruolo. «Non esiste una giustizia costituzionale politica, non esiste un contropotere giudiziario del Parlamento usato parallelamente, o peggio, in conflitto con l’azione della magistratura. Così come non sono le Camere a poter valutare se norme di legge approvate siano o meno conformi alla Costituzione». Quel compito, lo dice l’articolo 134, è «destinato in maniera esclusiva» alla Consulta.

Collaborazione e non rissa, ecco la chiave quirinalizia per il progresso del Paese. Questo spirito servirebbe pure per la gestione degli sbarchi. «L’informazione ci ha fornito immagini recenti di morte in mare che feriscono le nostre coscienze». Mattarella è inorridito da scafisti e trafficanti, «non è possibile che nell’animo umano ci sia tanto cinismo», applaude il governo «per l’evento importante sui flussi migratori», e chiede «soluzioni internazionali condivise», perché non possiamo tenere botta da soli.

In questo scenario, conclude il capo dello Stato, i giornalisti diventano fondamentali. Sono innanzitutto l’antidoto ai negazionismi e alle fake news in quanto «certificatori della corrispondenza tra i fatti e la loro rappresentazione». E, tra social, internet selvaggio e trolls, sono baluardo della democrazia: aPortatori di notizie verificate, devono essere messi al riparo da intimidazioni e tentativi di controllo».

Gli studiosi. “Non parlate di maltempo: è cambiamento climatico”: l’appello di 100 scienziati italiani a giornalisti e media. A firmare il testo anche il Premio Nobel Giorgio Parisi: "Omettere queste informazioni condanna le persone al senso di impotenza, proprio nel momento storico in cui è ancora possibile costruire un futuro migliore". Redazione Web su L'Unità il 27 Luglio 2023

“Giornalisti, parlate del cambiamento climatico, e delle sue soluzioni. Omettere queste informazioni condanna le persone al senso di impotenza, proprio nel momento storico in cui è ancora possibile costruire un futuro migliore”. Attacca così l’appello di 100 scienziati e studiosi italiani ai media, ai giornalisti, al settore dell’informazione che nei giorni scorsi ha raccontato, riportato, descritto, ricostruito i fenomeni atmosferici che hanno spaccato l’Italia in due: al nord nubifragi, al sud caldo estremo e incendi. Un Paese che fa i conti con gli effetti del cambiamento climatico, troppo spesso definito come maltempo, una definizione quantomeno imprecisa, come fa notare il testo, se non deleteria ai fini della stessa informazione e della società.

“I media italiani parlano ancora troppo spesso di ‘maltempo’ invece che di cambiamento climatico. Quando ne parlano, spesso omettono le cause e le relative soluzioni. È come se nella primavera del 2020 i telegiornali avessero parlato solo di ricoverati o morti per problemi respiratori senza parlare della loro causa, cioè del virus SARS-CoV-2, o della soluzione, i vaccini”. L’appello è stato sottoscritto tra gli altri dal Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi, Antonello Pasini, Nicola Armaroli, Stefano Caserini, Enrico Giovannini, Luca Mercalli, Telmo Pievani.

I firmatari spiegano anche come “nel suo ultimo rapporto, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite (Ipcc) è chiarissimo su quali siano le cause principali del cambiamento climatico: le emissioni di gas serra prodotte dall’utilizzo di combustibili fossili. Ed è altrettanto chiaro su quali siano le soluzioni prioritarie: la rapida eliminazione dell’uso di carbone, petrolio e gas, e la decarbonizzazione attraverso le energie rinnovabili”.

“Non parlare delle cause dei sempre più frequenti e intensi eventi estremi che interessano il nostro pianeta e non spiegare le soluzioni per una risposta efficace rischia di alimentare l’inazione, la rassegnazione o la negazione della realtà, traducendosi in un aumento dei rischi per le nostre famiglie e le nostre comunità, specialmente quelle più svantaggiate. Per queste ragioni – conclude il documento -, invitiamo tutti i media italiani a spiegare chiaramente quali sono le cause della crisi climatica e le sue soluzioni, per dare a tutti e a tutte gli strumenti per comprendere profondamente i fenomeni in corso, sentirsi parte della soluzione e costruire una maggiore fiducia nel futuro“.

Redazione Web 27 Luglio 2023

Pesce fuor d’acqua. L’uomo ha iniziato a nuotare nel bel mezzo del deserto. Bonnie Tsui su L'Inkiesta il 28 Luglio 2023

Su un altopiano del Sahara ci sono pittografie neolitiche raffiguranti alcuni uomini in una serie di pose subacquee. Oggi in quel territorio ci sono dune di sabbia e pareti di roccia. Lo racconta Bonnie Tsui in “Perché nuotiamo” (66thand2nd)

Le prime testimonianze accertate di attività natatorie si trovano nel bel mezzo del deserto. Da qualche parte in Egitto, non distante dal confine libico, sull’altopiano remoto e roccioso del Gilf Kebir nel Sahara, si vedono dei nuotatori che procedono a rana lungo le pareti di una roccia. La Caverna dei Nuotatori, scoperta dall’esploratore ungherese László Almásy nel 1933, custodisce una collezione di pittografie neolitiche raffiguranti alcuni uomini in una serie di pose subacquee. Gli archeologi fanno risalire l’opera ad almeno diecimila anni fa. All’epoca della scoperta di Almásy, l’idea che il Sahara non fosse sempre stato un deserto era piuttosto radicale.

Le ipotesi di un cambiamento climatico a cui imputare il passaggio da un ambiente temperato a un deserto brullo, oltremodo arido, erano talmente innovative che l’editore di Sahara sconosciuto, libro di Almásy del 1934, si vide obbligato a inserire delle note in cui prendeva le distanze dalle posizioni sostenute nel volume. Ma i dipinti convinsero Almásy stesso che, un tempo, l’acqua doveva essere stata un elemento naturale presente proprio nelle immediate vicinanze della grotta, che i nuotatori stessi fossero gli autori dei disegni e che un lago lambisse i loro piedi mentre lavoravano.

Dove oggi c’è un mare di sabbia, un tempo c’era una distesa d’acqua. Mentre uno dei due ambienti era vita liquida, l’altro appariva come la sua antitesi riarsa, granulosa, ma i due in realtà erano connessi, rifletté lo scienziato. Naturalmente, Almásy aveva ragione.

Decenni più tardi, gli archeologi avrebbero scoperto fondali lacustri ormai prosciugati poco distanti dalla grotta, spoglie di un’èra in cui il Sahara era verdeggiante. La sua soluzione al mistero di quei nuotatori nel deserto avrebbe trovato conferma anche grazie al cospicuo numero di prove geografiche indicanti la presenza di un paesaggio un tempo punteggiato di laghi preistorici, nonché alla straordinaria scoperta di ossa di ippopotamo insieme ai resti di tante altre specie acquatiche, comprese tartarughe giganti, pesci e mitili. Quel periodo divenne poi noto col nome di Sahara verde o periodo umido africano.

Non molto tempo fa, su un vecchio numero di «National Geographic», ho letto di un paleontologo di nome Paul Sereno che aveva ulteriormente corroborato l’intuizione di Almásy. Nell’autunno del 2000, Sereno era sulle tracce di ossa di dinosauro in un’altra zona del Sahara, al confine sud, nel Niger ancora poco battuto e soggetto a conflitti. In pieno deserto, a circa 200 chilometri dalla maggiore città del paese, Agadez, uno dei fotografi della spedizione s’inerpicò su per un remoto gruppo di dune e s’imbatté per caso in un ricco giacimento di scheletri. Ma in quel caso le ossa non appartenevano né a dinosauri né a ippopotami.

Le dune di sabbia spazzate dal vento restituirono quelli che a tutti gli effetti erano centinaia di resti umani, inframezzati da scarti di ceramiche preistoriche risalenti ad almeno diecimila anni prima. Alcuni frammenti erano solcati da linee ondulate; altri dipinti con la tecnica del puntinismo. Il luogo di sepoltura, ribattezzato dagli scienziati Gobero, nome Tuareg della zona, era il più grande e più antico cimitero dell’Età della Pietra rinvenuto fino a quel momento. A quanto pare, il Sahara verde un tempo era stato il luogo più adatto a ospitare i nuotatori della preistoria. 

Da “Perché nuotiamo” (66thand2nd), di Bonnie Tsui, pp. 304, 18€

"Se non ti sta bene...": la lezione di Giambruno al ministro tedesco. E la sinistra impazzisce. Karl Lauterbach ha dichiarato che il turismo italiano non avrà futuro a causa del caldo. La replica del giornalista e marito della Meloni: "Stai nella Foresta Nera, stai bene, no?". Ma la sinistra lo usa per attaccare il premier. Francesca Galici il 27 Luglio 2023 su Il Giornale.

Nei giorni scorsi hanno fatto discutere le dichiarazioni del ministro della Sanità tedesco, Karl Lauterbach, che in queste settimane è in vacanza in Italia da dove si è lamentato dell'eccessivo caldo del nostro Paese, spiegando che "in Italia il turismo non ha futuro, fa troppo caldo. Usate le chiese come celle frigorifere". E visitando Bologna, città dalla storia e dall'arte senza paragoni nel mondo, il ministro ha detto: "L’ondata di caldo qui è spettacolare. Se le cose continuano così, queste destinazioni di vacanza non avranno futuro a lungo termine. Il cambiamento climatico sta distruggendo l’Europa meridionale. Un’era volge al termine". Alle parole di Lauterbach ha risposto Andrea Giambruno, giornalista Mediaset di lungo corso, nonché compagno di Giorgia Meloni.

Il ministro tedesco choc: "In Italia il turismo non ha futuro. Le chiese come celle frigorifere"

Karl Lauterbach sembra davvero convinto delle sue affermazioni e, come sempre accade nel nostro Paese non mancano i soliti che, invece di replicare al nostro chiedendogli se pensa che la Germania sia davvero migliore rispetto all'Italia, gli danno ragione. Il ministro del Turismo, Daniela Santanché ha replicato con garbo al collega del governo tedesco, sottolineando come moltissimi dei suoi connazionali scelgano da sempre il nostro Paese e che il cambiamento climatico non riguarda solo l'Europa meridionale ma l'intero Vecchio Continente.

Dal ministro tedesco è arrivato un attacco screditante all'Italia e per ragioni che non sono ancora ben chiare Lauterbach ha forse tentato di mettere in cattiva luce il nostro Paese per agevolare qualche altra destinazione turistica, magari in Germania. "Se non ti sta bene stai a casa tua. Stai nella Foresta Nera, stai bene, no?", ha detto Andrea Giambruno al ministro nel corso del programma su Rete Quattro Diario del giorno da lui condotto. Non sono mancate per questo critiche al giornalista da parte di diversi esponenti politici rossi e della stampa amica della sinistra, perché la posizione di Andrea Giambruno è comoda per lo schieramento di opposizione, che utilizza i legami personali del giornalista per attaccare Giorgia Meloni, sua compagna nonché madre di sua figlia. Ancora una volta, la sinistra del nostro Paese si dimostra priva di qual si voglia pudore e capacità politica, sfruttando la famiglia del premier per tentare di indebolirla politicamente.

Una bordata verso Lauterbach è arrivata anche da Matteo Renzi, che nella sua newsletter ha dichiarato: "Ha detto che in Italia il turismo è destinato a scomparire e che le chiese dovrebbero diventare dei luoghi di ristoro per chi ha caldo. Non so se il caldo farà male al turismo italiano, sono certo che il caldo abbia già fatto male al ministro tedesco". Non pago della stilettata, l'ex premier ha concluso: "Quando leggo certi commenti superficiali e finalizzati a fare notizia non mi preoccupo per la tenuta del nostro patrimonio culturale, ma per la qualità della loro sanità".

Nicola Porro, clima e incendi? "Ecco l'articolo che in Italia hanno censurato". Libero Quotidiano l'01 agosto 2023

La questione clima e incendi in Italia sta dividendo l'opinione pubblica. Se da una parte c'è chi pensa che all'origine dei roghi ci sia proprio il riscaldamento globale, dall'altra invece c'è chi pensa che l'aumento degli incendi non c'entri nulla col cambiamento climatico. A tal proposito sul sito di Nicola Porro si fa riferimento a un articolo del Wall Street Journal che qui da noi sarebbe stato "censurato": "Secondo voi qualcuno lo ha fatto leggere qui in Italia?". 

L'autore dell'articolo, Bjorn Lomborg, presidente del Copenhagen Consensus, ha scritto: "Per più di due decenni, i satelliti hanno registrato incendi sulla superficie del pianeta. I dati sono inequivocabili: dall’inizio degli anni 2000, quando il 3% della terra del mondo ha preso fuoco, l’area bruciata ogni anno ha registrato una tendenza al ribasso". E ancora: "Nel 2022, l’ultimo anno per il quale esistono dati completi, il mondo ha toccato un nuovo minimo storico del 2,2% di superficie bruciata“. Dunque, sarebbe sbagliato sostenere che il riscaldamento globale stia incidendo sull'aumento degli incendi su scala mondiale, come invece spesso si legge sui giornali.

"Prendi gli incendi canadesi quest’estate. Sebbene i dati completi non siano disponibili per il 2023, il monitoraggio globale fino al 29 luglio da parte del 'Global Wildfire Information System' mostra che nelle Americhe è stata bruciata più terra del solito - continua Lomborg nel pezzo -. Ma gran parte del resto del mondo ha visto una combustione inferiore: l’Africa e soprattutto l’Europa“. Pur non sottovalutando la questione incendi, quindi, per l'esperto è importante evitare di alimentare un allarmismo ingiustificato. 

Negazionisti climatici? Mi faccia il piacere. Michel Dessì il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

In questa puntata ci occupiamo degli attacchi "sinistri" sul negazionismo climatico. Siamo stati a Palombara Sabina, in occasione della Festa dei Patrioti, e abbiamo raccolto le voci di alcuni parlamentari e militanti sul tema

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Ci risiamo! La sinistra attacca su un nuovo fronte: quello climatico. Per loro la grandine “killer” al nord e gli incendi boschivi al sud sono responsabilità del governo Meloni. Sì, avete capito bene! Per loro, per i sinistri, a destra sono tutti “negazionisti climatici”. Proprio così. Non vi sembra assurdo? Lo sapete, noi de La Buvette vogliamo vederci chiaro e così, approfittando della “Festa dei Patrioti” di Palombara Sabina (giunta ormai alla decima edizione), siamo andati a chiedere a politici e militanti se realmente sono dei “negazionisti climatici”.

“Non vedo per quale ragione si debba dire che la destra non riconosce il problema del clima” - ci dice apparentemente scocciato il capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Tommaso Foti - “diamo delle risposte diverse. Purtroppo la grandine distrugge”. Ma siete preoccupati per quello che sta avvenendo? “Beh, ovvio è una situazione (che comunque ha altri precedenti) che preoccupa”. E alla sinistra che vi accusa di essere negazionisti cosa rispondente? “Loro che accusino, noi prendiamo i voti”.

Ma l’onorevole Paolo Trancassini ha le idee ben chiare e ribatte alla sinistra: “Non c’è la capacità di misurarsi con la politica! Noi abbiamo attraversato tre governi e noi facevamo sempre massima attenzione ai provvedimenti. Quando dicevamo di “no” dovevamo motivare il perché e, soprattutto, presentare una proposta alternativa. È questo quello che fa la politica”. Insomma, tutte accuse buttate lì per fare confusione. E forse, Trancassini, non ha tutti i torti.

Dopo il fascismo ora spunta il negazionismo. Inspiegabilmente legati. Nonostante gli interventi di Giorgia Meloni a favore di telecamera dove si dice preoccupata da quello che sta accadendo. Insomma, ogni scusa sembra buona per attaccare. Giusto, ma se lo facessero sui temi veri ne acquisterebbero di credibilità e di consenso. “Noi siamo continuamente insultati e additati come se fossimo completamente fuori tema ma invece sono loro ad esserlo, il Pd e il Movimento 5stelle”.

E i militanti intenti a preparare una amatriciana italica cosa dicono? “A noi fa paura quella grandine, nessuno qui nega il cambiamento climatico”. Beh, vorrei ben vedere. Un fatto è certo ed è innegabile: il caldo dà alla testa.

"Troppo allarmismo sul clima". Gli italiani smontano gli eco terroristi. Il Rapporto Ital Communications-Censis "Disinformazione e fake news in Italia" lo conferma: per un italiano su tre c'è un catastrofismo smisurato sul tema. Massimo Balsamo il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

Per un italiano su tre il catastrofismo sul riscaldamento globale è eccessivo. Questo quanto emerso nel Rapporto Ital Communications-Censis "Disinformazione e fake news in Italia". Di cambiamento climatico si parla tanto e in modo confuso, alimentando cattiva informazione e negazionismo: entrando nel dettaglio dei numeri, il 34,7 per cento degli italiani è convinto che ci sia un allarmismo esagerato. Per il 25,5 per cento, invece, l’alluvione di quest’anno rappresenta la risposta più efficace a chi sostiene che si sta progressivamente andando verso la desertificazione. Il 16,2 per cento è invece convinto che il climate change non esista; la percentuale tocca il 18,3 per cento tra gli anziani e il 18,2 per cento tra i meno scolarizzati.

Cruciani in tackle: "La caccia alle streghe, il nuovo dogma del cambiamento climatico".

Riflettori accesi anche sulla sostenibilità economica della transizione ecologica. Il Rapporto segnala che secondo il 33,4 per cento degli italiani richiederebbe sforzi e investimenti che in questa fase non ci possiamo permettere e che ci costringerebbero a fare un passo indietro negli standard di vita di benessere e qualità della vita ormai acquisiti. Come riportato da TgCom24, la percentuale tocca il 51,5 per cento tra chi ha al massimo la licenza media, il 36,6 per cento tra gli over 64 anni e il 37,8 per cento tra le donne.

Censis, i dati sull'AI

Il Rapporto Ital Communications-Censis ha poi affrontato il dossier AI ed emerge un dato con forza: per tre italiani su quattro (75,1 per cento) con l'upgrading tecnologico verso l'Intelligenza Artificiale sarà sempre più difficile controllare la qualità dell'informazione. Per il 58,9 per cento, invece, l’AI può diventare uno strumento a supporto dei professionisti della comunicazione. E ancora, l’85,8 ha manifestato il timore di farsi trovare impreparato di fronte al cambiamento tecnologico

Informazione e fonti

Il Rapporto Ital Communications-Censis "Disinformazione e fake news in Italia. Il sistema dell'informazione alla prova dell'Intelligenza Artificiale" conferma che circa 47 milioni di italiani – il 93,3 per cento del totale – si informa abitualmente almeno su una delle fonti disponibili. Nel dettaglio, l'83,5% usa anche il web e il 74,1% sui media tradizionali. Sono 3 milioni e 300 mila gli italiani che rinunciando ad avere un’informazione puntuale su ciò che accade. I restanti 700 mila italiani non si informano affatto.

Il 64,3 per cento punta su un mix di fonti informative, tradizionali e online, il 9,9 per cento si affida unicamente ai media tradizionali mentre il 19,2 per cento alle fonti online. Da segnaalare il fenomeno delle echo chambre – social, blog, forum e così via: sono esposti tutti quelli che frequentano il web e soprattutto i più giovani, tra i quali il 69,1% utilizza la messaggistica istantanea e il 76,6% i social media per informarsi. Per più di un italiano su due – il 56,7 per cento – è legittimo rivolgersi alle fonti informali di cui ci si fida di più a causa del disordine informativo che caratterizza il panorama attuale dell’informazione.

Clima, Pietro Senaldi: i veri negazionisti sono loro, pericolo per la democrazia. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 27 luglio 2023

La strategia del negazionismo. L’opposizione non sa più come contrastare il governo e ogni giorno se ne inventa uno diverso. Ieri, copyright di Sandro Ruoto lo, portavoce di Elly Schlein, è stata la volta del negazionismo sociale, del quale il centrodestra si renderebbe colpevole perché non approva la mozione di Pd e M5S per l’introduzione del salario minimo. Ben arrivato e si metta in coda, dietro al negazionismo climatico, che sarebbe poi l’atteggiamento di coloro che non negano nulla, ma solo dubitano che le ricette progressiste per contrastare l’innalzamento delle temperature siano efficaci o non producano magari più danni che benefici.

E dietro anche a quello scientifico, applicato a chi si permetteva di chiedere quali effetti collaterali avesse il vaccino anti-Covid, visto che tutti i medicinali ne hanno, e che ha fatto arrabbiare la comunità ebraica, che con qualche ragione sosteneva che tirare in ballo il negazionismo per etichettare e squalificare chi non la pensa come i progressisti ha la conseguenza di banalizzare il negazionismo vero di chi sostiene che l’Olocausto non ci sia mai stato. Attenzione, qui la questione è doppia, politica e giuridica. Dare del negazionista all’avversario significa considerarlo indegno del dibattito pubblico, non volerne ascoltare le ragioni, affermare a contrario e con violenza di essere sempre nel giusto e soprattutto bollare come criminale chi non condivide il pensiero progressista. Dal 2016 infatti, anche se limitatamente a chi nega la Shoah, i genocidi e i crimini contro l’umanità, il negazionismo in Italia è un reato e per questo la sinistra ne vuole ampliare i confini oltre i limiti storici imposti dalla legge, come dimostra la proposta del verde Bonelli, che vorrebbe fosse considerato un criminale chiunque ha un’opinione diversa dalla sua in materia ambientale. È la prova che il negazionismo è contagioso, ma ancora di più lo è l’accusa che la sinistra fa agli altri di esserlo.

SCARSITÀ DI ARGOMENTI

Si diceva che questa è una strategia politica, della cui efficacia è lecito dubitare, ma non è un caso che sia nata nell’area dem. Essa non solo tradisce l’attuale mancanza d’argomenti forti da parte dell’opposizione, capace solo di dare del brutto e del cattivo a chi l’ha battuta ma filosoficamente testimonia la natura dirigista e autoritaria della sinistra dove, gratta gratta, l’impronta stalinista riaffiora sempre. Sarebbe illusorio pensare che il dispotismo intellettuale dei progressisti scaturisca solo dalla loro convinzione di essere sempre nel bene e nel giusto. Questo è un atteggiamento, un abito mentale non spontaneo ma studiato a tavolino: si vuol mettere fuori gioco l’altro per coprire le proprie debolezze e perché quella talebana è da sempre la legge politica pietra angolare della sinistra. Cucinare una verità, darla in pasto ai compagni e lucrarci sopra, è così dal tempo di Lenin e della Fattoria degli Animali di Orwell. Ma poi, cosa c’è di più negazionista del negare all’avversario il diritto a un pensiero diverso? La strategia negazionista è un pericolo per la democrazia. Lo abbiamo visto con il Green Pass, che negava ai sani il diritto costituzionale al lavoro in nome di un totem che siamo stati l’unica nazione al mondo a erigere. 

Lo stiamo vedendo con il clima, dove fior di scienziati vengono trattati da ciarlatani solo perché affermano che non si sa quanto l’attività dell’uomo incida sul surriscaldamento del pianeta o perché si chiedono se i sacrifici che l’Europa vuole imporre, specie ai cittadini più poveri, valgano la candela, visto che l’aria non ha confini e che il resto del mondo inquina cento volte più di noi. E forse lo vedremo anche con il salario minimo e, certamente, poi con l’utero in affitto: chilo combatterà verrà tacciato di negazionismo dell’infanzia o della famiglia. 

QUANTE BALLE

Per fortuna le tragedie della sinistra finiscono sempre in farsa e tale sta diventando anche questa menata del negazionismo perpetuo. Perché alla fine dei conti, sono i progressisti i veri negazionisti, dell’evidenza ancora più che della realtà. L’ultimo esempio è quello della reazione al voto in Spagna. Il Partito Popolare ha aumentato del 50% i seggi e il centrodestra nel suo complesso è cresciuto ma siccome l’ultradestra di Vox è calata, la sinistra nostrana canta vittoria. Ma anche l’invenzione del negazionismo sociale come accusa a chi si oppone al salario minimo, altro non è che un modo per buttarla in vacca. $ uno scandalo a cui porre rimedio che in Italia ci siano contratti orari da 5 euro e tre milioni e mezzo di lavoratori mal pagati, ma è una balla cosmica sostenere che basterebbe l’introduzione della proposta piddina e grillina per risolvere i problemi della povertà. Per non parlare del negazionismo sui soldi del Pnrr che non sarebbero mai arrivati e che invece ci sono o sui figli delle coppie omosessuali che non hanno il diritto di essere ritirati all’asilo dal genitore non biologico, quando sono i nonni e le baby sitter ad andare a prendere almeno il 50% dei bambini. E così il negazionismo, da arma politica per demonizzare il centrodestra, sta rapidamente diventando per il Pd e affini una proiezione di se stessi.

Urlando contro il cielo. Purtroppo stiamo scrivendo una pagina della commedia italiana più vicina ai film dei Vanzina che non al Goldoni, sprazzi di vera comicità che rasentano il ridicolo. Augusto Minzolini il 26 Luglio 2023 su Il Giornale.

Purtroppo, dico purtroppo rispetto alle devastazioni provocate dal maltempo messe in relazione al dibattito sul cambiamento climatico, stiamo scrivendo una pagina della commedia italiana più vicina ai film dei Vanzina che non al Goldoni, sprazzi di vera comicità che rasentano il ridicolo. Parafrasando Karl Marx, il dramma che si trasforma in farsa. Che senso ha, ad esempio, il rimprovero di Elly Schlein al governo per non aver fatto nulla sul clima in 9 mesi? Una banalità. Come se l'Italia potesse risolvere da sola in tre stagioni un problema planetario. E al solito una questione di dimensioni epocali viene trattata come una polemica da cortile di casa nostra, corredata del solito impianto ideologico che è l'abito naturale di ogni discussione che si svolga nel paese dei Guelfi e dei Ghibellini.

Il rebus del momento è se il cambiamento climatico ha cause antropiche, cioè è stato determinato dalle attività dell'uomo, o se invece il caldo torrido oltre i quaranta gradi nell'Italia meridionale - e di contro il tornado, l'orco demonio, con il vento a 150 chilometri orari nell'Italia settentrionale - siano fenomeni ciclici nella meteorologia che nel tempo si sono sempre presentati. Sull'argomento, la comunità scientifica è divisa e ancor di più lo è la politica con i media al seguito. Si stanno riproponendo più o meno i comportamenti che hanno accompagnato il Covid. Nessuno ha la verità in tasca, come pure nessuno coltiva il minimo dubbio su ciò che asserisce. È una guerra di religione con fedi contrapposte.

In realtà neppure il tema è ben posto, perché anche se fosse tutta colpa dell'uomo, il nostro Paese e neppure la grande Europa potrebbero far molto, perché i grandi inquinatori sono le economie emergenti, tipo l'India o la Cina, o ancora gli Stati Uniti. E visto che l'inquinamento, il monossido di carbonio e tutto il resto superano i confini, anche se fermassimo da un momento all'altro la nostra economia, la nostra condizione non cambierebbe di un fico secco. Diventeremmo solo molto, molto più poveri. Con il paradosso di favorire la Cina, cioè il Paese che produce più carbonio al mondo, ma nel contempo anche quello che più investe in green economy (ha quasi il monopolio dei pannelli solari).

Questo non significa che non si debba perseguire una politica ambientalista contro l'inquinamento, sarebbe da folli: salvaguardare il pianeta è un obiettivo primario per tutti. Solo che, come in ogni cosa, bisogna muoversi con realismo e pragmatismo nella consapevolezza che è un problema che non possiamo risolvere da soli. Quello che, invece, possiamo - e dobbiamo - fare è creare strutture e organizzare i nostri territori in modo che simili fenomeni creino il minor danno possibile e non mettano a repentaglio la vita di qualcuno. E nel frattempo tentare di convincere i Paesi più inquinanti che forse sarebbe il caso di cambiare politica e modello di sviluppo: la Cina oggi produce all'incirca il 27% del monossido di carbonio globale; basterebbe che arrivasse a produrne il doppio di quello che introducono ora nell'atmosfera tutti i 27 Paesi europei (il 6,4%). Sarebbe un gran passo. Questo per dire ai tanti «gretini» di turno e ai grilli parlanti del momento che il problema non è a Roma, ma a Pechino. Insomma, si imporrebbe a tutti un po' di serietà quando si parla di caldo o di uragani. A meno che qualcuno non pensi di fermare i nubifragi gridando «no rain, no rain» come a Woodstock.

Reato di negazionismo climatico? In galera pure gli amici di Bonelli. Franco Battaglia su Nicolaporro.it il 24 Luglio 2023

Se non esistesse bisognerebbe inventarlo. Parlo di Angelo Bonelli, un angelo anche di fatto: non appena apre bocca ci mette subito di buon umore, e di questi bellicosi tempi la cosa è salvifica. L’ultima volta che l’ha aperta, Bonelli profferiva il seguente monito: «Presento una proposta di legge per introdurre il reato di negazionismo climatico, perché i negazionisti climatici fanno più danni della grandine, della siccità e delle alluvioni messe insieme».

La strana logica di Bonelli

Seguire la ferrea logica di solo questa frase è uno spasso. Cerchiamo di seguirla, anche se lo sforzo è notevole. E, al momento, non domandiamoci cosa negazionismo climatico significhi, un’occasione di altro spasso alla quale arrivo fra poco. A uno guidato anche solo dalla pur imperfetta logica Aristotelica verrebbe da dire che un danno è di solito la conseguenza di un’azione, mentre il complesso sistema di neuroni di alcuni ambientalisti fa loro dedurre che il solo fatto di negare una cosa – che secondo i medesimi sarebbe verità incontrovertibile – per ciò stesso si producono danni.

Ora, divertiamoci a negare le verità veramente più incontrovertibili: Roma non è la capitale d’Italia, 2+2 non fa quattro, la Terra non è tonda ma è un cubo. Come queste mie appena enunciate negazioni possano costituire un danno è un mistero che sicuramente il Bonelli saprà motivare in una sua apposita proposta di legge mirata a sbatterci in galera.

Bonelli e il negazionismo climatico

Ad ogni buon conto io mi auguro veramente che il colpo di genio si materializzi e una proposta di legge sul negazionismo climatico sia sbroccolata. Per varie ragioni. Primo – la ragione più importante – è perché non vogliamo essere privati del buonumore che l’onorevole trasmette in modo così spontaneo e generoso. Anche se, a dire il vero, con quello che gli paghiamo di stipendio potremmo pretendere di più.

Un’altra ragione è che non vorrei perdermi lo spettacolo di vedere ammanettati tutti i compagni di partito dell’onorevole. I quali da decenni lamentano che «non ci sono più le quattro stagioni», che è come sostenere che non ci sono i cambiamenti climatici: in galera! Il loro avvocato s’azzeccagarbuglierà sostenendo che parlavano delle omonime pizze, magari convincerà la Corte, e otterrà per essi l’assoluzione.

Le mezze stagioni? Ci sono

Qualcuno, a dire il vero, lamenta che «non ci sono più le mezze stagioni». Senonché, il servizio meteorologico dell’aeroporto di Milano-Linate, registrava nel 2022 le seguenti temperature massime: nel mese di gennaio oscillazioni tra 3 e 16 gradi, e nel mese di luglio oscillazioni tra 31 e 37 gradi, con ciò provando che le due stagioni estreme esistono; invece si registrarono temperature massime oscillanti tra 10 e 25 gradi in aprile e tra 19 e 25 gradi in ottobre, con ciò provando che esistono anche le mezze stagioni. Alla fine, anche quei compagni di partito di Bonelli che negano le mezze stagioni verrebbero sbattuti in galera dalla legge del loro stesso presidente.

Chi è il negazionista climatico

Mi si informa che per negazionista climatico il deputato intende «colui che nega che il cambiamento sia colpa dell’uomo e s’incaponisce che è cosa naturale». Insomma, il negazionista climatico del Nostro non nega né il clima né il cambiamento. Anzi, prende per buoni tutti i dati climatici che gli vengono offerti dai non-negazionisti, ma proprio tutti. Solo che mentre questi ultimi interpretano quei dati affermando che essi sono quel che sono per colpa dell’uomo, i negazionisti del Bonelli interpretano quei dati affermando che quei dati sono quel che sono perché la Natura è quel che è. Insomma, Bonelli vorrebbe sanzionare chi non interpreta i dati come li interpreta lui. Cosicché se un giorno egli si convincesse d’essere Napoleone, noi potremmo attenderci un disegno di legge che istituisce il reato di negare quel convincimento.

A ulteriore sostegno della necessità di mettere in galera i “suoi” negazionisti, Bonelli produce i chicchi di grandine “grossi come palle da tennis”, piovuti pochi giorni fa nel Triveneto e attribuiti alla sola esistenza dei negazionisti. Un rapido calcolo consente di stimare in 300 grammi la massa di quei chicchi. E una rapida ricerca in internet ci informa che i chicchi di grandine più grandi mai registrati (con massa fino a oltre un chilogrammo) piovvero nel Bangladesh nell’aprile 1986 e in Svizzera nell’agosto del 1927.

Da Pecoraro Scanio alla grandine

Per meglio motivare la proposta di legge, Bonelli potrebbe dire che la colpa dei negazionisti sarebbe che essi inducono i responsabili politici ad evitare la transizione energetica. E qui non capisco le preoccupazioni dell’onorevole, giacché, di tutta evidenza, i responsabili politici se ne stanno bellamente impipando dei negazionisti, come il Pacchetto per il clima 20-20-20 approvato dalla Ue nel 2008 e il più recente Green new deal, inequivocabilmente attestano. A questo proposito, visto che ci siamo, non possiamo non osservare che, in ordine alla transizione energetica, a fronte di una domanda elettrica nazionale di meno di 35 GW, l’Italia ha già installato 40 GW di impianti eolici e fotovoltaici, grazie alle leggi volute nel 2007 da un precedente Presidente Verde, che allora era ministro: Alfonso Pecoraro Scanio. Epperò, quei 40 GW non hanno evitato né le siccità, né le alluvioni, entrambe temute da Bonelli. E non hanno evitato i chicchi di grandine. Suona un qualche campanello in proposito?

Per ultimo, ma non ultimo. Angelo Bonelli è in politica da, praticamente, sempre. Ci auguriamo che codesta promessa legge l’abbia già pronta (sennò non si capisce cosa egli abbia fatto finora), e ne attendiamo il deposito nei prossimi giorni. Diversamente, azzardiamo un limite: Natale. Se entro Natale avremo la legge, la commenteremo, e se a Natale nulla sarà ancora pervenuto, ne chiederemo conto al nostro amico. Moriamo dalla voglia di leggere il testo, perché non si dica mai che egli parli a vanvera.

Franco Battaglia, 24 luglio 2023

Caldo Record ma non raccontateci bugie sui blackout e sui malori. Sergio Barlocchetti su Panorama il 17 Luglio 2023

Altro che afa killer, allarmi blackout, catastrofi imminenti, la rete elettrica italiana funziona e non ci lascerà senza condizionatore 

Frenate l’allarmismo, amplifica il disagio. Nel mese di giugno ha piovuto a sufficienza, il gas per produrre energia elettrica non manca, fa caldo ma gli italiani hanno imparato ad andare in vacanza anche in luglio. Altro che afa killer, allarmi blackout, catastrofi imminenti, la rete elettrica italiana funziona bene e stando ai numeri pubblicati sul sito web di Terna, seppure ci sia un incremento non dovrebbero verificarsi crisi energetiche. Qui trovate l’andamento giornaliero: Preventivo Consuntivo. Magari qualche interruzione locale e temporanea notturna nei quartieri cittadini più popolati, ma nulla che metta in crisi il cibo conservato nei congelatori. Perché ormai se una testata spara il suo titolone le altre fanno il coro, spesso senza neppure chiedersi se sia vero oppure no e soprattutto quanto. Così il caldo diventa infodemia e tutto appare più critico di come in realtà sia. Termometri a parte, che registrano temperature alte confermate dai meteorologi – con tanto di inizio e fine del periodo - ormai le battute spiritose sui social la fanno da padrone. Il meme più cliccato: «non è davvero estate finché la tv non ha trasmesso il servizio sugli effetti del caldo sugli anziani». Prendiamola con filosofia, di vero c’è che più condizionatori d’aria sono accesi in minor spazio, più caldo farà all’esterno per via del calore che emettono per raffrescare i locali. Qualche attempato ricorderà come nelle metropoli italiane, non appena scattava l’esodo di agosto, ricompariva la brezza e la temperatura tornava a valori estivi ma non certo critici, con l’asfalto che non si scioglieva più, salvando i motociclisti dall’affondamento dei cavalletti. Di vero c’è anche che localmente si potrebbero verificare dei record di temperatura, ma a fare di un’estate una stagione rovente (come quella del 2003), sono anche la continuità dell’esposizione e l’umidità relativa, così come per la percezione contano stile di vita (in zona torrida ha sempre imperato la siesta nelle ore più calde), l’alimentazione (serve acqua, quindi frutta, niente bibite gasate, il gas con il calore si espande e neppure ghiacciate, la reazione ci porterà a sudare immediatamente), e si possono ancora usare rimedi di una volta, come tenere i piedi a bagno in modo che il sangue circolando ci raffreddi, oppure quello di usare grandi tende da sole esterne che non permettano ai vetri delle finestre di diventare piastre radianti che riscaldano gli ambienti. Insomma, più del caldo, spesso a renderlo insopportabile è quanto della calura si parla, riparla, discute, ribadisce. E poi quanti errori facciamo nel vestirci – mai troppo attillato, pensate agli arabi – o nel lavarci – niente docce fredde da sudati. Fateci caso, le creature viventi che meglio sopportano alte temperature sono molto lente, rallentano metabolismo e movimenti. Perché gli effetti del caldo eccessivo esistono eccome e se riconosciuti in tempo possono aiutarci ad affrontare la situazione ovunque ci troviamo. Il caldo estremo se non mitigato porta a un aumento della disidratazione ma anche della perdita di concentrazione (pensiamo alla conduzione di mezzi di trasporto), riduce la memoria a breve termine (aumentano i lapsus e le dimenticanze), rallenta la percezione dello spazio circostante (si arriva a cambiare postura e strizzare gli occhi limitando il campo visivo). Un piccolo aiuto arriva dall’aviazione, settore nel quale i piloti imparano a usare l’indice Humidex, ovvero la correlazione degli effetti psicofisici di temperatura e umidità. Si tratta di un grafico di origini canadesi riferibile a chi è in buona salute; quindi, in caso siate persone particolarmente fragili per anzianità o salute, sarà necessario considerarvi meno tolleranti alla scala dei colori, ma rende bene l’idea di come ci si senta.  

Estratto dell’articolo di Elena Dusi per "la Repubblica" il 18 luglio 2023.

In Europa abbiamo Caronte, il traghettatore delle anime. L’ondata di caldo che già ieri ci sembrava insopportabile, con picchi di 43° al Sud, secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo) si intensificherà ulteriormente. Raggiungerà il culmine domani, ma si tratterrà con noi fino ad agosto, seminando record di temperatura lungo la strada. 

«Nuovi massimi previsti» avverte la Wmo, trasportandoci col pensiero al picco europeo registrato l’11 agosto 2021: 48,8° vicino Siracusa. Per oggi in 20 città italiane su 27 è previsto il bollino rosso. Ieri erano 17 e domani saranno 23. Altro che traghettatore, insomma. La macchia rossa di Caronte che nelle mappe meteorologiche ricopre l’Europa tra Spagna e Turchia ha un che di obeso e ristagnante.

È una bolla di caldo che risale dal Sahara, si piazza sul Mediterraneo e tratta l’Europa come fosse una provincia dell’Africa, con temperature fino a 10° oltre la media. Provoca caldo, ma anche incendi. […] 

Può sembrare paradossale, visto che domenica la Cina ha registrato il suo record di caldo per questo periodo dell’anno: 52,2°. Ma l’afa (accompagnata dagli incendi) e le tempeste (accompagnate dalle alluvioni) sono le due facce della stessa medaglia, che in sincronia stanno martellando Asia, America ed Europa. […] 

L’aria del deserto, che sia il Sahara, quello del Messico, del Gobi o della penisola arabica, col riscaldamento globale si espande verso nord. Probabilmente le nostri estati d’ora in poi saranno così, al netto di qualche variazione annuale».

Oggi nelle mappe Caronte ha la forma di una lingua rossa che dall’Africa si protende verso il Sud Europa, ingoiandolo. «Dipende dal monsone africano» spiega Bernardo Gozzini, direttore del Consorzio Lamma di Firenze (il Laboratorio di monitoraggio e modellistica ambientale gestito da Regione Toscana e Cnr). «Da vari anni la cella climatica tropicale, che comprende il Sahara, tende ad espandersi verso nord, inglobando l’Europa meridionale. 

Porta con sé anticicloni statici, che perdurano a lungo e non sono accompagnati da venti rinfrescanti. Le temperature si mantengono sopra ai 20 gradi anche di notte, rendendo l’afa ancora più fastidiosa e impedendoci di dormire». Uno studio pubblicato sulla rivista Plos nel 2019, d’altra parte, prevedeva che il clima di Marrakesh si sarebbe presto trasferito a Madrid. 

Ecco, ora l’Africa è arrivata. «Adesso ci lamentiamo» commenta amareggiato Gozzini. […]

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per "la Repubblica" il 18 luglio 2023.

Negare il problema, come primissima opzione, deresponsabilizzando singoli e collettività. Isolare un dato parziale e circostanziato e costruirci sopra una narrazione che smonti l’urgente necessità di un cambiamento. Infine evocare presunti burattinai dietro alla “minaccia” del riscaldamento globale, pazienza se molto spesso è proprio la bolla negazionista quella ad essere finanziata dal mondo dei combustibili fossili.

Il discorso pubblico della destra — italiana, europea, americana — segue da anni lo stesso identico filone e anche in questi giorni di temperature fuori controllo lo schema non cambia. «D’estate fa caldo, non c’è nessun motivo di creare allarmismo — dice Claudio Borghi, parlamentare della Lega — alcuni ghiacciai si sciolgono, ma questo rientra nella storia del mondo». 

Ecco, se il consenso scientifico attorno all’emergenza climatica e alle sue cause (cioè le emissioni sempre crescenti di gas serra e ad altri fattori riconducibili alle attività umane) si attesta attorno al 98% delle pubblicazioni, quel restante 2% trova nel mondo conservatore mondiale un fedele e anche astuto megafono. 

Perché non ci sono solo personaggi come ad esempio Lucio Malan, capogruppo al Senato di FdI e in passato promotore di convegni dal titolo tipo “Non c’è un’emergenza climatica”, che sembrano voler negare l’evidenza e quindi vengono presi poco sul serio. Ce ne sono tanti altri che invece utilizzano il fortunatissimo oppositivo: non nego che ci sia un problema ma, sulla falsariga del “non sono razzista ma”. […] 

Così non a caso Francesco Giubilei, campioncino nostrano del pensiero conservatore, twitta picchi di calore degli anni passati aggiungendo «basta toni apocalittici sul cambiamento climatico», quest’ultima un’espressione coniata oltre 20 anni fa da Frank Luntz, stratega comunicativo dei repubblicani Usa, molto più morbida e rassicurante di “riscaldamento globale”.

Sempre non a caso Carlo Fidanza, big meloniano a Bruxelles, dice che «i cambiamenti climatici ci sono sempre stati nel corso dei millenni e vanno affrontati senza toni apocalittici. La transizione ecologica è un obiettivo condiviso, che noi mettiamo in pratica a tutti i livelli di governo nei quali siamo impegnati. 

Sono le modalità dettate da Bruxelles che non ci convincono: target irrealistici da raggiungere in tempi troppo ravvicinati; nessun rispetto del principio di neutralità tecnologica: l’elettrico tutto e subito e l’ostilità al biocarburante condannano intere filiere industriali; mancanza di reciprocità e nuova dipendenza dalla Cina. A queste condizioni la transizione green diventa insostenibile». […]

No, è una manovra delle élite contro il popolo. I nomi tirati in ballo sono sempre gli stessi, buoni anche per le teorie complottiste su pandemia, sostituzione etnica, euro: da Bill Gates a George Soros (il banchiere ebreo, anzi mondialista…). […]

Record in tutta Italia. Mercoledì di fuoco: ma perché questo caldo? Il Mediterraneo è uno dei “laboratori” degli effetti del riscaldamento globale. Il mitologico anticiclone delle Azzorre che dall’oceano Atlantico settentrionale si piazzava fermo e stabile sulla penisola, contrastando e annullando il molto rovente “anticiclone Africano” è stato spazzato via dal competitor africano Caronte. Erasmo D'Angelis su Il Riformista il 19 Luglio 2023 

Sotto la stabile canicola tropicale che staziona sopra di noi ormai da settimane, quanti ricordano e rimpiangono una delle poche granitiche certezze che dagli anni Sessanta del Novecento trasmetteva agli italiani “Che tempo fa”, i cinque minuti prima del Telegiornale delle 20 sull’unico canale Rai di allora, che portava in casa la “previsione del tempo” per domani o al massimo per dopodomani. Parole e volto pacato e professionale del mitico colonnello dell’Aeronautica Edmondo Bernacca, il primo meteorologo della tivù che fece entrare la parola “meteorologia”, all’epoca ramo della scienza militare, nelle case degli italiani.Da interprete dei fatti del cielo, spiegava i meccanismi più complessi con le sue carte del tempo, costruendo un quadro chiaro dell’evoluzione.

Certo, una grossa mano al colonnello la dava l’altrettanto mitico “anticiclone delle Azzorre”, un fenomeno all’epoca talmente oscuro per i telespettatori che si adattava perfettamente alla descrizione che il giovane Giacomo Leopardi, nel più curioso dei suoi libri, lo strabiliante “Saggio sopra gli errori popolari degli antichi”, faceva del vento, l’inspiegabile “soffio” dei primitivi: “Guardando intorno, non vedeasi cosa che cagionasse quel soffio. Questo fenomeno inconcepibile colpì gli uomini primitivi. Essi si prostrarono stupefatti, e adorarono il Nume sconosciuto che passava invisibile sopra le loro teste”.

Dell’invisibile anticiclone gli italiani impararono in fretta che sarebbe arrivato puntuale tra la terza e la quarta settimana di giugno, quando l’alta pressione iniziava a scaldare, e dalle Azzorre avrebbe reso le nostre estati decisamente le più gradevoli e invidiate, accompagnate dai suoi venti rinfrescanti e da temperature poco oltre i 30°C al Nord e qualcosina in più al Centro-sud ma solo nelle canoniche due settimane più calde dell’anno, tra l’ultima di luglio e la prima di agosto. L’estate aveva una sua tempistica e i gradi di temperatura scontati, ufficialmente si concludeva a fine agosto con qualche temporale ma a settembre iniziava il secondo tempo estivo con valori di temperatura tra i 24 e i 28C°.

Non c’era internet, l’alfabetizzazione era in corso e le mappe meteorologiche atmosferiche erano top secret. Ma gli italiani erano sempre rassicurati non solo dai governi a guida democristiana ma anche dal puntualissimo ritorno del mitologico “anticiclone delle Azzorre” che dall’oceano Atlantico settentrionale si piazzava fermo e stabile sulla penisola, contrastando e annullando il molto rovente “anticiclone Africano”.

Un impareggiabile ruolo di regolatore climatico dell’atmosfera lo aveva e continua ad averlo il Mediterraneo. Già, non tutti i mari sono uguali, e il Nostrum faceva sempre la differenza climatica. L’amato Mediterraneus, il mare “in mezzo alle terre” addolciva il clima dell’Italia rendendolo il più invidiabile del mondo perché era mitigato dalla massa d’acqua marina mediterranea con temperatura media superficiale intorno ai 12 gradi, che contribuiva a regalarci estati secche più o meno calde a seconda della zona ma ben ventilate, e inverni freddi e piovosi ma con temperature decisamente accettabili e confortevoli.

L’inverno mediterraneo, ricorda Fernand Braudel in Memorie del Mediterraneo: “Ha la sua dolcezza; nelle pianure più basse nevica raramente; a volte si hanno giornate serene e soleggiate senza che per forza soffi il mistral o la bora; il mare stesso offre una calma inattesa, e le barche a remi possono avventurarsi al largo per breve tempo; in fondo, questa stagione delle tempeste è anche il tempo delle piogge benefiche. I contadini di Aristofane possono rallegrarsi, chiacchierare, bere, stare in ozio mentre Zeus, con grandi rovesci d’acqua, “feconda la terra”.

L’assetto geologico del Mare Nostrum si è del resto delineato 5 milioni di anni fa come un larghissimo lago più che un grande mare, ed è in effetti un vastissimo specchio d’acqua semichiuso che comunica con l’Atlantico dallo Stretto di Gibilterra, e con l’Oceano Indiano attraverso il Mar Rosso dal canale artificiale di Suez, ed ha scambi di acque con il Mar Nero attraverso lo Stretto dei Dardanelli e il Mar di Marmara dallo Stretto del Bosforo. L’intero bacino ha una superficie di 2.505.000 km2, una larghezza di quasi 4.000 km e la lunghezza costiera di 46.000 km. Bagna 21 paesi di 3 continenti – Africa, Asia ed Europa – dove vivono circa 450 milioni di persone, e si divide in ulteriori mari: Ligure, di Sardegna, di Sicilia, Tirreno, Ionio, Adriatico, poi l’Egeo, i bacini dei mari di Alborán, delle Baleari, la Gran Sirte, il mar di Levante. Da area marina di transizione, fa da confine climatico tra le aree tropicali e quelle delle medie latitudini, e attenua l’escursione termica con la sua azione termoregolatrice.

I climatologi indicano da sempre il clima mediterraneo come “clima temperato”, il più gradevole e finora il più prevedibile, il clima dolce e leggendario, con le sue acque meno fredde degli altri mari e che riescono a trattenere il calore estivo rilasciandolo durante il periodo invernale. L’essere ad una media latitudine e avere un clima incomparabile con altre aree lungo la stessa posizione è il privilegio oggi messo in discussione. Il Mediterraneo, infatti, è uno dei “laboratori” degli effetti del riscaldamento globale, tra i principali hotspot nel mondo.

La nuova configurazione atmosferica con la nuova configurazione climatica con i livelli di emissioni di gas serra e di deforestazione, ha fatto riscrivere da tre decenni i capitoli della meteorologia italiana. L’amato e molto atteso anticiclone resta sempre più sull’Atlantico e l’alta pressione non esercita più il suo effetto-cuscinetto sulla nostra penisola favorendo, soprattutto d’inverno, condizioni di tempo stabile e soleggiato e scongiurando d’estate con le masse d’aria temperate le ondate di calore eccessive, e tenendo quindi il clima in equilibrio perfetto mitigando sia le basse pressioni del Nord Europa sia quelle troppo calde dell’Africa.

La nostra estate è quindi radicalmente cambiata con l’alternarsi di mesi roventi per l’aria calda africana che trova ampi spazi di penetrazione e punta sull’Europa avendo come primo bersaglio l’Italia, rendendo il caldo un altro fenomeno estremizzato. In più con il carico di calore e dell’elevato tasso di umidità dell’attraversamento del Mediterraneo, che si scarica con temporali violentissimi e tempeste di vento.

Da circa tre decenni è accaduto un cambio scena, qualcosa che ricorda un po’ le veloci battute tra Sean Connery e Catherine Zeta Jones in Entrapment: “Come faccio a sapere che ci sarai?” chiede lei. “Se ti dico che ci sarò, ci sarò. E sono sempre puntuale” risponde lui. “Sempre?” richiede lei. “Sempre. Se ritardo, vuol dire che sono morto”. E infatti è andata proprio così. L’anticiclone era da un po’ che non stava tanto bene, fiaccato e bloccato e ora è come se fosse morto.

La scomparsa del nostro Nume tutelare che metteva kappaò il competitor africano ha aperto ampi spazi atmosferici a cicloni come quest’ultimo chiamato “Caronte” che creerà guai a non finire. Il clima cambiato fa sì che l’anticiclone africano dal nome altrettanto mitologico di Caronte riesca a stazionare come una bolla di caldo che dal Sahara è statica e persistente sul Mediterraneo Africano, spingendo le temperature anche oltre i 10° sopra la media, con le nostre città da bollino rosso per picchi di 42-43 gradi non solo al Sud, che si intensificheranno nei prossimi giorni, e con quella di oggi che sarà la giornata peggiore, ma si continuerà così per tutto agosto.

Il Copernicus Climate Change Service dell’UE segnala ormai da anni ogni anno come l’anno più caldo, e se il 2023 sta battendo ogni record come il più caldo di tutti, il bacino del Mediterraneo è l’area dove il riscaldamento climatico corre a una velocità del 20% superiore alla media globale, con la temperatura pre-industriale già superata da range locali di aumento da 1,2 a 3 gradi, e con alcune variabili climatiche ormai compromesse. È uno dei punti di maggior fragilità climatica del globo. La fortuna del mare stabilizzatore del clima vede quasi invertire la sua funzione e si è trasformato piuttosto in “propulsore” di catastrofi per quanto calore ed energia e umidità accumula in atmosfera. E la Protezione Civile è già allertata in alcune nostre regioni del Nord dove da giovedì sono previsti temporali anche intensi, ed è mobilitata al centro-sud per prevenire gli incendi che al 99% sono innescati non dal caldo ma da criminali piromani o da disattenzioni altrettanto criminali.

Le previsioni di impatto nella regione mediterranea sono piuttosto preoccupanti, con due principali fenomeni. Il primo prevede siccità e crolli di rese agricole con circa 250 milioni di persone che si sposteranno con migrazioni prima della metà del secolo; il secondo vede le aree costiere condizionate dal rapido innalzamento del livello del mare, tra 80 centimetri e fino a 1 metro entro fine secolo e a 20 centimetri nei prossimi decenni, sufficienti a salinizzare le acque di falda della maggior delle terre agricole di pianura e a destabilizzare le aree costiere, con emergenze e crolli di economie locali. Problemi da affrontare con politiche di difese e adattamento. E nel caldo africano conviene farci un pensierino.

Erasmo D'Angelis

Dare la colpa agli ecologisti: la nuova frontiera del negazionismo climatico. L'ultima accusa arriva dal Canada, dove si insinua che gli incendi siano stati appiccati dagli attivisti per richiamare l'attenzione. Ma non è l'unico caso ed è un segnale del livello del dibattito. Diletta Bellotti su L'Espresso il 6 Settembre 2023  

Ecco che la maggior parte di noi è tornata a lavoro, alcuni con un certo amaro in bocca. È un peccato che ci sia stato un ciclone proprio là dove avevi prenotato le vacanze, è anche un peccato pensare a quante persone in Italia non  possano permettersi le ferie, ma questa è un’altra storia. O forse no. Ci ripetiamo spesso che non si affronterà l’apocalisse climatica accumulando bottiglie d’acqua e cibo in scatola in cantina. Tuttavia alcuni di noi lo faranno comunque. Altri dicono che quest’apocalisse è troppo lenta, soprattutto è troppo costosa: hanno voglia di assistere alla fine per poi poter ricostruire da capo. O, quantomeno, non hanno voglia di lavorare fino all’ultimo giorno della loro vita. 

Il fatto che ci sia un incendio incastrato nel panorama da cartolina adesso è semplicemente un dettaglio trascurabile, qualcosa che risveglia solo l’istinto di riprendere con il cellulare: non smuove nessuno spirito di sopravvivenza, né immediato, né lungimirante. 

Qualche giorno fa in treno una persona seduta accanto a me raccontava di come la tromba d’aria che ha colpito Milano per lei sia stata un grande fortuna perché le ha distrutto la macchina e ora l’ufficio gliene ha data una nuova e più bella. Un bel colpo di fortuna, senza dubbio. 

Nel frattempo i negazionisti climatici online insinuano il dolo per gli incendi in Canada di agosto, accesi, secondo la loro tesi, dagli ecologisti per sensibilizzare su i cambiamenti climatici. Si pone dunque una nuova interessante frontiera del negazionismo climatico, particolarmente fantasioso e illogico: gli attivisti climatici sono vigilantes, giustizieri di un mondo in fiamme in cui il diritto ambientale arriva troppo lento e dove il fine giustifica i mezzi. Alludono che è legittimo incendiare il Pianeta pur di farci prestare attenzione, che poi, nell’economia dell'attenzione, quanto vale davvero? In un mondo di content creators, chi lo assorbe poi questo contenuto? Chi, e con che strumenti, lo elabora? E, in fondo, come biasimare il web se pullula di negazionisti quando ne invitiamo ancora a bizzeffe alla tv nazionale? Sono oggettivamente più rappresentati loro che il 99% della comunità scientifica. Dunque è tutto in linea, sensato. 

Su questo tema ricordo una discussione abbastanza accesa con un illustre giornalista italiano il quale, infuriato, equiparava la proposta di non invitare negazionisti in Tv alla censura. Oltre alla posizione, sicuramente discutibile, ho trovato molto interessante come una persona che occupa una posizione di potere all’interno della trasmissione di saperi non sappia definire cosa sia la censura. Pericoloso oltre che imbarazzante. Forse è ignaro della strutturale piramidale della nostra società e dei meccanismi che portano una persona, anziché un’altra, a parlare pubblicamente? Ignora chi effettivamente è nella posizione di mentire, liberamente e con una certa arroganza, in tv? Dall’altra parte varie testate nazionali sono passate dal negare apertamente la crisi climatica e sbeffeggiare goliardicamente chi lotta per contrastarla, ad un nuova ossessione-clickbait-bollettino-di-collasso. Che l’informazione ritrovi il suo impegno civico non è più una questione meramente democratica, ma vitale. Anche se, di questi tempi soprattutto, sono quasi sinonimi. 

I nuovi negazionisti. Le brigate caldo e le fantasiose marmellate reazionarie della destra italiana. Mario Lavia su L'Inkiesta il 20 Luglio 2023

Opinionisti di destra accusano la sinistra mondiale di ordire un piano per farci credere che le temperature alte siano colpa del climate change. Un complotto ordito da Biden e dalla Banca Mondiale per vendere auto elettriche

Verrebbe da pensare, leggendo certi articoli, che questo clima torrido sia un’invenzione della sinistra. Sulla Verità Francesco Borgonovo ha spiegato che esistono le «Brigate caldo» (non ha specificato se siano nipoti di quelle rosse ma forse lo pensa) colpevoli di instillare nell’opinione pubblica l’idea che in questi giorni stia facendo un caldo tremendo, superiore alla media secondo tutte le rilevazioni scientifiche e le sensazioni degli esseri umani di tutto il pianeta. 

È una conseguenza del riscaldamento globale? Probabile. Possibile. Si discute. Mentre si boccheggia. Ma Borgonovo, e non solo lui, non discute: attacca. La verità è che le Brigate caldo per lui stanno orchestrando una campagna terroristica – soffiano sul fuoco, è il caso di dire – al fine di propagandare la necessità di interventi radicali in grado di bloccare le conseguenze del climate change, interventi finanziati ovviamente da oscuri potentati finanziari e oligarchie di ricconi che vogliono prendersi il mondo. Siamo insomma al negazionismo climatico parallelo al negazionismo storico. 

Lo dice bene lo stesso Borgonovo: «Chi esprime dubbi va subito punito: colpirne uno per educarne cento (eh? -ndr). All’uopo è stata creata la categoria del “negazionista climatico”, figura che costituisce una variazione sul tema “fascista”». È proprio così: per questa nuova destra non esistono processi storici, evoluzioni scientifiche, movimenti globali indotti dai nuovi percorsi del progresso, ci sono solo gli interessi di super ricchi all’ombra della Sinistra Mondiale, qualunque cosa voglia dire. Non si fa menzione degli ebrei ma il vecchio Soros non ci starebbe male. 

Le solite marmellate reazionarie. Siccome «le affermazioni sul caldo record sono false», la sinistra non provi a toglierci il piacere di queste belle sudate, di queste improvvise crisi respiratorie, di questa magnifica sete, di queste notti insonni. E di blocchi di ghiaccio che si staccano al Polo Nord, e di fenomeni tropicali di trombe d’aria e alberi sradicati. 

Seguono poi nel pezzo borgonoviano molte righe per spiegare che si tratta di un complotto, è tutto un affare ordito in primis da Joe Biden via Banca Mondiale per fare un mare di soldi con le auto elettriche, le case green e via dicendo, questo è il vero e unico obiettivo dei neo pluto-giudaici-massonici, «come – dulcis in fundo – nella migliore tradizione sinistrorsa». Non c’è nessun motivo per essere nervosi, dicono i destrorsi, non fa poi tutto ’sto caldo: è come quando lo scrittore napoletano Giuseppe Marotta scriveva con ironia che «a Milano non fa freddo», ma lui era un autore spiritoso, non il vicedirettore di un giornale. 

Comunque, svelato il Piano della nuova Spectre, alias “Brigate caldo”, l’aria resta comunque molto calda, pur con l’avvertenza – qui in effetti si può ragionare – che non siamo proprio sull’orlo di un’apocalisse (lo ha fatto notare anche il meteorologo di La7 Paolo Sottocorona), si comprende come addirittura cocente sia il clima che avvolge questa destra politico-intellettuale che non dorme la notte con l’incubo dei cavalli dei bolscevichi che si abbeverano alle fontane di piazza San Pietro, di questi democratici americani che pretendono di guidare il mondo, di questi scienziati prezzolati dal Capitale e dalle multinazionali per avallare teorie catastrofiste laddove invece tutto va bene madama la Marchesa.

Dormono male i negazionisti in queste notti già così sudaticce nelle quali bisognerà inevitabilmente soffrire aspettando il momento che sotto la porta sbuchi una riga di sole che annunci il nuovo giorno che però sarà angoscioso come gli altri. Ma non fa poi tanto caldo, no no, è tutta una roba della sinistra mondiale. E vai col condizionatore a palla.

 Estratto dell’articolo di Alessandro Gonzato per “Libero quotidiano” giovedì 20 luglio 2023.

Colonnello Giuliacci, ogni estate «non faceva così caldo da cinquant’anni», poi da settanta, ottanta, ormai per certi giornali e tg è sempre «l’estate più calda di sempre». Stavolta hanno indovinato? «No. Giugno è stato sotto la media, è piovuto tanto. Quindi anche se luglio, e non lo diventerà, sarà il più caldo di sempre e fosse così anche agosto, facendo la media dei tre mesi non verrebbe fuori assolutamente l’estate più calda di sempre». 

Ma se tutti o quasi dicono «caldo record»: 40 gradi qua, 45 là...

«Se davvero fossero stati i valori reali e costanti sarebbe stata una strage di anziani, un’ecatombe. Al Nord invece siamo arrivati a 35, a Firenze e Perugia 36-37. L’unica città del centro in cui in queste ore potremmo arrivare effettivamente a 40 è Roma. Discorso a parte per certe zone della Sardegna e della Sicilia. Me lo lasci dire: ormai siamo allo stupidario meteorologico». 

Ha 82 anni e ancora il fuoco sacro del lavoro, Mario Giuliacci, una vita nell’Aeronautica Militare, prima a capo del centro meteorologico dell’aeroporto Milano-Linate, colonnello laureato in Fisica alla Sapienza di Roma, professore universitario, poi nel ’92 fondatore del centro Epson Meteo. Oggi cura il sito meteogiuliacci.it, per tredici anni è stato il volto delle previsioni del tempo di Mediaset, poi affiancato dal figlio, Andrea, che ne ha seguito le orme. […]

Parla dello stupidario?

«Sì. Mi spiega cosa significa “tempesta di caldo”?». 

 Ce lo dica lei.

«Non vuol dire niente. È stata poi diffusa una bufala incredibile...». 

Quale?

«“Arrivano i 50 gradi su mezza Europa: Italia, Francia, Spagna!” Ma io dico: sarebbe la fine del mondo!». 

 E com’è nata questa bufala?

«Parte da un rapporto dell’Agenzia spaziale europea che il 13 luglio, attenzione, ha effettivamente rilevato temperature superficiali di 47-48 gradi nelle ore centrali, ma si tratta appunto di temperature prese al suolo, che non c’entrano niente con quelle dell’aria, altrimenti sarebbe stato da titolare sì sulla fine del mondo. La temperatura va misurata a 2 metri d’altezza, all’ombra, distante almeno 5 metri dalle case e se possibile sopra a un prato. Se uno mette la mano sull’asfalto di gradi ne sente anche 60, 70, ma quella non è meteorologia». […]

Altre espressioni tratte dallo stupidario?

«“Manifestazioni temporalesche”: cos’è, scendono in piazza i temporali? “Cielo coperto con nubi alte e stratificate”: ma chissenefrega se sono alte, di’ che è nuvoloso. “Tempo variabile”: lei cosa capisce? “Tempo incerto”: ma come fa un meteorologo a dire “tempo incerto”, ma scusa che mestiere fai?». […] 

Torniamo agli allarmi di questi giorni.

«Rischiano di spaventare gli anziani: leggono e sentono in tivù che ci sono 45-50 gradi e pensano “così vado al creatore”. […]  molti media non hanno più rispetto per il pubblico. Terrorizzano e non pensano alle conseguenze. È la meteorologia urlata. Sviliscono la professione. Ai miei collaboratori ripeto sempre: “Se dite caldo record vi licenzio”». 

È corretto parlare di «emergenza caldo»?

«Sopra i 34-35 gradi si entra nel disagio psicofisico, riguarda soprattutto gli anziani. Ma ripeto: se ci ricordiamo di bere, perché a una certa età lo stimolo della sete è minore, e quando usciamo mettiamo un cappello non c’è tutto questo pericolo. Ecco, ribadisco, non è il caso di uscire nella fascia centrale del giorno». 

“Caronte”, “Cerbero”, il caldo estivo ha nomi spaventosi...

«L’anticiclone africano è sempre lo stesso. È come se io Mario vado a Roma e mi chiamano Giuseppe. Si sono inventati anche questo: tutto fa scena ormai. Io non potrei mai adattarmi a questa moda, ne andrebbe della mia professionalità e della mia credibilità. Per fare il meteorologo devi essere laureato in fisica con specializzazione in fisica dell’atmosfera. E quali media hanno i fisici? Pochissimi. A Canale5 per esempio, il sito Meteo.it, poi il mio... Mi lasci aggiungere una cosa...».

Prego.

«“Ondata di caldo del secolo”... Ma quale? Allora, ripeto: non c’è nulla di eccezionale al centro-Nord, mentre al Sud, in Sicilia e in Sardegna il numero di località che da qui al 26 agosto supereranno i 40 gradi potrebbe essere il più elevato di sempre, questo sì. L’anno scorso 13 città, quest’anno potrebbero essere 20, ma il “record” al massimo sarà quello lì». […]

«Il caldo? Tutta colpa dei danni che facciamo alla Terra», parla il geologo Mario Tozzi. «Fuffa ideologica anima i negazionisti del clima». ENRICA SIMONETTI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Luglio 2023.  

«Il grande caldo è colpa di quello che facciamo alla Terra! Altro che negazionismo...». Il geologo e divulgatore scientifico Mario Tozzi è un fiume in piena, se gli si chiede un commento su quanti affermano che «giorni di solleone come questi sono sempre esistiti». Non può nemmeno sentir nominare chi parli in questo modo: «Voi siete giornalisti e vi piace creare il dibattito, ma i negazionisti lasciano il tempo che trovano, io credo che sia fuffa ideologica e basta».

Infatti, chiacchiere contro dati scientifici?

«Ognuno può avere la propria percezione individuale e ricordare giornate caldissime del passato, ma la verità si fa con i risultati della ricerca scientifica e io mi rifaccio sempre agli studi: siamo il Paese che lo scorso anno ha registrato 61mila vittime per il caldo e stiamo qui a dividerci su sensazioni di cialtroni e imbroglioni? L'emergenza clima si basa sul numero di giornate calde. Faccio un esempio semplice: io negli anni Sessanta avrò vissuto al massimo una decina di giorni con la temperatura oltre i 32 gradi, tra l'altro spesso in Puglia perché la mia famiglia ha anche origini barlettane; mio figlio ventenne ne ha vissute una ventina; oggi ne abbiamo una trentina. E i numeri ci dicono che saliranno ancora (cito sempre i maggiori risultati di evidenze scientifiche di altissimo livello). Bisogna muoversi e fare qualcosa al più presto»...

Estratto dell'articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it il 19 luglio 2023.

[…] Passano le stagioni politiche, passa la crisi del momento e in prima fila a suonare il controcanto al cosiddetto mainstream ci sono sempre loro, con pochissime defezioni di volta in volta. Che sia la battaglia contro l'euro, che siano le teorie contro l'immigrazione, che siano i dubbi contro i vaccini e la gestione della pandemia, che sia le denuncia contro il politicamente corretto e la "teoria gender", che sia una certa sensibilità alle ragioni della Russia, che sia infine l'irrisione attorno all'emergenza ambientale, i protagonisti della propaganda "antisistema" non se ne perdono una. 

Tutti più o meno posizionati nell'area sovranista di destra, con qualche aggancio nel mondo liberista o di "sinistra" incarnato dal neocomunista Marco Rizzo.

[…]  Sul riscaldamento climatico su giornali, televisioni e social è tutto un darsi di gomito: ha sempre fatto caldo d'estate, punto. Rizzo ci ha messo un pizzico di fantasia in più allegando una prima pagina della Domenica del Corriere del 1952, donna in cucina e marito su una sedia morto dal caldo col ventaglio. «Anche 71 anni fa in Italia in estate faceva caldo - scrive su Twitter - Ma a nessuno veniva in mente di obbligarti a rottamare la tua auto né a seguire bizzarre mode volute dalla finanza e dalle multinazionali».

Le riflessioni di Paolo Del Debbio sulla Verità vengono titolate con un sobrio "così si smontano le balle degli ecoimbecilli", l'ineffabile neofascista Francesca Totolo si trasforma in cabarettista: «La siccità dovuta al cambiamento climatico di origine antropica colpì anche i Maya: troppe puzzette dei chihuahua». 

E poi: Nicola Porro, Vittorio Feltri, Daniele Capezzone, Francesco Storace, Claudio Borghi, solo per citare i più attivi. Gli antisistema che conducono trasmissioni in tv e stanno al governo indicano la rotta del momento e il popolo dei nickname va dietro a ruota, per combattere «il fanatismo ultra-ecologista», citando le parole di Giorgia Meloni al comizio dell'estrema destra spagnola di Vox, pochi giorni fa.

[…] Un report dal titolo ‘Deny, Deceive, Delay’ ha mostrato come da quando Elon Musk ha acquisito Twitter sono aumentati i post fuorvianti sui cambiamenti climatici. Un po' perché il fondatore di Tesla ha riaperto il social a chi era stato bannato perché spacciava false notizie, un po' perché deve essere cambiato qualche algoritmo: Marc Morano, uno dei più attivi negazionisti climatici americani sui social, in un’intervista del dicembre 2022 ammise che «il mio account Twitter e molti altri che si oppongono alla visione climatica del “consenso” hanno tutti aumentato notevolmente la visibilità da quando Musk ha preso il controllo di Twitter. Qualunque cosa Musk stia modificando, spero che continui così».

Conquistare Twitter è fondamentale: ci passano molto tempo politici, giornalisti, studiosi, personaggi famosi. Il mondo che orienta il dibattito pubblico. E guarda caso in occasione di eventi pubblici internazionali dove gli Stati sono chiamati a prendere decisioni sulla questione ambientali, decine di migliaia di account aumentano la propria produzione di contenuti contro la "truffa climatica". Con ad esempio il capogruppo di Fdi al Senato Lucio Malan che "copia" tweet anti-ambiente di colleghi polacchi. 

Eppure il nodo che spiega queste connessioni nazionali e internazionali è eminentemente politico, considerato che ad esempio Steve Bannon – ideologo di Donald Trump, pensatore corteggiato da Matteo Salvini e Meloni – con il suo Breitbart news promosse il negazionismo climatico, oltre che suprematismo bianco, razzismo e misoginia. […]

L'Europa sconfessa i talebani dell'ambiente: via libera ai biocarburanti. Sergio Barlocchetti su Panorama il 19 Luglio 2023.

Bruxelles rimette nella lista dei combustibili ecologici anche i biocarburanti neutrali come gli efuel voluti dai tedeschi. Può rinascere l'Euro 7

L’Unione Europea ricomprende i biocarburanti tra i combustibili ecologici. Un piccolo passo ma importante, in quanto fino a ieri venivano accettati come ecologici soltanto gli e-fuel, cioè quelli sintetici. La votazione favorevole si è svolta presso ITRE, la Commissione per l’industria, la ricerca e l’energia del Parlamento europeo, che così approva anche la definizione di che cosa sia un carburante CO2 neutro. Questa è stata inserita anche nella bozza del regolamento Euro 7 che sarà votato tra due mesi in commissione Ambiente. Il passo è importante anche perché obbliga la Commissione europea a prendere in considerazione in seno a tutte le discussioni che potrannno emergere per la trattativa sul futuro del motore endotermico in Europa. Con questa votazione ITRE ha stabilito che i carburanti “CO2 neutri" sono combustibili rinnovabili o sintetici come definiti dalla Direttiva CE 2018/2001, inclusi biogas, biocarburanti, combustibile ottenuti da biomasse, rinnovabili allo stato liquido o gassoso per il trasporto di origine non biologica o un carburante a base di carbonio riciclato. Tradotto: si tratta di sostanze per le quali le emissioni di anidride carbonica sono considerate nulle perché questa è tipica della composizione chimica del carburante stesso ed è di origine biogenica, oppure è stata evitata la sua immissione in atmosfera. Insomma, un artificio che però amplia le possibilità di tenere in vita motori endotermici per sempre dando vita a una vera neutralità tecnologica, contrariamente a quanto volevano gli eco-talebani della Commissione capitanati dal vicepresidente Timmermans, riaprendo la possibilità che i parametri per la nuova normativa Euro 7 diventino raggiungibili e perseguibili da parte dei costruttori. La bozza pubblicata da ITRE vede inoltre la proposta di rinvio fino al 2028 dell’entrata in vigore del nuovo standard, mantenendo anche i parametri dell’attuale Euro 6 per i mezzi pesanti. Dopo tanta ideologia, una ventata di buon senso, forse sospinta dall’aver aperto gli occhi, o dalla consapevolezza della maggioranza Ursula di avere pochissime possibilità di essere rieletta.

Caldo record fino a 50°C? I meteorologi smontano la bufala gonfiata dai media. Perucchietti su L'Indipendente il 19 Luglio 2023

È innegabile che le giornate di luglio appena trascorse siano state torride in tutta Europa. Eppure, sembra che, archiviato il Covid, con la guerra nucleare in stallo, ora il caldo venga utilizzato come nuovo spauracchio per terrorizzare le persone e alimentare la corsa ai click con l’ennesima emergenza mediatica. Come per le varianti del virus, ora la staffetta passa per i nomi degli anticicloni, altrettanto spaventosi, tratti dalle fiamme mitologiche dell’inferno, portatori di temperature roventi: Cerbero, Caronte, ecc. Dai TG ai quotidiani, si sente infatti parlare di “Caldo record”, “Bolla di fuoco”, “Tempesta di caldo”, “Settimana di fuoco”, ovunque. Campeggiano grafici del Mediterraneo completamente rossi, se non addirittura neri, e si utilizzano con disinvoltura parole come “estremo” e “fatale”. Vengono annunciate temperatura fino ai 50°c. e oltre in tutta l’Europa meridionale, ma si tratta di una bufala totale, come avvalorato dai dati reali e spiegato anche da due dei principali metereologi italiani.

Capofila di questa tendenza allarmista è la Repubblica che, il 18 luglio, sbatte il mostro in prima pagina, titolando: Caldo record, il Pianeta in ginocchio. Segue una lunga serie di articoli ricchi di raccomandazioni volte a «Ridurre l’impronta dell’uomo sul pianeta, frenando il trend in crescita del riscaldamento globale, e progettare città più “resilienti”». “Caldo record, allarme globale”, scrive ancora La Repubblica, mentre AdnKronos ci tiene a precisare che questa è “La settimana più rovente nella storia del pianeta”. Ma è davvero così?

Le temperature di molte città italiane inviterebbero a riconsiderare l’allarme. A Milano il 16 luglio la temperatura era di 29 gradi, un valore che non si discosta molto da quello registrato negli anni precedenti. Nel 2020, nel 2019, nel 2013 e nel 2006 le temperature erano state simili o addirittura superiori. A Milano, nel lontano 1995, la temperatura media toccò addirittura i 31 gradi. Questi dati dimostrano che la situazione attuale non è così eccezionale come alcuni vogliono far credere. Lo stesso discorso vale per altre città italiane. Anche a Venezia le temperature registrate quest’anno sono simili a quelle degli anni precedenti, e addirittura nel 2010 sono state ancora più elevate. Questi esempi dimostrano che le temperature attuali non sono fuori dall’ordinario, contrariamente a quanto alcuni tentano di far passare. 

Certo, le osservazioni delle temperature su alcune singole città possono ingannare in un senso o in un altro. Ma a venire in soccorso del buonsenso sono stati anche alcuni tra i meteorologi più in vista d’Italia.

La puntata di Agorà Estate del 17 luglio su RaiTre ha contribuito a gettare luce su questa questione. Il conduttore Lorenzo Lo Basso ha definito la giornata in questione come la “più calda del secolo”, ma il capitano del servizio meteorologico dell’Aeronautica militare, Stefania De Angelis, ha mantenuto un tono moderato e ha sottolineato che ondate di calore come questa sono già state sperimentate in passato. 

È stata poi la volta del meteorologo de La7, Paolo Sottocorona, che con ironia ha smentito gli annunci troppo allarmistici: «E anche oggi non abbiamo raggiunto i 47 gradi», ha esordito in diretta, prima di aggiungere: «I giornali stranieri parlano di caldo infernale in Italia? Questo dipende dal fatto che leggono i giornali italiani, altrimenti non scriverebbero sciocchezze di questo genere. Il caldo salirà un po’ fino a mercoledì e giovedì uguale ma non penso ai livelli che vengono minacciati, perché quelle non sono notizie, ma minacce».

Dichiarazioni che evidentemente non sono piaciute ai padroni del discorsi mediatico. La sua vena polemica lo ha fatto passare nientemeno che per un “negazionista del cambiamento climatico” e ha dovuto difendersi in un’intervista a La Repubblica, spiegando che «La crisi del clima è grave. Ma non serve sparare temperature esagerate», rincarando la dose: «Chi inventa nomi come Caronte e preannuncia che arriveremo a 47 gradi sapendo che non è vero, solo per avere più clic al proprio sito, andrebbe denunciato per procurato allarme».

Un altro esperto che ha contribuito alla discussione è il celebre colonnello Mario Giuliacci, probabilmente il più famoso meteorologo italiano con un’esperienza pluridecennale, nonché docente di Fisica dell’atmosfera. Secondo Giuliacci, le previsioni di temperature di 50 gradi centigradi in Italia sono infondate e si basano su un errore di interpretazione di un’immagine satellitare dell’Esa. L’immagine mostrava temperature di 46-48 gradi al suolo, ma si riferiva alla temperatura del suolo stesso e non dell’aria a 2 metri di altezza, che è quella comunemente considerata nelle misurazioni meteorologiche «e che è almeno 10 gradi più bassa di quella del suolo». Le temperature dell’aria saranno alte, ma non raggiungeranno livelli così estremi come quelli riportati in alcuni resoconti sensazionalistici. Per Giuliacci non esiste neppure alcuna tempesta di caldo in arrivo: «Anche questa è una bufala», dovuta a «un errore nella comprensione dei dati Esa», ha spiegato il colonnello. [di Enrica Perucchietti]

Estratto dell'articolo di Elena Dusi per repubblica.it il 18 luglio 2023.

“E anche oggi non abbiamo raggiunto i 47 gradi”. Paolo Sottocorona, meteorologo de La7, da vari giorni inizia così la sua finestra sulle previsioni del tempo, smentendo gli annunci troppo allarmistici. La sua vena polemica però lo ha fatto passare per un negazionista del cambiamento climatico. 

Anche lei come alcuni politici della maggioranza pensa che questo caldo sia normale, visto che è estate?

“Non penso che sia normale. Penso che l’auto su cui ci troviamo stia sbandando e occorra intervenire al più presto. Ma non sopporto le esagerazioni. In Italia abbiamo registrato ieri 40 gradi, e solo in alcune zone. Chi inventa nomi come Caronte e preannuncia che arriveremo a 47 gradi sapendo che non è vero, solo per avere più clic al proprio sito, andrebbe denunciato per procurato allarme”. 

Lei ha detto che i giornali scrivono sciocchezze, ma il caldo di questi giorni non è una sciocchezza.

“Proprio perché non è una sciocchezza andrebbe trattato con equilibrio. Oggi viviamo in un mondo in cui tutto è urlato, ma non si possono esporre le persone a messaggi terroristici. Molti italiani sono anziani, una buona quota non ha l’aria condizionata. Sapere che domani ci saranno 47 gradi genera ansia. E’ come se io scendessi in strada urlando che sta per arrivare un terremoto”.

Non sono solo i giornali a scrivere sciocchezze. L’annuncio dei 47 gradi arriva dai meteorologi.

“Dai siti di meteorologia che mettono in giro nomi spaventosi come Caronte e che vivono dei clic delle persone angosciate. E’ da quando sono entrato in Aeronautica, nel 1972, che si parla di istituire un ordine dei meteorologi, ma non si è mai fatto nulla. Perché se io prescrivo una cura medica giustamente mi arrestano, ma nessuno fa nulla di fronte a previsioni meteo così sparate? La mia è una crociata contro le esagerazioni”.

Ma così non finisce per passare per negazionista?

“Non lo sono mai stato. Da 50 anni tutti i giorni osservo il tempo. Il cambiamento è sotto agli occhi di tutti”. 

Non di tutti. Sembra di essere tornati ai tempi del Covid che è solo un’invenzione. Un’ala della destra – politici e giornalisti – ripete che fa caldo perché è estate. 

[...] Cosa la colpisce?

“L’irregolarità del clima. In Italia in media cadono 900-1000 millimetri di pioggia all’anno. Prima erano distribuiti: cento a gennaio, duecento a febbraio, ecc. Oggi non piove per sei mesi, poi vengono giù 500 millimetri tutti insieme. Un’alluvione come quella in Emilia non è una novità in assoluto. Ne sono capitate anche in passato, ma lo facevano una volta ogni cento anni. Ora la frequenza dei fenomeni estremi sta aumentando. La pioggia distrugge tutto, scorre veloce verso il mare e dopo pochi giorni siamo già in una situazione di siccità. Siccità e alluvioni non sono due fenomeni contraddittori. Per la natura del nuovo clima, li vedremo spesso presentarsi l’uno accanto all’altro, se non facciamo come i romani che costruivano le cisterne”. 

[...] 

Un motivo in più per sostenere Greta, che chiede di intervenire subito?

“Sì ma Greta ha un’età in cui è lecito non essere realistici. Noi no. Non puoi fermare tutti gli aerei da un giorno all’altro. La transizione energetica va fatta con intelligenza e pragmatismo, un passo alla volta”. 

Sono parole pericolosamente vicine a quelle del ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin, che dice sì alla transizione, ma a tempo debito, senza spendere troppo, senza stravolgere l’economia.

“D’accordo, ci vorrà tempo, ma qualcosa prima o poi andrà fatto. Noi sembriamo quel tizio che cade dal grattacielo e dice: sono ancora al 30esimo piano, vedi che non è poi così grave”. 

Lei si definirebbe un ambientalista?

“Mangio poca carne e vivo senz’aria condizionata. Uso la macchina il meno possibile e taglio tutti gli sprechi. Non serve che mille italiani rinuncino a tutto. E’ più utile che 60 milioni di italiani risparmino il 10%. E se poi il mondo dovesse tornare al medioevo, mi consolo pensando che so pur sempre andare a cavallo e in barca a vela”. 

E’ sicuro che non raggiungeremo i 47 gradi?

“Può darsi che in qualche località italiana si tocchi un picco per breve tempo. Ma non in modo diffuso, non c’è alcun dato a sostenere una previsione del genere. Almeno non ancora”.

Meteo, Paolo Sottocorona: "Basta sciocchezze, si angoscia la gente". Libero Quotidiano il 20 luglio 2023

Da quando in diretta, nella striscia di L’Aria che tira (La7) dedicata alle previsioni, il meteorologo Paolo Sottocorona ha definito «sciocchezze» le tesi allarmistiche dei giornali italiani sul caldo anomalo, è diventato suo malgrado simbolo di «negazionismo climatico». Invece, ha solo detto la verità. «Combatto, si fa per dire, da tempo contro le modalità con cui sono stati presentati in alcuni casi questi fenomeni climatici. Non nego affatto i cambiamenti, sono 50 anni che li conosco be ne».

Allora cosa la turba?

«La forma, visto che sono abituato a discutere della sostanza. Da almeno 3 settimane si parla di “Italia a 47 gradi”, di “ondata rovente” e “onda di calore”, quando siamo solo nel periodo statisticamente più caldo dell’anno».

Quindi l'emergenza non c’è?

«L’emergenza c’è. Ed è quella che riguarda non tanto i fenomeni estremi quanto la loro frequenza. Le possibilità che si verifichino stanno diventando più strette. È quello ciò di cui dobbiamo preoccuparci. Le faccio una domanda io...».

Prego...

«Se l’anno prossimo dovesse essere normalissimo dal punto di vista meteorologico, non ci sarebbe cambiamento climatico? C’è eccome. Sembra che sia diventato indispensabile iperbolizzare, fare allarmismo, diffondere quello che chiamo “terrorismo termico”...».

Cosa?

«Sì, è terrorismo termico, una cosa che dovrebbe essere perseguibile al pari del procurato allarme. In Italia il numero di persone vulnerabili e indifese è enorme. Ci sono centinaia di migliaia di famiglie che non hanno aria condizionata, se viene ripetuto loro di continuo che “ci sono 47 gradi” si angosciano, magari si ammalano, certamente si svegliano al mattino percependo i famosi 47 gradi anche se fuori ce ne sono 26».

Ma quando parla di «terroristi termici» a chi si riferisce? Ai giornalisti?

«Non voglio gettare croci. La stampa svolge il suo ruolo rilanciando teorie che sente altrove, magari vestendole in un certo modo per fare clic e generare introiti. Ma da qualcuno quelle teorie deve pur prenderle. Ci sono colleghi “veri” che non si sono mai sbilanciati con certe dichiarazioni».

E quelli “finti”?

«Parlano senza avere nessun titolo. Che a sua volta non significa per forza non avere competenze. Conosco appassionati di meteorologia che non hanno titoli ma capiscono la portata degli eventi e non si sognerebbero mai ora di dire che “in Italia fanno 47 gradi”».

Ma allora quest'ondata di calore c’è o non c’è?

«Siamo in una fase calda che fino a oggi non è stata così estrema. Significativa, ma non estrema. I 40 gradi sono stati toccati ma senza che nessuno si sia posto la domanda principale: dove, quando e per quanto. Se una temperatura massima di 47 gradi viene rilevata per un minuto in qualche posto nell’entroterra della Sardegna si può parlare di caldo estremo in tutta Italia? No, ma non significa minimizzare, anche perché di fenomeni preoccupanti ce ne sono anche se non fanno notizia».

Ad esempio?

«Le temperature medie sono state superate un po’ ovunque, anche di 4 o 5 gradi, ma non avendo superato la soglia dei 40 non fanno notizia e invece sono aspetti molto seri. Il clima è un sistema. Un grado in media in più e rischia di impazzire».

Meteo, delirio-Luca Mercalli: morti di caldo... a nostra insaputa. Alessandro Gonzato su Libero Quotidiano il 20 luglio 2023.

Il climatologo Luca Mercalli ha il sense of rùmor. Fa confusione. «Molti pensano che a giugno abbia fatto fresco», dice alla Stampa, «invece è stato tra i più caldi in 220 anni, dati del Cnr. Solo che», attenzione, «è stato molto nuvoloso e nessuno si è accorto di questo caldo». Crepavamo a nostra insaputa. Forse è la meteodietrologia, una nuova scienza. Mercalli- tra gli ospiti preferiti di Fazio a Che tempo che fa (caldo mortale, ovviamente) - dal 2021 è coordinatore del comitato tecnico-scientifico di Europa Verde, il partito di Bonelli che ieri nel giro di due ore ha detto: «Sui cambiamenti climatici non ci sono toni apocalittici, la questione non va affrontata in termini politici, sono d’accordo, ma allora bisogna dare seguito a quello che dicono gli scienziati». Mercalli, ad esempio. Non va affrontata in termini politici? Bene, questo è Bonelli due ore dopo: «Per contrastare l’egoismo dell’Internazionale del negazionismo climatico, lavoriamo a un’alleanza eco-sociale per il clima e la democrazia. L’Internazionale del negazionismo è guidata dall’Italia con a capo la premier Meloni e i suoi alleati-supporter Gasparri, Salvini e Malan». Bonelli, poche idee e ben confuse.

VISIONI

Repubblica invece ha una certezza: “Afa, allarme globale. Nel Sud Europa il clima del Sahara”. La famosa afa del Sahara, che ha tanti problemi ma non quello dell’umidità. Nel Sahara c’è anche un’escursione termica notevole. A Repubblica per il gran caldo forse vedono la Fata Morgana, allucinazioni, come nel Deserto del Mojave, in California - nella Valle della Morte dov’è stata scattata la foto che accompagna l’articolo di Michele Serra sulla versione online del quotidiano contro «le destre sorde al grido d’allarme sul clima», foto di un bambino biondo che posa sorridente a fianco di un termometro che segna 56 gradi, nella Valle della Morte, appunto, e se si chiama così (da sempre) un motivo c’è. È l’effetto Michele Serra. Che va avanti: «Per chi bada al proprio metro quadrato, e ritiene che tutto il resto non lo riguardi, Greta non può che essere una scocciatrice isterica, una femmina poi (...)», ed è per questo che viene criticata dalle destre, è chiaro. Non perché tra le imprese di Greta c’è il tweet in cui nel 2018 aveva scritto: «Un importante scienziato del clima avverte che il cambiamento climatico spazzerà via l’intera umanità se non smetteremo di usare i combustibili fossili nei prossimi cinque anni», e 5 anni dopo Greta ha cancellato il tweet.

Repubblica in un altro pezzo scrive che «il consenso scientifico attorno all’emergenza climatica e alle sue cause, cioè le emissioni sempre crescenti di gas serra e altri fattori riconducibili alle attività umane, si attesta attorno al 98% delle pubblicazioni» mentre «quel restante 2% trova nel mondo conservatore mondiale un fedele e anche astuto megafono», ed è una statistica che Repubblica riporta sempre astutamente senza mai citare il campione, quali sono gli esperti attendibili e quali no, il criterio di scelta. Niente: il 98%. Repubblica ieri era il bollettino dell’apocalisse, “caldo record, il Pianeta in ginocchio”, titolava in prima pagina ma oggi si può fare di più. 

Per gli analisti del clima in servizio terroristico permanente la temperatura è esplosa dal 2003, e quell’estate ha fatto un gran caldo in effetti, ma è un vecchio articolo di Repubblica a ricordarci che «nell’estate dell’82 le temperature in Europa erano insolitamente elevate. In Sardegna il 25 giugno la stazione meteorologica di Capo San Lorenzo rilevò 46,2 gradi, il valore più alto registrato in quei giorni dalle stazioni meteorologiche dell’Aeronautica Militare. A Roma come a Napoli si arrivò invece a poco meno di 38 gradi, mentre in Sicilia si toccarono i 45 gradi dalle parti di Catania». Sulla Stampa irrompe l’esperto Daniele Cat Berro: «In città il caldo si sente di più». Grazie. Ricordiamo quella collega che anni fa al tg consigliò ai senza fissa dimora di non uscire di casa, ma per il freddo. Sui giornali che danno dei «negazionisti» ai politici delle «destre» campeggiano titoli da fine del mondo: “Bolle di calore e tempeste di pioggia, il mondo sconvolto dall’emergenza meteo”, “un patto per l’ambiente o sarà la catastrofe”.

RIECCO LE VIROSTAR

Rispuntano i virologi. Altro titolo: “Virus, con il caldo estremo i contagi corrono”. Come-come? Sì. “Cosa rischiamo con temperature sopra i 40 gradi? Parlano i virologi Pregliasco e Maga: «Adenovirus ed enterovirus possono metterci in scacco»”. Chi nega il gran caldo di questi giorni beato lui. Chi però non scrive che nell’87 a Napoli ci sono stati 39 gradi, più di 40 a Cosenza nel ‘73 e quasi 38 a Milano nel ’47 fa del meteo un’arma politica, e non sono le destre. Meglio seguire i consigli degli esperti, va là: «5 porzioni di frutta e verdura al giorno» (cinque, non di meno), acqua a tutto spiano e «niente sport nelle ore più calde». E noi che avevamo prenotato il campo da tennis a mezzogiorno. Poi eravamo già pronti per il brasato con la polenta. 

Estratto dell’articolo di Giuliano Ferrara per il Foglio il 18 luglio 2023.

La chiacchiera sul caldo ha un effetto moltiplicatore smisurato. A Roma c’è afa e siamo sui 40 e oltre, il che non impedisce alla città di vivere come si può, con qualche accorgimento e legioni di visitatori e graffitari impegnati con il Colosseo, ma a Wimbledon ieri si stava benone, in giacchetta sportiva, mica male anche Amburgo, fresco delizioso in Engadina. 

Rilevare il carattere non apocalittico del caldo, per quanto fastidioso e in alcuni casi o latitudini pericoloso, diventa un’attività antisociale, un censurabile bastiancontrarismo, prossimamente un reato penale di concorso esterno in negazionismo climatico. Ricominciamo con Cerbero, Caronte, l’Inferno del New York Times (ieri a New York 29 gradi). Qui non si volle approfittare, per quanto riguarda l’Italia, di un maggio freddo, di un giugno fresco e di una prima settimana di luglio abbastanza gradevole. Siamo negazionisti responsabili. Speravamo nel fair play, in ritorno.

L’estate scorsa dalla fine del mese mariano si era cominciato a combattere il riscaldamento locale e si è finito a settembre. La chiacchiera ci ha estenuati senza pietà. Avremmo potuto vendicarci, in questi mesi recenti, non l’abbiamo fatto. Ora che il caldo afoso è tornato alla grande, come accade di regola in questo periodo della stagione estiva, si ricomincia con i numeri, le misurazioni di record belluini, le previsioni parascientifiche, le calotte polari in via di scioglimento; e si dimentica che la siccità doveva essere annuale, pluriennale, invece è durata il giusto, poi è piovuto, poi è nevicato, e il giro ripartirà.

C’è una notizia per gli affermazionisti irresponsabili: a metà agosto si romperanno i tempi, l’aria comincerà a rinfrescarsi, le giornate poi si accorceranno, le notti non saranno più, come si dice ora, tropicali finché l’autunno si porterà via la chiacchiera del caldo e a novembre comincerà il brusio dell’assetto idrogeologico da salvaguardare. 

E’ da pensare che il clima e il meteo, compresa la fila per i tassì e l’immondizia sotto il solleone, compresa l’acrimonia verso il turismo di massa di cui più o meno facciamo tutti parte anche senza dispendio di ombrellini e piedi nella fontana, sono strilli ideologici elevati contro i domani che cantano, idee correnti, idee ricevute, luoghi comuni su cui si arenano le vecchie passioni ideologiche. Che vita sarebbe senza potersi dividere in schiere contrapposte, senza mettere in gioco il futuro, di cui tutti parlano perché nessuno ne sa alcunché.  

(...)

Il mondo poi va ripulito, disinquinato, emendato di qualche sua follia contaminante con strumenti tecnologici e di mercato, sennò decresce e sono guai seri; sulle leve della transizione energetica, anche per ragioni ecopolitiche, nessuno ha seri dubbi, ma la chiacchiera sul caldo che fa umanitario e di sinistra, che legittima in anticipo la rivolta dei posteri contro di noi, e ci fa la vita amara, colpevole, ansiogena, e più calda ancora, ce la potremmo risparmiare. Sobrietà, signor Caronte.

Rampini smonta i talebani del clima: "La lotta deve partire in Cina non a Roma". Luca De Lellis su Il Tempo il 18 luglio 2023

Il caldo torrido dell’ultima settimana italiana infiamma anche il dibattito pubblico.  E, persino in questo contesto, è sbocciata la polemica tra chi si disinteressa del cambiamento climatico e chi invece individua nelle temperature abbondantemente sopra i 40 gradi un grosso campanello d’allarme. Tanto che anche il Times, quotidiano britannico, ha titolato Roma “the infernal city”. Federico Rampini, durante la puntata di Controcorrente in onda su Rete 4 martedì 18 luglio, ha cercato di riportare nella realtà i talebani del clima: “Tutto l’emisfero Nord, nel momento d’estate, conosce dei picchi di temperatura molto elevati, anche se ci sono zone come l’Inghilterra che costituiscono un’eccezione”, ha esordito l’editorialista da New York per il Corriere della Sera. Che poi ha proseguito: “Qui in America si parla anche del caldo di Roma, ma tra tante altre cose”.

L’ospite della conduttrice Veronica Gentili ha poi svelato un retroscena “sulla relazione tra Cina e Stati Uniti”, che sulla “lotta al cambiamento climatico stanno cercando di trovare una linea comune nonostante i pessimi rapporti e i litigi continui su tutto”. Tutto ciò scaturisce però da un presupposto non trascurabile, e cioè “c’è la consapevolezza che quella lotta lì deve partire in Cina, non a Roma”. Il perché è presto detto: “La Cina emette ormai più CO2 di Stati Uniti e Unione Europea sommate insieme”.

Secondo Rampini il contributo dell’Italia e, in generale, dell’Europa nella lotta al cambiamento climatico può essere solo marginale. “Le decisioni che invece prende Pechino sul tema hanno un impatto notevole”. E come si affronta il dibattito in Cina? “Diversamente rispetto a noi e agli Stati Uniti, che sono molto simili”, perché lì “l’approccio è pragmatico”. Da diverso tempo, spiega il giornalista, “le autorità governative hanno abbracciato l’idea che il cambiamento climatico sia provocato prevalentemente dall’attività umana”. E poi “la Cina investe molto nelle energie rinnovabili, tra le quali include il nucleare come prima risorsa, ma sono grandi fruitori anche dell’energia rilevata dai pannelli solari”. Però, conclude Rampini, in Cina “sanno benissimo che le rinnovabili da sole a oggi non bastano e quindi continuano ad aprire centrali a carbone, perché credono che bisogna continuare a produrre per adattarsi al caldo e banalmente avere l’aria condizionata negli ospedali”.

Estratto dell'articolo di Elena Dusi per "la Repubblica" l'11 luglio 2023.

La crisi climatica ha un prezzo, e oggi lo stiamo già pagando. Il conto economico, stima l’Unione europea, ha raggiunto i 145 miliardi negli ultimi dieci anni. Tanto ci sono costati secondo Eurostat i danni degli eventi meteorologici estremi fino alla fine del 2022 (per l’Emilia Romagna c’è una fattura a parte). Il prezzo in termini di salute invece è stato pubblicato ieri su Nature Medicine . Parla di 61.672 vite perse in Europa nell’estate 2022 (dal 30 maggio al 4 settembre) per il caldo.

Il maggior numero di vittime — 18mila — si è contato in Italia. […] L’analisi di Nature , elaborata con i dati Eurostat dall’Istituto per la salute globale ISGlobal di Barcellona, trova riscontro nell’esperienza dei medici. 

«In reparto abbiamo in media cento letti occupati. La scorsa estate abbiamo viaggiato costantemente a livelli di 160-170» ricorda Salvatore Badalamenti, direttore del Centro di medicina interna dell’Irccs Humanitas di Rozzano[…] A proposito di afa, l’estate 2022 ha picchiato duro: 2,33° in più a giugno rispetto alla media degli ultimi trent’anni, 3,56° a luglio e 2,67° ad agosto.

 «Ci preoccupiamo del limite di un grado e mezzo di riscaldamento climatico da non superare. La verità è che ormai andiamo per i tre» ammette Antonello Pasini, fisico e climatologo del Cnr. «Fino a qualche anno fa gli anticicloni provenienti dall’Africa erano sconosciuti alle nostre latitudini. Oggi arrivano fino alle Alpi, stabilendosi sull’Italia per giorni. È come se il clima dell’Africa si fosse trasferito da noi».

[…] Secondo l’Organizzazione meteorologica mondiale il pianeta, reduce dall’aver registrato il giugno più caldo, la settimana scorsa ha toccato anche il record dei sette giorni più caldi di sempre. […]

L’Italia delle 18mila vittime, che a maggio ha visto affondare l’Emilia Romagna sotto a 4,5 miliardi di metri cubi di acqua, oggi si ritrova dunque immersa in una nuova ondata di caldo. «Ce la porteremo avanti una decina di giorni, con l’eccezione di qualche temporale al Nord» prevede Carlo Cacciamani, fisico dell’atmosfera e direttore dell’agenzia governativa ItaliaMeteo. «Secondo i modelli anche il resto dell’estate sarà piuttosto calda. Tra alluvioni e ondate di calore, non capisco cos’altro ci debba accadere per renderci consapevoli del problema».

Tutti gli ultimi 8 anni, in effetti, rientrano nella lista degli 8 anni più caldi del pianeta. «È come se avessimo un mazzo di carte in cui un tempo c’era un solo asso di bastoni» fa l’esempio Cacciamani. «Ora, con il cambiamento climatico, gli assi di bastoni, che corrispondono agli eventi meteorologici estremi, si sono moltiplicati. Le probabilità di estrarne uno dal mazzo, e di esserne colpiti ben bene, sono molto aumentate».

Evidentemente però 61mila morti e 145 miliardi non sono ancora sufficienti. La premier Giorgia Meloni ha detto chiaramente una settimana fa che la difesa dell’ambiente non può costringerci a «smantellare la nostra economia e le nostre imprese». Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti lo ha ribadito ieri: «La transizione ecologica costa, e il problema è chi paga». La realtà però è che il conto è già nelle nostre mani. […]

Il Meteorologo.

Oggi piove? Il business milionario dietro le app del meteo (con i loro allarmismi per fare traffico). Le previsioni del tempo in Rete hanno un giro d’affari ricchissimo: i ricavi pubblicitari crescono a gran velocità e si moltiplicano i siti che attirano visitatori anche con contenuti enfatici ed eccessivi. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 10 Maggio 2023.

Anche il meteo va di fretta, di questi tempi. Si consuma a ogni ora del giorno e della notte. Corre al ritmo dei social network. Vive di frasi a effetto e concetti semplificati. Perché tutto, o quasi, passa sul web e il successo si misura in clic. E siccome il pubblico è in continuo aumento, il business delle previsioni in Rete macina ricavi e profitti a un ritmo mai conosciuto prima. In Italia il mercato è dominato da due marchi: ilmeteo.it e 3Bmeteo. Entrambi i siti crescono a gran velocità grazie alle app installate su milioni di smartphone. Poi ci sono i ricchi contratti siglati con giornali, radio, televisioni e anche con molte aziende che hanno bisogno di sapere che tempo farà per programmare la loro attività: turismo, trasporti, energia.

Qualche numero aiuta a comprendere le dimensioni del fenomeno. Il Meteo.it, fondato venti anni fa da Antonio Sanò, a tutt’oggi presidente e unico azionista, nel 2021 ha incassato poco meno di 14 milioni con utili di 6,6 milioni. L’anno scorso, per cui non sono ancora disponibili dati ufficiali, i ricavi sono diminuiti di pochi punti percentuali, ma i margini di guadagno restano altissimi. Al lordo delle tasse, la redditività sul fatturato supera il 60 per cento, per un’azienda che conta su soli 14 dipendenti a tempo pieno e si affida in gran parte a service esterni. Anche 3Bmeteo gode di ottima salute. Il sito gestito da una società con sede e uffici nella Bergamasca, a Ponte San Pietro, vanta un giro d’affari che supera gli 8 milioni mentre i profitti si aggirano intorno ai 2 milioni. Le tre “b” della ragione sociale fanno riferimento alle iniziali dei fondatori: Massimo Bettinelli, azionista di maggioranza, Sergio Brivio e Lorenzo Badellino, che ha lasciato il gruppo.

La pubblicità è di gran lunga la fonte principale di ricavi per le due aziende, che da tempo hanno conquistato le prime posizioni nella graduatoria nazionale dei siti di informazione più visitati. Il traffico sul web conosce ovviamente alti e bassi in base al periodo dell’anno. Aumenta alla vigilia dei week end, delle vacanze estive e invernali oppure dei ponti festivi come quello, recente, del 25 aprile. Nel mese di agosto, per dire, ilmeteo.it arriva a 30 milioni di visitatori (utenti unici), più di qualunque altro sito di informazione. A febbraio, ultimo dato disponibile (fonte Audiweb), siamo intorno ai 23 milioni, mentre 3Bmeteo insegue a quota 12,6 milioni.

Sin dai tempi lontanissimi dei primi meteorologi sui canali Rai, da Edmondo Bernacca a Guido Caroselli, le previsioni del tempo hanno conquistato un’audience televisiva di milioni di affezionati spettatori. Col passare degli anni il format si è evoluto fino a siti internet come ilmeteo.it che offre anche contenuti extra, in aggiunta alle consuete informazioni su temperature, piogge e perturbazioni in arrivo. Si va delle news di cronaca fino agli aggiornamenti sul traffico e la qualità dell’aria.

Di recente anche la crescente instabilità del tempo, effetto in parte dei cambiamenti climatici, ha contribuito ad alimentare un interesse nuovo, e diverso, per il meteo. «Il pubblico è diventato più esigente, la qualità delle previsioni che ci viene richiesta è molto superiore rispetto al passato», commenta Emanuele Colli, un ex manager di Google da quattro anni amministratore delegato de ilMeteo.it. «Adesso però - dice Colli - la tecnologia ci permette di elaborare un’enorme quantità di dati e di conseguenza siamo in grado di fornire informazioni di gran lunga più precise».

La domanda crescente traina anche l’offerta. E sul web si moltiplicano i siti, a volte improvvisati, che vanno a caccia di clic con l’esca del meteo. Di fatto, però, il mondo delle previsioni del tempo si divide in due. Da una parte ci sono gli enti che non hanno bisogno di pubblicità per far quadrare i conti, perché vivono di finanziamenti pubblici o di contributi privati. Tra questi, il sito più conosciuto e seguito è quello del servizio meteorologico dell’Aeronautica militare che, tra l’altro offre i suoi servizi meteo anche alle reti Rai.

L’altra metà del campo è presidiata da vere e proprie aziende che hanno trasformato le previsioni meteo in un business. Campione mondiale di questa categoria è The Weather Channell, un marchio che vale per due. C’è la pay-tv via cavo americana, controllata dal finanziere Byron Allen, che trasmette news sul tempo 24 ore su 24. E poi l’omonimo sito, una vera multinazionale del meteo seguita in ogni angolo del globo. E non può essere altrimenti, visto che le previsioni offerte da Google, quelle che viaggiano in automatico sui nostri smartphone, sono in realtà fornite proprio da The Weather Channel, che fa capo al colosso dell’informatica Ibm.

Il mercato italiano è per forza di cose molto più ristretto, come pure la torta pubblicitaria da dividere tra i vari siti. Qui la partita si gioca anche ricorrendo a un vocabolario enfatico, a titoli ammiccanti, a volte allarmisti, con l’obiettivo di moltiplicare i clic e quindi anche gli introiti pubblicitari. Insomma, il meteo come uno show, per guadagnare di più.

«Ma non è così», protesta Massimo Bettinelli di 3Bmeteo. «A differenza di altri - continua - noi abbiamo una quindicina di meteorologi certificati tra i nostri dipendenti, facciamo anche attività di divulgazione senza scopo di lucro e, soprattutto, non pubblichiamo contenuti diversi dalle previsioni meteo, tipo le news di cronaca».

Su quest’ultimo aspetto arriva la replica de ilmeteo.it. «Le notizie occupano uno spazio marginale tra i contenuti del nostro sito. Il pubblico ci sceglie perché le previsioni meteo sono accurate», afferma Colli, l’amministratore delegato dell’azienda leader di mercato. «La meteorologia è una scienza molto complicata e dobbiamo scrivere in modo semplice per farci capire da tutti», spiega il manager.

E allora fate largo «all’Italia sott’acqua», alle «sciabolate artiche», all’«anticiclone Lucifero che brucerà la Penisola». È il meteo del terzo millennio, un business che corre sul web.

Il mestiere del meteorologo. Siccità e alluvioni: cosa sta accadendo al clima? Andrea Galliano su Linkiesta il 9 Giugno 2023

Luca Mercalli spiega che si tratta di due fenomeni che hanno origine nella stessa causa: il riscaldamento climatico. «L’Italia è un territorio strautilizzato. Strade, case, fabbriche. C’è una quantità di infrastrutturazione edilizia che aumenta la vulnerabilità. Ma ciò è la conseguenza di scelte prese negli ultimi 70 anni»

Tratto da Morning Future

Sembra contraddittorio parlare di siccità davanti alle alluvioni che hanno sconvolto Emilia Romagna e Marche nelle scorse settimane. Ma si tratta di due fenomeni che hanno origine nella stessa causa: il riscaldamento climatico. Le alluvioni «sono un processo geomorfologico inevitabile nella storia del Pianeta. Ci sono sempre state e sempre ci saranno. In più il cambiamento climatico le sta rendendo più frequenti e più intense», spiega il meteorologo Luca Mercalli. «Ora tutto il Po ha ripreso una piovosità che ci porta fuori dalla siccità. Però bisogna vedere quanto quest’acqua sarà penetrata nei suoli perché ci sono 17 mesi di siccità da saturare».

Ma come spieghiamo le alluvioni di maggio?

Maggio è un mese piovoso come novembre. Nella pluviometria media della Pianura Padana, i mesi più piovosi sono maggio, novembre e ottobre. L’autunno e la primavera sono più o meno a pari merito. Quindi non è strano che a maggio piova. È strano che la pioggia sia stata di questa intensità e abbia causato un disastro. Nel Nord Italia maggio non è un mese siccitoso, anzi è uno dei mesi più piovosi dell’anno. Per fortuna, perché è quello che dovrebbe fornire l’acqua che poi serve per l’estate successiva. La situazione è molto complicata perché la siccità precedente si è estinta con un altro evento estremo. Purtroppo ha piovuto in modo eccessivo e violento.

Quando saranno finite le inondazioni, tornerà il fenomeno opposto della siccità e sarà una caratteristica dell’estate?

Impossibile dirlo. Non si possono fare previsioni a lungo termine di questa portata. Intanto adesso di acqua ne è arrivata più o meno su tutto il bacino del Po. Ora tutto il Po ha ripreso una piovosità che ci porta fuori dalla siccità. Però bisogna vedere quanto quest’acqua sarà penetrata nei suoli perché ci sono 17 mesi di siccità da saturare. Le piogge violente sono passate rapidamente sul territorio facendo danni, ma non è detto che le falde profonde siano già state alimentate. Aspetti che si vedranno dopo.

Cosa potrebbe accadere?

Le misure di precisione verranno fatte sui pozzi campione e si vedrà. Perché la maggior parte dell’acqua è andata a mare. La siccità verrà via via colmata nei prossimi mesi. Poi come andrà la stagione non possiamo saperlo adesso. Le previsioni di precisione durano 10 giorni. Si esaurirà questa fase di pioggia e di fresco, le temperature si alzeranno e fino a fine maggio proseguirà la primavera. Il primo giugno inizierà l’estate meteorologica e si vedrà. Se non pioverà più e le temperature saranno fuori media, può tornare la siccità. Meno intensa di prima perché un po’ di acqua ha caricato i suoli. Ma se non dovesse più piovere fino ad agosto, la siccità tornerebbe a essere un problema. Invece se ci dovessero essere altre piogge, speriamo regolari e non violente, distribuite più o meno nei mesi successivi, allora la siccità pian piano si dovrebbe spegnere completamente e ricaricheremo le falde.

Cosa si può fare per evitare inondazioni e siccità?

Niente. Con una portata di eventi di questo genere è illusorio pensare di poterli evitare. Questa parola va tolta dal vocabolario delle alluvioni poiché sono un processo geomorfologico inevitabile nella storia del Pianeta. Ci sono sempre state e sempre ci saranno. In più il cambiamento climatico le sta rendendo più frequenti e più intense. Si possono alleviare i danni, ma non evitare. In Romagna in soli 15 giorni sono caduti 300 litri di acqua per metro quadrato. Due episodi record: il 2 e il 17 maggio. L’alluvione di inizio mese ha creato i primi allagamenti e ha imbevuto i suoli dell’Appennino, la seconda ha trovato i terreni già saturi e ha portato una quantità di acqua fuori dalle statistiche storiche. Se una collina frana, frana. Punto. Non si può fermare con le mani o con opere di contenimento. Si può fare un muretto, ma se viene giù l’intera collina (con le strade sopra) non c’è nulla da fare. E lo stesso vale per l’acqua: se arriva tutta insieme, da qualche parte dovrà andare.

Per ridurre i danni quali sono le mosse più opportune?

Possiamo solo agire dal punto di vista della prevenzione con la formazione delle persone per evitare di perdere la vita. Ci vorrebbe una corretta formazione di protezione civile o come fanno i giapponesi con i terremoti: esercitazioni e informazioni su cosa fare quando ci sono le allerte. L’unica speranza è evitare i morti, ma tutto il resto non si può cambiare. Le onde di piena su questi piccoli fiumi hanno raggiunto i 15 metri di altezza. Cosa si può fare? Qualsiasi operazione anche di manutenzione del territorio forse le avrebbe portate a 14 metri, ma non sarebbe cambiato nulla. E gli argini diventano una falsa sicurezza. Nella teoria idraulica è una cosa nota da cento anni. L’argine serve fino a un certo punto, ma contro l’evento eccezionale non serve più. Da qualche parte cede. Costruire la casa sotto l’argine non pone le persone al sicuro.

Il problema è che la politica, a livello nazionale e locale, non ha agito?

Sono stufo di sentire tutti esperti con una ricetta e con dei motti che semplificano, tipo “è successo perché non hanno pulito i fiumi” oppure “è successo perché non hanno dato l’allarme”. Un’alluvione è un fenomeno complesso ed emergenziale. Perciò produce una parte di eventi imprevedibili. C’era l’allerta rossa, ma non posso prevedere il punto esatto dove scoppierà un argine. Perché se lo sapessi lo riparerei la sera prima. Come nel terremoto non posso sapere con precisione come cadrà una casa. All’interno del fenomeno parossistico si creano un’infinità di situazioni locali che non sono prevedibili. È prevedibile solo lo stato di allerta generale perché purtroppo è un fenomeno di dimensioni colossali. E già tanto, rispetto a 50 anni fa, poter dare l’allerta. All’epoca avremmo avuto forse 100 morti, anziché 14. Poi c’è il problema della gestione del territorio a livello decennale. La cementificazione. L’Italia è un territorio strautilizzato. Strade, case, fabbriche. C’è una quantità di infrastrutturazione edilizia che aumenta la vulnerabilità. Ma ciò è la conseguenza di scelte prese negli ultimi 70 anni.

Invece cosa si può fare nei confronti del cambiamento climatico?

Il cambiamento climatico è un fenomeno globale. L’unica cosa che si può fare, predicato da 30 anni dalle Nazioni Unite, è ridurre la causa che fa aumentare la temperatura e, di conseguenza, i fenomeni estremi. Cioè la famosa riduzione delle emissioni di gas effetto serra. Questo lo dice l’accordo di Parigi, firmato nel 2015: più abbassiamo la quantità di Co2 che buttiamo in atmosfera, più riusciamo a limitare l’aumento della temperatura. L’accordo prevede anche due percorsi. Quello più prudente dovrebbe consentire di ridurre il danno climatico tenendo la temperatura sotto i due gradi di aumento a fine secolo. Oppure, se non si fa nulla, l’incremento sarà di 5 gradi. Se riduciamo la temperatura, ridurremo in futuro la frequenza di questi nuovi eventi estremi. Ma lo devono fare tutti. Non possiamo farlo solo noi in Italia. Anche la Cina, gli Stati Uniti e la Russia. E questo al momento non sta avvenendo. António Guterres, il segretario generale Onu, ha detto che ogni frazione di grado conta. Ma il clima sta cambiando senza alcuna forma di prevenzione, anzi la guerra in Ucraina sta facendo aumentare le emissioni. Al momento non abbiamo una strategia di mitigazione climatica e in futuro dovremmo aspettarci sempre più eventi estremi.

I giovani attivi nel settore ambientale vent’anni fa guardavano a Greenpeace, Legambiente e al Wwf. Ora a Fridays for Future, Extinction Rebellion e Ultima Generazione. Cosa è cambiato e quanto possono incidere i giovani?

I giovani fanno bene ad attirare l’attenzione su questo problema perché purtroppo saranno i bersagli dei danni del futuro. Chi ha vent’anni vedrà il peggio nella seconda parte del secolo. Però non basta scendere in piazza e fare lo sciopero del clima perché la politica internazionale cambi. Poi sono tre anni che ci sono queste azioni da quando si è formato il movimento dei ragazzi dopo le iniziative di Greta Thunberg. Ma non è che sia servito a qualcosa. Anzi, a gran parte della società sono addirittura diventati antipatici. Non mi sembra che ci sia questa grande empatia. Forse il problema è il numero: non sono abbastanza. Non tutti i giovani sono sensibilizzati e molti purtroppo sono indifferenti.

Il cambiamento climatico e l’economia.

Il cambiamento climatico è un disastro anche per l’economia: questo è il conto miliardario per le aziende. I danni al sistema produttivo per effetto di incendi, alluvioni e siccità sono in aumento. Cemento, acciaio e microchip i settori più esposti. Ma anche l’agricoltura e i trasporti via fiume. E s’impennano i costi per le assicurazioni. Vittorio Malagutti su L'Espresso il 7 Giugno 2023

A Panama, la siccità estrema ha costretto le autorità che gestiscono il Canale a imporre nuove regole al passaggio delle navi. Non c’è acqua a sufficienza e i portacontainer più grandi dovranno limitare il carico per non toccare il fondo. Di sicuro, quindi, aumenteranno i costi di trasporto e, di conseguenza, anche i prezzi delle merci per aziende e consumatori finali.

Nel sudest dell’Asia, dalle Filippine al Vietnam fino al confine con l’India, l’ennesima ondata di caldo anomalo minaccia la salute pubblica, soprattutto dei più poveri, e rallenta la produzione delle fabbriche al servizio dei grandi gruppi occidentali. Dall’altra parte del mondo, in Spagna, le piogge torrenziali della seconda metà di maggio hanno messo fine a una siccità lunga più di due anni con temperature che già ad aprile avevano raggiunto i 40 gradi in Andalusia. L’agricoltura soffre ed è a rischio soprattutto la coltura delle olive, di cui il Paese iberico è di gran lunga il maggior produttore europeo con un giro d’affari miliardario.

Nei giorni in cui in Italia si contano i danni della catastrofica alluvione in Romagna, le cronache dal resto del mondo confermano che eventi climatici estremi si ripetono con una frequenza sempre maggiore. Per fortuna si riduce, come confermano tutte le statistiche, il bilancio delle perdite in termini di vite umane. È in continuo aumento, invece, il costo dei disastri per l’economia.

Secondo un report del gruppo assicurativo Swiss Re, entro il 2050 il riscaldamento globale potrebbe tagliare ogni anno del 14 per cento il Pil del mondo, cioè all’incirca 23 mila miliardi di dollari. Gli investimenti necessari per contenere gli effetti del rialzo delle temperature - calcola l’Ocse - sarebbero invece pari a circa 7 mila miliardi annui nell’arco del prossimo trentennio. Una somma di gran lunga inferiore, quindi, ai costi del cambiamento climatico. 

Questi numeri fanno apparire ancor più surreali gli argomenti di una parte del mondo politico, a destra come a sinistra, che accusa di estremismo ambientalista chi chiede interventi drastici e immediati per ridurre le emissioni di CO2, causa principale del global warming. Bisogna fare presto, allora, non solo perché entro alcuni decenni la frequenza e l’intensità degli eventi estremi renderà inabilitabili ampie aree del pianeta. L’evidenza dei fatti dimostra che un rischio climatico crescente pesa fin da adesso sul sistema produttivo. E con l’andar del tempo il prezzo da pagare per molte aziende, nei più diversi settori di attività, potrebbe diventare così elevato da mandarle fuori mercato.

Per farsi un’idea dei danni provocati dal rapido alternarsi di siccità e alluvioni basta scorrere le cronache che riguardano il Reno, fondamentale via di trasporto al centro dell’Europa, un fiume che garantisce le risorse idriche indispensabili al funzionamento di innumerevoli fabbriche disseminate lungo il suo corso. Nel 2018, una fase di magra eccezionale innescò un calo dell’1,5 per cento della produzione manifatturiera nell’intera Germania. In quell’anno gli stabilimenti del colosso chimico Basf, che prelevano dal Reno l’acqua necessaria al raffreddamento degli impianti, furono costretti a rallentare la produzione. All’epoca gli analisti calcolarono che i danni per il gruppo tedesco in termini di minori profitti superarono i 250 milioni di euro. Nell’estate del 2021 fu invece l’alluvione a mettere in crisi il sistema di trasporto delle merci per 760 chilometri tra Svizzera, Germania e Olanda. Tempo dodici mesi e la situazione si ribaltò. In agosto del 2022, causa caldo e siccità, il livello del grande fiume si è abbassato a tal punto da paralizzare le catene di forniture di decine di grandi aziende.

I ripetuti episodi di siccità, a volte seguiti da piogge alluvionali, creano grandi difficoltà non solo all’agricoltura, ma ad interi settori produttivi. Cementifici e acciaierie, per esempio, non possono funzionare senza aver accesso a risorse idriche abbondanti e continue. È stato calcolato che negli Stati Uniti l’acqua utilizzata in un anno per la produzione di cemento equivale al consumo domestico di 145 milioni di cittadini. L’oro blu è indispensabile anche per industrie leggere come quella dei semiconduttori. Gli impianti che producono questi materiali, indispensabili per tutti i dispositivi che richiedono un chip per funzionare, dagli smartphone ai computer fino alle automobili, consumano grandi quantitativi d’acqua. Una risorsa, quest’ultima, che negli ultimi anni è diventata sempre più scarsa nel sudovest degli Stati Uniti. In quest’area si trova una delle massime concentrazioni al mondo di aziende produttrici di semiconduttori, seconda solo all’Estremo Oriente, dalla Cina a Taiwan. E così, anche colossi come Intel hanno dovuto fare i conti con la siccità che negli ultimi anni ha ridotto ai minimi termini le riserve d’acqua di stati come l’Arizona. La mancanza di piogge ha creato gravi problemi anche al gruppo Taiwan Semiconductor Manufacturing, che è il più grande produttore al mondo di semiconduttori per conto terzi. Nel 2021 l’isola di fronte alla Cina era stata risparmiata dai tifoni che ogni anno garantiscono abbondanti risorse idriche al paese. E così, per non fermare l’attività, l’azienda taiwanese è stata costretta a rifornirsi tramite cisterne con maggiori costi per decine di milioni di euro.

La variabile clima, quindi, ha un peso sempre maggiore sui conti delle imprese. Non per niente per le società quotate in Borsa è ormai prassi comune inserire anche i rischi legati ai fenomeni estremi, tipo alluvioni o siccità prolungate, tra quelli che vanno comunicati agli azionisti. Di conseguenza cambia anche il business delle compagnie di assicurazioni, costrette a far fronte all’incremento dei risarcimenti legati a quelli che vengono definiti «sinistri catastrofali». Secondo uno studio del gruppo assicurativo britannico Aon, il costo totale dei danni legati a disastri naturali l’anno scorso ha toccato i 313 miliardi di dollari, per quasi un terzo (95,5 miliardi) legati all’uragano Ian che ha devastato la Florida e Cuba. La siccità in Europa pesa invece per circa 22 miliardi. Più della metà di quei 313 miliardi di danni non erano coperti da polizze. Le assicurazioni hanno perciò dovuto far fronte a risarcimenti per 132 miliardi di dollari, una somma di gran lunga più elevata rispetto alle media dei venti anni precedenti, che si aggira attorno a 80 miliardi. L’aumento dei sinistri catastrofali si è fatto sentire anche sui conti delle Generali, la più grande compagnia italiana. I disastri naturali hanno pesato sul bilancio 2022 per 673 milioni di euro, contro i 493 milioni del 2021. E quest’anno la sola alluvione di maggio in Romagna potrebbe causare oltre 100 milioni di risarcimenti. A pagare, alla fine, saranno i clienti, che vedranno aumentare il costo delle polizze. Un altro effetto indiretto del cambiamento climatico.

Frane e alluvioni minacciano milioni di abitazioni: quasi tutta Italia è a rischio. Da Alessandria a Messina, da Sarno alla Romagna, trent’anni di disastri hanno colpito in ogni regione causando oltre 1.600 vittime e 320 mila sfollati. Ma la cementificazione continua, anche lungo i fiumi e nelle aree più pericolose: ecco le mappe di rischio. Paolo Biondani su L'Espresso il 30 Maggio 2023

Un’emergenza cronica, uno stato di pericolo permanente, che minaccia quasi tutti i Comuni italiani. Le disastrose alluvioni che hanno colpito l’Emilia-Romagna in questo mese di maggio non si possono considerare una fatalità imprevedibile, né un problema straordinario di un singolo territorio. Metà della regione è classificata da anni, ufficialmente, tra le «aree a rischio» di inondazioni, crolli e smottamenti. E per estendere l’allarme all’intero territorio nazionale basta elencare alcune delle «migliaia di località» italiane che, solo negli ultimi trent’anni, sono state colpite dalle alluvioni e dalle frane più rovinose. 

Una lista da non dimenticare: Alessandria (1994), Sarno e Quindici (1998), Nord del Piemonte e Valle d’Aosta (2000), Valcanale in Friuli (2003), Cavallerizzo di Cerzeto (2005), Messina (2009), Borca di Cadore (2009), Montaguto (2010), Val di Vara, Cinque Terre e Lunigiana (2011), Alta Val d’Isarco (2012), Genova (2011 e 2014), San Vito di Cadore (2015), Madonna del Monte (2019), Chiesa in Valmalenco (2020), Senigallia (2014 e 2022), Ischia (2022), Emilia-Romagna (2023).

L’Italia, per natura, ha un territorio ad alto rischio di alluvioni, smottamenti (con più di un quarto del totale delle frane censite in Europa), terremoti, erosioni costiere, eruzioni vulcaniche. Nel 2022 l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra) ha registrato casi di dissesto idrogeologico nel 93,9 per cento dei Comuni italiani. Il problema, avvertono gli esperti, è aggravato dagli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Ma anche dalla cementificazione del suolo, che continua ininterrotta da più di mezzo secolo: solo nel 2021 sono stati cancellati più di 69 chilometri quadrati di campagne, prati, boschi, sponde dei fiumi e coste dei mari.

In Italia, in media, spariscono ogni giorno 19 ettari di verde: più di due metri quadrati al secondo. È tutta terra fertile – in grado di assorbire l’acqua, depurarla e regalare vita a piante e animali – che viene ricoperta da una crosta morta di cemento e asfalto: uno strato impermeabile che cancella le difese naturali e favorisce il dissesto.

Oggi più di due milioni e 400 mila italiani vivono in case con «pericolo elevato» di inondazioni. Sommando le zone a «rischio medio», la popolazione esposta alle alluvioni sale a 6,8 milioni. Le frane più gravi minacciano 565 mila abitazioni, con più di un milione e 300 mila residenti.

Territorio fragile, edilizia sregolata, interessi privati, politica incapace o complice: una miscela che è all’origine di troppe tragedie nazionali. In Italia, dal 1971 al 2021, frane e alluvioni hanno provocato 1.630 morti accertati, 48 dispersi, oltre 320 mila senzatetto. Nonostante questi dati, la cementificazione non si ferma neppure sui terreni già classificati come pericolosi. 

Le foto aeree raccolte dall’Ispra documentano che in cinque anni, dal 2017 al 2021, sono stati costruiti appartamenti, strade, parcheggi, capannoni e supermercati in più di 1.313 ettari di «aree franose», sparsi in tutte le Regioni. Circa un terzo di questa massa di fabbricati è stata realizzata su terreni a rischio «elevato» o «molto elevato»: al primo posto, nella classifica dell’azzardo edilizio, c’è la Campania. Le altre regioni con il maggior numero di residenti in aree minacciate da frane e alluvioni sono Emilia, Toscana, Veneto, Lombardia e Liguria.

Un rapporto del Wwf pubblicato nel 2022 denuncia che molte amministrazioni locali autorizzano interventi edilizi anche vicino ai fiumi, proprio dove dovrebbero sfogarsi le ondate di piena: «Negli ultimi 50 anni, circa duemila chilometri quadrati di aree naturali di esondazione hanno subito varie forme di urbanizzazione», segnala l’organizzazione ambientalista: «Cemento e asfalto oggi ostruiscono dal 3 al 25 per cento di tutte le sponde dei corsi d’acqua».

I dati dell’Ispra documentano che, solo nel 2021, sono diventati artificiali 361 ettari di suolo a «elevata pericolosità» per le alluvioni. In Liguria risulta cementificato il 23 per cento dei terreni a massimo rischio di straripamento di fiumi e torrenti. Il problema è grave anche in altre regioni, dal Trentino al Veneto, dal Lazio alla Sicilia, dove è a rischio circa un decimo del territorio occupato da attività umane. 

Le prime norme contro il dissesto furono approvate dopo la storica alluvione del Polesine, che nel novembre 1951 causò oltre 100 vittime e 180 mila sfollati. Nei successivi trent’anni sono state approvate dieci leggi speciali, poi seguite da molte altre, varate sempre dopo ulteriori disastri. Dal 2007 una direttiva europea ha imposto di adottare piani territoriali coordinati contro le alluvioni. E dal 2030, se il governo non cambierà idea, anche l’Italia dovrebbe applicare le norme europee che puntano a ridurre il consumo di suolo, fino ad azzerarlo. Intanto, però, si continua a cementificare.

Al ritmo attuale, entro il 2030 in Italia spariranno altri 570 chilometri quadrati di terreni verdi: la miglior difesa naturale, gratuita e rinnovabile contro i disastri.

Le Alluvioni.

Il Gleno.

Diga del Gleno, cent’anni di silenzio. Un disastro rimasto senza risposte. Storia di Marco Birolini e Francesco Riccardi su Avvenire il 30 novembre 2023.

(Marco Birolini) «Le case non c’erano più. Ma non c’era nessuno che gridava o piangeva. Stavano lì, atterriti». Il disastro del Gleno è una storia raccontata nel silenzio. Quello che calò sulla Val di Scalve e sulla Val Camonica dopo il crollo della diga, ben descritto dalle parole della signora Francesca, tra i pochi sopravvissuti di quel tragico 1° dicembre 1923. Ma anche quello che mai si è incrinato nei 99 anni successivi. Tranne sporadiche commemorazioni, la catastrofe è sempre rimasta ai margini della storia italiana. I morti furono 356, ma è impossibile dire se la cifra sia esatta. Ci sono stime che parlano di almeno 500 vittime. Alcuni cadaveri non si trovarono mai, altri erano già sepolti e si mischiarono ai vivi: la furia delle acque, 22 mila metri cubi al secondo lanciati verso il fondovalle (la piena del Po non va oltre i 13 mila), spazzò via persino i cimiteri.

La notte precedente almeno una ventina di neonati vennero alla luce, ma non fecero a tempo ad essere registrati all’anagrafe. Tutte le vittime, ufficiali e no, hanno però un destino comune: sono state dimenticate. Nei giorni dopo la sciagura, in Val di Scalve arrivò persino re Vittorio Emanuele III, accompagnato da Gabriele D’Annunzio. Se ne parlò a lungo sui giornali, si fece un processo con 300 testimoni. Ma poi il disastro scivolò nell’oblio. Il rudere della diga troneggia severo sulla Val di Scalve, dove ancora oggi dividono il tempo in “prima” e “dopo” il Gleno. Ma altrove se ne è perso il ricordo. Un po’ perché all’epoca non c’era la televisione ad amplificare il dramma, un po’ per quel carattere ruvido e schivo di bergamaschi e bresciani, che un minuto dopo essersi asciugati le ultime lacrime si rimboccarono le maniche per ricostruire. Ma c’è forse anche altro, sul fondo di quel lago torbido che è la memoria collettiva italiana. Un incubo rimosso, fatto di verità non dette, interessi di parte, persino fake news ante litteram, come il corpo di quella madre accanto al figlio, ripescati però in punti diversi e accostati a beneficio di obiettivo. Un’immagine buona per commuovere, ma anche per distrarre l’opinione pubblica dalle cause del disastro.

Per onorare i morti, ma anche per tentare di capire, tocca partire dall’inizio. Il 1° dicembre 1923 piove. La diga è stata riempita da un mese con 4 milioni di metri cubi d’acqua che serviranno a produrre energia elettrica, di cui il sistema industriale del Nord Italia è sempre più assetato. Virgilio Viganò l’ha voluta costruire per alimentare i suoi cotonifici. In origine il progetto prevedeva una struttura classica, a gravità, poi in corso d’opera si passa al sistema ad archi, che contiene la spinta idraulica basandosi sulla contrapposizione di forze fisiche. Nessuno però lo comunica al genio civile di Bergamo, che se ne accorge durante un sopralluogo. Parte la segnalazione al ministero dei Lavori pubblici, che risponde con una diffida: la ditta Viganò presenti subito i disegni della variazione. Detto fatto, è tutto a posto. Anche il collaudo non rileva criticità.

Alle 7.15 qualcuno ha l’impressione di sentire un boato. La diga crolla, in pochi istanti l’acqua raggiunge il paesino di Bueggio e lo spazza via. Il maresciallo dei carabinieri di Vilminore, Virgilio Morcelin, distante poco più di un chilometro in linea d’aria, guarda e vede che la centrale, la chiesa e il camposanto sono scomparsi.

Alle 7,30 l’ondata, che arriva a toccare anche 25 metri di altezza, si abbatte sul piccolo borgo di Dezzo, cancellandolo. La piena prosegue travolgendo ogni cosa, fino a investire Corna di Darfo, in Valcamonica. Infine, dopo 45 minuti, si sfogherà nel lago d’Iseo: il livello si alzerà di 6 centimetri in meno di due ore. Un pescatore dirà che il Sebino era lievitato addirittura di 55 centimetri, distruggendogli le reti. Ma era una menzogna per intascare un risarcimento non dovuto. Capitolo doloroso, questo del ristoro dei danni. I gruppi industriali ottennero una buona fetta della somma, insieme a sgravi fiscali per la ricostruzione. Alla gente comune restarono le briciole. Con il prezzo vergognoso dato alla vita di un bambino di 6 anni: 1700 euro attuali, secondo quanto ricostruito dall’avvocato Benedetto Maria Bonomo, che ne scrive nel libro La tragedia della diga del Gleno (Mursia), riportando la testimonianza di Concetta Reali, storica ostetrica di Darfo: «I sussidi furono distribuiti in fretta e furia, non certo con equità. La povera gente aveva da pensare ai propri tristi casi, i trafficoni ebbero buon gioco a farne man bassa».

Vizio antico, lucrare sulle grandi sciagure italiane. Come da tradizione, anche quella del Gleno rimase senza colpevoli. In primo grado furono condannati il proprietario Virgilio Viganò e l’ingegnere capo Giovan Battista Santangelo: 3 anni e 4 mesi ciascuno. In appello però Santangelo viene assolto per insufficienza di prove, Viganò muore prima della sentenza. Per la giustizia italiana, dunque, non ci sono colpevoli. A 100 anni di distanza non si è ancora capito il perché del crollo. Gli studi dell’Università di Bergamo (da cui è nato il libro A partire da quel che resta, Franco Angeli) hanno evidenziato cause idrauliche. Nel convegno organizzato per il centenario, l’ingegner Marco Pilotti ha spiegato: «La tecnica costruttiva degli archi è molto razionale. Però i contrafforti sono slegati: se uno collassa gli altri non lo sostengono e anzi cadono a loro volta. Sotto quello crollato c’erano evidenti trafilamenti di acqua, che spingendo da dietro alleggerirono la struttura creando una sottopressione». Una porzione, insomma, sarebbe “scivolata”. A ciò si aggiunga la scarsa omogeneità del materiale utilizzato durante la costruzione, per di più di qualità non eccelsa. Durante il processo diversi testimoni riferirono dubbi e dicerie sul colosso dai piedi d’argilla. La vox populi, però, si levò tardiva. «Non mi è mai capitato, prima del disastro, di sentire persone che accennassero alla cattiva costruzione della diga del Gleno poscia franata» disse in aula il maresciallo Morcelin.

L’avvocato Bonomo, che studiò a fondo disastro e processo (legatissimo alla Val di Scalve, è stato anche sindaco di Colere), porta avanti con convinzione una tesi “eretica”: «A provocare il crollo è stata una bomba messa nel condotto di scarico, probabilmente azionata dagli anarchici della Valcamonica. Una versione scomoda sia per gli ambienti di sinistra, che per il fascismo: il Duce non voleva far passare l’idea che il regime non fosse in grado di garantire la sicurezza. Forse l’attentato mirava soltanto a svuotare il bacino, ma la diga aveva chiaramente dei difetti ed è crollata. Furono usati, secondo le perizie, 50 chili dei 70 rubati in zona nei giorni precedenti». Un gesto punitivo verso i fascisti della valle, dunque, che sarebbe andato oltre le intenzioni, innescando sensi di colpa negli stessi “sovversivi”. Di qui reticenze e versioni di comodo portate avanti negli anni, con malcelato fastidio verso l’ipotesi dell’attentato. La tesi della bomba emerse durante il processo perché su di essa poggiava la strategia della difesa, che in questo modo puntava a discolpare la proprietà. Il gioco delle parti, certo, supportato però da una perizia firmata dal generale Ottorino Cugini, generale del genio del II Corpo d’armata.

«Leggende», taglia corto l’ingegner Pilati. Anche peggio, secondo lo storico del fascismo Mimmo Franzinelli: «Ipotesi strumentali e insultanti, la costruzione della diga fu accompagnata da tangenti e omissioni. E il regime nascose la verità perché voleva far vedere che in Italia tutto funzionava bene». Ma Bonomo ha calato l’asso. Da buon avvocato ha scovato la carta che mancava, cioè la perizia affidata dal tribunale a due esperti di fiducia (uno era il generale Aldo Monteguti), che constatano come, ad esempio, la passerella di accesso alla galleria sia tranciata di netto. Questo indizio, come altre tracce, «non escludono, ma anzi possono indurre a concludere che uno scoppio di materia esplosiva siavi stato».

Paola, senza più madre e fratelli, a nove anni scopre cosa significa diventare una «scampata​»

(Francesco Riccardi) È un sabato mattina piovoso il 1° dicembre 1923 a Corna camuna, frazione di Darfo. Paola Dellasera ha nove anni e sua madre le ha chiesto di passare dal macellaio, nella parte alta del paese, prima di andare a scuola. Non fa in tempo ad entrare nella bottega che un vento forte la scuote e alcune persone la trascinano di corsa ancora un po’ più in alto. C’è un rumore fortissimo, sovrasta persino le urla di chi dice che «il fiume ha distrutto il ponte, l’acqua travolge tutto». Sono pochi minuti prima delle 7,30 e ancora non si sa che a cedere è stata la diga del Gleno, più in alto in Val di Scalve. Minuti che trasformano la piccola Paola in una sopravvissuta, «ie hcampacc», è scampata dicono di lei, che scopre solo in quel momento il significato di quella parola. La sua casa, infatti, quasi non si riconosce più dov’era. L’acqua e il fango hanno travolto e ucciso sua madre Caterina di 40 anni, due sorelle di 6 e 2 anni e il fratello di 5. Si salva solo il padre Giovanni, 41 anni, che era già fuori a lavorare. Tutto il resto – affetti, casa, beni, vestiti e fotografie – è cancellato. Intorno a dove viveva una famiglia semplice, serena, ora ci sono i cadaveri che affiorano, il fango e le macerie, quelle fisiche e quelle nell’anima. Ci sono le vittime da riconoscere: 104 solo a Corna. «Ma cosa vuol dire ri-conoscere un membro della tua famiglia, certo che lo conosci», pensa la bambina che fatica a realizzare di aver perso quasi l’intera famiglia.

E perduto, per noi, sarebbe anche il ricordo – perché negli “scampati” prevale il pudore del dolore e in genere evitano di parlare del “Grande disastro” – se non fosse, in questo caso, per la volontà di uno dei figli di Paola Dellasera, Francesco Zeziola, che ha raccolto in un libro (I sopravvissuti, gli invisibili della tragedia, Valgrigna edizioni) i frammenti di racconto quasi “strappati” alla madre durante la vita. Un’esistenza, quella di Paola, profondamente segnata dalla tragedia, rimasta costantemente sottopelle, e nel cuore, quasi nascosta. Un lutto probabilmente impossibile da elaborare, se non alla maniera dei contadini bergamaschi e bresciani di inizio secolo scorso: pensare a lavorare, andare avanti senza lamentarsi, in un misto di fede e rassegnazione. «Il disastro del Gleno, di cui parlo raramente, mi ha reso combattiva, dura, intransigente, poco propensa a comprendere chi prova dolore per motivi futili, perché io so cos’è il dolore vero», dice Paola di sé.

Dal giorno dopo la tragedia passeranno in tanti in quelle terre colpite: il vescovo, il Re e perfino il poeta D’Annunzio. In paese ci si organizzerà per ospitare gli hcampacc e saranno soprattutto le suore a «dare un’educazione ai bambini rimasti a vivere nel dolore». Si farà anche il processo ai fratelli Viganò, i proprietari della fabbrica tessile per la quale vollero realizzare la diga, malprogettata e peggio costruita. Il padre di Paola andrà alla prima udienza con un fucile «per copà i Viganò», che saranno sì condannati ma a pene lievi, così come “leggeri” saranno i risarcimenti stabiliti dai giudici.

Poi la vita tornerà a prendere il sopravvento: il padre di Paola, impossibilitato a lavorare e insieme educare una figlia da solo, sposerà la sorella della moglie, nasceranno altri fratelli-cugini, lei si sposerà a sua volta e avrà ben sette figli. Ma la tragedia la accompagnerà ancora. Una figlia, infatti, morirà di malattia a un anno, un’altra a 7 anni per un tumore cerebrale e il penultimo a 4 anni sarà investito da un’automobile. «Il destino, tra il 1923 e il 1953 mi ha tolto sette membri della mia famiglia: madre, tre fratelli e tre figli», dice Paola, morta nel 1994. «Non ho mai perso la fede. Anche se per me è incomprensibile tutto questo dolore».

Il Vajont.

Nel cimitero del Vajont, 60 anni dopo. «Mio padre diceva: muoriamo insieme». Storia di Pino Ciociola su Avvenire sabato 7 ottobre 2023.

Si comincia dal cimitero. «Sì, se si vuol capire cosa ha provocato la diga», dice Micaela Coletti, presidente del “Comitato per i sopravvissuti del Vajont”, e usa il passato prossimo. Dal cimitero perché «qualcuno vede quella diga come qualcosa d’eccezionale - continua -, ma è solo una cassa da morto, definiamola per quella che è». Si comincia. “Cimitero monumentale vittime del Vajont”, a Fortogna, frazione di Longarone: 1.910 lapidi, a terra fra erba ben curata e verde intenso, ciascuna col nome di chi morì la notte del 9 ottobre 1963 (il più piccolo aveva ventuno giorni). Però i corpi o i resti riconosciuti furono solo 726 e i morti di quella tragedia probabilmente superarono i 2mila. Alcuni riposano ancora sotto ghiaia e terra, a valle. Nel cimitero stamane ci sono sette od otto persone e silenzio assoluto.

Cosa resta sessant’anni dopo? «Assolutamente niente», risponde Micaela. «E questo senso di essere presa in giro continua». Lei aveva dodici anni. «Quella bambina è sempre qui - dice, sottovoce, nel cimitero -, continua ad avere dodici anni, a chiedere un abbraccio della mamma, una carezza, un abbraccio del papà». La voce le s’incrina per un istante, quella notte perse tutti, non le rimase più nessuno: «Vorrei tornare a casa mia, non la ho più da sessant’anni e la casa non è solo l’appartamento in cui si vive». Si ferma. Poi, sempre sotto voce: «Fu trovato e riconosciuto papà, solo perché aveva i documenti addosso. Mia mamma, mia nonna, mia sorella tredicenne, non vennero trovate o riconosciute, non lo so». Non ha mai capito come fece a salvarsi: la ritrovarono a mezzo chilometro da casa, seppellita, fuori dal fango e dalla terra solo una mano e un piede. Nove ottobre 1963, le 22 e 39, cinquanta milioni di metri cubi d’acqua s’impennano verso il cielo, scavalcano la diga, si spezzano in tre onde, la più grande punta a valle, schianta l’aria con la potenza di un’atomica e la pelle di chi è in strada, piomba a terra scavando un cratere profondo quaranta metri. Un inferno senza fuoco.

Il boato era stato improvviso, il mostro d’acqua l’avevano creato 270 milioni di metri cubi di terra franati dal monte Toc e piombati, in un minuto, nel bacino creato artificialmente della diga, un lago da quasi 170 milioni di metri cubi d’acqua. Tutti sapevano da un pezzo che sarebbe accaduto, che il Toc si muove e sbriciola, che quel prodigio avveniristico di tecnologia non doveva essere costruito qui. Lo sapeva anche la Sade, poi acquistata dall’Enel, che la diga l’aveva voluta, costruita ed era molto, molto potente: i collaudi prima li faceva, riempiendo e svuotando il bacino (scuotendo e stressando le pareti del Toc) e dopo chiedeva l’autorizzazione per farli. Del resto in ballo c’erano troppi soldi e prestigio internazionale, per lasciar perdere il megaprogetto del “Grande Vajont”. Meglio nascondere i dati e ipotizzare scenari approssimativi, però rassicuranti.

Eppure già dal 1960 il monte cedeva, frana più volte e il 4 novembre si alza un’onda anomala di dieci metri. Poca (si fa per dire) roba rispetto al fronte che rischia di crollare, scoperto l’anno prima da Edoardo Semenza, geologo (figlio del progettista della diga, Carlo Semenza). Però era davvero un prodigio, quasi 267 metri, lunga 190, inaugurata nel 1961: sessant’anni dopo, la diga è qui, appena scalfita dal tempo. Longarone, il paese a valle, venne invece spazzato via. Il più grande, non l’unico. Andiamo avanti, di nuovo in macchina, ma prima d’andare sulla diga, la superiamo su una piccola strada ai piedi del monte Toc, che lo costeggia e il “buco” lasciato dalla frana si vede bene ancora oggi, lungo un paio di chilometri. «Cosa provo quando lo vedo? A dir la verità, niente», spiega Micaela. I ricordi sono nitidi. «Mio papà lavorava in diga, sapeva bene cosa doveva succedere - racconta -. Qualche sera prima, avevo sentito mia madre e mio padre che discutevano e mia mamma diceva “è arrivato il momento di mandar via di casa i bambini”. Mi sono impietrita, ho sentito un gran dolore e pensato “ma cosa abbiamo combinato, che la mamma vuol mandarci via di casa?!”».

Micaela adesso va tutta d’un fiato: «Mio papà le risponde, “è inutile mandarli a Belluno, venisse giù la diga, morire a Longarone o a Belluno è lo stesso, meglio morire tutti insieme”». Per arrivare alla diga non serve il navigatore, cartelli che indicano come raggiungerla ce ne sono un bel po’. Maestosa e questo pomeriggio piena di visitatori, si fatica a trovare parcheggio. Micaela non ha voglia neppure di scendere dalla macchina: «Di tutto questo resta solo un dolore privato e non dovrebbe essere così o la storia non cambierà mai». E in sessant’anni non sembra essere troppo cambiata. Lo ripete: «Venire qui dopo essere stati al cimitero, fa vedere questa diga con un altro occhio e fa riuscire a capire i danni che ha portato...».

A proposito. La “Commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro del Vajont” consegnò la sua relazione finale il 15 luglio 1965: «L’esperienza del passato deve servire per il futuro» si legge all’ultima pagina.

Si comincia dal cimitero. Sì.

Ecco il documentario choc e due libri per non dimenticare. Storia di Lucia Bellaspiga su Avvenire sabato 7 ottobre 2023.

Vajont è la fine del mondo. Vajont è il misfatto compiuto da più complici in una micidiale catena di spregiudicatezze. Vajont è indimenticabile. Eppure i giovani non possono ricordare e spesso non sanno. Per ciò è un dovere civile, in questo anniversario a 60 anni dal più grave disastro della storia d'Europa, riguardare il crudo documentario Vajont '63 - Il coraggio di sopravvivere, prodotto da Venicefilm (www.venicefilm.it) raccogliendo uno straordinario materiale filmato di repertorio, in gran parte inedito: «Abbiamo ritrovato i video girati dai vigili del fuoco la notte stessa della strage alla luce livida delle torce e nella desolazione del giorno seguente, quando al sorgere del sole ci si rese conto davvero che sulla terra era precipitato l’inferno», spiega il produttore Alessandro Centenaro.

Per oltre due ore scorrono immagini rimaste sepolte per decenni nei sotterranei dei Palazzi romani: superstiti che si aggirano come fantasmi su un suolo identico a quello lunare nel punto in cui fino al 9 ottobre alle 22.39 c’erano la loro casa e la loro famiglia; cadaveri che galleggiano nel lago creato dalla frana, incagliati tra tronchi, macerie e oggetti di vita quotidiana; soccorritori che tirano in barca i corpi nudi con lacci passati attorno al collo e li allineano sulla riva; sopravvissuti che cercano i loro cari tra mucchi di salme, il riconoscimento reso difficile dallo stato dei corpi; ruspe che scavano fosse comuni in cui calare al più presto file innumerevoli di bare. Sui coperchi di ciascuna è inchiodata la foto della persona che vi è chiusa, così come è stata recuperata, l’espressione congelata nel terrore...

Il tutto inframmezzato dalle testimonianze, anche queste inedite, di chi allora era ragazzo e ancora oggi vive di incubi. La gente era in casa, molti già a letto, altri al bar a vedere alla tivù la finale di Coppa campioni. Di colpo un vento innaturale e sotto, crescente, un rombo mai sentito, non descrivibile. «La nonna ha urlato: è la fine del mondo, scappa, scappa», racconta Gervasia Mazzucco, allora bambina. L’impatto ebbe la potenza di due volte la atomica di Hiroshima, «il vento, prima ancora dell’acqua, aveva spogliato le persone», dice il vigile del fuoco Giulio Erinacea, «li trovavamo nudi. Ho visto una culla con un piccino nudo, sembrava Gesù Bambino, l’ho preso per un braccetto e una gambetta e l’ho passato fuori. Lì accanto c’era sua madre, sposetta giovane». Dosolina D’Incà girava «in tondo a imbuto, speravo solo che finisse in fretta». Renzo Bristot ansima mentre ricorda: «Finito tutto, nel buio assoluto qualcuno doveva andare a capire cosa fosse successo, andai io che avevo 18 anni. C’era una signora con il ventre sfondato da una trave, e fuori il feto. Io ho avuto una paura tremenda». Angelo Baraldo, ex capitano del 6° Reggimento Alpini: «Dopo i primi giorni i soldati non volevano più venire, vomitavano, non mangiavano». Qualcuno si tolse la vita, molti dovettero curarsi.

Tra i libri appena usciti, il volume Mai più Vajont 1963/2023 (ed. Fuori Scena)​ scritto da Paolo Di Stefano e Riccardo Iacona non solo ricostruisce ciò che avvenne dopo il 9 ottobre del 1963, ma per la prima volta riunisce i reportage di tutte le grandi firme del giornalismo che dal giorno dopo la tragedia raccontarono ciò che videro e provarono a ricostruire i fatti. Sono pezzi spesso memorabili e rimasti famosi, nel bene e nel male (quasi tutti gli inviati in un primo momento parlarono di fatalità anziché di colpevolezza). Ma il libro riporta anche la lunga battaglia giudiziaria, le strumentalizzazioni politiche, l’indifferenza fino al disprezzo per la gente comune, le connivenze tra funzionari pubblici e gruppi industriali. Impressiona leggere il destino (umano e giudiziario) che toccò infine ai protagonisti: solo Alberico Biadene della Sade sarà condannato al carcere, 5 anni, di cui 3 condonati. Mentre l'ingegner Mario Pancini, fuggito in Svizzera per non essere arrestato, sarà travolto dal rimorso e si toglierà la vita il giorno prima dell'inizio del processo: «Colpa o non colpa, ci sono duemila morti», non faceva che ripetere. Di grande impatto il confronto che il volume propone (non dichiaratamente) mettendo in fila i vari reportage: da quel "Nessuno ne ha colpa, nessuno poteva prevedere" di Giorgio Bocca su Il Giorno dell'11 ottobre 1963 o da quel "Noi non abbiamo competenza tecnica che ci consenta di giudicare, non possiamo escludere a priori che ci siano delle responsabilità" perseverato da Indro Montanelli sul Corriere della Sera ancora il 3 novembre del 1963, si va a sbattere contro l'arrabbiato incipit di Tina Merlin sull'Unità, "E' stato un genocidio. Un genocidio da gridare ad alta voce a tutti", scrive l'unica che aveva capito tutto da prima che accadesse. "Oggi tuttavia non si può soltanto piangere. E' tempo di imparare qualcosa", conclude la giornalista, ma anche in questo auspicio il suo nome è Cassandra.

Il volume Vajont senza fine, edito da Baldini-Castoldi con prefazione di Marco Paolini, ripropone invece gli articolo di Mario Passi, giornalista dell'Unità scomparso nel 2019. In una sorta di passaggio del testimone ricevuto dalla Merlin, Passi non fa sconti e ripercorre le mistificazioni e le coperture prima e dopo la tragedia, ma soprattutto le infinite tappe di un processo che è il monumento all'ingiustizia. "In prigione nel carcere della sua città, Venezia, ci finirà solo Biadene. Un detenuto modello... uscirà in anticipo per buona condotta". Intanto che l'iter giudiziario del Vajont consuma i decenni, in Val di Stava, Trentino, "crollano le colline della miniera di Prestavel, 180mila metri cubi di fango uccidono 268 fra valligiani e turisti. La lezione non è servita" (siamo nel 1985). Nel 1992 si chiude anche il processo per Stava: condanna per dieci imputati, "nessuno ha scontato un solo giorno di carcere".

"La diga del Vajont svettava intatta ma Longarone non esisteva più". L'allora comandante di una delle compagnie mandate in soccorso ci racconta gli effetti della frana avvenuta sessant'anni fa. Matteo Sacchi l'8 Ottobre 2023 su Il Giornale.

La diga del Vajont progettata dal 1926 al 1959 dall'ingegnere Carlo Semenza e costruita tra il 1957 e il 1960 è stata uno dei capolavori ingegneristici dell'Italia del boom. Molto presto, attorno all'invaso iniziarono a presentarsi gravi problemi di stabilità, localizzati sul versante del Monte Toc. A nulla servirono le ripetute denunce della situazione fatte da molti abitanti e le avvisaglie di frana (come quella del 4 novembre 1960). Si pensò di riuscire a tenere sotto controllo il fenomeno, ci si fidò degli studi fatti su modelli in scala. Fu così che nella notte del 9 ottobre 1963 una frana proiettò oltre la diga (che resistette) un'enorme onda che uccise 1910 persone. Nel 2008 l'Unesco lo ha incluso tra i cinque più gravi disastri di ambientali di natura antropica: «Un classico esempio di quello che succede quando gli ingegneri e i geologi si rivelano incapaci di cogliere la natura del problema che stanno cercando di affrontare». Subito dopo il disastro, in un panorama devastato, gli effetti dell'onda furono paragonabili allo spostamento d'aria di un ordigno atomico, si mossero verso le località colpite i primi soccorsi. Pompieri, alpini, artiglieri di montagna andarono verso il luogo del disastro, senza avere l'idea di cosa si sarebbero trovati davanti. Gian Paolo Agosto, classe 1932 e Generale della riserva, all'epoca della tragedia era comandante della 41esima batteria obici 105/14 del gruppo «Agordo» alle dipendenze del comando del 6° Reggimento di Artiglieria da Montagna - Brigata Alpina Cadore di Belluno. Nel mese di ottobre del 1963, la sua principale preoccupazione come giovane comandante era che era stata preannunciata una possibile esercitazione di allarme Nato. Quando alle due di notte, tra il 9 e il 10 ottobre, squillò il suo telefono di casa si immaginò che stesse per partire l'esercitazione. Invece stava per entrare in un incubo. Lo abbiamo raggiunto - con l'aiuto di Igor Piani, vicecaporedattore di Rivista Militare e del Generale Stefano Fregona - e ci siamo fatti raccontare da lui cosa successe. Di quegli eventi ha vergato anche una memoria per i suoi nipoti, in modo che non dimentichino.

Generale Agosto, quindi arrivò questa telefonata notturna..

«Raggiunsi subito dopo la telefonata la mia batteria, ero Capitano di ispezione e chiesi all'ufficiale di picchetto di mostrarmi il messaggio in codice Nato che ordinava l'esercitazione... Rispose che non era arrivato alcun messaggio in codice ma una telefonata del Comando brigata che ordinava di allarmare tutti i reparti. Ho telefonato subito al Comando brigata. L'ufficiale di servizio disse che era crollata la diga del Vajont con la distruzione di Longarone».

A quel punto?

«Ordino agli artiglieri di riportare nei magazzini gli obici, le armi individuali e tutto il superfluo. Ci dotiamo soltanto di zainetti di sanità, picconi, badili, corde, teli vari e partiamo in autocolonna e raggiungiamo il comando di Reggimento. Lì vengo informato che la mia batteria alle ore 12 deve dare il cambio agli alpini del battaglione Pieve di Cadore che operano nella zona dalle prime ore del mattino ed erano stati i primi ad arrivare. Impartisco le istruzioni che posso, l'ambiente in cui si andava ad operare era totalmente sconosciuto».

Cosa avete trovato?

«Siamo arrivati con gli automezzi alla frazione di Faè, poi abbiamo percorso a piedi la statale piena di fango e di macerie, poi abbiamo utilizzato la scarpata ferroviaria e il ponte ferroviario sul torrente Maè rimasto integro, a quel punto ricevo l'ordine di dare il cambio agli alpini che operano nell'area di Pirago, una frazione sopraelevata di Longarone... Arrivato sul colle, la scena che si presenta ai miei occhi è apocalittica e incomprensibile: il paese distrutto e la diga è intatta. È rimasto in piedi solo il campanile che svetta sulla distesa di sabbia e ghiaia. Iniziamo subito la ricerca dei feriti, improbabili, e dei corpi senza vita. Al ritrovamento delle prime salme gruppi di fotografi e giornalisti si accalcano attorno a noi. Col passare dei giorni poi questi ritrovamenti diventarono tristemente abituali... Quel primo giorno la notte ci sorprese in quell'immenso cimitero a cercare ancora quei poveri corpi. La valle era solcata dai fasci luminosi delle fotoelettriche...».

Un esperienza tremenda. C'è qualche episodio che le è rimasto particolarmente nella memoria?

«All'inizio delle ricerche un soldato vide sporgere dal fango la mano di una donna con la fede nuziale. Sconforto, impotenza e un nugolo di fotografi che si accalca su quella mano. Poi l'ansa del torrente Maé... Parte dell'onda aveva depositato il suo carico di morte e di macerie in un immenso groviglio di travature delle case distrutte. Ho mandato lì ad intervenire un ufficiale e trenta artiglieri... Quando sono risaliti ho visto le loro espressioni... Hanno dovuto ricomporre corpi, a volte trovavano solo arti. Ho istituito una turnazione per salvaguardarli, erano giovani di leva. La mia preoccupazione era farli dormire, mangiare, salvaguardare spazi minimi di normalità».

Vi muovevate in un contesto in cui ogni traccia di vita normale era stata annichilita o snaturata...

«Un giorno, mentre si scavava tra la sabbia e la ghiaia, gli artiglieri individuarono un baule chiuso a chiave. Dopo averlo liberato dai detriti viene aperto, conteneva il corredo nuziale di una giovane del paese, nel fare l'inventario degli oggetti viene trovato un rotolino di buoni postali fermati da un elastico: erano i risparmi per le nozze. Chiamo i carabinieri e consegniamo tutto».

Mi tremano un po' i polsi a chiederlo. Tra le vittime ci furono anche molti bambini.

«Mentre degli artiglieri stavano scavando fra la sabbia e la ghiaia videro affiorare dei capelli, abbandonarono il piccone per procedere, molto più delicatamente, con le mani. Affiorò il volto di una bambina. Liberata dai detriti, la troviamo ancora nel suo lettino. Era sotto le coperte, schiacciata dal peso dell'onda e delle macerie. Continuando a scavare si è capito che era un letto a castello. Sotto di lei c'era sua sorella».

Non deve essere stato facile nemmeno con i superstiti.

«Dopo tre o quattro giorni arrivano dall'estero i primi emigranti. In molti erano partiti da Longarone in cerca di lavoro. Vagavano esterrefatti in quella landa di ghiaia per cercare la loro casa natia. Nell'area di Pirago le case erano state falciate dall'onda e queste erano riconoscibili essenzialmente dalle piastrelle del piano terreno rimaste in parte integre e parzialmente visibili. Diversi parenti mi chiedevano l'aiuto di un soldato per staccare una piastrella del pavimento, a ricordo dei loro cari. Ottenuta la piastrella la ripongono nella borsa o sotto alla giacca e si allontanano piangendo».

Immagino che sia una cosa che non si possa dimenticare, nemmeno a distanza di tanti anni.

«Resta tutto. I dettagli sono indimenticabili. Io poi avevo una responsabilità come comandante anche rispetto all'incolumità dei giovani che comandavo. Tutelare quei ragazzi era una cosa che mi preoccupava sempre».

Immagino che niente del vostro addestramento vi avesse preparato ad una cosa del genere.

«Era tutto una improvvisazione, un rispondere alla necessità immediata. Eravamo in mezzo ad un disastro, abbiamo dovuto adottare sul momento una serie di accorgimenti. Dei ventenni buttati in mezzo ai cadaveri... ai corpi straziati. Una delle cose di cui sono veramente contento è che nessuno dei coraggiosi e bravi ragazzi che comandavo si sia fatto male. Ma cosa sia stato è riassunto bene in una poesia di Carla Sarto che ci ha visto operare all'epoca: Vi vedevo la sera/ Tornare/ sul camion di fango/ di fango voi stessi/ gli occhi fissi nel vuoto,/ nel nulla».

 Un viaggio all'interno della memoria collettiva e nelle viscere industriali del disastro annunciato. "Il saldatore del Vajont" di Antonio G. Bortoluzzi ci racconta le radici e le lunghissime conseguenze di una tragedia che interroga, tanti anni dopo, non solo i responsabili, ma tutti noi che viviamo di "tecnica". Matteo Sacchi il 7 Ottobre 2023 su Il Giornale. 

Alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963, sessant'anni fa, all'improvviso cede. Il lento movimento degli strati di roccia e fango del Monte Toc smette di essere centimetrico. Una massa enorme, 270 milioni di metri cubi di terra e roccia, una massa che per la mente umana - abituata a pensare in termini di chili e tonnellate - è incommensurabile, scivola dentro l'invaso della diga del Vajont.

La diga è un capolavoro di tecnologia, è l'orgoglio di chi l'ha progettata ma anche di tutti quelli che ci hanno lavorato. A doppio arco, alta 261 metri - è ancora oggi l'ottava diga più alta del mondo - è un capolavoro in calcestruzzo. Lo è talmente che reggerà all'urto quando, in circa 20 secondi, la frana arriva a valle, alla folle velocità di 110 km orari, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale. Si creano allora tre onde. Una si dirige verso l'alto, lambisce le abitazioni di Casso, ricade sulla frana e va a scavare il bacino del laghetto di Massalezza. Un'altra punta verso le sponde del lago e distrugge alcune località nel comune di Erto e Casso. La terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua) colpisce la diga, che rimase intatta ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont. La diga regge ad una forza venti volte più alta di quella per cui è stata progettata. Ma il risultato è che l'acqua si impenna verso l'alto e poi precipita nella stretta valle sottostante.

I 25 milioni di metri cubi d'acqua che riescono a scavalcare l'arco sradicano tutto quello che c'è nel greto sassoso della valle del Piave. Formano un muro solido in movimento che si riversa su Longarone, causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono solo il municipio e le case poste a nord di esso) e dei borghi limitrofi. È una strage: i dati ufficiali parlano di 1.910 vittime, ma non è mai stato possibile determinarne con certezza il numero. Perché? È stato stimato che l'onda d'urto dovuta all'inondazione - ma non esistono parole esatte per descrivere quel mostro liquido - fosse addirittura il doppio di quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Molte delle vittime che si trovavano all'aperto sono state polverizzate. Di loro non si è trovato nulla.

Una tragedia annunciata, lo avevano fatto gli articoli di Tina Merlin che erano rimasti inascoltati. La frana del Monte Toc fu sottovalutata, era meglio credere nella speranza, resistente come il cemento, del boom economico e dell'energia infinita.

Dopo non restava che affrontare l'inaffrontabile, che non si può raccontare meglio di come fece Giampaolo Pansa che raggiunse la zona come inviato de La Stampa: «Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d'acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza; sino a questa sera erano stati recuperati cinquecentotrenta cadaveri. I feriti ricoverati a Belluno, ad Auronzo ed a Pieve sono quasi duecento. Un tratto dell'alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani».

Una ferita che è incancellabile per gli abitanti della zona, impressa nella memoria collettiva. Per capire quanto, basta leggere Il saldatore del Vajont (pagg. 130, euro 15) di Antonio G. Bortoluzzi e pubblicato da Marsilio. Bortoluzzi non fa un racconto enfatico, anzi, narra quasi per sottrazione. Accompagna il lettore come nelle visite guidate, che si possono fare attraverso la centrale nella grotta di Soverzene, le gallerie, il corpo della diga, il coronamento, la frana del Monte Toc... Ma ogni luogo si collega ad un ricordo, ad una narrazione fattagli dagli abitanti della zona, dai parenti. E così la disgrazia gigantesca, così grande che si fa fatica a comprenderla, viene ricondotta ad i suoi frammenti più piccoli, e terribilmente umani. C'è il ricordo ad esempio dello zio dell'autore, al tempo giovane militare del gruppo Lanzo dell'artiglieria di montagna. Finisce a scavare cadaveri in un paesaggio irriconoscibile. Ma non è la cosa più terribile, un giorno deve accompagnare un'emigrante tornata in Paese. Sa tutto dei morti e dei feriti ma vuol vedere cosa resta di casa sua. Vaga accompagnata dal giovane soldato. Non riconosce niente. Cerca di orientarsi con le cime dei monti, quelle non le ha toccate nessuno. Poi si ferma, guarda una porzione di pavimento che emerge dal fango. Mormora: «La mé cusína». Poi si inginocchia esausta, svuotata.

È solo una delle tante storie che emerge dal libro, un libro che si muove sempre nell'ottica di chi conosce il cemento, la saldatura, il cantiere. Nell'ottica di chi guarda la grandiosità indistruttibile dell'opera umana ma contemporaneamente ne vede tutti i limiti e la fallibilità. Perché il Vajont dovrebbe essere un monito, ma poi basta leggere la cronaca, dai ponti alle strade alle zone sismiche e il monito non pare sia arrivato. Per usare le parole di Bortoluzzi: «Il Vajont è qualcosa che riguarda il mondo e noi che nel mondo agiamo... Nell'era della tecnica si è reso immaginabile, progettabile e realizzabile un lago artificiale grandissimo a monte di una piccola diga, in una stretta e sperduta forra... Ma se poi riesci a fare quella cosa, vuol dire che sai immaginare l'inimmaginabile, e allora devi figurarti anche il resto, quello che potrebbe accadere, per salvare le vite umane».

Il saldatore del Vajont racconta questa tremenda tensione, tra ciò che possiamo fare e ciò che terribilmente facciamo, anche solo guardando basso e limitandoci a lavorare. Ne esce una narrazione ben riassunta nella frase finale: «Non è sempre vero che tutto scorre: qui si respira una specie di eternità immobile che preme sulle spalle e si adagia sul cuore».

Ma mai dimenticare. Vajont, una ferita di cemento: 60 anni dopo la tragedia: “Come Pompei dopo l’eruzione”. Erasmo D'Angelis su Il Riformista il 7 Ottobre 2023

Un silenzio spettrale sovrasta l’insopportabile ferita di cemento che provocò la strage che sconvolse il mondo la notte del 9 ottobre del 1963. A vederla oggi, la diga a doppio arco, costruita nella fragile morfologia della valle del torrente Vajont ai confini tra Veneto e Friuli, è terribilmente imponente. È sempre lì, alta 261,60 metri, lunga 190 e larga 130, con lo spessore alla base di 22,11 metri e alla sommità di 3,40. Una sfida ingegneristica di altri tempi certo, ma una sfida arrogante, cieca e famelica contro la Natura che non perdona.

Non c’è più il lago artificiale, il bacino idrico da 168 milioni di m3 che era appena stato riempito dall’acqua del torrente ed era già pronto a ricevere anche quella dei bacini artificiali del Cadore, per convogliare i flussi verso la centrale idroelettrica di Soverzene e permettere alla società costruttrice Sade e poi a Enel e Montedison di gestire il rifornimento energetico al Nord e soprattutto per il nuovo petrolchimico di Marghera. Oggi, alla fine dei suoi 14 km di corso dalla vetta del Col Nudo, il Vajont va a sfociare nel Piave qualche chilometro più in là, davanti a Longarone e Castellavazzo. Ma la diga è sempre piena, colma di terra e rocce e materiali trascinati dalla frana-killer. E il possente manufatto da 360.000 metri cubi di calcestruzzo, sostiene la montagna che lo sovrasta che non a caso porta il nome beffardo e premonitore di Monte Toc. In zona la parola Toc vale “marcio”, “in bilico”, “pericolante”. Più giù, nella stretta valle di fronte a Longarone, a Fortogna, ti accoglie la tristezza infinita del Memorial dedicato alle 1.910 vittime, tra cui 487 bambini, ma con tanti corpi mai più ritrovati. È Monumento Nazionale dal 2003.

Lo sbarramento artificiale che doveva essere il più ardito e più grande del mondo, da sessant’anni è invece solo il simbolo internazionale delle catastrofi impossibili da spacciare come “incidenti”, è la medaglia del disonore con colpe e colpevoli accertati e che racconta la strage ampiamente annunciata e dovuta aalla tenace sottovalutazione dei rischi idrogeologici e alla totale incoscienza nel corso dei lavori e nella gestione. L’Onu l’ha inserita nella classifica mondiale dei disastri procurati dall’uomo che dovevano e potevano essere evitati, tra i peggiori esempi di malagestione del territorio e di una diga contronatura pianificata nel posto sbagliato per biechi interessi economici e tirata su con connivenze accertate nell’amministrazione dello Stato e nelle aziende di Statoz Una impressionante catena di omissioni, irresponsabilità, truffe ed errori fatali scatenarono la fine del mondo nella maledetta serata del 9 ottobre del 1963.

Erano le 22.39 di un mercoledì di coppa, le televisioni nelle case erano poche ma i circoli e i bar erano pieni per la sfida Real Madrid-Glasgow Rangers. La mostruosa frana di roccia si era però distaccata definitivamente e, in una ventina di secondi, mezzo Monte Toc piombò nel sottostante bacino idrico con un fronte di almeno 270 milioni di metri cubi ad una velocità da 70-90 km all’ora. All’impatto con l’acqua, l’enorme collasso di frana velocissimo e compatto sollevò un’onda terrificante da 50 milioni di metri cubi d’acqua alta 70 metri sopra l’arco della diga, proiettandola contro il cielo. Quell’onda scavalcò l’arco della diga e balzò nella gola e con un rombo mostruoso la massa d’acqua si abbatté sulle case come un colpo di maglio. Si divise in tre direzioni: una parte fu catapultata verso le abitazioni di Erto e Casso, un’altra a distruggere alcune frazioni e la più grande con un fronte di oltre un chilometro e 25 milioni di metri cubi di acqua e detriti  ad una pressione immensa rase al suolo la stretta valle sottostante con Longarone e Pirago, Maè, Villanova, Rivalta, Frasèin, Col delle Spesse, Il Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana, San Martino, Faè  e la parte bassa di Erto. Nessuno ebbe il tempo di reagire.

È stata la strage prevedibile, prevista, annunciata e denunciata dalla coraggiosa Tina Merlin, la giornalista de “l’Unità” che diede battaglia alla società di costruzioni Sade, definita “uno Stato nello Stato”. Nell’Italia geologicamente molto giovane, la più esposta a rischi idrogeologici, si scoprì che la commissione di collaudo della diga era a libro paga dei costruttori, che furono messi alla porta quei geologi che mostravano le rocce fessurate accertando il lento inarrestabile scivolamento della frana dal versante settentrionale del Monte Toc. Uno di loro, Leopold Müller, il geologo fondatore della scuola geologica di Salisburgo, fatti anche i carotaggi stratimetrici, espresse forti dubbi sulla tenuta della montagna e della diga, come i due geologi Edoardo Semenza, figlio del progettista della diga, e Franco Giudici. Eppure, nel settembre del 1959, iniziarono le prove di invaso. Ma nel novembre del 1960 una prima grande frana da 700 mila metri cubi precipitò dentro l’invaso generando un’onda di 10 metri che impattò contro il muro interno. Fecero finta di nulla e proseguirono le prove di invaso anche se la pressione di spinta riattivava i movimenti franosi.

La Sade aveva costruito la catastrofe perfetta ingaggiando consulenti ministeriali e professionisti compiacenti, che confutavano la verità incombente. Doveva correre chiudendo un occhio perché scadeva il termine per la conclusione dei lavori, pena la perdita dei contributi statali del 45% e la mancata vendita dell’impianto all’Enel appena nata. Invece di fermarsi, accelerarono. Nell’aprile del 1963 ci fu la terza e ultima prova d’invaso proprio mentre si intensificavano i fenomeni tellurico-tettonici che imposero ai comuni prospicienti la chiusura della strada che portava al bacino. Gli alberi li vedevano tutti, erano piegati in posizione quasi orizzontale. Ma niente. Solo il giorno prima della strage, l’8 ottobre, di fronte ai primi crolli provarono con lo svaso. Troppo tardi.

La scena davanti ai primi soccorritori, all’alba del 10 ottobre, fu quella di Pompei dopo l’eruzione. La coraggiosa Tina Merlin, era stata denunciata per “diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”, ma fu assolta dal Tribunale di Milano. Però, quando provò a pubblicare il suo libro sul Vajont “Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe”, non trovò un editore fino al 1983. Gli atti del lungo processo portarono alle condanne dei responsabili e un imputato al suicidio. E solo 37 anni dopo, il 27 luglio del 2000, i corresponsabili del disastro – Stato, Enel e Montedison – chiusero tutti i contenziosi accollandosi per un terzo ciascuno 900 miliardi di  vecchie lire di oneri e danni con risarcimenti riconosciuti ai comuni danneggiati.

La strage rallentò da allora anche la costruzione delle nostre dighe, cambiando la percezione della sicurezza degli sbarramenti anche se il manufatto non crollò. Sono oggi 531 le grandi dighe italiane. Nuove norme e obblighi di legge garantiscono la loro massima sicurezza, le tecniche costruttive sono dipendenti dalle analisi geologiche, dell’orografia e della morfologia dei luoghi vallivi, dell’idrologia, della tipologia dei terreni e delle rocce e delle caratteristiche dei corpi fluviali. L’attività di vigilanza dello Stato è attuata fin dalla loro localizzazione e progettazione.

Ma mai dimenticare. E saranno molte e molto affollate le iniziative per il sessantesimo della strage, a partire dal progetto teatrale di Marco Paolini e Gabriele Vacis “Vajonts23” che sarà messo in scena lunedì in contemporanea in cento luoghi d’Italia. Erasmo D'Angelis 

60 anni dalla tragedia. Disastro del Vajont, oltre 2mila vite spezzate via da 50mila metri cubi d’acqua. Alle 22 e 39 il Monte Toc franò nel bacino artificiale nuovo di zecca: su Longarone si abbatterono 50 milioni di metri cubi d’acqua. Una catastrofe figlia del connubio tra affari e politica. David Romoli su L'Unità il 7 Ottobre 2023

Il monte, quello che alle 22,39 del 9 ottobre 1963 franò nel bacino artificiale creato da una ciclopica diga sul torrente Vajont, si chiama Toc. In dialetto friulano vuol dire Marcio: gli abitanti della valle sapevano da sempre, senza aspettare accademici e scienziati, quanto infido fosse il sottosuolo di quel monte. La frana provocò tre ondate: due lambirono Etro, con Casso uno dei due paesi ai lati della diga, provocando danni limitati.

La terza fu un’onda apocalittica di circa 50 milioni di metri cubi d’acqua che superò la diga e si abbattè su Longarone, a valle. Le vittime stimate furono 1910, tra cui 487 bambini, più 1300 dispersi. Un conto preciso però non fu possibile. L’onda d’urto dovuta allo spostamento d’aria fu il doppio di quella provocata dall’atomica su Hiroshima. Parecchie vittime furono letteralmente polverizzate. La diga invece resse ed è ancora lì, gelido monumento a una tragedia provocata dalla rapacità di una grande azienda, dalla corruzione del potere politico, dall’asservimento degli scienziati, dalla complicità di un giornalismo che continuò a negare, per il tramite di penne d’oro come Indro Montanelli, Giorgio Bocca e Dino Buzzati, dalla vanità di ingegneri come il capo progettista Carlo Semenza, allora il più importante costruttore di dighe in Italia, e il geologo Giorgio Del Piaz, il luminare che aveva garantito la sicurezza della grandissima opera. Insistettero anche contro ogni evidenza.

Si erano affezionati al progetto: la diga a doppio arco più alta del mondo, il gioiello dell’Italia del boom. Ancora oggi è l’ottava diga più alta, la sesta nella classifica di quelle a doppio arco. Se l’era immaginata, già dal 1940, Giuseppe Volpe, conte di Misurata, proprietario e presidente della Sade, Società Adriatica di Elettricità. Oggi quel nome non dice niente, all’epoca era il potentissimo gigante nella produzione di energia elettrica, la definivano “uno Stato nello Stato”. Volpe sapeva bene come muoversi nei rapporti col potere politico. Era stato un pezzo grosso del regime, ministro delle Finanze, governatore della Tripolitania, per quasi un decennio presidente di Confindustria. All’indomani del 25 luglio si scoprì antifascista, tentò la fuga in Svizzera, fu arrestato e subito liberato per intercessione diretta del maresciallo Rodolfo Graziani.

La Sade aveva chiesto l’autorizzazione per l’immensa opera già il 22 giugno 1940 senza ricevere risposta. Nel caos seguito all’8 settembre riuscì a ottenere la sospirata autorizzazione dal Consiglio superiore dei lavori pubblici anche in assenza del numero legale. Cominciava male, proseguì peggio. I lavori iniziarono nel 1956. I terreni necessari furono acquistati dai valligiani per quattro soldi, molto al di sotto del valore di mercato. La Sade, spalleggiata dalla Dc al governo, aveva uno strumento di ricatto potentissimo: in caso di rifiuto di vendere poteva far espropriare i terreni in nome della “pubblica utilità”. Acquistò a 18 lire l’ettaro contro un prezzo medio che stava tra le 100 e le 150 lire. La giovane cronista da Belluno dell’Unità, Tina Merlin, ex partigiana, iniziò a seguire la vicenda proprio per raccontare, nel silenzio generale, la rapina della Sade. Presto si accorse che c’era di molto peggio.

Il Monte “Marcio” era marcio davvero: smottamenti, boati, scosse sismiche terrorizzavano la popolazione di Etro e denunciavano la minaccia in agguato. La Sade costruì una nuova strada verso Etro e la Valcellina, in sostituzione di quella precedente destinata a finire sommersa dal bacino artificiale. Fu necessario scavare molte gallerie, adoperare mine in quantità e la già precaria stabilità nel Toc ne risentì subito. Consultato dalla Sade il geologo austriaco Leopold Muller concluse che la situazione era molto più a rischio di quanto non ammettessero i pezzi grossi dell’accademia come Dal Piaz e il geofisico Pietro Caloi. I segnali di movimento tellurico si moltiplicarono: una frana provocò la prima vittima. Tina Merlin denunciò il rischio sull’Unità: la denunciarono per aver diffuso “notizie false e tendenziose”. Al momento del processo la Corte avrebbe impiegato solo pochi minuti per assolverla.

Il 4 novembre 1960 la “notizia falsa e tendenziosa” si materializzò in una nuova frana che stavolta piombò nel bacino. Precipitarono 700mila mq di terra. Provocarono un’onda altissima ma che non fece vittime. Due tecnici, tra cui Edoardo Semenza, il figlio del progettista della diga, furono incaricati di ulteriori accertamenti: scoprirono che la situazione era molto più grave di quanto non avesse stabilito lo stesso Muller. L’austriaco richiamato andò a quel punto oltre: avvertì che la frana in corso non poteva più essere frenata. Si poteva solo provare a gestirla. La Sade andò avanti lo stesso e anche di corsa. La spinta verso la nazionalizzazione dell’energia elettrica, che avrebbe portato all’assorbimento dell’azienda nell’Enel, era nell’aria. Bisognava concludere i lavori e arrivare al collaudo in tempo per strappare un risarcimento miliardario, in aggiunta ai cospicui sovvenzionamenti statali dei quali Sade già godeva.

I tecnici dell’azienda stabilirono che la costruzione di una galleria di sorpasso sarebbe probabilmente bastata a mettere in sicurezza la diga anche a fronte della frana che era a quel punto certa. Era solo questione del quando, non più del se. Sade incaricò anche il direttore dell’Istituto di Idraulica di Padova, Augusto Ghetti, di costruire un modello in scala della diga, realizzato a Nove, vicino Vittorio Veneto, per testare la minaccia. Poi però fornirono materiale ghiaioso molto diverso da quello del Monte Toc e furono quei test addomesticati a essere presentati ai rappresentanti del governo, peraltro più che compiacente.

I test di Nove dissero però chiaramente che l’invaso non avrebbe dovuto superare i 700 metri, altrimenti in caso di frana il rischio di “conseguenze dannose” sarebbe stato inevitabile. Fino a minacciare conseguenze “manifestamente impressionanti” con l’invaso a massima capienza, 722,5 metri. Sade, nel marzo 1963, decise comunque di portare l’invaso a 715 metri per poi svasare, molto lentamente, in modo da controllare l’accelerazione della frana. In realtà la diga era ormai dell’Enel, dopo la nazionalizzazione del dicembre 1962, ma i dirigenti di Sade erano passati tutti in forze all’ente nazionale, continuavano a gestire la situazione e in ballo c’era sempre il risarcimento, le cui dimensioni dipendevano dai tempi del collaudo.

Il 9 ottobre, quando la montagna cedette, lo svaso era ancora in corso, il bacino colmo d’acqua. La frana e l’ondata che ne conseguì spazzarono via Longarone e colpirono alcuni comuni adiacenti. Il giorno dopo Indro Montanelli scrisse parole di fuoco: non contro i dirigenti della Sade-Enel ma contro la giornalista dell’Unità che aveva tentato invano, con articoli su articoli, di evitare la tragedia: “Sciacalli che il Partito comunista ha sguinzagliato, mestatori, fomentatori d’odio”. Anche Giorgio Bocca, arrivato a Etro subito dopo la catastrofe, scrisse che “questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura”.

Bocca però, anni dopo, ebbe il buon gusto di scusarsi. Montanelli no. Si giustificò affermando che aveva ritenuto opportuno aspettare il processo prima di lanciare accuse. Il processo si concluse, due settimane prima che scattasse la prescrizione, con l’accertamento della responsabilità umana e due condanne, per un funzionario di Enel-Sade e per uno del ministero dei Lavori pubblici: 5 anni al primo, 3 anni e 8 mesi al secondo, entrambi con un condono di 3 anni.

Nei giorni seguenti la tragedia Tina Merlin fu intervistata da una tv francese, in Italia però fu però proibito trasmetterla. Raccontò la vicenda in un libro che nessuno volle pubblicare fino al 1983. Per l’occasione la giornalista scrisse una nuova Introduzione: “Resterà un monumento a vergogna perenne della scienza e della politica. Un connubio che legava strettissimamente quasi tutti gli accademici illustri al potere economico che a sua volta si serviva del potere politico”. David Romoli 7 Ottobre 2023

La tragedia del Vajont. La tragedia del Vajont denunciata anni prima da Tina Merlin su L’Unità. “Tutto è stato fatto dalla natura”, assicurava la firma del Giorno. “La diga è stata costruita a regola d’arte”, diceva la firma del Corriere. Ma solo Merlin, giornalista dell’Unità, aveva denunciato il pericolo: era tutta colpa dell’uomo. Redazione Web su L'Unità il 7 Ottobre 2023

Pubblichiamo qui di seguito uno stralcio de “Il racconto del Vajont”, l’orazione civile che l’attore e regista Marco Paolini ha dedicato al disastro nel 1993.

1. Longarone non c’è più

Io il 10 ottobre andavo in seconda elementare. Mi sveglio. Mattina sette e mezzo. Mia mamma piange. (…) Mi ricordo il giornale radio: «Longarone non c’è più». Longarone? Non avevamo mica dei parenti noi a Longar… Aspetta, no, a­spetta… Ma certo, ero un bambino ma io Longarone me la ri­cordavo… Eh sì che me la ricordavo: per me all’epoca Longarone era una stazione sulla ferrovia delle vacanze. Perché noi andavamo in vacanza sempre nello stesso posto e quindi io le stazioni le avevo imparate a memoria. Andare in su, venir in giù, sempre la stessa strada, le stazio­ni le sapevo tutte… Guarda, diobono, a scendere le stazioni si chiamavano:

Calalzo di Cadore…

Tutun-tutun-tutun… poi c’era Sottocastello, che c’è un’altra diga, ma il treno fermava nianca…

Tutun-tutun-tutun… poi c’era Perarolo…

Tutun-tutun… Ospitale…

Tutun-tutun… Termine…

Tutun-tutun…. Castellavazzo…

Tutun-tutun… Longaroneeeeeee

Ecco la valle della sciagura: fango, silenzio, solitudine e capire subito che tutto ciò è definitivo; più niente da fare o da dire. Cinque paesi, migliaia di persone, ieri c’erano, oggi sono terra e nessuno ha colpa, nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. E ci vogliono queste sciagure per capirlo!… Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura si decidesse a muoverci guerra…

Belle parole, potenti… Bellissime! Eh, non sono mica mie… Queste sono le parole di uno dei giornalisti più importanti della nostra Repubblica: Giorgio Bocca, su «Il Giorno», venerdì 11 ottobre 1963. Mica solo lui. Gli inviati speciali sul luogo della sciagura sono i giornalisti più importanti del paese. Arrivano la notte stessa, quasi mattina, spaventati come formiche sotto la diga, perché non è mica facile anche solo arrivarci, non è facile anche solo capir dove sei… È solo fango qua… Non sanno neanche più dove mettere i piedi, perché gli tiran sassi, anche, ai giornalisti...«Via de qua! State pestando la mia casa!»…«Via coi piedi che gh’èi morti a cavar su…» E in mezzo a questi si­gnori ce n’è uno di Belluno, e la diga è là, sul confine tra il Ve­neto e il Friuli, allora per questo signore è diverso… La storia, lui che è di Belluno, la sente più degli altri. E scrive, ispirato, sul suo giornale:

Un sasso è caduto in un bicchiere, l’acqua è uscita sulla tovaglia. Tutto qua. Solo che il sasso era grande come una montagna, il bic­chiere alto centinaia di metri, e giù, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature mane che non potevano difendersi. E non è che si sia rot­to il bicchiere; non si può dar della bestia a chi lo ha costruito perché il bicchiere era fatto bene, a regola d’arte, testimonianza della tenacia e del coraggio umani. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Anche dal punto di vista estetico.

Dino Buzzati, è lui lo scrittore, sul «Corriere della Sera», venerdì 11 ottobre 1963. La diga del Vajont era ed è un capolavoro. Era ed è Come sarebbe «era ed è»? Sì, per forza. Perché la diga del Vajont non era crollata co­me pareva al primo momento. No, figurati! Era là, ben salda. Come ha detto Buzzati.

2. Se vuoi diventar grande, leggi, libri

L’estate del 1964 il tratto di ferrovia che passava per Lon­garone era risistemato. E così noi abbiamo ricominciato ad andare in vacanza sem­pre nello stesso posto… Fino a diciassette anni, finché non mi sono divincolato dal giogo fatale delle vacanze di famiglia, io sono andato in vacanza sempre nello stesso posto. E allora vai, in treno, col naso incollato sul finestrino…

Tutun-tutun… Perché nel ‘64, noi, la macchina non ce l’a­vevamo…

Tutun-tutun… E poi vuoi mettere il treno? Il treno è tran­quillo, rilassante, lui va e tu ti abbandoni, chiacchieri, leggi, guardi… Il treno non ha pretese di visione totale, non ha certezze assolute…

Tutun-tutun… Il treno ha una visione laterale della vita: se sbagli lato, sei fregato…

Tutun-tutun… Con il naso incollato al finestrino…

«È questa la valle?»

«No, ‘spetta…»

Tutun-tutun…

«È questa la valle?»

«No, ‘spetta…»

Tutun-tutun…

«È questa la valle?»

«No, ‘spetta…»

«Ma quando arriva?»

«Longaroneeeee!»

Quando il treno arrivava in stazione, per un minuto la ve­devi: la diga bianca in mezzo alle montagne nere. E ti monta­ van dentro due sentimenti: il sentimento delle mamme e il sentimento dei papà. Il sentimento delle mamme si chiamava: «Povera Longa­ron, povera Longaron, povera Longarone». Era un sentimen­to per fondamenta: fondamenta senza muri che venivano su in mezzo alla ghiaia del Piave che aveva riempito tutta la valle, e a noi bambini avevano spiegato che sotto quei sassi c’;erano ancora i morti, perché non li avevano trovati tutti. E allora io avevo questo sentimento disciplinato a nome «Povera Longa­ron, povera Longaron, povera Longarone».

Però io, bambino, non potevo fare a meno di avere anche un altro sentimento: quello dei papà, per la diga. Perché era rimasta su. E io, bambino, pensavo: «Ma insomma… la monta­gna è cascata, ma la diga ha tenuto! Il suo dovere l’ha fatto. Se fosse cascata la diga, sarebbe andata peggio, no?». E allora un po’di consolazione ti resta dentro. Con questa consolazione qua si diventa grandi. Anche per­ché poi i maschi… Guardali, a una certa età dello sviluppo, noi maschi, tutti, davanti a una diga, tutti là: impiantati. Come davanti a una portaerei, là! Guardaci, noi maschi, a una certa età dello sviluppo, davanti a una portaerei… Sempre tutti là: impiantati! E non c’entra niente che poi da grande diventi an­che pacifista, e magari fai l’obiettore di coscienza. Non c’en­tra niente. E che a un certo stadio dello sviluppo, se vedi la portaerei, qualcosa dentro lo senti… E che si intuisce che là dentro c’è qualcosa, no? E cosa c’è? C’è il segreto del progresso. (…)

E come fai a crescere? Leggi libri! Questo mi dicevano sempre: «Vuoi venire grande presto? Leggi libri». Ogni viaggio in treno un libro: I ragazzi della via Pal, Bello! Letto. Altro viaggio: Ventimila leghe sotto i mari. Bello! Letto. Altro viaggio, altro libro. I pirati della Malesia, Le tigri di Mompracem, Sandokan. Bello! (…)

Un anno, alla stazione di Calalzo, suona la campanella, ar­riva il treno. (…) avevo letto tutti i libri che mi ero portato… «E adesso, per il viaggio di ritorno, come faccio?» Edicola della stazione. Giallo Mon­dadori: mai piaciuti. Urania: già letto. Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont. Vajont? Mi interessa? Non c’è altro… «E in partenza dal pri­mo binario…» Dai, dai, compra il libro, parte il treno… Tu­tuntutun… Leggi il libro… Sulla pelle viva…

Tutun-tutun… Come si costruisce una catastrofe… Tutun-tu­tun…

Tutun-tutun… Come si costruisce una catastrofe? Ma non han­no costruito una diga?

Tutun-tutun… E la diga non era costruita bene? A regola d’arte?

Tutun-tutun… La diga del Vajont era ed è un capolavoro…

Tutun-tutun… Nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura pulita, gli uo­mini non ci hanno messo le mani…

Tutun-tutun… Tutto fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente…

«Longaroneeee!».

3. Tina Merlin: a volo d’angelo

Ma la diga non era costruita bene, a regola d’arte? Come si costruisce a regola d’arte… che cosa? Una diga o una catastrofe? Ma chi è che ha scritto ‘sto libro? Tina Merlin. E chi è Tina Merlin? È Giorgio Bocca? È Dino Buzzati? Chi è Tina Merlin, eh? Leggi il risvolto di copertina, che te lo dice. Giusto. Allora, ‘spetta, fame veder… «Tina Merlin, nata a Trichiana (Belluno) nel 1926. Morta nel ‘91. Ha svolto attività giornalistica dal 1951 lavorando per trent’anni all’“Unità”». Ah! Eh, eh, eh!… Capìo tutto. Eh, dai… Per piacere!

«L’Unità» negli anni Sessanta non era un quotidiano, era un bollettino di partito! E in Val del Piave vendeva sette copie: sei copie per gli iscritti al Pci, una copia per l’osteria di Piero Corona, che aveva fatto la resistenza e quindi la comprava. Dopo la nascondeva sempre sotto il «Gazzettino», ma il suo dovere intanto lo faceva ogni giorno. «Corrispondente locale dell’“Unità”» Ma fammi un piacer… E non è finita. Senti cosa dice ancora il risvolto di coperti­na: «Ha partecipato alla resistenza come staffetta partigiana nel bel­lunese». Allora ho capito tutto sul serio! Perché io sapevo tutto dei partigiani, fin da piccolo… Per­ché mi hanno tirato su bene a me. Io lo sapevo che i partigia­ni durante la guerra stavano in montagna, sulle malghe, in gruppo. Eh, ciò, per forza… Perché in montagna da soli, di notte… Fa paura…

Però ci vuole qualcuno che faccia il collegamento tra una squadra e l’altra, tra una malga e l’altra… E chi ci mandi? Una donna, no? (…)

Eccolo là il libro della Merlin. Ecco che cos’è: non è un’altra storia, è la stessa storia ma da un altro punto di vista. Non il punto di vista degli specialisti, delle formiche… Niente a che vedere con quelli che arrivano dopo la tragedia, spaventati, e non sanno neanche dove mettere i piedi perché gli tirano i sassi. No, questo è il punto di vista del falco. Prospettiva a volo d’angelo. Sguardo di chi le cose invece le ha viste da prima. Dall’alto. Da sopra. E infatti la Tina non ti racconta la storia della «Povera Lon­garon, povera Longaron, povera Longarone» che è stata rasa al suolo, cancellata. Naturalmente, giustamente, è diventata protagonista della tragedia. La Tina Merlin non ti racconta tanto quella storia lì. No.

Lei non parla dei protagonisti: parla dei comprimari. Tina racconta la storia di altri due paesi. Due paesi che non sono stati distrutti, ma solo lesionati. Quindi ce li siamo dimenticati. Anche perché da sotto la diga, dalla stazione di Longarone, quei due paesi mica si vedevano.

ci stavano sopra, sulla sponda del lago dietro alla diga, dalla parte friulana del Vajont. E poi sono due paesi che non puoi neanche metterli sui libri di scuola, perché hanno un nome così sconveniente eh non si può nemmeno chiamarli in pubblico senza commettere turpiloquio: Erto e Casso. A scelta nell’ordine.

Redazione Web 7 Ottobre 2023

Vajont, la (vera) storia del disastro del 9 ottobre 1963. Pur ricorrendo ad artifici narrativi e a storie romanzate, Vajont è una pellicola che restituisce con fedeltà l'orrore della tragica notte dell'ottobre 1963. Erika Pomella il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale. 

Diretto da Renzo Martinelli e uscito nell'ottobre del 2001, Vajont è il lungometraggio che va in onda questa sera alle 21.30 su La7. Come si intuisce facilmente dal titolo, il film ripercorre la terribile tragedia che ha avuto luogo il 9 ottobre 1963, quando una frana del Monte Toc si riversò nel bacino artificiale dalla diga, creando tre onde anomale che si riversarono sui comuni e i paesi limitrofi, portando alla morte di circa duemila persone.

Vajont, la trama

Il film di Renzo Martinelli ha l'ambizione di portare su schermo tutti i passaggi e le scelte ambigue o apertamente errate che portarono a una delle più grandi tragedie della storia italiana. La pellicola si apre nel 1959, nella valle del Vajont, dove l'omonima diga è a un passo dal completamento. Carlo Semenza (Michel Serrault), Alberico Biadene (Daniel Auteuil) e Mario Mancini (Leo Gullotta) sono i responsabili del progetto, con l'ambizione a rendere il bacino del Vajont la punta di diamante della SADE, la Società Adriatica di Elettricità e fiore all'occhiello di tutto il paese. Tina Merlin (Laura Morante) è una giornalista dell'Unità che già da tempo denuncia il lavoro della SADE, che reputa un covo di corruzione ed egoismo. Ben presto i timori di coloro che si erano detti contrari alla costruzione della diga si materializzano: nella vicina diga di Pontesei crolla un pezzo di montagna, creando un'onda che miete una vittima. Mentre alla SADE affidano una nuova perizia a Edoardo Semenza (Jean-Christophe Brétigniere), erede di Carlo e allievo del massimo esperto delle Dolomiti Giorgio Dal Piaz (Philippe Leroy), sul monte Toc cominciano ad apparire i primi segnali di allarme: il monte su cui poggia la diga non sembra abbastanza robusto da sorreggere il peso e la forza dell'energia elettrica. Sarà proprio Giorgio Dal Piaz a minimizzare i problemi che Edoardo Semenza cerca di portare all'attenzione di tutti. Quei problemi che, sempre inascoltati, porteranno al disastro del 1963, quando quasi duemila persone persero la vita.

La vera, tragica storia dietro al film

Era il 1957 quando venne aperto ufficialmente il cantiere per quella che doveva essere la diga più grande d'Europa, capace di creare non solo energia elettrica per tutta l'Italia, ma anche di dare lavoro, futuro e sostentamento economico tanto a chi era interno al progetto, quanto alle persone che avrebbero vissuto lungo il perimetro del bacino artificiale che si sarebbe creato. La società che si occupa del progetto - che verrà poi inaugurato nel 1959 - è la SADE, un'azienda privata che sembra interessata solo al profitto e alla "popolarità" e che sembra prendere sottogamba le numerose problematiche legate alla natura del luogo. Il monte su cui viene costruito un versante della diga è il Monte Toc, un nome che non è dato a caso.

Nel dialetto friulano, infatti, "Toc" è un epiteto che serve a indicare qualcosa di marcio, di guasto. E sarà proprio dal Monte Toc, situato tra i comuni di Erto e Casso che, come scrive Rai Cultura, si stacca una frana di alcuni milioni di metri cubi che, precipitando nel bacino artificiale sottostante, portò alla formazione di tre onde anomale, dove acqua, sassi, fango e terra si mescolarono, diventando pressoché letali. Infatti, secondo i dati riportati dal Messaggero Veneto, quando la frana cadde nel bacino sollevò in ottanta secondi un'onda che si sollevò dall'invaso e si abbatté sui comuni limitrofi con una potenza che è stata equiparata a quella delle esplosioni atomiche avvenute su Hiroshima e Nagasaki. Questo fece sì che di alcune vittime non rimasero altro che abiti: chi si trovava all'esterno nel momento dell'impatto venne letteralmente polverizzato. Ed è anche per questo motivo che il numero ufficiale delle vittime, che conta 1910 morti, non è considerato del tutto affidabile. La tragedia del Vajont è una pagina nerissima della storia d'Italia, resa ancora più tragica dalla consapevolezza che si sarebbe potuta evitare. Lo ha sottolineato anche Guglielmo Cornaviera, presidente del comitato dei superstiti che disse: "Il Vajont non può essere definito uno scandalo perché tecnicamente si trattò di una serie di scandali, piccoli e grandi, protrattisi anche dopo il disastro."

La storia della diga del Vajont, infatti, è costellata da incidenti e allarmi che vennero sempre sottovalutati e spesso ignorati per paura di perdere credito e denaro. Sul sito di Erto e Casso, ad esempio, si legge che già nel 1960 ci fu una frana che portò settecentomila metri cubi di terra e detriti nel bacino sottostante che causarono un'onda molto alta che, per fortuna, non costò la vita a nessun abitante del luogo. Ma la frana e l'onda che ne seguì fu l'ennesima conferma al terrore dei cittadini, che ormai convivevano tra boati e sismi e sentivano che il luogo non era più sicuro. Sempre nel 1960 e, più in particolare, nel mese di novembre, sul Monte Toc si aprì una frattura, che sarebbe poi stata quella che avrebbe portato alla terribile frana di tre anni più tardi. I responsabili della SADE continuarono a sottostimare i pericoli derivanti da questi incidenti e cercarono di nascondere a chi di dovere la situazione davvero pericolosa in cui imperversava la valle del Vajont. Nonostante si fosse cercato di "gestire" l'instabilità del luogo, anche con l'ideazione di un tunnel by-pass che avrebbe dovuto frenare qualsiasi caduta, la situazione era così disperata che solo due giorni prima del disastro venne diramata un'ordinanza da parte di Enel, in cui si chiedeva alla popolazione di evacuare le zone e i centri abitati che sorgevano in prossimità della diga e, più nello specifico, di coloro che si trovavano ai piedi del Monte Toc. Alle 22.39 del 9 ottobre 1963, infine, una frana di circa due chilometri cadde nel lago, sollevando una massa di 48 milioni di metri cubi. Nel 2013, in occasione del cinquantesimo anniversario della tragedia, l'allora presidente del Senato, Pietro Grasso, offrì le scuse del governo e dello Stato per una strage di innocenti che si sarebbe potuta evitare. In un servizio riportato da Rai News, Grasso dice:"Sono venuto fin qui per inchinarmi davanti alle vittime, ai superstiti e chiedere scusa da parte dello Stato con umiltà e commozione. Ma anche per cercare, ove possibile, di riparare."

Vajont: troppi errori, uno spettacolo di Marco Paolini. Redazione su L'Identità l'1 Ottobre 2023 

Più del corpo, ci sarà la mente di un artista, l'”attore Marco Paolini” in Vajonts. La gestualità scarna delle azioni, che sembrano quasi scatti d’ira. I jeans e la maglietta, le polacchine ai piedi, la barba di due giorni di sempre. Un teatro di pancia, recitato con la logica dei fatti e la scenografia essenziale. Così Il racconto del Vajont è diventato uno dei monologhi più famosi e apprezzati del teatro di narrazione a vocazione civile. E lui, Marco Paolini, continua a dimenarsi in mezzo a quei numeri e a quelle testimonianze postume che avrebbero potuto salvare un piccolo paese di montagna. In piedi, davanti a migliaia di persone, centinaia di volte, dal 9 ottobre 1997, da quando ha portato in scena assieme a Gabriele Vacis per la prima volta il fantasmagorico racconto della tragedia in diretta nazionale sulla Rai. Tre ore filate, senza pubblicità, per ripercorrere una notte buia della storia d’Italia e dire a voce alta i nomi dei colpevoli.

Eppure non sono bastate tutte le repliche. Non sono bastati nemmeno i venticinque milioni di metri cubi di acqua che hanno scavalcato la diga. Ovvero la metà di quei cinquanta che alle 22.39 si sono sollevati dal lago artificiale dopo la frana del Monte Toc (“Non si poteva sapere a quale ora di quale giorno della settimana l’ultimo filo d’erba che la teneva su si sarebbe rotto, ma si capiva che era questione di poco”). Quattro minuti: il tempo di rimbalzare da una parte all’altra del bacino, scavalcare il muro di cemento più alto d’Europa e piombare su Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Spazzarli via, insieme a duemila vite. Non è bastata quell’enorme ecatombe annunciata a scongiurare successivi errori umani e responsabilità di calamità definite “naturali” per prassi linguistica, o per omertà. Ustica, il Petrolchimico, l’Aquila, Amatrice. Di Vajont ce ne sono stati, e ce ne saranno ancora. Per questo, a 60 anni dalla tragedia, l’opera teatrale acquisterà una “s”. Saranno i VajontS quelli che andranno in scena il prossimo 9 ottobre in contemporanea in tutta Italia. A dare il La sarà il Piccolo di Milano, dove Paolini reciterà in collegamento con altri 136 teatri. L’idea è quella di un canovaccio mobile, da piegare, annodare, stendere o riavvolgere a seconda dei vari allestimenti. Sarà una staffetta corale, con il testimone della storia da passarsi l’un l’altro, dal Trentino alla Sicilia. Per l’occasione, dietro a 20 narratori e 200 coristi, si staglierà un muro di cemento coperto di nomi e numeri.

“Serve riflettere sugli errori, più che sulle colpe” ragiona Paolini, che coordinerà tutti gli eventi. “C’è una complessità di storie da sondare. Le situazioni di fragilità idrogeologica dell’Italia, e le nuove problematiche legate alla siccità a cui la crisi climatica ci espone, richiedono anche al teatro e all’arte di occupare un ruolo civile. È questo il senso del coro che abbiamo messo in campo. Non vogliamo dare indicazioni politiche, o risposte tecniche, ma fare prevenzione civile, laddove la politica non ci riesce”.

E poi: difficile definirlo spettacolo. Quello di Paolini non è solo recitazione. E forse nemmeno una “orazione”, come dicono in molti. Il suo racconto del Vajont è un grido di rabbia, acceso dalla speranza e soffocato dal dolore. Una preghiera laica, per tutto quello che in passato è stato negato alla verità, e tutto ciò che in futuro verrà liquidato, ancora una volta, come errore.

Lo  spettacolo a Torino, al Teatro Gobetti, in prima nazionale dal 5 al 9 ottobre. Il 9 ottobre in contemporanea in 136 teatri in tutta Italia.

Estratto dell'articolo di Michela Nicolussi Moro per il “Corriere della Sera” il 18 Settembre 2023

Piero Ruzzante, lei è uno storico con una lunga carriera di politico, parlamentare e consigliere regionale alle spalle. Di libri, approfondimenti, trasmissioni e spettacoli teatrali sulla tragedia del Vajont, di cui il 9 ottobre 2023 si celebrerà il sessantesimo anniversario, ne sono stati prodotti tanti. 

Cos’ha di diverso «L’acqua non ha memoria» (Utet editore), che esce il 19 settembre e che lei ha scritto con Antonio Martini e presentato in anteprima a Pordenonelegge?

«Il libro rivela notizie finora rimaste segrete, perché costruito su 61 scatoloni di carte processuali, interrogatori dei carabinieri e della magistratura da me raccolti e studiati per quattro anni».

Dove ha trovato questi documenti inediti?

«Per caso, durante una visita all’Ateneo Veneto di Venezia, al quale li aveva regalati l’avvocato Alessandro Brass, padre del regista Tinto e all’epoca legale della Sade, l’ente gestore della diga poi crollata. Si tratta della documentazione esibita dalla difesa al processo che seguì il disastro (l’inchiesta fu aperta tre giorni dopo il crollo, ndr), responsabile di 1910 vittime. […]». 

E cosa è emerso?

«Sono venute fuori notizie clamorose sul prima e sul dopo disastro, che dimostrano come i rapporti di dipendenza tra gli scienziati e il potere siano rimasti inalterati, nonostante tutto. Tutti sapevano, gli operai del cantiere fecero perfino sciopero, ma vennero messi a tacere con un’indennità di 500 lire. 

La gente di Longarone, di Casso ed Erto continuavano a dire che sarebbe venuto giù tutto, i movimenti della roccia erano aumentati nell’ultima settimana. E il 4 settembre, quando il territorio fu scosso da un forte terremoto, un operaio smise di andare al lavoro, dicendo: la vita è più importante delle quattro lire che prendo».

Eppure Sade ha tirato dritto.

«Sì, al punto che il 9 ottobre 1963, giorno della tragedia, i tecnici di Sade furono convocati sulla diga, per gli ultimi controlli. E in nottata un carabiniere, Rinaldo Aste, venne buttato giù dal letto e costretto a organizzare un posto di blocco sulla strada verso Erto. Gli dissero: devi andare là perché la Sade teme che ci sia un’ondatina d’acqua. 

Sapevano che la frana del monte Toc stava per crollare. Aste obbedì, mentre scappava è rimasto colpito alla schiena da una cascata d’acqua e fango ma si è salvato aggrappandosi alla roccia. In quel momento, girandosi, vide la grande ondata travolgere tutto, anche Longarone, dove la moglie e i figli moriranno».

Uno degli episodi più clamorosi che lei racconta riguarda Lorenzo Rizzato, negli anni Sessanta tecnico di Ingegneria idraulica all’Università di Padova.

«Sì, lavorava con il professor Augusto Ghetti, che nel 1961 aveva condotto un esperimento a Nove, sopra il lago Morto, per valutare con un modellino gli effetti di un’eventuale frana sulla diga del Vajont. 

Si rende conto che l’invaso non avrebbe retto e che Longarone era in pericolo. Ma nessuno disse niente e allora Rizzato consegnò copia dei documenti relativi alla simulazione a Franco Busetto, deputato del Pci, che presentò un’interrogazione parlamentare, denunciando il grave pericolo.

Il giorno dopo, il 14 ottobre 1963, il tecnico allora 32enne venne arrestato e tenuto in carcere una settimana, prima di essere assolto per insussistenza di prove. Ma poiché la Sade finanziava Ingegneria Idraulica con 2,2 milioni di lire, Rizzato fu prima sospeso e trasferito dall’Ateneo, che per quattro anni gli ridusse lo stipendio di un terzo, e poi licenziato». […]

Alluvioni periodiche.

Estratto dell’articolo di Giulia Arnaldi e Alessandro Fulloni per il “Corriere della Sera” il 18 maggio 2023.

Erano 21 i corsi d’acqua esondati alla mezzanotte di ieri, devastando circa 35 Comuni. Le criticità di alcuni tra questi fiumiciattoli e torrentelli che stanno mettendo in ginocchio la Romagna erano state già elencate in un dossier del Wwf, presentato poco prima della pandemia. 

Ecco il Lamone, per esempio, il caso che forse meglio descrive il disastro in corso. In quindici giorni è esondato due volte, sommergendo mezza Faenza: la prima è stata nella notte tra il 2 e il 3 maggio. Per i tecnici era un problema di «sormonto»: vale a dire che con l’alveo troppo pieno, l’acqua, all’altezza della vicina Bagnacavallo poco più a monte, era andata sopra l’argine — innalzato un secolo fa tenendo conto delle piene di allora, mai più viste sino a questo maggio — sbriciolandolo progressivamente. 

[…]

Ora Andrea Agapito, biologo, responsabile del settore «Acque» del Wwf e curatore del dossier, dice che «la vicenda del Lamone spiega bene ciò che sta accadendo in Romagna: lungo il suo corso sono progressivamente spariti, e lo denunciammo già nel 2007, i “boschi ripariali”, quella vegetazione golenale che ha un decisivo “effetto spugna”: frena l’acqua straripata, l’assorbe e la restituisce in tempi di siccità». Se adesso queste difese naturali non ci sono più è perché «stiamo sempre più irreggimentando i fiumi, gli alvei sono stati canalizzati, le aree di esondazione naturale sono state occupate da abitati e coltivazioni».

Poi c’è un’altra questione: quelli esondati — tipo l’Idice, 78 chilometri di lunghezza, o il Sillaro, 66 — sono tutti fiumiciattoli piccoli e «la loro modesta portata, in un suolo già saturo per l’alluvione di inizio maggio — spiega Mauro Rossi, geologo dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr — si è di colpo ingrossata per via delle precipitazioni intense delle ultime 48 ore». 

[…] 

Tutto va inquadrato in uno scenario che vede «una frequenza sempre maggiore di eventi estremi — riassume il presidente del Consiglio nazionale dei geologi Francesco Violo — che impatta in un territorio urbanizzato negli ultimi anni in maniera molto intensiva, con alte percentuali di consumo di suolo». «Bombe d’acqua» e piogge prolungate «amplificano le difficoltà anche in questa parte dell’Italia dove la manutenzione si fa».

Semmai «i parametri dei calcoli idraulici svolti nel passato per le opere di difesa non sono più idonei». La soluzione? «Aggiornare il modo di progettare, adattarsi alle condizioni nuove, con piani per interventi strutturali e con presidi territoriali in grado di monitorare il territorio intervenendo con tempestività».

Maltempo in Toscana, 7 morti e due dispersi. Giani: «Stato di calamità. Non uscite di casa». Allerta rossa in Veneto. su Il Messaggero il 4 Novembre 2023

1 giorno fa

Saltano i collegamenti per Ischia e Procida

Mare agitato e vento forte di ponente stanno provocando la sospensione di molti collegamenti marittimi da e per le isole di Ischia e Procida. Le condizioni meteo marine avverse hanno causato sin da stanotte la cancellazione di corse per le due isole del golfo di Napoli sia dei traghetti che degli aliscafi; stop totale dunque ai collegamenti veloci dai porti di Forio, Casamicciola e Marina Grande di Procida e sospesi anche diversi collegamenti effettuati dalle navi dalle due isole per Porta di Massa e Pozzuoli. Probabile che la regolarità dei servizi marittimi resti incerta per il resto della giornata: considerate le previsioni meteorologiche, ai passeggeri viene consigliato dunque consultare siti e call center delle compagnie marittimi prima di mettersi in viaggio.

1 giorno fa

Trovata l'auto di due dispersi vicino Firenze

«A Vinci la situazione è drammatica, ci sono strade con tante frane e smottamenti. Risultano due persone disperse: abbiamo trovato la macchina, nei pressi di un torrente, ma non le persone». Lo ha dichiarato il sindaco di Vinci (Firenze) Giuseppe Torchia. «La protezione civile e i vigili del fuoco stanno lavorando per capire cosa è successo e cercare di rintracciare queste persone», ha aggiunto.

1 giorno fa

Tre persone risultano disperse in provincia di Firenze

Tre persone risultano disperse in provincia di Firenze a seguito dell'ondata di maltempo. Lo rende noto la Protezione civile della Città metropolitana. Due persone, si spiega, risultano disperse a Vinci, una a Campi Bisenzio.

1 giorno fa

Toscana: 1.000 interventi e 40.000 sono senza luce

Sono stati finora oltre mille gli interventi a causa del maltempo a Campi Bisenzio, Cerreto Guidi, Carmignano, Prato, Montemurlo, Quarrata, province di Pisa e Livorno. Lo rende noto il governatore toscano Eugenio Giani. Enel, spiega inotre, «sta intervenendo sulle circa 40.000 utenze ancora senza corrente anche con gruppi elettrogeni». Riguardo agli ospedali allagati «risolti i problemi di accesso all'ospedale di Pontedera, in via di risoluzione all'ospedale di Borgo San Lorenzo e al Pronto Soccorso di Prato».

1 giorno fa

Toscana: 3 morti e 3 dispersi

«Al momento la situazione è in via di miglioramento. Il bilancio tragico è di tre deceduti e abbiamo ancora tre dispersi: due coniugi a Lamporecchio (Pistoia), che percorrevano un ponte risultato poi crollato, e i sommozzatori dei vigili del fuoco stanno facendo le ricerche, e una persona a Campi Bisenzio (Firenze) che si è allontanata con la sua auto ed è data per dispersa». Lo ha riferito il direttore operativo per il coordinamento delle emergenze della Protezione civile Luigi D'Angelo a Sky Tg24 sulla situazione maltempo. «In tre ore sono caduti 200 millimetri di pioggia in una striscia dalla costa di Livorno verso il Mugello», ha continuato.

1 giorno fa

Il sindaco di Prato: siamo sotto choc

«Il sopralluogo in città è stato uno shock. Una botta nello stomaco, un dolore che ti fa venire da piangere. Ma dopo una serata e una notte di devastazione ci tireremo su le maniche per pulire, sistemare e riportare alla normalità la nostra città». Così il sindaco di Prato Matteo Biffoni sui social. 

«La Regione Toscana ha chiesto lo stato di calamità nazionale e il presidente Eugenio Giani ha già firmato lo stato di emergenza regionale - aggiunge Biffoni -. Per questo, raccomandiamo a tutti, prima di sistemare, pulire i danni alle proprie abitazioni o spostare le proprie auto, di fare fotografie per certificare i danni. Il sistema di protezione civile resta attivo e a disposizione della cittadinanza». 

1 giorno fa

La piena del fiume Arno è attesa a Firenze dopo le ore 12

La piena del fiume Arno è attesa a Firenze dopo le ore 12 «con un colmo di piena a cavallo del primo livello di guardia». Lo rende noto il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani.

1 giorno fa

Allagamenti ed esondazioni anche al Mugello

In Mugello, in località Sagginale, nel Comune di Borgo San Lorenzo (Firenze), la Sieve, che defluisce a sfioro dell'argine, non riesce più a ricevere le acque provenienti dalle fognature, il fiume sta uscendo dai tombini invadendo una piazzetta vicino all'argine e il livello sta salendo avvicinandosi alla strada provinciale. A Barberino di Mugello criticità diffuse sul reticolo idrogeologico secondario. Problemi con la situazione del torrente Stura, ed è in corso un'evacuazione preventiva nelle aree centrali del paese limitrofe al corso d'acqua. «Tutto il sistema regionale sta dando il massimo in queste ore difficili - sottolinea il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani sui social -. In corso centinaia di interventi di soccorso con squadre da tutta la Toscana».

1 giorno fa

Maltempo, allarme anche in Romagna

Allarme per il maltempo anche sul versante romagno dell'appennino già devastato da alluvioni e frane nello scorso maggio: attenzione alle vallate di Lamone, Senio e Santerno.

A Firenzuola (FI), alle 21.30 di ieri sera il livello idrometrico del Santerno ha superato la soglia rossa raggiungendo un picco massimo di 6 metri e 19 centimetri. Il sindaco di Borgo Tossignano, Mauro Ghini, ha lanciato un appello su Facebook: "State lontani dai corsi d'acqua"

1 giorno fa

Il governatore Giani: "Dichiarato lo stato di emergenza,situazione molto grave"

Facendo il punto della situazione sull'ondata di maltempo il presidente Regione Toscana Eugenio Giani spiega sui social che «tra Vernio e Vaiano», nel Pratese, «il convoglio bloccato con 150 passeggeri a bordo sono stati evacuati e hanno trovato supporto presso il palazzo comunale di Vaiano». Sempre nel Pratese, «a Carmignano l'esondazione del torrente Furba ha comportato a Seano un importante allagamento.

Ad ora la situazione è leggermente migliorata. A Montemurlo esondato torrente Bagnolo numerosi allagamenti anche nella zona sud di Montemurlo. Frane importanti tra San Quirico, Sassetta e sul Montalbano. A Prato sono chiusi tutti i ponti a causa esondazione Bisenzio in zona Santa Lucia. Aperta la cassa d'espansione dell'Ombrone e frane varie. Allagamento in vari reparti dell'ospedale Santo Stefano di Prato in via di risoluzione». «Chiusa ancora l'Autostrada tra e Prato ovest e Pistoia per allagamento della carreggiata - aggiunge -. A Campi Bisenzio (Firenze) vi è stata una rottura arginale della marina in zona villa Montalvo con tracimazione del Bisenzio al ponte della Rocca da entrambi i lati. In questo momento il livello del Bisenzio sta calando».

Nel Fiorentino, «a Stabbia, nel Comune di Cerreto Guidi, e a Campi Bisenzio ci sono zone difficilmente raggiungibili con zone ancora senza elettricità e connessione e ci sono squadre sul posto che stanno intervenendo». E ancora, «a Pistoia vari allagamenti nei comuni della provincia a causa di esondazioni di torrenti: Pistoia, Agliana, Quarrata e Serravalle Pistoiese colpiti da allagamenti a causa degli affluenti dell'Ombrone. A Lamporecchio, Larciano e Monsummano Terme situazione di vari allagamenti. Frane sul San Baronto.A Quarrata la situazione particolarmente più complessa dove parte del centro abitato è allagato, c'è una squadra che sta intervenendo. Evacuazioni sono in corso», «l'acqua si sta ritirando ma stiano portando in salvo tutte le persone.». Nel Pisano, «a Calcinaia 30 famiglie evacuate, 6 famiglie a San Miniato. A Pontedera l'allagamento più importante che ha colpito anche l'accesso dell'ospedale di Pontedera. La situazione è in via di risoluzione. Situazione di smottamento diffusi in tutta la provincia di Pisa con chiusura di strade provinciali e comunali. Aperto l'ingresso allo svincolo tra Pontedera e Ponsacco». Giani rileva «allagamenti diffusi e frane anche nelle altre province, migliaia ancora le utenze senza corrente elettrica. Tantissime squadre sul posto di operatori che stanno cercando di seguire ogni criticità con la massima attenzione».

1 giorno fa

Un'altra persona annegata a Montemurlo: il bilancio sale a tre vittime

«Purtroppo è stata trovata morta un'altra persona a Montemurlo. Le vittime salgono a 3». Così il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani sui social. Secondo quanto si apprende è una donna di 84 anni, morta a seguito di un malore, la terza vittima del maltempo che ha colpito la Toscana ieri sera. L'anziana si sarebbe sentita male mentre stava spalando acqua dalla sua abitazione a Montemurlo, tra i comuni del Pratese più colpiti. Sempre a Montemurlo, nella frazione di Bagnolo, è morto un uomo di 85 anni, trovato riverso in acqua, in una stanza completamente allagata della sua abitazione.

1 giorno fa

A Vaiano treno bloccato con 200 persone

Un treno regionale è rimasto bloccato per il maltempo alla stazione di Vaiano (Prato) in Alta Valle del Bisenzio. Il convoglio arriva da Bologna. A bordo ci sono circa 200 persone che il sindaco con la protezione civile stanno portando in Comune dove ricoverarli per la notte.

1 giorno fa

Giani: "I morti causati dal maltempo sono due"

«Abbiamo appena mandato dei gommoni a Seano, Quarrata e Campi Bisenzio, zone in questo momento difficilmente raggiungibili in altro modo per provvedere al sopralluogo di prima urgenza, inoltre abbiamo chiesto alla Protezione Civile Nazionale elicotteri per il trasporto urgente di persone in codice rosso. Purtroppo ci sono due morti, uno nel comune di Montemurlo (Prato) e uno nel comune di Rosignano (Livorno)». Lo scrive sui social il governatore della Toscana Eugenio Giani.

1 giorno fa

Attesa piena dell'Arno, il picco domani

Gli esperti della Regione Toscana si attendono nelle prossime ore una forte piena del fiume Arno, con transito del picco a Pisa domani, venerdì, a mezzanotte. È quanto si apprende riguardo alle previsioni disponibili mentre il maltempo, con temporali continui, si è attestato sull'asse Livorno-Mugello. Nel bacino del fiume Sieve, massimo affluente dell'Arno, i livelli sono in crescita con superamento delle soglie di riferimento in Mugello e raggiungimento del massimo degli ultimi decenni sulle soglie a valle. Situazione da attenzionare per il rischio idrogeologico che può produrre dissesti repentini.

1 giorno fa

Giani: «Ho dichiarato lo stato di emergenza regionale»

«Ho dichiarato lo stato di emergenza regionale e sono già in contatto con il governo per quello nazionale. La situazione è davvero molto grave». Così il presidente della Regione Toscana Eugenio Giani sui social.

1 giorno fa

Bisenzio esonda anche a Prato e allaga ospedale

È esondato anche a Prato questi minuti il fiume Bisenzio a Santa Lucia , quartiere di Prato. Il fiume ha portato via le auto parcheggiate. Forti criticità anche nella città. Oltre alla chiusura di tutti i sottopassi, l'acqua è entrata all'interno dell'ospedale Santo Stefano, allagando i sotterranei e una parte del piano terra. Inoltre risulta chiuso il piazzale della stazione centrale, anch'esso allagato. La situazione è di emergenza.

1 giorno fa

Montemurlo, uomo di 85 anni trovato morto nella casa allagata

Un uomo di 85 anni è stato trovato morto questa sera nella sua abitazione al piano terra di una casa a Montemurlo, nella frazione di Bagnolo, in via Riva. L'uomo era riverso in acqua, nella stanza completamente allagata. Sul posto sono intervenuti anche i carabinieri. I soccorritori ipotizzano che l'anziano non sia riuscito a raggiungere i piani alti e sia annegato ma solo un esame più approfondito chiarirà le cause del decesso, che potrebbero anche essere legate ad un malore sovvenuto nell'emergenza.

1 giorno fa

Livorno: evacuate famiglie nei pressi del Rio Ardenza e Rio Maggiore

A Livorno i livelli del Rio Ardenza e del Rio Maggiore sono in calo, con le piogge attualmente in diminuzione. Sono state evacuate famiglie nella zona Stillo, via sant'Alò (sul rio Ardenza) e a Quercianella, con il supporto del volontariato, e a Quercianella in zona via Pascoli. Permangono alcune chiusure dei ponti su ardenza e maggiore ad opera della polizia municipale. Lo fa sapere il Comune di Livorno.

1 giorno fa

A Vinci allagamenti, smottamenti e alberi caduti

Per il maltempo la situazione è «molto critica» sul territorio di Vinci (Firenze) con allagamenti, smottamenti e alberi caduti. Al momento si segnalano chiuse la strada di mercatale, la strada di via di San Pantaleo. Le squadre della protezione civile stanno operando insieme agli operai del Comune, polizia municipale e carabinieri.

1 giorno fa

Un disperso per il maltempo in Veneto. Frane nel Bellunese

C'è un uomo disperso in Veneto a causa dell'ondata di maltempo che si sta abbattendo nella regione. Lo cofermano fonti della Regione. Si tratta di un vigile del fuoco che, fuori servizio, stava aiutando il padre a sistemare dei sacchi di sabbia lunga la sponda di un torrente, nel bellunese. L'uomo sarebbe scivolato, finendo nel corso d'acqua ingrossato dalle piogge, nella zona tra Puos d'Alpago e Bastia (Belluno). Sono in corso le sue ricerche da parte dei pompieri, ma le precipitazioni stanno ostacolando le operazioni.

Sempre nell'area bellunese sono segnalate alcune frane di fango e altro materiale a Cima Gogna, nei pressi di Auronzo, mentre gli effetti del vento, cresciuto di intensità in serata, si stanno facendo nel trevigiano, in particolare a Gaiarine, dove sono stati scoperchati i tetti dia di alcune case.

1 giorno fa

Treni, sospesa la circolazione fra Bologna e Firenza sulla linea convenzionale: Intercity e Regionali in ritardo. Voli cancellati a Firenze Peretola e Pisa

Difficoltà nella zona di Firenze anche per il traffico ferroviario: Trenitalia rende noto che nella linea convenzionale Bologna - Firenze è sospesa la circolazione tra Vaiano e Prato dalle 20.05 per avverse condizioni meteo. I treni Intercity e Regionali possono subire ritardi. Problemi anche negli aeroporti di Firenze Peretola e Pisa dove è stata cancellata una quindicina di voli. 

1 giorno fa

Giani: non andate in strada, state ai piani alti

«Le immagini sono chiare, non scendete in strada. Non circolate con l'auto, chi può raggiunga i piani alti delle case». Lo scrive il presidente della Toscana Eugenio Giani sui social illustrando l'alluvione in corso a Campi Bisenzio (Firenze) dove il fiume è uscito dagli argini col maltempo. Giani ha postato dei video girati dai balconi. In uno si vede una strada, anche ampia, in cui l'acqua solleva le auto in sosta e le porta via. 

1 giorno fa

Il fiume Bisenzio esonda a Campi (Firenze). Auto trascinate via dalla corrente

Il fiume Bisenzio ha esondato stasera in due punti nell'abitato di Campi Bisenzio (Firenze), a Ponte alla Rocca, nel centro storico, e a Ponte a Capalle. Lo si apprende dallo staff del sindaco Andrea Tagliaferri che ha firmato ordinanza di chiusura delle scuole e di interruzione delle attività e, secondo quanto riferito, ha invitato i cittadini a recarsi ai piani alti degli edifici. Il fiume ha superato i livelli di guardia nei due punti ed esce lentamente all'esterno.

1 giorno fa

Il fiume Enza a rischio esondazione nel Reggiano

Allerta meteo col fiato sospeso nel Reggiano, tra val d'Enza e Appennino. Poco fa è stato riaperto d'urgenza il Coc a Canossa per monitorare il torrente Enza che alle 18.45 ha superato il livello di guardia a Cedogno (così come a Selvanizza ha oltrepassato la soglia 3), al confine fra reggiano e parmense. Carabinieri e polizia locale dalle 21 sono in presidio alla traversa di Cerezzola di Canossa, sulla Sp513R - importante arteria di collegamento tra Appennino Reggiano, val d'Enza e provincia di Parma - che potrebbe essere chiusa da un momento all'altro per il rischio esondazione dell'Enza. A mezzanotte è prevista una riunione sul posto tra il coordinamento prefettizio e il sindaco Luca Bolondi. Niente tregua neppure in Appennino dove il fiume Secchia ha gonfiato la propria portata d'acqua, oscillando per tutta la giornata sopra e sotto la soglia di rischio. Preallarme a Lugo di Baiso, già mesi fa interessato da un'alluvione che ha causato frane e smottamenti danneggiando attività commerciali e abitazioni. Alle 19 sono dovuti intervenire carabinieri e tecnici di Anas sulla ex Ss63 a Collagna di Ventasso dove un corso d'acqua nei pressi dell'acquedotto della Gabellina, si è riversato in strada come una cascata, allagando tutta la carreggiata dove sono finiti anche diversi detriti. Piccoli smottamenti anche a Villa Minozzo, Busana e Valico del Cerreto. Chiusa la Gatta-Pianello lungo il Secchia e sbarrati i collegamenti che da Civago portano ai rifugi San Leonardo e dell'Abetina Reale raggiungibili solo con mezzi fuoristrada; qui il Dolo ha inondato due ponti sulle forestali. Allagate anche le strade per Monteorsaro, Morsiano e Pianvallese. Blackout in diverse zone e abitazioni della montagna; saltata la cabina elettrica della seggiovia di Febbio e nel comune di Toano dove un albero è caduto su alcuni tralicci. Disagi anche per le telecomunicazioni a causa del forte vento che ha raggiunto raffiche fino a 119 km/h a Ramiseto

1 giorno fa

Interventi dei vigili del fuoco su litorale a nord di Roma

I vigili del fuoco di Civitavecchia sono intervenuti nel tardo pomeriggio a Santa Marinella, litorale nord di Roma, per mettere in sicurezza un albero di alto fusto, pericolante, causa le avverse condizioni meteo. L'albero minacciava di cadere sulla sede stradale di via Santa Maria della visitazione. I vigili del fuoco lo hanno abbattuto e potato. Ci sono volute oltre due ore per la completa rimozione dei rami e del fusto. In più sono stati molti gli interventi, a causa del forte vento, per la messa in sicurezza di cartelloni pubblicitari, insegne e cornicioni pericolanti. Intanto, sul litorale romano, comincia a prendere forza l'attesa forte mareggiata che, tra la notte e domani, vedrà toccare punte di onda fino ad oltre tre metri. Sotto osservazione in particolare i tratti di costa di Ostia, Focene e Fregene, da tempo alle prese con il fenomeno dell'erosione. 

1 giorno fa

Friuli-Venezia Giulia, raffiche di vento a 130 km/h

Alberi caduti, allagamenti e disagi alla viabilità: sono alcuni effetti dell'ondata di maltempo che si sta abbattendo in queste ore sul Friuli Venezia Giulia, dove è in vigore un'allerta meteo rossa. Le raffiche massime registrate di vento da sud-est - spiega la Protezione civile - sono state di 130 km orari sul monte Matajur, di 97 sul monte Rest, 93 a Lignano Sabbiadoro, 85 sul monte Lussari. I cumulati massimi di pioggia nelle ultime 12 ore sono stati raggiunti sulle Prealpi Giulie (con picchi fino a 96 millimetri ad Uccea) e sulle Prealpi Carniche (con fino a 88 millimetri sul Piancavallo). Nel pomeriggio, quando si sono intensificate le piogge, si sono verificate cadute d'alberi a Monteprato, dove è stata coinvolta la linea elettrica, a Cergneu e a San Vito al Tagliamento. Allagamenti sono stati invece segnalati a Lignano e Vivaro. A Valvasone Arzene si è verificata l'erosione dell'argine destro del Tagliamento in prossimità del ponte della Delizia. È poi stata emessa un'ordinanza comunale di chiusura del tratto di strada tra Fusea e Cazzaso Nuovo per movimento franoso. Alle 18 non è ancora stato aperto il servizio di piena del Tagliamento e a Venzone il livello rimane al di sotto del livello di guardia. Alle 16.45 è stato invece aperto il servizio di piena del Livenza. I corsi d'acqua del bacino dell'Isonzo alle 18 risultano tutti inferiori alla soglia di attenzione. A causa del maltempo, il Nue112 ha ricevuto dall'inizio dell'allerta 73 chiamate relative a guasti elettrici e caduta di alberi. La sala operativa regionale oggi ha ricevuto oltre 800 chiamate: dall'inizio dell'allerta sono stati impegnati più di 900 volontari con 250 automezzi.

1 giorno fa

Tre famiglie evacuate a Montignoso (Massa Carrara). Scuole chiuse a Pistoia

Tre famiglie sono state evacuate dalle loro case a Montignoso (Massa Carrara) per il maltempo. Il sindaco Gianni Lorenzetti spiega che si tratta di otto persone, fra cui anziani e minori. Sempre a Montignoso, una frana ha interrtotto la strada SP1 a Corsanico. Domani mattina i tecnici della Provincia effettueranno un sopralluogo per valutare la situazione e pianificare le operazioni di ripristino. Disagi alla viabilità per il maltempo nel pomeriggio anche tra Pontremoli e Aulla. La viabilità della SS62 della Cisa nel tratto di competenza del Comune di Aulla è stata ripristinata dopo l'intervento di Anas. Sempre ad Aulla, ufficio tecnico e protezione civile stanno verificando diverse piante che si sono pericolosamente inclinate a causa del forte vento delle ultime ore. Sotto osservazione i livelli del fiume Magra, con attualmente le idrovore di Aulla in funzione sul fiume. Domani scuole chiuse a Pistoia. Il sindaco di Pistoia Alessandro Tomasi ha firmato l'ordinanza. Chiuse anche le scuole di Quarrata, Agliana, Montale, Serravalle Pistoiese.

1 giorno fa

Allerta per il lago di Como

Stato d'allerta in provincia di Lecco per il livello del Lago del Como, versante lecchese, dovuto all'ondata di maltempo che imperversa ormai da giorni su tutto il territorio. I livelli di tutto il lago sono regolati dalla diga di Olginate (Lecco) e nelle prossime ore potrebbero registrarsi esondazioni nel settore nord della provincia, nella zona di Colico (Lecco) dove il fiume Adda e altri torrenti si gettano nel lago, e a valle di Olginate dove, dopo l'omonimo bacino, ricomincia il corso del fiume Adda. A nord la zona è quella a confine con le province di Como e Sondrio, a sud le acque scorrono verso i confini con le province di Bergamo e Monza e Brianza. I sindaci dei comuni di queste zone hanno chiuso per precauzione la strada alzaia, che costeggia il fiume e viene percorsa da molti escursionisti a piedi, di corsa o in bicicletta. In ogni caso, per il momento non si registrano situazioni critiche.

1 giorno fa

Temporale a Livorno, 100 mm di pioggia in'ora

Un forte temporale staziona nella zona di valle Benedetta e Castellaccio nel comune di Livorno. «Il livello dei rii dopo la pioggia si è subito alzato tantissimo. Ci sono alcuni rii che sono al limite, perché ha fatto in un'ora e mezzo oltre 100 mm», scrive su Facebook il sindaco di Livorno, Luca Salvetti. «Partono i banditori e avvertono le persone di stare lontano dai corsi d'acqua e di spostarsi a piani alti delle case», aggiunge Salvetti.

1 giorno fa

Esonda torrente nel Pratese, fiumi superano i livelli

In provincia di Prato è esondato il torrente Furba, nel paese di Seano, ed è in corso assistenza alla popolazione da parte dei vigili del fuoco. Tra i fiumi, il Bisenzio dentro Prato ha superato il primo livello, lo Stella a Quarrata ha superato il primo livello, il Marina a Calenzano ha quasi raggiunto il secondo. Disagi sul Tora ad Acciaiolo oltre il livello. Il sindaco di Vernio Giovanni Morganti ha firmato un'ordinanza per la chiusura domani di tutte le scuole e informa che «si sono verificati alcuni allagamenti e il protrarsi dell'allerta arancione non garantisce una situazione di normalità per domattina».

1 giorno fa

Chiusa per una frana la statale 45 nel Piacentino

La statale 45 della Val Trebbia è chiusa, tra Corte Brugnatella e Bobbio, in provincia di Piacenza, per la caduta di massi sulla carreggiata. Le squadre dell'Anas sono a lavoro per cercare di renderla praticabile. Situazioni di difficoltà sono segnalate in molte zone dell'Appennino emiliano. A Collagna, nel Reggiano, i carabinieri sono intervenuti sulla statale 63 perché, a causa delle piogge, si è riversato sulla strada una specie di torrente. Al momento la strada rimane percorribile, seppur invasa da acqua e detriti.

Maltempo in Italia, devastanti gli effetti della tempesta Ciaran. Le prime regioni italiane a essere colpite sono quelle del Nord, seguite dalle zone del centro tirrenico. In Veneto e Friuli-Venezia Giulia l'allerta è rossa, arancione in altre nove regioni. Il governatore Luca Zaia ha riunito l'unità di crisi. Venti fino a 130 km all'ora e temporali intensi: per questo sono state chiuse le scuole nella regione partendo dalle province più esposte. A Belluno e Verona stop alle lezioni, alunni a casa anche in 42 Comuni del Trevigiano su 95. A Verona inoltre si tiene d'occhio il livello dell'Adige: potrebbe essere riaperta la galleria che fa defluire parte della massa d'acqua nel Lago di Garda. Anche il Friuli-Venezia Giulia corre ai ripari contro Ciaran: Da oggi a mezzogiorno alla mezzanotte di domani Udine ha chiuso parchi e giardini pubblici, impianti sportivi, musei, biblioteche, cimiteri. Anche Trieste ha chiuso i giardini. Tra le due regioni in allerta rossa Trenitalia ha sospeso la circolazione dei treni sulle tratte Portogruaro-Casarsa e Portogruaro-Trieste, e anche l'Azienda di trasporto del Veneto orientale ha sospeso tutti i collegamenti bus verso il Friuli. Allerta arancione in Trentino. Sotto osservazione ci sono i corsi d'acqua e i versanti per possibili eventi franosi; in arrivo temperature più basse e vento. Stesso "colore" in Emilia-Romagna, dove si attendono forti temporali in particolare nelle aree montane centro-orientali. Il Levante Ligure si conferma arancione e preoccupa il mare: Sono previste onde fino a sei metri. A Milano c'è preoccupazione per una nuova esondazione del Seveso. Intanto piove intensamente e la raccomandazione ai cittadini è non sostare sotto alberi e impalcature, oltre a mettere in sicurezza i vasi sui balconi. Anche la Toscana prosegue con l'allerta arancione, mentre il governatore Eugenio Giani parla di «ulteriore peggioramento nelle prossime ore». A Viareggio domani saranno chiuse scuole e pinete e stop alle lezioni nella provincia di Massa Carrara. Nel Lazio è allerta gialla, mentre il Sud corre ai ripari, chiudendo le scuole domani a Napoli, Caserta, Benevento e Salerno. Per tutta la giornata di domani a Taranto sarà vietato poi l'accesso alle aree alberate di giardini, parchi, ville e cimiteri cittadini.

24 ore fa

Schlein: "Al governo c'è chi continua a negare l'emergenza climatica"

«Purtroppo un altro evento climatico estremo si abbatte sulla Toscana e sul Veneto. Grande vicinanza alle popolazioni colpite e alle famiglie dei morti che purtroppo ci sono stati. Però al governo c'è chi continua a negare l'emergenza climatica e blocca le rinnovabili e non investe ancora a sufficienza sulla prevenzione del dissesto». Lo dice la segretaria del Pd Elly Schlein a Radio 24.

24 ore fa

Toscana, salgono a 6 i dispersi

Salgono a sei i dispersi per il maltempo in Toscana. Ai tre nel Fiorentino di cui ha dato notizia la Protezione civile della Metrocittà si aggiunge una quarta persona a Campi Bisenzio di cui danno notizia i carabinieri mentre i vigili del fuoco informano che sono in atto ricerche di due persone disperse nel Pistoiese, a Lamporecchio.

23 ore fa

È salito a 5 il numero delle vittime

È salito a 5 il numero delle vittime dell’alluvione in Toscana. Lo rende noto il governatore regionale Eugenio Giani.

23 ore fa

Campi Bisenzio, gente sui tetti

A Campi Bisenzio, comune del Fiorentino dove si registra la situazione più grave per l'ondata di maltempo che ha colpito la Toscana e dove ieri è esondato in due punti il Bisenzio, la notte scorsa la gente si è accampata sui tetti delle abitazioni per mettersi in salvo e chiedere aiuto. Dall'alba poi si sono levati gli elicotteri della Protezione civile per monitorare la situazione e i vigili del fuoco hanno iniziato a evacuare le famiglie dalle case inondate dall'acqua. La pioggia al momento è cessata: a non dare tregua ora è il forte vento.

23 ore fa

Chiuso il parco di Monza

Il sindaco di Monza, Paolo Pilotto, «con un'ordinanza contingibile e urgente» ha disposto la chiusura del Parco di Monza, dove il fiume Lambro è già esondato in qualche punto tra cui il “ponte delle catene” e la “valle dei sospiri”. Il picco di piena del Lambro a Monza è previsto intorno alle 12. Mentre la Protezione Civile di Monza è in costante contatto con le altre autorità per monitorare il livello del Lambro, la situazione resta di allerta e al momento non vengono segnalate criticità di rilievo.

23 ore fa

Meloni: cordoglio per le vittime in Toscana

«Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni segue con apprensione l'evoluzione degli eventi calamitosi che hanno colpito in particolare la Toscana ed esprime il profondo cordoglio per le vittime, suo personale e del Governo tutto. Il Presidente Meloni si mantiene in costante contatto con il ministro Nello Musumeci, con il capo della Protezione Civile Fabrizio Curcio, con il presidente della Regione Eugenio Giani e con le autorità competenti». È quanto si legge in una nota di palazzo Chigi.

23 ore fa

Toscana, 4 dispersi (non 6)

Sono quattro le persone disperse in Toscana a causa del maltempo. Tre sono stati segnalati dalla Protezione civile della Città metropolitana di Firenze: due a Vinci e uno a Campi Bisenzio. Una quarta persona dispersa viene segnalata dai carabinieri sempre nel Fiorentino, ancora a Campi Bisenzio, la zona dove si registrano le criticità maggiori. In un primo momento era stata aggiunta al computo una coppia di Lamporecchio (Pistoia): si tratta degli stessi coniugi di Vinci, secondo quanto si è appreso, che sarebbero dispersi dopo il crollo di un ponte.

23 ore fa

Emergenza a Milano, alberi caduti

Sono numerosi gli interventi dei vigili del fuoco a causa del maltempo che sta interessando l'intero Sannio. A creare maggiori problemi, al momento, sono stati gli alberi caduti sulle strade cittadine di Benevento e che in alcuni casi hanno travolto e abbattuto anche fili elettrici. In città gli alberi sono caduti in particolare via Pacevecchia e via Monte delle Guardie dove un grosso pino ha ostruito totalmente la carreggiata ed ha provocato un'interruzione elettrica in tutta la zona. Scuole chiuse a Benevento e in numerosi centri della provincia dopo che, nel pomeriggio di ieri, la protezione civile aveva diramato il bollettino di allerta.

23 ore fa

Il sindaco di Campi Bisenzio: situazione critica

«Ci sono due dispersi, erano tre questa notte e adesso sono due. La situazione è ancora molto critica, abbiamo tutte le squadre al lavoro, ci sono molte strade allagate e molte persone chiedono di essere evacuate. Siamo ancora a metà dell'emergenza», «ma non riusciamo ancora a raggiungere tutte le persone in difficoltà a causa della presenza dell'acqua. Così il sindaco di Campi Bisenzio (Firenze) Andrea Tagliaferri.

22 ore fa

Ritrovato vivo un disperso

È stato ritrovato vivo uno dei dispersi per il maltempo in Toscana. Lo rendono noto i carabinieri spiegando che si tratta di un 72enne per il quale le ricerche erano scattate a Campi Bisenzio. Sempre a Campi risulta dispersa un'altra persona mentre i due dispersi per i quali sono scattate le ricerche a Lamporecchio (Pistoia) e la cui auto è stata poi ritrovata rovesciata in un torrente a Vinci sono una coppia di coniugi.

22 ore fa

Giani: oggi in cdm stato di calamità nazionale per la Toscana

«Ho parlato con il presidente del Consiglio Giorgia Meloni pochi minuti fa, si stanno attivando per portare nel Consiglio dei Ministri che inizia alle 11 lo stato di calamità nazionale». Così il governatore toscano Eugenio Giani, parlando del maltempo in un video sui social: «Questo è conseguente allo stato di emergenza che ho dichiarato ieri». Nella notte «con le autorità di governo ci siamo sentiti, abbiamo avuto collaborazione. In questo momento stiamo tutti insieme lavorando, con la Protezione Civile a livello regionale e gli aiuti che vengono da» quella nazionale «per poter provvedere al sostegno della popolazione colpita».

21 ore fa

Meloni: da Schlein assurde accuse, usa tragedie per attacchi politici

«In queste ore drammatiche per la Toscana e l'Italia tutta, leggo da parte di Elly Schlein assurde accuse nei confronti del Governo in tema di cambiamenti climatici ed energie rinnovabili. L'opposizione ha tutto il diritto di criticare l'operato dell'Esecutivo, ma adoperare calamità e tragedie per fare attacchi politici strumentali e infondati è un comportamento che reputo sconsiderato. Rinnovo il mio pensiero alle popolazioni colpite e a tutti gli operatori impegnati nei soccorsi. Il Governo è al vostro fianco». Così, la premier Meloni su facebook replica alla leader del Pd Elly Schlein.

21 ore fa

Trovato morto un uomo disperso

È stata trovata morta una delle due persone disperse tra i comuni di Lamporecchio (Pistoia) e Vinci (Firenze). A darne notizia la prefettura di Firenze. Secondo quanto spiegato la vittima è un uomo. Proseguono le ricerche della moglie.

21 ore fa

Peggioramento il pomeriggio

Oltre ai danni «c'è anche una viabilità molto fragile, quindi chiedo ai pratesi di uscire di casa solo per questioni importanti. Evitare tutto quello che non è strettamente necessario, se c'è da andare a fare la spesa si rimandi. Si attende purtroppo un peggioramento del meteo per il pomeriggio». Lo ha detto il sindaco di Prato Matteo Biffoni parlando coi giornalisti nella sede della protezione civile comunale.

21 ore fa

Mattarella chiama Giani: piena solidarietà

«Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, mi ha appena chiamato per esprimere la sua piena solidarietà e gli auguri di buon lavoro. Gli ho manifestato la mia forte preoccupazione per una situazione davvero tragica. Grazie Presidente Mattarella per la sua vicinanza che mai è mancata!» Lo comunica il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani.

17 ore fa

Chiuse 13 strade statali nel centro nord

In allerta fin dai giorni scorsi per l'emergenza meteo annunciata nel Centro Nord d'Italia con il ciclone Ciaran, le centrali operative Anas (Polo Infrastrutture del Gruppo Fs Italiane) in attività H24, in queste ore di massima criticità, stanno svolgendo un continuo scambio informativo con le Prefetture, le Protezioni civili regionali e Nazionale, i Vigili del Fuoco, le Forze di Polizia e le Amministrazioni comunali. Tutte le squadre Anas sul territorio sono state mobilitate per gli interventi di sicurezza e viabilità. Ecco il quadro aggiornato per quanto riguarda le strade e le autostrade di competenza: In Veneto permane la chiusura della strada statale 51 «Alemagna» a Fadalto, in provincia di Treviso, e della statale 52 «Carnica» tra Cimagogna e Auronzo di Cadore, in provincia di Belluno, per frana e caduta massi. Sulla strada statale 14 «della Venezia Giulia, a causa della piena del fiume, è stato chiuso in mattinata in via precauzionale, su allerta della Protezione Civile, il ponte sul fiume Tagliamento, nei pressi del confine con il Friuli-Venezia Giulia. Il tratto viene presidiato dal personale Anas al fine di monitorare il livello del fiume e per la gestione della viabilità

16 ore fa

Toscana, trovata morta la donna dispersa

Trovata morta anche la donna di 65 anni dispersa tra Lamporecchio, nel Pistoiese, e Vinci, nel Fiorentino. Col marito era stata travolta dall'acqua mentre attraversava in auto un piccolo ponte a Lamporecchio. Lo si apprende dai carabinieri. Dunque i dispersi scendono a due.

16 ore fa

In Toscana da ieri 16mila chiamate al 112

«I nostri operatori del Nue 112 da stanotte stanno dando il massimo per affrontare l'emergenza e prendersi cura di tutti rispondendo a 15.971 chiamate da ieri! Grazie di cuore!». Lo segnala su Facebook il presidente della Toscana Eugenio Giani.

15 ore fa

Prisco: 150 persone in salvo nell'area di Prato

«Nelle ultime ore sono oltre 150 le persone tratte in salvo nella sola area intorno a Prato»: lo sottolinea il sottosegretario all'Interno Emanuele Prisco parlando del maltempo che ha investito la Toscana. Dove - spiega in una nota - sono impegnati 554 vigili del fuoco con quattro elicotteri. «Sono vicino alle popolazioni coinvolte, in particolare in Toscana, dove si sono visti gli effetti più devastanti delle incessanti piogge delle scorse ore» ha affermato ancora Prisco. Il quale ringrazia i soccorritori «che su tutto il territorio nazionale stanno intervenendo senza risparmio»

15 ore fa

Toscana, trovata morta la donna dispersa

La donna, Teresa Perone, secondo quanto appreso, è stata trovata in una zona non lontana dove in precedenza era stato rinvenuto il marito. Da quanto appreso sembra che quando l'auto dei due coniugi è stata travolta dalle acque del torrente Fosso di Greppiano i due stessero parlando al telefono con la figlia.

13 ore fa

Salgono a 7 i morti, due dispersi

Salgono a 7 i morti accertati per il maltempo in Toscana mentre due uomini risultano ancora dispersi a Campi Bisenzio (Firenze) e Prato. L'ultima vittima è un uomo di 73 anni, il cui corpo è stato rinvenuto nel pomeriggio di oggi a Prato, in via di Cantagallo. Sul posto per i rilievi si è recata la polizia. L'anziano, secondo quanto si è appreso, sarebbe morto folgorato.

13 ore fa

Piena Arno a Pisa sotto al primo livello di guardia

«La situazione a Marina di Pisa è in miglioramento con l'acqua che è rientrata e sono presenti alcuni ristagni. Nei luoghi allagati della Toscana ulteriore arrivo di idrovore e squadre. La piena dell'Arno sta transitando a Pisa sotto al primo livello di guardia». Lo scrive sui social il presidente della Regione Toscana, Eugenio Giani.

11 ore fa

In Toscana 1.500 interventi dei vigili del fuoco

Nelle ultime dodici ore 617 vigili del fuoco, al lavoro con 143 automezzi, hanno svolto 1.500 interventi per il maltempo e la conseguente alluvione che ha colpito alcune province della Toscana, in particolar modo le province di Firenze, Pisa e successivamente anche quelle di Prato, Pistoia e Livorno. Il Centro Operativo Nazionale di Roma, regia di ogni emergenza, ha potenziato il dispositivo di soccorso locale mobilitando risorse anche da fuori regione con moduli di contrasto al rischio acquatico, sommozzatori e 4 mezzi anfibi provenienti dal Lazio, Piemonte, Umbria, Calabria, Campania, Marche, Basilicata, Lombardia e Puglia. Attualmente 213 vigili del fuoco sono al lavoro nella provincia di Firenze, 158 in quella di Pisa, 104 a Pistoia e 142 nella provincia di Prato. Dei 1.500 interventi svolti, più di 140 le operazioni di soccorso a persone in difficoltà.

Alvei sporchi, cemento e 2mila invasi mai fatti. L'inerzia sul maltempo costa 7 miliardi l'anno. Agricoltura flagellata, danni a edifici e infrastrutture: le piogge continuano a presentare il conto. Il progetto sulla raccolta delle acque è del 2017, ma non è stato completato. L'esperto: "Incapaci di programmare". Maria Sorbi il 17 Maggio 2023 su Il Giornale.

Due giorni di pioggia battente si trasformano in alluvione, torrenti in secca fino a un mese fa di colpo travolgono paesi interi. Il maltempo non è più ordinario ma sempre più spesso catastrofico. Tanto che ci costa 7 miliardi di euro all'anno. La stima è dell'ex capo della Protezione Civile Angelo Borrelli e, a detta dei tecnici, è addirittura al ribasso se si calcolano i danni alle persone, alle case, ai ponti, alle infrastrutture, all'agricoltura e tutte le voci che non finiscono nella richiesta di rimborsi ufficiali.

Giusto per dare una proporzione: in questa tranche di maltempo in Emilia Romagna si calcolano 300 milioni di euro di danni subiti solo dalle attività agricole e dalle infrastrutture. Sott'acqua sono finiti ettari di terreno coltivato a kiwi, susine, pere e mele ma anche cereali, vivai, ortaggi, allevamenti, macchinari di lavorazione ed edifici agricoli. Per l'alluvione di Senigallia dello scorso settembre sono stati stanziati 96 milioni di euro. La frana di Ischia è costata 2 milioni. E via di questo passo.

Contando che, solo nel 2022, in Italia ci sono stati 104 allagamenti, 81 trombe d'aria e raffiche di vento, 18 mareggiate, 13 esondazioni fluviali, 11 casi di frane causate da piogge intense, 8 casi di temperature estreme in città, il conto è presto fatto.

Non solo. C'è un costo nel costo. Quello dell'acqua perduta. L'acqua che ha spazzato via le auto e allagato i campi è la stessa che avrebbe potuto salvare città e agricoltori dal rischio siccità di questa estate. La soluzione sta ancora una volta negli invasi, parola chiave per mitigare i pericoli di siccità e alluvioni.

«Se ci fossero stati gli invasi, gran parte dell'acqua caduta in questi giorni in Emilia Romagna sarebbe stata raccolta e avrebbe limitato i danni - spiega Lorenzo Bazzana, responsabile economico di Coldiretti - Lo studio, firmato dall'associazione nazionale bonifiche, c'è dal 2017 ma è stato realizzato solo in parte. E pensare che se fossero stati pronti due invasi in fase di costruzione, vicino a uno dei torrenti romagnoli esondati, parte di questo disastro sarebbe stato evitato». Il piano Anbi prevede 2mila piccoli e medi invasi disseminati in tutta Italia, spesso in corrispondenza di cave già esistenti. Un progetto da 20 miliardi in 20 anni, pensato ben prima dell'opportunità dei fondi del Pnrr ma mai realizzato.

Detto questo, anche interventi di ordinaria amministrazione avrebbero reso meno disastrosa la portata dell'acqua. «Paghiamo il prezzo di un eccesso di cementificazione - aggiunge Bazzana - di una mancata pulizia dell'alveo dei fiumi. I fondali non vengono dragati e molto spesso manca la pulizia sotto i ponti. Si accumulano legnami e foglie e tutto questo impedisce all'acqua di defluire e ai terreni di poterla assorbire». Se un campo viene sommerso d'acqua marcisce, soprattutto se l'acqua che di solito arriva in 5 o 6 mesi arriva in 48 ore.

«Il problema in cui incappiamo da sempre - sostiene Francesco Ballio, professore di Ingegneria per l'Ambiente e il territorio al Politecnico di Milano - è l'incapacità di programmare a lunga scadenza. Quando arrivano dei soldi, c'è la corsa per spenderli tutti in una volta e non ne rimangono per impostare il monitoraggio e la manutenzione delle opere. Non ripetiamo lo stesso errore con il Pnrr: per la prima volta abbiamo la possibilità di pianificare investimenti su scala nazionale, non è un'occasione da sprecare».

La grande minaccia. Report Rai PUNTATA DEL 23-06-2023

di Luca Chianca

collaborazione Alessia Marzi

Tra il 16 e il 17 maggio scorso sulla fascia dell'Appennino romagnolo sono caduti fino a 250 mm d'acqua, su un territorio ancora fragile a causa della precedente alluvione dei primi di maggio. 

In 62 anni, non aveva mai piovuto così tanto da inondare tutta la pianura romagnola. E le strade in collina sono sprofondate sotto l'impeto dell'acqua. A 20 giorni dall'alluvione Report è andata in quelle zone per capire cosa sia realmente successo e cosa ci aspetterà negli anni futuri. Ormai a causa del cambiamento climatico dobbiamo abituarci a vivere queste stagioni, caratterizzate da eventi estremi. Ma i segnali sono sotto i nostri occhi da fin troppo tempo. Lunghi periodi di siccità si alternano a violenti nubifragi. 

LA GRANDE MINACCIA di Luca Chianca Collaborazione Alessia Marzi Immagini di Alfredo Farina, Davide Fonda, Giovanni De Faveri Ricerca immagini Eva Georganopoulou e Paola Gottardi

DANIELE VALBONESI - SINDACO SANTA SOFIA (FC) Qui c'è un altro cratere. Questo sembra ci sia stata una bomba. É una zona che da sempre è fragile a livello geologico però nessuno ricorda cose di questo tipo

LUCA CHIANCA Sembra un terremoto qua

DANIELE VALBONESI - SINDACO SANTA SOFIA (FC) Sembra un terremoto sì, qui sì

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In soli due giorni, tra il 16 e il 17 maggio scorso sulla fascia dell'appennino romagnolo sono caduti fino a 250 millimetri d'acqua. La pioggia ha trovato un terreno ancora impregnato e molle per via della precedente alluvione dei primi di maggio. In 62 anni, in quest’area non ha mai piovuto così tanto. L’acqua ha strappato il terreno dalle colline, facendo crollare le strade sui cui erano appoggiate. E la valanga d'acqua e fango è scesa fino in pianura, facendo esondare i fiumi dai canali, inondando strade e case

LUCA CHIANCA L'ha sollevata in quel caso l'acqua

DANIELE VALBONESI - SINDACO SANTA SOFIA (FC) O forse quella è l'unica che non ha ceduto? Punto interrogativo?

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In tutta la Romagna si sono contate oltre 800 nuove frane, ma di censite, prima dell'alluvione, in questa Regione se ne contavano già circa 80mila. Questa è la strada per arrivare a Predappio alta, dove si susseguono decine di smottamenti.

CRISTIAN FAGNOLI – PROPRIETARIO RISTORANTE LA PINETA Io ho il ristorante qui, i miei genitori dal ‘67

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Arriviamo al ristorante la Pineta, sopra Predappio. Anche qui è sprofondata la strada di fronte il parcheggio delle auto.

CRISTIAN FAGNOLI – PROPRIETARIO RISTORANTE LA PINETA Parcheggiavano, era tutto un parcheggio. Qui c'era la stradina che si imbucava con questa

LUCA CHIANCA Quindi è venuto giù tutto

CRISTIAN FAGNOLI – PROPRIETARIO RISTORANTE LA PINETA Tutto, è andato giù tutto. La siepe era al pari di quella là

LUCA CHIANCA Questa siepe stava lì sopra?

CRISTIAN FAGNOLI – PROPRIETARIO RISTORANTE LA PINETA Questa era la siepe a filo con quella là, arrivava qui. Tutto uguale. Alta uguale

LUCA CHIANCA Anche gli alberi son scesi?

CRISTIAN FAGNOLI – PROPRIETARIO RISTORANTE LA PINETA Anche gli alberi tutto.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Poco più avanti troviamo Ivan Mugnai, ha perso la sua casa perché il monte è franato alle sue spalle spostando tutto il terreno intorno.

IVAN MUGNAI Era tutto piano, questo terreno era al piano del marciapiede

LUCA CHIANCA Cioè ha scavato sotto la casa?

IVAN MUGNAI Ha scavato sotto la casa. Noi abitanti della zona puliamo i fossi, c'arrangiamo come possiamo perché qui non viene nessuno, chi deve pulire i fossi viene una volta ogni 20 anni.

PAOLA BONORA - GEOGRAFA - GIÀ PROFESSORESSA UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Non sono state più mantenute le canalette che difendevano le strade che fermavano l'afflusso dell'acqua e invece adesso questo afflusso dell'acqua penetra in profondità e quindi appesantisce il terreno e lo fa smottare. Lei pensi che addirittura nel passato attorno ad ogni campo c’erano delle canalette che bloccavano il flusso delle acque, dello scorrimento delle acque

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L'abbandono dell'Appennino spiega a monte cosa è poi sia successo a valle. Un'onda di acqua, fango e alberi partita dalle montagne ha investito tutto il territorio, perché i torrenti, costretti dentro piccoli canali, con poca manutenzione, non hanno retto all'urto.

PIERO CAVALCOLI – URBANISTA - DIRIGENTE PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIA DI BOLOGNA 1987-2004 Cioè la forza e la quantità d'acqua che è scesa insieme al materiale vegetale che viene però dalle colline si è fermato in tutti i ponti, in tutte le curve e l'acqua

LUCA CHIANCA Ha fatto da diga e l’acqua è uscita fuori

PIERO CAVALCOLI - URBANISTA- DIRIGENTE PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIA DI BOLOGNA 1987-2004 E l'acqua è uscita, quindi nel 90% dei casi abbiamo un problema di sormonto e non di rottura degli argini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ed è quello che è successo anche a Predappio, dove il torrente che attraversa il paese ha distrutto più di un ponte, riprendendosi, ai lati, lo spazio che l'uomo gli aveva tolto.

ROBERTO CANALI - SINDACO DI PREDAPPIO (FC) Perché considerate che qui l'alveo fluviale era un terzo circa, c’era della terra sopra perché probabilmente negli anni erano stati portati, ammassati dei terreni che poi alla prova dei fatti quando il fiume ha detto “sul serio” si è riportato sullo stesso posto dove era prima.

LUCA CHIANCA FUORICAMPO Proprio per questo la Regione aveva progettato 23 casse di espansione per raccogliere l’acqua in eccesso, la Regione ne ha finite solo 13. Il sistema è semplice: vengono costruiti degli enormi invasi intorno al fiume e in caso di esondazioni si fanno confluire le acque al loro interno, evitando che un'enorme quantità d'acqua se ne vada indisturbata verso la pianura. Qui siamo a Tebano sopra Faenza lungo il fiume Senio.

CLAUDIO SANTANDREA Questa qua su doveva essere anche cassa di espansione

LUCA CHIANCA Che non è mai stata fatta

CLAUDIO SANTANDREA Che non è mai stata fatta, non so le motivazioni, comunque

LUCA CHIANCA E questa non è finita

CLAUDIO SANTANDREA Questa non è finita

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa cassa d'espansione doveva essere molto più larga. Fortunatamente un po' d'acqua è entrata comunque perché alla prima alluvione dei primi di maggio è venuto giù l'argine in questo punto.

LUCA CHIANCA Da quanti anni che sta così?

CLAUDIO SANTANDREA Che sta così sono 6-7 anni. E se fosse stata in funzione con tutte queste qua, non glielo so dire se avesse fatto i danni che ha fatto giù

LUCA CHIANCA Sicuramente meno

CLAUDIO SANTANDREA Sicuramente meno

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Accanto c'è un'altra cassa di espansione finita ma con l'acqua pulita perché a quanto pare non è ancora stata collegata al fiume.

CLAUDIO SANTANDREA Quando è venuta la seconda era già piena quella lì

LUCA CHIANCA Nessuno l'ha svuotata nel frattempo

CLAUDIO SANTANDREA No, perché se non ci sono i canali per cavar l'acqua

LUCA CHIANCA Rimane lì, diventa un lago

CLAUDIO SANTANDREA Se non la caviamo con il secchio

LUCA CHIANCA La vedo dura

LUCA CHIANCA A Tebano perché non è stata finita quella cassa di espansione?

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE C'è un progetto sul quale il Presidente ha già fatto il decreto di esproprio perché da cava deve diventare cassa e quindi l'iter amministrativo è in corso

LUCA CHIANCA Son tanti anni che è così, tanti, tanti..

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Ma guardi io son qui da 3 anni e l'iter l'abbiamo ereditato e lo stiamo mandando avanti

LUCA CHIANCA Però così tanto tempo per risolvere questi contenziosi?

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Ma anche se avessimo affidato la gara rispetto all'evento la cassa non sarebbe stata terminata.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Intorno alle due casse di espansione, che di fatto non erano in funzione, sono arrivati migliaia di metri cubi di fango che hanno invaso tutti i frutteti della zona compromettendo il raccolto per i prossimi anni. IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Se i fiumi son puliti l'acqua scorre senza problemi, al ponte di Felisio, che è un ponte…

LUCA CHIANCA E qui non son stati mai puliti?

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Mai puliti.

LUCA CHIANCA Mai?

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Mai.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ivano Gagliani dopo la prima alluvione dei primi di maggio scrive alla Regione perché era caduto un albero nell'alveo del fiume che scorre a fianco al suo campo di Kiwi.

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Io ho mandato un'email in Regione, gli ho detto guardate che c'è un albero caduto quello lì. Il 16 è tornata l'acqua, l’albero è ancora lì di traverso, ha fatto da diga, ha deviato… si vede bene il corso del fiume dove è andato a finire è là… questo è il mio kiwi

LUCA CHIANCA Questo era tutto un campo di kiwi?

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Tutto fino a laggiù.

LUCA CHIANCA Quanto ha perso probabilmente?

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Per me, 250mila euro tra rifare tutto l'impianto e 3-4 anni di mancata produzione perché che il kiwi ritorni così ci vogliono 3-4 anni no?

LUCA CHIANCA Quando ha scritto in Regione l'email che le hanno risposto?

IVANO GAGLIANI – AGRICOLTORE DI KIWI Han risposto a lei? A me no. IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Non dubito che abbia fatto questa segnalazione, sicuramente l’ha fatto, ma questo evento qua non ci ha consentito in tempi così ravvicinati sicuramente di intervenire sulla pulizia. Tra l’evento del 2, del 3, la cosa principale che abbiamo fatto all’interno anche di tutti comitato della sicurezza è chiedere a tutti gli enti gestori di fare la pulizia sotto i rilevati stradali e ferroviari. Può darsi, che questo come dire non siamo arrivati in tempo

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La Regione dovrebbe occuparsi della manutenzione dei fiumi anche se in alcuni casi ha delegato ai Comuni i singoli interventi, come nel caso di Faenza fortemente colpita dall'esondazione del fiume Lamone. Ma si tratta di un lavoro inutile se non viene fatto da tutti i Comuni contemporaneamente.

MASSIMO ISOLA – SINDACO DI FAENZA (RA) Noi a novembre abbiamo pulito la parte di Lamone con 400 tonnellate di materiale portato fuori, questo LUCA CHIANCA Però nel tratto del Comune. A monte?

MASSIMO ISOLA – SINDACO DI FAENZA (RA) Io non so quello che succede nei Comuni precedenti al mio, è questo che dico. O facciamo un percorso dalla sorgente alla foce oppure il lavoro che fa ciascun singolo comune è inadeguato è insufficiente perché il fiume non conosce confini amministrativi.

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE È evidente che in un evento di questo genere emergono come dire

LUCA CHIANCA Tutte le contraddizioni

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Ma anche come la frammentazione normativa non ci aiuta in questi ambiti qua. Difesa del suolo Ministero dell'ambiente, pianificazione e programmazione autorità di bacino che pianifica e programma il piano gestione e rischio alluvione, noi diventiamo l'ente attuatore se però il piano viene finanziato. Capisce che è complicato

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ed è proprio all'autorità di bacino del Po che deve scrivere i progetti per contrastare questi fenomeni che il governo ha tolto 6 milioni di euro prima dell'alluvione. Eppure è l'ente che ha uno sguardo completo su tutto il bacino Padano, che va dal Piemonte fino al delta in Romagna

LUCA CHIANCA I 6 milioni che vi hanno tolto servono per che cosa?

ALESSANDRO BRATTI - SEGRETARIO GENERALE AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE FIUME PO Oltre che per pagare le spese di consumo di luce e gas anche per dare, come è capitato nel passato qualche incarico di progettazione che per noi è assolutamente importante.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra questi c'era anche un progetto indirizzato alle aree colpite dall'alluvione note da anni come zone fragili dal punto di vista del dissesto idrogeologico.

ALESSANDRO BRATTI - SEGRETARIO GENERALE AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE FIUME PO Il progetto eh, non le opere, arriverà sui 2 milioni e mezzo- tre, che sono finanziamenti che noi abbiamo sulla parte straordinaria che però non posso spendere prima di luglio, se li avessi avuti prima li avrei spesi dal primo gennaio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Progetti di messa in sicurezza e trasformazione del territorio che in questa zona sono iniziati ben 2000 anni fa, a partire dai romani. Paludi che nei secoli sono diventate terre coltivabili grazie all'azione dell'uomo.

ALESSANDRO BRATTI - SEGRETARIO GENERALE AUTORITÀ DI BACINO DISTRETTUALE FIUME PO La gestione del territorio dal dopoguerra ad oggi è stata una gestione molto improntata alla massima produttività in agricoltura e una fortissima urbanizzazione che sicuramente ha dato ricchezza. Oggi quel tipo di sviluppo lì in queste aree qua a mio parere non regge più.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In Emilia-Romagna dal dopoguerra ad oggi, ben tre generazioni hanno assistito alla cementificazione di suolo che è passato da 500 chilometri quadrati a quasi 2000 chilometri quadrati

PIERO CAVALCOLI - URBANISTA- DIRIGENTE PIANIFICAZIONE TERRITORIALE PROVINCIA DI BOLOGNA 198 -2004 Quindi quello che abbiamo prodotto noi come generazione di cui siamo responsabili è aver impermeabilizzato 3 volte quello che appunto dai tempi dei romani ad oggi avevamo costruito, questo è un dato spaventoso.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In Provincia di Ravenna, secondo l'Ispra, il suolo consumato tra il 2017 e il 2021 è stato di ben 331 ettari, 83 ettari l'anno, il doppio degli anni precedenti. Questa è la stessa area fotografata dall'Ispra nel 2006, nel 2020 e infine nel 2022. Nel Comune di Forlì invece nel 2021 il consumo di suolo si è attestato al 16%, più del doppio della media nazionale. Questa è un'area agricola a Forlì nel 2003, nel 2018 e poi nel 2022. Solo nell'ultimo anno l'Emilia-Romagna è la terza regione italiana per cementificazione

PAOLA BONORA - GEOGRAFA - GIÀ PROFESSORESSA UNIVERSITÀ DI BOLOGNA Se vogliamo fare un paragone più della metà dell’intera superficie della Valle D'Aosta.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il territorio urbano collassa sotto il fango arrivato dalle montagne perché l'acqua trova fin troppi terreni impermeabilizzati su cui scorre sempre più veloce

SALVATORE FIORENTINO Qui non si poteva uscire perché l'acqua era a quest'altezza qui LUCA CHIANCA Accanto c'è stata una delle prime vittime

SALVATORE FIORENTINO Lì, è morta lì FINA RUGGIA Lui per salvare l'animale non ce l'ha fatta e il fango e l'acqua se l'è portata via.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Uno dei punti più al sicuro di Forlì è stato il palazzetto dello sport dove una sessantina di volontari si sono organizzati per dare i primi aiuti alle famiglie del quartiere.

LUCA CHIANCA Chi è che coordinava tutto?

STEFANO VALMORI - COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE ROMITI - FORLÌ No, lo spirito santo, coordinava tutto il buon senso di dare una mano in questo territorio, non so come abbiam fatto

LUCA CHIANCA La protezione civile c'era o non c'era?

STEFANO VALMORI - COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE ROMITI - FORLÌ La Protezione civile è arrivata successivamente

LUCA CHIANCA Quanto tempo dopo?

STEFANO VALMORI - COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE ROMITI - FORLÌ 6-7 giorni dopo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Forlì dopo oltre 20 giorni dall'alluvione, la situazione è ancora questa.

LORETTA POGGI – COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE FORO BOARIO SAN BENEDETTO - FORLÌ Questa è la devastazione. Questa è la casa di mia figlia, c'è rimasto solamente quel pezzo lì. Camera da letto non c'è più niente, studio non c'è più niente.

LUCA CHIANCA Riuscite a riutilizzarle queste cose o sono andate?

LORETTA POGGI – COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE FORO BOARIO SAN BENEDETTO - FORLÌ No, qui è in attesa di...

LUCA CHIANCA Di portarle via

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Loretta Poggi è la coordinatrice dei cittadini del suo quartiere e durante l'alluvione come tanti volontari è stata costretta a gestire l'emergenza.

LUCA CHIANCA Qui la protezione civile non è venuta proprio?

LORETTA POGGI – COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE FORO BOARIO SAN BENEDETTO - FORLÌ Erano tutti talmente secondo me volenterosi di fare ma senza una guida, un'indicazione, perché non puoi chiedere a me dove sono le fogne, io onestamente, ti dico lì c'è una fogna, però come è strutturato il sistema fognario io onestamente non lo so.

LUCA CHIANCA Cioè la protezione civile veniva qua e chiedeva a voi dov'erano le fogne?

LORETTA POGGI – COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE FORO BOARIO SAN BENEDETTO - FORLÌ Sì ROBERTO GRILLINI - VOLONTARIO All'inizio è stato un disastro, è tuttora un disastro. Anche a spalare i fanghi noi i primi giorni abbiamo iniziato buttar l’acqua con il fango nei tombini per liberare le case perché sennò…

LUCA CHIANCA Però si son tappate le fogne

ROBERTO GRILLINI –VOLONTARIO Il venerdì pomeriggio ci hanno detto non fatelo più, abbiamo detto cavolo abbiamo fatto una cavolata smettiamo, un'ora dopo giriamo strada c'era l'esercito e la protezione civile che buttava l'acqua e il fango nei tombini.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’utilizzo delle fogne per scaricare i fanghi delle abitazioni a oltre un mese dalla tragedia è ancora un tema controverso.

DONNA Le fogne pubbliche qui sono libere o no?

LORETTA POGGI – COORDINATORE DEL COMITATO DI QUARTIERE FORO BOARIO - SAN BENEDETTO - FORLÌ No. DONNA E allora è appena passati due tre che hanno detto che da ieri sera le fogne ricevono e sono libere

LUCA CHIANCA Invece a lei risulta? DONNA Se viene di nuovo tipo nubifragio dell'altro giorno stiamo ad allagarci ancora. Quindi ancora le fogne non son sicure. Ok, buongiorno

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel frattempo, buona parte del fango liquido che raccolgono i camion coordinati dalla protezione civile scaricano tutto nel fiume, sia qui a Forlì che nel Comune di Faenza, il tutto autorizzato dalla Regione.

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Il fango liquido andava nelle fogne, attraverso

LUCA CHIANCA Abbiamo immagini di fango buttato liquido nel fiume

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Ma buttato con gli autospurghi?

LUCA CHIANCA Certo, davanti ai vigili urbani tra l'altro

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Si, si. Immagino che nella fase iniziale i quantitativi…

LUCA CHIANCA No,no 20 giorni dopo siamo andati, a bocce ferme come si dice

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE Non metto in dubbio

LUCA CHIANCA Quindi non si doveva fare quella roba lì?

IRENE PRIOLO VICEPRESIDENTE - ASSESSORE A TRANSIZIONE ECOLOGICA, CONTRASTO AL CAMBIAMENTO CLIMATICO, AMBIENTE, DIFESA DEL SUOLO E DELLA COSTA, PROTEZIONE CIVILE L'indicazione era quella di mandare i fanghi liquidi in fogna, però in accordo con i gestori, perchè non tutti diciamo gli impianti di depurazione potevano essere all’altezza dello smaltimento

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non abbiamo ancora capito che l’evento alluvionale sarà la normalità. Ora la Regione Emilia-Romagna è la terza dopo Lombardia e Veneto, per incremento del suolo artificiale: 660 ettari in dodici mesi. Se è questa la storia bisognerà rivedere l’intero sistema, ripensarlo, a partire dalla manutenzione del territorio, fino al sistema di raccolta delle acque. Anche partendo dal semplice tombino, che non può essere piccolo come ce l’abbiamo adesso, deve essere allargato, e allargati anche i tubi. E poi bisogna fare attenzione che siano puliti i letti dei fiumi e dei torrenti, che non abbiano ingombri, che non venga rubato spazio al letto, perché poi il fiume in qualche modo il suo spazio se lo riprende, e magari va a prenderselo anche dove non era previsto. Poi ci sono troppe teste che dettano strategie diverse: il Ministero delle Finanze, Ministero dell'ambiente, poi c’è chi programma e pianifica nell’Autorità di Bacino, poi c’è la Regione che è l’ente attuatore. Infine mancano anche i soldi perché non è neppure una logica che tu sfili soldi a un’Agenzia che deve fare progettazione e prevenzione per la manutenzione di un territorio, li destini invece per coprire un’emergenza che magari si è creata perché non hai dato soldi prima per fare prevenzione. Cioè non puoi sfilare sei milioni di euro all’Agenzia che avrebbe dovuto pianificare e fare prevenzione con dei progetti idonei in Emilia-Romagna, destinati a Ischia dove c’è un’altra emergenza. Risparmiare su questo tipo di manutenzione, che significa anche fare prevenzione, poi che cosa succede alla fine, che c’è l’evento alluvionale che ti fa pagare con gli interessi quello che avevi risparmiato. I danni quantificati dalla Regione Emilia-Romagna sono 9 miliardi di euro, arriveranno 2,5 miliardi dal Pnrr per mettere in sicurezza l’intero territorio italiano dal punto di vista idrogeologico. Ecco, siamo certi che le amministrazioni avranno gli strumenti e le strutture idonee per gestirli?

Emergenza maltempo in Emilia-Romagna, in diretta: due morti, dispersi e migliaia di evacuati. Paolo Foschi e Redazione Online su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023

Regione in ginocchio per gli straripamenti di fiumi e torrenti. Situazione drammatica in Romagna: un uomo morto a Forlì e un altro in una frazione di Cesena, si cerca la moglie. Previsioni di altra pioggia nelle prossime ore

È sempre più drammatica la situazione in Emilia Romagna per l'emergenza maltempo che ha colpito anche le regioni vicine. Nella notte ci sono state nuove esondazioni, l'acqua ha invaso strade e case in tantissimi centri: da Cesena a Faenza, da Riccione a Lugo. Le operazioni di soccorso sono difficili, gli abitanti sono invitati a salire ai piani alti delle abitazioni. Drammatico il bilancio con due vittime e una donna dispersa. Un uomo, che che era stato dato per disperso è stato poi trovato nella notte morto a Forlì, viveva al piano terra di una casa invasa dall'acqua del vicino fiume Montone. Un'altra vittima a Ronta di Cesena dove è stato trovato morto un 70enne: il corpo è stato recuperato dai vigili del fuoco. Risulta ancora dispersa la moglie. Migliaia le persone evacuate a seguito di strutture allagate e fiumi in piena o esondati che hanno rotto gli argini. A Cesena la gente a stata costretta a salire sui tetti, in attesa di essere portati in salvo dagli elicotteri. A Forlì il sindaco annuncia «la peggiore situazione mai vissuta». Scuole chiuse anche mercoledì 17 maggio, a Bologna e negli altri Comuni colpiti. Drammatica a situazione a Faenza, nel Ravennate, dove l'acqua è entrata nel centro abitato e molte persone sono state evacuate. Sempre nel Ravennate è esondato nella notte il fiume Santerno e ci sono state nuovi evacuati accolti nei centri allestiti. Riccione è praticamente sott'acqua. Nel Bolognese esonda anche il fiume Sillaro. Si moltiplicano intanto le foto e i messaggi sui social network di persone che a Faenza, nel Ravennate, nel Cesenate chiedono aiuto poiché le loro case sono invase dall'acqua. Tra cancellazioni e ritardi è interrotta in molti tratti la circolazione dei treni. Intanto continua a piovere: è stato calcolato che sono caduti 130 mm di pioggia in sole 24 ore.  le previsioni non promettono nulla di buono: su buona parte della regione Emilia-Romagna anche per oggi è stata emessa una nuova allerta meteo rossa per fiumi, frane e mareggiate.

Ore 0.12: è morto l'uomo disperso, l'annuncio del sindaco di Forlì

È stato trovato morto l'anziano che era stato dato per disperso vicino all'argine del fiume Montone: la notizia è stata data dal sindaco di Forlì ,Gian Luca Zattini. L'uomo di trovava nella propria casa che è stata sommersa dall'acqua, mentre la moglie era riuscita salire al piano superiore ed era stata tratta in salvo dai soccorritori.

Ore 0.17: Faenza, sui social si moltiplicano le richieste di aiuto

Si moltiplicano le foto e i messaggi sui social network di persone che a Faenza, nel Ravennate, chiedono aiuto poiché le loro case sono invase dall'acqua. «Aiuto, siamo a due gradini poi c'è il balcone, abbiamo due bambini», scrive Riccardo o ancora «via Pantoli 29, l'acqua sta salendo velocemente arrivando all'ultimo piano», dice Fabrizio. La città di Faenza è spettrale, per buona parte al buio e sommersa dall'acqua.

Ore 0.26: Faenza, aperto agli sfollati Palazzo del Podestà

«Abbiamo aperto Palazzo del Podestà. Chi sta lasciando le proprie abitazioni nel centro storico può recarsi lì. Tutte le forze disponibili sono al lavoro per effettuare i soccorsi». Così il sindaco di Faenza Massimo Isola dopo la grave inondazione che sta colpendo la città del Ravennate.

Ore 0.30: Senigallia, tranquilla la situazione del fiume

«L'onda di piena sta definitivamente passando sotto ponte Garibaldi, senza destare problemi. Lo stato del fiume al momento è tranquillo». Lo annuncia l'amministrazione comunale di Senigallia, poco dopo la mezzanotte. «Persistono alcuni problemi di smottamenti ed allagamenti provenienti dai terreni collinari - spiega il Comune -. Si invita pertanto la cittadinanza a prestare massima attenzione».

Ore 1.11: a Faenza persone sui tetti delle case in attesa dei soccorsi

È una notte di paura e di soccorsi a Faenza (Ravenna), una delle città più colpite dall'alluvione dopo l'esondazione del Lamone. In città ci sono persone che cercano aiuto dai tetti e sono in corso i soccorsi. In alcune strade l'acqua ha ormai superato i primi piani delle case. In molte zone della città non c'è la corrente elettrica e le linee telefoniche sono intasate. Il Comune ha aperto, nella centrale piazza del Popolo - completamente invasa dall'acqua - il Palazzo del Podestà, una struttura utilizzata solitamente per esposizioni e iniziative culturali, per accogliere le persone che abitano in centro e che sono state costrette a lasciare casa. Tutte le forze disponibili, fa sapere l'amministrazione comunale, sono al lavoro per i soccorsi.

Ore 1.18: il fiume Santerno esonda nel Ravennate

Anche il fiume Santerno è esondato: è successo tra Cà di Lugo e San Lorenzo, nel territorio comunale di Lugo (Ravenna). L'acqua si trova sulla strada provinciale in via Fiumazzo, in destra fiume. Sul posto sono presenti Polizia e Carabinieri. In via precauzionale era stato chiuso il ponte di Cà di Lugo ed erano state evacuate le abitazioni in prossimità e nei luoghi a rischio. Si stanno allestendo i palazzetti PalaSabin e PalaLumagni per accogliere le persone che devono abbandonare le case.

Ore 2.38: appello agli abitanti di Ponte Nuovo: salite ai piani alti

«Si chiede in via precauzionale di portarsi ai piani alti e seguire gli aggiornamenti di protezione civile su comune.ra.it e social del Comune e del sindaco». È il messaggio del Comune Di Ravenna rivolto agli abitanti di Ponte Nuovo. «Solo chi non può andare ai piani alti - si legge - si rechi al centro di accoglienza dell'Itis Baldini - ingresso via Cassino, Ravenna».

Ore 4.55: un morto anche nel Cesenate, dispersa la moglie

A Ronta di Cesena, in via Masiera Seconda, è stato trovato morto un uomo di 70 anni il cui corpo esanime è stato recuperato dai vigili del fuoco. Lo rende noto la prefettura di Forlì-Cesena. Risulta invece dispersa la moglie. Ancora non precisato - si legge sempre nella nota - il numero dei dispersi, sia sul territorio di Forlì che su quello di Cesena.

Ore 6.05: nella notte nuove esondazioni, molte strade chiuse

Nella notte i fiumi hanno continuato a uscire dagli argini e l'acqua invade diverse aree della Romagna. A Bagnacavallo (Ravenna) il Lamone: «La situazione degli allagamenti sta rapidamente peggiorando in buona parte del territorio a seguito della rottura dell'argine a Boncellino e delle criticità sulla rete scolante», avvisa il Comune, spiegando che molte strade non sono percorribili e che si stanno verificando esondazioni anche sul fiume Senio in località Cotignola. Sono stati allestiti punti di accoglienza e la raccomandazione è di rimanere ai piani alti. Allagamenti anche a Castel Bolognese, con il Senio in paese.

Ore 7.15: il punto del sindaco di Cesena «altre ore drammatiche»

Nel Cesenate, a causa delle forti piogge che si stanno abbattendo sul territorio «al momento stanno pervenendo segnalazioni di esondazioni puntuali" dei fiumi Pisciatello a Ponte Pietra e Macerone; Dismano nella zona di Pievesestina e Cesuola nella zona Rio Eremo». È quanto scrive sulla sua pagina Facebook il sindaco di Cesena, Enzo Lattuca. Inoltre, osserva, «continuano gli interventi di evacuazione da parte di Vigili del Fuoco, Protezione Civile, Croce Rossa, sommozzatori e Soccorso alpino richiesti da famiglie interessate dall'allagamento parziale del piano terra della propria abitazione». Rivolgendosi alla cittadinanza, prosegue il primo cittadino cesenate, «ricordo la raccomandazione di tenervi lontani dai corsi d'acqua e abbandonare scantinati e piani terra. Il livello di piena del Savio previsto nelle prossime ore si stima più basso rispetto alla piena di ieri pomeriggio. Nelle prossime 6 ore - conclude - le precipitazioni saranno consistenti, pari a 30 millimetri».

Ore 7.30: a Bologna esonda il Ravone, il Comune «non muovetevi»

Il Comune di Bologna e della Città Metropolitana fa sapere che la «viabilità è compromessa in molte zone della città metropolitana. Invitiamo la popolazione ad effettuare solo spostamenti realmente urgenti». All'alba, a Bologna, come ha fatto sapere il Comune su Telegram, il torrente Ravone è esondato e «in modo rilevante»: poco prima delle 6 è stata annunciata la chiusura della strada. Segnalati anche smottamenti nella zona collinare della città con possibili strade chiuse su vari tratti. È stato quindi chiesto di non uscire di casa nella zona ovest e di limitare al massimo gli spostamenti in città e in area metropolitana. In particolare, poco dopo le 6, è stato raccomandato di salire al primo piano in via Montenero, via del Chiu', via della Ghisiliera e in tutte le vie adiacenti al torrente Ravone per rischio esondazione e di non recarsi nelle cantine e nei negozi. Ai residenti in zona via Felice Battaglia e via del Genio è stato chiesto di salire ai piani alti evitando cantine, garage e negozi.

Ore 7.45: il sindaco di Faenza: «nottata che non dimentcheremo»

«Abbiamo passato una nottata che non potremo mai più dimenticare. Un'alluvione che la storia della nostra città non aveva mai conosciuto. Qualcosa di inimmaginabile». Così il sindaco di Faenza, Massimo Isola. «Centinaia e centinaia di persone al lavoro da tutta la notte, stanno continuando a intervenire nelle aree allagate con un unico obiettivo: mettere in sicurezza tutte le persone ancora in difficoltà. Per questo motivo - aggiunge il primo cittadino - invito chiunque sia a conoscenza di parenti o amici al momento irrintracciabili a segnalarmelo tramite messaggio privato. Vi prego di indicare nome e cognome, indirizzo di residenza, composizione del nucleo familiare, numero di telefono cellulare e ogni altra informazione ritenuta utile. La collaborazione di tutti è fondamentale. Stiamo uniti».

Ore 7.45: le vittime nelle provincia di Forlì e Cesena

Le esondazioni nella serata di ieri a Forlì e Cesena lasciano purtroppo per strada due morti. Il primo in ordine di tempo a Forlì, nel quartiere Romiti che è andato sott'acqua. I vigili del fuoco hanno salvato una donna che chiedeva aiuto da un balcone di via Firenze, ma una volta entrati in casa per fare altrettanto con il marito lo hanno trovato senza vita, annegato. Il secondo a Ronta di Cesena in via Masera Seconda, un 70enne il cui corpo esanime è stato ritrovato dai Vigili del fuoco. Dispersa la moglie e con lei un numero ancora imprecisato di persone.

Ore 7.50: altri dispersi tra Forlì e Cesena

Almeno 4 persone risultano disperse nella provincia di Forlì-Cesena in seguito all'andata di maltempo che da ieri sta interessando il centro-Italia e che vede impegnati circa 600 vigili del fuoco. Secondo quanto si apprende dai soccorritori, una persona sarebbe dispersa a Cesena e tre a Forlì.

Emilia-Romagna, alluvione e maltempo in diretta | nove morti, ancora allagamenti in Romagna. Redazione Online su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2023

Ventuno fiumi tra Bologna e Rimini hanno rotto gli argini o sono esondati. Il governatore Bonaccini: «Ripareremo tutto, l'unica cosa irreparabile sono le nove persone che hanno perso la vita» 

Sempre più drammatico il bilancio dell'ondata di maltempo che ha invaso l'Emilia-Romagna: sono 9 i morti, decine i dispersi, migliaia gli sfollati. Sono 24 i Comuni allagati, tutti i fiumi della regione hanno tracimato. In 36 ore le precipitazioni di 6 mesi. È finita sott'acqua Faenza, una parte di Cesena e di Forlì e molti altri grandi centri abitati. In alcune zone, in pochi minuti l'acqua è salita, raggiungendo anche i primi piani delle case. Sommersi alcuni quartieri di Bologna. Stato d'emergenza anche a Rimini. Fermi i treni. Garantiti i servizi in asl e ospedali con i gruppi elettrogeni. La premier Giorgia Meloni ha assicurato la massima disponibilità ad aiutare le zone colpite. Lo strumento, come ha anticipato il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi arrivato a Bologna per incontrare la protezione civile che stava coordinando i soccorsi, potrebbe essere quello di un decreto legge. Previsto pure lo stop agli obblighi fiscali. «A pochi giorni dall'anniversario del sisma del 2012 - ha detto il presidente della Regione Stefano Bonaccini - questo, per noi, è come se fosse un nuovo terremoto». La segretaria del Pd Elly Schlein: bene stop ai tributi ma servono altre risorse. Piantedosi: «Priorità è salvare vite». Impegnati 700 vigili del fuoco, mobilitato il Battaglione San Marco. 

Ore 7.12: ancora allagamenti in Romagna

Nella notte nuovi allagamenti in Romagna, in particolare nella zona di Ravenna. La frattura fra Reda e Fossolo ha sovraccaricato il Canale emiliano-romagnolo e tutta la rete secondaria dei canali consortili, con l'acqua che ha invaso parti significative delle campagne: allagamenti a Russi, Godo, San Pancrazio e Villanova di Ravenna. Durante la notte il Comune di Ravenna è intervenuto, con il supporto della Polizia locale, informando i cittadini di Villanova, invitandoli ad andare ai piani alti, offrendo a chi fosse impossibilitato il primo piano della sede del centro civico o la sistemazione al Cinemacity. Evacuazioni in corso ancora anche a Castel Bolognese, sempre provincia di Ravenna, dove si è registrato un problema di assenza di acqua potabile. Il Comune ha distribuito l'acqua dove ha potuto e al palazzetto dello sport è arrivata un'autobotte.

Ore 7.22: ordine di evacuazione per aree in provincia di Ravenna

Ordine di evacuazione immediata a persone e aziende di ,Villanova di Ravenna Filetto e Roncalceci, per rischio di allagamenti provocati dalla rottura del Lamone tra Reda e Fossolo. Il Comune di Ravenna segnala alle persone che non possono andare da amici e parenti l'area di accoglienza allestita al Cinema City al Museo Classis di Classe. «Si sta procedendo ad inviare dei pullman nelle frazioni interessate. Passare parola. Limitare al massimo gli spostamenti», comunica l'amministrazione.

Terreni secchi, disboscamento, troppe case vicino agli alvei. Gli esperti: la pioggia record è stata uno choc. Giulia Arnaldi e Alessandro Fulloni su Il Corriere della Sera il 17 Maggio 2023

Sono 21 i corsi d’acqua tracimati e oltre 35 i Comuni invasi dall’acqua. Il geologo del Cnr: «Hanno ceduto i fiumi piccoli che risentono maggiormente delle precipitazioni intense ma di breve durata, non hanno attutito il colpo»

Erano 21 i corsi d’acqua esondati alla mezzanotte di ieri, devastando circa 35 Comuni. Le criticità di alcuni tra questi fiumiciattoli e torrentelli che stanno mettendo in ginocchio la Romagna erano state già elencate in un dossier del Wwf, presentato poco prima della pandemia. Ecco il Lamone, per esempio, il caso che forse meglio descrive il disastro in corso. In quindici giorni è esondato due volte, sommergendo mezza Faenza: la prima è stata nella notte tra il 2 e il 3 maggio. Per i tecnici era un problema di «sormonto»: vale a dire che con l’alveo troppo pieno, l’acqua, all’altezza della vicina Bagnacavallo poco più a monte, era andata sopra l’argine — innalzato un secolo fa tenendo conto delle piene di allora, mai più viste sino a questo maggio — sbriciolandolo progressivamente.

Con lavori senza sosta, dopo cinque giorni il punto devastato era stato risistemato. Ma martedì, stavolta nel centro cittadino, l’opera di difesa — adeguata nella scorsa estate — è stata nuovamente «sormontata»: case, attività commerciali, le coltivazioni vicine sono state di nuovo inondate.

Ora Andrea Agapito, biologo, responsabile del settore «Acque» del Wwf e curatore del dossier, dice che «la vicenda del Lamone spiega bene ciò che sta accadendo in Romagna: lungo il suo corso sono progressivamente spariti, e lo denunciammo già nel 2007, i “boschi ripariali”, quella vegetazione golenale che ha un decisivo “effetto spugna”: frena l’acqua straripata, l’assorbe e la restituisce in tempi di siccità».

Se adesso queste difese naturali non ci sono più è perché «stiamo sempre più irreggimentando i fiumi, gli alvei sono stati canalizzati, le aree di esondazione naturale sono state occupate da abitati e coltivazioni».

Poi c’è un’altra questione: quelli esondati — tipo l’Idice, 78 chilometri di lunghezza, o il Sillaro, 66 — sono tutti fiumiciattoli piccoli e «la loro modesta portata, in un suolo già saturo per l’alluvione di inizio maggio — spiega Mauro Rossi, geologo dell’Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr — si è di colpo ingrossata per via delle precipitazioni intense delle ultime 48 ore».

Difficile dire se una maggiore presenza di bacini di laminazione — i «parcheggi temporanei» delle acque che straripano — avrebbe risparmiato l’alluvione alla Romagna. Sono «difese che non si possono costruire da tutte le parti, perché stravolgerebbero la realtà di questi piccoli centri. Se da un lato possono essere la soluzione dei problemi, dall’altro ne creerebbero altri, dalla modifica del paesaggio a un problema di evaporazione che può danneggiare le coltivazioni in caso di siccità. Va detto anche che il territorio tra colline e pianura è costituito da materiale che accetta poca acqua e dunque il riassorbimento è minimo».

Tutto va inquadrato in uno scenario che vede «una frequenza sempre maggiore di eventi estremi — riassume il presidente del Consiglio nazionale dei geologi Francesco Violo — che impatta in un territorio urbanizzato negli ultimi anni in maniera molto intensiva, con alte percentuali di consumo di suolo». «Bombe d’acqua» e piogge prolungate «amplificano le difficoltà anche in questa parte dell’Italia dove la manutenzione si fa». Semmai «i parametri dei calcoli idraulici svolti nel passato per le opere di difesa non sono più idonei». La soluzione? «Aggiornare il modo di progettare, adattarsi alle condizioni nuove, con piani per interventi strutturali e con presidi territoriali in grado di monitorare il territorio intervenendo con tempestività».

Maltempo Emilia Romagna, 9 morti, 10mila evacuati. Crollato un ponte. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 17 Maggio 2023

48 i comuni coinvolti dalle frane, 21 i fiumi e corsi d'acqua esondati. Bonaccini: "Infrastrutture quasi spazzate via". Musumeci: "50mila senza elettricità" Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si è recato in l’Emilia Romagna a bordo di un elicottero dei vigili del fuoco, sorvolando le zone più colpite dall’ondata di maltempo. Il premier Meloni convoca il Cdm su nuove misure. 48 i comuni coinvolti dalle frane, 21 i fiumi e corsi d'acqua esondati. Bonaccini: "Infrastrutture quasi spazzate via". Musumeci: "50mila senza elettricità"

di Alessandra Monti

Sono nove le vittime del maltempo in Emilia Romagna. In tarda mattinata sono stati ritrovati, dai sommozzatori dei carabinieri, i due corpi senza vita di un uomo e una donna, in via Padulli nel quartiere Cava a Forlì. Come fa sapere la prefettura le due vittime erano tra i dispersi segnalati nelle scorse ore.

Un uomo di circa 70 anni è stato recuperato stamattina presto senza vita dai vigili del fuoco a Ronta di Cesena, in via Masiera. La moglie risulta ancora dispersa. Già nella notte si era registrata a Forlì un’altra vittima del maltempo. Durante le operazioni di salvataggio di una famiglia, in via Firenze nel quartiere Romiti, colpito dall’esondazione del fiume Montone i carabinieri del Comando provinciale di Forli-Cesena hanno salvato una donna che chiedeva aiuto dal balcone dell’abitazione. I militari hanno poi fatto ingresso nell’edificio per mettere in salvo anche il marito, ma l’uomo era già privo di vita nel piano sottostante dell’abitazione allagato. 

Una vittima del maltempo anche in provincia di Ravenna. Tra Solarolo e Castel Bolognese è stata individuata una macchina sommersa dall’acqua. All’interno è stato avvistato un corpo ma l’auto non è ancora stata raggiunta. Lo ha confermato il prefetto di Ravenna Castrese De Rosa.

Un’altra vittima dell’alluvione, che ha colpito l’Emilia Romagna, si registra a Cesenatico. Il corpo, a quanto si apprende, è stato trovato sulla spiaggia, probabilmente portato dal mare. Dalle prime informazioni, si tratterebbe di una persona di origine tedesca. Lo stesso sindaco di Cesenatico, Matteo Gozzoli, in una diretta Facebook, ha sottolineato che il cadavere è stato trovato in spiaggia,”non sappiamo ancora le motivazioni, ci sono le indagini delle forze dell’ordine”. 

“Sono circa 5mila le persone evacuate“. Ad affermarlo Nello Musumeci, ministro per la Protezione Civile e le Politiche del mare, parlando a ‘24 Mattino‘ su ‘Radio 24‘ dell’emergenza maltempo aggiungendo che potrebbero essere anche di più. Molte persone sono state evacuate “essenzialmente per precauzione – ha continuato – altre perché le loro case erano state o stavano per essere invase dall’acqua“.

In Emilia Romagna “la situazione è drammatica perché i Comuni investiti sono oltre 30, si stima almeno 35, il mare purtroppo non riceve anzi spinge; c’è un’esondazione violenta e continua a piovere. La prima emergenza in questo momento è salvare vite umane poi dovremo fare una valutazione dei danni”. Così il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto. 

“La situazione è apocalittica, speriamo di salvare le persone. Abbiamo acqua dappertutto, fiumi che hanno rotto argini, comuni inondati, è indescrivibile. La zona dove la situazione è più critica è quella di Faenza e tutta la bassa Romagna, Sant’Agata, Castel Bolognese, Solarolo, ma tutti i 18 Comuni della provincia sono inondati dall’acqua. Molti sono senza energia elettrica. Abbiamo tante persone ai piani alti o sui tetti che sono in attesa di essere salvate. Tante sono state già salvate”, ha dichiarato il prefetto di Ravenna Castrese De Rosa all’ agenzia Adnkronos facendo un punto sulla situazione nella provincia dopo l’ondata di maltempo delle ultime ore. “La situazione è critica ma i soccorsi sono arrivati da tutte le parti, i vigili del fuoco sono al lavoro – aggiunge – ora dobbiamo solo salvare le persone“.

“Interi quartieri sono sott’acqua: Romiti, Schiavonia, San Benedetto, Roncadello, Cava, centinaia di vie allagate – ha scritto in un post su Facebook il sindaco di Forlì Gian Luca Zattini – Migliaia di segnalazioni di soccorso. Chiuso il casello autostradale, la tangenziale, il ponte di Schiavonia e quello del Ronco. Interruzioni diffuse di corrente. La città è in ginocchio, devastata e dolorante. E’ la fine del mondo”.

“La situazione è molto critica, chiedo a tutti la massima collaborazione e di evitare di camminare lungo i torrenti”, ha affermato su Facebook il sindaco di Cesenatico Matteo Gozzoli. Il primo cittadino ha spiegato che “c’è stata una piena importante del Pisciatello, è stata disposta l’evacuazione volontaria delle case lungo il Pisciatello ed è stato individuato il polo scolastico Villa Marini come punto di raccolta delle famiglie“. 

“Prestate la massima attenzione”, sottolinea, in un post su Fb, Enzo Lattuca, sindaco di Cesena, aggiornando sulla situazione maltempo e avvisando che è probabile una nuova esondazione del fiume Savio. L’avviso alla cittadinanza è dunque di allontanarsi dagli argini e abbandonare i piani terra e gli scantinati.

“Nella zona ovest di Bologna chiediamo alla popolazione di non uscire di casa se non per casi di necessità“, sottolinea, in un post su Fb, il Comune di Bologna invitando la popolazione “a limitare al massimo gli spostamenti in città e in area metropolitana” e avvertendo di “smottamenti nella zona collinare della città con possibili strade chiuse su vari tratti”. Il Comune avvisa anche del “Torrente Ravone esondato in via Saffi e la strada chiusa”. Invita a salire ai piani alti in: via Montenero, via del Chiu’, via della Ghisiliera, in tutte le vie adiacenti al torrente Ravone per rischio esondazione e nella zona via Felice Battaglia e via del Genio.

A Molinella (Bologna) ha ceduto il ponte della Motta. “Data la caduta del ponte della Motta – fa sapere il Comune di Molinella – il sindaco sta predisponendo l’evacuazione immediata della frazione di San Martino in Argine. Il palazzetto dello Sport di Molinella, in viale della Libertà 21, è stato predisposto per l’accoglienza per le persone che non hanno sistemazioni alternative”. 

La situazione maltempo in Emilia Romagna è drammatica, fa sapere la Regione. Quattordici i fiumi esondati in più punti. “L’emergenza è tuttora nel pieno e la priorità è mettere in sicurezza tutta la popolazione coinvolta: è necessario seguire le indicazioni di autorità e sindaci, attivi già da ieri per evacuare le persone in pericolo. In crescita la stima degli evacuati, le operazioni sono in corso. Solo nelle prossime ore si potrà avere un quadro completo di danni e conseguenze. E del numero di persone evacuate”, spiega la Regione Emilia Romagna.

“La situazione continua a essere grave “, ha affermato, a SkyTg24, dal canto suo anche il vice capo Dipartimento della Protezione civile Titti Postiglione sottolineando che “le precipitazioni sono ancora in corso, dureranno diverse ore, continueranno a crescere i fiumi e registreremo ancora movimenti franosi“.

“La immediata evacuazione preventiva delle persone che occupano immobili al piano terra, nei pressi di qualunque fiume, è la prima cosa da fare”. E’ il messaggio del ministro per la Protezione civile Nello Musumeci, in relazione in particolare alla situazione dell’Emilia Romagna. 

Sono 800 i vigili del fuoco al lavoro con 270 automezzi. In Emilia Romagna 600 vigili del fuoco sono impegnati nelle operazioni di soccorso con 200 automezzi, tra cui quattro mezzi anfibi e due elicotteri. Sono 450 gli interventi effettuati finora. Il Centro operativo nazionale dei vigili del fuoco, la regia di ogni emergenza nazionale, ha disposto l’invio in Emilia Romagna, in rinforzo al dispositivo locale, di 440 vigili del fuoco provenienti da Abruzzo, Liguria, Lombardia, Piemonte, Campania, Veneto, Calabria, Puglia, Basilicata, Molise, Umbria e Friuli Venezia Giulia. Nelle Marche 200 vigili del fuoco sono impegnati nelle operazioni di soccorso con 70 automezzi, più di 200 gli interventi svolti nelle ultime ventiquattr’ore. In supporto al dispositivo di soccorso locale sono stati inviati rinforzi in assetto alluvionale da Lazio e Toscana.

Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi è in partenza per l’Emilia Romagna. Il ministro, a bordo di un elicottero dei vigili del fuoco, sorvolerà le zone più colpite dall’ondata di maltempo. Subito dopo andrà al centro operativo regionale della protezione civile dell’Emilia Romagna e in prefettura a Bologna.

Toscana, Alto Mugello

In Alto Mugello, a causa del maltempo, alcune frazioni e centri abitati, per complessivi 500 abitanti, sono isolati sul versante romagnolo: Coniale, Bordignano, Piancaldoli (parzialmente raggiungibile, dove è stato operato un soccorso sanitario), Abeto e Lutirano. Lo riferisce la Città Metropolitana di Firenze. “Si tengono in ogni caso i contatti con la popolazione“, si fa sapere.

La viabilità è pesantemente interferita e alcune frane non sono nell’immediato ripristinabili. In azione gli operatori della Protezione civile e della Viabilità della Città Metropolitana di Firenze. 

Frane, località isolate e linea ferroviaria sospesa tra Borgo San Lorenzo (Firenze) e Faenza. “A seguito delle abbondanti precipitazioni che si stanno verificando nei comuni dell’Alto Mugello (207 mm di pioggia caduti nelle ultime 36 ore in loc Monte Faggiola) – evidenzia il bollettino – si registrano numerose frane che stanno comportando la chiusura di strade e l’isolamento di diversi centri abitati nei territori comunali di Firenzuola, Palazzuolo sul Senio e Marradi. In questi comuni è stata disposta dai sindaci la chiusura delle scuole”.

“Le principali viabilità interrotte sono la Sp 610 Montanara Imolese (Firenzuola), Sp 58 Piancaldoli (Firenzuola), la Sp 306 Casolana Riolese (Palazzuolo sul Senio), la Sp 29 Traversa di Lutirano (Marradi) e la Sp 20 Modiglianese (Marradi). Visto il rischio evolutivo si consiglia di evitare gli spostamenti nei comuni dell’Alto Mugello. La circolazione sulla linea ferroviaria Borgo San Lorenzo – Faenza è stata sospesa”. 

Dario Nardella, sindaco della Città Metropolitana di Firenze, scrive su Facebook: “Stiamo seguendo con attenzione la situazione dei comuni dell’Alto Mugello. Marradi, Firenzuola, Palazzuolo sul Senio sono isolati sul versante romagnolo per le frane. Si possono raggiungere solo da Firenze. Ho sentito il sindaco di Marradi per monitorare il problema delle frazioni isolate. La protezione civile della città metropolitana è allertata dall’inizio dell’emergenza. Previste ancora piogge per le prossime ore. Fare massima attenzione alla viabilità e alla segnaletica stradale in queste zone e tenersi costantemente informati tramite i canali della protezione civile e della Città metropolitana“. Redazione CdG 1947

Alluvione in Emilia Romagna: sale a 14 il numero delle vittime. Sale a 14 il conto delle vittime della catastrofica alluvione che sta colpendo l'Emilia Romagna in queste ore. Jacopo Romeo su Notizie.it il 18 Maggio 2023

L’Emilia Romagna è in ginocchio a causa dell’incredibile quantità di acqua che sta cadendo dal cielo sui suoi territori in queste ore. In totale sono esondati 21 fiumi, le strade e le case di diverse province sono totalmente allagate. Il bollettino preoccupa: almeno 9 morti accertate.

Sale a 14 il terribile bilancio delle vittime dell’alluvione in Emilia Romagna. Tra la nottata e la giornata di ieri, i vigili del fuoco e gli uomini della protezione civile hanno attestato la scomparsa di nove uomini e donne tra il Cesenatico e Forlì. Il cadavere di una donna di Ronta di Cesena è stato trascinato dalle acque del fiume Savio per 20 chilometri, fino alla spiaggia di Cesenatico, dove è stato trovato dai vigili del fuoco. Tutte le vittime sono persone che non sono riuscite a mettersi in salvo dalla propria casa improvvisamente allagata o che sono rimaste intrappolate all’interno della loro automobile.

Nel frattempo, cresce anche il numero degli sfollati: secondo le informazioni che arrivano sembra che la cifra delle persone che hanno dovuto abbandonare la propria abitazione sia cresciuto fino a circa 20 mila. I 600 vigili del fuoco, 300 dei quali sono arrivati in aiuto da altre regioni, hanno finora garantito più di 500 interventi con l’impiego di tantissimi mezzi.

Estratto dell’articolo di Marco Bettazzi per “la Repubblica” il 18 maggio 2023.

[…] Vittorio Tozzi, 75 anni, la prima vittima accertata dell’alluvione che ha colpito l’Emilia-Romagna, era un suo vicino di casa. Le vittime fino a questo momento sono nove, di cui una incerta perché sarebbe un anziano morto già martedì per un malore nella zona Ponte Vecchio di Cesena e arrivato in ospedale. 

Gli altri invece sono stati trascinati per chilometri dalla forza dell’acqua, sono morti nella loro auto e devono essere ancora identificati, oppure sono stati ritrovati nelle loro case o nei loro giardini.

Palma Maraldi, che tutti chiamavano Marinella, è stata ritrovata a una ventina di chilometri di distanza dalla casa di Ronta, una frazione di Cesena, dove col marito Sauro Manuzzi, 70 anni, gestiva un’azienda agricola. Si occupavano di erbe officinali ed erano usciti di casa per un ultimo controllo, quando sono stati travolti dalla piena del fiume Savio. Lui è stato ritrovato vivo, ma è morto attorno alle 23 di martedì sera.

Lei invece è stata ritrovata sulla spiaggia di Zadina, a Cesenatico. Era stata la figlia a segnalare che entrambi i genitori erano in difficoltà, come ha raccontato la Prefettura di Forlì-Cesena. […]

Salgono a 13 le vittime causate dall’ alluvione in Emilia Romagna. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Maggio 2023

Nelle zone colpite sono stati 10mila gli sfollati e 34mila senza elettricità. Prorogata l'allerta rossa. Lunghe code sull'A1 per uno smottamento a Sasso Marconi. Sono 280 le frane e 400 le strade danneggiate. Papa Francesco: "Impressionante disastro". Le previsioni meteo: breve tregua, ma nel weekend torna la pioggia. L'esperto: "Incolpare il cambiamento climatico non ci assolve"

L’Emilia Romagna è devastata delle alluvioni che hanno sfigurato città e piccoli comuni, ora si temono nuovi smottamenti e frane. È di 5 morti e un disperso il bilancio di deceduti nel Ravennate, rinvenuti tra ieri e oggi nella zone alluvionate. Gli ultimi due oggi a Russi, una coppia di due agricoltori di 73 e 71 anni, marito e moglie, trovati senza vita nel loro appartamento completamente invaso dalle acque. Sarebbero stati schiacciati da un frigorifero che cercavano di spostare. Con le 8 vittime comunicate ieri dalla Regione, il bilancio sale quindi a 13.

Prosegue la corsa contro il tempo per soccorrere le persone rimaste intrappolate e mettere in sicurezza i paesi, le città e le strade inondate dalla piena dei fiumi. Al tempo stesso inizia la conta dei danni (enormi) con tante aziende rimaste sott’acqua, mentre permangono forti disagi per la circolazione, con numerosi treni deviati e cancellati. 

Il bilancio è drammatico: 10mila gli sfollati, non ancora definito il numero di eventuali dispersi, 42 i comuni coinvolti, 27mila persone prive di energia elettrica, 250 strade chiuse. “Un’emergenza che ci fa ricordare giustamente il terremoto: l’impegno del governo, fissando anche il consiglio dei ministri martedì, è anche per renderci conto degli impegni che prenderemo: il presidente ha già indicato i primi interventi anche di ordine finanziario ma credo che tutti si rendano conto della necessità di avere il controllo di quella che è l’emergenza, che va valutata comune per comune”, ha detto il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin facendo il punto a Bologna sull’emergenza maltempo. 

Musumeci: “20 milioni in più per prime spese”

Il ministro della Protezione civile, Nello Musumeci ha annunciato che ci saranno in più “20 milioni di euro per affrontare le prime spese. Il grosso delle risorse arriverà quando avremo una quadro dettagliato” aggiungendo “Dobbiamo convivere con il cambiamento climatico e chiederci quando accadrà“, puntando sulla prevenzione. Il cambiamento “impone all’uomo di adattarsi“.

18.500 utenti ancora senza elettricità

Nonostante le operazioni di ripristino siano tuttora rallentate dalle condizioni impervie e di difficile viabilità, i 700 tecnici Enel, tra personale interno e quello di imprese terze, messe in campo dall’Azienda E-distribuzione hanno riattivato la fornitura elettrica di oltre la metà dei 50.000 utenti disalimentati, registrati nella mattina di ieri. Alle ore 18:30 di oggi risultavano 18.500 clienti privi di energia elettrica

Settemila le richieste d’aiuto al 112, 1.500 gli uomini impegnati nelle attività’ di soccorso, 3000 gli interventi eseguiti. L’alluvione ha devastato intere città. Sono stati 23 i fiumi esondati e 280 le frane. Zolle di terra e alberi che cadono come birilli sulla strada, persone rifugiate sul tetto, anziani e bambini messi in salvo con i gommoni, strade trasformate in paludi. Gli alberi secolari lasciano solo un ciuffo verde visibile alle telecamere. La case sembrano barche rosse in mezzo alla melma. Immagini che hanno fatto il giro del mondo. La realtà ha superato le peggiori previsioni: in alcune zone è caduta in 36 ore più pioggia della media dell’intero mese di maggio.  

Sommerse dall’ acqua Faenza, Cesena, Forlì, Lugo, Cervia, alcune zone del Ravennate oltre a comuni più piccoli e anche i portici della centrale via Saffi a Bologna sono stati inondati. Black out elettrici, linee telefoniche fuori uso, treni in tilt: l’angoscia alimentata dall’isolamento di intere aree. La Romagna è sommersa, annaspa ma si aggrappa a ogni ancora (1200 volontari, gommoni, elicotteri, 600 vigili del fuoco) per non affondare. Stivali di gomma, pantaloni al ginocchio e secchi in mano. Via l’acqua adesso come fu 11 anni fa per le macerie per una terra che vuole rialzarsi a ogni costo. 

La Ferrari dona un milione di euro

Ferrari dona un milione di euro a favore dell’Agenzia per la sicurezza territoriale e la Protezione Civile della Regione Emilia-Romagna, aderendo alla raccolta fondi regionale. I fondi saranno impiegati, con il coordinamento degli Enti territoriali, a favore della popolazione locale colpita in questi giorni dall’alluvione, con una particolare attenzione ai progetti di recupero ambientale e per la gestione del dissesto idrogeologico.

“Nei momenti di difficoltà il posto di Ferrari è sempre stato accanto alla propria comunità”, ha dichiarato Benedetto Vigna, CEO di Ferrari. “Abbiamo voluto dare una risposta concreta e immediata ai bisogni più urgenti della popolazione dell’Emilia-Romagna, provata da un grave disastro ambientale. Con il coordinamento delle Autorità locali, a cui va il nostro sentito ringraziamento per il loro instancabile lavoro in queste ore, questi aiuti potranno portare conforto e un segno tangibile della solidarietà di tutta la famiglia Ferrari“. 

Papa: “partecipazione al dramma di questo disastro“

Papa Francesco ha espresso “i suoi sentimenti di viva partecipazione per l’impressionante disastro che ha colpito l’Emilia Romagna”. In un telegramma di cordoglio per le vittime del violento nubifragio, inviato – a nome del Santo Padre – dal Sostituto per gli Affari Generali, monsignor Edgar Pena Parra, al cardinale Matteo Maria Zuppi, arcivescovo Metropolita di Bologna e presidente della Conferenza Episcopale Italiana, il Pontefice “assicura fervide preghiere di suffragio per i defunti esprimendo cordoglio ai familiari”, “invoca da Dio conforto per i feriti e consolazione per quanti soffrono conseguenze per la grave calamita‘”.

Il Santo Padre ringrazia inoltre “tutti coloro che in queste ore di particolare difficoltà si stanno adoperando per portare soccorso e alleviare ogni sofferenza, come pure le comunità diocesane per la manifestazione di comunione e fraterna vicinanza alle popolazioni più provate“.  

A Ravenna allerta rossa dalla mezzanotte per 24 ore

Dalla mezzanotte di oggi per 24 ore, sarà attiva nel territorio del comune di Ravenna l’allerta meteo numero 64 emessa dall’Agenzia regionale di protezione civile e da Arpae Emilia-Romagna. L’allerta è rossa per criticità idraulica e arancione per criticità idrogeologica. Per la giornata di domani si prevede la propagazione delle piene già in atto nei tratti vallivi di tutti i corsi d’acqua del settore centro-orientale della regione, con occupazione delle golene e interessamento degli argini, in progressiva decrescita. 

La Guardia di Finanza partecipa ai soccorsi nei confronti delle popolazioni colpite dell’alluvione che ha

interessato l’Emilia Romagna. L’AW139 con equipaggio e Aerosoccorritori del Centro di Aviazione ha tratto in salvo 10 persone, tra cui un giovane in località Russi (RA) e 9 tra Forlì e Faenza in località Crociaro.

Torna percorribile tutta A14 in Emilia-Romagna

È stato riaperto anche l’ultimo tratto dell’autostrada A14. Grazie al lavoro ininterrotto della task force messa in campo da Autostrade per l’Italia è stato possibile ripristinare la circolazione nel tratto compreso tra il bivio con la Diramazione per Ravenna e Cesena Nord dove il traffico al momento transita su una corsia per senso di marcia in entrambe le direzioni.

Ancora treni e deviati e cancellati

Il 19 maggio proseguono per l’intera giornata la riduzione del numero di corse, le deviazioni e i rallentamenti per i treni Alta Velocità, Intercity e Regionali che percorrono la linea AV e la linea convenzionale fra Firenze e Bologna. Rallentamenti e cancellazioni si ripercuoteranno tuttavia su tutta la circolazione lungo la dorsale nord-sud, sull’asse Milano-Roma e Venezia-Roma. 

È ripresa la circolazione fra Bologna e Imola per il trasporto regionale, nelle prossime ore sarà riattivata anche la circolazione tra Imola e Faenza. Resta sospesa sulla direttrice Adriatica tra Faenza e Rimini e sulle linee Bologna-Ravenna, Ferrara-Ravenna-Rimini, Faenza-Ravenna, Faenza-Marradi.

Alcuni treni a lunga percorrenza da e per la Puglia seguiranno il percorso via Bologna-Firenze-Roma-Caserta-Foggia con un aumento dei tempi di percorrenza. È assicurata la circolazione degli treni Intercity notte, seppur con deviazioni di percorso che possono provocare maggiori tempi di viaggio fino a tre ore.

Redazione CdG 1947

«Ho freddo, vedo i mobili che girano per casa»: morire al telefono con la vicina per l’alluvione in Emilia-Romagna. Fabrizio Caccia su Il Corriere della Sera il 19 Maggio 2023

Ieri altri cinque senza vita. Dall’ex barbiere malato al pensionato che non voleva lasciare casa: voci e storie. 

Fino all’ultimo la vicina, Marina Giacometti, ha cercato di convincerlo a scappare, a lasciare la sua casa al piano terra di via Marzari, mentre lei si era già rifugiata dalla figlia Martina, su al primo piano. Ma il signor Giovanni Pavani, 75 anni, di Castel Bolognese, è stato irremovibile: «A questa casa ci sono affezionato, Marina, ho messo i sacchi di sabbia alle finestre, vedrai che basteranno. Non mi muovo di qui».

È morto al telefono con lei, la notte tra martedì e mercoledì, il signor Gianni. Quarantasette minuti di conversazione fino a quando la piena del Senio è arrivata e non gli ha dato scampo. Gli ultimi istanti, al telefono con la vicina, sono stati terribili: «Ho freddo, tanto freddo — ripeteva Gianni — L’acqua è entrata e sta salendo, vedo i mobili che girano per casa». L’ultima cosa che lei gli ha detto è stata: «Mettiti in piedi sul tavolo, intanto io chiamo i soccorsi, dai che ce la facciamo...». Ma poi la linea è caduta e il telefono è rimasto muto. Allora Marina ha capito. La mattina dopo il corpo del signor Pavani, pensionato, una vita passata a lavorare in una ditta imolese di mobili per ufficio, è stato ritrovato sotto due metri d’acqua.

Una morte orribile, come quella del signor Giovanni Sella, 89 anni, a Sant’Agata sul Santerno, sempre nel Ravennate. Lui per 50 anni è stato il barbiere del paese, ma poi tutto precipitò con la morte prematura del figlio Giorgio, malato di leucemia. Da quel momento, il signor Sella ha lasciato il lavoro e si è ammalato gravemente anche lui. L’altra notte, quando il Santerno è esondato, l’ex barbiere era a letto e non si poteva muovere, così la moglie, anche lei anziana, ha cercato disperatamente di sollevarlo per portarlo via da lì. Impossibile. Allora la donna ha chiamato i soccorsi, è salita al primo piano e quando è arrivato l’elicottero dei vigili del fuoco si è sbracciata per attirare l’attenzione. Quelli, con una manovra perfetta, l’hanno fatta uscire dalla finestra e lei subito ha detto ai pompieri che giù al piano terra c’era anche suo marito, ma ormai l’acqua del fiume aveva allagato tutto. Il corpo è stato recuperato il giorno dopo.

Cinque le nuove vittime comunicate ieri dalla Prefettura di Ravenna. Anche una coppia di coltivatori del comune di Russi: Delio e Dorotea Foschini, 73 e 71 anni, con un allevamento di quasi 3 mila maiali, che hanno perso la vita mercoledì sera dopo l’esondazione del fiume Lamone. Erano scesi nella cantina già allagata della loro abitazione per portare via della carne da un frigorifero, forse pensando di procurarsi così una scorta di viveri, in previsione di un isolamento forzato. Il medico legale ieri ha rinvenuto sui loro cadaveri tracce di folgorazione, dovute evidentemente al contatto dell’acqua con la presa del freezer. La potente scossa elettrica deve averli fatti svenire e l’acqua del fiume alla fine li ha sommersi. A dare l’allarme nel cuore della notte era stato il figlio Andrea, sulla pagina facebook del Comune: «Abbiamo i genitori isolati, il loro cellulare squilla dalle 19, ma non rispondono. Già chiesto intervento a vigili del fuoco e carabinieri, ma sono passate quasi 3 ore...».

La quinta vittima, in via di identificazione, sarebbe una signora di 95 anni con problemi di deambulazione che viveva da sola al piano terra di una casa a Sant’Agata sul Santerno. Purtroppo non si è fatto in tempo a salvarla. Il bilancio della giornata conta infine un disperso a Boncellino, frazione di Bagnacavallo e un altro allarme da Lugo, dove non si trova più un 70enne di origini magrebine, forse rimasto intrappolato anche lui dentro casa. La speranza però è che vada a finire come a Solarolo: nella macchina sprofondata nel fango, infatti, il proprietario, dato per morto due giorni fa, è stato trovato vivo e ieri lo ha potuto raccontare: «Ero andato in campagna per salvare i miei tre cani, due sono morti ma uno ce l’ha fatta».

Alluvione Emilia Romagna, allagate anche Cervia e Lugo. Trovata la quattordicesima vittima. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Maggio 2023   

L'Emilia Romagna è devastata delle alluvioni che hanno sfigurato città e piccoli comuni, ora si temono nuovi smottamenti e frane. Si aggrava il bilancio delle vittime dell'alluvione. I numeri parlano inoltre di 280 frane, 400 strade danneggiate, oltre 15 mila evacuati e 27 mila senza elettricità.

Si aggrava il bilancio delle vittime: al momento sono 14 con il ritrovamento di un uomo di 84 anni ritrovato poco fa senza vita nel fango nel cortile di casa a Faenza, in zona stazione: la notizia è stata data da Stefano Bonaccini presidente della Regione Emilia Romagna in una diretta televisiva su “Mattino 5″.  La quinta vittima, in via di identificazione, sarebbe una signora di 95 anni con problemi di deambulazione che viveva da sola al piano terra di una casa a Sant’Agata sul Santerno. Purtroppo non si è fatto in tempo a salvarla

Al  quarto giorno dell’alluvione che ha colpito la regione è ancora allerta meteo: torna la pioggia. Ieri sono state comunicate dalla Prefettura di Ravenna altre cinque persone decedute. Anche una coppia di coltivatori del comune di Russi: Delio e Dorotea Foschini, 73 e 71 anni, con un allevamento di quasi 3 mila maiali, che hanno perso la vita mercoledì sera dopo l’esondazione del fiume Lamone.

Erano scesi nella cantina già allagata della loro abitazione per portare via della carne da un frigorifero, forse pensando di procurarsi così una scorta di viveri, in previsione di un isolamento forzato. Il medico legale ieri ha rinvenuto sui loro cadaveri tracce di folgorazione, dovute evidentemente al contatto dell’acqua con la presa del freezer. La potente scossa elettrica deve averli fatti svenire e l’acqua del fiume alla fine li ha sommersi. A dare l’allarme nel cuore della notte era stato il figlio Andrea, sulla pagina Facebook del Comune: “Abbiamo i genitori isolati, il loro cellulare squilla dalle 19, ma non rispondono. Già chiesto intervento a vigili del fuoco e carabinieri, ma sono passate quasi 3 ore…“. 

Fino all’ultimo una sua vicina di casa, Marina Giacometti, ha cercato di convincerlo a scappare, a lasciare la sua casa al piano terra di via Marzari, mentre lei si era già rifugiata dalla figlia Martina, su al primo piano. Ma il signor Giovanni Pavani, 75 anni, di Castel Bolognese, è stato irremovibile: “A questa casa ci sono affezionato, Marina, ho messo i sacchi di sabbia alle finestre, vedrai che basteranno. Non mi muovo di qui“. È morto al telefono con lei, la notte tra martedì e mercoledì, dopo 47′ minuti di conversazione fino a quando la piena del Senio è arrivata e non gli ha dato scampo. Gli ultimi istanti, al telefono con la vicina, sono stati terribili: “Ho freddo, tanto freddo — ripeteva — L’acqua è entrata e sta salendo, vedo i mobili che girano per casa”. L’ultima cosa che lei gli ha detto è stata: “Mettiti in piedi sul tavolo, intanto io chiamo i soccorsi, dai che ce la facciamo…“. Poco dopo la linea è caduta e il telefono è rimasto muto. Allora la signora Giacometti ha capito. La mattina dopo il corpo del signor Pavani, pensionato, una vita passata a lavorare in una ditta imolese di mobili per ufficio, è stato ritrovato sotto due metri d’acqua, morto per non aver voluto lasciare la sua casa amata.

Al tempo stesso prosegue la corsa contro il tempo per soccorrere le persone rimaste intrappolate e mettere in sicurezza i paesi, le città e le strade inondate dalla piena dei fiumi. Inizia la conta dei danni enormi con tante aziende rimaste sott’acqua, mentre permangono forti disagi per la circolazione, con numerosi treni deviati e cancellati. 

Settemila le richieste d’aiuto al 112, 1.500 gli uomini impegnati nelle attività’ di soccorso, 3.000 gli interventi eseguiti. L’alluvione ha devastato intere città. Sono stati 23 i fiumi esondati e 280 le frane. Zolle di terra e alberi che cadono come birilli sulla strada, persone rifugiate sul tetto, anziani e bambini messi in salvo con i gommoni, strade trasformate in paludi. Gli alberi secolari lasciano solo un ciuffo verde visibile alle telecamere. La case sembrano barche rosse in mezzo alla melma. Immagini che hanno fatto il giro del mondo. La realtà ha superato le peggiori previsioni: in alcune zone è caduta in 36 ore più pioggia della media dell’intero mese di maggio. 

Nuove evacuazioni nella notte a Ravenna. “Evacuazione delle abitazioni di via Canalazzo, zona sottopasso Sant’Antonio, e della vicina via Canala”, ha avvisato il sindaco di Ravenna Michele de Pascale con un post su Facebook. “Dopo l’evacuazione delle abitazioni della via Canalazzo, prima del sottopasso Sant’Antonio delle 23.30, è stata disposta l’evacuazione anche dalle case al di là, in direzione nord, e di quelle prospicienti la vicina via Canala”, si legge ancora.

Il sindaco di Ravenna ha ricordato che “è obbligatorio lasciare l’abitazione, fino a cessata esigenza. Per chi non dispone di luoghi dove ripararsi, è stato istituito come punto di accoglienza il PalaCosta di Ravenna, piazza Caduti sul Lavoro 13“. Per chi non disponesse di luoghi dove ripararsi, è stato istituito come punto di accoglienza, presidiato da apposito personale e attrezzato per offrire vitto e alloggio, il museo Classis di Classe in via Classense 29. Continua intanto a preoccupare la situazione a Fornace Zarattini, frazione alle porte della città romagnola, evacuata già da ieri mattina e ora allagata. 

Il bilancio è drammatico: oltre 15mila gli sfollati, non definito il numero di eventuali dispersi, 42 i comuni coinvolti, 27mila persone prive di energia elettrica, 250 strade chiuse. “Un’emergenza che ci fa ricordare giustamente il terremoto: l’impegno del governo, fissando anche il consiglio dei ministri martedì, è anche per renderci conto degli impegni che prenderemo: il presidente ha già indicato i primi interventi anche di ordine finanziario ma credo che tutti si rendano conto della necessità di avere il controllo di quella che è l’emergenza, che va valutata comune per comune”, ha detto il ministro dell’ambiente Gilberto Pichetto Fratin facendo il punto a Bologna sull’emergenza maltempo. 

Per i morti dalle alluvioni, aperti fascicoli in Procura a Ravenna

Sono stati aperti fascicoli in Procura a Ravenna per i morti nel territorio ravennate, causati dalle alluvioni, ieri a Russi erano stati trovati i corpi di marito e moglie, 73enne e 71enne, forse folgorati e poi sommersi dall’acqua mentre provavano a spostare un congelatore dal piano terra della loro abitazione. Anche a Sant’Agata sul Santerno un’anziana, non ancora identificata, è stata trovata morta nella sua abitazione.

Nello stesso comune un 89enne allettato è stato trovato esanime nel suo letto mentre la moglie è riuscita a salvarsi da una finestra grazie ai vigili del fuoco. Un 75enne che abitava da solo a Castel Bolognese è stato trovato senza vita nella sua abitazione: l’uomo aveva deciso di restare dentro nonostante l’arrivo dell’acqua. Infine a Boncellino di Bagnacavallo risulta un disperso. 

Le segnalazioni sui decessi sono confluiti in Procura in altrettanti fascicoli senza ipotesi di reato, tranne che per il caso del 75enne: qui si procede per omicidio colposo contro ignoti in quanto alcuni vicini hanno segnalato di avere invano richiesto aiuto perché preoccupati per la sorte dell’uomo. Questa mattina il rinvenimento del sesto cadavere in provincia, a Faenza.

Autostrada A14, riaperto il tratto tra Faenza e Forlì

Poco dopo le 6.30 sulla A14 Bologna-Taranto è stato riaperto il tratto compreso tra Faenza e Forlì in entrambe le direzioni. La chiusura si era resa necessaria per permettere alla task force di Aspi di proseguire nella notte e velocizzare il piano di attività per il ripristino dei danni causati dalle alluvioni.

Attualmente, per consentire il proseguimento degli interventi di ripristino, il traffico circola su una corsia per senso di marcia in entrambe le direzioni e si registrano 5 km di coda tra il bivio con la diramazione di Ravenna e Forlì verso Ancona. Redazione CdG 1947

Estratto dell'articolo di Francesco Bechis per “il Messaggero” il 18 maggio 2023.

Eppure i soldi ci sono. Sulla carta, ci sono. L'ennesima alluvione in Emilia-Romagna costringe di nuovo a fare i conti. E i conti dimostrano che contro il dissesto idrogeologico l'Italia può fare affidamento su una cassaforte di tutto rispetto. Otto miliardi di euro almeno le risorse nazionali. È la cifra stanziata dal piano "Italia sicura" del governo Renzi per intervenire in tempo contro alluvioni, frane e calamità naturali. Altri 2,5 miliardi di euro nel Pnrr, cui si aggiungono 6 miliardi destinati ai comuni, da spendere nel breve periodo: entro il 2026.

Negli anni però la cassaforte è rimasta (quasi) chiusa.  Diverse le cause. Burocrazia, inerzia politica, resistenze delle Regioni contro una gestione centralista e statale delle emergenze. Quelle Regioni che, si legge nell'ultimo rapporto sul dissesto idrogeologico della Corte dei Conti, hanno negli anni dimostrato dubbia «capacità progettuale» e «carenza di profili tecnici unitamente alla scarsa pianificazione del territorio». Memento per chi oggi chiede di inserire anche queste competenze nel mazzo dell'autonomia differenziata.

[…] Paese più esposto in Europa - in Italia nove comuni su dieci hanno località a rischio alluvione - non riesce a spendere i fondi contro il dissesto. Tant'è che le risorse stanziate da Italia Sicura sono rimaste quasi tutte nelle casse dello Stato, dirottate altrove. La struttura e i suoi tecnici? Dismessa dal giorno alla notte dal governo Conte, che di contro ha varato un suo piano, "ProteggItalia" e stanziato altri 3,1 miliardi. Anche questi rimasti in gran parte inutilizzati.

Né bastano a colmare il vuoto i miliardi del Pnrr che per i comuni fissa obiettivi tanto eterogenei quanto generici - alcuni devono essere centrati entro il 2023 - come «la messa in sicurezza del territorio, la sicurezza e l'adeguamento degli edifici, l'efficienza energetica e i sistemi di illuminazione pubblica». 

[…] Per mettere in sicurezza il Paese, questa la stima della struttura contro le emergenze messa in piedi da Renzi, servirebbero 30 miliardi di euro. Negli ultimi venti anni ne sono stati spesi circa 6. Con una media dei tempi di realizzazione per ogni opera di 4,7 anni. Un'eternità.

E infatti, svela l'ultimo rapporto di Rendis (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo), la piattaforma che aggiorna di continuo gli interventi contro il dissesto idrogeologico, solo due cantieri su tre fra quelli che sono stati già finanziati è concluso. Su un totale complessivo di 6063 interventi finanziari, «circa il 66% (3.983) risulta concluso, l'11% (672) e in esecuzione, l'8% (509) e in fase di progettazione, mentre un 15% circa degli interventi (899) risulta da avviare o con dati non comunicati». […]

Alluvione in Emilia-Romagna, i sub trovano la 15esima vittima. «Rischi sanitari per gli abitanti». Alfio Sciacca su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2023.

Allarme a Conselice per l’acqua stagnante: l’ipotesi di richiami vaccinali. L’ultimo corpo recuperato a Lugo sarebbe di un agricoltore di 68 anni

«L’acqua sale su dalle fogne e in casa non si respira. Dopo giorni in queste condizioni e senza nulla da mangiare siamo andati via. Ora ci ospitano dei parenti». L’abitazione di Vittoria Di Matteo, dove vive con il marito e tre figli, è in Via Aldo Moro, una delle strade trasformate in fiumi maleodoranti. Per una famiglia che decide di andar via ce ne sono centinaia che resistono, prigioniere in casa, aspettando che passi il canotto che distribuisce le buste bianche con dentro acqua e qualcosa da mangiare.

Da cinque giorni è questa la quotidianità di Conselice, diecimila abitanti, diventato l’epicentro di una nuova emergenza che si aggiunge a quella del fango e delle frane. In questo caso si tratta di rischi per la salute della popolazione, legati proprio a quell’acqua putrida che potrebbe trasformarsi in un rischio di infezione per i residenti e chi li assiste. Dopo aver camminato a lungo nell’acqua le tute e gli stivaloni degli uomini delle forze dell’ordine vengono spruzzati di disinfettanti. Mentre la sindaca, Paola Puca, lancia disperati appelli ai suoi concittadini. «Non camminate a piedi nudi nell’acqua — urla al megafono davanti al municipio — proteggete la pelle dal contatto con l’acqua con guanti e dispositivi di protezione individuale. Evitate che i bambini giochino nelle aree allagate». A dimostrazione della gravità della situazione ieri a Conselice sono arrivati sia la direttrice dell’Ausl di Ravenna sia la vicepresidente della Regione, con delega alla Protezione civile, Irene Priolo. Anche i vertici sanitari confermano potenziali pericoli per infezioni alla pelle o gastrointestinali. E stanno valutando anche delle vaccinazioni di profilassi.

Misure che confermano i potenziali rischi per il ristagno d’acqua lanciati dalla Società italiana di medicina ambientale (Sima). «Dopo un’alluvione — avverte il presidente Alessandro Miani — aumenta il rischio di infezioni, specie per anziani e bambini. Dall’epatite A alle infezioni batteriche dovute a escherichia coli o salmonella». L’acqua stagnante attira poi zanzare che «incrementano il rischio di trasmissione di altre malattie».

La sindaca di Conselice prevede che ci vorranno dieci giorni perché l’acqua riesca a defluire del tutto. Troppi per scongiurare potenziali rischi per la salute. Per questo il Comune, che ha già dato l’ordine di sgombero della case allagate, ipotizza anche il trasferimento «in bungalow o in un camping».

«La situazione è obiettivamente complessa — ammette l’assessore Priolo —. È dovuto alla morfologia del paese: una sorta di catino naturale dove l’acqua fatica ad andar via, parliamo di milioni di metri cubi. Per farla defluire bisogna immetterla nel canale Destra Reno, ma lo si deve fare con attenzione altrimenti si rischia di allagare un’altra porzione del territorio». Ed è proprio questo ad alimentare la tensione tra i cittadini che da giorni protestano davanti al Comune. «Per evitare il ristagno — spiega Priolo — con le idrovore si sta cercando di “circuitare” l’acqua. Non possiamo certo permetterci anche il rischio malattie». A sostenere la sindaca, che sta affrontando una situazione tesa e complicata, c’è una colonna mobile di Protezione civile della Toscana.

Sale intanto a 15 il bilancio delle vittime dell’alluvione. Nelle campagne di Lugo i sommozzatori dei carabinieri hanno recuperato un altro corpo. Si tratterebbe di un agricoltore di 68 anni di Fusignano di cui era stata segnalata la scomparsa il 17 maggio. Mentre la Procura di Ravenna ha aperto un fascicolo, contro ignoti, ipotizzando il reato di disastro colposo. Il tutto mentre su parte della regione permane anche per oggi l’allerta rossa e arancione.

Non chiamateli Angeli del Fango: i ragazzi del Paciugo dell’alluvione in Emilia Romagna. Antonio Lamorte su L'Unità il 23 Maggio 2023

Sono arrivati da tutta Italia. Sporchi di fango, badile in mano, quasi sempre giovani. E chi l’avrebbe mai detto? Questi giovani, questi ventenni di oggi, signora mia. E invece. Sono arrivati in migliaia per dare una mano alle zone dell’Emilia Romagna colpite dalla violentissima alluvione scoppiata nella notte tra il 16 e il 17 maggio che ha causato 14 vittime e un disperso e danni incalcolabili. Quasi sempre sono giovani o giovanissimi. E subito sono stati battezzati, come sempre in queste tragedie: “Angeli del Fango”. Loro preferiscono “Ragazzi del Paciugo”.

L’espressione “Angeli del Fango” risale al 1966, all’alluvione di Firenze del 4 novembre. La città fu invasa da 250 milioni di metri cubi d’acqua e 600mila metri cubi di fango. I volontari arrivarono da tutta Italia e dall’estero. Alcuni già vivevano a Firenze, altri ci arrivarono di proposito. Gli Angeli del Fango aiutarono i cittadini ma diedero un grande aiuto anche a recuperare e salvare l’enorme e inestimabile patrimonio artistico fiorentino. La Protezione Civile non era stata ancora istituita, la risposta dei volontari fu spontanea.

“È una bella immagine, sia della solidarietà sia del cambiamento”, ha ricordato al Giornale Radio di Radio 1 Pier Luigi Bersani, che in quell’autunno arrivò a Firenze come volontario. “Avevo quindici anni, arrivai giù dall’Appenino con un gruppo di ragazzi. Ho sentito improvvisamente un’aria nuova, si parlava di quello che doveva cambiare”. Allo stesso modo i ragazzi del Paciugo spalano, portano cibo e medicine, aiutano a mettere i sacchi per rinforzare argini di fiumi e canali. È una generazione di ragazzi tra l’altro molto sensibile ai temi ambientali.

“Ci siamo ritrovati in tanti tra gli amici con cui il sabato siamo in pizzeria o al cinema e abbiamo fatto la squadra”, ha detto una di loro a Il Corriere della Sera. “Con il mio gruppo abbiamo liberato un capannone dove c’erano oggetti di antiquariato. Erano ormai fradici e purtroppo li abbiamo dovuti buttare. Il proprietario, poverino, era disperato. Il mio babbo nel pomeriggio mi ha scritto un gran bel messaggio: ‘Sono molto fiero di te’. Mi ha commossa. Comunque lui non è ancora rientrato: uscito dal lavoro è andato ad aiutare dei nostri conoscenti che hanno ancora la casa allagata”.

Al quartiere San Mauro in Valle, a Cesena, è apparso uno striscione legato ai pali della segnaletica. “Non chiamateci angeli del fango ma chi burdel de paciug”. Paciugo in Romagna indica qualcosa di indistinto, una poltiglia indefinita, il fango in questo caso. Hanno scelto loro. Resta sempre grottesco leggere chi si stupisce di questa partecipazione. Più insopportabile della retorica degli Angeli del Fango è soltanto quella (anche giornalistica) di chi sottolinea come questi giovani – questi giovani d’oggi, signora mia, che fine faremo – abbiano dimostrato di non essere puntualmente una generazione di smidollati: è il giochino dei pigri e degli ignavi, prendersela con i giovani – perfino quando non sono attivisti di Ultima Generazione. Antonio Lamorte

Gli «angeli del fango» a Cesena, come nel ‘66. La generosità che emoziona. Storia di Beppe Severgnini su Il Corriere della Sera il 23 maggio 2023.

Un servizio televisivo da Cesena. Ragazze e ragazzi, con pale e secchi, portano via acqua e melma da un soggiorno. L’anziana padrona di casa, davanti alla telecamera, sembra felice. L’immagine mi ha commosso. E ho pensato: perché? Perché la generosità è emozionante, sempre. Perché a quella signora, più d’ogni cosa, importava non esser lasciata sola. Per quei ragazzi e ragazze qualcuno ha subito tirato fuori il nome «angeli del fango».

L’espressione venne usata per la prima volta sul Corriere il 10 novembre 1966 dal fiorentino Giovanni Grazzini, inviato nella sua città dopo la catastrofica esondazione del fiume Arno, avvenuta sei giorni prima. Dall’Italia e dall’estero molti giovani erano accorsi a Firenze per aiutare la popolazione e mettere in salvo libri e dipinti, che rischiavano di andare perduti. Ci risiamo. Il sorriso della nonna romagnola, felice di non esser sola, vale quello delle madonne sui quadri salvate dagli Uffizi, tanti anni fa. Cambia tutto, il cuore umano no.

Come cementificazione e ritardi della politica hanno favorito il disastro in Romagna. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 18 maggio 2023.

La somma tra fenomeni meteorologici estremi e cattiva gestione del territorio dà un unico risultato: il disastro, come quello che in Emilia-Romagna ha provocato per ora 14 vittime. Lo scorso anno in Italia si sono verificati 310 eventi estremi, come siccità e alluvioni, segnando un aumento del 55% rispetto all’anno precedente; l’Emilia-Romagna è l’ottava regione europea in questa speciale classifica. Durante l’ultima alluvione sono caduti, nella fascia appenninica che va da Bologna a Cesena, 200 millimetri di pioggia, circa un quinto della quantità annuale. Per contenere l’acqua in eccesso dei fiumi ed evitarne la tracimazione, è stato messo a punto un sistema di stoccaggio temporaneo, chiamato “cassa di espansione”. Tuttavia, come evidenziato nel Monthly Report n.19, in Italia la messa in sicurezza del territorio procede a rilento. Nonostante gli studi e i progetti, in Romagna e dunque nella zona più colpita dalle ultime esondazioni non esiste nemmeno una cassa di espansione. 

Secondo l’ultimo bollettino rilasciato dall’Agenzia regionale prevenzione ambiente (ARPA), in Emilia-Romagna sono esondati 22 fiumi e 37 Comuni sono stati interessati da allagamenti, registrando 14 vittime e migliaia di sfollati. Si tratta dell’ennesimo evento meteorologico estremo, un fenomeno in crescita a causa dei cambiamenti climatici. Uno dei fiumi che ha rotto gli argini durante l’ultima alluvione è stato il Savio a Cesena. Nel 2020, è stata presentata una relazione idraulica nell’ambito della “messa in sicurezza di un tratto particolarmente a rischio dell’abitato di Cesena”. Nel documento vengono citate le casse di espansione e il loro “contributo fondamentale” per ridurre “i picchi di piena” del Savio. Nonostante il monito, la prima riunione relativa alla progettazione dell’opera si è tenuta soltanto due anni dopo.

Il consumo di suolo ha come conseguenza l’impermeabilizzazione del terreno che così non riesce più ad assorbire l’acqua. Un fenomeno alimentato anche dalla siccità, sempre più frequente nel nostro Paese. Come risultato, le piogge non riescono a penetrare nel suolo, allagando le città e lasciando a secco le falde acquifere. Nel 2017, la giunta di Stefano Bonaccini ha adottato, contro il consumo di suolo, una legge che si è rivelata essere vuota e dunque inutile, al punto da attrarre le critiche di geografi, architetti e associazioni ambientaliste. Nel triennio 2017-2020 ogni abitante ha perso oltre 3 mq di campagna, per un totale di quasi 1500 ettari complessivi. Su Altreconomia, il docente di Pianificazione territoriale e ambientale al Politecnico di Milano Paolo Pileri ha dichiarato che si è continuato a costruire «nelle aree protette (più 2,1 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità di frana (più 11,8 ettari nel 2020-2021), nelle aree a pericolosità idraulica dove l’Emilia-Romagna vanta un vero e proprio record essendo la prima Regione d’Italia per cementificazione in aree alluvionali». In generale, si tratta della terza regione più cementificata d’Italia: 8,9% di suolo impermeabilizzato contro il 7,1% nazionale.

In un rapporto del 2020, il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici ha dichiarato: «i dati disponibili sull’Italia in merito alle precipitazioni suggeriscono che le condizioni di rischio geologico, idrologico e idraulico risultino esacerbate in conseguenza di un aumento del numero degli eventi di precipitazione estrema (caratteristica attesa dagli studi di cambiamento climatico) e una crescente urbanizzazione del territorio che ha portato, da un lato, a un incremento dei deflussi e ad una riduzione della capacità di smaltimento da parte degli alvei (tombamenti, riduzione dell’estensione delle aree golenali, ecc.), dall’altro lato, a un aumento dell’esposizione al rischio». L’Italia resta l’unico tra i grandi Paesi europei a non disporre di un Piano di Adattamento ai Cambiamenti Climatici, al di là dei progetti incompleti pubblicati dal governo Meloni. [di Salvatore Toscano]

Alluvione in Romagna: ora burocrazia e prefetti fermano i volontari del fango. Stefano Baudino su L'Indipendente il 29 maggio 2023.

Dopo la grande ondata di solidarietà che ha segnato le aree colpite dall’alluvione in Emilia-Romagna, negli ultimi giorni sono montati malumori e proteste. Ad innescarli, la decisione di Prefetti e Sindaci di fermare l’arrivo dei volontari – giunti a migliaia da ogni parte d’Italia – nelle zone interessate dalle inondazioni. La ragione è facilmente intuibile: l’emergenza è in fase calante e in loco sono operativi tecnici esperti con mezzi all’avanguardia, cui bisogna lasciare spazio. Molti volontari, però, protestano contro un approccio istituzionale oltremodo burocratico, che avrebbe inspiegabilmente rallentato il lavoro dei cittadini di buona volontà impegnati a dare una mano nel fango.

Tre giorni fa, il Prefetto di Ravenna ha diramato un comunicato: “Pur esprimendo il più sincero apprezzamento per il grande sentimento di solidarietà che sta animando tantissimi volontari ‘angeli del fango‘ che si stanno attivando per raggiungere le zone maggiormente colpite dall’alluvione, soprattutto nel fine settimana – si legge nella nota –, il Prefetto di Ravenna Castrese De Rosa e tutti i sindaci della provincia rivolgono un accorato appello a non mettersi in movimento in questi giorni nei quali sono ancora all’opera moltissimi uomini e mezzi della Protezione civile, che potrebbero essere, seppure involontariamente, intralciati nel loro operato, con conseguente pregiudizio del buon esito delle attività in corso e anche a tutela della loro incolumità e di quella degli altri”.

La Prefettura ha inoltre fatto riferimento alla viabilità provinciale, che sarebbe “seriamente compromessa dagli eventi alluvionali e non in grado di poter sopportare l’intenso volume di traffico che in questi giorni sta interessando tutte le arterie, in quanto numerosi mezzi di soccorso e d’opera sono impegnati nei lavori di ripristino delle rotture arginali e delle infrastrutture primarie e secondarie danneggiate”. I volontari sono dunque invitati ad aspettare e a rimanere indietro: “Tutte le istituzioni del Ravennate esprimono il loro più sentito ringraziamento a chiunque si stia attivando per dare una mano, sottolineando che ci sarà tempo e modo per tutti di offrire il proprio supporto nel momento e nelle modalità più opportuni”.

Enzo Lattuca, sindaco di Cesena – una delle città che ha vissuto la situazione peggiore durante l’alluvione -, segue a ruota: “Il vostro aiuto è stato fondamentale, ora però è importante che i mezzi di sgombero e di pulizia strade possano fare la loro parte, avendo le strade libere per poter lavorare in sicurezza. Rinnovo il mio appello e chiedo a chi ancora non si fosse messo in viaggio di non spostarsi, lasciando le aree più critiche il più possibile libere da mezzi e persone”. Due giorni fa, i cittadini che si sono registrati sul portale “Volontari Sos”, con il quale viene coordinato l’afflusso di persone zona per zona, si sono visti recapitare una mail il cui incipit è “non andare dove non c’è bisogno”. Uno dei coordinatori ha scritto che “Il Comune di Forlì” ha chiesto ai volontari di “limitare gli interventi sul campo” e ha aggiunto che “resteremo qui, in attesa, sapendo che tornerà il momento in cui verremo chiamati, ancora una volta, ad aiutare chi ne ha bisogno. Staremo fermi per poter correre ancora più forti quando saremo chiamati a farlo”. Sul campo, infatti, opera la Protezione civile nazionale – arrivata quasi una settimana dopo l’alluvione – che lavora con “ragni”, ruspe, bobcat e bulldozer.

Molte critiche per l’attuazione di queste scelte si sono sollevate dall’ambiente dei volontari. Lorenzo Zitignani di Plastic Free, in un video pubblicato sabato, ha detto: «Pare che il Prefetto abbia dichiarato che gli “Angeli del Fango” devono stare a casa, perché altrimenti intralciano il lavoro delle autorità competenti. Ma quale lavoro? Dove eravate prima?», si chiede il volontario. «Certo, ora qualcuno si è visto, ma fino a due giorni fa dove eravate? E qual è l’intralcio che noi arrechiamo? Perché non mi risulta che qualcuno si sia messo lì a dire “No, non potete passare, qua ci siamo noi”, anzi…». Il ragazzo svela: «Un addetto del comune mi chiama dicendomi che noi non abbiamo l’autorità per aiutare qualcheduno e che quindi dobbiamo passare la palla a loro e se vogliamo aiutare dobbiamo registrarci su una loro piattaforma. Gli chiedo allora da quanto è attiva e lui mi risponde “Da ieri”. Buongiorno! E i nove giorni prima dove eravate?».

Un’altra segnalazione arriva a L‘Indipendente da una volontaria residente a Lugo, Comune in Provincia di Ravenna. «Due giorni fa il Prefetto ha emanato un’ordinanza per porre fine al lavoro dei volontari usando il pretesto della sicurezza fisica delle persone coinvolte che, non essendo assicurate né esperte del mestiere, rischiavano di farsi male». Ciò ha portato i Comuni a «implementare un sistema di iscrizioni in modo che i volontari possano registrarsi presso vari sportelli della protezione civile in modo da ricevere copertura assicurativa», ma tale modalità, organizzata «in maniera disastrosa», avrebbe «introdotto una trafila burocratica infinita (fogli da compilare e firmare e lunghissime file davanti ai Comuni per potersi iscrivere)», comportando nei comuni della bassa Romagna, secondo la ragazza, un «rallentamento dei lavori, fino ad allora efficienti e veloci, dei volontari».

A Conselice, racconta ancora la volontaria, «la Protezione civile e i corpi di Stato» avrebbero «costretto i volontari a mettersi in fila ed iscriversi prima di cominciare i lavori»; a Sant’Agata, addirittura, sarebbero stati «mandati via tutti i volontari», mentre il Paese sarebbe stato «occupato da decine e decine di furgoni della protezione civile che non permettono a nessuno di entrare». Continua la giovane: «Tantissimi volontari che si erano messi a disposizione con delle pompe per far fuoriuscire l’acqua dai paesi, che fino a due giorni fa stavano funzionando egregiamente, sono stati mandati via e al posto loro sono state fatte arrivare delle ditte di spurghi a pagamento». La ragazza lancia allora una provocazione: «Forse i volontari stavano togliendo visibilità alle istituzioni, Protezione civile compresa? Forse, con il nostro contributo gratuito, stiamo togliendo lavoro e stipendio a ditte e imprese che ci vogliono mangiare sopra? Tutto il lavoro che è stato fatto in questi 10-15 giorni sarebbe stato impensabile da svolgere senza i volontari».

Probabilmente si tratta delle fisiologiche sfumature di una situazione estremamente complessa, in cui è difficile rintracciare verità universali. Certo è che, in uno spaccato di questo tipo, il collante tra istituzioni e cittadinanza (in particolare nelle sue frange più attive) non possa che essere quello della fiducia reciproca. Quando essa scricchiola, non è un buon segno. [di Stefano Baudino]

 L'ambiente dimenticato: otto miliardi non spesi e task force mai nate. Fabio Tonacci su La Repubblica il 19 Maggio 2023

Contro il dissesto idrogeologico per ora solo proclami dal centrodestra. "Il piano anti-cambiamenti climatici annunciato ma non finanziato".

Una riga e mezzo. "Programma straordinario di resilienza delle aree a rischio dissesto idrogeologico con interventi mirati". Quale programma straordinario? Non è specificato. Quali interventi mirati? Non vengono detti. Rimane tutto appeso alla fantasia dell'elettore che legge. Quella riga e mezzo è lo spazio dedicato all'Italia che frana, che esonda, che travolge, che crolla e che uccide, nelle diciassette pagine dell'accordo di governo della coalizione di centrodestra siglato durante la campagna elettorale. Si trova al capitolo dodici, diluita tra altri punti sotto al titolo: "L'ambiente, una priorità". I primi sette mesi a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni, però, dimostrano come le priorità in realtà siano altre. E neanche l'alluvione di Ischia del 26 novembre scorso (12 morti) ha portato il tema della fragilità del territorio lì dove dovrebbe stare, e dove i governi, non solo l'attuale, si rifiutano di mettere: al centro dell'agenda.

Lo spettro dell'unità di missione

Più vecchia degli allarmi degli ambientalisti e dei geologi c'è solo l'attitudine, tutta italiana, di racimolare miliardi di euro dal bilancio pubblico senza poi essere in grado di spenderli. Nelle casse dello Stato ci sono 8,4 miliardi di euro dedicati alla mitigazione del rischio idrogeologico che potrebbero essere utilizzati subito, ora, per argini, invasi, casse di laminazione, canalizzazioni e quant'altro serva ai bacini idrici del Paese, ma che dal 2018 sono intonsi. Transitano da un capitolo di spesa all'altro, da quando il governo giallo-verde di Giuseppe Conte, appena insediatosi, decise di cancellare Italia Sicura, la struttura di missione diretta da Erasmo D'Angelis e voluta dall'allora premier Renzi.

Il risultato è stata la paralisi per cinque anni: il Conte I e il Conte II, alla voce: "idee per salvare il territorio", non hanno scritto niente di significativo, gli 11 mila progetti catalogati e sistematizzati dalla struttura di missione (per realizzarli servono 33 miliardi di euro) sono rimasti un mesto elenco su un file excel. I miliardi trovati razionalizzando risorse interne non sono stati spesi. Alla fine il governo Draghi li ha messi nel Pnrr. E lì giacciono.

La rivogliono, ma senza fondi

Che però serva un soggetto per mettere a terra i progetti aiutando gli enti locali, evidentemente, è chiaro a tutti: a febbraio di quest'anno il Senato vota un ordine del giorno col quale chiede alla premier di ripristinare quel sistema. Lo approvano 130 senatori, di tutti gli schieramenti, si astengono 25 onorevoli del M5S. Il Senato dà due mesi di tempo al governo, che però passano nel silenzio. "Allora siamo riusciti a inserire un emendamento al dl Fitto sulle semplificazioni del Pnrr", dice la senatrice renziana Raffaella Paita. "Prevede la ricostituzione di un'unità di missione, però la maggioranza ne ha stravolto il senso, trasferendola al ministero dell'Ambiente, facendo così venire meno la trasversalità tra ministeri che facilitava l'attuazione delle opere".

Oltretutto, segnala Paita, non vi hanno messo su neanche un euro. E non sono indicate modalità operative. "È una scatola vuota, vittima dei veti incrociati tra ministri dell'Ambiente e della Protezione civile. La premier deve venire a riferire in Aula per spiegarci cosa succede".

Le dighe di Musumeci

Dopo Ischia, il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci rivela che è stato costituito un gruppo di lavoro interministeriale, affidato a lui stesso, per ricostruire il quadro degli interventi anti-dissesto in corso. "Dal 2019 al 2027 messi a disposizione 21 miliardi per la tutela del territorio". Quali risultati abbia portato il gruppo di lavoro interministeriale non è chiaro. Il giorno dopo l'alluvione che ha colpito Emilia e Marche, Musumeci si aggrappa a parole troppe volte già sentite e lancia promesse vaghe. "Cabina di regia sul dissesto", "step di interventi, a breve, medio e lungo termine", "lista delle maggiori criticità", "messa in sicurezza dell'Italia in dieci anni", e così via. Si fa concreto, invece, sulle dighe. "Serviranno decine di nuove dighe regionali: sono quarant'anni che non se ne fanno. Pensiamo a un sistema di raccolta d'acqua che possa assorbire 500 mm in 48 ore".

Il commissario (senza soldi)

Alle accuse d'inerzia, Palazzo Chigi risponde opponendo la fresca nomina di Nicola Dell'Acqua a commissario all'emergenza siccità. L'idea è di coinvolgerlo nella lotta al dissesto, pur avendo un incarico ridotto, che dura fino al 31 dicembre, rinnovabile di un anno. Una partita, questa del commissario, che all'interno del governo ha vinto il leader della Lega: il veneto Dell'Acqua, infatti, fa riferimento alla cabina di regia che è stata affidata al ministro Salvini. Finora appare come un'altra scatola vuota, senza risorse. "Intanto c'è un contenitore e sono fiducioso che verrà riempito", ragiona, con l'ottica del bicchiere mezzo pieno, Massimo Gargano, direttore dei Consorzi di Bonifica.

Alluvione Emilia-Romagna, i climatologi: "I temporali oggi sono eventi pericolosi. Impariamo a temerli come gli incendi"

Il piano climatico dimenticato

Il governo di "Ambiente, una priorità", dunque, fatica a finanziare l'oggetto dei suoi proclami. Nel programma elettorale, Giorgia Meloni scriveva "aggiornare e rendere operativo il Piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici". È un piano cruciale, da sette anni fermo alla fase preliminare, che definisce la strategia per convivere con l'innalzamento della temperatura per i prossimi 30 anni, in agricoltura (si prevede una perdita di fatturato di 12,5 miliardi nel 2050), turismo (-52 miliardi con un innalzamento di 4 gradi), e così via. Il piano individua 361 azioni per attenuare l'impatto. A dicembre il governo ne pubblica una bozza aggiornata, lasciandolo in consultazione per due mesi al fine di raccogliere osservazioni. "Dopo febbraio non ne abbiamo saputo più niente", sostiene Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. "Se ne sono dimenticati. E soprattutto, nella legge di bilancio non hanno stanziato niente per realizzarlo".

Estratto dell’articolo di Lorenzo Salvia per il “Corriere della Sera” il 19 maggio 2023. 

La pioggia eccezionale, certo. Ma c’è anche altro dietro il disastro che ha colpito la Romagna. C’è quella che una volta chiamavamo cementificazione e che da un po’ di tempo ha preso il nome di consumo di suolo.  Tecnicamente si tratta della perdita di una superfice originariamente agricola o naturale a causa della copertura artificiale del terreno. Qui una volta era tutta campagna, insomma. E da questo punto di vista, il territorio messo in ginocchio negli ultimi giorni non è messo per niente bene.

[…]  Secondo l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, l’Emilia-Romagna è la terza regione per incremento di suolo consumato tra il 2020 e il 2021, con 658 ettari. E anche per il totale di suolo consumato sempre nel 2021, con oltre 200.000 ettari. […] Nella classifica dei comuni […] al secondo posto c’è Ravenna, preceduta soltanto da Roma. […]

[…] Oltre che per consumo di suolo, la regione è terza anche per ricchezza procapite. Non solo. L’accelerazione nel numero di ettari cementificati del 2021 marcia di pari passo con il rimbalzo dell’economia regionale dopo la pandemia: nel 2021 l’Emilia-Romagna era uno delle cinque regioni già tornate sui livelli pre Covid. Segno che, in attesa di diventare davvero circolare, l’economia continua a procedere in modalità lineare, cioè bruciando nuove risorse, terreni compresi. 

L’Emilia-Romagna, tuttavia, è una delle poche regioni che sul consumo di suolo, in attesa di una regolamentazione nazionale, si è dotata di una propria legge regionale. Ed è qui che la questione diventa politica. 

[…] La legge risale al 2017 e dice che l’incremento annuale di superficie cementificata deve restare in ogni Comune al di sotto del 3%. Come sempre, però, ci sono delle eccezioni. Restano fuori dal calcolo le opere pubbliche, gli insediamenti strategici di rilievo regionale, gli ampliamenti delle attività produttive esistenti, i nuovi insediamenti residenziali collegati a interventi di rigenerazione urbana.

Abbastanza, insomma, per far salire l’Emilia-Romagna al terzo posto di questa classifica non proprio virtuosa. […] La legge è arrivata durante il primo mandato di Stefano Bonaccini […]. 

L’accelerazione del 2021, invece, quando vice presidente della Regione era Elly Schlein, oggi segretaria del Pd. 

[…] Due indizi che ieri hanno spinto Libero a titolare in prima pagina «Sott’acqua il modello Pd», e qualche parlamentare di centrodestra a mugugnare, ma nulla più […].

Estratto dell’articolo di Fabio Tonacci per “la Repubblica” il 19 maggio 2023.

[…] Più vecchia degli allarmi degli ambientalisti e dei geologi c’è solo l’attitudine […] di racimolare miliardi di euro dal bilancio pubblico senza poi essere in grado di spenderli. Nelle casse dello Stato ci sono 8,4 miliardi di euro dedicati alla mitigazione del rischio idrogeologico che potrebbero essere utilizzati subito, ora, per argini, invasi, casse di laminazione, canalizzazioni e quant’altro serva ai bacini idrici del Paese, ma che dal 2018 sono intonsi.

Transitano da un capitolo di spesa all’altro, da quando il governo giallo-verde di Giuseppe Conte, appena insediatosi, decise di cancellare Italia Sicura, la struttura di missione diretta da Erasmo D’Angelis e voluta dall’allora premier Renzi. Il risultato è stata la paralisi per cinque anni: il Conte I e il Conte II, alla voce: “idee per salvare il territorio”, non hanno scritto niente di significativo, gli 11 mila progetti catalogati e sistematizzati dalla struttura di missione (per realizzarli servono 33 miliardi di euro) sono rimasti un mesto elenco su un file excel. I miliardi trovati razionalizzando risorse interne non sono stati spesi. Alla fine il governo Draghi li ha messi nel Pnrr. E lì giacciono. 

[…] Che però serva un soggetto per mettere a terra i progetti aiutando gli enti locali, evidentemente, è chiaro a tutti: a febbraio di quest’anno il Senato vota un ordine del giorno col quale chiede alla premier di ripristinare quel sistema. Lo approvano 130 senatori, di tutti gli schieramenti, si astengono 25 onorevoli del M5S. Il Senato dà due mesi di tempo al governo, che però passano nel silenzio.

«Allora siamo riusciti a inserire un emendamento al dl Fitto sulle semplificazioni del Pnrr», dice la senatrice renziana Raffaella Paita. «Prevede la ricostituzione di un’unità di missione, però la maggioranza ne ha stravolto il senso, trasferendola al ministero dell’Ambiente, facendo così venire meno la trasversalità tra ministeri che facilitava l’attuazione delle opere ». Oltretutto […] non vi hanno messo su neanche un euro. E non sono indicate modalità operative. «È una scatola vuota, vittima dei veti incrociati tra ministri dell’Ambiente e della Protezione civile. La premier deve venire a riferire in Aula per spiegarci cosa succede».

[…] Dopo Ischia, il ministro per la Protezione civile Nello Musumeci rivela che è stato costituito un gruppo di lavoro interministeriale […] per ricostruire il quadro degli interventi anti-dissesto in corso. […] Quali risultati abbia portato […] non è chiaro. Il giorno dopo l’alluvione che ha colpito Emilia e Marche, Musumeci si aggrappa a parole troppe volte già sentite e lancia promesse vaghe. «Cabina di regia sul dissesto», «step di interventi, a breve, medio e lungo termine», «lista delle maggiori criticità», «messa in sicurezza dell’Italia in dieci anni», e così via. 

Si fa concreto, invece, sulle dighe. «Serviranno decine di nuove dighe regionali: sono quarant’anni che non se ne fanno. Pensiamo a un sistema di raccolta d’acqua che possa assorbire 500 mm in 48 ore».

[…]  Alle accuse d’inerzia, Palazzo Chigi risponde opponendo la fresca nomina di Nicola dell’Acqua a commissario all’emergenza siccità. L’idea è di coinvolgerlo nella lotta al dissesto, pur avendo un incarico ridotto, che dura fino al 31 dicembre, rinnovabile di un anno. Una partita, questa del commissario, che all’interno del governo ha vinto il leader della Lega: il veneto Dell’Acqua, infatti, fa riferimento alla cabina di regia che è stata affidata al ministro Salvini. Finora appare come un’altra scatola vuota, senza risorse. […]

Estratto dell’articolo di Michelangelo Colombo per startmag.it il 19 maggio 2023.

“Un Paese di paradossi. È tra i più piovosi d’Europa, ma riesce a immagazzinare appena il 4% dell’acqua, complici infrastrutture obsolete, perdite sulla rete, dighe bloccate o da sfangare. È anche tra i più fragili dal punto di vista idrogeologico

– con il 94% dei Comuni a rischio frane, alluvioni ed erosione e 8 milioni di persone che vivono in aree ad alta pericolosità

– ma incapace di spendere i fondi dedicati. Replicando all’infinito lo schema di sempre: frammentazione e burocrazia, che producono inconcludenza. E così, tra fondi nazionali ed europei, ci sono 21 miliardi di euro – il calcolo arriva dagli uffici del ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci (si veda l’intervista al Sole 24 Ore del 4 febbraio scorso)

– stanziati fino al 2030 per la messa in sicurezza del territorio, sparsi in mille rivoli. Senza controllo e senza regia. Senza neppure contezza di quanto sia stato speso sin qui: la ricognizione, non ancora conclusa, è affidata a un gruppo interministeriale nato dopo l’alluvione di Ischia”. 

È la fotografia del quotidiano Sole 24 Ore dell’Italia dopo le alluvioni che hanno colpito l’Emilia Romagna. […] 

L’Emilia Romagna è devastata delle alluvioni che hanno sfigurato città e piccoli comuni, ora si temono nuovi smottamenti e frane. […]

l bilancio è drammatico, secondo il punto dell’agenzia stampa Agi: 10mila gli sfollati, non definito il numero di eventuali dispersi, 42 i comuni coinvolti, 27mila persone prive di energia elettrica, 250 strade chiuse. […] 

Settemila le richieste d’aiuto al 112, 1.500 gli uomini impegnati nelle attività di soccorso, 3.000 gli interventi eseguiti. L’alluvione ha devastato intere città. Sono stati 23 i fiumi esondati e 280 le frane. […] Ci sono le casse d’espansione dei fiumi in Emilia-Romagna? Numeri e polemiche post alluvioni […]

Ma c’è anche un aspetto poco considerato finora: l’aspetto istituzionale con intoppi burocratici e scarsa efficienza nell’utilizzo delle risorse stanziate. La Corte dei conti – ricorda oggi il Sole 24 Ore – cita il rapporto Ispra 2020 relativo al progetto Rendis (Repertorio nazionale degli interventi per la difesa del suolo), che ha censito in vent’anni 6.063 interventi del ministero dell’Ambiente per 6,59 miliardi, a fronte di 7.811 proposte presentate dalle Regioni per un totale di 26,5 miliardi. 

In Emilia-Romagna il cambiamento climatico non c’entra. Parola del presidente dei geologi dell’Emilia-Romagna. In un altro documento diffuso due giorni fa, l’Istituto segnala l’Emilia Romagna come la più esposta al rischio alluvione, con le province di Ravenna e Ferrara in cima alla classifica.

Nel mirino, «la complessa ed estesa rete di collettori di bonifica e corsi d’acqua minori che si sviluppano su ampie aree morfologicamente depresse, di tratti arginati spesso lungo alvei stretti e pensili, di regimazioni e rettifiche in specie nei tratti di pianura». […] 

E’ dal censimento delle spesa effettiva e delle opere realizzate/incompiute che saltano fuori i numeri impressionanti, definitivi e vergognosi che inchiodano tutto il ceto politico dell’Italia lungo due lustri e 14 governi, ha rimarcato il Fatto Quotidiano:

“Sono monitorati da Ispra nel suo Repertorio Nazionale degli interventi per la difesa del suolo (RenDis): negli ultimi 20 anni in Italia sono stati finanziati 11.204 progetti impegnando 10,5 miliardi (e poi diremo perché 10 e non 7) ma ad oggi soltanto 4.800 interventi sono stati ultimati, con una spesa effettiva di 3,6 miliardi. 

Dal totale van tolti 1.800 ancora in fase di progettazione, 1.434 in fase di esecuzione, 208 revocati. Di ben 2.607 interventi poi non si hanno proprio notizie, i relativi dati “non sono disponibili” anche se cubano 2 miliardi di risorse.

Guardando alla sola Emilia-Romagna, dal 1999 al 2023 sono stati finanziati 529 progetti di messa in sicurezza con un impegno spesa di 561 milioni di euro, ma solo 368 sono stati ultimati spendendo: all’appello mancano 161 interventi che valgono 258 milioni, oltre la metà dei soldi destinati alla regione”.

Estratto dell’articolo di Melania Rizzoli per “Libero Quotidiano” il 28 maggio 2023.

Non è una malattia infettiva, non è una malattia contagiosa, ma quando il batterio responsabile contamina una ferita, piccola o estesa che sia, rilascia le sue spore dentro di essa, le quali germinano e producono tossine che viaggiano veloci nei tessuti profondi, con affinità elettiva per i nervi, il midollo spinale e l’encefalo, dove, senza una terapia adeguata ed immediata, causano spasmi muscolari seguiti da paralisi e morte per soffocamento. 

Sto parlando del tetano, una patologia ormai rara grazie alla vaccinazione di massa già dall’età infantile, oggi però tornata alla ribalta nelle zone alluvionate dell’Emilia Romagna, dove da due giorni è iniziata la distribuzione del vaccino preventivo a tutta la popolazione a contatto con l’acqua stagnante ed impegnata nelle opere di pulizia e soccorso. 

[…] Essendo inoltre il batterio capace di resistere alle condizioni più impervie come il caldo, ed essendo molto resistente a quasi tutti i più forti antisettici, l’unico rimedio immediato in caso di abrasioni, ferite cutanee, punture di spine vegetali o metalliche, è quello di pulire immediatamente la zona colpita con l’acqua ossigenata, poiché essendo il bacillo in questione un essere anaerobico, cioè che vive solo in assenza di ossigeno (come nei tessuti lacerati delle ferite) lo stesso non sopravvive in presenza di ossigeno, quello appunto presente in maniera elevata nell’acqua ossigenata. 

Naturalmente il salvavita resta il vaccino antitetanico che va somministrato come prevenzione o immediatamente nei casi sospetti di ferite contaminate. Il clostridium tetani causa il tetano solo nelle persone non vaccinate, in quelle che non hanno fatto i richiami previsti o con immunità scaduta, ed il modo più comune di contrarlo sono appunto le ferite da punta (classica la puntura da spine di rose o chiodi arrugginiti ), da aghi non sterilizzati (body piercing o tatuazioni), dal taglio del cordone ombelicale con forbici non adeguatamente sterili, e più la sede di contatto è lontana dal sistema nervoso centrale, più lungo sarà il periodo di incubazione della malattia, e minori le speranze di guarigione. […] 

Il tetano è accompagnato anche da un corteo di sintomi di infezione, come la febbre, la sudorazione profusa, aritmie cardiache, irritabilità, spasmi muscolari e convulsioni, ma è difficile oggi assistere ad un paziente in queste condizioni, poiché la maggior parte delle persone che si recano in ospedale entro le 24/48 ore dall’evento traumatico, ricevono, oltre alla pulizia accurata della ferita, la vaccinazione antitetanica anche per i casi sospetti e non accertati, una terapia sicura con una efficacia che sfiora il 100%.  […] 

Estratto dell’articolo di Gianluca Brambilla per open.online il 28 maggio 2023.

Nelle province dell’Emilia-Romagna colpite dalle alluvioni il lavoro per tornare alla normalità continua senza sosta. Tra i problemi che gli abitanti della zona si trovano ad affrontare ce n’è uno a cui finora in pochi avevano pensato: le zanzare. 

Nei paesi che hanno visto intere strade sommerse dalla pioggia, ora l’acqua ha iniziato a ristagnare. Il risultato: dai canali sale un forte odore di fogna, dovuto probabilmente al carico di acque sporche, carcasse di animali, piante e via dicendo.

In passato, ricorda Il Messaggero, le aree del Delta del Po sono state il luogo di incubazione di microorganismi a cui le zanzare tigri fanno da vettori, per esempio il virus zika. E il rischio è che ora le acque reflue e stagnanti ricreino le condizioni ideali per la diffusione di malattie. […] 

Tra gli abitanti delle zone del Delta del Po è scattata la caccia ai repellenti. Ma la speranza dei cittadini è che venga messa in atto un’opera di disinfestazione vera e propria, in forma rafforzata rispetto agli scorsi anni. E a proposito di rischi sanitari post-alluvione, continua la corsa alle vaccinazioni contro il tetano. […] 

Va detto però che non tutti sembrano preoccupati dall’acqua stagnante e maleodorante. A Conselice, in provincia di Ravenna, ci sono ancora 500 persone che – nonostante l’ordinanza di evacuazione – hanno deciso di rimanere, incoraggiati dai livelli più bassi dell’acqua. L’ordinanza – racconta oggi il Corriere – istituisce di fatto una zona rossa a cui solo Vigili del fuoco e Protezione civile potrebbero accedere. 

Eppure, il via vai è continuo. «Dove dovrei andare? Qui ho tutta la mia vita – si giustifica Stefano Morando, residente di Conselice -. Non lascio tutto incustodito, possono fare tutte le ordinanze che vogliono». […]

Siccità, cambiamenti climatici e green economy: ecco qual è la verità. Francesco Curridori il 19 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il metereologo Mario Giuliacci spiega che le alluvioni di questi giorni dipendono dalla grande siccità che ha colpito l'Italia negli ultimi anni, ma avverte che auto e case green non saranno la soluzione

"Il maltempo che abbiamo visto in questa prima parte di maggio andrà avanti fino al 27 del mese. Per tutto il week-end continuerà a piovere su tutta l’Emilia-Romagna. Pioverà anche la prossima settimana, ma saranno piogge deboli e non preoccupanti". Il metereologo Mario Giuliacci è convinto che in Emilia il peggio è passato, ma "c’è qualche preoccupazione per i prossimi giorni per il Piemonte, la Calabria e il Nord della Sardegna, mentre in giugno il grande protagonista dovrebbe essere l’anticiclone africano".

Perché questo maggio sembra un po’ come novembre…?

Noi siamo stati per due anni sotto siccità, a causa dei cambiamenti climatici. In Italia non si era mai verificata una siccità così lunga. Questo ha reso il suolo molto compatto e asciutto e, quindi, l’acqua non penetra e scivola via molto più rapidamente. Un terreno erboso, invece, consente di trattenere maggiormente l’acqua piovana. In Emilia Romagna, poi, ci sono stati venti in arrivo dai Balcani che erano perpendicolari all’Appennino romagnolo. Quando i venti incontrano una catena montuosa sono costretti a salire, ma salendo si raffreddano e condensano la loro notevole umidità. A Ferrara non ha piovuto perché non è a ridosso degli Appennini. Sono i torrenti appenninici che sono esondati in pianura. L’aria era molto fresca e, nello scorrere su un suolo molto caldo, diventa molto instabile e tende a dar luogo a piogge e temporali tanto più è fresca. Attualmente siamo 5-7 gradi al di sotto della media, una cosa mai vista”.

Anche per il futuro dobbiamo aspettarci eventi simili e un clima tropicale?

Certo. Nel futuro saranno più frequenti gli episodi di siccità che durerà anche 2-3 mesi. La causa sta nel fatto che la differenza di temperatura tra l’emisfero Nord e l’equatore si è ridotta di 7-8 gradi. Questo è il motivo per cui i ghiacci si stanno sciogliendo e il Polo Nord rischia seriamente di scomparire. In Italia la temperatura è aumentata di 3 gradi perché il Mediterraneo è un mare chiuso che non riesce a scambiare acque con l’Atlantico. Anche le masse d’aria fresca che entrano nel Mediterraneo, scorrendo su un mare molto caldo, tendono a dare molte piogge e ad assorbire molo più vapore degli anni passati. È tutta colpa del surriscaldamento globale”.

Che estate sarà?

"Avremo di nuovo un’estate di caldo record. L’estate del 2022 è stata la seconda estate più calda di sempre perché quella del 2003 detiene ancora il record, ma solo per un soffio. Negli ultimi 6 anni, eccezion fatta per il 2003, abbiamo avuto le estati più calde di sempre. È un trend climatico che, colpa o meno dell’uomo, non è destinato a cambiare".

Ma le case green, le auto green e misure simili possono effettivamente frenare il cambiamento climatico oppure comunque il fatto che Cina e India continuino a inquinare renderà vani gli sforzi dell’Ue?

"Questa è la comune preoccupazione. In Europa vogliamo fare i primi della classe, ma siamo 500 milioni e, anche se riuscissimo ad attuare la green economy entro il 2035, è ovvio che rimarranno anche 2-3 miliardi di persone del Sud-Est asiatico che vogliono prima finire di consumare il carbone. Serve solo per dare il buon esempio, ma poco servirà. Riusciremo a ridurre l’inquinamento di 1/6 e non basterà tanto è vero che, se si continuerà a immettere anidride carbonica nell’atmosfera, arriveremo a punto di non ritorno. Io sono piuttosto pessimista perché è difficile che Cina e India decidano di cessare l’uso del carbone. Noi, in futuro, useremo molta energia fotovoltaica, prodotta con i pannelli solari prodotti in Cina con le centrali a carbone. È un gran bel paradosso…".

Estratto dell'articolo di leggo.it il 24 maggio 2023

L'ondata di maltempo degli ultimi giorni e l'alluvione che ha provocato diversi miliardi di euro di danni in Emilia Romagna, nonché diverse vittime, hanno sconvolto il Paese. Come spesso accade in questi casi, torna di attualità il solito dibattito sui cambiamenti climatici, ma stavolta Vittorio Feltri, editorialista di Libero, è andato un po' oltre, attirandosi a sé l'orda di commenti social.

Sul suo profilo Twitter, Feltri ha postato un tweet che gli ha provocato diverse critiche: «Prima piangono disperati perché non piove, poi piangono disperati perché piove troppo e qualcuno annega. Ma si può sapere che cosa cavolo vogliono», scrive il giornalista. […]

Attaccano Feltri e non Chi non ha Fatto i lavori. Frida Gobbi su L'Identità il 25 Maggio 2023 

Tutti contro Vittorio Feltri, che non ha fatto altro che essere Vittorio Feltri e di fronte al disastro dell’Emilia-Romagna ha scritto un commento volutamente provocatorio. Cosa che fa da 60 anni, da quando è giornalista. Questo il suo post su Twitter: “Prima piangono disperati perché non piove, poi piangono disperati perché piove troppo e qualcuno annega. Ma si può sapere che cosa cavolo vogliono”. Parole – con chiaro riferimento anche a chi imputa tutto ai cambiamenti climatici – che hanno scatenato la reazione pavloviana degli utenti online. Ma che sono rimbalzate pure sui giornali, che ci hanno messo il carico, con titoli a effetto e dure condanne per il collega. L’Italia ora inveisce contro Feltri, che ha sempre detto quello che vuole, anche cose offensive, anziché esprimere tutta la rabbia possibile perché quel territorio è stato colpito così tragicamente sì per una grande alluvione. Ma anche e soprattutto – come si comincia a capire – per colpa di fondi non utilizzati, ritardi nei lavori, fiumi e territori non messi in sicurezza. Se l’Italia iniziasse a mostrare tutto il suo sdegno, il suo livore anche per queste cose, forse sarebbe un Paese di gran lunga migliore.

Estratto dell'articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 26 maggio 2023.

Se fosse un palazzo sarebbe alto 25 piani e grande quanto un campo di calcio. Ma la quantità mostruosa di rifiuti post alluvione non ha le sembianze di nessun palazzo. È invece fatta di mille e mille cumuli di macerie. […] Si stima che nell’intera area finita sott’acqua o isolata dalle frane, entro la fine dell’emergenza saranno raccolte e smaltite più di 100 mila tonnellate di rifiuti, l’equivalente di dieci mesi di smaltimento ordinario.

Sono davanti alle case, ai condomini, alle aziende, ai capanni, ai garage. […] I sindaci hanno dato il permesso di «costruire» davanti alle loro proprietà — e sulla strada — montagnole di oggetti da buttare via, e dove l’acqua si è ritirata quelle montagnole sono diventate un necessario arredo urbano. Temporaneo, naturalmente. 

Il Gruppo Hera è la società che si occupa dello smaltimento e che in Emilia è attiva da Modena in giù (a esclusione della città di Forlì). Ha messo in campo fin dalle prime ore più di 250 mezzi e un migliaio di persone per un servizio di raccolta rifiuti h24, che però non è possibile smaltire tutti assieme perché gli impianti non sono in grado di lavorare con numeri così grandi. Quindi si tratta di toglierli dalle strade e dai cortili e portarli in un primo momento in piazzole di stoccaggio individuate dai singoli Comuni.

In mezzo a distese infinite di oggetti distrutti e sporchi che fino a dieci giorni fa erano parte della vita di migliaia di persone, si muovono i «ragni» che pescano manciate enormi di quel materiale e lo caricano su camion giganteschi. Destinazione discarica. […]. La Protezione civile vigila su ogni operazione, anche perché ci sono punti non abbastanza sicuri per far passare i mezzi di raccolta dei rifiuti […] 

A Forlì […] , la situazione è critica […] Adesso che l’acqua se n’è andata dalle strade e che gli abitanti hanno cominciato a svuotare case, garage e cantine, il problema sono diventate le voragini aperte nei punti in cui il sistema fognario non ha tenuto: la più grande è ai piedi di un condominio di 12 famiglie che è stato evacuato dai Vigili del fuoco. […] 

Perché l'Emilia Romagna è piena di frane dopo il maltempo. Linda Di Benedetto su Panorama il 25 Maggio 2023

 (Ansa) NEWS25 Maggio 2023 1000 quelle già avvenute in queste settimane; molte altre quelle potenziali. Per colpa, certo, della pioggia scesa in quantità impressionante, ma non solo...

In Emilia Romagna la situazione resta critica con 43 Comuni coinvolti dagli allagamenti; ma non sono solo le alluvioni a preoccupare. Un altro grosso problema è quello delle frane, quasi un migliaio quelle che si sono scatenate in questi giorni, di cui le più grandi, circa 305 sono concentrate in 54 comuni. Numeri che mostrano la fragilità di un territorio da sempre franoso e a rischio idrogeologico che non ha retto ad un fenomeno meteo così devastante. Ma cosa può essere fatto per mettere in sicurezza questi luoghi? «Il territorio dell’Emilia Romagna, o più in generale il territorio dell’Italia è caratterizzato da una pericolosità geologica diffusa dovuta alla sua formazione geologica “recente”. La sua naturale evoluzione geologica si manifesta con terremoti, frane, alluvioni ed eruzioni vulcaniche che spesso riempiono le cronache», commenta Antonello Fiore (Presidente nazionale della Società Italiana di Geologia Ambientale) Ci può spiegare il fenomeno delle frane? «Le frane sono un movimento di terra, detriti, roccia un versante che hanno ha fattori predisponenti e fattori scatenati. Tra i fattori predisponenti troviamo la forma delle colline e delle montagne, la natura geologica e l’assetto geologicostrutturale, la presenza di acqua nel sottosuolo la presenza o meno di vegetazione anche a seguito di un incendio. Tra i fattori scatenanti posso essere naturali come le precipitazioni, i cambiamenti delle condizioni delle acque nel sottosuolo idrologiche, un terremoto. Tra i fattori scatenanti posso essere anche antropici come tagli stradali, e rilevati stradali, scavi, costruzioni che appesantiscono i versanti, scavi per sottoservizi, perdite di acquedotti e fogne. Nel caso dell’Emilia Romagna, con oltre 80.000 frane censite, la natura argillosa dei terreni è un fattore predisponente e i due eventi eccezioni di maggio sono stati i fattori scatenerai avendo appesantito molto i versanti. Andrebbero costruite delle strutture di cemento armato per fermare le frane e soprattutto si dovrebbe evitare di costruire in luoghi predisposti a questo fenomeno». Quando questi pericoli diventano rischi? «Quando le evoluzioni naturali del territorio interferiscono con le infrastrutture e le aree urbanizzate. Mettere in sicurezza un territorio così esposto a frane e alluvioni non è per nulla facile, in molti casi gli interventi antropici hanno manomesso il reticolo idrografico creando situazioni di criticità. Sono presenti collettori di bonifica e corsi d’acqua minori che si sviluppano su ampie aree morfologicamente depresse, tratti di corsi d’’acqua arginati spesso lungo alvei stretti e pensili, cioè più alti rispetto ai territori circostanti. La prima cosa da fare è informare in maniera capillare la popolazione delle pericolosità geologiche che caratterizzano il territorio, anche con esercitazioni, in modo da trasmettere una consapevolezza per adottare un comportamento di autotutela. Poi è necessario rispettare la pianificazione di bacino con le prescrizioni dell’Autorità di Bacino e in fine individuare le criticità dando una scala di priorità. Su queste si deve intervenire con interventi strutturali definiti in base al tipo di criticità senza proporre soluzioni uguali per tutte e dove non è possibile risolvere le criticità con interventi strutturali si devono delocalizzare le infrastrutture e le case» Di che tipo di territorio parliamo? «Il territorio dell’Emilia Romagna è costituito per il 50% da zone montanocollinari e il restante 50% da pianure; le zone montano-collinari sono interessate dal pericolo frane e quelle di pianura dal pericolo alluvioni. Secondo i dati dell’ISPRA (2020-2021), consultabili sulla piattaforma online IDROGEO, per quanto riguarda la pericolosità per frane, il 14,6% del territorio dell’Emilia-Romagna è classificato a pericolosità elevata e molto elevata nei Piani di Assetto Idrogeologico. Sono 86.639 gli abitanti a rischio, residenti nelle aree a maggiore pericolosità per frane; sono a rischio frane oltre 39.660 famiglie, 53.013 edifici, 6.768 imprese e 1.097 beni culturali. Con riferimento al quadro della pericolosità e del rischio di alluvioni l’Emilia Romagna è tra le regioni il cui territorio ha un’alta di aree potenzialmente allagabile. In particolare, l’11,6% del territorio regionale, in cui risiede poco meno del 10% della popolazione, ricade in aree potenzialmente allagabili secondo uno scenario di pericolosità elevata; il 45,6% dell’intero territorio regionale, in cui risiede poco meno del 60% della popolazione, ricade in aree potenzialmente allagabili secondo uno scenario di pericolosità media» Cosa non è stato fatto e come si dovrà procedere? «Molto semplice si è pianificato non valutando con attenzione che la natura ha le sue dinamiche che non sempre queste dinamiche rispettano le nostre esigenze, si è realizzato in aree nelle quali sarebbe stato meglio non realizzare infrastrutture e magari lasciare terreni agricoli in modo che le inondazioni al massimo avrebbero fatto perdere un raccolto. Il consumo di suolo sta amplificando gli effetti al suolo della crisi climatica che sta interessando il Pianeta e in particolare il Paesi che si affacciano sul Mare Mediterraneo, considerato dagli esperti particolarmente vulnerabile al cambiamento climatico. Dobbiamo essere in grado, e mi auguro che il Parlamento lo faccia con la guida del Governo, di superare i No ideologici e i SI ideologici. Ora c’è da pensare all’Emilia Romagna, alla sua popolazione e alla sua economia trainante per il Paese. Tutte le Regioni si devono sentire coinvolte in questa fase di riflessione: quello che è accaduto in Emilia Romagna poteva accadere in qualsiasi Regione in qualsiasi territorio. Dobbiamo superare le fasi commissariali e avviare da subito fasi programmatiche, con la certezza di obiettivi e azioni, alcune azioni dovranno dare risultati immediati e altre con risultati attesi a medio e lungo termine».

La Romagna degli scarriolanti: storia di una lunga lotta contro le paludi. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 21 maggio 2023.

Parla lo storico Roberto Balzani: nel 1870 il terreno paludoso era pari a 141 mila ettari, oggi ne restano 16 mila. Uno sforzo cominciato con la legge Baccarini del 1882

Il centro di Ravenna è stato preservato fino a questo momento dall’alluvione grazie alla generosità degli agricoltori che hanno dato l’ok alla Prefettura: allagare i loro campi per far sì che l’acqua risparmiasse il centro della città.

Di seguito riportiamo l’intervista allo storico Roberto Balzani, che racconta come si presentava in passato l’area devastata oggi dall’alluvione e il lavoro di bonifica delle paludi che nell’ultimo secolo e mezzo ha interessato la zona.

«Secondo i dati di un’inchiesta effettuata nel 1870, all’epoca il terreno paludoso in Emilia-Romagna era pari a 141 mila ettari. Oggi la parte residua delle Valli di Comacchio occupa 16 mila ettari». Le statistiche, citate dallo storico Roberto Balzani, parlano chiaro. Nel corso degli anni il lavoro di bonifica è stato ingente e fruttuoso, anche se l’alluvione di questi giorni ha provocato danni a cui non sarà facile rimediare. Docente di Storia contemporanea all’Università di Bologna, sindaco di Forlì per il centrosinistra dal 2009 al 2014, Balzani ha studiato con grande attenzione le vicende economiche e sociali della Romagna.

Lo sforzo di bonifica comincia dunque con l’Unità d’Italia?

«In realtà la prima irreggimentazione dei corsi d’acqua avviene durante il periodo napoleonico, a partire dal 1807, con l’avvio di un canale artificiale destinato a fungere da scolmatore del fiume Reno per evitarne l’esondazione, all’epoca frequente. È il cosiddetto Cavo Napoleonico, completato poi nel corso del Novecento, che collega il Reno al Po e consente di regolarne il deflusso».

Quando riprendono le operazioni?

«Decisiva a tal proposito è la legge Baccarini del 1882, che prevede un forte intervento dello Stato anche per combattere la piaga della malaria. In seguito a quel provvedimento si procede alla bonifica dell’area paludosa situata a nord della Via Emilia, tra la costa e il Po. Basti pensare che all’epoca era occupata dalle acque la maggior parte della superficie del comune di Ravenna, che peraltro è il più esteso d’Italia dopo quello di Roma. L’iniziativa si deve ad Alfredo Baccarini, deputato romagnolo e ministro dei Lavori pubblici nel governo di Agostino Depretis».

Come si svolgevano i lavori?

«In modo tradizionale, per colmata. Si impiegavano operai agricoli, gli scarriolanti, che trasportavano la terra nella zona paludosa con le loro carriole per alzare il livello del terreno. Era un lavoro molto duro e faticoso. All’epoca venne avviata anche la trasformazione delle paludi in risaie, poi abbandonata quando divenne possibile importare riso dall’estero a buon mercato. Nel Novecento poi vennero impiegate le idrovore a vapore per drenare le acque».

Fino a quando prosegue l’opera di bonifica?

«Oltre la metà del Novecento. Il fascismo vara nel 1924 la legge Serpieri e predispone un programma per la “bonifica integrale”, che decreta lo svuotamento delle aree paludose e la loro messa a coltura nell’ambito della cosiddetta “battaglia del grano” per l’autosufficienza alimentare dell’Italia. Ma gli investimenti del regime si riducono molto in seguito alla grande crisi del 1929. Poi, dopo la Seconda guerra mondiale, subentra l’uso massiccio del Ddt che permette di combattere efficacemente la malaria».

 Un bucolico passato e la realtà odierna. Ambientalismo ideologico peggior nemico dell’ambiente, la soluzione sono più cantieri. Giovanni Toti (presidente regione Liguria) su Il Riformista il 21 Maggio 2023

Il peggior nemico dell’ambiente? L’ambientalismo ideologico, che troppo spesso, quando accadono tragedie come quella dell’Emilia Romagna, irrompe in modo sciacallesco nel dibattito politico, con il suo carico di ricette moralisteggianti.

La soluzione proposta, che soluzione non è, sembra più espiazione e punizione: l’uomo – cicala che troppo in passato ha costruito, prodotto, accresciuto i propri consumi, oggi deve ridurre le sue pretese, le proprie aspettative, la sua qualità di vita, la sua smania di benessere. Insomma, una sorta di “decrescita felice” in salsa verde. Io francamente credo che le soluzioni siano esattamente all’opposto: più cantieri.

Più argini, più interventi negli alvei dei fiumi (oggi praticamente vietati), più canali scolmatori, più regimentazione delle acque, piani di protezione civile più efficaci ed accurati utilizzando al meglio le nuove tecnologie, come i canali 5g, per fornire ai cittadini tutte le informazioni in tempo reale per valutare i rischi. In una parola, più infrastrutture, non meno infrastrutture. E lo stesso vale per gli interventi di lungo periodo, quelli per limitare il cambiamento climatico. Anche in questo caso la ricetta non può essere un fantasioso ritorno a un bucolico passato, ma semmai un gigantesco balzo in avanti: più ferrovie, più metropolitane, più trasporto marittimo e dunque porti più grandi ed efficienti, per limitare gli spostamenti su gomma.

E quando auto e camion diventano inevitabili, strade più scorrevoli, parcheggi di interscambio insomma tutti gli accorgimenti che possono ridurre i tempi di percorrenza e dunque l’inquinamento senza spostamento. Inutile dire che per investire su tutto questo servono economie forti, capacità di spesa, possibilità di investire in ricerca e sviluppo. Dunque serve produrre ricchezza, altro che decrescita e riduzione del Pil. Tutto questo non solo è possibile, ma in Liguria ad esempio lo stiamo facendo da anni. E, a onor del vero, molti Governi degli ultimi anni ci hanno accompagnato su questa strada.

Dopo le grandi alluvioni del 2014, fu il Governo Renzi a stanziare i fondi per la messa in sicurezza del fiume Bisagno nel cuore di Genova. E i cantieri, ancora oggi in corso, hanno ridotto di molto la pericolosità di quel corso d’acqua. Come? Con grandi opere: allargare e rafforzare il letto tombato del fiume, i canali scolmatori del Ferregiano, suo affluente, e del Bisagno stesso.

Nessuno pensò allora di poter far tornare la foce di quel corso d’acqua una grande palude come probabilmente era in origine, demolendo case, mezza fiera di Genova e molto altro che negli anni era stato edificato. Al contrario si è scelta la strada di nuove opere per proteggere l’esistente. Potrei dire lo stesso dopo le grandi mareggiate del 2018, quando il litorale della Liguria fu spazzato via, compresa la iconica strada che collega Santa Margherita a Portofino, perla del Mediterraneo. Allora fu in Governo Conte a garantire oltre 300 milioni di euro alla nostra Regione, con cui da allora rafforziamo dighe foranee, scogliere, spiagge, strade costiere, per ridurre i rischi in caso di una nuova tempesta di quelle proporzioni.

Ma, se volgiamo lo sguardo al futuro, anche la nuova diga del porto di Genova, gigantesca opera del Pnnr, che produce orrore in certo ambientalismo, è un’opera che mitigherà di molto l’impatto ambientale del nostro sistema logistico, facendo risparmiare giorni di navigazione alle grandi navi provenienti dall’oriente e oggi spesso dirette ai porti del nord Europa. Meno giorni di navigazione, meno inquinamento. Più spazio per i traghetti che corrono lungo la penisola, meno traffico sulle nostre strade. E potrei andare avanti a lungo. Questo vuol dire proteggere l’ambiente e al tempo stesso produrre ricchezza per i cittadini. La messa in sicurezza dell’Italia non passa da politiche penitenziali, ma coraggiose e moderne.

Giovanni Toti (presidente regione Liguria)

Quei giorni che hanno cambiato profondamente la storia politica della Liguria. L’alluvione di Genova nel 2014, la gogna, la sconfitta elettorale e la rinascita con i fondi di Italia sicura. Raffaella Paita su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Mi risuonano ancora nei timpani i suoni di quelle maledette giornate, 9-10 ottobre 2014. I giorni che hanno cambiato profondamente la mia vita e anche la storia politica di Genova e della Liguria. In quella giornata ero a Finale Ligure, avevo seguito costantemente i bollettini meteorologici che davano intorno alle 20 un miglioramento della situazione. Era già sera, quando l’incontro che stavo tenendo viene interrotto da una telefonata che mi annuncia che in un comune sopra Genova era in corso la fuoriuscita di un fiume: da lì inizia una serie incessante di mie telefonate e una corsa per raggiungere immediatamente Genova.

Durante il tragitto era chiaro ormai che il fiume Bisagno stava fuoriuscendo. Decido di arrivare comunque alla sala della protezione civile nonostante tutti mi sconsigliassero di farlo dal momento che la strada era già allagata. Raggiunta a fatica la sala, mi rendo conto che la situazione di Genova era così disastrosa che pochissimi altri erano riusciti ad arrivare alla centrale operativa. Ero sola, nessun altro membro della giunta era presente e, da sola, ho appreso la notizia che una persona aveva perso la vita.

Rimasi lì tutta la notte. La mattina dopo si sarebbe tenuta la conferenza stampa. E quella giornata avrebbe cambiato completamente il corso degli eventi. Sì, perché non ero solo l’assessore alla protezione civile della Liguria, nominata da appena tre mesi, ma ero anche la candidata alle elezioni primarie del centrosinistra, favorita per la vittoria. Da lì si scatena l’inferno. Provano ad attribuirmi la mancata allerta, quando era del tutto evidente che non fosse una mia prerogativa.

Descrivono come qualcosa di prevedibile quanto accaduto, quando era chiarissimo che si era trattato di un temporale autorigenerante, termine che torna anche nel caso dell’Emilia Romagna. In molti mi criticano per i mancati interventi in campo idrogeologico per il fiume Bisagno, nonostante tutti sapessero che avevo assunto il ruolo di assessore da soli tre mesi, ma soprattutto che gran parte dei lavori era bloccata dai ricorsi. Nessuno si sottrae al tiro al bersaglio: avversari politici interni al partito e anche esterni. Anche Edoardo Rixi, successivamente colpito da una vicenda giudiziaria legata alle spese pazze, poi assolto, chiese le mie dimissioni.

Proprio dall’aggressione mediatica, nasce la candidatura alternativa alle primarie di Sergio Cofferati, che batterò. Anche la magistratura si interessa alla vicenda: vengo prima ascoltata come persona informata dei fatti e successivamente indagata per omicidio colposo e disastro ambientale colposo, assieme alla dirigente della protezione civile.

L’avviso di garanzia mi arriva a ridosso della presentazione delle liste per le elezioni regionali. La scissione di Cofferati e la vicenda dell’alluvione sono le due cause che portano inevitabilmente alla sconfitta elettorale. Per la cronaca, io poi chiederò il rito abbreviato, e sarò assolta con sentenza passata in giudicato da tutte le accuse, e insieme a me verrà assolta anche la responsabile della protezione civile.

Sono stati cinque anni di calvario, in cui ho dovuto fronteggiare accuse pesanti: fermatevi a pensare a cosa vuol dire essere accusata di aver determinato con le sue mancanze la morte di un’altra persona. Anni in cui la mia famiglia, mio figlio era piccolo, ha pagato un prezzo durissimo. Anni in cui una persona solida come me ha avuto anche conseguenze fisiche.

Genova ha un fiume che scorre nel centro, il Bisagno, che aveva provocato molti morti, tombinato nel cuore della città, e i lavori per la risoluzione della pericolosità avevano una necessita di investimenti per realizzare il terzo lotto della copertura, bloccato dai ricorsi, e la realizzazione di uno scolmatore, capace di risolvere completamente il problema del rischio idraulico. La realizzazione di questi interventi era diventata dopo il 9 e il 10 di ottobre 2014 la mia ossessione quotidiana. Ho chiesto aiuto a tutti, al presidente Burlando, al comune di Genova: abbiamo soprattutto rivolto le nostre richieste alla struttura tecnica di missione Italia Sicura, quella grande idea che nasce proprio nel governo Renzi su proposta di Renzo Piano, e alla cui direzione c’era Erasmo D’Angelis.

Italia sicura ha finanziato per circa 500 milioni gli interventi di cui aveva bisogno Genova. Nel caso dello scolmatore mancava il progetto e ricordo la telefonata accorata a Pietro Salini, l’imprenditore che stava realizzando proprio a Genova il terzo valico dei Giovi. Chiesi a lui di realizzare gratuitamente il progetto del terzo lotto Bisagno, chiarendogli che questo avrebbe comportato l’impossibilità per la sua azienda di partecipare alla gara per la realizzazione dello scolmatore. Salini, che voglio pubblicamente ringraziare per quel gesto di generosità verso la città, disse immediatamente di sì. Grazie quindi a Italia Sicura e al progetto regalato alla città di Genova, si è potuto iniziare il lungo lavoro di messa in sicurezza, poi proseguito con l’amministrazione Toti, in continuità con l’amministrazione Burlando.

Quando sento dire che Italia Sicura non è servita, mi indigno: io sono la testimonianza vivente che quella struttura ha cambiato la vita di Genova e della sua popolazione. Raffaella Paita

Estratto dell’articolo di Maurizio Belpietro per “La Verità” il 22 maggio 2023.

Mi capita di rado di essere d’accordo con Romano Prodi, anzi a pensarci bene non mi capita mai. Però ieri, dopo aver letto un suo articolo sulla Stampa, per la prima volta non ho potuto che concordare con l’ex presidente del Consiglio. 

Infatti, nel suo intervento sull’alluvione in Emilia-Romagna non ha mai nominato il surriscaldamento globale. A differenza di Elly Schlein e della maggior parte degli esponenti della sinistra, colui che è considerato il padre nobile del Pd, ed è il solo che sia riuscito a tenere a bada per qualche tempo la variegata compagnia di giro dei compagni, ha evitato di accodarsi alla narrazione comoda dei cambiamenti climatici per spiegare che cosa sia successo nei giorni scorsi.

Mentre la segretaria sproloquia su cose impalpabili, parlando di economia sostenibile, di mutazioni globali e altre fesserie del genere rossoverde, Prodi ha scritto cose assai più sensate, andando alla radice del problema e facendo capire che se ci sono 14 morti e oltre 30.000 sfollati la colpa non è dell’inquinamento o di qualche altro fenomeno soprannaturale, ma di cose molto terrene, che non si sono fatte o che si sono fatte male.

[…] quelle che lui presenta come riflessioni amare e complesse, sono un atto d’accusa contro la classe dirigente del suo partito. L’ex premier, mentre nega di voler cercare i colpevoli, punta subito il dito sulle pochissime casse d’espansione, ovvero sulle sole opere utili a contenere la furia delle acque e dunque ad evitare morti e disastri. 

[…] Secondo Prodi, bisogna prendere atto della realtà. Il senso è chiaro: basta inseguire le farfalle ambientaliste, smettiamola di dare tutte le colpe al surriscaldamento: occorrono mille misure concrete, soprattutto a livello locale. E quali sono questi interventi? Tra di essi non si trova nessuno di quelli sollecitati dalla ex responsabile della transizione ecologica dell’Emilia-Romagna, vale a dire Elly Schlein.

Negli interventi urgenti indicati dall’ex presidente Ue, si parla di opere di contenimento delle acque (le casse di espansione che la Regione si è dimenticata di portare a compimento), di pulizia dei fiumi, di cura dei boschi, di ripristino dei fossati di scolo, di messa in sicurezza degli edifici a rischio, di eliminazione di quelli costruiti in luoghi proibiti. 

Si tratta insomma di una serie di provvedimenti che definirei di buon governo del territorio.

Nessuna soluzione miracolosa. Niente impegni per la riduzione delle emissioni a livello globale. Zero manifesti anti polluzioni o slogan ambientalisti da Ultima generazione. No, il Prodi che contesta dalla A alla Z le teorie pseudo ambientaliste della segreteria del Pd dice che serviranno molto tempo, molta spesa, molte regole ma, soprattutto, molto senso civico per poter evitare o per lo meno limitare in futuro le conseguenze di quelli che chiama eventi straordinari. […]

Estratto da open.online il 22 maggio 2023.

Ospite stasera del talk show In Onda insieme alla segretaria del Pd, Elly Schlein, il suo “predecessore” Achille Occhetto ha lasciato di stucco la giovane leader, così come i conduttori David Parenzo e Concita De Gregorio, con la sua spiegazione su cosa sia accaduto negli scorsi giorni in Emilia Romagna. 

«È stato il Signore che ha creato la terra», ha sostenuto Occhetto, «che da tempo vedeva questi ragazzi che con la vernice lanciavano allarmi ma erano inascoltati. E allora il Signore ha detto loro: “Ci penso io a fare capire chi non vi ascolta”. E ha fatto come quando mandó l’invasione delle cavallette. Così in tre giorni ha inviato la pioggia di sei mesi».

Muta la Schlein come la De Gregorio. Solo Parenzo ha balbettato: «Certo che sentire un famoso ateo come lei parlare di Dio…». 

(ANSA il 22 maggio 2023) Gli eventi meteorologici, climatici e idrici estremi hanno causato quasi 12.000 disastri dal 1970 al 2021 nel mondo, con oltre due milioni di vittime di cui il 90% nei paesi in via sviluppo e perdite economiche di circa 4.300 miliardi di dollari. Lo rende noto l'Organizzazione mondiale della meteorologia (Wmo), che fa capo all'Onu, precisando che i danni economici sono aumentati vertiginosamente, ma il miglioramento degli allarmi precoci e la gestione coordinata dei disastri hanno ridotto il tasso della perdita di vite umane nell'ultimo mezzo secolo. Obiettivo dell'Onu è garantire l'allarme precoce per tutti entro fine 2027.

Il Wmo ha aggiornato al 2021 il suo "Atlante della mortalità e delle perdite economiche dovute a condizioni meteorologiche, climatiche e idriche estreme", che prima andava dal 1970 al 2019, e viene illustrato oggi in occasione dell'apertura del Congresso meteorologico mondiale quadriennale, che dovrebbe approvare proprio l'accelerazione e il potenziamento dell'azione per garantire a ciascuno i servizi di allerta precoce. Nell'aggiornamento dell'Atlante, i decessi registrati per il 2020 e il 2021 sono 22.608 in totale e indicano "un'ulteriore diminuzione della mortalità rispetto alla media annuale del decennio precedente.

Le perdite economiche sono invece aumentate, la maggior parte delle quali attribuite alla categoria delle tempeste", spiega il Wmo. L'allerta precoce, spiega l'Organizzazione meteorologica mondiale, è "una misura di adattamento al clima comprovata ed efficace, che salva vite e fornisce un ritorno sull'investimento almeno dieci volte superiore". 

Tuttavia, ne dispone solo la metà dei paesi mentre c'è una copertura molto bassa nei piccoli Stati insulari in via di sviluppo (in particolare dell'area caraibica) e nei cosiddetti paesi meno sviluppati (la maggior parte in Africa e Asia) e in Africa. Il Congresso è il massimo organo decisionale del Wmo e riunisce i più alti rappresentanti delle agenzie delle Nazioni Unite, delle banche di sviluppo, dei governi e dei servizi meteorologici e idrologici nazionali responsabili dell'emissione di allerta precoce, che è una delle priorità strategiche che l'organismo punta ad approvare.

Alluvione, le 3 cose che non vi dicono i catastrofisti del clima. Nicola Porro il 18 Maggio 2023

Il giornale che oggi mi ha fatto godere come un riccio è senza dubbio il Foglio dove Giuliano Ferrara, Ermes Antonucci e Franco Prodi fanno un culo così ai fanatici climatisti.

Ferrara, in maniera colta ed intelligente, smaschera la gigantesca confusione che si fa tra meteorologia e climatologia. Sebbene siano due discipline correlate, queste differiscono per il periodo di tempo preso in considerazione. La meteorologia si concentra sull’analisi e sulla previsione delle condizioni atmosferiche a breve termine, che generalmente variano da poche ore ed è infatti spesso associata alle previsioni del tempo quotidiane che sentiamo nei bollettini meteorologici. D’altra parte, la climatologia si concentra sull’analisi dei dati meteorologici a lungo termine per identificare modelli, tendenze e variazioni climatiche su scala più ampia, generalmente su periodi di decenni, secoli o addirittura millenni. Dunque le proiezioni fatte basandosi sui fenomeni atmosferici di breve periodo sono tutte da dimostrare e, come è logico che sia, non costituiscono alcuna evidenza.

Franco Prodi, che è sempre andato contro tutti e tutti sostenendo che questa isteria climatista è un disastro, spiega poi che probabilmente qualche previsione meteorologica in più si sarebbe potuta fare. Meteorologia, non climatologica. Vale a dire che giorni o ore prima potevano esserci dei dati che, se rilevati ed analizzati, avrebbero potuto suggerire ciò che sarebbe successo in Emilia Romagna da lì a poco.

Alla questione della prevenzione si allaccia poi la terza punta di diamante del Foglio, ovvero Ermes Antonucci, che si occupa di tutti quei veti amministrativi che di fatto hanno impedito di predisporre strutture di prevenzione.

Ricapitolando, il Foglio in un giorno solo con Ferrara ha smontato la religione del climatismo, con Franco Prodi ha evidenziato che sul lato della prevenzione si poteva forse fare di più mentre Ermes Antonucci ha messo alla luce la follia per cui non si può toccare un fiume o costruire una diga. Nicola Porro, 18 Maggio 2023

Dietro il maltempo in Emilia Romagna ci sono ragioni scientifiche di cui nessuno parla. Sergio Barlocchetti su Panorama il 18 Maggio 2023.

Di certo, il cambiamento climatico è evidente, come gli errori della mala politica. Ma ci sono cose che bisogna considerare come l'inclinazione, la rotazione e l'orbita della Terra.

Levando ogni ipocrisia, pensare che creare una zona a traffico limitato o impedire la circolazione dei veicoli a motore endotermico possa cambiare un sistema complesso come il clima planetario è semplicemente folle. Sciagurato, invece, è ritardare nella progettazione di opere necessarie per mettere in sicurezza i nostri territori, come gli ultimi eventi meteorologici hanno dimostrato. Innanzi alla polemica politica e al derby tra ambientalisti (veri o finti) e realisti (moderati o negazionisti), pochi ancora ricordano che a scuola si studiavano gli effetti sul clima generati dalla rotazione, dall'inclinazione e dall'orbita della Terra attorno al sole, fenomeni che inevitabilmente fanno variare la quantità di energia solare ricevuta da una particolare regione del globo, a seconda della sua latitudine, dell'ora del giorno e del periodo dell'anno. Stiamo calmi, non è una teoria negazionista, ma anche minimi cambiamenti nell'angolo di inclinazione della Terra come nella forma della sua orbita attorno alla nostra stella causano cambiamenti nel clima in un arco di tempo compreso tra 10.000 e 100.000 anni. Come i cambiamenti giornalieri di luce, temperatura e calore sono causati dalla rotazione della Terra, i cambiamenti stagionali sono causati dall'inclinazione dell’asse terrestre. E questo sta a sua volta cambiando.

Lo dicono gli scienziati, i quali almeno su questo sono quasi tutti d’accordo: la rotazione, l'inclinazione e l'orbita della Terra continuano a cambiare anche oggi, ma non spiegano completamente l'attuale rapido cambiamento climatico in corso. I cambiamenti nell'insolazione provocano cicli di ere glaciali e questi modelli, chiamati anche cicli di Milankovitch, perché predetti dallo scienziato serbo Milutin Milankovitch all’inizio del ventesimo secolo, dimostrarono che i periodi glaciali si verificano durante i periodi di bassa insolazione estiva alle alte latitudini nell'emisfero settentrionale, il che aveva sempre consentito alle calotte glaciali di espandersi poiché non soggette a scioglimento di anno in anno. Successivamente, gli scienziati hanno dimostrato la validità della teoria studiando la cosiddetta documentazione geologica, specialmente quella conservata negli strati dei sedimenti e dei fossili nei bacini oceanici che preservano i cambiamenti chimici nell'oceano e nell'atmosfera durante i periodi glaciali e interglaciali. Tuttavia, gli studiosi non sono altrettanto concordi sul fatto che la rotazione, l'inclinazione e l'orbita della Terra non influiscano sul riscaldamento globale e il cambiamento climatico, dividendosi tra “moderati” e “assolutisti delle colpe umane”. Del resto, la Terra è un sistema incredibilmente complesso al clima della quale concorrono fenomeni diretti e indiretti. Se per un lettore è facile intuire che l’aumento della temperatura acceleri lo scioglimento dei ghiacci, ben più complicato è comprendere, per esempio, che l’aumento o la diminuzione della quantità di luce solare che viene assorbita da diverse aree della superficie terrestre possa influenzare la temperatura media. Per esempio, se aumenta la copertura di neve e ghiaccio, specialmente alle alte latitudini, può aumentare il riflesso della luce solare, che a sua volta diminuisce la quantità di luce assorbita dalla superficie terrestre. E questo ha un impatto diretto anche sul ciclo dell’anidride carbonica che viene trasferita tra terreni, atmosfera e oceani. Con calcoli i cui risultati vengono troppe volte accolti per fede ambientalista e spacciati per verità assoluta, dimenticando il valore di qualsiasi approssimazione. Gli scienziati pensano che i cicli di Milankovitch siano sufficienti per spingere il clima da una fase fredda all'inizio di una fase calda, ma che non spieghino l'intero aumento della temperatura al quale assistiamo. E il motivo è logico: secondo questa teoria la Terra starebbe vivendo una fase di diminuzione della radiazione solare che la raggiunge e ciò porterebbe al suo raffreddamento, non al riscaldamento, quindi, qualche altro fattore deve influenzare il clima negli ultimi tempi. E siccome negli ultimi 30 anni grandi nazioni come Cina, India, Brasile e altre hanno visto uno sviluppo accentuato e con questo l’aumento delle emissioni di anidride carbonica, la causa è stata individuata nelle attività umane. E una volta che la Terra ha iniziato a riscaldarsi, la copertura di ghiaccio sugli oceani ha iniziato a sciogliersi e le acque dell'oceano si sono riscaldate. Il riscaldamento è stato quindi amplificato dai cambiamenti nella fisica, chimica e biologia dell'oceano stesso che hanno influenzato lo scambio di anidride carbonica tra acqua e atmosfera. Più anidride carbonica nell'atmosfera porta a un maggiore riscaldamento, e questo potrà essere ridotto soltanto quando i cicli di Milankovitch riporteranno il clima verso una decisa fase di raffreddamento. Antropocene, l’era in cui i poli si stanno spostando Qui entra in gioco un’altra teoria: il massiccio scioglimento dei ghiacciai a causa del riscaldamento globale ha causato lo spostamento nell'asse di rotazione terrestre dagli anni Novanta a oggi e questo determinerebbe gli effetti ai quali assistiamo oggi. Ovvero: i cambiamenti nel modo in cui la massa terrestre è distribuita attorno al pianeta provoca il movimento dell'asse, e quindi dei poli. Insomma, a far spostare i poli terrestri sarebbe la perdita di centinaia di miliardi di tonnellate di ghiaccio all'anno negli oceani. Con la conseguenza che questi si scaldano e alimentano il ciclo che abbiamo descritto. In particolare, gli scienziati hanno scoperto che la direzione della deriva polare si è spostata da sud a est nel e che la velocità media di deriva dal 1995 al 2020 è stata 17 volte più veloce rispetto al periodo 1981-1995. E che dal 1980 la posizione dei punti ideali che rappresentano i poli si è spostata di circa 4 metri. Il guru di questo studio è il professor Shanshan Deng dell'Institute of Geographic Sciences and Natural Resources Research presso l'Accademia cinese delle Scienze. La sua ricerca, pubblicata sulla rivista Geophysical Research Letters, ha mostrato che le perdite glaciali hanno causato la maggior parte dello spostamento, anche se non possono esserne l’unica ragione. E punta il dito sul prelievo di acqua sotterranea che viene poi scaricata in mare. Il suo collega Vincent Humphrey dell'Università di Zurigo afferma invece che le attività umane hanno ridistribuito enormi quantità di acqua in tutto il pianeta: "Questo cambiamento di massa è così grande che può cambiare l'asse della Terra. Tuttavia, oggi il movimento dell'asse terrestre non è abbastanza grande da influenzare la vita quotidiana, ma potrebbe cambiare la durata di un giorno di qualche millesimo di secondo”. Dagli Usa, il professor Jonathan Overpeck, dell'Università dell'Arizona, ha sempre sostenuto invece che i cambiamenti dell'asse terrestre hanno evidenziato “quanto reale e profondamente grande sia l'impatto che gli umani stanno avendo sul pianeta”, schierandosi tra chi vorrebbe battezzare l’oggi con una nuova epoca geologica, l'Antropocene. Su tutti c’è il parere degli astrofisici, i quali ricordano che mentre la Terra orbita attorno al Sole ne è anche attratta dalle forze gravitazionali, come accade anche con quelle generate dalla presenza della Luna e dei grandi pianeti del sistema solare, principalmente Giove e Saturno. Per lunghi periodi di tempo l'attrazione gravitazionale di altri corpi del nostro sistema solare cambia lentamente la rotazione, l'inclinazione e l'orbita della Terra. In un tempo compreso tra 100.000 e 400.000 anni cambieranno lentamente l'orbita terrestre rendendo la sua traiettoria più circolare oppure più ellittica. Con sconvolgimenti meteorologici e climatici. Inoltre, la variazione dell’inclinazione dell'asse terrestre rispetto al Sole cambia nel tempo, in circa 41.000 cicli annuali. Sono variazioni minime ma che modificano la quantità di luce solare ricevuta, assorbita e re-irradiata da diverse parti della Terra. A loro volta, i cambiamenti nell'insolazione durante questi lunghi periodi di tempo possono modificare i climi regionali e la durata e l'intensità delle stagioni. Ed ovviamente innanzi alle dimensioni e all’evoluzione del creato, affannarsi per quella della tecnologia delle automobili appare insignificante e ridicola.

Alluvione in Romagna, di chi è la colpa. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 12 Giugno 2023 

In Romagna dal 1 al 17 maggio sono caduti 5 miliardi di metri cubi d’acqua, con 32 mila sfollati, 15 morti, 8 miliardi i danni quantificati finora. I modelli climatici stabiliscono che un evento di questa portata si verifica ogni 200 anni. Ce ne sono stati due nel giro di 15 giorni. Vuol dire che la difesa del territorio andrà interamente riprogettata perché non sappiamo cosa ci attende. Nel mentre i romagnoli spalano e cercano di tornare a una normalità, ma non sanno quando ripartirà la ricostruzione perché il Commissario, che la deve gestire, ancora non c’è. L’area colpita vale 10 miliardi di export, 130 mila imprese, 443 mila occupati e 38 miliardi di valore aggiunto. Ma il disastro è solo la conseguenza di un fenomeno estremo o ci sono altre responsabilità? Vediamole una per una.

Il confronto improprio

Mentre la popolazione veniva evacuata con i gommoni, sui giornali e nei talk politici e opinionisti hanno subito fatto il paragone con l’alluvione a Vaia (Veneto) del 2018: «lì sono piovuti 700 mm d’acqua, in Romagna fra i 300 e i 600 mm, ma il Veneto non si è allagato perché aveva costruito i bacini di laminazione, mentre in Romagna solo in parte». Il primo a dire che i due eventi in comune hanno solo il fatto che non si era mai visto nulla di simile è stato proprio il presidente del Vento Zaia. A Vaia il temporale, durato 3 giorni, si è abbattuto in quota (con un uragano che ha distrutto 42 milioni di alberi) dove nascono i grandi fiumi in grado di accogliere molta acqua: il Piave, il Tagliamento e l’Adige, con un canale scolmatore che riversa nel Garda. In Romagna i 500 mm sono caduti in poche ore, in due eventi ravvicinati, sulle colline e su decine di torrenti e piccoli fiumi con difficoltà di deflusso in pianura e le onde dell’Adriatico alte 3 metri a fare da diga. E su un terreno che era diventato cemento dopo due anni di siccità. «Se tutte le vasche di contenimento in progettazione fossero state tutte operative avrebbero potuto limitare un po’ i danni, ma non trattenere quelle quantità» sostengono tutti i geologi e ingegneri idraulici sentiti. Ma quante casse erano operative? 

Le opere fatte e quelle da fare

Nella provincia di Forlì-Cesena: due casse sul Fiume Savio, otto sul Ronco; quattro vasche di laminazione nel punto di confluenza del Montone e del Rabbi; sul Montone quattro casse in progettazione e non ancora finanziate dallo Stato. In provincia di Ravenna: due casse sul Fiume Senio e su una il proprietario ha fatto ricorso. Delle 14 opere realizzate a 6 mancano i lavori che consentono la fuoruscita nei periodi di siccità, ma sono da considerare in questo caso tutte operative proprio perché in grado di accogliere acqua. Sempre in provincia di Ravenna, sul Lamone e Santerno, si sta cercando di capire dove farle perché sono aree completamente insediate e, sia le vasche che le casse, occupano spazi che vanno dai 10 ai 30 ettari. Vuol dire espropri di terreni, di attività e indennizzi. Considerando le incertezze dei profondi eventi climatici, chi decide cosa? La Regione programma, il ministero dell’Ambiente dà i soldi in base a criteri di priorità, poi l’attuazione passa in capo all’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione Civile regionale che delega il suo ufficio provinciale che, a sua volta, deve avere l’ok dal Comune interessato. E qui dipende dagli interessi che ci sono in ballo e dal gradimento dei comitati. 

Sviluppo, abusi e condoni

La Romagna una volta era una palude, poi è stata bonificata e sulla ex palude si è costruito lo sviluppo. Dagli anni ‘40 in poi ogni metro quadrato si è trasformato in attività agricola, allevamenti, capannoni e abitazioni. Attorno un reticolo di canali e 26 torrenti che si riempiono quando piove e poi vanno in secca. L’ultima grande alluvione risale al 1939, quando esondò il fiume Senio. Nessuno se la ricorda più, e si è costruito anche dove non si doveva. Un esempio per tutti: proprio sul Senio, a Faenza, 20 anni fa al posto di un capannone che lavorava le pelli è sorto uno bel condominio con 45 garage interrati. A maggio a Faenza si sono rotti anche gli argini in muratura e nella «casa sul fiume» l’acqua è arrivata fino al primo piano. Il cemento è da sempre il motore dell’economia, sostenuto dai condoni sugli abusi. Il governo Berlusconi ne ha fatti ben due, nel 1994 e nel 2003. Nel 2018 il governo Conte 1 (M5S - Lega) vara un altro condono in una zona fragilissima, Ischia, che nel novembre 2022 subisce una frana devastante che provoca 12 vittime. Funziona così su tutto il territorio italiano e, quando si verifica un evento drammatico, la corsa è a scaricare le colpe su qualcun altro. «I disastri arrivano ormai a ritmo accelerato e tutti dovremmo aver capito che ben poco hanno di “naturale”, poiché la loro causa prima sta nell’incuria, nell’ignavia, nel disprezzo che i governi da decenni dimostrano per la stessa sopravvivenza fisica del fu giardino d’Europa e per l’incolumità dei suoi abitanti»: questo scriveva sul Corriere della Sera Antonio Cederna il 3 gennaio del 1973. 

La visione unitaria

Nel 1989, dopo tante alluvioni, finalmente una legge nazionale (la 183): il territorio viene diviso in 13 grandi bacini idrografici, ognuno con il proprio Piano, in modo da avere una visione unitaria dei corsi d’acqua e loro affluenti dalla sorgente alla foce. Controllo e interventi sono affidati alle Autorità di bacino, ministeri dei Lavori pubblici e Ambiente. Il principio è questo: la difesa del suolo è compito dello Stato ed è l’Autorità di bacino a stabilire quanta acqua si può prelevare per uso agricolo, quanto e dove cavare sabbia e ghiaia e dove non si può costruire. Alle Regioni resta la competenza per i loro fiumi interni. Contro la parte urbanistica hanno fatto ricorso tutte le Regioni. La Corte Costituzionale li ha respinti, ma la sentenza è stata totalmente ignorata. Come sappiamo nell’elezione di un presidente di Regione, Provincia e sindaco di un Comune non c’è arma più potente del piano urbanistico. 

Sui fiumi il federalismo non funziona

Negli anni ‘90 arriva la spinta federalista e nel 2001 — con la modifica del titolo V e successivo decreto del 2006 — Regioni, Province e Comuni si prendono la gestione del territorio e la dividono lungo i confini amministrativi. La legge del 1989 viene svuotata di poteri, insieme alla visione unitaria. Il risultato è che se una Regione, per evitare allagamenti, deve rompere un argine che sta su un confine, l’altra Regione si oppone perché ritiene che i suoi campi siano più utili di quelli della Regione adiacente. All’interno di una stessa Regione le competenze vengono poi a loro volta spezzettate. Quindi nel caso della Romagna, per esempio, l’ufficio della Provincia di Ravenna si occupa del tratto ravennate, quello di Forlì del tratto di Forlì, di quello che va verso Bologna l’ufficio di Bologna. Tutti questi uffici però sono inquadrati dentro l’Agenzia Sicurezza Territoriale e Protezione civile regionale che, essendosi sempre occupata di emergenza, fa fatica a fare anche prevenzione: non ha abbastanza geologi e ingegneri idraulici, e la figura del sorvegliante ambientale è stata abolita.

La sostanza del problema è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante.

Lo spezzatino

Quindi c’è un ente che si occupa del luogo dove scorre l’acqua, poi c’è l’Arpa che si occupa della qualità dell’acqua, ma a cui è stata affidata anche la competenza sulle concessioni di estrazione. In pratica se devo innaffiare i miei campi prendo l’acqua dal fiume nella quantità e nei tempi decisi da Arpa e non dall’Autorità di bacino, che ogni anno deve fare appelli (che nessuno ascolta) perché c’è troppo prelievo. Certo in Romagna gli uffici preposti hanno operato al massimo delle loro possibilità: la portata dell’evento è stata tale che di più non si poteva. La sostanza del problema è che ogni Regione si preoccupa del suo territorio, fregandosene dei danni che può provocare alla Regione confinante. In questo quadro di disonestà politica e culturale avvengono le tragedie evitabili e si amplificano quelle provocate dagli eventi estremi.

Non ci sono più i contadini a curare e manutenere il territorio; le terre le coltivano i terzisti e i fossi non li scava più nessuno.

Frane: cause e concause

La Pianura Padana è la zona d’Italia che più ha sofferto i due anni di siccità: il terreno troppo secco non ha assorbito e i temporali si sono scatenati sulle colline già naturalmente fragili perché argillose. Aperte 936 frane e ad oggi 31 frazioni sono isolate con 331 abitanti raggiungibili solo con mezzi pesanti. Non ci sono più i contadini a curare e manutenere il territorio; le terre le coltivano i terzisti e i fossi non li scava più nessuno. Un destino comune a tutte le aree montane e collinari italiane, dove i piccoli paesi si sono via via spopolati anche perché ha cominciato a chiudere la scuola, poi l’ufficio postale, l’ambulatorio e non arriva più il trasporto pubblico. In aggiunta la manutenzione alla rete di strade è diventata scarsa o inesistente da quando per legge (2014) le Province state svuotate di risorse. 

La legge sul consumo di suolo

Dopo Lombardia e Veneto Ispra mette l’Emilia-Romagna al terzo posto per consumo di suolo. Una legge nazionale sulla sua riduzione ancora non c’è. L’Emilia-Romagna si è fatta la sua (legge n° 24) e approvata a maggioranza nel 2017 ed è la prima a darsi un limite massimo del 3% della superfice urbanizzata. Se si va a leggere bene riguarda sostanzialmente gli insediamenti residenziali e prevede un periodo transitorio di 5 anni che diventano 6 grazie a un emendamento del consigliere leghista Pompignoli, sostenuto dai colleghi più cementiferi del Pd. Alla Camera il 30 maggio quattordici deputati della Lega presentano un emendamento dal titolo: «Disposizioni urgenti per la mitigazione del rischio alluvioni». La sostanza è questa: i presidenti delle Regioni e i sindaci possono autorizzare in via d’urgenza soggetti pubblici e privati a estrarre sedimenti, sabbia e ghiaia dal letto dei fiumi e torrenti fino al ripristino del livello storico (quale?) dell’alveo. Il nulla osta degli enti interessati deve pervenire entro 30 giorni, decorso il termine vale l’assenso. L’emendamento viene dichiarato inammissibile, ma probabilmente verrà ripresentato. Il professor Roberto Passino, fondatore dell’Istituto Ricerca sulle Acque del Cnr nonché segretario generale dell’Autorità di bacino del Po dal 1991 al 2002 e che ha lottato per anni contro i tentativi di corruzione da parte dei cavatori, dichiara: «Questa è un’attività rigidamente normata perché l’alveo dei fiumi, privi di ghiaia e sabbia a causa dei continui prelevamenti, aumenta la velocità dell’acqua e il pericolo. Ne emerge che lo scopo non sia quello di pensare alla sicurezza, ma quello di aumentare il potere delle Regioni». 

Il Commissario che non c’è

E ora c’è da ricostruire la Romagna. È evidente che non si potrà fare tutto negli stessi luoghi: la natura ha dimostrato che non può essere piegata alla volontà dell’uomo. Per fare queste operazioni ci vuole un Commissario e quello naturale sarebbe il Presidente della Regione Bonaccini, proprio perché il suo territorio lo conosce bene. Salvini è contrario, ma non spiega il perché. Alla luce di quanto ricostruito è complicato attribuirgli colpe che potevano evitare i danni. Sta di fatto che la Presidente del Consiglio ha messo la questione in stand by. Chiunque arrivi si farà la sua struttura, ad operare saranno i funzionari di Comuni, Province e Regione, che contemporaneamente rispondono ai loro sindaci e presidenti. Quindi si va alla duplicazione dei centri di responsabilità rallentando il processo. Suona come una cinica rivalsa politica mentre un’intera regione sta offrendo.

Che succede alle cassette di sicurezza delle banche in Emilia devastate dall'alluvione? Linda Di Benedetto su Panorama il 6 Giugno 2023

Diversi clienti in Emilia Romagna hanno scoperto che difficilmente verranno risarciti, soprattutto dei contanti nascosti e distrutti dall'alluvione: le loro banche non risponderanno dei danni causati dall’alluvione, trattandosi di un evento straordinario e quindi non coperto dall'assicurazione.

Mentre l'acqua si sta ritirando e lentamente si prova a tornare alla normalità dall'Emilia Romagna devastata dall'alluvione arrivano storie che forse per la prima volta diventano problemi reali. Le inondazioni non hanno riempito solo cantine, garage, taverne e case private ma anche aziende e attività di ogni tipo, comprese le banche. E sono molti gli istituti di credito che hanno cassette di sicurezza nascoste nei sotterranei dove l'acqua è entrata in molti casi danneggiando il loro prezioso contenuto. Ecco, diversi clienti hanno scoperto che difficilmente verranno risarciti, soprattutto dei contanti nascosti distrutti e trasformati in carta straccia e le le loro banche di tutta risposta hanno detto che non risponderanno dei danni causati dall’alluvione, trattandosi di un evento straordinario e quindi non coperto dall'assicurazione. Ma possono farlo? Lo abbiamo chiesto ad un legale

«La responsabilità delle banche incontra un limite nel c.d. “caso fortuito”, ossia l’evento straordinario ma non dimentichiamoci che in un territorio a rischio idrogeologico come l’Emilia Romagna non era poi così imprevedibile»- commenta l’avvocato Edoardo Amati Senior Associate presso Tonucci & Partners Quindi la banca non deve coprire i danni causati dall’allluvione? «Il cliente quando deposita beni presso la cassetta di sicurezza della propria banca stringe un rapporto contrattuale in base al quale l’istituto di credito si obbliga dietro il pagamento di un corrispettivo (sotto forma di canone) a mettere a disposizione del cliente un luogo dove custodire i suoi beni. Considerata la particolarità della fattispecie, il nostro ordinamento giuridico prevede una forma di responsabilità peculiare a carico della banca che, in base all’art. 1839 del codice civile, risponde verso il cliente per “l’idoneità e la custodia dei locali”, nonché per “l’integrità della cassetta”.La banca deve dunque garantire, non solo che i locali del deposito siano adeguatamente sorvegliati e attrezzati (ad esempio, con gli idonei sistemi di chiusura) per scongiurare l’accesso e la sottrazione dei beni depositati da parte di terzi, ma anche che gli stessi siano idonei alla custodia delle cose. Alla luce della precisione normativa appena richiamata, si può dunque affermare che, in termini generali, la banca risponda certamente per il furto, mentre molto più complesso è invece il tema dei disastri naturali, come da ultimo dei fenomeni alluvionali che hanno interessato la Romagna, e ciò proprio perché il fenomeno “alluvione” è ancora oggi considerato come un fenomeno “straordinario” ed “imprevedibile” e come tale rientrante nella nozione del caso fortuito e pertanto idoneo (astrattamente) ad escludere (ove debitamente provato) la responsabilità della banca ai sensi dell’articolo1839 c.c.». Ci sono dei precedenti? «Si basti pensare alla pronuncia della Corte di Cassazione del 1976, dove il tema dell’allagamento delle cassette di sicurezza bancarie acquisì per la prima volta risonanza nazionale a fronte dell’alluvione di Firenze verificatasi a seguito dell’esondazione del fiume Arno.In tale occasione, la Corte di Cassazione si pronunciò escludendo la responsabilità della banca verso i propri clienti in virtù del principio “vis cui resisti non potest”, un’espressione che nel diritto romano indicava l’insieme di circostanze estranee alla volontà del debitore e da lui non controllabili che determinavano la non punibilità dell’inadempimento.È dunque molto probabile che, anche in questo caso, le banche possano far leva su quel principio per sostenere di dover essere esonerate da eventuali responsabilità per perdita dei beni custoditi nelle cassette di sicurezza e rigettare le richieste di risarcimento che fissero avanzate in loro danno».

Cosa consiglia? «In queste condizioni, per tutti coloro che vorranno (comprensibilmente) avanzare eventuali iniziative risarcitorie, potrebbe essere importante, previo consulto con il proprio legale, la verifica delle condizioni contrattuali e normative applicabili e della polizza assicurativa stipulata dalla banca, di modo da accertarsi in concreto di eventuali elementi ove mai ivi rinvenibili che possano escludere che l’alluvione del maggio 2023 venga altrimenti qualificata come ‘caso fortuito’». C’è qualche elemento nuovo rispetto alla sentenza della cassazione a cui possono appellarsi? «Un fattore che potrebbe acquisire rilevanza è la conformazione territorio e la sua suscettibilità ad inondazioni, elemento che, ove adeguatamente dimostrato, potrebbe indurre l’autorità giudiziaria a ritenere il fenomeno inondazione come un rischio “prevedibile” da parte delle banche e come tale idoneo ad escludere il ricorrere del caso fortuito.Sotto questo profilo non può non considerarsi che l’Emilia-Romagna, per porzione di territorio potenzialmente allagabile e popolazione esposta a rischio di alluvione, ha valori nettamente superiori a quelli calcolati su scala nazionale e che province come Ravenna e Ferrara (entrambe colpite in modo particolare dall’alluvione di questi giorni), hanno la maggiore estensione di territorio inondabile, con punte rispettivamente dell’80% e di quasi il 100% in caso di scenario di pericolosità media da alluvioni. Non ci si può inoltre non domandare se, in un’epoca storica come quella attuale, in cui i fenomeni atmosferici gravi sono divenuti purtroppo una realtà sempre più costante anche alle nostre latitudini, ci sia ancora spazio per qualificare automaticamente un fenomeno atmosferico come quello che ha investito l’Emilia-Romagna come un dato straordinario e imprevedibile. Insomma, non si può escludere che la percezione di fenomeni come questi cambi nel corso del tempo anche sotto un profilo di prevedibilità. Del resto, ciò è quanto accaduto con la pandemia da SARS-CoV-2, un fenomeno che è stato  giustamente trattato come straordinario e imprevedibile nella sua prima manifestazione, ma che ha cessato di esserlo allorché lo stesso è (anche qui purtroppo) divenuto realtà quotidiana.Potrebbero dunque sussistere i presupposti per far sì che il cliente non resti del tutto sprovvisto di tutela di fronte alla scelta della banca di negare il risarcimento dei danni patiti a causa dell’alluvione.Resta in ogni caso l’auspicio che in una tragedia come questa il buonsenso prevalga e gli istituti di credito possano infine raggiungere intese con i propri correntisti che possano dirimere ogni controversia».

Pathos logorato. L’abuso di «perdere tutto» che livella le tragedie e impigrisce l’empatia. Maurizio Assalto su L'Inkiesta il 12 Giugno 2023 

Una narrazione giornalistica ripetitiva racconta l'alluvione in Emilia Romagna, omogeneizzando le storie e i vissuti individuali di chi ne è stato colpito

Più o meno, la scena è questa: Piemonte, novembre 1994, nella valle del Tanaro, sommersa dal fiume esondato dopo tre giorni di pioggia, un gommone a remi si avvicina al tetto di una cascina che affiora dall’acqua. A bordo, oltre al rematore, una giornalista del tg regionale accompagnata dall’operatore. Abbarbicati al tetto, gli abitanti della cascina in attesa che qualcuno li porti via (la troupe è stata più rapida dei soccorritori). La giornalista “gommone veloce” porge il microfono a una donna, e con il microfono la domanda assassina, che più che una domanda è una constatazione. Tono condolente (vagamente iettatorio), forte accento piemontese: «Eh… avete perso tutto, eh…?».

La risposta non la ricordo, non importa, a me piace immaginare che la poveretta abbia perso anche le staffe e sia esplosa: «Ma va…!».  (In ogni caso, voglio rassicurare: la giornalista è poi tornata alla base sana e salva, l’ho ancora vista per molti anni in televisione).

La scena mi è tornata in mente durante la recente alluvione in Emilia-Romagna, sull’onda del refrain ascoltato e letto in quei giorni drammatici: «hai/ha/avete/hanno perso tutto», ripetuto con enfatico, quasi compiaciuto accanimento (beninteso: compiaciuto per l’“originalità” dell’enfasi, non per il fatto enfatizzato). Fino a cristallizzarsi nella lugubre formula – generalmente preceduta dalle preposizioni a, di, per – «chi ha perso tutto».

«Il dramma di chi ha perso tutto». «La disperazione di chi ha perso tutto». «Il racconto di chi ha perso tutto». «La drammatica testimonianza di chi ha perso tutto». «Un pensiero per chi ha perso tutto». «Un sostegno concreto a chi ha perso tutto». «Una casa e un lavoro per chi ha perso tutto». «Gli psicologi assistono chi ha perso tutto». E si potrebbe continuare, perdendosi nella rete.

Se si imposta «chi ha perso tutto» come stringa di ricerca su Google, si ottiene un numero esorbitante di occorrenze: io ne ho trovate centosessanta mila martedì, 162 mila mercoledì, 163 mila giovedì, e così via. L’incremento si riduce di intensità a mano a mano che scende, con il livello dell’acqua, l’attenzione mediatica per la situazione nelle zone colpite; ma nel frattempo nell’immaginario linguistico si è consolidato il nuovo soggetto collettivo, la parola polirematica che si potrebbe scrivere con i trattini: «chi-ha-perso-tutto».

Centosessantamila e più occorrenze sono grazie al cielo (anzi, al cielo no: è dal cielo che è venuto il flagello) un numero molto superiore a quello di «chi-ha-perso-tutto». Senza poi considerare che non tutti quelli che hanno perso hanno perso davvero tutto: c’è chi ha perso il raccolto, la merce che aveva in negozio, quello che aveva in casa, la bici, il motorino, l’automobile; ma i muri sono rimasti in piedi, i risparmi in banca – piccoli o più consistenti – sono disponibili, unitamente ai fondi dell’intervento pubblico e della mobilitazione privata – per affrontare la ricostruzione che questa gente tenace saprà affrontare, e per fortuna le perdite umane sono state limitate.

Non si tratta di negare la realtà del disastro, ma di contrastare l’appiattimento di tutte le situazioni in una anonima categoria indifferenziata che fa torto alle tragedie maggiori che purtroppo ci sono.

Perché utilizzare indistintamente, invariabilmente, torpidamente, ritritamente una locuzione logorata dall’abuso fino a perdere anche l’originario pathos, e che in questa ripetizione anestetizzata meglio si presterebbe a caratterizzare un ludopatico compulsivo uscito spennato dal tavolo da gioco? Perché non parlare più propriamente di alluvionati, sfollati, evacuati, persone rimaste senza casa?

E invece ecco la sinistra formula che tutti li inchioda alla loro sciagura, come lepidotteri trafitti dagli spilli nella teca di un entomologo. E riecco l’indefinito soggetto collettivo che periodicamente si ripresenta, portando sulla pelle i segni ora di un’alluvione, ora di un terremoto, ora di una frana o di una valanga (in questo sventurato Paese la malasorte non ha che l’imbarazzo della scelta).

Il “bello” (il bello? ma sì, il bello) è che questo indistinto soggetto collettivo non è per niente indistinto, ma è formato da uomini e donne, ognuno con la propria storia, che in realtà non amano rappresentarsi come «chi-ha-perso-tutto». Anche quando, nei titoli, i mezzi d’informazione glielo fanno dire; poi leggi l’articolo, o ascolti l’intervista in televisione, e «abbiamo perso la casa, le nostre cose e i ricordi di una vita», dichiara per esempio una signora, «ma almeno abbiamo salvato il negozio, da cui possiamo ripartire».

Benedetti titoli che vorrebbero sempre essere sintetici, economizzare sulle parole, e invece a volte ne impiegano più del dovuto. Perfino al presidente Mattarella in visita a Ravenna si è messo in bocca un «pensiero alle vittime e a chi ha perso tutto»: salvo che una simile banalità il Capo dello Stato si è ben guardato dal pronunciarla, come attestato dalla registrazione del suo intervento che in forma molto più articolata esprimeva «solidarietà a chi ha in questo momento il pensiero dell’abitazione devastata, [il pensiero] ai ricordi di una vita perduti, ai luoghi di lavoro commerciali, agricoli, professionali e industriali che sono inagibili».

Torniamo al 1994, valle del Tanaro: se quella volta, che non era certo la prima volta, la signora che «aveva perso tutto» avesse perso anche le staffe…

Tempo avverso. L’inaspettata pioggia del Concertone e la prevedibile siccità in Europa. Oscar di Montigny su L'Inkiesta il 5 Maggio 2023.

Due gocce cadute su Piazza San Giovanni in Laterano hanno suscitato tanto clamore sui giornali, forse perché gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati finora?

«Servono praticamente più di tre ore per vedere salire sul palco il primo cantante per cui vale la pena stare sotto l’acqua», si legge sul sito del Corriere della Sera, in una galleria di foto e voti riferiti alle performance e agli artisti che il giorno precedente si erano susseguiti sul palco del Concertone di piazza San Giovanni in Laterano. Un palco, e un evento, dove la vera protagonista assoluta è stata la pioggia. E di fatti in più di una occasione i conduttori si sono rivolti alla folla degli spettatori con parole degne degli eroi. E di fatti molti articoli hanno focalizzato i propri titoli sulla sfida tra i trecentomila presenti e la pioggia battente. Il Sole 24 Ore, addirittura, scrive: «il tempo avverso non ha scoraggiato le migliaia di ragazzi che hanno raggiunto piazza San Giovanni a Roma». Il tempo avverso!

Secondo l’edizione di quest’anno del rapporto sullo stato europeo del clima (ESOTC) del Copernicus Climate Change Service (C3S*). A livello globale, gli ultimi otto anni sono stati i più caldi mai registrati, mentre negli ultimi decenni l’Europa si è riscaldata più velocemente di qualsiasi altro continente. L’anno scorso, l’Europa, ha vissuto la sua estate più calda e il secondo anno più caldo mai registrato.

Pubblicato il 20 aprile scorso, il rapporto ESOTC 2022, che fornisce una panoramica completa degli eventi climatici significativi del 2022 in Europa, nell’Artico e in tutto il mondo, collocando il clima nel 2022 in un contesto a lungo termine, mostra che la temperatura media per l’Europa negli ultimi 5 anni è stata di circa 2,2°C al di sopra dell’era preindustriale (1850-1900) e che il 2022 è stato il secondo anno più caldo mai registrato, con 0,9°C al di sopra del 1991 -2020 media.

La scorsa estate, che è stata la più calda mai registrata in Europa con 1,4°C sopra la media, insieme alle alte temperature ci ha fatto vivere diversi eventi estremi, tra cui intense ondate di caldo, condizioni di siccità e vasti incendi. «Il caldo estremo durante la tarda primavera e l’estate – si legge sul rapporto – ha provocato condizioni pericolose per la salute umana. In generale, l’Europa sta assistendo a una tendenza all’aumento del numero di giorni estivi con stress da caldo forte o molto forte, e nell’Europa meridionale lo stesso si osserva per lo stress da caldo estremo». C’è da aggiungere anche una tendenza alla diminuzione del numero di giorni senza stress da caldo. E, dunque, da chiedersi: quale sarà da qui in avanti il tempo veramente avverso?

Secondo uno studio pubblicato il 25 aprile su Nature Communication e condotto da un team di ricercatori del Regno Unito, i luoghi più a rischio ondate di calore non saranno solo quelli economicamente sviluppati come Germania, Paesi Bassi, Belgio, Lussemburgo, la regione della Cina intorno a Pechino, la Russia dell’estremo oriente, l’Argentina nordoccidentale e parte dell’Australia nordorientale. Lo studio include anche paesi in via di sviluppo come l’Afghanistan, il Guatemala, l’Honduras e la Papua Nuova Guinea, i quali hanno maggiori probabilità di non disporre di risorse adeguate a proteggere le persone.

Se ve ne fosse ancora bisogno, questo studio dimostra ancora una volta come negli ultimi decenni nel mondo si siano verificati periodi di caldo che non rientrano nell’intervallo di plausibilità statistica, ciò nonostante, le società potrebbero essere impreparate ad affrontare un’ondata di caldo estremo per non averne mai vissuta una, e dunque per questo particolarmente vulnerabili. 

Non dovrebbe esser difficile crederci, basti pensare al caso Catalogna che ha ritenuto necessario scalare le rassicurazioni del premier Pedro Sanchez, che pur ha incluso la siccità tra i temi che focalizzeranno il dibattito politico e territoriale spagnolo nei prossimi anni, affidandosi all’intervento divino invocato con una particolare processione per la pioggia. Per la cronaca, in Catalogna non piove da ben 32 mesi, in generale l’intera Spagna è messa a dura prova dal periodo di siccità peggiore degli ultimi 70 anni. Si pensi che già in aprile si sono registrate temperature record tra i 30 e i 40 gradi, in diverse zone del Paese.

L’alluvione, il clima e l’uomo. Domenico Pecile su L'Identità il 4 Maggio 2023. 

L’eccezionale sfuriata di maltempo che da diversi giorni insiste su buona parte dell’Italia (gravi disagi anche nel Salentino per le forti raffiche di vento) si è accanita particolarmente sull’Emilia Romagna con morti, comunità evacuate, crolli, esondazioni, allagamenti, viabilità interrotta in diversi punti. Le precipitazioni hanno raggiunto massimi storici mai registrati. La Regione è in ginocchio e per bocca del suo presidente, Stefano Bonaccini, ha già chiesto lo stato di calamità. Immediata la risposta del ministro per la Protezione civile, Nello Musumeci. “Ho appena firmato il decreto – ha detto – per disporre la mobilitazione straordinaria della Protezione civile. Ho così accolto la richiesta del presidente della Regione a seguito degli eventi calamitosi che hanno colpito in particolare nelle ultime 48 ore le province di Bologna, Forlì-Cesena, Modena, Ravenna e Ferrara”. Anche il Capo dello Stato, Sergio Mattarella, ha chiamato Bonaccino attorno alle 14 di ieri per fare il punto sull’alluvione e manifestare tutta la sua vicinanza. Ma anche il premier Giorgia Meloni è stato per tutta la giornata di ieri in costante contatto con le autorità. “Ho sentito al telefono la presidente del Consiglio che ringrazio per la vicinanza che ha espresso all’Emilia Romagna e alle comunità colpite”, ha commentato Bonaccini. Ma intanto, ora dopo ora, le notizie che rimbalzano dalle località più colpite si trasformano in un vero e proprio bollettino di guerra che pare destinato ad aggravarsi. Un anziano è morto ieri mattina travolto dalle acque del fiume Senio che era esondato a Castel Bolognese, in provincia di Ravenna. “E’ una situazione molto difficile, è crollato un pezzo di argine e abbiamo evacuato una frazione predisponendo il palazzetto per l’accoglienza”, è stato il commento del primo cittadino, Luca Della Godenza, che ha ordinato la chiusura delle scuole per precauzione. L’uomo deceduto, un ottantenne, era in sella alla sua bicicletta quando è stato investito dall’acqua. E un’altra vittima è stata segnalata a Fontanelice, in provincia di Bologna, dove è crollata una casa a causa di una frana: un uomo di 78 anni, che abitava nell’abitazione, è stato trovato morto. A tarda sera non risultavano altri dispersi nella zona del crollo. L’altra persona che in un primo momento si supponeva potesse trovarsi in casa assieme alla vittima era, infatti, da un’altra parte. E tra le zone più colpite e da cui sono pervenuti diversi sos è quella del ravennate. I vigili del fuoco hanno soccorso ieri mattina una signora rimasta intrappolata all’interno della sua vettura bloccata dalle acque del Sillario straripate a Conselice. Sempre nelle prime ore della mattina, il fiume Lamone ha esondato nei pressi della località Boncellino di Bagnacavallo dove sono state evacuate circa una decina di famiglie. Le attività di evacuazione hanno coinvolti complessivamente 400-500 residenti sparsi su tutto il territorio della provincia di Ravenna. Inoltre, nel pomeriggio di ieri si stava valutando se procedere all’evacuazione anche degli abitanti di Mezzano e Traversara. “Ringrazio tutti coloro che in questa difficile nottata – aveva riferito il prefetto Castrese De Rosa – hanno dedicato la loro opera e il loro impegno per garantire l’incolumità della cittadinanza in questo complicatissimo momento”. E in seguito all’esondazione del torrente Gaiana, nel Comune di Medicina (Bologna) i vigili del fuoco hanno provveduto a evacuare 25 persone rimaste bloccate nelle loro abitazioni di Spazzate Sassatelli e a Medicina. Ma molti sono stati anche gli interventi di soccorso in favore di automobilisti rimasti intrappolati e in grande pericolo di vita. Complessivamente già nel primo pomeriggio gli interventi dei vigili del fuoco erano stati circa 400. Intanto, sotto la spinta delle precipitazioni torrenziali, il livello del fiume Po si era alzato fino al pomeriggio di ieri di oltre 1,5 metri. Dal canto suo, Coldiretti segnala che “sono finiti sott’acqua seminativi, frutteti e vigne, con danni anche alle strutture e alla viabilità stradale e ferroviaria. La situazione più grave è sempre in Emilia Romagna dove si registrano fattorie assediate e bloccate dalla marea di fango, interi filari di ulivi sradicati dalla furia delle frane”. Gravi disagi anche sul fronte della viabilità. Chiuso un tratto della via Emilia, per l’esondazione del fiume Selio. A causa di frane e smottamenti, sulla strada statale 65 della Futà sono stati chiusi nel territorio di Loiano (Bologna) diversi tratti stradali- Per i mezzi superiori alle 3,5 tonnellate diretti in direzione Toscana è stata prevista l’inversione di marcia al km 83,1000 mentre per i veicoli in direzione Bologna inversione al km 72.000 nei pressi della rotatoria nel Comune di Loiano. Disagi si sono verificati anche lungo diversi tratti ferroviari con diversi ritardi. E purtroppo “permane l’allerta rossa fino alla mezzanotte di oggi (ma le precipitazioni dovrebbero esaurirsi a metà giornata) nelle aree centro orientali della regione, in particolare nel bolognese e in Romagna, a causa degli estesi allagamenti e delle criticità idrauliche e idrogeologiche. Sul resto della regione, allerta arancione sull’Appennino riminese; gialla nell’appennino tra Reggio e Modena, nella pianura modenese e nel ferrarese”, come ha comunicato la Regione Emilia Romagna. Nella fascia pedecollinare la pioggia caduta al suolo ha superato in varie stazioni oltre 200 millimetri, superando i livelli di allarme e i massimi storici mai registrati.

NORD A SECCO E AL SUD SI SPRECA. Redazione su L’Identità il 6 Aprile 2023

di GIORGIO BRESCIA

 Se il Nord è a secco, per la carenza idrica che quest’anno ha bloccato il via dell’irrigazione in Lombardia prevista per lo scorso weekend durante il quale decine di chilometri di rogge e fossi sono rimasti in asciutta, anche il Sud lamenta una nuova stagione i cui i territori evidenzieranno ancora una volta decine di opere idriche incompiute. Un ennesimo scandalo cui non riesce a star dietro la politica che, con il Governo attuale, si trova a fronteggiare un’emergenza ultradecennale – per gli impianti – e ormai prossima al giro di boa dei due anni per la carenza idrica in fiumi e laghi a causa del climate change.

L’Anbi la definisce un’Italia idricamente rovesciata. Al centro della quale c’è per esempio la diga di Montedoglio in Toscana, che, con i suoi 140 milioni di metri cubi d’acqua, rappresenta l’invaso più importante dell’Italia centrale. Ma la sua acqua non arriva alle coltivazioni del territorio. Perché? “Le condotte primarie ci sono, i laghetti di accumulo pure, ma ormai da anni mancano le reti per consegnare la risorsa alle aziende agricole che, causa siccità, fanno fatica a continuare a produrre ed a rimanere sul mercato – spiega Serena Stefani, presidente del Consorzio di bonifica 2 Alto Valdarno – . Ogni giorno dobbiamo confrontarci con la difficoltà di portare acqua all’agricoltura della Valdichiana Senese, Aretina e della Valtiberina dove insistono imprese sì competitive ma il cui sviluppo è rallentato o minato dall’assenza di risorsa idrica. Eppure, in questo territorio l’acqua non manca, perché la diga di Montedoglio rappresenta un “polmone” importante, ma è impossibile completare i distretti irrigui per la mancanza di risorse e di un adeguato supporto normativo”.

Il bubbone più grosso – lo scandalo storico – è rappresentato dagli impianti elencati nei fogli che il presidente di Anbi Francesco Vincenzi ci mostra. Una trentina di opere incompiute, un elenco datato 2017 sul quale Anbi non ha ricevuto notizie di particolari aggiornamenti positivi. I lavori a Pettorano sul Gizio in Abruzzo per il riordino dell’irrigazione sono iniziati nel 1978, 45 anni fa. Dopo 8 anni si sono fermati per sempre, a causa del mancato completamento del finanziamento.

LO STIVALE FA ACQUA

Lavori iniziati e interrotti un po’ ovunque, lungo lo Stivale, in particolare dall’Emilia alla Sicilia. Nel Lazio, il rifacimento del canale Dragoncello del Tevere è partito nel 2009 ma poi si è fermato per i tagli dei fondi da parte della Regione Lazio. Nel Molise, una vasca di espansione vicino Venafro avviata nei primi anni 2000 attende ancora i fondi per essere conclusa. In Campania, solo da pochi giorni si è messo mano, tra Regione Campania e fondi Pnrr per 200 milioni assicurati dal Mit, alla più grande diga del Mezzogiorno che interessa 20 Comuni del Beneventano, un invaso colmo d’acqua inutilizzabile finora per mancanza delle necessarie condutture. Ma il resto del territorio non ha più voce per i suoi Sos, se la Rete irrigua dell’Alento – l’opera dal più alto costo in regione, per 30 milioni circa – ha visto la sua prima pietra nel 1999 e lo stop lavori per mancanza fondi nel 2011. In Puglia regnano la difformità di lavori, i successivi mancati collaudi anche ad opere terminate, le contestazioni sui lavori dagli anni ’90 per l’opera sul torrente Scarafone. In Calabria, la diga sul Melito per 190 milioni è partita negli anni ’90. Da allora, è stato terminato solo il 10% dei lavori. In Sicilia, la diga di Pietrarossa, iniziata nel 1989 per circa 70 milioni, è completata al 95% ma ha visto lo stop al cantiere per il ritrovamento di un sito archeologico.

Il racconto potrebbe continuare, ma Vincenzi freme a dire la sua, guardando all’intero quadro del Paese: “Non solo è necessario realizzare nuovi bacini per trattenere le acque di pioggia sul territorio, perché bisogna efficientare la rete idraulica esistente, completando gli schemi idrici e ripulendo bacini, la cui capienza è complessivamente ridotta di oltre il 10% per la presenza di sedime sul fondale.

L’ANBI HA UN PIANO

Il Piano Anbi, a disposizione del Paese, prevede 858 interventi per un investimento di quasi 4 miliardi e 340 milioni, capaci di garantire oltre 21mila posti di lavoro. Ma va accompagnato dall’efficientamento e completamento dell’esistente. La proposta si articola in 729 progetti con manutenzioni straordinarie di reti idrauliche, ma altri 90 riguardano la pulizia di invasi esistenti, 45 dei quali ubicati nel Sud Italia. Stimiamo che il 10% della capacità complessiva di questi bacini sia inutilizzata a causa del sedime depositatosi negli anni sul fondale. Da qui, la necessità di asportare oltre 72 milioni di metri cubi di materiale, per un costo di quasi 291 milioni, con 1450 posti di lavoro previsti”.

Piani, stime e previsioni con un grande nemico, la burocrazia: “Ad ostare sulla strada della modernizzazione di una rete idraulica, ormai inadeguata ai cambiamenti climatici, non sono i finanziamenti ma soprattutto le lungaggini burocratiche, per le quali chiediamo un’accelerazione degli iter autorizzativi. Attualmente, infatti, per realizzare un’opera pubblica servono almeno 11 anni. E’ evidente che un tale lasso di tempo rende un’opera già inadeguata al momento dell’inaugurazione e di fronte alla velocità assunta dalla crisi climatica non possiamo certo permettercelo. Ne va della salvaguardia del territorio e della sua economia, nonché del futuro delle sue comunità”. Un quadro desolante quello che viene proposto, di fronte al quale, forse, non basterà solo il Commissario di governo per invertire la rotta.

PIOVE SUL BAGNATO. Angelo Vitolo su L’Identità il 29 Marzo 2023

Iniziata da solo una settimana, la primavera rischia di provocare gravi danni all’agricoltura del Centro Sud, che nelle ultime ore è diventato il teatro di una nuova ondata di freddo, vento e soprattutto grandine, in particolare tra Puglia, Calabria, Campania e Lazio. A risentire di più questo maltempo – denuncia Cia – Agricoltori italiani – sono state principalmente le colture in fiore e gli ortaggi di stagione. L’associazione, che sta completando una ricognizione sul territorio, teme che sia andato perduto almeno un 10% delle produzioni, considerando non aggredite da questa ondata di freddo e grandine le piantagioni mantenute in serra o sotto coperture. Ancora una volta sono i cambiamenti climatici a governare questa situazione, fin dall’inizio dell’anno caratterizzata da sbalzi forti e repentini delle temperature che stanno riportando il Paese a quelle della stagione invernale, con il corollario sempre più rischioso dell’assenza delle precipitazioni, delle piogge così attese tra il Piemonte e l’Emilia-Romagna, regioni ove da mesi impera la siccità.

A rischio, secondo le prime verifiche di Cia, sono gran parte delle coltivazioni che, negli anni scorsi, hanno rappresentato, tra la primavera e l’estate, il paniere della spesa per ortaggi e frutta di stagione. L’ultima grave grandinata, per esempio, ha colpito campi di carote e indivie a ridosso di tutto il territorio della Capitale fino al mare. Ad arginare i danni peggiori, in gran parte dei casi, le coperture utilizzate per proteggere distese di ortive proprio dagli eventi estremi di questa stagione. Sempre nel Lazio, nella zona dell’Agro Pontino, la brusca perturbazione ha interessato i frutteti in fiore, come quelli delle prugne. In Puglia, la grandine ha colpito principalmente pescheti, mandorleti e ciliegeti nell’Agro di Cerignola, dove la Cia e gli agricoltori locali sono già alla conta dei danni. Limitati, se il bilancio finale non sarà pesante, grazie alla buona combinazione tra grandine e pioggia che ha alleggerito l’impatto dell’ondata sui campi.

Passando alla Campania, una regione ove era già stata emanata una allerta meteo gialla fin da domenica, forti raffiche di vento hanno battuto la Penisola Sorrentino-Amalfitana e i Monti di Sarno e Picentini fino al Basso Cilento. Sono salvi oliveti e vigneti perché non ancora in fioritura, ma preoccupazioni emergono per i pescheti e i noccioleti già in fiore. Ora, con il ritorno della neve in alta quota, il prossimo pericolo potrebbe essere rappresentato dalle gelate tardive.

Rilevato l’intero quadro territoriale del Paese, Cia richiama l’attenzione sul climate change e sui suoi effetti. “I cambiamenti climatici e le relative calamità naturali, ultima la siccità – avverte – sono una sfida da affrontare in modo strutturale e corale tra istituzioni, enti, organizzazioni e mondo agricolo, superando l’approccio emergenziale e lavorando per tavoli e cabine di regia. In particolare, sono fondamentali il ruolo della ricerca scientifica e la necessità di nuove tecnologie per l’evoluzione assistita e, quindi, per piante più resistenti agli stress climatici”.

La richiesta, considerata l’ultima grandinata e l’affermarsi di una situazione climatica che continuerà con sbalzi di temperature e gravi fenomeni meteo a mettere a rischio i campi, è quella di agevolare e promuovere con convinzione l’automazione per la gestione integrata delle colture e la protezione attiva dalle calamità, insieme al contributo di idonei strumenti di gestione del rischio.

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 28 marzo 2023

Un attacco social, diretto, per far emergere dubbi sulla raccolta fondi della Cascina Savino di Foggia. La giornalista Selvaggia Lucarelli non usa giri di parole nelle storie Instagram per criticare quello che è accaduto dopo la violenta grandinata di ieri, 28 marzo. Prima l'appello in lacrime dell'agricoltore sociale Giuseppe Savino, nel video su Facebook, poi l'ondata di solidarietà attraverso il crowdfunding che in poche ore ha raggiunto ben 2mila donazioni per un totale di oltre 28mila euro, sino alla sospensione per eccesso di offerte. "Ma cosa sapevate di questa storia quando avete donato i fondi?", scrive Lucarelli ai suoi follower.

Che aggiunge: "Due anni fa - ricordando la gelata notturna dell'8 aprile 2021 - la Cascina Savino aveva piantato migliaia di tulipani per riportare la bellezza nel loro territorio, certo, ma anche per avviare un'attività commerciale. Stesso copione: Savino piangeva. Nel frattempo moltissimi altri contadini e tante aziende avevano subito fatto ma poveri tulipani e basta".

Attraverso degli screenshot di testate giornalistiche locali, Selvaggia Lucarelli ricorda che furono raccolti 13mila euro: "Bei soldi, poi il maltempo e l'iniziativa boh. I soldi, boh. Io sulla stampa non trovo informazioni, magari mi manca qualcosa. Se per due anni su tre i tulipani vengono distrutti dal maltempo forse bisognerebbe valutare l'idea di una serra o di una assicurazione. E poi il buon Savino attinge da fondi ministeriali-regionali o fa tutto da solo? Questa è la sua unica attività? Ecco, a me piacciono le storie romantiche con lacrime e fiori, però l'empatia disinformata è peggio della grandine", conclude. […]

 Tulipani distrutti dalla grandine, Selvaggia Lucarelli contro le lacrime social del floricoltore: "Se chiedere aiuti è un'abitudine...". Daniele Leuzzi il 28 marzo 2023 su La Repubblica

"Ma cosa sapevate di questa storia quando avete donato i fondi?", scrive la giornalista ai suoi follower ricordando altre raccolte fondi di cui Savino si è reso protagonista: dopo lo sfogo social raccolti quasi 30mila euro

Un attacco social, diretto, per far emergere dubbi sulla raccolta fondi della Cascina Savino di Foggia. La giornalista Selvaggia Lucarelli non usa giri di parole nelle storie Instagram per criticare quello che è accaduto dopo la violenta grandinata di ieri, 28 marzo. Prima l'appello in lacrime dell'agricoltore sociale Giuseppe Savino, nel video su Facebook, poi l'ondata di solidarietà attraverso il crowdfunding che in poche ore ha raggiunto ben 2mila donazioni per un totale di oltre 28mila euro, sino alla sospensione per eccesso di offerte.

Selvaggia Lucarelli si confronta con l’agricoltore dei tulipani distrutti Giuseppe Savino: “Lei fa impresa, perché il rischio se lo devono accollare i donatori?” “Se chiedo aiuto che male c’è?”. Selvaggia Lucarelli su Il fatto Quotidiano il 29 marzo 2023

 Le sue lacrime e quello straziante grido di dolore “I tulipani non ci sono più è finito tutto”, con la grandine che si depositava sugli occhiali e sul suo campo di fiori, hanno straziato il web. Il video ha fatto il giro delle sette chiese, dei cento siti e dei mille giornali e, veloce come una grandinata, l’agricoltore foggiano Giuseppe Savino ha aperto una raccolta fondi. Nel giro di poche ore viene raggiunta la cifra che aveva stabilito come tetto massimo, ovvero 15.000 euro. Ma non chiude la raccolta- ai contadini le raccolte piacciono- la porta avanti fino a ieri stamattina. Raggiunge 30 000 euro circa. A quel punto qualcuno inizia a far notare che ha raddoppiato il suo obiettivo. E la blocca, ma intanto 30.000 euro sono stati raccolti. Ed è un raccolto niente male, specie dopo una grandinata.

Le tv lo chiamano, Savino è in diretta ad Agorà, a La vita in diretta, a Mattino 5, rilascia interviste ai giornali, la sua lagna in poche ore è in mondovisione. Ma iI suo campo di tulipani era gelato già nel 2021 e all’epoca aveva raccolto 13.000 euro. Chi lo conosce mi spiega che non è affatto un semplice contadino, ma un imprenditore sgamato, amico dell’ex ministro Martina, con molti agganci nella politica locale, in modo particolare Fdi, che ha alle spalle figure importanti della chiesa locale, che ha vinto bandi ottenuto fondi, che ha incarichi dal Ministero. Lo chiamo e gli faccio un po’ di domande.

Savino, intanto partiamo dalle cose più semplici. Lei ha il campo di tulipani da tre anni e sia nel 2021 che quest’anno il campo è stato danneggiato dal maltempo. Un’assicurazione non la può fare?

No, in Italia non si può fare l’assicurazione sui tulipani perché qui ce ne sono troppo pochi e non hanno dati statistici, ci sono troppi rischi. E comunque il valore dei nostri fiori per noi è quello di qualunque tulipano all’ingrosso, perché dentro quel nostro fiore c’è la bellezza di un campo, la possibilità di ascoltare la musica, di fare delle foto, l’aperitivo.

Ma il tulipano è sempre quello.

No, il nostro vale 10 euro perché paghi un’esperienza, quello all’ingrosso 10 centesimi.

Esiste la possibilità di fare delle serre di tulipani che si possono allestire e visitare, ce ne sono alcune…

Non le chiudo le persone nella plastica.

Perché la plastica è meno instagrammabile.

Esatto.

Ma una rete antigrandine, come hanno suggerito in tanti?

Ha senso se hai un impianto stabile, se devo fare una struttura che poi devo mettere e smontare sul campo di tulipani, allora l’impresa non vale la spesa.

Sembrerebbe valerla la spesa però, visto che i rischi del maltempo li conoscete, però se volete correre comunque il pericolo, allora la mia domanda è: perché il rischio di impresa poi ve lo devono coprire i donatori tramite raccolte fondi?

Perché i donatori sono le 3000 persone che avevano comprato i biglietti per vedere il mio campo di tulipani …che non vogliono il rimborso…

No, alcune non rivogliono i soldi indietro dei biglietti e ok, ma poi la raccolta era aperta a tutta Italia.

Utilizzo questo strumento della donazione per le persone che vogliono usufruire di quel campo e continuare ad avere questa esperienza di bellezza.

Rifaccio la domanda. Non vuole la serra perché è brutta, non vuole la rete perché costa troppo, ripeto: perché il rischio se lo devono accollare dei donatori?

Cambia il verbo “accollare”: io coltivo tulipani e la comunità mi incoraggia. Se chiedo aiuto alla comunità che c’è di male?

Male no, però lei fa impresa mica il benefattore. E a dire il vero non sembra passarsela così male da dover chiedere 43 000 mila euro in due anni.

Sai quanto costa il campo?

Mica è distrutto, per fortuna.

Non posso aprirlo e far pagare i biglietti, il 70% dei petali è distrutto.

Sì ma lei lavora tutto l’anno, perché poi pianta i girasoli d’estate, poi la lavanda, d’autunno le zucche e fa sempre pagare nuovi biglietti per fare le foto e per l’acquisto dei prodotti.

Ma pago tutto l’anno le persone che lavorano nei campi.

Assunte?

No, no, stagionali, pago 10 euro lordi l’ora. Poi ho i musicisti, gli artisti, la grafica e pago anche loro.

Se non apre il campo non li paga.

Senti, se stai a Milano seduta sulla scrivania che ne sai. Questo è un processo di innovazione sociale.

Ed è molto bello, però se lei apre una raccolta fondi poi si parla di soldi, perché quando chiedi soldi devi spiegare a cosa ti servono e se e hai davvero bisogno. Ha vinto bandi, avuto fondi pubblici?

No, cioè, sì, noi lavoriamo col ministero e con le regioni… ma quelli vanno alla mia cooperativa Vozzàp, magari vinciamo le gare, sì, ma è un’altra cosa rispetto all’attività agricola.

In che senso?

Cioè, nel senso, sono due progetti separati nelle economie, vazzàp fa innovazione sociale nel mondo dell’agricoltura.

Quindi Vozzàp e Cascina non hanno rapporti?

Vozzàp nasce dentro la Cascina perché gli spazi sono i miei.

Quanti soldi ha avuto tramite fondi e bandi?

30-40-50 000 euro, non lo so… di cosa dobbiamo parlare?

La seminatrice l’avete ottenuta tramite il psr (programma sviluppo rurale)?

Sì sono i fondi per le aziende agricole, quando i figli subentrano in agricoltura si fa.

E’ vero che hai un incarico ministeriale di rappresentante del commissario straordinario sisma del 2016 Lazio Umbria, Marche e Abruzzo?

Senti…io ho ricevuto un incarico per dare una mano alla parte agricola di questa cosa.

In che senso?

Sono stato chiamato perché mi occupo di innovazione sociale e penso di avere un po’ a che fare col mondo agricolo.

Quanto percepisce?

Se ti chiamano ti danno una fee di partecipazione.

Si parla di somme ingenti.

Lo sai tu, no?

No me lo dica lei.

Pochissimo.

Ma allora in cosa consiste il suo contributo?

La chiamata è a discrezione del commissario, io non so neppure chi sia tipo il che mi dovrebbe chiamare. Se mi chiama dice : su questa cosa qua come interverresti?

Ti hanno dato una mano i politici locali ad avere l’incarico?

No, le persone sanno cosa facciamo e ci chiamano.

Insomma tra bandi, fondi, incarichi ministeriali, terreni ereditati, guadagni dall’impresa e donazioni già nel 2021 lei ha bisogno di chiedere soldi alle persone?

Io ho dato una risposta alla comunità che mi chiedeva di aiutarmi.

L’ha fatto per se stesso e la sua impresa, quale risposta.

No Selvaggia, cerca di avere umiltà. Non conosci la nostra realtà

No, conosco quella delle raccolte fondi però. Per esempio, altra cosa strana: nel 2021 lei raccoglie 13 000 euro per donare i tulipani a ospedali e rsa. Poi i tulipani gelano per il maltempo. Che fine hanno fatto quei soldi? Perché secondo qualcuno un bel po’ lei se li è tenuti…

Vai su miei post passati e vedi la rendicontazione visiva dei fiori donati.

Rendicontazione visiva?

Sì, le foto. Li abbiamo mandati a ospedali in tutta Italia. Alla fine per spedire i tulipani abbiamo speso 14 000 euro.

Ci avete perfino rimesso! Mi può dare la rendicontazione e la lista degli ospedali?

Ci sono delle mail. Ti preparo le fatture (per ora non mi sono arrivate ndr)

Altra cosa: mi dicono persone che sono venute nei campi che spesso non fate scontrini.

Ce lo aveva già detto una giornalista venuta lì nel campo. Per legge le aziende agricole possono non emettere scontrini, siamo nel regime dei corrispettivi. Io comunico i corrispettivi.

Ah.

Senti, io nasco da un sacerdote che si chiama Don Michele De Paolis, secondo te potrei mai ingannare la comunità?

Non lo penso, ma volendo sì, certo.

No ma guarda, poi i contanti qui a Foggia è pericoloso averli, meglio il pos.

Un’ultima cosa. Ha detto che guadagna circa 20 000 euro per campo, nel programma Rai “Generazione bellezza”. La società Cascina dichiara circa 70.000. Se è vero come dice che lei ha chiesto di donare 30.000 euro perché quelli sono i danni per una grandinata che ha distrutto un pezzo di campo, come fa a guadagnare da questa attività?

(segue spiegazione confusa)…Come dire… ho costi per 30 000 euro… l’unico campo che è un investimento grande è quello dei tulipani…vedi quanto costa un bulbo di tulipano…

Ma allora se costa così tanto solo il campo di tulipani, come fate a campare? Tre soci, poi ci sono collaboratori saltuari, spese, costi. Dichiarate quando va bene 70 000 euro lordi.

Mah, ora, questa dichiarazione non me la ricordo….senti sì, la dichiarazione è quella. Boh questa cosa la vado a capire …Selvaggia, io ho scritto nella raccolta che le persone potevano sostenerci per il piantare il nuovo campo, non per i danni.

Non proprio… Senta, posso dirle una cosa: a me la narrazione del povero contadino non ha convinta. la trovo invece molto furbo.

Furbo non mi piace.

La furbizia, se fai impresa, non è un difetto.

Per me sì.

Va bene, allora la rendicontazione spese a proposito della donazione del 2021 me la manda?

Certo.

(oggi non è arrivato niente)

Il floricoltore e i tulipani distrutti dalla grandine: “L’uomo non ama davvero la sua terra”. Giuseppe Savino e l’ondata si solidarietà dopo il video del campo devastato: in neanche 24 ore raggiunti quasi 30mila euro. «In Italia non esistono assicurazioni per i campi di tulipani». CATERINA STAMIN su la Stampa il 28 Marzo 2023

«La bellezza cura, non c’è niente da fare». Neanche ventiquattro dopo aver girato un video con la voce singhiozzante, Giuseppe Savino torna a sorridere. Una grandinata improvvisa ha distrutto ieri il campo di tulipani a pochi chilometri di Foggia a cui lui ha dedicato tutta una vita. «Da quanto gestisco la Cascina Savino? Io sono nato qui - chiarisce -, guido un trattore da quando i miei piedi sono arrivati a toccare la frizione e il freno». Quel campo, coltivato dal padre, ora è passato nelle sue mani e in quelle di suo fratello Michele. Ma «sono centinaia i contadini virtuali che ci aiutano ogni giorno», confessa Giuseppe. Si tratta di tutte quelle persone che frequentano la Cascina o la visitano anche solo virtualmente. Persone che in quel campo di tulipani conservano ricordi indimenticabili. «In tanti hanno chiesto qui la mano alla propria ragazza - ricorda Giuseppe, senza nascondere l’emozione – e non mi dimenticherò mai della giovane nipotina che aveva appena preso la patente ed è corsa a prendere il nonno, 90enne, in un paese vicino per portarlo a vedere per la prima volta i tulipani». Per tutti loro, dopo la notizia della grandinata che si è abbattuta impetuosa distruggendo il campo dei Savino, è stato normale reagire tendendo la mano: in meno di 24 ore sono stati raccolti quasi 30mila euro, quanto basta per ricostruire il campo il prossimo anno.

Sta grandinando, i tulipani non ci sono più, è finita”. Giuseppe Savino, il floricoltore in lacrime, commuove la rete

Giuseppe, si aspettava questa ondata di solidarietà?

«Ci aspettavamo un bene restituito da parte delle persone».

Com’è nata l’idea di lanciare una raccolta fondi?

«Ho pubblicato il video raccontando quanto accaduto e poi mi sono mosso per rimborsare tutte le persone che avevano acquistato un biglietto per venire a visitare il campo e che ora non verranno più».

Quanti biglietti avevate venduto?

«Circa 3mila persone avevano acquistato il biglietto, siamo sui 30mila euro: si comprano online quattro tulipani da raccogliere in campo al costo di 10 euro. Poi si viene qui, noi diamo un kit composto di forbici e secchiello con cui le persone vanno a raccogliere i fiori, e raccontiamo la storia del campo e del nostro territorio. Le persone sanno che con quei 10 euro stanno sostenendo un progetto di sviluppo del territorio: nei nostri campi si trovano musicisti, poeti, artisti. Qui lavorano tantissimi ragazzi. Siamo in una terra che ha dato vita al caporalato e stiamo provando a dare un segnale di cambiamento».

Tante persone non volevano nemmeno il rimborso.

«No infatti, ma io non posso fatturare un fiore che non ho venduto. Durante il Covid, in lockdown, abbiamo fatto una raccolta fondi per mandare i tulipani negli ospedali e abbiamo deciso così di ripetere l’esperienza della raccolta fondi su GoFundMe. In pochissimo tempo abbiamo raggiunto la somma intera di quello che era il fabbisogno per coltivare un campo simile il prossimo anno: quasi 30mila euro. Così, a un certo punto, ho interrotto la raccolta fondi».

Perché questa scelta?

«Perché siamo in una terra difficile: ci sono persone che hanno subito insinuato che dietro questa raccolta fondi ci fosse l’inganno. L’inganno non c’è: se vuoi fare bene, non hai paura a chiedere alle persone di sostenerti. Così è stato».

Cosa risponde a chi invece le dice che poteva pensare ad assicurare il suo campo?

«Rispondo magari potessi. Ma sono domande da ignoranti: l’assicurazione sui tulipani non esiste. Se ci fosse l’avrei fatta subito. In Italia non ci sono campi a sufficienza per permette all’assicurazione di avere dei dati certi sulla coltivazione e, quindi, di stimare gli eventuali danni».

Da quanto gestisce la Cascina?

«Mio padre ha coltivato i terreni che adesso io e mio fratello stiamo conducendo per portare avanti la nostra "agricoltura della relazioni”: non coltiviamo più solo per produrre ma anche per accogliere. L’obiettivo è moltiplicare i campi di relazioni per aiutare altri giovani contadini in altri territori, cosicché, aprendo un campo di questo tipo, possano rimanere nella loro terra e dare lavoro ai giovani che possano sostenerli nella declinazione dei campi».

Ci sono momenti che porta nel cuore?

«Tanti si inginocchiano per chiedere la mano alla propria ragazza. Ma gli aneddoti sono tanti: mi ricordo di una giovane nipotina che aveva appena preso la patente ed è andata a prendere il nonno, 90enne, in un paese vicino per portarlo a vedere per la prima volta i tulipani. Oppure di quel ragazzo che ha porta la madre malata terminale nel campo ad ammirare la bellezza sulla sedie rotelle. Poi c’è stata la coppia di ballerini del teatro San Carlo di Napoli: lui ha accompagnato lei bendata nel campo di girasoli, sono saliti su una rotoballa e le ha tolto la benda. Ha iniziato a suonare un violino e lui si è inginocchiato. La bellezza cura, non c’è niente da fare».

È una bellezza messa a dura prova dagli effetti del cambiamento climatico.

«È una bellezza ferita perché l’uomo non ama completamente la terra. il cambiamento climatico è frutto di una mancanza di amore dell’uomo per la terra. Se ami non ammazzi, rispetti e custodisci. Noi non lo stiamo facendo».

La Siccità.

Afa, una delle parole più misteriose del vocabolario italiano: ecco perché. Massimo Arcangeli su Libero Quotidiano il 25 luglio 2023

«E se all’agosto, settembre o ottobre sopraggiunghino caldi e secchi grandi, si deono lasciar passar queste afe, e dopo la prima rinfrescatura di pioggi si vendemmi». Questo passo è contenuto in un testo di agronomia del Cinquecento, un Trattato della coltivazione delle viti, e del frutto che se ne può cavare (Opere, a cura di Alberto Bacchi Della Lega, Bologna, Romagnoli Dall’Acqua, 1902-1907, 4 voll., I, 1902, p. 465), opera del naturalista fiorentino Giovanvittorio Soderini, vissuto fra il 1527 e il 1597.

L’etimologia della parola afa, sbocciata nel Trecento, è fra le più misteriose dell’italiano e ha fatto letteralmente impazzire generazioni di linguisti e di glottologi. Franca Ageno ha fatto derivare il termine dal latino senechiano haphe, debitore del greco aphé (“tocco”, “presa”) per significare, come già lo stesso termine greco, la «polvere gialla di cui si cospargevano i lottatori dopo essersi unti, per potersi afferrare l’un l’altro; il passaggio da “polverio” ad “aria irrespirabile”, “aria calda”, “opprimente”, e per traslato “pesantezza”, “noia”, non è incomprensibile» (Afa, “Lingua nostra”, XX, 1959, p. 22). Più fascinosa l’ipotesi di Mario Alinei, che ha considerato afa una variante osco-umbra del latino ava. La connessione fra le due voci si spiegherebbe col fatto che in varie lingue e parlate europee alcuni vocaboli indicanti l’aria tremolante dal gran caldo prendono il nome di “vecchia”, da intendersi come la figura magica e ancestrale che governerebbe la natura e presiederebbe alle sue leggi.

C’è anche chi, con scarsa fortuna, ha pensato alla solita origine onomatopeica, come per tante parole della nostra lingua: da cuculo a bambino, da zuzzurellone a sciabordare, da titubare a tentennare. Quest’ultima discende dal latino tintinnare (“suonare”, “squillare”), il cui doppio tin (tin -tin) suggerisce l’idea di un balbettio, un dondolio, un traballio – giocati, in titubare, fra un ti e un tu (ti-tu) –: quelli dell’incertezza di chi è impacciato nel parlare o, oscillando da una posizione all’altra, dà l’impressione di essere in dubbio su un’azione da compiere, un passo da fare, una strada da prendere.

(ANSA giovedì 20 luglio 2023) Il 2022 è stato l'anno più caldo e meno piovoso in Italia dal 1961 (anno dal quale si hanno dati scientifici completi). La temperatura media ha superato di 0,58°C il precedente record assoluto del 2018 e di 1,0°C il valore del precedente anno 2021. Le precipitazioni hanno segnato un -22% rispetto alla media del periodo 1991-2020. Lo rivela il rapporto annuale "Clima in Italia nel 2022" di Ispra e Sistema nazionale per la protezione dell'ambiente (Snpa).

Nel 2022 la temperatura media in Italia è stata di 1,23°C superiore rispetto alla media 1991-2020. Tutti i mesi dell'anno sono stati più caldi della media, a esclusione di marzo e aprile: anomalie superiori a 2°C si sono registrate a giugno (con il picco di +3,09°C) e nei mesi di luglio, ottobre e dicembre. L'anomalia più marcata in estate (+2,18°C), seguita dall'autunno (+1,38°C) e dall'inverno (+0,58°C). Il 2022 è stato l'anno meno piovoso dal 1961, segnando un -22% rispetto alla media climatologica 1991-2020, con precipitazioni inferiori alla norma (-39%) da gennaio a luglio.

Le anomalie sono state più marcate al Nord (-33%), seguite dal Centro (-15%) e dal Sud e Isole ( 13%). Su scala nazionale i mesi relativamente più secchi sono stati ottobre (-62%) e gennaio (-54%), mentre il mese relativamente più piovoso è stato agosto (+69%). Le prolungate condizioni di siccità, associate alle alte temperature, hanno determinato una forte riduzione della disponibilità naturale di acqua. Per l'Italia è stata stimata una disponibilità annua di 221,7 mm, circa 67 km3, che rappresenta il minimo storico dal 1951 a oggi. 

Si tratta di una riduzione di circa il 50% rispetto alla disponibilità annua media di risorsa idrica stimata per l'ultimo trentennio climatologico 1991-2020. L'inverno 2022 è stato caratterizzato da una copertura nevosa esigua rispetto agli ultimi decenni, e che si è fusa velocemente nei mesi primaverili ed estivi a causa delle alte temperature. Nel mese di maggio è stata stimata una superficie inferiore a 5.000 km2, paragonabile a una situazione tipica di fine giugno-luglio.

I ghiacciai alpini a partire dai primi giorni di giugno si sono ritrovati in gran parte scoperti da neve: la fusione glaciale 2022 nel settore nord-occidentale delle Alpi è stata quattro volte più intensa rispetto alla media degli ultimi 20 anni. Nel 2022 non sono mancati eventi meteorologici estremi, l'altra faccia del riscaldamento globale: l'alluvione del 15 settembre nelle Marche, 200 cm di acqua alta a fine novembre 2022 nell'Alto Adriatico, l'alluvione e la frana del 26 novembre a Ischia.

Antonio Giangrande: Antonio Giangrande: Fognature, depuratori, allacci e salassi.

Con questa mia, tratto di un posto, ma è riferito a tutto il territorio pugliese: imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare, ed imposizione di salassi per servizi non resi.

Più volte, inascoltato, ho parlato del depuratore-consortile di Manduria-Sava, viciniori alla frazione turistica di Avetrana, con il progetto dello scarico a mare delle acque reflue. L’ho fatto come portavoce dell’associazione “Pro Specchiarica” (zona di recapito della condotta sottomarina di scarico) e come presidente nazionale della “Associazione Contro Tutte le Mafie”. Il progetto sul depuratore e sullo scarico a mare fu avviato da Antonio Calò e proseguito da Francesco Saverio Massaro, Paolo Tommasino, Roberto Massafra. I governatori e le giunte regionali hanno autorizzato i depuratori e gli scarichi a mare, (quindi non solo quello consortile di Manduria-Sava posto a confine al territorio di Avetrana e sulla costa). I vari governatori sono stati Raffaele Fitto del centro destra e Nicola Vendola del centro sinistra. Entrambi gli schieramenti hanno preso per il culo (intercalare efficace) le cittadinanze locali, preferendo fare gli interessi dell’Acquedotto pugliese, loro ente foriero di interessi anche elettorali. Le popolazioni in rivolta, in particolare quelle di Avetrana, sono sobillate e fomentate da quei militanti politici che ad Avetrana hanno raccolto, prima e dopo l’adozione del progetto, i voti per Antonio Calò alle elezioni provinciali e per tutti i manduriani che volevano i voti di Avetrana. Il sindaco Luigi Conte, prima, e il sindaco Mario De Marco, dopo, nulla hanno fatto per fermare un obbrobrio al suo nascere. Conte ha pensato bene, invece, con i soldi pubblici, di avviare una causa contro Fitto per la riforma sanitaria. In più, quelli del centro destra e del centro sinistra, continuavano e continuano ed essere portatori di voti per Raffaele Fitto e per Nicola Vendola, o chi per loro futuri sostituti, e per gli schieramenti che li sostengono. Addirittura Pietro Brigante sostenitore dell’amministrazione Calò nulla ha fatto per rimediare allo scempio. Brigante, nativo di Avetrana e candidato sindaco proprio di Avetrana.

Ma oggi voglio parlare d’altro, sempre in riferimento all’acquedotto pugliese e al problema depurazione delle acque. In generale, però. Giusto per dire: come ci prendono per il culo (intercalare efficace).

Di questo come di tante altre manchevolezze degli ambientalisti petulanti e permalosi si parla nel saggio “Ambientopoli. Ambiente svenduto”. E’ da venti anni che studio il sistema Italia, a carattere locale come a livello nazionale. Da queste indagini ne sono scaturiti decine di saggi, raccolti in una collana editoriale "L'Italia del Trucco, l'Italia che siamo", letti in tutto il mondo, ma che mi sono valsi l’ostruzionismo dei media nazionali. Pennivendoli venduti all’economia ed alla politica. Book ed E-Book che si possono trovare su Amazon.it.

L’acquedotto Pugliese ha fretta per l’inizio dei lavori del depuratore di Manduria e Sava e della relativa condotta sottomarina. L’ente idrico ricorda che i finanziamenti accordati dalla Regione Puglia per la realizzazione dell’opera già appaltata, sono fruibili entro il 31 dicembre del 2015. Quindi solo di speculazione si tratta: economica per l’AQP; politica per gli amministratori regionali in previsione delle elezioni regionali??

Si parla sempre di Depurazione e scarico in mare. Perché non si parla mai di Fitodepurazione? Perché non fornire agli operatori del settore significativi spunti di riflessione attorno ai vantaggi e alle opportunità reali della fitodepurazione? La fitodepurazione non è solo una tecnica naturale di rimozione degli inquinanti utilizzabile per i reflui di provenienza civile, industriale ed agricola: è, allo stesso tempo, strumento efficace di miglioramento e salvaguardia ambientale. Rappresenta, altresì, una risposta concreta ed economicamente interessante nella gestione delle acque di scarico di derivazione civile ed industriale. Invece no. Nulla si guadagnerebbe!

Ma andiamo avanti. Il Sindaco di Avetrana Mario De Marco con Ordinanza n. 7 del 15 aprile 2014 Prot. n. 2543, impone l’allaccio obbligatorio alla rete fognaria entro luglio 2014. Tutto il paese è nel panico per quanto riguarda le opere di allaccio, tenuto conto che la maggior parte sono vecchie case ed i collegamenti partono dalla parte posteriore delle abitazioni. Migliaia di euro di spesa. Il Sindaco è a posto. I cittadini, no!

Ma la beffa è che, per chi più onesto degli altri è stato pronto a contrarre il servizio, rispetto ad altri più riottosi o addirittura omittenti, dal 1° maggio 2014 gli sono addebitati in bolletta la quota fissa e variabile di fognatura e depurazione, per sé ed anche per i terremotati. Una mazzata. Peccato, però, che l’allaccio non c’è e non si sa quando ci sarà.

Quindi i depuratori si costruiscono con i finanziamenti regionali e il servizio si paga anche se non c’è? Mi chiedo dove si impara a fare impresa in questo modo. Vorrei sapere chi sono i docenti.

Svista, speculazione, o cosa? Ma intanto il sindaco Mario De Marco è a posto con la sua coscienza e la sua responsabilità amministrativa. Così come per il depuratore di Manduria, vale anche per il depuratore di Avetrana.

Imposizione dei siti di raccolta e smaltimento delle acque nere, con l’aggravante dello scarico a mare ed imposizione di salassi per servizi non resi. Spero che questo succeda solo ad Avetrana, perché se succede in tutta la Puglia (e a me risulta di sì), be’ stiamo proprio freschi e salassati!

Dr Antonio Giangrande

Presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie e di Tele Web Italia

Come si butta via l’acqua. Lo spreco di una risorsa naturale essenziale per la vita e lo sviluppo economico.

Diritto alla salute o idolatria naturista? Politica malsana o interessi economici? Disatteso fabbisogno di acqua o inquinamento delle acque superficiali? Tutto questo parlame coinvolge tutti i cittadini, mentre la magistratura sta a guardare…..

«Per secoli si sono sversate in falda sotterranea o nei canali di scolo le acque reflue di origine urbana, quando esse non erano riutilizzate. La natura auto depurava l’insano liquido. Poi con l’industrializzazione sono nati i problemi di inquinamento delle risorse idriche. E sono nati i depuratori ed il business del trattamento delle acque reflue. Oggi è una vergogna solo starne a parlare. Scegliere tra il riuso e lo spreco o l’inquinamento? Solo i mentecatti possono decidere di buttare a mare o in falda una risorsa naturale limitata! Solo i criminali scelgono di inquinare l’ambiente e impedire lo sviluppo economico!»

Questo denuncia il dr Antonio Giangrande, presidente della “Associazione Contro Tutte le Mafie” ed autore del libro “Ambientopoli” pubblicato su Amazon.

Si definisce trattamento delle acque reflue (o depurazione delle acque reflue) il processo di rimozione dei contaminanti da un'acqua reflua di origine urbana o industriale, ovvero di un effluente che è stato contaminato da inquinanti organici e/o inorganici. Le acque reflue non possono essere reimmesse nell'ambiente tal quali poiché i recapiti finali come il terreno, il mare, i fiumi ed i laghi non sono in grado di ricevere una quantità di sostanze inquinanti superiore alla propria capacità autodepurativa. Il trattamento di depurazione dei liquami urbani consiste in una successione di più fasi (o processi) durante i quali, dall'acqua reflua vengono rimosse le sostanze indesiderate, che vengono concentrate sotto forma di fanghi, dando luogo ad un effluente finale di qualità tale da risultare compatibile con la capacità autodepurativa del corpo ricettore (terreno, lago, fiume o mare mediante condotta sottomarina o in battigia) prescelto per lo sversamento, senza che questo ne possa subire danni (ad esempio dal punto di vista dell'ecosistema ad esso afferente). . Il ciclo depurativo è costituito da una combinazione di più processi di natura chimica, fisica e biologica. I fanghi provenienti dal ciclo di depurazione sono spesso contaminati con sostanze tossiche e pertanto devono subire anch'essi una serie di trattamenti necessari a renderli idonei allo smaltimento ad esempio in discariche speciali o al riutilizzo in agricoltura tal quale o previo compostaggio.

Il problema che ci si pone è: la depurazione è effettivamente eseguita? Le acque reflue depurate dove possono essere reimmesse? In grandi vasche o bacini per il riuso in agricoltura od industria, o smaltite inutilizzate in mare o nei fiumi o direttamente in falda? Quale è la valenza economica per tale decisione? Quale conseguenza ci può essere se la depurazione è dichiarata tale, ma non è invece effettuata?

L'acqua di riuso, costa di più dell'acqua primaria, sotterranea o superficiale, per questo è conveniente smaltire ed inquinare il mare o la falda con le acque che i gestori dicono essere depurate. Affermazioni infondate? No! Peggiora lo stato di salute del nostro mare. Imputato numero uno è la «mala depurazione»: 130 i campioni risultati inquinati dalla presenza di scarichi fognari non depurati - uno ogni 57 km di costa - sul totale delle 263 analisi microbiologiche effettuate dal laboratorio mobile di Goletta Verde, storica campagna di Legambiente, in quest'estate. Un dato in aumento rispetto all’anno precedente,quando era risultato inquinato 1 punto ogni 62km.

Su queste basi ultimamente è salita alla ribalta la presa di posizione con relative proteste di alcune località costiere. La popolazione non vuole lo scarico a mare. Ma come sempre nessuno li ascolta.

Ogni estate la bellezza incontaminata del nostro mare è messa a rischio dalla pessima gestione di depuratori e scarichi a mare da parte di istituzioni e amministrazioni pubbliche. Ed il turismo ne paga le conseguenze. E’ da qualche anno ormai che l’inizio della bella stagione ci pone l’inquietante dubbio di quale sarà il tratto di costa a chiazze marroni che dovremo evitare e, quel che è peggio, leggiamo distrattamente delle proteste del comitato di turno, quasi la cosa non riguardasse tutti noi. La situazione è molto delicata e non mette a rischio solo ambiente e salute, ma anche la possibilità di fare del nostro mare il principale volano di sviluppo del territorio. Le maggiori criticità riguardano i comuni di Manduria, Lizzano, Pulsano e il capoluogo Taranto ed è perciò facile capire come la situazione vada letta nel suo insieme, poiché finisce per riguardare tutta la litoranea orientale.

Oggi in Puglia il servizio di depurazione copre il 77% del fabbisogno totale, secondo i dati forniti dal Servizio di tutela delle acque della Regione e contenuti nel Piano di tutela delle acque. Numeri che evidenziano come poco meno di un milione di cittadini pugliesi scarica i propri reflui senza che questi vengano depurati. Sono 187 i depuratori che coprono il servizio su tutto il territorio regionale, ma su cui insistono ancora problemi di funzionamento, criticità e situazioni irrisolte che in alcuni casi rendono inefficace la depurazione dei reflui. Innanzitutto c’è la questione dei 13 impianti che scaricano in falda, con grave rischio di inquinamento delle acque sotterranee. Poi ci sono i depuratori che presentano problemi nel funzionamento e i cui scarichi risultano non conformi, come certificano i dati Arpa relativi al 2012. La causa di queste anomalie deriva dal cattivo funzionamento degli impianti, causato in alcuni casi anche all’ingresso nei depuratori di reflui particolari (scarti dell’industria casearia o olearia, industriali o un apporto eccessivo di acque di pioggia spesso legate alla incapacità dei tessuti urbani di drenare l’acqua). Un problema che riguarda il 39% degli impianti a livello regionale secondo i dati a disposizione dell’Acquedotto pugliese, ma che in alcune province arriva ad oltre l’80%, come nel caso dei depuratori della BAT. La Puglia, inoltre, come si evince dal dossier Mare Monstrum di Legambiente, è la quarta regione a livello nazionale per numero di illeciti legati all’inquinamento del mare riscontrati, con 261 infrazioni, pari al 10,1% sul totale, 328 fra le persone denunciate e arrestate e 156 sequestri.

Le norme violate sono quelle previste dal Decreto Legislativo 3 aprile 2006, n. 152, Norme in materia ambientale e comunque il reato contestato è il getto pericoloso di cose. Ma non tutte le procure della Repubblica si muovono all’unisono.

Avetrana, Pulsano, Lizzano, Nardò, ecc. Il problema, però, come si evince, non è solo pugliese. Il riuso delle acque nessuno lo vuole. Eppure il fabbisogno di acqua cresce. Recentemente, con la crescita della sensibilità ambientale in tutto il pianeta, il tema del riutilizzo delle acque si sta diffondendo sempre più: anche l’Unione Europea si è spesso occupata di riutilizzo delle acque reflue, ma solo recentemente questo tema è entrato nel Piano di Azione volto ad individuare criteri e priorità per il finanziamento di nuovi progetti nel campo della gestione delle risorse idriche. Il riutilizzo in agricoltura delle acque usate è una pratica diffusa in molti paesi e sempre più spesso raccomandata dagli organismi internazionali che promuovono lo sviluppo sostenibile; tra i paesi che hanno la maggior esperienza nel settore è bene ricordare gli Stati Uniti e lo Stato di Israele.

La vicepresidente e assessore all'Assetto del Territorio della Regione Puglia, Angela Barbanente, ha diffuso questa nota sulla questione della depurazione in Puglia. «La mia opinione è che “la politica si manterrà chiacchierona, rincorrendo ora l’uno ora l’altro contestatore” sino a quando, in questo come in altri campi, mancherà di una visione chiara, condivisa, realizzabile. La visione che occorre perseguire, questa sì senza tentennamenti se si hanno a cuore la salvaguardia e il risanamento dell’ambiente, e quindi la salute dei cittadini, dovrebbe innanzitutto prevedere il massimo possibile riutilizzo delle acque depurate in agricoltura o per usi civili. Non è ammissibile, infatti, che nella Puglia sitibonda si butti in mare l’acqua depurata mentre nei paesi nordeuropei ricchi di acque superficiali si adottano ordinariamente reti duali per evitare di sprecare la risorsa! Inoltre, ove possibile e specialmente nelle aree turistiche, si dovrebbe fare ricorso a tecnologie di depurazione naturale quali il lagunaggio o la fitodepurazione.»

Non ha tutti i torti e sentiamo di sposare le sue parole. Nell'ultimo decennio sono state registrate annate particolarmente siccitose con una ridotta disponibilità di risorse idriche tradizionali. Le cause sono dovute in parte ai mutamenti meteo climatici ma anche al crescente peso demografico e turistico, ai maggiori fabbisogni connessi allo sviluppo economico industriale, agricolo (anche se in questi ultimi anni pare affermarsi un'inversione di tendenza complice la crisi economica) e civile. Ciò implica la necessità di avviare cambiamenti radicali nei comportamenti e nelle abitudini di cittadini e aziende finalizzati al risparmio idrico, di reperire nuove fonti di approvvigionamento e al contempo di incentivare in tutte le forme possibili il riuso delle acque depurate. Il riutilizzo delle acque reflue costituisce una fonte di approvvigionamento idrico alternativo ai prelievi da falda, e rappresenta una buona pratica di gestione sostenibile delle acque che consente di fronteggiare lo stato di crisi quali-quantitativa in cui versa la risorsa idrica. Infatti attraverso il riutilizzo si limita il prelievo delle acque sotterranee e superficiali e si riduce la riduzione dell'impatto degli scarichi sui corpi idrici recettori.

Questa lotta di civiltà ci deve coinvolgere tutti, senza tentennamenti ed ipocrisie, fino all’estremo gesto di non votare più i nostri partiti di riferimento con gli amministratori regionali che decidono contro gli interessi della collettività.

E passiamo oltre al fatto che i sindaci ci obbligano a contrarre in termini perentori il servizio di smaltimento delle acque con i gestori locali, che sono anche i gestori dei depuratori. I sindaci si mettono a posto per eventuali screzi legali. I cittadini pagano un oneroso tributo in termini di spese di allaccio e di smaltimento per un servizio che non si sa se e quando si attiverà. Un altro balzello che si dovrebbe invece chiamare “Pizzo”.

Dr Antonio Giangrande

La legge del fiume. Report Rai PUNTATA DEL 03/07/2023

di Luca Chianca

collaborazione Alessia Marzi

La guerra per l'acqua è già iniziata

Per oltre un anno il nostro grande fiume Po ha stretto la cinghia a causa delle mancate piogge. Poi, all'improvviso, sono arrivati i nubifragi che hanno messo in ginocchio il nord Italia. Nel resto del mondo non va meglio. Il cambiamento climatico sta colpendo tutti. Negli Stati Uniti, il Colorado River, uno dei fiumi più importanti al mondo, è sull'orlo del collasso a causa della siccità che lo ha colpito negli ultimi 20 anni. Nessuno sembra capirlo mentre le sue acque vengono contese da ben 6 Stati per continuare a sopravvivere nel bel mezzo di un deserto. Un viaggio esclusivo di Report tra il Nevada, l'Arizona e la California, seguendo il percorso di questo fiume maestoso che ha permesso, nei secoli, di abitare l'ovest più selvaggio.

LA LEGGE DEL FUIME di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi Immagini di Alfredo Farina Montaggio di Giorgio Vallati e Andrea Masella Ricerca immagini di Paola Gottardi

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Sono le 7 del mattino a Summerline, uno dei più caratteristici quartieri residenziali di Las Vegas. Davanti a noi, una pattuglia della polizia molto particolare.

LUCA CHIANCA Mentre i poliziotti tradizionali per risolvere un caso seguono la pista dei soldi, lei segue la pista dell'acqua?

SALVADOR POLANCO GAMEZ – UFFICIALE WATER PATROL - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Sì quando vediamo dell'acqua scorrere lungo la strada la seguiamo per trovare la fonte. LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa mattina ha trovato tre fuorilegge, i primi due avevano l'impianto che spruzzava acqua sul marciapiede mentre il terzo aveva due irrigatori rotti. SALVADOR POLANCO GAMEZ – UFFICIALE WATER PATROL - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Il che causa un forte deflusso. E come investigatori per lo spreco d'acqua, pattugliamo la strada chiedendo ai proprietari di riparare il danno, perché non possiamo sprecarla.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quando Polanco Gamez arriva di fronte la casa responsabile dello spreco, filma la trasgressione, compila il verbale e infila nel terreno delle piccole bandierine gialle vicino all'impianto.

SALVADOR POLANCO GAMEZ – UFFICIALE WATER PATROL - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Contrassegniamo gli irrigatori in modo che il proprietario della casa possa sapere quali sono rotti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Come si è arrivati allo stato di polizia dell'acqua? In seguito ad una crisi idrica. Un secolo fa, sette Stati si sono messi d'accordo per sfruttare le risorse idriche del fiume Colorado. 10 miliardi di metri cubi d'acqua l'anno ai quattro Paesi del nord del bacino, altrettanti a quelli del Sud, pensavano che fossero risorse inesauribili. Hanno sbagliato i calcoli. La scorsa estate, in seguito ad un periodo di siccità, c'è stata una crisi idrica e il livello dell'acqua del lago Mead e quello del lago Powell, che sono due bacini creati dall'uomo, è sceso a livelli da allarmare. Perché? Perché le turbine idroelettriche rischiavano di non pescare più l'acqua e non generare più corrente. Si è allarmato il governo federale e il Dipartimento dell'Interno ha intimato agli Stati di trovare un accordo. Nevada, California e Arizona hanno trovato un accordo per sottrarre meno acqua al fiume e il dipartimento dell'Interno ha stanziato 1miliardo e duecento milioni di dollari alle città e distretti idrici e alle tribù native per compensarli del minor uso di acqua. Ecco, però questo è un accordo che, diciamo temporaneo, arriva fino al 2026. Ha consentito a città come Phoenix e Los Angeles di poter continuare a rifornirsi di acqua. Ma dopo il 2026 cosa accadrà? Quello che sta avvenendo intorno al fiume Colorado è un piccolo esempio di quello che potrebbe accadere a livello mondiale. Il nostro Luca Chianca

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Città del peccato per molti, del vizio per altri, Las Vegas è sicuramente la capitale mondiale del gioco d'azzardo. Si trova nel bel mezzo del deserto del Mojave, anche se al centro della città la mancanza d'acqua non sembra proprio un problema. Poco distante dalla fontana del Bellagio, al secondo piano dell’albergo The Venetian c’è persino il gondoliere. Eppure, nulla sarebbe possibile senza questo enorme sbarramento che blocca le acque del Colorado River, dando vita al lago Mead, il più grande bacino artificiale di tutti gli Stati Uniti.

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 Il 90% dell'acqua di Las Vegas proviene dal lago Mead.

LUCA CHIANCA Senza questo lago Las Vegas muore?

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 Sì.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La diga di Hoover viene inaugurata nel lontano 1935, dopo soli 4 anni di lavori. Sono gli anni della grande depressione, ma l’american dream spinge i suoi abitanti alla conquista di nuovi territori verso l’ovest, nel bel mezzo del deserto.

MACK BRONSON - RAPPRESENTANTE RELAZIONI ESTERNE - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Cento anni fa, il governo federale convinse gli americani a venire in questi territori dell'ovest, California, Nevada e Arizona e l'intero fiume Colorado è diventato la linfa vitale di tutti coloro che vivono nel sud-ovest degli Stati Uniti.

LUCA CHIANCA L'acqua è connessa all'economia di questo posto?

MACK BRONSON - RAPPRESENTANTE RELAZIONI ESTERNE - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Senza acqua, qui non potresti avere nessuna economia, non ci sarebbero affari.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi in questa vasta area tra il Nevada, l'Arizona e la California ci sono 40 milioni di abitanti che dipendono dall'acqua di questo fiume, il Colorado river che partendo dalle montagne rocciose scorre per oltre 2000 km, attraversando ben 5 Stati compreso il Messico. Nel corso dei millenni ha scolpito uno dei luoghi più affascinanti degli Stati Uniti, il gran Canyon. Oggi però questo grande fiume è sull'orlo del collasso a causa della siccità che lo ha colpito negli ultimi 20 anni al punto che a Las Vegas il comune finanzia la rimozione dell'erba dai giardini condominiali.

MACK BRONSON - RAPPRESENTANTE RELAZIONI ESTERNE - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Questa zona era completamente ricoperta di erba. L'erba è stata rimossa e ora stiamo realizzando un paesaggio efficiente dal punto di vista idrico. Che ci consentirà di risparmiare 4 milioni di litri d'acqua.

LUCA CHIANCA Ci mettete delle rocce al posto dell'erba?

MACK BRONSON - RAPPRESENTANTE RELAZIONI ESTERNE - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Sì e metteremo anche piante grasse che hanno bisogno di poca acqua e dell'erba artificiale.

LUCA CHIANCA Anche al centro di Las Vegas c’è l’erba di plastica ovunque e costretti dalla siccità depurano anche l’acqua che usano nelle abitazioni private, rimettendone ben un miliardo di litri al giorno dentro al Lago Mead attraverso questo canale.

LUCA CHIANCA Va bene l'uso corretto ma l'acqua è sempre meno e nel futuro sarà ancora di meno, come farete?

MACK BRONSON - RAPPRESENTANTE RELAZIONI ESTERNE - DISTRETTO IDRICO LAS VEGAS VALLEY Finché tutti conservano, avremo acqua per continuare a vedere la crescita.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO L’ossessione per la crescita però si scontra oggettivamente con la realtà. Nel lago Mead sono i segni bianchi sulla roccia a fissare l’asticella del pericolo del fenomeno siccitoso che ha colpito il Colorado River negli ultimi 20 anni.

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 L'acqua arrivava lì, vedi quel cespuglio, proprio lì? Arrivava lì.

LUCA CHIANCA Fino qui?

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 Sì tutto questo era sott'acqua. Tutte quelle isole che vedi erano sott'acqua.

LUCA CHIANCA È una situazione drammatica!

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 È molto drammatico, un chiaro esempio del cambiamento climatico e di come si sta manifestando.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Pat Mulroy ha guidato per 25 anni le politiche di gestione dell'acqua a Las Vegas. Nel '91 era già arrivata al punto di chiedere di fermare la costruzione di nuove case.

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 La politica aveva promesso ai costruttori più acqua di quella che c'era. Ma grazie al mio intervento abbiamo creato un’agenzia regionale che ottimizza le reali risorse a disposizione.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Dopo 25 anni dalla nascita dell'agenzia dell'acqua però si continua a costruire incessantemente in mezzo al deserto. Basta spostarci più a nord, a St. George nello Utah, per vedere nascere nuovi quartieri residenziali con al centro un'enorme piscina, utilizzando l'acqua del Virgin River, un affluente del Colorado.

RYAN COATES - DIRETTORE GWC CAPITAL - QUARTIERE DESERT COLOR - ST. GEORGE (UTAH) Il nostro primo residente si è trasferito qui nel 2019. Il bel clima, che abbiamo qui, ha attirato molte persone a St George o nello Utah in generale.

LUCA CHIANCA Oggi noi sappiamo molte cose sul cambiamento climatico. Per questa ragione è veramente difficile capire perché si continuano a costruire nuovi quartieri in mezzo al deserto.

ZACH RENSTROM - DIRETTORE GENERALE DISTRETTO IDRICO DI WASHINGTON (UTAH) Se tu vivessi qui capiresti. Io amo vivere nel deserto. Amo l'odore del deserto. E molte delle persone che vengono a trovarci, poi non tornano più a casa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Zach Renstrom è il referente di contea per l’autorità dello Utah che qui si occupa dell’uso delle risorse idriche che fanno parte del bacino del Colorado river.

ZACH RENSTROM - DIRETTORE GENERALE DISTRETTO IDRICO DI WASHINGTON (UTAH) Nello stato dello Utah, siamo stati molto, molto bravi nell'utilizzo della nostra acqua. E così pensiamo di poterne usare ancora, mentre altri Stati hanno utilizzato più dell’acqua promessa, sono loro a dover apportare modifiche.

LUCA CHIANCA Lei fa riferimento all'uso che ne fa la California?

ZACH RENSTROM - DIRETTORE GENERALE DISTRETTO IDRICO DI WASHINGTON (UTAH) La California potrebbe fare un lavoro migliore, proprio come lo facciamo nello Utah.

LUCA CHIANCA Cosa ne pensa dello sviluppo di nuove aree residenziali a St. George, nello Utah?

TINA SHIELDS - MANAGER DISTRETTO IDRICO DI IMPERIAL (CALIFORNIA) Quelle aree hanno molti più rischi perché hanno scelto di costruire in zone che non hanno forti diritti idrici.

LUCA CHIANCA Quindi non dovrebbero costruire nuovi insediamenti?

TINA SHIELDS - MANAGER DISTRETTO IDRICO DI IMPERIAL (CALIFORNIA) Non ho detto questo, ma devi trovare un nuovo modo per farlo. Niente cantieri grandi e sicuramente piscine più piccole.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Difficile metterli d’accordo. Perché a seguito dei patti sottoscritti 100 anni fa, tra tutti gli Stati che sfruttano il Colorado, alla California va il più grande quantitativo d’acqua. Solo nella zona dell'Imperial Irrigation District, una delle zone agricole più produttive di tutti gli Stati Uniti al confine con il Messico, si usa 10 volte l'acqua utilizzata dall'intero Stato del Nevada.

TINA SHIELDS - MANAGER DISTRETTO IDRICO DI IMPERIAL (CALIFORNIA) Questo distretto agricolo è stato istituito 100 anni fa dai contadini. Il Nevada ha città nuove, nate dopo e quindi i loro diritti sull'acqua sono inferiori.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quest'area della California era completamente desertica, e dove non sono riusciti a portare l'acqua lo è ancora, con tanto di tempeste di sabbia lungo le strade. Qui l'acqua del Colorado ce l'hanno portata con l'all-american canal, il più grande canale d'irrigazione al mondo lungo 123 km che ha reso fertile e abitabile questa terra.

LUCA CHIANCA Senza il Colorado river questa zona sarebbe solo un deserto.

TINA SHIELDS - MANAGER DISTRETTO IDRICO DI IMPERIAL (CALIFORNIA) Qui c’è anche un problema di sicurezza alimentare, non solo quello di avere una nuova casa con acqua, servizi igienici e docce, ma anche la possibilità di mangiare. Noi coltiviamo cibo per tutti.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Secondo Tina Shields l'Imperial Irrigation District, dà da mangiare al resto del paese. Sul territorio coltivano un po' di tutto ma sicuramente la fa da padrona l'erba medica per il foraggio del bestiame, che qui si trova in grandi quantità in questi allevamenti intensivi. Un settore che ha bisogno di milioni di litri d'acqua per produrre.

LUCA CHIANCA Come giudica la posizione della California?

PAT MULROY - DIRETTRICE GENERALE AUTORITÀ IDRICA SUD NEVADA 1991 - 2014 Sa di avere più diritti sulla carta, ma a chi importa se alla fine non c’è più acqua? I tuoi diritti li puoi incorniciare e appendere al muro. Se sei realista o fai parte della soluzione o giocherai alla roulette russa con tutti i colpi in canna.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO E dei limiti del sistema creato nell'Imperial Irrigation district ne è consapevole anche Bart Fisher un agricoltore californiano di Blythe, città al confine con l'Arizona.

BART FISHER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA FISHER RANCH - BLYTHE (CALIFORNIA) Qui il fiume si trova a 10 km, mentre l'Imperial Valley è a 100 km, molto lontano dal Colorado. L'acqua che noi usiamo ritorna attraverso la falda al fiume, nell'Imperial Valley no, quando dai l'acqua in quel territorio si perde per sempre.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Come si perde buona parte dell'acqua del Colorado portata da questo canale nelle campagne a sud di Phoenix in Arizona in mezzo a questo deserto fatto di enormi cactus.

JACE MILLER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA TRIPLE M FARMS - CASA GRANDE (ARIZONA) La gente dice: perché coltivi in un deserto? Beh, perché è il posto migliore per i raccolti c'è sempre il sole e fa molto caldo.

LUCA CHIANCA Sì, però nel deserto hai bisogno di una grande quantità di acqua.

JACE MILLER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA TRIPLE M FARMS - CASA GRANDE (ARIZONA) Ma qui in Arizona la mia famiglia coltiva da oltre 100 anni.

 LUCA CHIANCA Capisco ma c'è anche il cambiamento climatico, 100 anni fa questo problema non c'era

JACE MILLER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA TRIPLE M FARMS - CASA GRANDE (ARIZONA) Il clima è sempre cambiato.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La famiglia di Jace è alla quinta generazione in Arizona e anche qui, come in California, la maggior parte delle sue piantagioni è di erba medica, l'erba che consuma milioni di litri d'acqua per essere coltivata.

JACE MILLER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA TRIPLE M FARMS - CASA GRANDE (ARIZONA) Questa è la mia erba medica che in 30 giorni sarà alta quasi un metro.

LUCA CHIANCA la California chiede che vi sia tagliata più acqua di quello che già prendete perché siete arrivati ultimi.

JACE MILLER – PROPRIETARIO AZIENDA AGRICOLA TRIPLE M FARMS - CASA GRANDE (ARIZONA) Ci sono altri sette stati in totale che usano l'acqua del Colorado e l'Arizona ha già subito il maggior numero di tagli. La California neanche uno.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO La perdita d'acqua si traduce in un conflitto permanente tra gli Stati che usano l'acqua del grande fiume. Ognuno difende il proprio territorio, in base a patti siglati ben 100 anni fa, da cui però i nativi, quelli che il fiume lo hanno conservato per migliaia di anni, sono stati esclusi.

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) Quei patti si rivolgevano solo ai bisogni degli Stati perché allora noi non avevamo diritti come popolo e quindi non potevamo avere voce in capitolo su ciò che stavano facendo all'acqua della nostra terra.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nora McDowell è stata per più di 25 anni la presidentessa della tribù Fort Mojave, in Arizona. Il popolo del fiume, come ama definirlo, anche se per anni è stato tagliato fuori dagli accordi

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) Per uso agricolo prendiamo l'acqua direttamente dal fiume LUCA CHIANCA È fredda!

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) Sì, è fredda.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il fiume in questa zona nel corso degli anni ha cambiato completamente aspetto.

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) C'erano isole e insenature, ed è lì che viveva la nostra gente e durante l'inverno andavamo a vivere sulle montagne intorno perché il fiume si alzava.

LUCA CHIANCA Ma qui dove siamo adesso?

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) Sì, c'era tutta acqua. Poi quando hanno creato la diga di Hoover è cambiato tutto. È arrivata la colonizzazione hanno trattato il fiume come una proprietà. E si sono dimenticati di noi.

LUCA CHIANCA Che cosa rappresenta per la vostra comunità il fiume?

NORA MC DOWELL – MEMBRO DELLA COMUNITÀ NATIVI AMERICANI - FORT MOJAVE (ARIZONA) È la nostra vita. È uno spirito vivente. È proprio come te e me.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Quest'anno, per fortuna, è scesa in po' di neve sulle montagne rocciose, che ha ridato ossigeno al grande fiume, ma il trend negli ultimi 20 anni parla chiaramente di un bacino in difficoltà cronica

JOHN FLECK - AUTORE LIBRO “IGNORARE LA SCIENZA HA PROSCIUGATO IL FIUME COLORADO” - UNIVERSITÀ DEL NEW MEXICO Sì, possiamo immaginare che se le tendenze continuano, potremmo vedere il punto di non ritorno tra tre anni. LUCA CHIANCA Tre anni?

JOHN FLECK - AUTORE LIBRO “IGNORARE LA SCIENZA HA PROSCIUGATO IL FIUME COLORADO” - UNIVERSITÀ DEL NEW MEXICO Potremmo.

LUCA CHIANCA È un tempo molto piccolo!

JOHN FLECK - AUTORE LIBRO “IGNORARE LA SCIENZA HA PROSCIUGATO IL FIUME COLORADO” - UNIVERSITÀ DEL NEW MEXICO Sì.

LUCA CHIANCA Sarebbe la fine?

JOHN FLECK - AUTORE LIBRO “IGNORARE LA SCIENZA HA PROSCIUGATO IL FIUME COLORADO” - UNIVERSITÀ DEL NEW MEXICO No, le città non scomparirebbero del tutto, ma sarebbero radicalmente diverse con meno acqua.

LUCA CHIANCA Come andrà a finire questa battaglia tra i 7 stati?

JOHN FLECK - AUTORE LIBRO “IGNORARE LA SCIENZA HA PROSCIUGATO IL FIUME COLORADO” - UNIVERSITÀ DEL NEW MEXICO Se tutti continuano a pensare che sono sempre gli altri a doversi sacrificare il sistema crolla. Dobbiamo iniziare a condividere l'onere del cambiamento climatico riducendo tutti l'uso dell'acqua di questo fiume altrimenti sarà un disastro. SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il livello del lago Mead è sceso negli ultimi due decenni di 45 metri e vicino a quel punto di non ritorno, il deadpool, che significa che non si potrà più pompare acqua verso il Sud. Ci sono stati, come la California, che chiedono ad altri di risparmiare come l'Arizona, e di applicare la famosa legge del 1922. La legge del fiume è un insieme di provvedimenti di decreti giudiziari e di contratti che regolamenta lo sfruttamento del fiume e l'approvvigionamento, lo sfruttamento delle risorse idriche per servire 40 milioni di persone, tanti sono. è stato spinto oltre ogni limite. Gli amministratori più previdenti hanno cominciato a cambiare il volto alle proprie città, cercando di ottimizzare l'utilizzo dell'acqua. Ma per incidere più fortemente bisognerebbe agire sul distretto agricolo, dove vengono consumati milioni milioni e milioni di litri d'acqua per coltivare l'erba medica, per esempio, che è il cibo per il bestiame. Oppure incidere anche su quei costruttori famelici che continuano a sfornare ville con piscina in pieno deserto per riportare il livello del Colorado a quello che era una volta, occorrerebbero sei anni di inverni piovosi. Se questo non accadrà dopo il 2026, cosa succederà?

Quanta acqua sprechiamo mentre l'Onu dice al mondo intero di non farlo. Il 42% di quella che corre nella nostra rete non viene utilizzata perché si perde: quanta acqua sprechiamo anche in barba all'allarme Onu. Giampiero Casoni su Notizie.it il 22 Marzo 2023

 Più di centomila litri al secondo, ecco quanta acqua sprechiamo in Italia mentre l’Onu dice al mondo intero di non farlo perché l’emergenza siccità fa il paio con la disparità vorace delle risorse idriche. Esiste questo paradosso amaro della dispersione idrica in Italia che fa letteralmente a cazzotti con l’allarme mondiale sulla riduzione degli sprechi. Partiamo da un dato fornito oggi che è giornata totem sul tema: con l’acqua che in Italia abbiamo disperso nel 2022 43 milioni di persone ci avrebbero tirato avanti per 12 mesi.

Colpa solo della siccità oppure c’è altro?

Colpa solo della siccità che si sta riaffacciando specie al nord? Assolutamente no: una rete idrica marcia, un tasso di dispersione superiore al 40% ed il solito scaricabarile di responsabilità fra enti locali e distribuzione sono alla base di un fenomeno tutto nostro, visto che siamo i primi in Europa per consumi. L’Onu in queste ore ed in occasione della Giornata mondiale dell’acqua ha diffuso un report in cui mette l’evidenza come la carenza di acqua sta peggiorando con l’imminente rischio di una crisi globale. Per il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres il mondo sta “ciecamente camminando su una strada pericolosa con l’insostenibile uso di acqua, l’inquinamento e il surriscaldamento climatico che stanno drenando la linfa vitale dell’umanità”.

Quanta acqua sprechiamo in barba all’Onu

Ecco, e alla luce di questo allarme in Italia come siamo messi? Ne sprechiamo tantissima, troppa in un momento nel quale sulla terra due miliardi di persone non hanno l’accesso ad acqua potabile sicura mentre 3,6 miliardi non lo hanno a servizi sanitari affidabili. “La scarsità di acqua sta diventando endemica”. L’uso di acqua è aumentato a livello globale di circa l’1% ogni anno negli ultimi 40 anni e dovrebbe mantenere tassi di crescita simili fino al 2050. Da noi invece sprechiamo 104.000 litri di acqua al secondo. Conti alla mano sono 9 miliardi di litri al giorno per un 42% dell’acqua che scorre lungo i 500.000 km di rete di acquedotti. Il primo dato dunque è che l’Onu ha detto molto ma non tutto: il problema idrico non è solo terzomondista per chi non vi ha accesso ma anche primomondista per chi ce l’ha e la butta via.

Accesso razionato e rete idrica disastrosa

Tanto via che in Italia almeno una volta all’anno milioni di famiglie sono costrette a far fronte ad un accesso razionato all’acqua. Il Cnr è stato ancora più chiaro: il 70% della Sicilia è già a rischio desertificazione e con esso un quinto dell’intero territorio italiano. Cosa ci penalizza e finisce poi per andare a fare anche massa critica sul caro bollette? Codacons parla dei i dati “disastrosi della rete idrica colabrodo”. E Nelle regioni del Sud la rete disperde circa il 47% contro il 31% del Nord-Ovest. Quanto investiamo nel settore idrico? 56 euro annui per abitante, in crescita del 17% dal 2019 e del 70% dal 2012. È tanto? No, in rapporto ai risultati è zero.

La missione di Pechino. “C’è acqua sulla Luna, miliardi di tonnellate”: la conferma dalla sonda cinese. Antonio Lamorte su Il Riformista il 28 Marzo 2023

Sulla Luna ci sarebbero miliardi di tonnellate di acqua, un vero e proprio “serbatoio” sul satellite. La conferma arriva dal robot Chang’e-5 di un team di scienziati cinesi. La missione sul suolo lunare era stata lanciata nel 2020, uno studio è stato pubblicato sulla rivista Nature Geoscience. Già nel 2020 il telescopio volante Sofia aveva confermato la presenza di acqua, se ne parlava da circa un decennio. Le tonnellate di acqua sulla superficie lunare potrebbero essere utilizzate dagli astronauti che vorranno passare lunghi periodi di tempo sulla Luna.

La missione cinese è tornata sulla terra con campioni di piccole sfere di vetro che erano frammenti di roccia sciolta e raffreddata, frutto dei violenti impatti di meteoriti con la superficie della Luna, complice l’azione del vento solare. “La Luna è costantemente bombardata da micrometeoroidi e grandi meteoroidi, che producono gocce, simili a perle di vetro, durante eventi nei quali si sprigiona una quantità elevatissima di energia. Queste gocce funzionano come spugne: trattengono materiale acquoso, rilasciandolo poi ciclicamente nello spazio”, ha dichiarato lo scienziato Sen Hu dell’Istituto di Geofisica e Geologia di Pechino che ha firmato lo studio pubblicato su Nature Geoscience.

Secondo Sen Hu l’acqua prodotta dall’azione del vento sorale deriva dalla reazione di particelle di idrogeno con l’ossigeno. La sonda cinese è stata la prima a recuperare materiale lunare dai tempi delle esplorazioni sovietiche e americane. Due studi sono stati pubblicati in passato sulla rivista specializzata Nature Astronomy, uno coordinato dalla Nasa e un altro dall’Università del Colorado che avevano rintracciato o ipotizzato la presenza di acqua sotto diverse forme nel cratere Clavius e su una superficie di oltre 40mila chilometri quadrati.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Estratto dell’articolo di Maria Sorbi per “il Giornale” il 28 marzo 2023.

Siamo vicini alla svolta per la gestione delle acque italiane. Potrebbero finalmente sbloccarsi situazioni che ristagnano da 30 anni, impaludate in una burocrazia talmente fitta che ha generato sprechi ma non risolto problemi. E ora, che siamo a un passo dall’emergenza siccità, arriva il momento di snellire, per altro con una certa urgenza.

Il Consiglio dei ministri a breve discuterà del decreto legge sull’acqua, che potrebbe essere operativo già dalla prossima settimana. In ballo ci sono il piano idrico straordinario, la nomina di un commissario ad hoc con poteri esecutivi straordinari (un po’ come accaduto per l’emergenza Covid), e un meccanismo di semplificazioni e deroghe per sbloccare 7,8 miliardi di euro intrappolati dalle pastoie burocratiche. […]

 Il paradosso più paradosso che ci sia è che le risorse ci sono ma non vengono usate come potrebbero. Saranno attinte dal Pnrr (dei 4 miliardi destinati è stato impegnato meno del 10%, pari a 300 milioni), dai fondi europei del periodo 2014-2020 (1,2 miliardi di cui sono stati usati soltanto 200 milioni) e da fondi nazionali. […]

Non siamo alla vigilia di un’emergenza idrica solo perchè non piove. Ma anche per una malagestione consolidata nel tempo. E dove lo volevi mettere il consigliere non eletto ma intrallazzato, il tutto-fare porta voti e l’amico dell’amico? Nella società locale di gestione acque: poltrona sicura, non tanto visibile, stipendio garantito. Peccato che negli anni si sia creato un sovraffollamento di ruoli che ha portato alla paralisi del settore.

L’Istat denuncia la «spiccata parcellizzazione gestionale»: 2.552 operatori attivi nei servizi idrici per uso civile nel 2018, nell’83% dei casi gli enti locali che forniscono il servizio. Benché si tratti di numeri in deciso calo - nel 1999 erano 7.826 secondo gli esperti sono ancora troppi per fornire un servizio efficiente. In base al dossier sui conti pubblici territoriali, nel 2019 la spesa per i servizi idrici è arrivata a 10 miliardi di euro di cui l’11,4% (quindi circa un miliardo) per il personale.

Troppi enti chiamati a concorrere, spesso senza dialogare tra loro, con il risultato di una gran confusione finale. E operatori troppo piccoli, dunque non abbastanza efficienti per permettersi gli investimenti necessari. L’obiettivo è eliminare anche le figure di commissari nominati negli anni a livello locale per far fronte alla gestione delle dighe e delle risorse idriche: ce ne sono almeno una dozzina, nelle Regioni, che saranno esautorati. Da oggi verranno ascoltati tutti i delegati territoriali per ascoltare quelle che, secondo loro, sono le criticità dell’organizzazione. […]

Angelo Vitolo su L’Identità il 10 Marzo 2023

La siccità sta trasformando la geografia del nostro Paese, con un Nord non più contrassegnato dal valore di quello finora chiamato oro bianco. Di fronte a questo, a distanza di 10 giorni dall’istituzione del Tavolo di Lavoro sull’Acqua, il Governo Meloni non ha ancora nominato il Commissario che dovrà occuparsene. Lo chiedono tutti, a partire dalle categorie dell’agricoltura che vedono i loro associati cominciare, come nel 2022, a fare previsioni di un raccolto ridotto nelle sue quantità e qualità. E a monitorare ogni giorno le coltivazioni facendo i conti con la carenza idrica.

L’Anbi registra la confortante immagine della tracimazione controllata del bacino di Ridracoli avviata a beneficio dei territori romagnoli. Ma è la stessa associazione a definirla amaramente “un’oasi in un Nord Italia caratterizzato da un andamento pluviometrico mediorientale, come dice il nostro report settimanale”.

La Val Padana come Israele? In Emilia Romagna c’è il “troppo vuoto” dei serbatoi piacentini, con il lago di Molato che trattiene 0,85 milioni di metri cubi d’acqua, a fronte di una capacità di 8,50.

Drammatiche le condizioni al NordOvest d’Italia: in Piemonte, il deficit pluviometrico è stato dell’87,3%. Gli invasi regionali trattengono solamente 90 milioni di metri cubi d’acqua, pari al 23% della capacità.

Grave è la condizione dei corsi d’acqua, che restano molto al di sotto delle portate del 2022, nonostante un leggerissimo miglioramento dovuto probabilmente agli apporti dello scioglimento della neve: comunque, il Po tocca -73% sulla media storica.

Non va meglio in Valle d’Aosta: sulla regione sono piovuti mediamente meno di 5 millimetri, un valore inferiore all’anno scorso (mm.10). La neve caduta è stata mezzo metro inferiore alla media.

In Lombardia le riserve idriche sono inferiori a quelle del 2022 (-13,55% e -60% sulla media storica): il dato più preoccupante riguarda la neve (circa il 13% in meno rispetto all’anno scorso e circa il 70% sotto la media storica).

Preoccupante, la situazione in Veneto: nel mese da poco concluso, infatti, sulla regione sono piovuti mediamente 3 millimetri d’acqua, quando la media sarebbe di 60 (-96%).

Sbotta il presidente Anbi, Francesco Vincenzi: “L’imminente ed ormai difficilmente evitabile esplodere della crisi idrica nel Nord Italia evidenzia l’urgente necessità che il Governo individui un’autorità con la potestà di dirimere inevitabili contrapposizioni fra interessi, rispettando le normative di legge”.

E lo scenario completo viene rammentato dal direttore Anbi, Massimo Gargano: “La diversificazione di situazioni, che si stanno registrando lungo la Penisola, pone d’attualità la necessità di realizzare infrastrutture idriche per trasportare l’acqua da un territorio all’altro, superando anche antistoriche contrapposizioni, ma privilegiando l’interesse generale. E poi riproponiamo con voce alta il Piano Invasi che Anbi e Coldiretti da tempo hanno messo a disposizione. Contestualmente è necessario completare gli schemi idrici, la cui incompiutezza penalizza alcuni territori, pur in presenza di disponibili risorse idriche”.

Fin qui, il quadro della situazione dal fronte di chi vive ogni territorio conoscendone le difficoltà e il quotidiano deprezzamento per la siccità. A Roma, a sentire le voci dei corridoi e dei Palazzi della politica, si lavora ad un piano idrico nazionale straordinario, che dovrebbe risolvere definitivamente il problema. A leggere i bollettini Anbi, la domanda è d’obbligo: si farà in tempo a metterne in atto almeno nel Nord la più urgente azione?

Siccità: i fiumi e i laghi italiani sono a secco come in estate. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 23 Febbraio 2023

Rispetto allo stesso periodo dello scorso anno, già caratterizzato da siccità, a Torino il livello del fiume Po è più basso del 46%. L’Osservatorio dell’ANBI sulle risorse idriche dice che la portata del Po, il maggior fiume in Italia con i suoi 650 km di estensione, è in calo anche a Piacenza, Cremona e in provincia di Reggio Emilia, e che il record negativo potrebbe essere toccato nelle prossime settimane anche a Mantova. E alla lista continueranno ad aggiungersi moltissime altre città, per un semplice motivo: non piove.

Il Nord Italia è a secco, e la situazione peggiore, secondo l’ANBI (almeno nelle prime settimane del 2023) si registra proprio in Piemonte. A febbraio 7 comuni della Regione sono stati costretti a dissetare i propri cittadini con l’ausilio delle autobotti, e altre 70 amministrazioni locali sono già in preallarme. «È la conferma che la crisi idrica sta iniziando a pregiudicare anche l’uso potabile, in un sostanziale disinteresse collettivo», dice Massimo Gargano, Direttore Generale dell’ANBI.

Oltre alla scarsità d’acqua, sulle Alpi non c’è neppure neve. Questa, che alimenta le acque dei fiumi, si è praticamente dimezzata (-54% in meno in Piemonte e in Lombardia). Senza lo scioglimento delle nevi all’appello mancano circa 4 miliardi di metri cubi d’acqua. Un grosso guaio considerando che il fiume Po si alimenta per il 60% proprio dalla neve caduta in montagna.

Praticamente siamo nella stessa situazione di un anno fa, ma con 12 mesi in più di siccità già sulle spalle – da cui pare non abbiamo imparato granché – e con un inverno che a conti fatti sta ormai per volgere al termine. Una condizione, quella attuale, che avrà sicuramente grosse ripercussioni anche sulle stagioni che verranno. Lo abbiamo già visto nel 2022, quando la mancanza d’acqua ha causato problemi all’agricoltura – secondo Coldiretti sono stati persi almeno 6 miliardi di euro nei raccolti -, e più in generale a tutti gli ecosistemi. Sulla base delle previsioni di semina, il 2023 non andrà meglio: verranno coltivati quasi 8mila ettari di riso in meno, per un totale di ‘appena’ 211mila ettari. Cifre mai registrate negli ultimi trent’anni.

Con la penuria idrica ci fanno i conti anche i laghi. Quello Maggiore è al 39% del suo normale riempimento, il lago di Como al 20% e il lago di Garda al 35% (una percentuale tra le più basse di sempre). Tant’è che, a proposito di quest’ultimo, si è verificata una situazione piuttosto particolare. L’Isola di San Biagio, che sorge proprio sul lago di Garda, è in questi giorni raggiungibile a piedi da Manerba del Garda per via dell’istmo (una specie di passerella di terra) riaffiorato a causa della siccità.

La verità è che, a questo punto, avremmo dovuto avere una preparazione diversa e mostrarci pronti a intervenire con piani strutturali ben precisi. La siccità non è una novità. Sì, i progetti ci sono – il Piano nazionale di ripresa e resilienza prevede di impiegare 3,2 miliardi di euro per realizzare 10mila bacini idrici entro il 2030 – ma al momento sono pochi e incompleti. Intanto anche per le prossime settimane nel Nord Italia non sono previste grosse precipitazioni.

In generale, secondo l’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), il valore annuo medio di risorsa idrica disponibile per l’ultimo trentennio 1991– 2020 si è ridotto del 19% rispetto a quello relativo al trentennio 1921–1950, stimato dalla Conferenza Nazionale delle Acque tenutasi nel 1971 e che rappresenta il valore di riferimento storico. Condizioni che non sembrano mostrare margini di miglioramento. [di Gloria Ferrari]

Siccità ci risiamo. Angelo Vitolo su l’Identità il 21 Febbraio 2023

Aumenta sempre più in Italia la sofferenza di fiumi e laghi: è stato raggiunto uno stato di severità idrica “media” in tre dei sette distretti idrografici. E Legambiente rilancia il suo appello al Governo, con 8 proposte per una strategia idrica nazionale non più rinviabile. Ciò che viene chiesto è un piano unitario, ne hanno parlato anche i ministri Giorgetti e Pichetto Fratin, ma dal Governo non arrivano segnali di una possibile manovra sul fenomeno all’ordine del giorno per tutti i media che raccontano il ritorno dell’emergenza.

 I laghi e fiumi sono ormai al collasso, quasi in secca come la scorsa estate, in montagna è scarsa la neve. È quanto sta accadendo a metà a febbraio, complici l’aumento delle temperature superiori ai valori di riferimento, le scarse precipitazioni e la ricorrente crisi climatica.

 Il risultato? Una nuova ondata di siccità, anzi un’emergenza siccità mai finita, con corsi d’acqua che hanno raggiunto uno stato di severità idrica “media” nelle autorità di distretto del Po, dell’Appennino settentrionale e dell’Appennino centrale. Preoccupante la carenza di neve, con il 53% in meno sull’arco alpino.

 Una situazione che chiede mosse urgenti. “Bisogna da subito ridurre i prelievi nei diversi settori e per i diversi usi, prima di raggiungere il punto di non ritorno – spiega Giorgio Zampetti, dg di Legambiente – . Serve poi una strategia idrica nazionale con un approccio circolare, che permetterebbe di rendere più competitiva e meno impattante l’intera filiera. E non va sottovalutato il contributo della neve per le capacità dei bacini idrografici in primavera e estate, quando vi peserà anche l’uso agricolo. Vanno previste più risorse per il settore idrico, vanno meglio indirizzate quelle del Pnrr”. E Legambiente ricorda pure che l’Italia – con oltre 33 miliardi di metri cubi di acqua prelevata per tutti gli usi ogni anno – è nel complesso un Paese a stress idrico medio-alto secondo l’OMS, poiché utilizza il 30-35% delle sue risorse idriche rinnovabili, con un incremento del 6% ogni 10 anni.

 Una tendenza che, unita a urbanizzazione, inquinamento ed effetti dei cambiamenti climatici, come le sempre più frequenti e persistenti siccità, mette a dura prova l’approvvigionamento idrico della Penisola. Secondo il Gruppo Intergovernativo degli Esperti sul Cambiamento Climatico, all’aumento di un grado della temperatura terrestre corrisponde una riduzione del 20% della disponibilità delle risorse idriche.

E allora le otto richieste dell’associazione, per una road map idrica che punti alla riduzione dei prelievi e degli usi dell’acqua:

favorire la ricarica controllata della falda, specialmente attraverso le sempre minori e più concentrate precipitazioni;

prevedere l’obbligo di recupero delle acque piovane installando sistemi di risparmio idrico, attraverso misure di desealing in ambiente urbano e con laghetti e piccoli bacini in agricoltura;

rendere efficiente il funzionamento del ciclo idrico integrato, permettere le riduzioni delle perdite di rete, completare gli interventi sulla depurazione;

implementare il riuso delle acque reflue depurate in agricoltura, accelerando le modifiche normative necessarie;

riconvertire il comparto agricolo con colture meno idroesigenti e metodi irrigui più efficienti;

ridurre gli sprechi in edilizia con i Criteri Minimi Ambientali;

riutilizzare l’acqua nei cicli industriali, riducendo gli scarichi;

incentivare e defiscalizzare il ciclo idrico, come per l’efficientamento energetico.

La tragedia della Marmolada.

La Tragedia di Rigopiano.

La tragedia della Marmolada.

Arianna Sittoni, travolta e uccisa dalla valanga sul Lagorai: era sfuggita alla tragedia della Marmolada. Con lei Guido Trevisan. Lorenzo Pastuglia su Il Corriere della Sera il 25 gennaio 2023.

Grave il suo compagno di escursione: è il gestore del rifugio Malga Caldenave. Difficili i soccorsi

Erano partiti poco prima dell’ora di pranzo per praticare sci alpinismo. Guido Trevisan e Arianna Sittoni, rispettivamente 46 e 30 anni, avevano deciso di salire verso la vetta e nel frattempo godersi i panorami mozzafiato della Val Campelle, pochi chilometri più in quota rispetto al rifugio Malga Caldenave gestito proprio dall’imprenditore veneto, che nel 2020 ebbe il suo rifugio Pian dei Fiacconi distrutto da una slavina. Una volta raggiunta quota 2.100 metri, in una zona più a valle rispetto alla Forcella Ravetta, i due sono stati investiti improvvisamente da una valanga rimanendo così bloccati. Lei sepolta completamente dalla neve, lui soltanto per metà. Per Sittoni purtroppo non c’è stato nulla da fare, mentre Trevisan, grave, è rimasto cosciente e avrebbe riportato soltanto una frattura a una gamba. 

I soccorsi

L’intervento dei soccorritori è partito intorno alle 15.30, quando è suonato il telefono della stazione dei carabinieri di Borgo Valsugana. Dall’altro lato c’era Alice Dassatti, la moglie di Guido che, allarmata, ha lanciato l’allarme. Suo marito sarebbe dovuto tornare a casa a Pergine nel pomeriggio, prima delle 16, per svolgere alcune commissioni, ma non lo ha mai fatto. Così, intorno alle 16.15 sono intervenuti i soccorritori del Soccorso alpino (con due operatori della stazione Bassa Valsugana verricellati sul posto), i carabinieri delle compagnie di Castel Telvana e Borgo Valsugana, i vigili del fuoco volontari di Scurelle e i permanenti di Trento, oltre che i soccorritori del 118. Dopo aver fatto alzare in volo dei droni, nel tentativo di individuare il luogo, è stato poi l’elisoccorso a scoprire il corpo di Sittoni. Ma sin da subito le manovre di salvataggio sono state difficilissime: colpa della neve fresca e della pioggia, che si è abbattuta sulla zona. A complicare le operazioni di soccorso il calare della notte. Proprio per questo motivo, le squadre di soccorritori delle stazioni della Bassa Valsugana, Levico, Tesino e Pergine hanno raggiunto il luogo della slavina via terra, utilizzando per un tratto quad e motoslitte e poi gli sci. 

I soccorritori sono riusciti a recuperare solo Guido Trevisan, mentre la salma di Arianna Sittoni, sepolta dalla neve, sarà recuperata questa mattina. Se si guarda il suo profilo Instagram, è straziante il post di inizio luglio, scritto pochi giorni dopo la tragedia della Marmolada che provocò undici vittime. Allora Arianna aveva scritto: «Ci trovavamo proprio lì, a sud della Marmolada, ignari di tutto scalavamo quella parete mentre dall’altra parte un enorme pezzo di calotta si stava staccando portandosi dietro tutto e tutti, così vicini ma così lontani…». E ancora: «Alla montagna non si comanda — concludeva in quel post che la vede felice insieme a un ragazzo — a volte ci si trova semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato…». Purtroppo proprio come è accaduto ieri pomeriggio. Portato a piedi con una barella fino al suo rifugio Malga Caldenave, Trevisan è poi stato trasportato in ambulanza a valle dove ad attenderlo c’era l’elisoccorso con il quale è arrivato all’ospedale Santa Chiara di Trento poco prima della mezzanotte. 

Alfio Sciacca per il “Corriere della Sera” il 13 Gennaio 2023.

Temperature elevate e profonde ferite nel ghiacciaio. Queste le cause all'origine della tragedia della Marmolada che il 3 luglio scorso fece 11 vittime, travolte da una valanga di ghiaccio. Ma quel che è più importante «l'evento non era prevedibile e non è stato possibile identificare elementi che potessero, qualora osservati, suggerire un elevato rischio di crollo imminente».

 A giungere a queste conclusioni i periti nominati dalla Procura di Trento nell'ambito dell'inchiesta per accertare eventuali responsabilità nella morte degli 11 escursionisti.

Ed è sulla scorta di questa perizia che la Procura ha chiesto circa 20 giorni fa l'archiviazione dell'inchiesta. Il provvedimento è stato notificato anche ai familiari delle vittime.

«Una simile conclusione - attacca Luca Miotti che nella tragedia ha perso il fratello Davide - mi lascia perplesso e deluso. Faccio appello agli scienziati del settore di studiare gli accertamenti dei consulenti della Procura al fine confermare o confutare l'imprevedibilità del catastrofico evento del 3 luglio».

 Nessuna replica dalla Procura che, nel «rispetto per il dolore delle persone», rimanda al contenuto della relazione dei professori Carlo Baroni, dell'Università di Pisa, e Alberto Bellin, della facoltà di Ingegneria di Trento. Secondo i periti le alte temperature registrate a partire da giugno hanno provocato «la riduzione del ghiacciaio di circa sette centimetri al giorno» che sulla Marmolada in «10 anni avrebbe perso oltre cinque metri di spessore medio e oltre 7,7 milioni di metri cubi di ghiaccio». In 30 anni la sua estensione si è dimezzata.

Il 3 luglio una massa di 6.480 metri cubi di ghiaccio si sarebbe staccata da Punta Rocca come conseguenza di due cause. «La prima - spiega il professore Alberto Bellin - è la presenza significativa di acqua che ha diminuito l'aderenza del ghiacciaio al fondo roccioso. La seconda è l'ammaloramento del ghiaccio, che ha visto un peggioramento delle proprie caratteristiche meccaniche: all'interno del corpo glaciale c'erano fratture, che però non erano visibili in superficie. Questo peggioramento lo abbiamo dedotto osservando le immagini prese dopo il crollo e non visibile prima».

 Sulla Marmolada, aggiunge il perito, «altri crolli sono avvenuti anche in passato, quando l'effetto delle variazioni climatiche era meno marcato. L'incremento della temperatura non aiuta e c'è una situazione generale molto più critica rispetto al passato, ma è quasi impossibile individuare dei segnali premonitori del distacco».

La Tragedia di Rigopiano.

Hotel Rigopiano: perché tutti assolti? Le motivazioni della sentenza contestata. Stefano Baudino su L'Indipendente il 24 Maggio 2023

“Non vi sono elementi per giungere ad un’affermazione di responsabilità degli imputati in ordine al reato di cui al capo 1 dovendosi dunque escludersi qualsivoglia collegamento causale tra la presunta condotta omissiva tenuta dagli imputati e il crollo dell’hotel Rigopiano”. È questo il passaggio più importante delle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 23 febbraio, i dirigenti della regione Abruzzo, l’ex prefetto e l’ex presidente della Provincia di Pescara sono stati assolti nel processo sulla tragedia dell’hotel Rigopiano di Farindola, appena depositate. Un verdetto che ha fatto insorgere i familiari delle vittime, che promettono battaglia in vista dell’eventuale processo di Appello.

A spingere il Gup Gianluca Sarandrea ad assolvere la maggior parte degli imputati – ben 25 su 30 – è stata, dunque, la convinzione dell’imprevedibilità della valanga che, il 18 gennaio 2017, investì l’albergo Rigopiano-Gran Sasso Resort e causò la morte di 29 persone. Tale fattore ha infatti fatto cadere l’ipotesi accusatoria più pesante, quella di disastro colposo. Ad essere condannati erano invece stati il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta (2 anni e 8 mesi), ritenuto responsabile di non avere emesso un’ordinanza di inagibilità e di sgombero dell’hotel, i funzionari della Provincia Polo D’Incecco e Mauro Di Blasio (3 anni e 4 mesi), per non avere trovato una turbina per sgomberare la strada dalla neve e non avere chiuso un tratto della Sp 8, e, per fatti laterali, il gestore dell’albergo Bruno Di Tommaso e il tecnico Giuseppe Gatto (6 mesi).

“La valutazione che deve compiersi al fine di riscontrare se vi sia stata la violazione di regole cautelari da parte degli imputati nel non aver sollecitato il Coreneva ad estendere l’area su cui effettuare la Clpv (Carte di localizzazione probabile delle valanghe, ndr) – scrive il giudice nelle motivazioni – deve necessariamente essere condotta sulla base di una valutazione ex ante e pertanto non può non notarsi come alcun elemento consentiva di riscontrare una condizione di effettivo rischio valanghivo sull’area in questione; se ne deduce pertanto che debba escludersi che l’omissione degli imputati possa avere avuto alcuna incidenza causale con gli eventi che secondo le indicazioni riportate in rubrica hanno portato al crollo dell’hotel ed al decesso ed alle lesioni delle persone presenti a vario titolo nell’hotel Rigopiano al momento dell’impatto della valanga”.

Il Gup ritiene di “non poter pervenire ad un affermazione di responsabilità degli imputati in ordine ai reati descritti”, in cui “viene in rilievo la condotta tenuta dai responsabili dell’Ente Regione in ordine alla mancata predisposizione della piattaforma normativa che avrebbe dovuto costituire il presupposto per impedire la costruzione ed i successivi lavori di ampliamento dell’Hotel 90 Rigopiano che a loro volta costituiscono antecedenti causalmente ricollegabili al decesso ed alle lesioni delle persone presenti nella struttura al momento dell’impatto della valanga”. Dunque, chiosa il Gup, “Non si ritiene che in capo ad alcuno degli imputati dirigenti e direttori della Regione potesse ravvisarsi uno specifico obbligo di protezione“, che costituisce “il presupposto per fondare la sussistenza di un delitto omissivo” e quindi “per il riconoscimento della penale responsabilità”.

«L’imprevedibilità di un fatto va contestualizzata al momento, se fosse arrivata all’improvviso senza il minimo preavviso, allora potrei credere in un destino amaro per mio fratello Dino e per mia cognata Marina, ma qui si tratta di situazioni diverse in un lasso di tempo ampio che se fossero state prese in considerazione, forse oggi parleremo di altro – ha commentato Alessandro Di Michelangelo, fratello del poliziotto Dino Di Michelangelo, che ha perso la vita nella tragedia insieme a sua moglie Marina Serraiocco -. Le nostre richieste di verità erano ben altre. Nessuno ancora ci ha dato risposte concrete, risposte che evidentemente dovranno essere nuovamente ricercate, si spera, in Appello». La Procura ha ora 45 giorni di tempo per presentare ricorso. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Paolo Mastri per “il Messaggero” il 23 maggio 2023.

«Nel caso in esame, la consistenza territoriale dell'evento e la possibilità di intervenire con poteri rientranti nelle specifiche competenze del sindaco, potendo questi disporre la chiusura dell'hotel e l'evacuazione degli ospiti, non determina profili di complessità nell'individuazione del soggetto responsabile». 

È a pagina 147 delle motivazioni della sentenza che il giudice di Pescara Gianluca Sarandrea chiude definitivamente il cerchio delle responsabilità per la sciagura di Rigopiano, 29 morti e 11 sopravvissuti, alcuni con lesioni gravi, nel resort cancellato dalla valanga del 18 gennaio 2017.

Il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, autorità locale di protezione civile, unico consapevole «del rischio valanghivo e del forte innevamento della zona», e a diverso titolo i dirigenti del servizio strade della Provincia di Pescara sono gli unici colpevoli dell'enorme carico di morte per il quale superstiti e familiari delle vittime continuano a chiedere giustizia piena, non soddisfatti delle 25 assoluzioni pronunciate il 23 febbraio scorso.

(…)

 Decisamente più scolpita, anche nella prospettiva dell'inevitabile secondo round in corte d'appello, l'assoluzione dell'ex prefetto Francesco Provolo e della filiera di vertice di palazzo del governo: «Risulta acclarato - scrive il giudice ribaltando imputazioni e richieste di condanna - che la prefettura abbia costantemente seguito l'evolversi della situazione ed avesse svolto attività di gestione dell'emergenza nei giorni 16,17 e 18 gennaio». 

Poco importa, a parità di componenti, la diversa denominazione degli organismi in attività, Centro operativo viabilità e, poi, Centro coordinamento soccorsi. C'erano, in conclusione di questa storia maledetta, soltanto tre figure della catena decisionale in grado di assumere la «posizione di garanzia» rilevante ai fini della responsabilità penale.

E c'erano soltanto due scelte da prendere per non esporre ospiti e lavoratori del resort di lusso al rischio della vita: ordinare l'evacuazione e renderla possibile attraverso la pulizia della strada. Com'è andata purtroppo lo sappiamo, e il giudice Sarandrea lo riassume in una pennellata: «Dopo che la Provincia di Pescara aveva liberato la strada, alle ore 16.14 del giorno 17, nella pagina Facebook dell'Hotel Rigopiano era comparsa una foto recante la dicitura: un martedì da sogno a Rigopiano, dove la neve ci regala scenari stupendi». Gli ultimi ospiti salirono in quota poche ore dopo, scortati dalla polizia provinciale.

Rigopiano. (ANSA il 23 Febbraio 2023) - Sono 25 le assoluzioni e cinque le condanne decise del gup di Pescara, Gianluca Sarandrea, sulla tragedia dell`Hotel Rigopiano di Farindola, travolto e distrutto, il 18 gennaio del 2017, da una valanga, evento in cui morirono 29 persone. I 30 imputati tra amministratori e funzionari pubblici, oltre al gestore e al proprietario della struttura, erano accusati a vario titolo dei reati di disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni, falso, depistaggio e abusi edilizi.

"Giudice, non finisce qui". È la minaccia rivolta al giudice Sarandrea da un superstite della tragedia di Rigopiano, Giampaolo Matrone, 39 anni, di Monterotondo - che sotto la valanga perse la moglie Valentina Cicioni, infermiera al Gemelli - subito dopo la lettura della sentenza in cui la maggioranza degli imputati è stata assolta.Matrone è stato poi allontanato dall`aula dalle forze dell`ordine.

Caos in aula dopo la lettura della sentenza per il disastro di Rigopiano. Molti parenti urlano e contestano la decisione del giudice che ha assolto 27 imputati su 30.

"Vergogna vergogna. Ingiustizia è fatta. Assassini. Venduti. Fate schifo". Queste le urla dei parenti delle vittime di Rigopiano alla lettura della sentenza da parte del giudice Gianluca Sarandrea al Tribunale di Pescara. Alcuni parenti delle vittime trattenuti a stento dalle forze dell'ordine. (ANSA) 

(ANSA il 23 Febbraio 2023) - Due anni e otto mesi al sindaco di Farindola (Pescara) Ilario Lacchetta. Questa la sentenza di condanna appena pronunciata dal gup del Tribunale di Pescara Gianluca Sarandrea per la tragedia dell'Hotel Rigopiano di Farindola, travolto e distrutto, il 18 gennaio 2017, da una valanga, evento in cui morirono 29 persone fra ospiti e dipendenti. L'accusa aveva chiesto per Lacchetta, sindaco attuale e all'epoca del disastro, 11 anni e 4 mesi.

Assolti l'ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo e, l'ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco. Lo ha stabilito il gup del Tribunale del capoluogo adriatico Gianluca Sarandrea nella sentenza, appena pronunciata in aula, relativa alla tragedia dell'Hotel Rigopiano di Farindola, travolto e distrutto, il 18 gennaio del 2017, da una valanga, evento in cui morirono 29 persone fra ospiti e dipendenti. (ANSA) 

Solo cinque condanne su 30. Colpo di spugna su Rigopiano. Ira delle famiglie: "Vergogna". Due anni e 8 mesi al sindaco, tre anni e 4 mesi a due dirigenti della Provincia e 6 mesi al gestore dell'hotel. Tiziana Paolocci su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

C'erano i volti delle 29 vittime della strage di Rigopiano ieri in aula. Erano sulle pettorine indossate dai parenti e sulle maglie poggiate, sedia per sedia, e dedicate a chi non c'è più.

Dopo oltre sei anni dalla tragedia, 1.318 giorni dalla prima udienza e 15 rinvii è arrivata la sentenza di primo grado al processo, che ha scatenato l'ira di chi era lì a chiedere giustizia per una perdita incolmabile. Alla lettura del dispositivo del Gup del Tribunale di Pescara, Gianluca Sarandrea, che ha assolto 25 su 30 imputati si è scatenato il caos in aula, con pianti e contestazioni da parte dei familiari di dipendenti e ospiti della struttura, rimasti sotto quella valanga di 120mila tonnellate, che il 18 gennaio 2017 spazzò via la struttura e 29 vite umane.

Dopo nemmeno un'ora di camera di consiglio il giudice ha condannato a 2 anni e otto mesi il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, per il quale l'accusa aveva chiesto 11 anni e 4 mesi, ritenuto responsabile limitatamente all'omissione dell'ordinanza di inagibilità e sgombero dell'Hotel Rigopiano. Assolti l'ex prefetto di Pescara, Francesco Provolo e l'ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco. Le accuse a carico del primo, per il quale erano stati chiesti 12 anni, erano frode in processo penale e depistaggio, omissione di atti d'ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, omicidio colposo, lesioni personali colpose. Omicidio colposo e lesioni personali colpose erano i reati invece contestati a Di Marco e Lacchetta.

Paolo D'Incecco Paolo e Mauro Di Blasio, rispettivamente dirigente e responsabile del servizio di viabilità della Provincia di Pescara, sono invece ritenuti responsabili relativamente al monitoraggio della percorribilità delle strade rientranti nel comparto della S.P. 8 e alla pulizia notturna dalla neve ovvero a quella relativa al mancato reperimento di un mezzo sostitutivo della turbina Unimog tg CK 236 NB fuori uso, nonché alla mancata chiusura al traffico veicolare del tratto stradale della provinciale 8 dal bivio Mirri e Rigopiano. Concesse a entrambi gli imputati le attenuanti generiche e per il rito abbreviato, hanno avuto 3 anni e 4 mesi di reclusione ciascuno. Sei mesi per falso, infine, al gestore dell'albergo e amministratore della società «Gran Sasso resort & spa» Bruno Di Tommaso e a Giuseppe Gatto, redattore della relazione tecnica allegata alla richiesta della stessa società di intervenire su tettoie e verande dell'hotel.

La procura aveva chiesto 26 condanne, per un totale di 151 anni e mezzo di reclusione. «Ti devi vergognare, è uno schifo, questa non è giustizia - hanno gridato alla lettura del dispositivo i parenti delle vittime - assassini, fate schifo». «Giudice, non finisce qui» gli ha urlato contro Giampaolo Matrone, che sotto la valanga perse la moglie Valentina Cicioni. E urla, calci a sedie e tavoli e le forze dell'ordine a proteggere il gup da possibili aggressioni. «Sono sei anni che lottiamo per avere giustizia - ha ricordato Angela, mamma di Cecilia Martella -. Il giudice non lo sa cosa vuol dire tornare a casa e vedere la cameretta di un figlio vuota». «Mio figlio vale 17mila euro. Tanto ha deciso il giudice. La giustizia è morta» ha aggiunto Alessio Feniello, papà di Stefano, a Rigopiano per festeggiare il compleanno e mai più tornato. «Li hanno uccisi due volte» fa eco Marco Foresta, che piange i genitori Tobia e Bianca. «Attenderemo le valutazioni della sentenza per valutare il ricorso all'Appello - ha sottolineato il capo della Procura pescarese Giuseppe Bellelli - . Ciò che emerge chiaramente è che è stato cancellato il reato di disastro colposo».

Una strage senza colpevoli: dagli allarmi ignorati ai ritardi. Tutti i "buchi" della sentenza. Restano in piedi solo il mancato sgombero e la statale non chiusa. Il pm: "Così è stato cancellato il reato di disastro colposo". Massimo Malpica su Il Giornale il 24 febbraio 2023.

Ventinove morti su quaranta ospiti, ma quasi nessun colpevole. Che qualcosa strida nella sentenza del tribunale di Pescara sulla tragedia dell'hotel Rigopiano lo chiarisce già un dato eloquente. A fronte di una richiesta di condanne per circa 150 anni arrivata dalla procura, le condanne comminate dal gup non arrivano complessivamente a dieci anni.

L'indulgenza divide l'accusa per quindici, ed è inevitabile considerato che un'architrave del processo, il reato di disastro colposo, sparisce nel nulla, proprio come l'hotel, travolto e cancellato per sempre dalla valanga alle 16.48 del 18 gennaio di sei anni fa, insieme a tanti dei suoi occupanti, bloccati lì dentro dalla neve che impediva a chiunque di andarsene.

Che ne è del «fallimento di un intero sistema», denunciato nella requisitoria della procura, che aveva ricordato «ritardi inaccettabili» e responsabilità a vari livelli, non puntando certo il dito solo in basso? A finire condannati sono solo il sindaco di Farindola Ilario Lacchetta, il responsabile di Gran Sasso Resort, Bruno Di Tommaso, due responsabili della viabilità della provincia di Pescara e il tecnico che aveva firmato la relazione tecnica per la richiesta dell'hotel di metter mano a verande e tetti del resort. Per loro, condanne «spuntate» rispetto alle richieste (per la procura aveva chiesto 11 anni e 4 mesi), ma i più vanno assolti, come l'allora prefetto di Pescara, Francesco Provolo, e l'ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco, per i quali i pm avevano chiesto rispettivamente 12 e 6 anni.

Spariscono, insomma, le responsabilità «politiche» della tragedia. Sembra che quel 18 gennaio i problemi siano stati solo il mancato sgombero dell'hotel, il mancato intervento dello spazzaneve e va ricordato che il giorno prima, invece, la strada per far salire i turisti in hotel era stata pulita perfettamente o la mancata chiusura della strada provinciale.

Nessuno, finora, risponde degli allarmi ignorati, delle risposte sciatte di chi avrebbe dovuto raccoglierli e girarli ai soccorritori. Tutti ricordano le registrazioni della funzionaria della prefettura che, a chi invocava i soccorsi aveva risposto, seccata, che «i vigili del fuoco hanno fatto le verifiche e non c'è nessun crollo all'Hotel Rigopiano». Chissà chi pagherà o spiegherà ai parenti delle vittime ieri comprensibilmente infuriati dopo la sentenza - il perché dei ritardi nell'arrivo dei soccorsi, o semplicemente il perché si sia consentito di creare un resort in un luogo non nuovo a valanghe e la cui pericolosità dunque, secondo molti e secondo prove documentali, era arcinota.

Quell'hotel è cresciuto a dismisura «attaccandosi» a un piccolo ex rifugio del Cai, trasformandosi nel 2008 in una rinomata Spa che richiamava turisti e soldi che facevano gola al territorio, e si è trasformato in resort solo grazie a una variante al Prg e a una sdemanializzazione che è stata votata, approvata, e che ha superato senza intoppi il suo iter burocratico. Tutti innocenti, o quasi? «Non sempre gli enti aveva spiegato nel corso della requisitoria la pm Anna Benigni hanno a cura l'incolumità o l'interesse collettivo. Comune o Prefettura, per esempio, avrebbero dovuto fare il loro dovere o impedendo la costruzione dell'hotel o evacuando la struttura».

Ma il gup del tribunale di Pescara ha deciso diversamente. Il perché si saprà con le motivazioni, quando anche il capo della procura, Giuseppe Bellelli, deciderà se ricorrere in appello.

Il verdetto a 6 anni dalla tragedia. Tragedia Rigopiano, (quasi) tutti assolti nel processo: 5 condanne su 30 imputati, sentenza tra le proteste dei parenti. Redazione su Il Riformista il 23 Febbraio 2023

Assolti l’ex prefetto di Pescara Francesco Provolo e l’ex presidente della Provincia, Antonio Di Marco; condannato a 2 anni e otto mesi al sindaco di Farindola Ilario Lacchetta. È la sentenza pronunciata dal gup del tribunale di Pescara Gianluca Sarandrea in merito alla tragedia dell’Hotel Rigopiano di Farindola, travolto e distrutto il 18 gennaio del 2017 da una valanga, evento in cui morirono 29 persone.

Assoluzioni che hanno riguardato quasi tutti gli imputati alla sbarra: sono 25 ‘contro’ le cinque condanne decise dal gup. I 30 imputati tra amministratori e funzionari pubblici, oltre al gestore e al proprietario della struttura, erano accusati a vario titolo dei reati di disastro colposo, omicidio plurimo colposo, lesioni, falso, depistaggio e abusi edilizi.

Oltre al sindaco Lacchetta, sono stati condannati a 3 anni e 4 mesi ciascuno Paolo D’Incecco e Maurio Di Blasio, ritenuti responsabili come dirigenti della Provincia per la loro condotta relativa al “monitoraggio della percorribilità delle strade rientranti nel comparto della S.P. 8, ed alla pulizia notturna dalla neve ovvero a quella relativa al mancato reperimento di un mezzo sostitutivo della turbina Unimog fuori uso, nonché alla mancata chiusura al traffico veicolare del tratto stradale della provinciale nr 8 dal bivio Mirri e Rigopiano”. Condannati a sei mesi di reclusione ciascuno per falso l’ex gestore dell’albergo della Gran Sasso Resort Bruno Di Tommaso e il redattore della relazione tecnica di intervenire sulle tettoie e verande dell’hotel Giuseppe Gatto.

La procura, con il procuratore capo Giuseppe Bellelli e i pm Andrea Papalia e Anna Benigni, aveva chiesto 26 condanne per un totale complessivo di 151 anni e mezzo di reclusione e quattro assoluzioni nei confronti dei 30 imputati.

Per Lacchetta, sindaco attuale e anche all’epoca del disastro, l’accusa aveva chiesto 11 anni e 4 mesi: è stato condannato a 2 anni e 8 mesi solamente per omissione dell’ordinanza di sgombero dell’albergo, mentre è stato assolto per tutti gli altri capi di accusa “perché il fatto non sussiste“.

Tutti presenti i parenti delle vittime ed anche diversi superstiti tra cui Giampiero Matrone ed il cuoco Giampiero Parete, il primo che diede l’allarme quel pomeriggio del 18 gennaio 2017.

La lettura della sentenza da parte dei giudice, nell’ambito del processo tenuto con rito abbreviato, è stata accolta dalle grida e dagli insulti dei parenti delle vittime: “Fate schifo, vergogna”, hanno urlato alcuni dei presenti nell’aula del tribunale di Pescara, trattenuti a stento dalle forze dell’ordine.

Urla in aula Francesco D’Angelo, fratello di Gabriele D’Angelo, cameriere dell’hotel, morto nel crollo. “Sei anni buttati qua dentro! Per fare che? Tutti assolti, il fatto non sussiste! Quattro minuti di chiamata! Chi ha chiamato mio fratello? Chi ha chiamato?“, ha ricordato disperato tornando alle telefonate di Gabriele dirette verso la Prefettura la mattina del 18 gennaio 2017. D’Angelo, alle 11.38, circa cinque ore prima della valanga, chiamò il Centro coordinamento soccorsi della prefettura per chiedere di liberare la strada e consentire agli ospiti dell’hotel di lasciare la struttura

Le richieste della Procura

Secondo l’accusa, i principali responsabili erano il Comune di Farindola e la Provincia di Pescara, e si aggiunge il comportamento della Prefettura e le mancanze amministrative gravi della Regione Abruzzo. La pena più alta, 12 anni, era stata chiesta per l’ex Prefetto di Pescara, Francesco Provolo, mentre 11 anni e 4 mesi, erano stati chiesti per il sindaco di Farindola, Ilario Lacchetta, e 6 anni per l’ex presidente della Provincia di Pescara, Antonio Di Marco.

Le accuse a carico dell’allora prefetto Provolo erano: frode in processo penale e depistaggio, omissione di atti d’ufficio, falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici, morte o lesioni come conseguenza di altro delitto, omicidio colposo, lesioni personali colpose. Omicidio colposo e lesioni personali colpose erano i reati contestati all’allora presidente della Provincia di Pescara Di Marco e al sindaco di Farindola Lacchetta, quest’ultimo accusato anche di disastro colposo

L’accusa aveva puntato il dito sulle responsabilità dei dirigenti comunali e provinciali nella gestione dell’emergenza e della viabilità sconvolta per il grave maltempo di quei giorni, e sui permessi urbanistici: l’hotel era stato realizzato in una zona notoriamente esposta a valanghe e di conseguenza avrebbe dovuto essere chiuso e la strada sgomberata. Era stata scandagliata nel corso delle indagini anche l’attività della Regione Abruzzo per la mancata realizzazione e approvazione della Carta Valanghe: pesanti le richieste per i dirigenti regionali in quello che è stato definito “un collasso di sistema”, anzi “un fallimento dell’intero sistema”.

Insufficiente, secondo la ricostruzione dei pm, il comportamento della Prefettura per la mancata tempestività ed efficacia nell’emergenza, tanto che proprio per l’ex prefetto Provolo era arrivata la richiesta della condanna più severa.

Hotel Rigopiano, processo dopo 6 anni: tutte le tappe. La tragedia dell'hotel Rigopiano verso l'ultimo capitolo dell'iter giudiziario: riprendono oggi, nell'anniversario, le udienze in tribunale. Angela Leucci il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Quella di oggi sarà, per i famigliari delle vittime dell’Hotel Rigopiano, “una giornata intensa tra giustizia e verità”. Nel giorno del sesto anniversario della tragedia infatti, riprende il processo, ma al tempo stesso i parenti si sono dati, come ogni anno, appuntamento sul luogo della valanga, nell’ora della valanga. “Il destino - commentano dal Comitato vittime di Rigopiano - ha voluto che proprio il giorno del sesto anniversario sia stata fissata l'udienza in cui inizieranno le arringhe difensive degli avvocati degli imputati. Con il permesso del giudice ci allontaneremo per raggiungere il luogo della tragedia. Questa volta, tutti insieme, riuniti in un pullman, affronteremo il viaggio tra la rabbia per ciò che sentiremo in aula per discolpare i responsabili e il dolore nel ricordare i nostri cari”.

La tragedia della valanga

Il gennaio 2017 fu accompagnato da un insolito meteo: la neve avvolse l’Italia, e perfino alcune zone del meridione in cui non nevica quasi mai furono funestate da giorni e giorni di nevicate. La situazione era particolarmente difficile in Abruzzo, in cui il maltempo aveva isolato alcune comunità, spesso senza corrente in quei giorni, al buio.

L’hotel Rigopiano-Gran Sasso Resort si trovava a Farindola, in provincia di Pescara. Quel giorno nella struttura erano presenti 40 persone: 12 dipendenti e 28 clienti, tra cui alcuni bambini. Alle 15 tutti erano in procinto di andare via, l’albergo, per via della quantità di neve caduta e di alcune scosse di terremoto registrate in zona, doveva essere evacuato. Ma sarebbe giunta la comunicazione che le turbine spazzaneve non sarebbero arrivate sul posto prima delle 19. Alle 16.49 una slavina colpì l’hotel, travolgendolo con le sue 120mila tonnellate e spostandolo di 10 metri rispetto alla sua sede iniziale.

I soccorsi

Tra i problemi legati appunto alla neve e l’incredulità di chi prese le telefonate, i soccorsi giunsero ore più tardi. Due persone erano rimaste fuori dall’hotel Rigopiano: il tuttofare Fabio Salzetta e uno dei clienti Giampiero Parete. Quest’ultimo telefonò al suo datore di lavoro, urlando: “È caduto l’albergo”. Il datore di lavoro, a propria volta, allertò i soccorsi, ma pare non sia stato creduto.

Oltre alle due persone che si trovavano fuori dalla struttura, vennero salvate altre 9 persone: si trovavano per lo più nella sala biliardo e nella zona camino, mentre non ci fu nulla da fare per chi era in cucina o nella hall. Le vittime morirono per i traumi riportati, per il freddo e per l’asfissia, ma cercarono di resistere, lottarono per la propria vita. Uno di loro cercò di mettersi in contatto con l’esterno per ben 40 ore prima di spirare.

L’iter della giustizia

Sicuramente non ci fu correlazione tra i terremoti e la slavina: a giugno 2022 il tribunale si è pronunciato in tal senso. La macchina della giustizia dovrà vagliare eventuali responsabilità, a partire dalle possibili conseguenze della costruzione dell’albergo in quella zona.

Quella di oggi è la prima delle 6 udienze dedicate alle arringhe della difesa, mentre a febbraio ci saranno 3 udienze di replica. Il 17 febbraio è attesa, per il momento, la decisione del gup di Pescara Gianluca Sarandrea.

I selfie tra le macerie di Rigopiano, poi il furto. Arrestati due turisti

Sul banco degli imputati ci sono 29 persone e una società, e saranno giudicati con rito abbreviato per le accuse di disastro colposo, omicidio e lesioni plurime colpose, falso, depistaggio, abusi edilizi. Queste accuse sono rivolte, a vario titolo e tra gli altri, a membri di istituzioni, come Regione Abruzzo, Provincia di Pescara e Comune di Farindola, oltre che Prefettura. Per gli imputati, il procuratore capo Giuseppe Bellelli e i pm Andrea Papalia e Anna Benigni hanno chiesto 26 condanne per un totale di 151 anni e mezzo di reclusione. Solo per 4 soggetti è stata chiesta l’assoluzione. Richiesta ad esempio la condanna di 12 anni per l'ex prefetto di Pescara Francesco Provolo, di 11 anni e 4 mesi per il sindaco Ilario Lacchetta e di 6 anni per l'ex presidente della Provincia Antonio Di Marco.

Estratto dell’articolo di Maurizio De Giovanni per “La Stampa” il 25 febbraio 2023.

Il fatto non sussiste. Tra tutte le formule, alla fine degli infiniti 1.318 giorni che sono trascorsi dalla prima udienza alla sentenza, questa è sicuramente la peggiore. Quattro parole, una fredda e inaccettabile frasetta che provoca smarrimento e furia e accende la rabbia della piccola folla di familiari e amici la cui vita, se non si è spenta quella terribile notte, certamente è mutata in un inferno di oscurità e dolore.

[...] Lungi da noi essere forcaioli, [...] ma oggi ci sentiamo vicini alle urla di strazio che hanno riempito l'aula, perché non possiamo non comprendere l'abisso di dolore in cui sono precipitati madri e fratelli dei morti. Un padre ha detto: quindi il colpevole sono io, che non ho impedito a mia figlia di partire. Il condannato sono io, e devo scontare la pena a vita. Il fatto non sussiste, ma i suoi effetti non finiranno mai.

Il fatto non sussiste, ma qualcuno ha lasciato che quell'albergo fosse costruito sotto un costone che era una spada di Damocle. Il fatto non sussiste, ma il tempo trascorso tra la telefonata delle 17,40 e la partenza dei soccorsi alle 20 necessiterebbe di spiegazioni. Il fatto non sussiste, ma le telefonate con le disperate richieste di aiuto non furono ritenute attendibili per ore, e il motivo ancora non è chiaro.

Il fatto non sussiste, ma le strade non praticabili da molto tempo e non sgomberate dalla neve, che resero tragicamente tardivi gli aiuti, alla fine non hanno responsabili, o quasi. Il fatto non sussiste, ma una delle vittime ha ceduto quaranta ore dopo la slavina a seguito di un'agonia infinita e incomprensibile. Il fatto non sussiste, ma da quanto è emerso da rilievi fotografici del passato l'hotel è stato probabilmente costruito sulle rovine di un edificio distrutto a sua volta da una valanga nel 1936.

Il fatto non sussiste, ma il 26 gennaio di tanti anni fa, otto giorni dopo la tragedia, le casse coi resti all'interno furono portate via da un luogo costruito su un terreno formato dai detriti di precedenti frane. Cosa nota agli abitanti del luogo, non a quelli che ci venivano in vacanza, che ci sono morti. Ma, com'è stato stabilito ieri, non è colpa di nessuno. Perché il fatto non sussiste.

La sentenza di ieri è stata probabilmente e legittimamente festeggiata in venticinque case, in cui gli imputati hanno visto alleggerire la propria posizione penale; non sappiamo in quante di quelle coscienze, nel silenzio della notte, ci sia una nuova pace. In casa dei parenti dei ventinove morti no, non c'è pace. E nemmeno ci sarà in futuro. E ancora dopo. E per sempre. Perché, in realtà, il fatto sussiste. Eccome, se sussiste.

 Estratto dell’articolo di Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 25 febbraio 2023.

 […] La mattina di quel disgraziato 18 gennaio le scosse di terremoto avevano aggiunto paura alla paura, dopo i mesi di scosse e devastazione di Amatrice, Visso, Accumuli, Norcia... In trappola Era tutto spaventoso.

 Per questo la gente bloccata nell’hotel Rigopiano voleva tornare giù, a valle. Per questo alcuni provarono ad andarsene, senza però riuscire ad avanzare di un metro. Serviva una turbina, porca miseria! Che qualcuno chieda una turbina alla provincia, fu la preghiera di tutti. E allora ci pensò il direttore dell’hotel. Ecco. Se dovessimo percorrere la «via» del caso Rigopiano dovremmo cominciare proprio da lì: dalle telefonate per chiedere quella benedetta turbina, mai arrivata.

Alle 9.30 del mattino il funzionario della Provincia Mauro Di Blasio parla con il suo capo del servizio viabilità, Paolo D’Incecco. «Il direttore del Rigopiano vuole una turbina per far ripartire gli ospiti bloccati», dice Di Blasio. Risposta: «Quello dell’albergo non deve rompere i c..., digli che deve stare calmo».

 «Ne parliamo domani» Erano talmente tante le richieste di aiuto — alcune di tipo medico urgente — ed erano talmente scarse le forze in campo per far fronte a tutto, che Rigopiano sembrò una specie di capriccio. La turbina per andare a recuperare gente al calduccio in un hotel poteva anche aspettare, si pensò.

Nel pomeriggio un dipendente dell’Anas al telefono con la Provincia dice che «arrivare fin lì è una bella tirata..» «Ne parliamo domattina?», chiede il suo interlocutore. «Sì, almeno domattina. Perché quello con la turbina fino a mo’ ha faticato». Sono le 15.35. Manca poco più di un’ora al momento in cui un cumulo mostruoso di neve, ghiaccio, alberi e macerie si abbatte sull’hotel radendolo al suolo e spostandolo di diversi metri dal punto in cui sorgeva.

 […] L’inchiesta Finiti gli scavi, le ricerche, i sequestri, il recupero di piccole cose appartenute a chi non c’era più, è decollata l’inchiesta. La Procura ha lavorato sull’ipotesi della valanga prevedibile, degli amministratori che — «agenti modello» — dovevano per forza farsi carico del rischio che venisse giù tutto.

 C’è un dato impressionante fra mille altri: si è calcolato che dalla cima del monte alle spalle dell’hotel sono precipitate a valle centoventimila tonnellate di detriti. Che significa quattromila tir a pieno carico.

Tutto di corsa, giù, lungo un canalone fino al primo grosso ostacolo: l’hotel Rigopiano. La sentenza di ieri sembra dire che no: la valanga non era prevedibile e il terremoto, quanto mai imprevedibile, potrebbe averla innescata. Il contrario di quanto hanno raccontato due anni di indagini, che ritenevano invece irrilevante il motivo per cui si stacca una valanga e puntavano piuttosto sull’azzardo di lasciar costruire un hotel ai piedi, appunto, di un canalone. È su questo punto che si è giocata la partita giudiziaria. Fra rinvii, perizie, consulenze e sospensione delle udienze per Covid. Per 1.318 giorni.

Familiari, giudici e avvocati: le altre vittime di Rigopiano. A Rigopiano c'è un colpevole certo, chiaro: è il processo mediatico. È un mostro generato dall’intreccio perverso di giornali e procure, che guida e condiziona il dibattito pubblico e chiede pene esemplari. Davide Varì su Il Dubbio il 24 febbraio 2023.

A Rigopiano c'è un colpevole certo, chiaro: è il processo mediatico. È un mostro generato dall’intreccio perverso di giornali e procure, un Leviatano che guida e condiziona il dibattito pubblico sul caso giudiziario del momento, che chiede pene esemplari e infine condanna.

Il tutto, naturalmente, senza mai passare per un'aula di tribunale - già, a che serve - e fottendosene del "parere" del giudice, la cui presenza è chiamata solo a confermare la sentenza decisa nei salotti tv e nei paginoni della stampa amica.

Ma a Rigopiano, come in altre occasioni, qualcosa è andato storto. Il giudice ha ignorato le pressioni del mostro mediatico-giudiziario e ha deciso di assolvere 25 dei 30 imputati. E così è finito anche lui sul banco degli imputati, insieme agli avvocati difensori, naturalmente, trattati quest’ultimi alla stregua di complici.

Accusati di ostacolare la ricerca della verità e di aiutare i “colpevoli” a farla franca, giudici e avvocati sono le vittime collaterali del processo mediatico. Poi c’è una terza categoria di vittime, ed è quella dei familiari - padri, madri, figli - di chi è stato travolto da quella slavina. Il mostro ha dato loro l’illusione che la giustizia fosse la ricerca del colpevole a tutti i costi, di qualcuno da spedire in galera. Per questo hanno vissuto quelle assoluzioni come una intollerabile ingiustizia.

Parafrasando il Pasolini della critica alla società dei consumi, anch’essa generata dalla Tv, potremmo dire che neanche la monumentalità reazionaria della Giustizia fascista, è riuscita a fare ciò che ha fatto il processo mediatico nel nostro stato democratico. Certo, il fascismo ha sospeso libertà, diritti, garanzie, ma non è mai riuscito a costruire un mostro parallelo in grado di mutare il dna stesso della giurisdizione nata all’interno di un modello democratico. Insomma, la brutalità della giustizia fascista è morta con lui. La pervicacia del processo mediatico ha invece l’aspetto di una mutazione genetica irreversibile: cambia surrettiziamente le regole del gioco dando l'impressione di rispettare il diritto. Per questo è più pericoloso: perché è più subdolo e passa come una ruspa su secoli di storia, di garanzie conquistate con grande fatica.

«Rigopiano, esistono anche gli innocenti: non è una vergogna». Caiazza: «Un giudice onesto non può condannare chi non risulti responsabile». Simona Musco su Il Dubbio il 24 febbraio 2023

«Strage senza colpevoli». Oppure: «“Solo” cinque condanne». La sentenza del processo per il crollo dell'hotel Rigopiano, travolto da una valanga il 18 gennaio 2017 con la morte di 29 persone, il giorno dopo viene raccontata così. Con i titoli di giornale che cavalcano la rabbia dei familiari delle vittime, esplosa con violenza in aula contro il giudice che, valutate le prove, ha individuato “solo” cinque responsabili. E la banalizzazione di quelle stesse prove che, analizzate da chi ha le competenze per farlo, hanno escluso la responsabilità degli altri. Alcuni dei quali, almeno stando al racconto dei legali, a processo non ci dovevano nemmeno finire. Il riassunto di come la giustizia penale arrivi nelle case della gente sta tutto nella frase twittata dal ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini. «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è “giustizia”, questa è una vergogna», scriveva giovedì poco dopo la lettura della sentenza. Pochi secondi per scrivere un pensiero tanto semplice quanto deleterio. Perché racconta la giustizia e i processi come una gara con vincitori e vinti, in cui i buoni sono sempre e solo quelli che condannano. La risposta al ministro è arrivata dal legale di uno degli imputati, Gian Domenico Caiazza, difensore dell'allora prefetto di Pescara Francesco Provolo, per il quale l'accusa aveva chiesto 12 anni di reclusione. Ovvero la pena più alta, quella esemplare, che forse - ma non è detto - avrebbe placato l’ira di chi, colpito da un dramma terribile, sperava di trovare qualcuno a cui addossare anche le colpe non dimostrate.

«A nessuno viene in mente - scrive Caiazza rivolgendosi a Salvini -, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. O almeno, se ho ben capito: “quasi tutti”. Insomma, posto che se ci sono delle vittime, devono esserci necessariamente dei colpevoli, una volta che una Procura della Repubblica li ha individuati in quegli imputati, questi sono automaticamente “i colpevoli”. Tutti. Siamo tutt’al più disposti a tollerare una percentuale lievissima di assolti, che andrà pur stabilita una volta per tutte, oltre la quale incombe “la vergogna”».

Ma come si è arrivati a queste assoluzioni? È sempre Caiazza a spiegare come nel caso di Provolo - per rimanere all’imputato “eccellente” - forse non si sarebbe dovuti nemmeno arrivare ad un processo. E come sia impossibile parlare di una tragedia «senza colpevoli» di fronte a cinque persone condannate. «Il problema in questo processo è molto semplice. L’albergo era raggiungibile da un’unica strada, che doveva sempre essere tenuta libera. Chi è tenuto a farlo e non lo fa ne risponde». La strada era sotto la gestione della Provincia e quindici giorni prima della tragedia si ruppe la turbina, che avrebbe consentito di liberarla in casi complicati come quelli di quel terribile giorno. Ma perfino il presidente della Provincia non ha mai saputo di quel guasto da chi era tenuto ad informarlo. «Le intercettazioni sono pacifiche: nessuno lo dirà a nessuno. Il Prefetto, secondo l’accusa, avrebbe dovuto organizzare meglio la Sala operativa, perché così, secondo la prospettazione della procura, la notizia sarebbe stata comunicata. Ma questa notizia non era nota e la presenza della Sala operativa, che pure c’era, non avrebbe cambiato nulla - spiega il presidente dei penalisti italiani al Dubbio -. Un giudice onesto, perbene, che studia le carte, non può condannare chi non risulti responsabile. Cosa c’è di così difficile da comprendere? Il giudice ha compreso, sulla base delle prove, che al Prefetto non poteva essere imputata un’omissione rispetto a qualcosa che non aveva mai saputo, in un contesto in cui c’era l’inferno su tutto l’Abruzzo, non solo su Rigopiano. C’erano ospedali, paesi interi senza corrente elettrica, anziani bloccati in casa al freddo. Tutta l’attività di coordinamento della Prefettura è documentata».

La perizia ha poi accertato che il piano valanghe, previsto dalla legge e onere della Regione, non esisteva. E pertanto quella di Rigopiano non era indicata come zona a rischio. «La mancanza della carta valanghe è un tema molto serio, perché l’assenza di tale documento ha consentito di mantenere aperto l’Hotel. La carta è stata fatta con un ritardo di 20 anni, un anno dopo la tragedia - sottolinea Caiazza -. E la richiesta nei confronti del Prefetto era uno scandalo fin dall’inizio. La procura, nell’originaria contestazione - che ha determinato le dimissioni del Prefetto - imputava a Provolo di non aver organizzato né il Centro coordinamento servizi né la sala operativa, derivando da questa condotta omissiva totale la mancata notizia della turbina rotta. Una convinzione fideistica smentita dai dati intercettivi e dalle chat. C’è la certezza che chi era in possesso di tale informazione non l’abbia data a nessuno, nemmeno ai vertici della Provincia. Se tale informazione, una volta venuto giù l’inferno, fosse stata comunicata, la turbina sarebbe arrivata, avendo il Prefetto un potere autorizzativo nazionale». Un concetto che Caiazza aveva chiarito sin dall’interrogatorio, appena avviate le indagini: Provolo ha infatti chiarito di aver messo in piedi un tavolo tecnico per raccogliere le segnalazioni. «Abbiamo presentato i verbali di queste riunioni, con tanto di fogli presenza firmati da 15 persone, fogli che non erano nemmeno stati sequestrati - aggiunge il legale - . Li abbiamo portati noi in procura e la Forestale ne ha verificato la veridicità. E tra le 15 persone presenti c’è sempre stato il dottor Giulio Honorati, delegato della Provincia. Ovvero l’Ente che avrebbe dovuto avere conoscenza della situazione della strada di Rigopiano. Sa cosa hanno contestato? Il fatto che non si trattasse di un vero e proprio Centro di coordinamento servizi, ma di un Cov, Comitato operativo viabilità. L’esistenza di una Sala operativa è dimostrata dalle mail, dalle segnalazioni e dalle risposte date per gestire l’emergenza. Ma per tenere il punto si è arrivati a chiedere 12 anni di reclusione». Ovvero otto anni per il fatto e quattro per depistaggio, per una telefonata giunta alle 11.38 da parte del direttore dell’albergo che dopo le scosse di terremoto comunicava il terrore dei clienti, di cui il Prefetto «non sapeva nulla. Secondo l’accusa sarebbe stata sottratta dalla documentazione, senza tenere conto che non esistono brogliacci sulla circolazione d’informazioni in quelle ore. Il depistaggio - aggiunge poi Caiazza - è un reato dell’investigatore, non del potenziale indagato. E l’ex Prefetto non ha depistato nessuno. Qui il vero scandalo è l’indagine della procura - conclude -. Un’indagine fatta con una pressione ambientale assurda. E non capisco il ragionamento che vuole giustizia solo se vengono condannati tutti. Possiamo ragionare sulle pene, sulla proporzione, ma bisognerebbe prima leggere la sentenza. E contestare con le impugnazioni, non con l’oltraggio in udienza. Abbiamo fatto il processo con le foto delle vittime in Aula. Ma che Paese è questo?».

Lettera al ministro su Rigopiano. Che vergogna Salvini che pensa che le assoluzioni del Rigopiano equivalgono a ingiustizia…Gian Domenico Caiazza su Il Riformista il 26 Febbraio 2023

Signor Ministro on. Matteo Salvini,

mi permetto di scriverLe nella veste di avvocato difensore di uno degli imputati -l’allora Prefetto di Pescara Francesco Provolo– assolto giovedì dal GUP di Pescara, perché profondamente colpito dal Suo immediato commento. «29 morti, nessun colpevole (o quasi). Questa non è giustizia, questa è una vergogna. Tutta la mia vicinanza e la mia solidarietà ai famigliari delle vittime innocenti».

Le parole sono pietre, ma quelle di un uomo pubblico, autorevole Ministro della Repubblica, sono macigni: se un Ministro parla e ragiona così -pensa tanta gente- è così che è legittimo parlare e ragionare. Tralascio di considerare il fatto che Lei, di questo processo, non sappia nulla. Non perché non sarebbe di per sé decisivo, ma perché è ormai diventata una regola, alla quale dobbiamo evidentemente rassegnarci: dei processi si parla senza averne letto una sola pagina. Questa sì che è una vergogna, ma che dire? Pazienza, ormai la cosa funziona così. Ma la lapidaria crudezza del suo giudizio mi sollecita alcune riflessioni, che mi permetto di rassegnarLe.

Innanzitutto, quel “tutti assolti, o quasi”, che costituirebbe la pietra dello scandalo. Dobbiamo dedurne – mi corregga se sbaglio – che, dati, per dire, 30 imputati, maggiore è il numero dei condannati, più saremo rassicurati che giustizia è stata fatta. All’inverso, più cresce il numero degli assolti, più cresce la vergogna. Un’idea, come dire, statistica della Giustizia. È una idea che trova proseliti, visto che leggo oggi sulla gran parte dei giornali che la vicenda si sarebbe conclusa senza individuazione di alcun responsabile; il che è semplicemente falso. Lei comprende benissimo che questa stravagante (ed allarmante) idea ne presuppone un’altra, davvero spaventosa: e cioè che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, e la condanna il suo trionfo.

Occorre ammettere, signor Ministro, che è questa l’idea più in voga nella pubblica opinione, nei bar come sui social o nei talk-show televisivi. A nessuno viene in mente, nemmeno per un attimo, che un’accusa possa essere infondata (e che un innocente ne risulti maciullato nella sua vita professionale, nella sua dignità, nei suoi affetti): se ci sono degli imputati, devono esserci dei condannati. O almeno, se ho ben capito: “quasi tutti”. Insomma, posto che se ci sono delle vittime, devono esserci necessariamente dei colpevoli, una volta che una Procura della Repubblica li ha individuati in quegli imputati, questi sono automaticamente “i colpevoli”. Tutti. Siamo tutt’al più disposti a tollerare una percentuale lievissima di assolti, che andrà pur stabilita una volta per tutte, oltre la quale incombe “la vergogna”.

L’implicazione successiva di questo modo di ragionare, che è evidentemente il Suo signor Ministro, è che il buon giudice sia colui che fa proprie le idee della Pubblica Accusa. Il giudice sta lì non per valutare se l’Accusa sia fondata, ma per asseverarla incondizionatamente. Lei pensa questo, Ministro Salvini? Basta dirlo con chiarezza. Se invece non è questo il suo pensiero (e glielo auguro di tutto cuore, anche perché Lei sta vivendo l’amaro calvario dell’imputato che rivendica la propria innocenza, sicché poi dovremmo capire, nel Suo caso, quale sarebbe la “vergogna” conclusiva della Sua vicenda, se l’assoluzione o la condanna), allora arriviamo al punto della questione. È legittimo esprimere opinioni su una sentenza almeno dopo averla letta, e certamente non a seconda del numero degli assolti e dei condannati.

Mi consenta un’ultima riflessione. Ieri, alla lettura della sentenza, l’aula di un Tribunale della Repubblica è stata profanata -questo è il termine esatto- da una indecente gazzarra di insulti furibondi e di minacce gravissime verso un giudice della Repubblica, rimasto con dignità e coraggio, in piedi nell’aula, a riceverli (“bastardo” “devi morire” “venduto” “fai schifo” “non finisce qui”, e anche di peggio). Un giudice che ha pronunziato una sentenza “in nome del popolo italiano”. A noi hanno insegnato che le aule di giustizia sono luoghi sacri. Indossiamo una toga per potervi mettere piede.

Parliamo se e quando autorizzati dal giudice, vincolati ad un uso riguardoso e controllato delle parole. È stato uno spettacolo che ha umiliato, non quel magistrato, ma la Giustizia ed il prestigio della giurisdizione. Mi sbaglierò, ma io penso che se un Ministro della Repubblica sente di dover pubblicamente denunziare una vergogna, nel suo caso abbia scelto quella sbagliata.

Con molta cordialità.

Gian Domenico Caiazza Presidente Unione CamerePenali Italiane

Rigopiano: il vero scandalo non sono le assoluzioni, ma le parole di chi strumentalizza il dolore. Se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole. Funziona così, forse da molto tempo, oggi però con una legittimazione culturale e politica granitica, trasversale...Aurora Matteucci, camera penale di Livorno, su Il Dubbio il 27 febbraio 2023

In nome del popolo italiano, a Pescara, giovedì 22 febbraio, è stata emessa una sentenza. Una di quelle che si inscrive nell’ormai elevatissimo numero delle decisioni che irritano il senso comune, che tradiscono aspettative di condanna, che alimentano reazioni feroci, istinti di ribellione e pericolosissime idolatrie per soluzioni “antisistema”. Insomma, una sentenza di assoluzione.

La vicenda è tristemente nota: il 18 gennaio 2017 una slavina si abbatte sull’Albergo Rigopiano Gran Sasso Resort. Un’immensa tragedia che ha strappato alla vita e ai propri cari 29 persone. Chi muore in circostanze drammatiche, non importa se per mano di uomo o di natura, è sempre identificato come vittima. Purtroppo, però, da qualche tempo a questa parte, l’assunzione di tale qualità apre immediatamente la strada ad un uso distorto del processo penale, luogo unico e privilegiato di catarsi, personale e collettiva.

Essere vittima attribuisce un nuovo statuto identitario, un passe-partout per legittimare protezione e ascolto assoluti, l’immediato ed autorevole riconoscimento di una connotazione etica inscalfibile, quella dell’innocente. Prima e fuori da un processo. Il meccanismo è ormai ben collaudato: se c’è una vittima innocente, occorre individuare un colpevole, secondo le regole di un ingranaggio sempre più raffinato che trova, oggi, una legittimazione culturale e politica granitica, trasversale, che non conosce posa.

Ma lo sappiamo sin troppo bene. Prendersela con Natura matrigna, «nemica scoperta degli uomini, e degli altri animali» non restituisce mai, proprio perché impassibile alle sofferenze umane, il mal tolto. Sostenere quindi, come pare capire dall’esito di quel processo, che il dramma che ha sconvolto 29 famiglie, non sia responsabilità umana, non può essere tollerato. Si preferisce invocare Giustizia: purché sia dura, certa, severa. Purché condanni 30 persone tratte a giudizio per sei lunghi anni, questo il numero degli imputati, 25 dei quali assolti dal Gup di Pescara.

Non è andata come ormai ci si aspettava che andasse: se ci sono 30 imputati, 30 devono essere condannati. O, come lascia immaginare un recente tweet del Ministro Salvini - “29 morti, nessun colpevole (o quasi) questa non è giustizia, questa è una vergogna” - ne basterebbe, almeno, un numero massiccio, un tanto al chilo. Un teorema matematico, quello propugnato dal ministro, secondo cui “ad ogni imputazione deve corrispondere una condanna (o quasi)”.

Altrimenti superata la soglia di tollerabilità - non è dato sapere chi e come stabilisca questo limite e quante assoluzioni occorrono per oltrepassarlo - la giustizia si trasforma in vergogna. Un’idea, questa - come scrive il Presidente dell’Unione delle camere penali, Gian Domenico Caiazza nella sua lettera aperta al Ministro Salvini -, spaventosa perché presuppone che l’assoluzione dell’imputato sia il naufragio della giustizia, la condanna il suo trionfo e che il buon giudice sia colui che assevera incondizionatamente l’ipotesi d’accusa.

In questo clima da furor di popolo, i Tg si sono sprecati in una corsa voyeuristica alla ripresa delle immagini che ritraggono lo sgomento dei familiari, facendo eco al loro sdegno, filmando l’ennesimo capitolo di quel ciclo dedicato alla pornografia del dolore che ormai è diventata la cronaca giudiziaria nel nostro Paese. E che porterà acqua al mulino di chi, magari nei prossimi talk show, si farà scudo e interprete di quel dolore, senza neppure usare la prudenza che sempre dovrebbe accompagnare l’analisi di una sentenza: attendere, almeno, le motivazioni.

Non scandalizzano le urla dei familiari, per quanto scomposte. Chi cerca, e noi difensori lo facciamo per mestiere e per elezione, di scandagliare l’animo umano analizzando le profonde ragioni dei gesti, anche dei più turpi, sa che ci sono soglie di dolore ingovernabili, rabbie incrostate e silenziosamente serbate che deflagrano anche in gesti scomposti, inurbani, incivili. Un rispetto assoluto, quello per i familiari, che però non deve tradursi in una resa incondizionata di fronte all’inaccettabile evaporazione dei principi basilari del nostro sistema.

Scandalizza, invece, questo sì, la strumentalizzazione di questo dolore, la sua elevazione a termometro di una giustizia che è tale solo se asseconda un’aspettativa di condanna. Perché la strumentalizzazione di oggi legittimerà le reazioni scomposte di domani: altri familiari si sentiranno in dovere di profanare l’aula di un Tribunale, di inveire contro magistrati della Repubblica, lasciati sempre più soli nel prendere decisioni considerate scomode e che, sol per questo, diventano coraggiose.

Basti ricordare l’invio nel 2020, da parte dell’allora Ministro Bonafede, degli ispettori a Brescia dopo l’assoluzione di un uomo accusato di aver ucciso la moglie. Il sempre più frequente ricorso – emblematico ancora una volta il caso bresciano -, da parte dei magistrati, alla velina per la stampa in cui, prima ancora del deposito della motivazione (solitamente ritardata rispetto al verdetto), si rendono note a grandi linee le ragioni della decisione, nel tentativo di mettersi al riparo dalla severità degli strali dell’opinione pubblica.

Scandalizzano, infine, i tempi di una giustizia - sei anni, in questo caso, per arrivare alla prima sentenza - che tracimano la ragionevolezza e che fatalmente producono una sorta di affezione collettiva per il capo di incolpazione, destinato, in questo frattempo in cui costituisce l’unica ufficiale interpretazione dei fatti (anche se unilaterale e non confermata), a subire una vera e propria innaturale tramutazione: da ipotesi a prova provata di responsabilità. E del resto, “se lo dice la Procura, qualcosa avrà pur fatto”, non è solo una litania da bar. È un pensiero resistente, consolatorio, segno - come ha ben spiegato Francesco Petrelli in “Critica della retorica giustizialista” - della «progressiva svalutazione dello strumento processuale come inutile ostacolo all’accertamento di una verità che è frutto del sentimento comune del “popolo sovrano”», il cui esito, neanche a dirlo, «è la delegittimazione della funzione giudiziaria e la crescita di un sentimento giustizialista che alimenta l’idea di una “giustizia popolare diretta” priva di mediazione».

«Giudice non finisce qui», ha chiosato uno dei familiari. Noi invece speriamo che questo clima finisca il prima possibile e che si possa tornare a considerare il processo il luogo dell’accertamento dei fatti, non la conferma dell’imputazione, la sentenza una decisione criticabile e impugnabile, certo, almeno dopo la sua lettura. E magari, facendo la conta delle assoluzioni, a chiedersi, ogni tanto, anche come hanno vissuto in questi sei anni le persone accusate di reati tanto gravi e giudicate, almeno per ora, innocenti.

Carlo Cambi per “La Verità” il 5 gennaio 2023.

Si chiama metodo Legnini. Di che si tratta? Godere, soprattutto nei giornali della gauche caviar e dunque tra la gente che piace, di ottima stampa. Funziona? Eccome.

 Se uno dopo tre anni di lavoro ha ancora 30.000 sfollati nelle casette - ci piove, cascano a pezzi, la garanzia è scaduta, chi le ha costruite è sotto processo - se ad Amatrice non è stato tirato su un mattone per ritto, se interi paesi sono ormai definitivamente morti perché non c'è più nessuno, come testimonia il sindaco di Castel Sant' Angelo sul Nera, e nel momento in cui il governo gli dà il benservito viene salutato come Bocca di rosa di Fabrizio De André, vuol dire che funziona.

In cosa consiste? Lo ha raccontato Luca Palamara, con cui Giovanni Legnini, ormai ex commissario per il terremoto del Centro Italia, ha convissuto al Csm, del quale il medesimo era vicepresidente. Agli atti del caso c'è questa intercettazione: «Palamara: "E allora devo parlà pure con Repubblica...".

 Legnini: "Se vuoi parlo io, ho rapporti al massimo livello, dimmi tu, riflettici"». Sostiene Legnini che fu un errore: «Perché mai avrei potuto orientare Repubblica né nessun altro...». Ma per stare dalla parte del sicuro, il commissario alla (non) ricostruzione, mentre scadevano i contratti del personale che deve evadere le pratiche del sisma, si è dotato di un efficientissimo ufficio stampa.

È successo dopo che, a febbraio di tre anni fa, la Corte dei conti ha parlato della ricostruzione mancata come di uno scandalo contabile. L'avvocato abruzzese, che è un perdente di successo, ma di enorme sottopotere (il posto da commissario il Pd glielo ha dato come riparazione della pessima figura alle regionali), ha subito messo in moto il metodo Legnini.

Oggi il centrosinistra, dai sindacati (fino a ieri accusavano le ditte di tutto) ai sindaci (fino a ieri continuavano a protestare per la lentezza dei lavori), dalla dirigenza del Pd ai consiglieri regionali, protesta con Giorgia Meloni, che ha nominato, al posto di Legnini, il neosenatore Fdi ed ex sindaco di Ascoli Piceno, Guido Castelli. Il quale ha detto solo due cose: sto con i terremotati, bisogna ricostruire l'economia.

A questo Legnini non ci ha proprio pensato. Si fa vanto di aver prodotto - da giurista qual è - il testo unico delle ordinanze, snocciola numeri: 10.000 cantieri aperti per le strutture private, oltre 700 per le opere pubbliche tra finiti e iniziati, 7.256 abitazioni riconsegnate. A occhio le case da rimettere in sesto sono 55 mila, le strutture pubbliche oltre 15.000, esclusi chiese e beni culturali.

 Disse monsignor Alfredo Battisti, il vescovo di Udine, dopo il sisma del Friuli - unica ricostruzione veloce e compiuta: «Prima le fabbriche, poi gli ospedali, le scuole e le case; in ultimo le chiese». Legnini s' è fermato alle carte bollate. Oddio, i suoi predecessori del Pd, Vasco Errani e Paola De Micheli, nominati dai governi di Matteo Renzi, che promise la qualunque, e Paolo Gentiloni, detto Er moviola (e questo spiega molto), avevano lasciato macerie. Li difendevano solo i presidenti, tutti pd, di Marche, Abruzzo, Lazio e Umbria.

Sul terremoto il Pd ci ha perso le elezioni regionali e nazionali, ma non vuole mollare la presa. Come dice Giovanni Legnini, ci sono 26,5 miliardi di danni da rifondere. Ci penserà Guido Castelli, che abita a due passi da Arquata e Pescara del Tronto, rase al suolo e dove l'unico intervento è stata l'apertura della fabbrica di Diego della Valle. A conferma del metodo Legnini, ieri il suo ufficio stampa ha diffuso gli auguri di buon lavoro al successore, avvertendo che nei prossimi giorni si darà il bilancio di cosa è stato fatto. Si prevedono titoli a tutta pagina perché: «Ho rapporti al massimo livello».

Il Primo conosciuto.

In Turchia e Siria.

In Italia.

Il Primo conosciuto.

Terremoto di Lisbona del 1755, la prima catastrofe moderna. Lucrezia Ercoli su Il Riformista il 16 Febbraio 2023

La prima apparizione del termine “catastrofe” – nel significato che noi oggi attribuiamo a questo termine, ossia come “disastro naturale”, così come compare nelle didascalie delle foto e dei video che in questi giorni ci arrivano dalla Turchia e dalla Siria – è legata proprio a un terremoto. Il terremoto più tragico e traumatico di tutta la storia europea: il terremoto di Lisbona avvenuto il primo novembre del 1755. Durante la festa di Ognissanti, più di 260 anni fa una scossa di quasi sei minuti causa la morte di decine di migliaia di persone e la distruzione di gran parte della città.

I sobbalzi della terra provocano anche un violento maremoto: un’onda di 15 metri si abbatte sulla città, sommerge le macerie e si porta via molti dei superstiti. La terra trema, crollano case e palazzi, la forza del mare sfracella le navi e inghiotte le strade, divampano incendi e roghi: 60.000 persone muoiono in pochi minuti. “Il terremoto che il 1° novembre 1755 distrusse Lisbona non fu un disastro come tanti altri, ma in molti aspetti fu unico e sorprendente”: le parole sono di Walter Benjamin che il 31 ottobre 1931 realizza una serie di trasmissioni radiofoniche dedicate ai disastri per un’emittente di Berlino. Il terremoto di Lisbona non è paragonabile ad altri disastri, non tanto per l’entità dei danni e delle perdite, ma per la vicinanza geografica rispetto alle calamità la cui eco lontana arrivava dall’America latina o dalla Cina: Lisbona è all’epoca una città di importanza centrale, quarta per numero di abitanti dopo Londra Parigi e Napoli, uno dei più importanti imperi coloniali dell’epoca, sede di un importante porto commerciale, avamposto di espansione verso il nuovo mondo, la via di accesso all’oro e ai diamanti al tabacco e al caffè.

Benjamin sottolinea come la narrazione di questa catastrofe naturale rappresenti uno dei primi esempi di giornalismo europeo, smuove le coscienze di un’embrionale opinione pubblica. La notizia del terremoto di Lisbona, infatti, si diffonde rapidamente nel continente, la stampa dell’epoca descrive dettagliatamente i fatti, riporta il racconto dei testimoni oculari, ricostruisce con accuratezza le tragiche conseguenze e l’entità delle perdite. La prima vera catastrofe narrata “mediaticamente”, che si amplifica attraverso i media che diffondono un vero e proprio contagio emotivo, una cassa di risonanza della paura e dell’angoscia, ma anche un veicolo delle domande che un evento così traumatico portava con sé.

Una tragedia che scuote l’avamposto della civiltà europea, fa tremare le coscienze di un’intera generazione e fa discutere per decenni giornalisti, tecnici, filosofi, politici, predicatori, liberali e moralisti. L’ampio dibattito filosofico sulla catastrofe di Lisbona ha coinvolto nomi del calibro di Voltaire, Jean-Jacques Rousseau, Immanuel Kant ed è stato appena ripubblicato in Italia dalla casa editrice Raffaello Cortina (Filosofie della catastrofe) con la curatela di Andrea Tagliapietra che scrive un imprescindibile saggio introduttivo sulle domande drammaticamente attuali aperte dal sisma.

Mai il demone del terrore aveva avvolto tanto velocemente la terra nel suo brivido” scrive Goethe in Poesia e verità ricordando a 60 anni di distanza come la notizia avesse scosso la sua tranquillità di bambino di sei anni. “Poi vennero i timorati di Dio con le loro prediche, i filosofi con i loro argomenti consolatori, e non fecero mancare paternali allo spirito”. “Contro gli abusi che si sono potuti fare dell’antico assioma tutto è bene” scrive Voltaire nel Poema sul disastro di Lisbona. Si tratta di un pamphlet scritto e pubblicato a pochi mesi dalla catastrofe, già stampato nell’aprile del 1756, che avrà un enorme successo. Niente più del terremoto, infatti, mette in crisi la nostra credenza in un provvidenziale ‘ordine buono’ che governa l’andamento degli eventi, niente più di una catastrofe come questa demolisce l’ingenua fede nell’ottimismo.

Il terremoto fa tramontare la teodicea. Il poema volterriano è un inno ribelle contro chi giustifica quietamente l’esistenza senza scandalizzarsene, contro chi non si stupisce della sofferenza degli innocenti, contro chi rimane indifferenze di fronte al dolore insensato di chi non ha colpa. “Filosofi fallaci che gridate tutto è bene / accorrete, contemplate queste tremende rovine”: la catastrofe ci obbliga alla visione di uno spettacolo scandaloso, di uno squilibrio informe, di un caos senza cosmos. “I savi del luogo – aggiunge Voltaire nel suo Candide – non avevano trovato di meglio, per scongiurare una totale rovina, che offrire al popolo un bell’autodafé”. Lo spettacolo delle persone bruciate sembra l’unico modo per impedire alla terra di tremare. “Se questo è il migliore dei mondi possibili, che saranno dunque gli altri?” si chiede Candido. Voltaire, insomma, non incrina soltanto l’ottimismo del lieto fine, ma anche la superstizione che cerca innocenti capri espiatori. “Il mio lamento è innocente e le mie urla legittime” dice Voltaire: il filosofo non può permettersi di guardare la catastrofe a distanza come se fosse qualcosa che non lo riguarda. Il filosofo è sollecitato, coinvolto, commosso, indignato in prima persona.

L’Illuminismo legge il terremoto con la ragione e la scienza, senza gli alibi della provvidenza e del castigo: di fronte al conto di tante vite innocenti cadono le ragioni della Provvidenza, di fronte alle rovine degli antichi palazzi si perdono gli ancoraggi delle stelle fisse del passato. Si apre un tempo nuovo. “La paura della morte, la disperazione per la perdita completa di tutti i beni e infine la vista di altri infelici abbattono anche gli animi più coraggiosi” aggiunge il giovane Immanuel Kant (all’epoca poco più che trentenne, divenne professore solo 15 anni più tardi). Anche lui scrive a pochi mesi di distanza dalla scossa di Lisbona, alle quale dedicherà ben tre scritti. Lo spirito illuminista del filosofo tedesco reagisce cercando di razionalizzare l’evento: alla spiegazione superstiziosa contrappone la spiegazione scientifica che inaugura l’odierna sismologia riempiendo il testo di dati e teorie, di osservazioni empiriche e misurazioni.

Però aggiunge sconsolato: “Noi abitiamo tranquilli su un suolo le cui fondamenta vengono di tanto in tanto scosse. Edifichiamo senza darci troppo pensiero su volte, le cui colonne talvolta vacillano minacciando di crollare”. Tendiamo a dimenticare quella “rovina che se ne sta celata in agguato anche sotto i nostri piedi”. Le catastrofi ci richiamano alla radice ultima della nostra condizione: “Ecco che assumono un senso tutte quelle devastazioni che lasciano intravedere l’inconsistenza del mondo persino in quelle cose che ci appaiono come le più grandiose e le più importanti: esse ci rammentano che i beni di questa terra non potranno in alcun modo soddisfare la nostra brama di felicità”.

Desideriamo che il mondo sia totalmente conoscibile e controllabile, ma di fronte alla catastrofe siamo passivi e impotenti spettatori.

Oggi qualcuno vuole rimanere ancora cieco di fronte a queste evidenze – alzando muri e veti dove c’è solo distruzione e sofferenza. Mentre l’unica possibilità di fronte a un simile disastro è far tesoro di questa amara consapevolezza: il terremoto sgonfia tutti i desideri di predominio e di conquista, azzera tutte le divisioni e le differenze; ci consegna alla nostra costitutiva impotenza e limitatezza, alla totale vulnerabilità che condividiamo con il genere umano. Di fronte alla catastrofe, rimane solo – e non è poco – la nostra fragilità condivisa. Lucrezia Ercoli

In Turchia e Siria.

Storia di Aya. Storia di Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023.

Non basterebbero dieci reincarnazioni per collezionare la quantità di esperienze estreme che l’inconsapevole Aya si è vista piombare addosso nei primi dieci giorni di vita. Tanto per cominciare, è nata in un villaggio siriano durante il terremoto. Ed è nata orfana, perché la mamma si è spenta mettendola al mondo, mentre il padre è stato travolto dal crollo della loro casa. Aya si è salvata solo grazie al cordone ombelicale a cui era ancora attaccata quando l’hanno estratta dalle macerie: anche da morta, sua madre ha continuato a lottare per la sua vita. Ci sarebbe già materiale a sufficienza per scrivere un libro o per finire sul lettino dello psicanalista, che è più o meno la stessa cosa. Ma non è finita: le immagini dei soccorsi hanno suscitato una compassione planetaria, e però anche l’interesse di qualche malintenzionato. Un infermiere, licenziato per averle scattato delle foto in ospedale, si è ripresentato con due uomini armati, non si è capito bene se per farsi giustizia o per rapirla. Quel che si sa è che la piccola è stata portata di corsa in un posto più sicuro, dove la moglie del direttore dell’ospedale provvede ad allattarla. Riassumendo: dal 6 febbraio, giorno della sua nascita, a oggi, Aya è scampata miracolosamente a un terremoto e forse a un rapimento, ha perso tutta la sua famiglia ed è subissata da richieste di adozione e chiacchiere impiccione, comprese le mie. Il minimo che le si possa augurare è una vita molto noiosa. 

Estratto dell’articolo di Giovanni Caprara per il “Corriere della Sera” il 7 febbraio 2023.

Due terremoti hanno lacerato il Sud della Turchia e il Nord della Siria con rilevante intensità alle 2.17 di ieri mattina e alle 11.24 (ora italiana) raggiungendo rispettivamente la magnitudo di 7.8 e 7.5 della scala Richter. […] I due terremoti fanno parte di un’unica sequenza sismica scatenata all’incrocio di quattro placche che si scontrano di continuo — Anatolica, Arabica, Euroasiatica e Africana—, accumulando energia sino a provocare l’attivazione di una lunga faglia. Per questo l’intera area è classificata tra quelle con la pericolosità più alta del Mediterraneo.

 1 Quale è la causa del terremoto che sembra aver provocato uno scivolamento della placca Anatolica di almeno 3 metri?

Si è verificato uno scivolamento orizzontale, quindi sullo stesso piano, della placca Anatolica verso Sudovest rispetto alla placca Arabica. Ciò ha generato un tipo di faglia che i sismologi chiamano «transcorrente a bassa profondità» con un ipocentro, cioè il luogo in profondità in cui si scatena, tra i 15 e i 20 chilometri. In altre parole la Turchia nelle stime è scivolata in realtà di 5-6 metri rispetto alla Siria. […]

2 Come è cambiata l’area interessata dal sisma?

L’imponente lacerazione ha coinvolto una zona lunga 190 chilometri e larga 25 scuotendo violentemente il suolo e provocando una sequenza che ha raggiunto i due picchi più intensi a distanza di nove ore uno dall’altro. […] un’infinità di sussulti minori, circa 200 già nelle prime ore.

 3 Un fenomeno di tale intensità può durare a lungo nel tempo?

Sì, arrivando a manifestare una sorta di «epidemia sismica» prolungata […] che potrebbe proseguire per giorni, forse mesi se non anni […] fino a quando l’energia accumulata non sarà liberata il fenomeno non si interromperà.

 […] 5 Due scosse tanto forti, che potenza hanno raggiunto?

L’energia sprigionata dalle due scosse più intense hanno raggiunto livelli molto più alti dei terremoti che hanno colpito negli ultimi decenni la l’Italia. Si è stimato che la prima era circa 500 volte più elevata di quella manifestata dal sisma di Amatrice del 2016 e 30 volte più alta rispetto all’Irpinia del 1980. […]

La guerra, le sanzioni, il terremoto. Il dramma di un Paese distrutto. Storia di Matteo Carnieletto su Il Giornale il 6 febbraio 2023.

C'è stato un momento, durante la guerra in Siria, in cui non solo si seppellivano i morti, ma li si contava anche. Alì, morto sulle montagne al confine col Libano. Ibrahim, caduto nel deserto di Deir Ezzor. La piccola Reem fatta a pezzi da un colpo di mortaio esploso in un sobborgo di Damasco. Hanan, scomparsa a causa del C-4, l'esplosivo più amato dai terroristi siriani per compiere attentati. Era, quello di contare i morti, un atto penoso e pietoso allo stesso tempo. Si cercava di comprendere quanto costasse davvero quella guerra che, nessuno ancora lo sapeva, sarebbe durata più di dieci anni. Quanto costasse realmente: non in dollari, ma in termini di vite umane. Chi si doveva prendere la briga di contare è arrivato fino a mezzo milione, poi ha smesso. Tenere la conta dei caduti era troppo difficile. E, forse, troppo duro da accettare.

Quando, passeggiando per il suk di Damasco, ci si fermava a parlare con gli abitanti della città e si chiedeva loro un'opinione su Bashar al Assad, la risposta era sempre la stessa. E sempre agghiacciante per le orecchie di un occidentale, tanto abituato a dare valore alla propria pelle: "Se fosse stato come suo padre, Hafez, avrebbe risolto tutto in un mese e avremmo avuto molti meno morti". Il riferimento è all'insurrezione di Hama del 1982. In quell'occasione, i Fratelli musulmani si sollevarono contro il governo di Assad padre che, in tutta risposta, assediò e bombardò la città provocando almeno 40mila morti. Furono 27 giorni terribili scanditi da acciaio scaraventato contro gli edifici, spari e morti. "Se fosse stato come suo padre...".

Ma Assad non è come suo padre. L'agiografia siriana, tinta di propaganda, afferma che Bashar ha voluto studiare oftalmologia in quanto sarebbe l'unica disciplina medica che non prevede la vista del sangue. Non è così. Quel che è certo è che Assad non voleva fare il presidente e che, se avesse potuto, se ne sarebbe stato volentieri a Londra a vivere all'occidentale. Ma la vita è così. Un incidente in macchina di suo fratello Basil ha stravolto i suoi piani. Poi il richiamo in patria, repentino e accettato mal volentieri. Addio alla possibilità di godersi una vita serena e lontano da casa. "Una primavera in Siria", titolavano i giornali dell'epoca parlando di Bashar. Ironia della sorte, quella stessa espressione sarà poi usata per cercare di abbatterlo. E così si torna alla Siria della guerra. Di ieri e di oggi.

Oggi questo Paese è distrutto. Le ferite del conflitto sono troppe e troppo profonde. E il terremoto di oggi non ha fatto altro che peggiore la situazione. Quello che fa più male sono le sanzioni comminate dall'Occidente. Dovrebbero colpire il regime ma in realtà penalizzano solamente i poveri Cristi che non hanno né medicine né beni di prima necessità. Ed è il vero dramma della Siria. Un Paese dove, fino a prima del conflitto, non esistevano le religioni. O meglio: esistevano ma non si chiedeva mai a che religione appartenesse Tizio e a quale appartenesse Caio. Si era tutti siriani. E oggi, forse, lo siamo un po' anche noi.

Estratto dell'articolo di Elena Dusi per repubblica.it il 6 febbraio 2023.

Il gioco delle spinte stavolta non ha retto. La faglia che divide la placca araba e quella anatolica si è spezzata scatenando un terremoto di magnitudo 7.8 nella Turchia del sud-est: l’equivalente, in termini di energia rilasciata, di 32 atomiche di Hiroshima.

 Secondo Alessandro Amato, sismologo dell'Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la scossa è stata mille volte più forte rispetto a quella che nel 2016 ha colpito Amatrice e 30 volte più potente di quella che devastò l'Irpinia nel 1980.

 “Normalmente in questa zona registriamo movimenti delle placche intorno ai 10 millimetri l’anno” spiega Aybige Akinci, ricercatrice turca dell’Ingv. Stavolta in una manciata di secondi l’Anatolia ha fatto un salto di tre metri verso sud-ovest, con un movimento di scorrimento a lato alla placca araba.

La frattura è stata enorme” aggiunge Akinci. “Ben 150 kilometri di lunghezza. La scossa ha coinvolto un’area di centinaia di chilometri quadrati”. […]

 Dopo la scossa principale di stanotte, alle 2 e 17 ora italiana, ne sono avvenute finora 200, di cui una trentina con magnitudo superiore a 4. La principale, subito dopo la grande scossa delle 2 e 17 di stanotte, ha avuto magnitudo 6.7. Una seconda grossa scossa, poco dopo le 11 di mattina, ha raggiunto 7.5.

Nella storia, una scossa così forte in quell’area, è avvenuta nell’859” ricorda Akinci. Se guardiamo all’intero pianeta, per trovare un sisma altrettanto potente dobbiamo tornare al 2016 in Ecuador e all’anno prima in Afghanistan, quando ci furono circa 9mila vittime. […]

  “Nel 2012 il governo turco ha varato una legge per rinnovare il patrimonio edilizio”, racconta Akinci. “Sappiamo che il rischio terremoti è assai serio nel nostro paese. Ma per ricostruire tutto ci vuole molto tempo e denaro. Finora i lavori si sono concentrati soprattutto a Istanbul, la parte orientale è rimasta più indietro”. […]

Forte terremoto tra Turchia e Siria: 597 morti e oltre duemila feriti. Federico Giuliani il 6 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Forte scossa di terremoto nella notte nel sud della Turchia in prossimità del confine con la Siria. Tragico il bilancio: oltre 360 morti in Turchia e 237 in Siria. Allerta tsunami rientrata in Italia

Tabella dei contenuti

 Il terremoto e l'allerta tsunami

 Bilancio critico

 Tajani: "Italia pronta ad aiutare"

Un terremoto di magnitudo 7,8 della scala Richter è stato registrato nel sud della Turchia, al confine con la Siria alle 4:17 ora locale (le 2:17 in Italia). Tragico il bilancio, che al momento ammonta a 597 morti: 360 turchi e 237 siriani e più di 2.000 feriti. È subito scattato un allarme tsunami sulla coste orientali del sud Italia (Calabria, Puglia e Sicilia), dove dalle 6:30 la circolazione ferroviaria è stata soppressa in via cautelativa. Con la revoca dell'allerta per possibili onde sulle coste italiane da parte del Dipartimento della Protezione Civile i treni hanno ripreso a circolare.

Il terremoto e l'allerta tsunami

L'Ufficio di gestione dei disastri e delle emergenze di Ankara, che dipende dal Ministero dell'Interno, ha reso noto che il sisma è stato registrato alle 4:17 ora locale, le 2:17 in Italia, nella provincia di Kahramanmaras.

Le scosse sono state avvertite anche in Libano, Siria, Cipro e Israele mentre nel Mediterraneo, Italia meridionale compresa, è scattato un allarme tsunami. Un allarme rientrato, ha in seguito spiegato il direttore operativo della Protezione civile, Luigi D'Angelo. L'ondata inizialmente prevista per le 6:30 in Italia si è notevolmente ridimensionata senza più rappresentare alcun pericolo. Per cautela, come detto, è stata comunque temporaneamente sospesa la circolazione dei treni nella zona interessata.

Bilancio critico

I funzionari dei servizi di emergenza in Turchia hanno stimato il bilancio delle vittime iniziale a 76, aumentando con il passare delle ore. Il sisma ha raso al suolo dozzine di condomini nelle principali città. Come se non bastasse, il disastro è avvenuto a notte fonda, quando la maggior parte delle persone si trovava nelle proprie abitazioni.

Le immagini televisive hanno mostrato cittadini scioccati in Turchia in piedi nella neve in pigiama, a guardare i soccorritori scavare tra i detriti delle case danneggiate. Il sisma ha colpito alle 02:17 ora locale a una profondità di circa 17,9 chilometri con una scossa di assestamento di magnitudo 6,7 che ha colpito 15 minuti dopo. Più di una decina le scosse di assestamento.

Il terremoto è stato uno dei più potenti a colpire la regione nell'ultimo secolo. Il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha espresso le sue condoglianze e ha sollecitato l'unità nazionale. "Speriamo di superare insieme questo disastro il prima possibile e con il minimo danno", ha twittato il leader turco.

Tajani: "Italia pronta ad aiutare"

"Sono vicino al popolo turco colpito da un violento terremoto che ha provocato moltissime vittime. Non mancherà l'aiuto dell'Italia", ha scritto su Twitter il ministro degli Esteri e vicepremier Antonio Tajani. "Il ministero degli Esteri sta contattando tutti gli italiani che vivono nella regione colpita dal sisma - ha proseguito - Sono vicino anche al popolo siriano che subisce un altro duro colpo con il terremoto di oggi dopo gli anni di guerra". "Ho appena parlato con il ministro degli Esteri della Turchia Mevlut Cavusoglu per esprimergli la vicinanza dell'Italia e per mettere a disposizione la nostra Protezione civile", ha quindi concluso Tajani.

"Il Presidente del Consiglio Giorgia Meloni segue costantemente, aggiornata dal Dipartimento della Protezione Civile, gli sviluppi del devastante terremoto che ha colpito la Turchia, al confine con la Siria. Esprime vicinanza e solidarietà alle popolazioni colpite", si legge invece in una nota di Palazzo Chigi.

I sepolti vivi. Ivano Tolettini su L’Identità l’8 Febbraio 2023

Le voci dei sepolti vivi. Migliaia di persone sotto le macerie affidano ai telefonini, fino a che avranno batteria, la speranza di fuggire a un destino tragicissimo, indirizzando i loro angeli salvatori. Per il governo turco oltre 100 mila persone sono senza un tetto. Il numero degli sfollati, secondo fonti governative, è già attorno ai 380 mila. Il doppio sisma di lunedì nell’Anatolia sud orientale è stato apocalittico soprattutto nelle province di Gaziantep e Kahramanmaras, dove si sono registrati gli epicentri delle scosse di magnitudo 7.8 e 7.5 della scala Richter. Ne sono seguite poi centinaia di assestamento, mentre i soccorritori lottano contro il tempo per salvare più vite. In tutto sono dieci le province turche colpite dall’ecatombe e questo spiega la dimensione di un dramma senza fine. Finora i morti accertati sono oltre 5 mila nella sola Turchia, ma anche nella vicina Siria, nella provincia di Aleppo, le vittime si contano in più di mille. Ma i soccorritori in questa zona già devastata dalla guerra non hanno facilità di accesso. A tutto questo bisogna aggiungere il clima rigido che aggrava il contesto in cui la catena della solidarietà mondiale sta aiutando la Turchia. Il presidente Recep Tayyip Erdogãn ha decretato di tre mesi lo stato d’emergenza nelle zone terremotate. Anche ieri la terra per lo slittamento della placca Anatolica di 5-6 metri ha continuato a tremare. Le due province di Gaziantep e Kahramanmaras assieme hanno una superficie più grande del Veneto, sono popolate da 6 milioni di abitanti e sono state in larga parte sconquassate dalla furia della natura. Da sotto le macerie anche tanti bambini con gli smartphone, fino a quando avranno carica, continuano a messaggiare a parenti e amici per indirizzarli nelle ricerche. “Kahrmsanmaras, che vuol dire in turco l’eroica Maras, che fu l’antica capitale della provincia ittita prima di essere conquistata dai romani di Caligola e poi dai crociati intorno all’anno Mille – spiegava ieri l’infermiera Melis Salman – , è come fosse stata spazzata via. Palazzi e strade sono stati stritolati dal terremoto, non sappiamo più dove mettere i morti e accogliere i feriti negli ospedali”. Il tedesco Serkan Eren dell’organizzazione umanitaria Stelp, che è volato in Turchia per aiutare le vittime del terremoto, .

ITALIANO DISPERSO

 C’è un solo italiano di cui per adesso non si ha notizia. È il tecnico veneto Angelo Zen, 60 anni, tecnico di una ditta orafa, che dopo avere vissuto nel Vicentino a Romano d’Ezzelino si è trasferito nel Veneziano a Martellago. Per lavoro era nella città Kahramanmaras, di quasi 1,4 milioni di abitanti, che secondo molti soccorritori è la più devastata con migliaia di persone vive ancora sotto le macerie. È difficile raggiungerla con i mezzi di soccorso perché anche le strade sono collassate. I familiari di Zen hanno parlato con lui domenica sera, poche ore prima della scossa delle 4.17 locali (le 2.17 in Italia) che ha cambiato faccia alla Turchia Anatolica.

SFOLLATI

Sono più di 10.000 le persone che fino a ieri sera erano state estratte dalle macerie”, ha detto il vicepresidente turco, Fuat Oktay. Circa 380.000 persone si sono rifugiate in edifici adibiti a temporaei alloggi o hotel governativi, mentre altre si sono accalcate in centri commerciali, stadi, moschee e centri comunitari. L’Associated Press riferiva che sono migliaia i turchi che hanno postato sui social richoieste di aiuto e assistenza per i propri cari che sono inrappolati sotto le macerie. Sul punto l’agenzia di stampa statale turca Anadolu cita funzionari del ministero degli Interni, i quali affermano che “tutte le chiamate sono state raccolte meticolosamente e il informazioni trasmesse ai team di ricerca”.

13 MILIONI

 Il presidente Erdoğan ha affermato che 13 milioni di connazionali su 85 milioni di residenti in Turchia sono stati colpiti in qualche modo. Questo dà l’idea della catastrofe senza precedenti non solo per la Turchia. Il premier ha dichiarato lo stato di emergenza in 10 province per gestire la complicata macchina dei soccorsi. La “La Turchia – ha affermato Erdogan – consentirà solo ai veicoli che trasportano aiuti di entrare nelle province più colpite di Kahramanmaraş, Adıyaman, Hatay e Gaziantep per accelerare lo sforzo”.

 TRUPPE

 La Turchia ha centinaia di migliaia di soldati nella regione di confine con la Siria. Il governo h ha incaricato i militari di aiutare la popolazione e i soccorsi, anche nella realizzazione di una tendopoli e un ospedale da campo nella provincia di Hatay. Il ministro della Difesa, Hulusi Akar, ha spiegato che sono state dispiegate anche una brigata di aiuti umanitari con sede ad Ankara e otto squadre militari di ricerca e soccorso.

 VITTIME, EDIFICI E SIRIA

Visto il numero di province coinvolte, l’Oms teme che le vittime potrebbero superare le 20 mila. Tra l’altro, i collegamenti con il nord-ovest della Siria, controllato dai ribelli al governo di Bashar al-Assad, sono molto difficoltosi. Dopo l’Isis e le truppe di Damasco, i rivoltosi devono affrontare un nemico altrettanto, se non più pericoloso, come la forza della natura. I morti in Siria sono già oltre 1.500. Intanto, l’agenzia turca per la gestione dei disastri ha dichiarato di avere avuto 11.342 segnalazioni di edifici crollati. Ma l’attenzione dei soccorritori è rivolta alle migliaia di persone ancora vive sotto le macerie. Bisogna operare con cautela nel tentativo di salvarle.

La mala-edilizia di Erdogan crolla col terremoto in Turchia. Stefano Piazza su Panorama l’08 Febbraio 2023

Le migliaia di morti, secondo chi si occupa di costruzioni, si spiegano anche con il fallimento della politica delle norme in vigore in Turchia La mala-edilizia di Erdogan crolla col terremoto in Turchia

Recep Tayyip Erdogan è l'architetto della yeni Türkiye, la "nuova Turchia". Nella sola città di Istanbul, sono stati costruiti progetti a dir poco megalomani. In alcune zone, i grattacieli si sono moltiplicati. I centri commerciali sono diventati il segno distintivo di un nuovo modo di vivere. Le comunità residenziali chiuse hanno accentuato il fenomeno della segregazione spaziale. L'urbanizzazione selvaggia ha scardinato il tessuto sociale di interi quartieri. Uno stravolgimento che ha investito non solo le città ma anche i cittadini: la classe media si è allargata e il divario tra ricchi e poveri è aumentato drammaticamente. Tutto questo è l'oro della Turchia voluto fortemente da Erdogan e che oggi, complice una forte crisi economica, potrebbe smettere di luccicare. L’oro della Turchia e il business dell’edilizia che ha stravolto l'aspetto del paese e il suo tessuto sociale è il titolo del libro di Giovanna Loccatelli. Ma che a che prezzo tutto questo? Come sono stata costruite tutte queste abitazioni che si sono letteralmente sbriciolate? Intanto il bilancio delle vittime parla di almeno 5mila le vittime accertate del terremoto che ha distrutto intere zone della Turchia e della Siria. Il numero resta comunque provvisorio e si continua a scavare tra le macerie delle migliaia di edifici venuti giù in entrambi i Paesi. L'Oms non lascia molte illusioni: purtroppo le vittime del sisma alla fine potrebbero essere più di 20mila.

Erdogan tra le rovine del terremoto: «Era impossibile prepararsi». Marta Serafini, inviata ad Antiochia su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

Ritardi, code, rabbia. Il presidente accusa i «provocatori» che protestano per la lentezza dei soccorsi

«Andate anche voi verso Antakya (Antiochia, ndr)?». Si illuminano di speranza gli occhi di Murat Angay, 52 anni, mentre sente nominare nella hall dell’hotel la sua città. Nelle macerie di una delle città più colpite dal sisma , ci sono suo figlio Bahetan, 29 anni e sua moglie Makbuli, di 25. E Murat deve correre per arrivarci.

La strada da Adana, l’hub dei soccorsi, sembra corta. Ma non lo è dopo un sisma che ha ucciso più di 15 mila persone tra Siria e Turchia . Crepe nell’asfalto, mezzi di soccorso imbottigliati nel traffico che non riescono a passare, folle che assaltano i camion della protezione civile, il suono incessante delle sirene. Non c’è acqua, non c’è connessione Internet e non c’è luce dove la terra ha tremato. Mancano anche i sacchi per i corpi, dicono i soccorritori. Solo per fare benzina ci vuole un’ora, scarseggia già il carburante. Murat inizia a raccontare. «Sono partito appena saputo del terremoto dall’Olanda, dove vivo. Anche mio figlio ha passaporto olandese. Ma ha scelto di rimanere nella nostra città di origine almeno finché sua moglie non ottiene il visto». Si ferma, trattiene il respiro. «Sto parlando al presente....ma forse». L’auto riparte ma il gasolio è di cattiva qualità. Lungo la strada anche il fumo del porto di Iskenderun, dove bruciano ancora i container, sale dalla costa. Difficile non pensare al porto di Odessa. Sarà solo in serata che verrà estinto l’incendio.

Sembra la guerra. È il terremoto. Murat guida. E racconta. E piange. E risponde alle centinaia di telefonate e messaggi. «Mio figlio è uno studente di tecnologia. Un anno fa è uscito di prigione. Lo hanno accusato di far parte del Feto». È il movimento che fa capo al religioso Fethullah Gülen, lo stesso che, insieme al Pkk, è nemico giurato del Sultano, moneta di scambio con Svezia e Finlandia per l’ammissione nella Nato. «Ma lui non ha niente a che fare con quelle cose». Si morde le labbra Murat mentre pensa a quel passaporto olandese che poteva salvare Bahetan. «Quel palazzo dove vivevano è crollato perché era come tutto il resto, da queste parti. Era fatto male».

Intanto il presidente Recep Tayyip Erdogan fa il giro delle città colpite: Kahramanmaras, Hatay. Fa mea culpa per i ritardi nei soccorsi dopo le critiche in rete. «Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili e domani sarà ancora più facile», afferma. Ma poi si giustifica: impossibile prepararsi ad una catastrofe del genere e punta il dito contro i «provocatori», proprio mentre i giornalisti turchi segnalano che Twitter è di nuovo irraggiungibile nel Paese.

La rabbia monta. Anche per una «tassa sui terremoti» introdotta dal governo dopo il terremoto nel 1999 che ha ucciso più di 17 mila persone. Oltre 4,3 miliardi di euro, che avrebbero dovuto essere spesi per la prevenzione dei disastri e lo sviluppo dei servizi di emergenza. E montano le polemiche per i periodici «condoni edilizi, che offrono l’esenzione legale a quelle strutture costruite senza i certificati di sicurezza. «Impossibile prepararsi, certo», dicono a mezza bocca i camionisti bloccati in coda.

Ottenere clemenza non si può. Nemmeno da madre natura. Scendono le temperature. La minima di Gaziantep segna -7 gradi, il vento dalle montagne soffia gelido mentre tutti dormono fuori nelle tende o in automobile. Perfino l’Ucraina stravolta dalla guerra ha inviato una squadra di soccorritori. Ma non basta. Non basta mai. «Il tempo per trovare i vivi sta ormai per scadere», dicono i White Helmets dall’altra parte del confine, che di tragedie e salvataggi estremi se ne intendono.

Nel villaggio di Serynol, la protezione civile turca, l’Adef, porta un camion di aiuti. Sono tende da montare, pesantissime da spostare. Tra quanti aiutano a scaricarle c’è Amed. È arrivato da Hama dieci anni fa, in fuga dalla guerra siriana. Oggi ha vent’anni. «Qui sto bene. Sono al sicuro», racconta mentre alle sue spalle un’ambulanza rischia di investire un gruppo di ragazzi. «Mio fratello fa il giornalista qui in Turchia. Io sono un meccanico, se avete bisogno di aiuto con l’automobile sono a disposizione». Ma a Murat non importa che il motore dell’auto stia per fondere. Si va avanti. Bisogna correre, Bahetan non ha più tempo. Nessuno ha tempo.

È quasi tramontato il sole quando Murat raggiunge la sua Antakya. Non c’è più niente. Era Antiochia, fondata da uno dei generali di Alessandro Magno. Ora è solo polvere, quello che resta della capitale della provincia di Hatay. Arriva di fronte al palazzone bianco e rosso ora cumulo di polvere, cade in ginocchio sull’asfalto. Quaranta piani che non ci sono più. Bahetan e Makbuli vivevano all’undicesimo. Gli occhi si spalancano sull’orrore. «È incredibile, è incredibile», ripete con il fiato che si rompe in gola. Poi di nuovo le lacrime. Il suo maggiore di cinque figli è lì sotto. «Aiutatemi, aiutatelo, vi supplico». E la terra trema ancora una volta. L’ennesima.

Terremoto in Turchia, i morti salgono a 15mila mentre Erdogan finisce sotto accusa. Il Domani il 09 febbraio 2023 Il presidente turco ha ammesso i problemi nei soccorsi. In Siria gli aiuti internazionali continuano a non arrivare a causa delle sanzioni e della guerra

Mentre il numero dei morti accertati nel terremoto che ha colpito Turchia e Siria salgano a 15mila, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan finisce sotto accusa per la lentezza dei soccorsi e la mancanza di preparazione del suo governo.

Erdogan ha risposto che non c’era modo di prepararsi a un evento di questa portata, ma ha ammesso che «ci sono stati dei problemi». Secondo il capo del principale partito di opposizione, Kemal Kilicdaroglu, «non c’è nessuno più responsabile di Erdogan» per gli effetti del disastro.

I soccorritori intanto continuano a cercare sopravvissuti sotto le macerie. Ma dopo la terza notte consecutiva in cui la temperatura è scesa sotto lo zero, le possibilità di trovare qualcuno vivono si riducono di ora in ora. Secondo le stime più pessimistiche, il totale di persone intrappolate sotto le macerie potrebbe arrivare a 180mila.

IN SIRIA

Un doppio dramma intanto è in corso nella Siria settentrionale, dove i danni del terremoto si sono aggiunti a quelli causati da dodici anni di guerra civile tra il regime di Bashar al Assad e le varie fazioni ribelli. 

L’arrivo di aiuti e soccorsi è ostacolato dalle sanzioni contro il regime, che rendono complicate e rischiose le donazioni (diversi attivisti siriani hanno suggerito che il governo potrebbe utilizzare il denaro inviato per altri fini) e l’invio di mezzi e personale di soccorso.

Il terremoto, inoltre, ha reso il nord del paese ancora più in accessibile. Il principale varco di frontiera con la Turchia è stato chiuso perché le scosse hanno reso la strada inagibile. 

Terremoto in Turchia e Siria, i morti salgono a 16mila. Erdogan blocca Twitter. Si aggrava il bilancio del devastante terremoto che ha colpito la Turchia meridionale e il nord-ovest della Siria. Stretta di Ankara su Twitter, ora di nuovo funzionante. L'Italia invia i primi aiuti. Federico Giuliani il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 L’aiuto dell’Italia

 La ricerca dei dispersi

 Le complicazioni in Siria

 Il ripristino di Twitter

Il bilancio del terremoto che ha scosso Turchia e Siria continua ad aggravarsi di ora in ora. Il numero delle vittime ha superato le 16mila unità. Secondo le autorità governative e sanitarie, sono morte 12.873 persone in Turchia e 3.162 in Siria, per un totale di 16.035 decessi. Dati che comunque continueranno ancora a crescere, ora dopo ora.

I soccorritori hanno intanto intrapreso una sfida contro il tempo, per altro in un freddo glaciale, per recuperare gli ultimi superstiti rimasti intrappolati sotto le macerie.

L’aiuto dell’Italia

Tra i tanti governi che hanno teso la mano ad Ankara troviamo anche l’Italia. È appena sbarcato ad Adana il contingente dei Vigili del Fuoco inviato in soccorso alla popolazione, partito da Pisa con scalo a Pratica di Mare.

La squadra è composta da 50 Vigili del Fuoco dei team Usar di Toscana e Lazio. Stiamo parlando di personale specializzato per la ricerca di dispersi sotto le macerie, che ha operato nelle analoghe emergenze in Italia e all'estero. Fanno parte del gruppo 11 sanitari e 6 unità del Dipartimento della Protezione civile.

"Ancora una volta, in un drammatico scenario emergenziale, gli operatori del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco stanno offrendo il loro aiuto alla popolazione turca gravemente colpita dal terremoto, nel tentativo di porre in salvo le persone che ancora sono sotto le macerie. La loro capacità di coniugare professionalità tecnica e sacrificio a un tratto di umanità e di solidarietà caratterizzano un'eccellenza riconosciuta in tutto il mondo", ha dichiarato il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi.

La ricerca dei dispersi

"Partirà la nave San Marco per portare altri aiuti e un ospedale da campo per la popolazione turca", ha intanto annunciato il ministro degli Esteri Antonio Tajani. Il capo della Farnesina ha quindi fornito gli ultimi aggiornamenti sull’italiano disperso, non ancora rintracciato: "Stiamo cercando di contattare l'imprenditore italiano Angelo Zen disperso in Turchia. Pare che l'ultimo contatto l'abbia avuto con la famiglia poco prima del terremoto".

Angelo, niente notizie. L'ansia della famiglia: "Il suo hotel è crollato"

Tajani ha poi parlato di una famiglia con passaporto italiano ma di origine siriana dispersa ad Antiochia. "Abbiamo chiesto notizie alla nostra protezione civile che è già operativa ad Antiochia, abbiamo chiesto anche alla protezione civile turca, ma ancora non ci sono notizie di queste sei persone", ha aggiunto.

Le complicazioni in Siria

Mentre la Turchia ha ricevuto un'ondata di sostegno e aiuti da dozzine di Paesi dopo il terremoto, la Cnn ha scritto che il coinvolgimento degli aiuti in Siria è stato meno entusiasta. Gli analisti avvertono che le vittime siriane potrebbero diventare ostaggi della politica che ha diviso la Siria per oltre un decennio.

Sulla scia del terremoto, il governo siriano ha intensificato le sue richieste per la rimozione delle sanzioni economiche statunitensi ed europee. Le misure erano state imposte alla Siria per spingere il governo locale a un processo politico che potrebbe porre fine al conflitto civile in corso.

Alcune delle aree più colpite dal terremoto sono controllate dal governo del presidente Bashar al-Assad, altre da forze di opposizione sostenute dalla Turchia e dagli Stati Uniti, ribelli curdi e combattenti islamisti sunniti.

Il ripristino di Twitter

L'accesso a Twitter in Turchia è stato ripristinato dopo che gli utenti hanno riferito di non essere in grado di accedere al sito di social media dopo il terremoto.

Nelle scorse ore NetBlocks , un osservatorio internazionale specializzato che monitora l'accesso alla rete, giornalisti e accademici hanno riferito che l'accesso al social network era stato limitato all’interno del Paese. Alcuni utenti hanno quindi chiesto aiuto al CEO di Twitter, Elon Musk, taggando il suo account per attirare la sua attenzione.

La risposta di Musk è arrivata subito dopo: "Il governo turco ha informato Twitter che l'accesso sarà ripristinato a breve". Ankara aveva attuato restrizioni a seguito delle critiche al governo e della "disinformazione" che sarebbe stata diffusa tramite la piattaforma di microblogging.

Scuse e pugno di ferro. Erdogan tra le macerie. E Assad bombarda le città dei dissidenti. Il Sultano sui luoghi del sisma: "All'inizio problemi nei soccorsi". Poi stop a Twitter e 28 arresti: "Provocatori". Razzi sui ribelli siriani. Il nodo degli aiuti a Damasco. Matteo Basile il 9 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Non basta il terremoto. Turchia e Siria hanno in comune un tragico destino che porta all'estremo le già devastanti conseguenze del sisma che ha colpito i due Paesi: essere governati da due dittatori. Spietati. Senza scrupoli. Pronti a passare sopra a un tappeto di cadaveri per il proprio tornaconto personale. Il leader turco tra passerelle, leggi speciali e repressione; addirittura con bombardamenti sui sopravvissuti nelle zone controllate dai ribelli quello siriano. Il tutto, mentre milioni di persone sono costrette a far fronte a un'emergenza epocale.

Recep Tayyip Erdogan ieri mattina ha iniziato il suo tour nelle zone colpite dal sisma. Dopo essere finito nel mirino, accusato per i ritardi nei soccorsi, prima ha fatto mea culpa e poi ciò che gli riesce meglio: usare il pugno di ferro. «Inizialmente ci sono stati problemi negli aeroporti e sulle strade, ma oggi le cose stanno diventando più facili. Abbiamo mobilitato tutte le nostre risorse», ha detto, posando in foto iconiche da libro Cuore con donne e bambini. Di contro, ha accusato quelli che ha definito «provocatori», ovvero chi ha osato criticarlo via social per le carenze nei soccorsi. La risposta è stata da manuale di regime. 28 persone sono state arrestate per aver scritto post polemici contro il governo e centinaia di account sono finiti nel mirino delle forze di polizia. Non solo. Twitter, utilizzato da molti cittadini proprio per raccontare lo stato delle cose in tempo reale ma anche per lanciare allarmi, risulta di fatto bloccato in tutta la Turchia. Il modo più semplice per silenziare ogni forma di protesta. Il Sultano però è andato oltre. Subito dopo il terremoto, ha dichiarato lo stato di emergenza per tre mesi in quasi tutto il Paese. Si tratta dello stesso provvedimento adottato dopo il golpe fasullo del 2016. In questo modo, il governo non ha bisogno dell'autorizzazione del parlamento per legiferare e nel contempo può limitare o sospendere alcuni diritti e libertà civili. Guarda caso, proprio fra tre mesi, il 14 maggio, la Turchia andrà al voto per scegliere il nuovo presidente. Non è difficile indovinare sin d'ora chi sarà.

Il caso Siria è se possibile anche più grave. Senza pietà né umanità, il regime di Damasco ha bombardato Marea, 25 km a nord di Aleppo, una delle tante città in cui si scava a mani nude cercando di salvare chi è rimasto intrappolato tra le macerie. Il marchio d'infamia di un regime che semina morte dove la morte ha già colpito duramente. Sono pochissime le notizie che arrivano anche da Idlib, nel Nord-Ovest siriano, una delle zone in mano ai ribelli anti-Assad, dove più di 3 milioni di civili sono da anni a rischio epidemie e campo profughi della Croce Rossa turca ospita gli sfollati che Ankara non vuole ricevere. Abbandonati e senza aiuti. Perché Assad vuole gestirli in prima persona per poi smistarli dove meglio crede. Quindi, non certo lì. Come conferma il post social di Zein, la figlia del dittatore, che dal dorato esilio di Londra mette in guardia tutti dal mandare aiuti a Idlib. La macchina dei soccorsi è quindi complicatissima. La Turchia ha aperto due valichi frontalieri per consentire l'ingresso di aiuti umanitari ma tutto va a rilento. Solo ieri infatti la Siria ha richiesto aiuti all'Unione Europea attraverso la protezione civile con Assad che fa appello all'Onu. Ma in molti dubitano che possano arrivare a destinazione. Damasco cercherà di sfruttare il sisma per far sospendere le sanzioni dell'Occidente dopo le repressioni contro i civili. «Le sanzioni non hanno alcun impatto sugli aiuti umanitari», dicono dalla commissione Ue. Una mano tesa la regime arriva dalla Cina che attacca frontalmente gli Stati Uniti dicendo che «dovrebbero mettere da parte l'ossessione geopolitica e revocare immediatamente le sanzioni unilaterali alla Siria». Washington replica facendo sapere che «aiuterà la Siria e i siriani ma non Assad». Dopo l'Ucraina e i palloni-spia, un altro terreno di scontro tra le due potenze. Mentre chi vive l'emergenza è già schiacciato tra l'incudine di madre natura e il martello di due regimi sanguinari.

"Non date aiuti a loro". La verità sulle parole della figlia di Assad (e sulle bombe). Storia di Matteo Carnieletto su Il Giornale l’8 febbraio 2023.

Quando si parla di Siria, accade sempre una magia. La realtà diventa tutta in bianco e nero: da una parte i buoni - ovvero i cosiddetti ribelli, spesso legati ad Al Qaeda o a quello che rimane dell'Isis - e dall'altra i cattivi, anzi, il cattivo: il regime di Bashar al Assad. Non ci sono zone grigie. Tutto è sempre così evidente. Ed è così che un messaggio privato di Zein, figlia del leader siriano, diventa un caso diplomatico.

Il Corriere della Sera parla di diktat (che però diktat non è, come vedremo a breve) e scrive: "Nessuna pietà. Né per i morti, né per i vivi. La distruzione siriana resta nel cono d’ombra. D’un regime che rifiuta gli aiuti, perché diretti in regioni dell’opposizione". In realtà non è proprio così. E lo si capisce ricostruendo come sono andate realmente le cose e non come le ha riportate il quotidiano di via Solferino: "In un post (Zein) trova il modo di mettere sul chi va là i suoi follower, citando un link di raccolta fondi per i terremotati d’Idlib, una delle città più colpite (e però controllate dai ribelli)". La realtà è però diversa: la figlia di Assa non scrive alcun post ma risponde, privatamente, a una storia di un suo contatto (fonti legate ai ribelli parlano invece di un'operazione di spam), mettendolo in guardia perché la raccolta fondi che stava promuovendo andava ad aiutare i residenti di Idlib, l'ultima roccaforte ribelle in Siria.

E qui occorre aprire una doverosa premessa: gli aiuti sono aiuti e, di fronte a un terremoto come quello che ha colpito la Siria, devono arrivare a tutti. Ribelli compresi. Perché anche nelle zone da loro controllate ci sono ospedali al collasso, bambini rimasti orfani e a rischio ipotermia. Zein ha certamente sbagliato, ma ha solo scritto a un suo contatto (o a più di uno, se si ascoltano le fonti dei ribelli). Privatamente e, tutto sommato, pure con garbo.

Un diktat sugli aiuti, invece, è arrivato da Oltreoceano. Il segretario di Stato Anthony Blinken, infatti, ha affermato che gli aiuti americani arriveranno sì in Siria, ma non nelle zone controllate dal regime. Perché gli aiuti, quando si è in guerra, possono essere usati come arma. Sia da una parte sia dall'altra.

Il Corriere della Sera fa inoltre riferimento a un bombardamento compiuto da Assad contro la città di Marea, a nord di Aleppo, subito dopo il terremoto del 6 febbraio scorso. Il sito Syrialiveuamap, che tiene monitorato ogni accadimento nel Paese, non ne fa però cenno. Inoltre, val la pena sottolineare che l'area di cui la città fa parte è sotto il controllo turco e sarebbe una decisione alquanto improvvida, certamente possibile ma improvvida, quella di ordinare un bombardamento contro Marea e per di più subito dopo una tragedia come quella del terremoto. Tutto però è possibile in guerra. Anche spacciare la menzogna per verità.

Terremoto in Turchia-Siria: oltre 20mila le vittime accertate. Migliaia di bambini rimasti orfani. Una famiglia italiana dispersa. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Febbraio 2023.

Sono presenti oltre 96.600 agenti dipendenti di Ong, squadre di ricerca e soccorso, volontari impiegati nelle zone colpite dal sisma in Turchia assieme alle squadre di dove emergenza locali operano i team di soccorso inviati da 35 Paesi.

E’ salito ad oltre 16 mila morti e 100 mila feriti il numero delle persone colpite dal terremoto in Siria e Turchia: dopo la prima scossa, se ne sono registrate altre 648, una delle quali, la più forte, di magnitudo 7,6, con epicentro Elbistan. L’ Afad, autorità turca per la gestione delle emergenze e dei disastri naturali, ha reso noto che ammontano 7108 le persone decedute accertate nelle province di Kahramanmaras, Gaziantep, Sanliurfa, Diyarbakir, Adana, Adiyaman, Osmaniye, Hatay, Kilis, Malatya e Elazig, e 40.910 le persone rimaste ferite.

In Turchia i bambini rimasti soli – tra orfani e quanti sono ancora alla ricerca propri genitori sono intorno ai 5000. “Il numero di bambini che rimangono senza famiglia sta aumentando a dismisura. Siamo partiti il primo giorno da 500 bambini ed ora siamo tra i 1000 ed i 5000 perchè ogni giorno queste cifre aumentano. Quando i genitori vengono portati in ospedale, spesso succede che non sopravvivano e questo sta accadendo in tutte le province” spiega Regina De Domicis responsabile della Turchia per l’Unicef. Sono invece circa 700 i bambini orfani che prima del terremoto vivevano nelle case del bambino, per 496 il trasferimento in luoghi sicuri è già stato ultimato, mentre per 204 è in corso.

Questa mattina un bambino è stato trovato vivo dopo essere stato per 80 ore sotto le macerie di un palazzo di quattro piani crollato nel distretto di Elbistan di Kahramanmaras, luogo dell’epicentro del terremoto di 4 giorni fa in Turchia. Applausi e abbracci hanno salutato il salvataggio di una madre e i suoi due figli dalle macerie della loro casa nella provincia turca di Kahramanmaras a 78 ore dal devastante sisma che ha colpito la regione. Il salvataggio è stato mostrato da Cnn Turk, che ha spiegato come i soccorritori abbiano dovuto scavare per 15 ore per realizzare il salvataggio.

I soccorritori stanno lottando contro il tempo, con temperature rigide che rendono ancora più difficile la sopravvivenza di chi è rimasto sepolto dalle macerie. Ma si spera ancora. La scorsa notte, 68 ore dopo il sisma, è stato salvato un bebè nella provincia di Hatay e poche ore dopo è stato estratto vivo dai resti della stessa casa un uomo che si ritiene sia il padre, riferisce l’emittente Trt. Altre tre persone sono state salvate stamattina nella provincia di Gaziantep. In totale più di 8mila persone sono state tratte in salvo dalle macerie in Turchia.

Sono presenti oltre 96.600 agenti dipendenti di Ong, squadre di ricerca e soccorso, volontari impegnati nelle zone colpite dal sisma. E’ stato allestito anche un ponte aereo per il trasferimento di personale e materiale da Istanbul, Ankara e Smirne. In Siria, nelle zone sotto il controllo di Damasco, i morti sono 1.250, i feriti 2.054, secondo quanto pubblicato su Facebook dal ministero della Salute siriano . Dati che si riferiscono alle province – o parte di esse – di Aleppo, Hama, Latakia, Tartus, e le aree di Idlib in mano alle forze governative.

I numeri purtroppo sono tragicamente destinati a salire a causa anche della carenza di macchinari e strumenti necessari a venire in soccorso di chi ancora si trova sotto le macerie, le strade interrotte dai danni causati dalle scosse, e le rigide temperature. Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, ieri ha proclamato uno stato di emergenza di tre mesi in 10 tra le province più colpite, si è recato nelle zone distrutte. Secondo quanto annunciato ieri dal ministro degli Esteri Mevlüt Çavusoglu in Turchia operano assieme alle squadre di emergenza locali i team di soccorso inviati da 53 diversi Paesi in seguito al terribile sisma abbattutosi nel sud della Turchia. Ankara ha specificato che in tutto sono 6.153 i soccorritori stranieri e altri 2.449 sono in arrivo da altri 20 Paesi. Sono infatti in tutto 95 le nazioni che hanno offerto sostegno alla Turchia in questi giorni difficili.

La Banca Mondiale ha annunciato 1,78 miliardi di dollari in aiuti alla Turchia, per sostenere gli sforzi di soccorso e di ripresa dopo che un forte terremoto ha colpito il Paese e la vicina Siria, causando più di 20.000 vittime. “Stiamo fornendo assistenza immediata e preparando una rapida valutazione degli urgenti e massicci bisogni sul campo”, ha dichiarato con un comunicato il Presidente della Banca Mondiale David Malpass.

Stamane un convoglio umanitario delle Nazioni Unite formato da sei veicoli è giunto nelle aree terremotate del nord della Siria, attraverso i valichi frontalieri della Turchia. Ieri sera il ministro degli Esteri turco, aveva dichiarato che Ankara stava lavorando all’apertura di due diversi passaggi di frontiera per permettere ad aiuti umanitari di raggiungere le aree colpite, in particolare quelle in mano ai gruppi di opposizione al regime di Damasco. Queste ultime, tra cui la roccaforte ribelle di Idlib, nel nord ovest della Siria, ospitano 4 milioni di persone la cui sopravvivenza è legata a doppio filo al valico di Bab al Hawa.

Le altre opzioni riguardano invio di materiale umanitario attraverso aree sotto il controllo del regime del presidente Bashar el Assad, una possibilita’ su cui le Nazioni Unite stanno al momento lavorando, come confermato dal portavoce Stephane Dujarric. Il convoglio è il primo a raggiungere quest’area in mano all’opposizione da quando il sisma ha fatto tremare la regione. Al momento per quanto riguarda il bilancio della Siria, si parla di 3.162 morti e più di 5 mila feriti. Bilancio che però non riguarda le aree in mano all’opposizione.

Con negli occhi le immagini strazianti di bambini estratti dalle macerie in Turchia e Siria dopo le devastanti scosse di terremoto dei giorni scorsi, Save the Children ha dichiarato che si sta rapidamente chiudendo la finestra temporale per portare rifugi, forniture mediche, acqua e cibo nelle aree più colpite per salvare vite umane. Il bilancio delle vittime dei due terremoti di lunedì continua drammaticamente a salire in entrambi i Paesi, con migliaia di feriti. Le prime 72 ore successive a un disastro naturale sono fondamentali e il tempo per salvare i sopravvissuti, in particolare i bambini che sono i più vulnerabili alle gelide temperature, sta per scadere.

Si stima che i terremoti abbiano colpito circa 23 milioni di persone, molte delle quali sono proprio bambini. I sopravvissuti in Turchia e in Siria hanno urgente bisogno di aiuti umanitari come cibo, ripari, coperte e acqua pulita. Anche la necessità di servizi igienico-sanitari nei rifugi temporanei è sempre più prioritaria, poiché senza acqua corrente e latrine si diffonderanno rapidamente malattie particolarmente letali per i bambini, sottolinea l’Organizzazione internazionale che lotta per salvare i bambini e le bambine e garantire loro un futuro. I bambini corrono anche il rischio di essere separati dalle loro famiglie, il che li espone al pericolo di sfruttamento e abusi. Tenere unite le famiglie, in crisi di questa portata, è fondamentale per la sicurezza, la protezione e il benessere di bambine e bambini. Redazione CdG 1947

I miliardi anti-sisma svaniti e lo scandalo dei condoni. Storia di Enza Cusmai su Il Giornale il 10 febbraio 2023.

Nel 2018 oltre il 50 per cento degli edifici in Turchia - pari a quasi 13 milioni di edifici - sono stati costruiti in violazione delle normative. E fino a 75mila edifici nella zona colpita nel 1999 dal terremoto nel sud della Turchia hanno ricevuto amnistie edilizie. In compenso, non si capisce dove siano finiti ben 512,2 milioni di dollari devoluti l'anno scorso dalla Banca mondiale per rendere gli edifici più resilienti ai disastri naturali. E come siano stati spesi oltre 4,3 miliardi di euro rastrellati dai contribuenti turchi tassati per favorire la prevenzione dei disastri e lo sviluppo dei servizi di emergenza. La risposta la offre Ali Yildiz dell'organizzazione Arrested Lawyers Initiative: «Queste immagini così cupe mostrano la corruzione diffusa e la mancanza di controllo. In tutta la Turchia sono crollati ospedali, uffici comunali, piste di atterraggio, ponti e persino edifici delle agenzie di emergenza provinciali».

Il quadro è desolante a causa dell'incoscienza umana: se si fossero fatte le cose per bene questa catastrofe sarebbe stata evitabile. Ma tutti si chiedono come mai anche edifici costruiti di recente si siano sgretolati come castelli di sabbia. Le moderne tecniche di costruzione dovrebbero consentire agli edifici di resistere a terremoti di questa portata. E i regolamenti a seguito di precedenti disastri nel paese (nel terremoto del 1999 intorno alla città di Izmit morirono 17mila persone) avrebbero dovuto garantire che queste protezioni fossero integrate. Invece così non è stato. Perché?

Andiamo sul concreto. Una bella ricerca svolta dalla Bbc ha analizzato l'iter edilizio di tre edifici crollati miseramente sotto la violenza delle scosse. Il primo è un condominio a Malatya sgretolato per metà e per un quarto sopravvissuto come una fetta di melone. Questi appartamenti erano stati costruiti solo l'anno scorso e l'annuncio che si poteva leggere sui social era di questo tenore: «Completato in conformità con le ultime normative antisismiche». Tutti i materiali e la lavorazione utilizzati erano di «qualità di prima classe». In realtà, la recente costruzione avrebbe dovuto seguire gli standard più recenti, aggiornati nel 2018, che richiedono alle strutture nelle regioni soggette a terremoti di utilizzare calcestruzzo di alta qualità rinforzato con barre d'acciaio. Colonne e travi devono essere distribuite per assorbire efficacemente l'impatto dei terremoti. Ma queste regole sono state completamente disattese. L'altro condominio di recente costruzione sotto accusa si trova nella città portuale di Iskenderun ed è stato in gran parte distrutto. Il lato e il retro dell'edificio di 16 piani sono crollati completamente, lasciando in piedi solo una scheggia del blocco. Altra località, stesse immagini agghiaccianti. Ad Antalya, gran parte di un complesso di appartamenti di nove piani costruito nel 2019 è stato ridotto in macerie. Ma alla cerimonia di apertura si lodavano le «qualità costruttive».

Terremoto, i condomini turchi venuti giù come carta e la caccia ai palazzinari in fuga. Fulvio Fiano su Il Corriere della Sera il 13 Febbraio 2023

Oltre 130 inchieste, centinaia sotto accusa. Crollati edifici di lusso, alcuni completati nel 2019. Un caso per Erdogan, che ha varato diversi condoni edilizi

Le pagine social (poi rimosse) del Rosenans Residanz ancora ne esaltavano la solidità - «costruita con i migliori standard di sicurezza» — mentre già c’era chi sperava di trovare i propri cari vivi sotto le sue macerie. I termoscanner rimandavano ai soccorritori ungheresi e romeni in azione in quell’area «macchie» di calore che potevano far pensare a sopravvissuti, anche se a 25 metri di detriti di distanza. Più verosimilmente erano corpi che si stavano spegnendo in quello che doveva essere il loro «angolo di paradiso», come recitava la pubblicità del Residence Rinascimento, ed è invece diventata la loro tomba di cemento armato.

Su questo dettaglio dei materiali però forse è meglio non sbilanciarsi, data la facilità con cui il complesso di 250 appartamenti spalmanti su blocchi gemelli da 12 piani ognuno in un’area da 10.500 metri quadrati è venuto giù. Le foto aeree lo fanno sembrare un gigante caduto con le spalle a terra mentre le sue caviglie, o fondamenta, sono rimaste bloccate al suolo. E insieme al bilancio dei morti, arrivato sforare quota 33mila, il caso delle torri costruite solo 10 anni fa con «una terrazza nel cielo» (altro slogan promozionale) ma senza nessuna elasticità da opporre all’urto del sisma , è ora diventato un caso scottante per il presidente Tayyip Erdogan.

L’arresto venerdì in aeroporto a Istanbul del costruttore Mehmet Yasar Cokun mentre avrebbe provato a fuggire in Montenegro con una valigia di soldi (per raggiungere il fratello Yalcin, progettista), è sembrata così una preda troppo facile da dare in pasto a chi ha fame di giustizia. Tanto che molti parlano apertamente di messinscena. La polizia ha diffuso anche foto e video della cattura, rilanciati in modo vorticoso sui social con commenti pieni di odio: «Mettete loro sotto le macerie». «Dio saprà punirvi». Ma anche di preoccupazione: «Non è abbastanza, sappiamo che ce ne sono tanti come loro», «Abbiamo già visto queste scena, fra qualche mese torneranno a costruire». Di certo, con le elezioni alle porte e gli indici di gradimento in calo Erdogan prova a smarcarsi dalla facile ma forse non inesatta associazione tra i palazzi anche di recente costruzione (ce ne sono alcuni del 2018 e 2019) e i suoi ripetuti condoni edilizi. Altri dodici tra costruttori e progettisti sono stati arrestati in queste ore con inchieste sbrigative, tra cui quello del complesso Polat Sintesi di Gaziantep. E 130 procuratori hanno avuto mandato di indagare su abusi, irregolarità, corruzione legata al boom edilizio che, ad attraversare in auto le 10 province del sisma, appare non aver risparmiato colline, coste, aree rurali, periferie, senza l’ombra di un piano regolatore. Nella sola città di Diyarbakir 33 perone sono indagate per aver modificato edifici, anche tagliando delle colonne.

Fino a lunedì scorso il Ronesans Residanz era considerato uno dei più esclusivi alloggi «verticali» della provincia di Hatay. Scelto da calciatori come il ghanese Christian Atsu, ex di Malaga e Chelsea, ferito ma estratto in buone condizione dalle macerie, o come il nazionale di pallamano Cemal Kütahya, che ci è morto assieme alla sua famiglia. Il Paìs riporta la storia di Sevtap Karaabdüloglu, una insegnante che dopo il terremoto di Van (2011) per il quale era finita a vivere in un prefabbricato, aveva scelto questo edificio proprio come garanzia di non dover rivivere quel trauma. Il conteggio ufficiale parla di 12mila palazzi caduti ma secondo l’Unione delle camere degli ingegneri turchi sarebbero 75mila quelli danneggiati in modo irreparabile. All’imprenditore che ha costruito il Ronesans è arrivata la solidarietà del sindaco di Antiochia, Lütfü Sava: «Un amico e un idealista. Se ha rispettato le norme edilizie? Probabilmente sì».

Lo scandalo degli abusi: arrestati i costruttori (grandi amici di Erdogan). Storia di Enza Cusmai su Il Giornale il 13 febbraio 2023.

Un neonato di sette mesi è stato estratto vivo dopo 140 ore nel distretto di Antakya, nella provincia meridionale turca di Hatay, una ragazzina ha resistito 146 ore prima di essere salvata, un uomo di 35 anni ben 149 ore, una donna 159. Anche due ragazze di 24 e 19 anni escono vive da un cunicolo dopo essere rimaste intrappolate fino a ieri sotto le macerie di un palazzo di 5 piani accanto al corpo quasi putrefatto della madre. Miracoli purtroppo sempre più sporadici dei soccorritori, che non bastano a mettere in ombra una catastrofe umanitaria. Il bilancio delle vittime è salito a quota 38.905mila, 29mila in Turchia e quasi 9300 in Siria.

«Ma sono numeri sottostimati e destinati come minimo a raddoppiare ammette il responsabile dei soccorsi delle Nazioni Unite, Martin Griffiths - Penso che sia il peggior disastro naturale degli ultimi 100 anni nella regione». Ma se c'è un peggio nel peggio, questo riguarda la zona siriana controllata dall'opposizione. «Finora abbiamo deluso le persone nel nord-ovest della Siria ammette il funzionario - Si sentono giustamente abbandonate. Alla ricerca di aiuti internazionali che non sono ancora arrivati. Il mio e il nostro dovere è correggere questo errore il più velocemente possibile». E un primo segnale è arrivato. Il valico di frontiera tra Turchia e Armenia è stato riaperto sabato per la prima volta in 35 anni per consentire il passaggio degli aiuti e per poter fare la conta delle vittime ampiamente sottostimate. E mentre si devono seppellire i morti, cominciano le mezze ammissioni e maldestri tentativi di colpire chi è stato partecipe a questa carneficina collettiva. Lo stesso presidente turco Erdogan, in visita nelle aree più colpite, ha spiegato alla tv turca che gli edifici danneggiati sono «centinaia di migliaia» e ha dato ordine di «punire» i costruttori che non hanno rispettato i protocolli di sicurezza.

Il ministero della Giustizia ha autorizzato quasi 150 procure locali a istituire «unità investigative sui crimini legati al terremoto»: i procuratori potranno avviare cause penali contro tutti i «costruttori e i responsabili» del crollo degli edifici che non rispettavano i codici esistenti, introdotti dopo un disastro simile nel 1999. Sono già stati emessi 113 mandati di arresto legati alla costruzione di edifici crollati nel micidiale terremoto di lunedì scorso. La polizia ha già arrestato almeno 12 persone, tra cui alcuni imprenditori edili. Uno di questi è Mehmet Yasar Coskun, responsabile della costruzione di un condominio di lusso di 12 piani con 250 appartamenti nella provincia di Hatay che è stato raso al suolo dal terremoto. L'uomo è stato bloccato all'aeroporto di Istanbul mentre cercava di raggiungere il Montenegro. Ma la rivalsa sui costruttori sembra un'operazione da scarica- barile tardiva.

Questi abusi edilizi sono stati permessi grazie alla corruzione tra i funzionari pubblici che hanno chiuso un occhio sui controlli e grazie alle manovre dello stesso governo che ha approvato un condono edilizio dietro l'altro per gli immobili costruiti in zone ad alto rischio che violavano le norme antisismiche. Ma Erdogan deve salvare la faccia perché il suo potere è in bilico dopo 20 anni di governo. Le elezioni presidenziali sono imminenti e la sua popolarità è crollata. Lui se la prende con i social «che diffondono notizie false e creano caos». E poi si aggrappa al fato. Durante una visita in un'area devastata dal terremoto, ha commentato alla tv turca: «Queste cose sono sempre successe. Fa parte del piano del destino».

Il vescovo dell'Anatolia: "Tutti sapevano dei pericoli". Storia di Serena Sartini su Il Giornale il 9 febbraio 2023.

Era appena tornato in Italia per alcune riunioni ed è stato subito raggiunto dalla notizia. Monsignor Paolo Bizzeti, vicario apostolico dell'Anatolia dal 2015, è scampato al terribile terremoto che ha colpito la Turchia tre giorni fa. Racconta al Giornale la situazione che si vive a Iskenderun. «È veramente tragica, si è trattato di un terremoto di grandi proporzioni che attraversa una striscia di terra molto grande. I cellulari sono scarichi, non c'è elettricità, non c'è acqua potabile né acqua corrente. La cifra delle vittime è destinata ad aumentare prosegue il vescovo - continuano ancora delle scosse e nella città dove vivo sono crollati la cattedrale cattolica e la chiesa ortodossa, un ospedale distrutto, e un altro è inagibile. È stato qualcosa di terrificante. La situazione è al limite».

Dopo la terribile scossa «continua l'emergenza acqua, continuano le difficoltà nelle comunicazioni. Ma c'è una bella collaborazione con le autorità governative locali e stanno arrivando soccorsi anche dall'estero. Tuttavia prosegue il vescovo - la strada è poco praticabile, perché ci sono state anche delle nevicate. Si continua a scavare, e purtroppo ci sono ancora nuovi morti. La situazione è ancora lontana dalla normalizzazione».

Video correlato: Il nuovo vescovo di Rimini Nicolò Anselmi si insedia: il benvenuto della città (Dailymotion)

Bizzeti racconta di non poter tornare presto in Turchia. «Seguiamo tutto da qua, insieme al mio team - spiega - stiamo lavorando per supportare la popolazione. Abbiamo immediatamente accolto in episcopio una cinquantina di persone, dando quello che avevamo, distribuendo generi di prima necessità, pasti caldi per 400 persone nell'arco di poche ore. Come Caritas Turchia sono poi partiti gli aiuti: subito generi alimentari e coperte per il freddo, ma stiamo organizzando un progetto più ampio con una raccolta di soldi. Stiamo organizzando i soccorsi per rispondere alle necessità crescenti della popolazione locale, senza distinzione di religione o etnia. Le prossime settimane saranno ancora più difficili».

Poi la denuncia del vicario apostolico. «Il sud della Turchia da molti secoli è una zona sismica, tutti lo sanno, ma poi quando arriva un terremoto siamo sempre scioccati e presi in contropiede».

La «mia» Turchia moderna e perduta nell’immane disastro. Il racconto della giornalista barese. Francesca Borri su La Gazzetta del Mezzogiorno il 09 Febbraio 2023

Avevamo un’idea così vaga della Turchia che quando i siriani ci dissero che per entrare ad Aleppo, la strada migliore era attraversare il confine da Antakya, sbagliammo volo: e finimmo ad Antalia. Cinquecento chilometri più a ovest. Arrivammo con le scorte di Aulin. Immaginando Antakya come il nostro estremo sud. Come una Calabria sperduta e selvaggia. E invece sbarcammo in questa città magnifica, raccolta intorno a un fiume: sembrava il Trentino - i ponti in legno, i parchi, i caffè sul corso. Le sere di musica. Da allora, per anni, ho vissuto tra Antakya, Gaziantep, Sanliurfa. Diyarbakir. In base alla linea del fronte.

La Turchia crollata con il terremoto è la Turchia per cui oggi sono ancora qui. La Turchia che mi ha nascosto dai jihadisti, mi ha curato da un proiettile e dal tifo, mi ha sfamato e riscaldato nei suoi campi profughi, e stretto forte nelle mie notti in bianco: la Turchia che mi ha salvato - quando ad Aleppo ero l’unica rimasta, e in Europa dicevano che non c’era guerra: che i morti erano manichini. La Turchia che non abbiamo mai capito, quella che ha chiesto l’adesione all’Unione Europea nel 1987, e in oltre trent’anni, solo uno dei 35 capitoli da discutere è stato chiuso, perché nella nostra testa, la Turchia è ancora arretrata: mentre Antakya è la città in cui in un’ora ho avuto residenza e codice fiscale.

La città in cui si va e torna da Istanbul in aereo a costo fisso, 30 euro, perché che paese è, altrimenti? Senza collegamenti? Guardate le tariffe di un Bari-Milano. Lecce-Roma. Provate ad andare e tornare. L’unica è il Flixbus.

Le zone ora in macerie sono il simbolo di Erdogan. Che è al potere da così tanto tempo, dal 2003, per una ragione molto semplice: perché non solo ha rimodernato la Turchia, ma in un mondo che va in direzione opposta, ha ridotto le disuguaglianze. Raddoppiando la classe media dal 20 al 40 percento.

Nel 2003, spesso c’erano ancora zone senza elettricità. Poi, certo, sono un simbolo nel senso che sono il simbolo anche della sua parabola: hanno ceduto gli edifici più nuovi, perché nonostante il rischio sismico, si costruisce comprando i certificati di staticità. O aspettando il primo condono. E con cemento che è sabbia. In Turchia l’edilizia è il regno del clientelismo.

Ha ceduto anche la sede dell’AFAD. L’agenzia per la gestione dei terremoti. Costruita in violazione delle sue stesse norme. Ma l’abbiamo imparato con il Covid. C’è la natura, sì. Ma poi c’è sempre l’uomo. C’è sempre la politica. E quindi Assad, con un’interpretazione letterale del diritto internazionale, ha bloccato gli aiuti, pretendendo che siano consegnati a Damasco, che siano consegnati all’unico governo riconosciuto: da cui poi non raggiungeranno mai le aree colpite, perché le aree colpite sono ancora sotto il controllo dei ribelli.

Perché comunque la guerra, in Siria, non l’ha notato nessuno: ma non è finita. Assad ha bombardato persino gli sfollati: tra la prima scossa e la seconda. A essere finita è solo la nostra attenzione.

L’ultimo dei miei amici siriani ancora vivo è ora sotto le macerie di Idlib. Dalle foto satellitari, è tutto grigio. Il caffè di Gaziantep in cui scrivevo, e anche quello di Sanliurfa. La panetteria di Diyarbakir con i miei biscotti preferiti. Il bazar con i piatti di rame per mio padre, e le nocciole, e il tè e le sciarpe. Quello che ogni volta che rientravo da Aleppo mi regalava la Nutella. Quello del pesce alla griglia: che quando ero lì a cena, cambiava disco e metteva Capossela. Della Turchia che mi ha aperto ogni porta, e che negli anni complicati seguiti all’inchiesta Regeni, mi ha rilasciato un tesserino stampa perché continuassi a viaggiare, e raccontare, della Turchia senza cui avrei cambiato mestiere non resta più niente. Ha ceduto anche parte della mia casa di Antakya. La guesthouse di Sorella Barbara, nella città vecchia. Che è insieme chiesa, moschea e sinagoga.

E da cui la governante, rispondendo al telefono da in mezzo alle macerie, mi ha detto: Oddio, ma sei a Kabul? Ma come? Qualsiasi cosa, dimmi se posso aiutarti.

Estratto dell'articolo di Marta Serafini per il “Corriere della Sera” l’11 dicembre 2023.

[…] Dopo lo choc del terremoto, il dolore della morte. Ma a molti, sia in Siria che in Turchia, dopo domenica notte non tocca nemmeno il sollievo delle lacrime. Resta allora solo la rabbia. «C’è chi i suoi cari nemmeno li può seppellire perché qui non sono arrivati gli aiuti», è il grido di Ahmed Mousa Khayat, ex studente di Aleppo oggi rifugiato in Germania che via WhatsApp scrive: «Questi giorni ce li ricorderemo ancora di più di quelli vissuti in guerra o durante le torture del regime. Non credo che il cuore possa reggere dopo aver anche solo visto, figuriamoci dopo averlo vissuto».

Si scavano le prime centinaia di fosse ad Afrin, fuori dai cimiteri perché dentro non c’è più posto. […] Ora sulle macerie aleggia lo spettro del colera che già in Siria da settembre fa registrare picchi preoccupanti. Mentre l’Organizzazione Mondiale della Sanità avverte che potrebbe diffondersi anche in Turchia a causa dell’assenza di acqua e delle temperature rigide.

 […] Gli operatori umanitari iniziano a lanciare appelli per l’invio delle body bags : non basteranno, mandatene quante più potete. […]Mancano i funzionari e i medici legali, perché arrivino da Istanbul e Ankara ci vuole tempo. E mancano gli imam per recitare almeno una preghiera nel primo venerdì dopo il terremoto. 

A Osmaniye, il cimitero ha esaurito lo spazio, mentre fuori Kahramanmaras, vicino all’epicentro del terremoto, trabocca di così tanti cadaveri che le lapidi sono blocchi di cemento o assi di legno o piccoli nastri neri appesi su un legnetto conficcato nella terra mentre la corrispondente della Bbc Lyse Doucet racconta di bare ricavate dagli armadi e dalle librerie e usate per più corpi. […] a Kahramanmaras, […] Durdu Mehmet Okutucu, vicedirettore dell’ospedale spiega: per immagazzinare i corpi stiamo usando i camion auto refrigeranti. […]

Storie di bimbi più forti del terremoto che ha cancellato ogni traccia delle loro famiglie. Il dramma dei bambini in Turchia, estratti dalle macerie senza genitori: i neonati non hanno nemmeno un nome. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Febbraio 2023

A una settimana dal violento terremoto che ha distrutto alcune città della Turchia e della Siria la conta dei morti accertati ancora non si arresta. Nella disperazione, da quel tremendo cumulo di macerie, arrivano storie di speranza. I protagonisti sono i bambini, più torti del terremoto, miracolosamente estratti vivi come se la vita fosse più forte di ogni disastro naturale. Bimbi che possono vivere tutta la vita che hanno davanti, tra loro ci sono anche neonati, delle cui famiglie il terremoto ha cancellato ogni traccia.

C’è Yavuz Canbaz che non ha ancora compiuto tre anni: per 159 ore è rimasto prigioniero nel buio, incastrato tra le pietre dellaa sua casa crollata nel distretto di Onikisubat. Quando i soccorritori lo hanno tirato fuori era ancora con il pigiamino, ricoperto di polvere. Ha guardato i soccorritori e ha sorriso. “Gli angeli ci hanno aiutato”, ha raccontato il soccorritore commosso con il bimbo tra le braccia che giocava con la sua mascherina. Poi c’è la storia di Aya, il “miracolo” di Afrin, neonata estratta viva dalle macerie nel Nord della Siria ancora attaccata al cordone ombelicale della madre. In un primo momento il direttore dell’ospedale che l’ha curata aveva detto di darla in affidamento. Poi uno zio si è fatto avanti e l’ha presa con se. Ora vivono in una tenda con lui e 11 altre persone, dice l’Ap.

Quattordici ore prima nel distretto di Adiyaman una ragazzina di 13 anni, Hanim, era stata estratta viva. Per ore i soccorritori l’hanno cercata e quando è venuta alla luce la prima cosa che ha detto ha strappato un sorriso ai presenti: “Grazie, però per favore non fatemi le punture. A volte tronano alla luce i neonati o bimbi di pochi mesi, come se fossero nati una seconda volta. E si continua a scavare contando le ore, sapendo che più si va avanti più sarà difficile trovare qualcuno vivo. Eppure di miracoli continuano ad avvenire. Bimbi salvati perché la mamma o il papà gli hanno fatto da scudo umano.

Dopo 128 ore recuperato un bimbo di due mesi ad Hatay, diventato il protagonista di una foto simbolo della tragedia turca e siriana con i suoi occhi azzurri. A 140 ore dal terremoto è stata la volta di un bimbo di 7 mesi, tirato fuori in buona salute. Il ministro della Salute turco Fahrettin Koka, ha condiviso il video di una bimba di 5 anni recuperata dai vigili del fuoco nella provincia di Hatay dopo 150 ore. Dopo 156 a genziantep le squadre dei soccorsi hanno tirato fuori Seminh, 9 anni, che ha scherzato quando i suoi salvatori gli hann chiesto cosa volesse: “Voglio comprare un telefono nuovo”.

Ci sono anche le volte in cui non è andata bene, purtroppo non poche. Come è successo ad Alì, un 15enne rimasto unico superstite sotto il crollo di una palazzina. Un gruppo di soccorritori ungheresi hanno trovato la sua famiglia morta ma lui era vivo e resisteva: “Abbiamo cercato di salvare il ragazzo scavando da quattro direzioni. Abbiamo comunicato Con Alì, lo abbiamo calmato. Abbiamo scherzato con lui, tenuto la sua mano, lo abbiamo fatto bene e incoraggiato. Durante l’operazione, l’amputazione delle gambe di Alì sembrava l’ultima possibilità per liberarlo. Abbiamo chiamato i medici dell’equipe olandese, ma lo spazio era troppo stretto, non è stato possibile intrevenire neppure in quel modo. Alì alla fine si è addormentato per sempre. Non siamo riusciti a salvarlo. Alì non ti dimenticheremo mai”.

Sono tantissime le storie di bimbi che ce l’hanno fatta ma non i loro genitori. Estratti vivi ma rimasti soli al mondo. Secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, le informazioni sul numero esatto di bambini rimasti senza genitori non sono ancora chiare. Secondo il ministero della Famiglia e dei servizi sociali turchi, venerdì non era possibile raggiungere le famiglie di 263 bambini estratti dalle macerie in Turchia. Di questi, 162 continuano a ricevere cure in ospedale, mentre 101 erano stati trasferiti nelle unità competenti del ministero e ricoverati in istituto. Impossibile invece avere qualche dato certo dalla Siria.

Gli orfanotrofi in Turchia sono pochissimi, ancora meno in Siria. Solitamente i bambini rimasti soli anche per altre cause (come la guerra ad esempio), vengono adottati da altri parenti in vita. E per questo è importante che vengano percorse tutte le strade per arrivare alle famiglie. Come succede spesso durante le calamità questi bimbi rimasti soli sono vulnerabili, fragili e facili prede di circuiti di violenza, sfruttamento e abusi compreso il rischio tratta.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

(ANSA il 18 febbraio 2023) -  Ha superato i 45 mila morti il bilancio delle vittime del terremoto del 6 febbraio in Turchia e in Siria, secondo un ultimo bilancio pubblicato sul sito della Reuters. Bilancio destinato ad aumentare ulteriormente, con numerosi dispersi ancora sotto le macerie di 264 mila edifici distrutti.

 Le vittime in Turchia sono 39.672, 5.800 in Siria, da dove da giorni non si hanno notizie. Ieri tre persone sono state estratte vive dalle macerie e nelle moschee di tutto il mondo si è pregato per i morti nel terremoto, molti dei quali non hanno potuto ricevere i riti di sepoltura data l'enormità del disastro.

Da tg24.sky.it il 18 febbraio 2023.

Non c'è, purtroppo, il lieto fine sulle sorti di Christian Atsu, attaccante ghanese di 31 anni dell'Hatayspor. L'ex Chelsea, Newcastle e Porto è una delle tantissime vittime del tragico terremoto che ha colpito e devastato Turchia e Siria il 6 febbraio. […]

 Inizialmente Atsu era stato dato per salvato e poi nuovamente dichiarato disperso: si trovava insieme a centinaia di persone ancora sotto le macerie del residence di 12 piani in cui alloggiava ad Antiochia. La moglie qualche giorno fa aveva lanciato un appello: "[…] Chiedo al club Hatayspor, alle autorità turche e al governo britannico di inviare attrezzature per estrarre le persone dalle macerie, come il mio partner e padre dei miei figli. Prego ancora e credo che sia vivo. Hanno bisogno dell’attrezzatura per tirarli fuori, non possono andare così in profondità senza l’attrezzatura. E il tempo sta per scadere".

Estratto dell’articolo di Alessio Pediglieri per fanpage.it il 18 febbraio 2023.

[…] le indiscrezioni […] narrano una vicenda legata sempre più a doppio filo con la fatalità: se Atsu non avesse segnato al Kasimpasa il gol che ha permesso alla sua squadra, l'Hatayspor, si sarebbe salvato dal sisma. A rivelarlo è stato il presidente del club, Fatih Ilek che ha spiegato come l'ex Chelsea e Porto si sentisse oramai a disagio e ai margini del progetto tecnico.

 "Dopo la partita di Kas?mpasa, stava per andare all'estero per raggiungere la sua famiglia. Nella partita di Kas?mpasa, Atsu è stato assoluto protagonista segnando all'ultimo istante ed è stato festeggiato in campo e nello spogliatoio. In preda all'entusiasmo collettivo" continua Fatih Ilek "mi ha detto: "Non parto adesso, resto ancora un po' qui".

"Mi aveva chiesto di potersene andare" confessa il numero uno dell'Hatayspor, "aveva alcune offerte e l'allenatore gli aveva dato via libera". Poi il gol che ha cambiato tutto: "Dopo aver segnato la rete della vittoria, ha voluto festeggiare. Aveva un volo prenotato per le 23, il biglietto già in mano per tornare in Francia dalla sua famiglia ma lo ha annullato decidendo di partire il giorno dopo. Poi, alle 4 c'è stato il terremoto che lo ha colpito nel suo giorno più felice". Una storia assurda che ha trasformato un momento di gioia in una autentica tragedia, perché Atsu aveva deciso di stare insieme ai suoi compagni, ospite di Sam Adekugbe, l'ultimo a vedere vivo il ghanese e che ha confermato che era con lui quella sera, per poi tornare a casa poche ore prima del sisma. Da lì in poi,  il silenzio.

In Italia.

Le Lezioni.

Campi Flegrei.

L’Aquila.

Le Lezioni.

Terremoti e dissesto idrogeologico: l’Italia impari dagli errori e si doti di un codice delle ricostruzioni. Maurizio Di Fazio su L’Espresso il 23 febbraio 2023.

Si muove la società civile per chiedere al governo di unificare e semplificare le norme sull’edilizia post-calamità. Perché per tutelare il nostro territorio fragile occorre puntare sulla prevenzione. Per evitare l’ennesima tragedia

L’Italia è un territorio vulnerabile, flagellato da terremoti, alluvioni e frane. Nell’ultimo mezzo secolo sono state sei le calamità sismiche devastanti. Ma non è solo colpa della geologia e del caso. È come se non imparassimo mai dall’ultima tragedia. Dai nostri errori. Bisognerebbe uscire dalla cultura infantile dell’emergenza per entrare nell’età adulta della prevenzione. Con una politica nazionale di riduzione del rischio, l’unica strategia spendibile specie alle nostre latitudini. Si risparmierebbero anche fior di miliardi. Tutte speranze, però, eternamente vane. Prova adesso a dare la sveglia un gruppo di organizzazioni della società civile riunite nella campagna #SicuriPerDavvero, intrapresa nel 2019 da ActionAid. Con un white paper, un documento d’indirizzo rivolto al nuovo governo per dotare il Belpaese di un codice delle Ricostruzioni. Un unico, organico strumento giuridico che faccia tesoro delle esperienze passate e semplifichi, omogeneizzandolo, il groviglio di discipline preesistenti.

Dopo una falsa partenza. Come scrive ActionAid Italia, infatti: «Un anno fa, il 21 gennaio 2022, il consiglio dei ministri aveva approvato una legge delega in tal senso. Un passo storico, richiesto e atteso per garantire equità, velocità e centralità delle persone e dei territori nei processi di ricostruzione e ripresa che riguardano gran parte degli italiani». Purtroppo il percorso si è interrotto col tramonto della precedente legislatura «e nessun passo è stato ancora fatto» dall’esecutivo subentrato. Serve ricostruire rapidamente, ma bene, per evitare recidive future.

«L’assenza di un quadro normativo di riferimento porta con sé enormi difficoltà e lentezze nell’identificare ruoli, responsabilità e procedure adeguate, nonché gravi ripercussioni sulla vita dei cittadini colpiti», aggiunge la vicesegretaria Katia Scannavini. Senza un codice delle Ricostruzioni, sostiene l’organizzazione, è come se si ricominciasse sempre daccapo, affastellando commi e prassi a ogni nuovo disastro e successiva (pachidermica) ricostruzione. Nonostante i rischi siano ben mappati e la ciclicità delle catastrofi sia presente a chiunque.

Ogni cent’anni si verificano oltre cento terremoti di magnitudo tra 5 e 6, dai cinque ai dieci superiore a 6. Dal Belice a oggi, si sono contati più di 5 mila morti. Le scosse telluriche sono costate alle casse dello Stato, negli ultimi undici anni, 40 miliardi di euro. Il 36 per cento dei Comuni è in zona sismica 1 e 2, dov’è altamente probabile o plausibile che avvengano eventi. Vi vivono 22 milioni di persone, per un totale di sei milioni di edifici, il 56 per cento dei quali realizzato prima del 1970.

A questo si sommano i fenomeni meteorologici estremi, lievitati del 55 per cento nel 2022. Frane, alluvioni ed erosione costiera, assicura l’Ispra, minacciano addirittura il 94 per cento dei nostri centri abitati. Complici l’abusivismo e la cementificazione. Non c’è più tempo da perdere.

Campi Flegrei.

Napul’è mille scosse: il racconto dai Campi Flegrei. Redazione su L'Identità il 3 Ottobre 2023 

Napul’è mille scosse: la terra che trema, la paura, il futuro: il racconto dai Campi Flegrei – di GIOACCHINO MARINO

Quando la terra trema, la prima a raggiungerti è la paura, indeterminata e irrazionale. Una sgradevole sensazione di precarietà di fronte alla quale perdi la capacità di organizzare una reazione. Magari sei in casa, e quel luogo sinonimo di sicurezza perde i suoi connotati soliti diventando una potenziale trappola mortale. Poi la realtà si frammenta in istanti separati l’uno dall’altro e scanditi dal rumore opprimente delle vibrazioni che scuotono le pareti, le finestre, gli oggetti quotidiani. Scappare è la prima reazione logica, ma quanto sono sicure le scale, e la memoria storica dei comportamenti da adottare in questi casi complica la gestione delle decisioni. Allora attendi che termini quello sconvolgimento dei piani, che la casa si fermi, che le pareti tornino solide, anche questa volta è passata, anche questa volta la normalità fa il suo incerto ritorno lasciandoti solo la scia di un malessere che incombe e stenta a diluirsi.

A Napoli, come purtroppo nella maggior parte delle regioni italiane, il terremoto lo conosciamo bene. Chi non è più giovanissimo lo ha vissuto in prima persona e quell’esperienza ha in qualche modo segnato la sua adolescenza o la sua giovinezza, chi è nato dopo l’Ottanta, lo ricorda attraverso le parole dei genitori, dei nonni, che più di una volta gli hanno raccontato quella sera indimenticabile nella sua tragica friabilità. Ma al terremoto non ci si abitua mai. E seppure hai rinnovato la liturgia del panico quando la terrà tremò in Abruzzo, rimbombando con un’eco profonda anche a Napoli, adesso che torni a scontrarti con questa dimensione è come se fosse la prima volta. A Napoli si è abituati a vivere sotto l’ombra dell’icona più diffusa e allo stesso tempo più temibile: il Vesuvio. Piantato lì a vista da ogni angolo ti rammenta che, lui, se vuole, può seppellirti in pochi momenti, lui è quel pericolo che si staglia fiero a completare il paesaggio di ogni cartolina, e rappresenta il maggior rischio che aleggia sul destino urbano. E tu da sempre lo guardi con timore reverenziale sperando che resti assopito nella sua decennale imperturbabilità. E invece il pericolo ti arriva alle spalle, dai Campi Flegrei, certo geologicamente collegati, ma non sempre nell’immaginario comune.

E così al ritorno dalle vacanze estive, quando la noia del rientro contende lo spazio mentale alla volontà di ricominciare l’anno lavorativo, ti ritrovi catapultato in una emergenza che giorno dopo giorno assume connotati sempre più plumbei e soffocanti. La frequenza delle scosse che si avvertono in città da qualche settimana è tale, che hai la precisa percezione che qualcosa, lì sotto stia pericolosamente cambiando. Certo la vita deve continuare, ma lo sai che è diverso se per strada senti discorsi basati su intensità della scala Richter, su chi è sceso in strada o piuttosto è rimasto a sedare la paura in casa, se i genitori anziani si siano spaventati ed erano soli in casa… poi l’argomento slitta sui piani di evacuazione e in quale regione ti tocca riparare in caso di emergenza. La realtà è mutata se questi discorsi hanno soppiantato le prodezze di Osimhen e Kvaratskhelia, e ascolti più persone discutere di geologia flegrea che della partita Real Madrid-Napoli. Una lamina di disagio, sottile ma tangibile, permea ogni azione, ogni vicissitudine del giorno, ogni progetto che hai. E quando le immagini della cronaca ti restituiscono scene di persone in strada, di calcinacci caduti, di strade dissestate a causa dell’ultima forte scossa, quel disagio cresce, si assomma ai ricordi e alla paura di un futuro che improvvisamente diviene incerto e imponderabile. Non mancano gli abituali cavalieri della retorica che come sempre invocano le inefficienze delle autorità pubbliche, certo la terra trema governo ladro, ma in realtà forse è ad altre autorità metafisiche che dovresti affidare le tue lamentele. E non hai cognizione di cosa accada, provi a informarti anche se forse non lo desideri veramente, perché sai che in questi eventi naturali la possibilità di intervento umano è nulla; e gli esperti si moltiplicano e la televisione propaga innumerevoli opinioni più o meno scientifiche che ben lungi dal chiarire la situazione, si sovrappongono in una personalizzata ricerca di visibilità. Tutto questo da un giorno all’altro è il presente della città di Napoli; ma domani è un altro giorno, per citare antichi dogmi cinematografici, e in fondo se ben rifletti, la precarietà non è altro che l’elemento portante della vita stessa.

Il volto di questa terra e quegli errori ripetuti a partire dal sisma dell’80. Storia di Roberto Saviano su Il Corriere della Sera martedì 3 ottobre 2023.

Avevo solo un anno quando nel che fece tremare la terra in Campani a. Non conservo alcuna memoria, se non quella indotta dai racconti di mia madre, delle notti trascorse in auto, passate a mangiare formaggini e omogeneizzati. Eppure, nonostante non abbia alcuna memoria di quei momenti, ricordo invece perfettamente tutto ciò che è avvenuto dopo, perché ha cambiato radicalmente non solo il volto della Campania, ma anche la sua storia e il destino dei suoi abitanti, per sempre.

Quasi tremila i morti nell’80

Nel 1980, in novanta secondi, , uccise quasi tremila persone, ne ferì quasi novemila e causò la perdita della casa per quasi trecentomila persone. Un danno inimmaginabile, una ferita profonda per una regione che non era preparata a reggere l’urto. Ma quale regione lo sarebbe stata? Nessuna, come nessuna regione italiana è preparata a sostenere le calamità naturali, come nessuna regione italiana è in grado di arginare le infiltrazioni della criminalità organizzata, sempre pronta a speculare.

I fondi per la ricostruzione del terremoto dell’Ottanta arrivati, come si suol dire, «a pioggia» — anche questa immagine evoca la totale impreparazione e in parte anche l’arbitrio con cui sono stati erogati e distribuiti — hanno fatto da pietra angolare, da asse portante, da pilastro incrollabile per il salto di qualità delle organizzazioni criminali campane che, di fatto, sono state in larga parte coinvolte nella ricostruzione. E, in una terra in cui il sistema clientelare era prassi sin dai tempi di Giovanni Giolitti (vale la pena ricordare che proprio per questo Gaetano Salvemini lo definì «Ministro della Mala Vita» e ne fece argomento per un libro-inchiesta che mappava lo scambio continuo di favori e la sudditanza in cui vivevano dei cittadini del Meridione d’Italia), dopo il terremoto divenne norma e pratica diffusa.

Ricostruzione e voti

In poche parole, ciò che prima era consuetudine ma non sistema, dopo il terremoto dell’Ottanta divenne sistema. Per avere lavoro, casa e soprattutto per accedere ai fondi per la ricostruzione, dopo il terremoto bisognava «votare bene», perché solo se votavi bene, il consigliere giusto, la tua casa rientrava in quelle destinatarie dei fondi. E ci fu bisogno di «votare bene» per molto tempo perché per decenni, in tante zone della Campania, abbiamo convissuto con palazzi puntellati con il legno e i metalli delle impalcature a sostenere facciate, a rafforzare archi, a rendere sicure scalinate. Tutta la mia adolescenza è stata attraversata da questa estetica. Un’estetica post-bellica.

La nuova emergenza ai Campi Flegrei

Oggi i Campi Flegrei vivono nell’ansia quotidiana una nuova emergenza, che riporta alla memoria i traumi vissuti quando, proprio a causa del bradisismo, già negli anni Ottanta migliaia di persone furono costrette a lasciare le loro abitazioni.

Mi stupisce sempre quando si associa il racconto della terra che trema a Napoli al mito del vulcano, quando si tenta di raccontare la terra che trema attraverso immagini mutuate dalla letteratura. A Napoli, nei Campi Flegrei, il terremoto non ha nulla di mitologico e letterario, quanto meno non ora, non con l’emergenza in corso. Al momento c’è il dramma vero di persone che hanno visto cosa è accaduto a molte altre prima di loro. Diventa finanche un rischio far fare una valutazione della propria abitazione perché se il tecnico consultato dovesse suggerire un allontanamento, quale sarebbe la possibile soluzione? Dove ci si potrebbe trasferire? I piani di evacuazione sono pronti, ma la destinazione?

Persone, non numeri

Questo è il nodo di tutto. In queste settimane si è molto discusso su come affrontare il degrado di alcune aree della periferia di Napoli, raramente si ricorda che molte di queste zone sono state adibite frettolosamente a dimora per decine di migliaia di persone proprio in conseguenza di eventi naturali che hanno reso necessaria un’evacuazione e uno spostamento coatto. Un quartiere che nasca da uno sfollamento di massa è giocoforza un ghetto. E questi ghetti, tirati su frettolosamente, privi dei servizi essenziali — dalle farmacie alle stazioni di polizia, dai cinema ai teatri alle palestre, finanche privi di edifici scolastici — destinati a ospitare decine di migliaia di persone, sono diretta conseguenza di emergenze gestite male. E diventano a loro volta causa di problemi ancora più gravi. Abbiamo dunque sul tavolo tutti gli strumenti per comprendere che l’emergenza flegrea va affrontata, questa volta, pensando che ci sono persone da tutelare nel caso in cui la situazione dovesse diventare ancora più insostenibile. Nessuna «transumanza», non numeri, ma persone che stanno vivendo con una delle peggiori paure che possano esserci, quella della terra che trema sotto i propri piedi nell’impossibilità di poter trovare una soluzione.

Chi aspetta la tragedia

L’emergenza bradisismo a Pozzuoli è costante e quotidiana, ma dobbiamo come comunità superare la logica della presa in carico solo quando è impossibile ignorare. Dobbiamo abituarci a superare il concetto secondo cui la prevenzione è una inutile spesa di risorse e comprendere che chi aspetta la tragedia lo fa solo per speculare. Perché in emergenza non ci sono più regole, ma solo eccezioni. E in emergenza le mafie prosperano.

L’Aquila.

L’Aquila, il Comune chiede i soldi indietro ai familiari di 27 vittime del terremoto. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 18 gennaio 2023.

Il Comune de L’Aquila ha chiesto il risarcimento delle spese legali alle famiglie delle 27 vittime del crollo della palazzina di via Campo di Fossa avvenuto nel contesto del terremoto del 6 aprile 2009, il quale causò complessivamente la morte di 309 persone. La richiesta segue la controversa sentenza dello scorso ottobre (la n. 676 del 2022), nella quale veniva stabilita una responsabilità al 30% delle vittime per la loro morte a causa della “condotta incauta” tenuta nel decidere di rimanere a dormire dopo le due scosse lievi che precedettero l’evento sismico devastante delle 3.32.

Nel testo della sentenza si legge che “È infatti fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime ai sensi dell’art. 1227, I comma c.c., costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire – così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile, concorso che, tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi in misura del 30% (art. 1127 | co. c.c.), con conseguente proporzionale riduzione del credito risarcitorio degli odierni attori”. Nell’emettere la sentenza, il Tribunale Civile dell’Aquila condannò i Ministeri e gli eredi del costruttore della palazzina, imponendo loro il pagamento dei risarcimenti e delle spese di giudizio a favore dei familiari delle vittime, ma assolse il Comune da qualsiasi responsabilità. In base a ciò, il Tribunale ha imposto alle famiglie il rimborso delle “spese di lite” al Comune, per il valore di 13.430 euro a testa.

Di fatto, quindi, il Comune (guidato dal sindaco di FdI Pierluigi Biondi) gode dell’appoggio giuridico per avanzare la richiesta, ma anche della “facoltà di non farlo” trattandosi di una richiesta “inopportuna e irrispettosa”, come sottolineato con forza da Simona Giannangeli (capogruppo di L’Aquila coraggiosa) in un’interrogazione depositata in consiglio comunale. Il Comune ha inoltre presentato ricorso in Appello per quanto riguarda le spese da pagare (senza attendere il ricorso dei familiari delle vittime, che possono impugnare la sentenza dello scorso ottobre) e chiesto loro, tramite una lettera inoltrata dai propri legali, il pagamento delle spese legali nella misura di oltre 18 mila euro (18.640,40). Da un lato, l’Avvocatura del Comune de L’Aquila parla di un “atto dovuto”, in quanto “la pubblica amministrazione è obbligata a riscuotere i propri crediti”, pena l’incorrere in un “danno erariale”. Dall’altro, la fretta del Comune nel riscuotere le somme appare «ingiustificata», dichiara Maria Grazia Piccinini, avvocato e madre di una delle studentesse morte nel crollo: «Appare solo come un inutile ed inopportuno accanimento verso le famiglie delle vittime che si vuole perseguitare ancora, oltre al lutto che hanno subito e tutte le angherie che hanno dovuto sopportare in questi anni». [di Valeria Casolaro]

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La regola dell’ozono. Storia di Massimo Gramellini Il Corriere della Sera il 10 gennaio 2023.

L’annuncio che il buco dell’ozono si sta chiudendo ha riportato a galla i miei vent’anni, quando il buco dell’ozono era la paura del momento. Ricordo un articolo che spiegava in modo inesorabile come il futuro ci avrebbe riservato l’aumento delle malattie della pelle e l’estinzione dei poveri coccodrilli. Perciò la meraviglia di questa notizia è duplice: mentre si ricompatta il manto dell’ozono, si strappa finalmente quello della rassegnazione che ci ha avvolto negli ultimi tempi. Non è vero che qualunque sforzo sia inutile e qualunque esito casuale, né che la vita assomigli a un treno senza guidatore lanciato a fari spenti nella notte. Allora le aziende produttrici rinunciarono subito ai famigerati clorofluorocarburi, capaci di bucare lo strato di ozono che si interpone tra noi e i raggi del sole, e a distanza di quarant’anni quella scelta ha dispiegato i suoi benefici effetti. Quindi non solo è possibile cambiare, ma cambiare serve davvero a qualcosa.

A una condizione, però. Il protocollo di Montreal del 1987, sottoscritto da quasi tutte le nazioni del pianeta, non si limitò a mettere al bando le sostanze chimiche dannose, ma concesse all’Onu gli strumenti per controllare il rispetto dell’accordo e sanzionare i trasgressori. La prossima volta che qualcuno mi dirà che non si può fare più nulla per fermare la catastrofe ambientale in corso, gli risponderò: forse si potrebbe copiare quel che si fece allora.

(ANSA il 9 gennaio 2023) Il buco nello strato di ozono, un tempo il pericolo ambientale più temuto per l'umanità, dovrebbe essere completamente sparito nella maggior parte del mondo entro due decenni, grazie all'azione decisiva da parte di molti governi di eliminare gradualmente le sostanze che riducono lo strato. 

Lo afferma l'Onu, scrive il Guardian. La perdita dello strato di ozono, che ha rischiato di esporre le persone ai dannosi raggi ultravioletti del sole, è sulla buona strada per essere completamente recuperata entro il 2040 in gran parte del mondo, mentre si ricreerà completamente entro il 2045 sull'Artico e entro il 2066 sull'Antartide.

Dopo l'allarme per la perdita di ozono negli anni '80, lo strato di ozono è migliorato costantemente sulla scia del protocollo di Montreal del 1989, un accordo internazionale che ha contribuito a eliminare il 99% delle sostanze chimiche che riducono lo strato di ozono, come i clorofluorocarburi (CFC) che erano utilizzati come solventi e refrigeranti. L'Onu afferma che l'azione intrapresa sullo strato di ozono è stata anche un'arma contro la crisi climatica: i CFC sono anche gas serra e il loro uso continuato e incontrollato avrebbe innalzato le temperature globali di ben un grado centigrado entro la metà del secolo, peggiorando una situazione già disastrosa in cui i gas che riscaldano il pianeta non stanno ancora diminuendo.

 "L'azione sull'ozono costituisce un precedente per l'azione per il clima", ha affermato Petteri Taalas, segretario generale dell'Organizzazione meteorologica mondiale, che oggi ha presentato il rapporto sui progressi, stilato ogni quattro anni. "Il nostro successo nell'eliminare gradualmente le sostanze chimiche che consumano ozono ci mostra cosa si può e si deve fare con urgenza per abbandonare i combustibili fossili, ridurre i gas serra e quindi limitare l'aumento della temperatura".

La risposta globale unificata alla gestione dei CFC significa che l'accordo di Montreal dovrebbe essere considerato "il trattato ambientale di maggior successo nella storia e offre incoraggiamento affinché i Paesi del mondo possano riunirsi e decidere un risultato e agire di conseguenza", secondo David Fahey, uno scienziato della National Oceanic and Atmospheric Administration, autore principale della nuova valutazione.

 I progressi non sono sempre stati lineari: nel 2018 gli scienziati hanno rilevato un aumento dell'uso di CFC, rintracciato in Cina e infine risolto. Nel frattempo, la sostituzione dei CFC con un altro gruppo di prodotti chimici industriali, gli idrofluorocarburi (HFC), è stata problematica in quanto gli HFC sono gas serra, e quindi è stato necessario un ulteriore accordo internazionale, raggiunto a Kigali, per frenarne l'uso.

Il buco dell’ozono si sta finalmente riducendo. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 10 gennaio 2023.

Dopo anni di discussioni e preoccupazioni ambientali, il buco dell’ozono dovrebbe presto chiudersi. Almeno secondo le Nazioni Unite, a parere delle quali entro il 2040 potrebbe sparire completamente nella maggior parte del mondo. Merito delle strategie adottate dai Paesi negli ultimi decenni dopo l’adozione del Protocollo di Montreal del 1987, tra cui la diminuzione dell’utilizzo di sostanze chimiche dannose come i clorofluorocarburi, solitamente contenuti in bombolette spray, sistemi di refrigerazione e condizionatori. La massima estensione raggiunta negli anni dal buco dell’ozono si è registrata a settembre del 2000, quando la sua superficie ha toccato i 28,4 milioni di km², un’area equivalente a quasi sette volte il territorio dell’UE. Da quel momento in poi, le sue dimensioni si sono tendenzialmente ridotte.

Estensione del buco nell’ozono dal 1979 al 2022

Il buco era stato scoperto dagli scienziati nel 1985, due anni prima del protocollo: dopo la sua adozione lo strato di ozono è migliorato costantemente e il 99% delle sostanze chimiche responsabili del suo assottigliamento sono state gradualmente eliminate. La chiusura del buco dell’ozono ha avuto e sta avendo per questo motivo un effetto a catena positivo sul riscaldamento globale, principalmente perché alcune delle sostanze chimiche dannose eliminate sono considerate gas serra piuttosto nocivi.

Per l’ONU, se le attuali politiche continuano ad essere mantenute, lo strato di ozono tornerà ai valori del 1980, praticamente prima che comparisse il buco. In ogni caso, se per la maggior parte della Terra questo accadrà nei prossimi due decenni, l’Antartide dovrà aspettare il 2066: qui il danno è stato piuttosto grave, il peggiore. Per l’Artico invece è previsto che il ripristino accada attorno al 2045.

Area massima del buco dell’ozono/Fonte Copernicus

Ma perché negli anni il buco dell’ozono ci ha fatto preoccupare? Il motivo principale è la sua composizione e funzione. Lo strato di ozono (o scudo di ozono) è una “regione” sottile della stratosfera terrestre, situato tra i 15 km e 30 km sopra la Terra, che assorbe la maggior parte della radiazione ultravioletta del Sole. Se questa si assottiglia o si fora, le radiazioni fino a quel momento bloccate sono libere di raggiungere la superficie terrestre, causando numerosi danni. I raggi ultravioletti, infatti, possono danneggiare il DNA e causare scottature solari, aumentando il rischio, dopo ripetute e lunghe esposizioni, di ammalarsi di cancro della pelle.

Nonostante per Meg Seki, segretaria esecutiva del Segretariato per l’ozono delle Nazioni Unite, il fatto che il recupero dell’ozono sia sulla buona strada «è una notizia fantastica», non bisogna assolutamente abbassare la guardia. Gli esperti dicono che il progresso, continuo fino ad ora, potrebbe rapidamente invertire la rotta se ostacolato da scelte sbagliate. [di Gloria Ferrari]

Cop28, bufera sul petrolio. "Senza si torna alle caverne". Storia di Francesco De Palo su Il Giornale il 4 dicembre 2023. 

Una dichiarazione studiata a tavolino che potrebbe spazzare via tutti gli impegni alla base della Cop28 quella del sultano Ahmed al Jaber, ministro dell'Industria degli Emirati Arabi e amministratore delegato della compagnia petrolifera statale degli Eau e presidente del vertice. «Senza petrolio di torna alle caverne», ha detto alla fine dell'evento che ha radunato a Dubai i maggiori leaders mondiali, aggiungendo che nessuna scienza sostiene che l'eliminazione graduale del petrolio risolverà i problemi del clima. Parole che hanno suscitato la reazione indignata del numero uno dell'Onu, Antonio Guterres, che ha definito i commenti di Jaber rilasciati durante un dibattito online con l'ex leader irlandese Mary Robinson, «incredibilmente preoccupanti e al limite della negazione del clima», mentre da più parti si chiedono le dimissioni di Al Jaber. Che però ha raddoppiato la dose.

Secondo il presidente della Cop28 il valore dell'1.5 «è la mia stella polare e, nella mia mente, la riduzione e l'eliminazione graduale dei combustibili fossili è inevitabile, è essenziale, ma dobbiamo essere reali, seri e pragmatici al riguardo». Sin dai primi giorni del meeting di Dubai, lo staff di Al Jaber aveva diffuso una serie di annunci per mettere in serio dubbio l'obiettivo dei negoziati sui fossili. Nello specifico ha presentato un ordine del giorno definitivo e approvato nella sessione di apertura della conferenza che risultava in netto contrasto con i negoziati svolti a Bonn nei mesi scorsi.

Non solo ministro, Al Jaber ricopre anche la carica di Ceo della compagnia statale Adnoc, status che lo mette in una posizione di potenziale conflitto, rivendicano i suoi critici, dal momento che non si sa mai in quale veste parli. A suo difesa si è schierato un portavoce della Cop28 secondo cui comunque i combustibili fossili dovranno svolgere un ruolo, seppur piccolo, nel futuro sistema energetico: «Ancora una volta si vogliono minare i risultati tangibili della presidenza dando una falsa visione della nostra posizione e dei nostri successi fino ad oggi». Ma al di là della difesa d'ufficio il dato sembra tratto.

In questi anni il processo di eliminazione graduale dei fossili è zavorrato da una mancanza di chiarezza sui termini e sul ruolo che le tecnologie dovranno avere per abbattere le emissioni. In questo modo concretizzare gli obiettivi degli accordi di Parigi non solo richiederà una completa eliminazione graduale dei combustibili fossili, ma anche una visione d'insieme che, dopo le parole di Al Jaber pare non ci sia.

Fino ad oggi si contano 118 paesi dei cinque continenti uniti nel sostenere di voler triplicare la diffusione delle energie rinnovabili e al contempo l'eliminazione graduale dei combustibili fossili, compresi gli Usa, che sono i maggiori produttori mondiali di petrolio e gas. Contrari invece sono Cina, Russia e Arabia Saudita. Tre anni fa in occasione della Cop21 di Glasgow era passata la mozione per ridurre gradualmente l'uso dei fossili, ma alla fine quella frase messa in calce ai documenti ufficiali era stata modificata in «eliminazione graduale». Ieri il sultano emiratino si è mantenuto sulla stessa linea.

Tutti giù per Alterra. Giovanni Vasso su L'Identità il 5 Dicembre 2023

Segnatevi questo nome: Alterra. È il nuovo fondo che gli Emirati Arabi Uniti hanno lanciato dopo la Cop28 per dare una mano al Sud del mondo a decarbonizzarsi. Il mondo è alle prese con le aporie e le contraddizioni di lasciar presiedere la fiera delle vanità green a un sultano, Ahmed al Jaber, che di professione fa il petroliere e che, chiaramente, non poteva non far notare all’assemblea che “senza petrolio” si tornerebbe tutti “nelle caverne”. Al di là delle disquisizioni paleoantropologiche che ragionevolmente lasciano intendere che mai nessuno, nemmeno in Neaderthal, abitassero nelle grotte, il tema vero è un altro. Ed è decisivo. Gli arabi hanno costituito e lanciato un fondo dotato di 30 miliardi di dollari grazie al quale ambiscono a sostenere l’implementazione delle tecnologie verdi in tutto il mondo. Con un occhio particolare all’Africa, all’Asia, al Sudamerica. A quelle zone che, con ciò che rimane del tronfio orgoglio di chi, fuori tempo massimo, ritiene di portare ancora addosso il kiplinghiano fardello dell’uomo bianco (e magari europeo…) sono etichettate come Sud del mondo. E su cui le potenze emergenti lavorano perché, a certi livelli, il denaro è sì importante ma esercitare un’influenza su scala geopolitica lo è ancora di più.

La priorità di Alterra, però, non sarà quella di dare una mano a chi è meno attrezzato. Per loro, infatti, saranno destinati, per il momento, “solo” i cinque miliardi finanziati alla divisione Transformation. Il grosso della dotazione finanziaria del fondo privato che, allo stato attuale, è il più grande del mondo di quelli legati alla transizione green, sarà dedicato allo sviluppo di tecnologie, di “investimenti climatici su larga scala”. Si chiama Acceleration e punta al bersaglio grosso: alle tecnologie, alla ricerca e all’attuazione di modelli di sviluppo sostenibili e verdi. Per questo obiettivo, sceicchi e sultani hanno messo sul tavolo qualcosa come 25 miliardi di euro. Ma è solo l’inizio. L’obiettivo, infatti, è quello di movimentare almeno 250 miliardi di dollari da oggi al 2050. Una potenza di fuoco inimmaginabile al cui confronto gli investimenti Ue, a cui rimane solo la presunzione di guidare un processo globale epocale, sfigurano come una fionda di fronte a una Grosse Berthe. Gli avversari degli Emirati non sono a Bruxelles. Ma a Riyad. Nell’ambito del programma Vision 2030, il principe Mohamed bin Salman ha fissato gli obiettivi verdi dell’Arabia Saudita: emissioni zero entro il 2060, l’istituzione di Saudi Green Initiative, già nell’ottobre ’21 e impegnata in sessanta progetti per un valore complessivo di 190 miliardi dollari, l’incremento di produzione di energie rinnovabili (solare in primis) fino a 58,7 Gwh entro il 2030 e poi, entro lo stesso termine, la produzione, da fonti green, di almeno il 50% dell’elettricità nel Paese. Mbs non ha problemi di liquidità e attinge dalle capientissime tasche del fondo Pif che già da tempo ha cominciato a fare shopping in Europa. Dagli alberghi italiani fino al calcio inglese: non c’è campo dell’economia che non sia stato interessato dagli investimenti sauditi. Alterra, in fondo, non è che la risposta emiratina all’offensiva saudita. L’obiettivo è lo stesso. Si contendono le spoglie dell’Europa. Il vecchio Continente, a cui la guerra in Ucraina con la crisi energetica e la feroce politica monetaria Bce per combattere l’inflazione ha dato la mazzata finale, è in crisi nera. Nerissima. Per fare la transizione l’Ue è costretta a fidarsi della finanza, che nel frattempo ha iniziato a diminuire i suoi investimenti nel settore, e chiede sforzi continui e costanti alle sue imprese e alle famiglie europee. Col risultato di farla risultare a dir poco indigesta. E se si ferma persino la Germania, per gli Stati membri non c’è da sperare che nelle immaginifiche possibilità di spesa degli sceicchi per far quadrare i conti. Investimenti che, alla lunga, avranno un costo. Perché questa non è una vicenda solo economica. Ma politica. E magari, chissà, quello che non è riuscito né al Wali di Al Andalus a Poitiers né agli ottomani di Solimano il Magnifico alle porte di Vienna, magari riuscirà a Pif, ad Alterra e ai petro-sultani green di oggi. 

Gli affari nucleari di Bill Gates hanno fatto irruzione alla COP28 sul clima. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 5 Dicembre 2023.

Gli affari nucleari miliardari del “filantrocapitalista” Bill Gates sono sbarcati alla Conferenza delle Parti sui cambiamenti climatici, la COP 28, dove è stata firmata una dichiarazione per triplicare l’energia nucleare entro il 2050 (rispetto al 2020), così da raggiungere gli obiettivi di zero emissioni nette. Il magnate è da tempo impegnato nella progettazione di nuovi reattori nucleari per la produzione di energia pulita, attraverso una società che ha fondato nel 2008, Terra Power, la cui prima centrale è stata collocata a Kemmerer, una cittadina del Wyoming con meno di 3mila abitanti. L’obiettivo dell’imprenditore miliardario è quello di “salvare il pianeta” dal riscaldamento globale, promuovendo la transizione energetica, attraverso nuove fonti di energia pulita. Con questo obiettivo, il fondatore di Microsoft non ha esitato a influenzare le politiche governative promuovendo la sua visione sull’energia del futuro alla COP 28. La dichiarazione per incrementare l’energia nucleare è stata firmata, infatti, da ben 22 Paesi, tra cui USA, Gran Bretagna e Francia, dietro pressione esplicita del magnate che parlando ai rappresentanti delle nazioni riuniti a Dubai – dove si è svolta la Conferenza – ha affermato che esistono molte “soluzioni climatiche” promettenti, le quali richiedono però il sostegno necessario da parte dei politici e degli imprenditori. «Ora, dobbiamo prendere ciò che sembra molto promettente e ampliarlo, costruire gli impianti pilota, dimostrarli», ha detto Gates in un’intervista alla CNBC, aggiungendo che «questo richiede politiche governative, richiede l’intervento delle grandi aziende. Tutte queste diverse comunità, che devono riunirsi, sono rappresentate qui».

Il “filantropo” non solo ancora una volta – come nel caso della sanità su cui influisce attraverso le sovvenzioni all’OMS – è riuscito ad influenzare le decisioni politiche promuovendo al tempo stesso i suoi affari e i suoi investimenti, ma la sua società, Terra Power, ha firmato anche un memorandum d’intesa con ENEC, la società nucleare statale degli Emirati Arabi Uniti, per studiare il potenziale sviluppo di reattori avanzati nel Paese arabo e all’estero. «Per gli Emirati Arabi Uniti, stiamo cercando un futuro per gli elettroni e le molecole puliti che saranno portati alla realtà da reattori avanzati», ha affermato Mohamed Al Hammadi, CEO di ENEC, durante la cerimonia della firma. Da parte sua, Chris Levesque, presidente e amministratore delegato di TerraPower, ha affermato che «Portare sul mercato tecnologie nucleari avanzate è fondamentale per raggiungere gli obiettivi globali di decarbonizzazione». Il protocollo d’intesa tra TerraPower e gli Emirati Arabi Uniti prevede l’esplorazione degli usi dei reattori nucleari avanzati, tra cui lo stoccaggio di energia sulla rete e la fornitura di energia necessaria per produrre idrogeno e decarbonizzare gli impianti di carbone, acciaio e alluminio.

Gli Emirati Arabi Uniti attualmente dispongono di una centrale nucleare tradizionale, vicino ad Abu Dhabi, che ha iniziato a produrre elettricità nel 2020. Terra Power, invece, ha in corso un progetto dimostrativo per il suo reattore avanzato Natrium che spera possa entrare in funzione nel 2030. Tuttavia, i reattori al Natrium di TerraPower richiedono un combustibile chiamato uranio ad alto dosaggio o HALEU, il cui principale produttore attualmente è la Russia. Il progetto ha subito ritardi proprio per via delle preoccupazioni sulle forniture di HALEU dopo l’operazione militare russa in Ucraina. La società del magnate ha rivelato all’agenzia britannica Reuters che si aspetta che gli Stati Uniti diventino in grado di produrre il carburate nel prossimo decennio.

I tempi risultano, dunque, ancora lunghi ed è necessario trovare ancora ingenti quantità di denaro per realizzare il progetto: ecco allora che quella lanciata a Dubai risulta la prima piattaforma globale di chiamata per una raccolta fondi che coinvolge Stati e imprese. Lo schema è quello del partenariato tra pubblico e privato che piace tanto ai magnati capitalisti di Davos e della Silicon Valley, tra cui in testa troviamo il fondatore di Microsoft, che ha affermato che le aziende «otterranno l’aiuto dei governi e questi imprenditori si uniranno». Tra le aziende compare ovviamente anche Terra Power: «facilitare la velocità dell’innovazione e la velocità dell’espansione, questa è la mia grande speranza per la COP28», ha affermato Gates.

Tra gli Stati firmatari della dichiarazione sul nucleare compaiono anche Canada, Repubblica Ceca, Bulgaria, Finlandia, Ghana, Ungheria, Giappone, Corea del Sud, Moldavia, Mongolia, Marocco, Olanda, Polonia, Romania, Slovacchia, Slovenia, Svezia, Ucraina e Emirati Arabi. Russia e Cina, invece, non hanno firmato l’accordo. Anche l’Italia non ha sottoscritto la dichiarazione, in quanto, secondo la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, la grande sfida italiana è «il tema della fusione nucleare, che potrebbe essere la soluzione domani di tutti i problemi energetici. Su questa tecnologia l’Italia è più avanti di altri, dobbiamo pensare in grande».

La COP 28 ha comunque eletto l’energia nucleare a energia del futuro: secondo l’inviato speciale americano per il clima John Kerry, «non è possibile arrivare a zero emissioni nel 2050 senza il nucleare», mentre per il presidente francese Macron è una «soluzione indispensabile». Dietro il progetto però c’è lo zampino dei soliti filantropi che riescono a promuovere i loro affari influenzando al contempo le decisioni internazionali e ottenendo fondi governativi.  Metà del denaro necessario per la realizzazione della centrale nucleare di Terra Power, ad esempio, è stato investito dal dipartimento dell’Energia americano. Adesso si cercano nuove istituzioni finanziarie, azionisti e governi pronti a finanziare i progetti dei filantrocapitalisti che hanno scelto la COP 28 come principale piattaforma per promuovere i loro investimenti. Il tutto ignorando anche diversi avvertimenti provenienti da gruppi ambientalisti sui pericoli dell’energia atomica. [di Giorgia Audiello]

Perché la Cop28 a Dubai rischia di essere tutta "chiacchiere e distintivi". Per poi non decidere nulla. Nell’anno più caldo della storia e nella città ecoinsostenibile per eccellenza, grandi nazioni inquinanti e piccoli paesi inquinati sono separati su tutto. La nuova guerra in Medioriente peggiora un quadro già plumbeo. E l’Italia si presenta con una squadra di basso profilo. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 30 novembre 2023

Incendi devastanti in Grecia, alluvioni catastrofiche in Libia e in Malawi. Negli Usa, paese leader dello sviluppo, l’agenzia governativa Ncei dichiara che, dall’inizio del 2023 al 10 ottobre, ci sono stati 24 disastri climatici in territorio federale con danni superiori a 1 miliardo di dollari per ogni evento. In Italia c’è stato l’uragano Ciaràn che ha colpito la Toscana giorni fa e il fiumiciattolo Seveso che ha allagato Milano: è l’esondazione numero 118 dal 1975, la ventesima dal 2010. E il 2023 diventerà l’anno più caldo a livello globale dalla metà dell’Ottocento, quando iniziarono le rilevazioni climatiche. 

In questo quadro incompleto per motivi di spazio, la conferenza annuale sul clima Cop 28 inizia il 30 novembre a Dubai con scarse speranze di passi concreti verso l’obiettivo dell’accordo di Parigi 2015, quando si stabilì che l’aumento delle temperature planetarie non doveva superare i 2° Celsius grazie a una riduzione drastica delle emissioni e alla rivoluzione delle rinnovabili. 

Le guerre certo non aiutano. Un anno e mezzo dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, uno dei paesi più inadempienti sul piano del clima, l’attacco di Hamas del 7 ottobre scorso ha aperto un nuovo fronte di guerra a Gaza, duemila chilometri a nordovest degli Emirati. 

In attesa dei missili ecosostenibili, la nuova crisi mediorientale è una zavorra in più per il processo di difesa dal cambiamento climatico che aveva suscitato qualche vaga illusione alla Cop 26 di Glasgow. Cinque anni dopo Laudato si’, è tornato sul tema papa Francesco con l’esortazione apostolica Laudate deum, in larga parte dedicata all’emergenza climatica. 

Ma il pontefice è tenuto alla virtù teologale della speranza. I governi invece nicchiano. Lo slogan occulto è: decarbonizza tu che a me viene da ridere. È così con i temi al centro del dibattito. Per esempio, con il global stocktake. Il calcolo complessivo delle emissioni planetarie dovrebbe essere sottoposto a decisioni politiche coerenti con la gravità della situazione. Eppure nelle dichiarazioni ufficiose di chi andrà alla conferenza di Dubai lo scetticismo è totale. 

Il damage and loss fund, il fondo danni e perdite introdotto dalla Cop 27 di Sharm el Sheikh, è l’altro punto critico di Cop 28. Per semplificare, si tratta del risarcimento da parte dei paesi più sviluppati, dunque più inquinanti, versato alle nazioni più povere, più virtuose, come Marocco o Gambia, e più a rischio di subire le conseguenze dell’arricchimento altrui. Anche in questo caso non è aria. 

Il primo motivo è economico. Secondo il recente Adaptation gap report dell’Unep, il programma ambientale dell’Onu, per tenere in piedi in modo accettabile il fondo ci vorrebbero fra 215 e 387 miliardi di dollari all’anno di qua al 2030. La somma andrebbe a carico dei venti paesi industrializzati e questo già crea problemi seri sia con l’India, che è di turno alla presidenza del G20 e non intende rinunciare al carbone, sia con la Cina, che si dichiara a mezza via fra arretratezza e sviluppo per non contribuire. 

Non meno importante è il tema se tassare il contribuente comune oppure le aziende che inquinano di più, spesso a capitale statale Italia inclusa, o se magari costruire qualche altro alambicco politico-fiscale, sul genere dei crediti ambientali. 

Intanto lo spartiacque ricchi-poveri resta a livelli di tracimazione. All’evento Onu di Bonn lo scorso 13 giugno, il diplomatico pakistano Nabeel Munir, copresidente del convegno, ha ricordato che nel 2022 le inondazioni hanno colpito 33 milioni di suoi concittadini con danni per 30 miliardi di dollari. «E io mi sento come se stessi guidando una classe di scuola elementare», ha redarguito i negoziatori più impegnati a litigare che ad ascoltare le indicazioni del segretario generale Onu, il portoghese Antònio Guterres, che considera il fondo danni e perdite «una questione basilare di giustizia climatica, di solidarietà e fiducia internazionali». 

Gli effetti collaterali delle tensioni belliche smorzeranno anche le proteste ambientaliste a Dubai, annunciate con l'hashtag #BoycottCOP28UAE. Nella metropoli emiratina, ecoinsostenibile per eccellenza, le manifestazioni di piazza non sono bene accette anche in tempi meno agitati. «Sarà come a Sharm l’anno scorso», racconta un inviato italiano a Cop 27. «In Egitto fuori dalla blue zone della conferenza non volava una mosca. Alcuni sono stati rispediti a casa con il primo aereo. Ho visto un tizio con un tamburello e un pappagallo che esprimeva dissenso. L’hanno blindato in venti secondi». 

Le critiche degli ambientalisti hanno colpito Sultan Ahmed al Jaber, scelto alla guida della Cop 28. Al Jaber è il ceo di Adnoc, colosso petrolifero degli Eau che ha appena proclamato di volere investire 150 miliardi di dollari per aumentare la produzione di barili. Greta Thunberg, che proprio durante la Cop 24 del 2018 a Katowice ha conquistato fama internazionale all’età di quindici anni, ha definito «completamente ridicola» la nomina del manager emiratino. Più versato nella metafora, l’attivista keniota Eric Njuguna ha dichiarato: «Una zanzara guida la lotta contro la malaria». 

È una zanzara che succhia petrolio. Secondo la Banca mondiale, la crisi di Gaza potrebbe portare il prezzo del barile a 150 dollari, oltre il record di 147 stabilito nel 2008 in piena crisi finanziaria internazionale. Chi guadagna con le energie fossili avrà ancora minore interesse verso la transizione energetica. Di norma, si parla delle nazioni segnalate fra le peggiori dalle varie classifiche: Russia, Stati Uniti, Iran, Arabia Saudita, gli stessi Emirati. 

Al Jaber è un fautore della transizione graduale. Non è il solo. All’europea Greta non sarà sfuggito che da ottobre il nuovo commissario Ue per l’azione climatica è l’olandese Wopke Hoestra, ex ministro delle finanze accusato di non avere credenziali nel settore ambientale e cittadino del paese delle serre. Solo da poco i Paesi Bassi si stanno risollevando nelle classifiche di chi lotta contro il surriscaldamento del pianeta. Nell’ultimo rapporto Ccpi (climate change performing index) l’Olanda sale di sei posti al tredicesimo di una lista che, in realtà, non assegna il podio perché nessuna nazione è considerata del tutto in regola. 

L’Italia, che nel 2024 presiederà il G7 orfano della Russia, vegeta al ventinovesimo posto. Ne ha guadagnato uno dal trentesimo. In pratica, siamo la serie B del clima e il governo Meloni ha tutte le carte per retrocedere ancora grazie alle perle dello storico e climatologo no-laurea Matteo Salvini, ministro e vicepremier. «Quando vai sull’Adamello e sul Tonale», ha dichiarato la scorsa estate, «e vedi i ghiacciai che si ritirano anno dopo anno ti fermi a pensare. Poi studi la storia e vedi che sono cicli». Alla sua analisi approfondita il leader leghista ha aggiunto il fondamentale «è luglio, fa caldo». Sul fronte Fdi si registra il riduzionismo di Lucia Lo Palo, presidente dell’Arpa Lombardia, dopo l’esondazione del Seveso. «Il cambiamento climatico non è colpa dell’uomo», ha rivelato la manager regionale che non ha completato gli studi universitari in filosofia. 

La nazionale del clima che parte per la Cop 28 è profondamente rinnovata. Il ministro di riferimento è il forzista Gilberto Pichetto Fratin, commercialista che per un breve periodo è stato assessore all’ambiente del comune di Biella, circa trent’anni fa. Pichetto si è commosso all’ultimo Giffoni film festival quando una studentessa ha rivelato ansia per il suo futuro tra i cataclismi. 

Nulla di male nell’emotività ma al predecessore Roberto Cingolani, transumato in Leonardo, i tecnici riconoscevano un know-how specifico più solido. E mentre i ministeri degli esteri di Usa, Francia, Gran Bretagna rafforzano le unità dedicate alla crisi ambientale, l’Italia temporeggia. Il diplomatico Alessandro Modiano, inviato speciale per il clima nominato da Mario Draghi nel 2022, si è dimesso all’inizio del 2023. Dopo sette mesi di vuoto, in agosto è stato sostituito da Francesco Corvaro, docente associato di fisica tecnica industriale al Politecnico delle Marche. 

Negli scorsi giorni Pichetto ha ribadito di volere triplicare le rinnovabili che, secondo stime di Terna, valgono poco più di 61 gigawatt in totale. Nel 2022 sono stati installati 3 gigawatt, con circa cinquecento progetti per il rinnovamento energetico bloccati dalla burocrazia. Nel 2023 sono previsti altri 6 gigawatt. È vero che il paragone, per dimensioni e modello politico, è impossibile ma nei primi nove mesi di quest’anno la Cina ne ha installati 172. In quanto ad abbandonare i nostri 8 gigawatt di carbone, il cosiddetto phaseout, la scadenza globale fissata a fine 2025 sarà un altro fallimento per le pressioni, oltre che dell’India, della Germania che ha abbandonato definitivamente il nucleare. 

Di chimera in chimera, gli apocalittici crescono di numero anche fra le agenzie targate Onu. Secondo l’Ipcc, per stare nell’accordo di Parigi c’era un bonus di 500 miliardi di tonnellate di emissioni fino al 2030. Metà di questo tesoretto al contrario è stato già speso in attesa di un’invenzione tecnologica risolutiva. Nel linguaggio dei papi, di un miracolo.

L'oca è fuori. Report Rai PUNTATA DEL 19/11/2023 di Michele Buono

Cosa occorre per rendere protagoniste le fonti rinnovabili di energia?

Nell’inchiesta “Una rete elettrica per l’Europa” avevamo raccontato cosa occorre per rendere protagoniste le fonti rinnovabili di energia: per esempio della necessità di poter stoccare l’elettricità che producono in eccesso

per i momenti di scarsità.

Avevamo mostrato come in Svizzera si progettano sistemi di accumulo gravitazionali: l’energia rinnovabile prodotta in eccesso solleva i pesi : quando la rete chiede energia, perché c’è poco vento e non c’è sole, i pesi scendono e si produce elettricità. Abbiamo proposto alla Carbosulcis, sito di estrazione di carbone in dismissione in Sardegna, di trasformare le miniere in deposito di energia rinnovabile con il sistema di stoccaggio gravitazionale. Le due aziende sono entrate in contatto, si sono scambiate informazioni e dopo qualche mese hanno firmato una convenzione per un progetto di stoccaggio gravitazionale.

L’OCA È FUORI” di Michele Buono immagini Dario D’India montaggio Veronica Attanasio

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora dai danni collaterali delle sigarette elettroniche a quelli invece positivi della comunità energetica, dove Report ha avuto un ruolo fondamentale in un progetto industriale. Ha portato energia pulita laddove se ne produceva di sporca.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sardegna. Strade del Sulcis iglesiente. Ci sono delle miniere qui. Si estraeva carbone una volta. Erano le uniche miniere ancora attive in Italia fino al 2016, poi niente più. Era un carbone poco adatto a fare l’elettricità e adesso dismissione dell’attività mineraria. Un migliaio di lavoratori, poi 500, poi un centinaio. Tempo fino al 2026 per farsi venire un’idea e continuare, l’importante è che non c’entri niente con l’estrazione del carbone, sennò si chiude e si tomba tutto: pozzi minerari e gallerie. Miniere e che non c’entrino niente col carbone. Sembra una storia zen, quella dell’oca nella bottiglia: come si fa ad estrarla viva e senza rompere nemmeno la bottiglia? Facciamo adesso qualche passo indietro, perché in questa storia c’entriamo anche noi. Tutto comincia con una storia elettrica, quando raccontavamo di che cosa occorre per rendere protagoniste le fonti rinnovabili di energia: per esempio della necessità di poter stoccare l’elettricità che producono in eccesso per i momenti di scarsità.

MATHIAS FISCHER - PORTAVOCE TENNET GERMANIA Dietro di me potete vedere un cavo, il Nord Link, che proviene dalla Norvegia. È lungo più di 600 km e trasporta corrente continua. Questo impianto la trasforma in corrente alternata, per immetterla nella rete elettrica tedesca. MICHELE BUONO FUORI CAMPO Nasce così un dialogo energetico: la Germania mette il vento con impianti a terra e in mare, mentre la Norvegia, che ha tanta acqua, mette i bacini idroelettrici.

MATHIAS FISCHER - PORTAVOCE TENNET GERMANIA Quando in Norvegia c’è una forte domanda di elettricità noi esportiamo energia elettrica eolica in eccesso da loro.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Soddisfatti i bisogni, con l’elettricità che avanza si pompa l’acqua verso l’alto nei bacini idroelettrici superiori, che in questo modo diventano un deposito di energia rinnovabile: quando serve rilasciano l’acqua che mette in moto le turbine per produrre elettricità.

MATHIAS FISCHER - PORTAVOCE TENNET GERMANIA E viceversa, quando qui c’è calma di vento, possiamo importare in Germania elettricità proveniente dalle centrali idroelettriche.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sole e vento non sono costanti, ma con questo sistema è come se ci fosse una batteria sempre pronta a garantire energia rinnovabile in ogni momento. Tutto questo è possibile in aree dove c’è abbondanza di acqua. Ma si può fare la stessa cosa dove non ci sono laghi e fiumi?

Svizzera. Canton Ticino. Arbedo Castione. Qui progettano sistemi di accumulo gravitazionali, stesso principio dell’idroelettrico.

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Invece di acqua come pompaggio electric noi facciamo questi blocchi di 35 tonnellate.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’energia rinnovabile prodotta in eccesso solleva i pesi. Quando la rete chiede energia, perché c’è poco vento e non c’è sole, i pesi scendono e si produce elettricità.

LUCA MANZELLA - RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA È una sequenza gestita dal nostro software proprio per garantire la continuità di fornitura di energia elettrica.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È una batteria che accumula energia senza perdere la carica.

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Questi blocchi possono stare là per giorni, per ore perché tutto è energia potenziale in altezza, no…

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Energia gravitazionale, quindi l’importante per i pesi è basta che ci sia spazio per andare su e giù. Nelle miniere del Sulcis per esempio.

MICHELE BUONO È possibile andare invece in profondità con questi impianti, per esempio dentro delle miniere che sono in disuso, che sono state chiuse?

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Sì, è possibile, è quasi ideale per noi, perché serve l’altezza, meglio andare giù che in altezza.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sardegna. Proponiamo allora alla Carbosulcis di trasformare le miniere in deposito di energia rinnovabile con il sistema di stoccaggio gravitazionale e verifichiamo le condizioni. MICHELE BUONO Come è organizzata la miniera?

STEFANO FARENZENA - DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA La miniera è organizzata con due cantieri in superficie e i due cantieri sono collegati in sottosuolo attraverso una serie di gallerie.

MICHELE BUONO E i pozzi che profondità hanno?

STEFANO FARENZENA - DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA Variano dalle profondità di 350 metri quelli di Seruci fino ad arrivare a 500 metri di profondità quelli di Nuraxi Figus.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Scendiamo. La profondità c’è, e pure il diametro del pozzo minerario è sufficiente per inserire gli impianti. L’importante adesso è che il suolo sia asciutto. Non c’è traccia di acqua e nemmeno di infiltrazioni. Le gallerie sono accessibili e 3 praticabili. La miniera, quindi, potrebbe restare ma con un’altra funzione: stoccaggio di energia prodotta da fonti rinnovabili.

MICHELE BUONO Voi siete pronti?

FABRIZIO PISANU - CAPO RICERCA E SVILUPPO CARBOSULCIS SPA Sì, noi siamo pronti e non vediamo l’ora di iniziare.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Svizzera. EnergyVault. Raccontiamo del nostro sopralluogo nelle miniere sarde. Le due aziende entrano in contatto, si scambiano informazioni e dopo qualche mese firmano una convenzione per un progetto di stoccaggio gravitazionale, cucito su misura per le miniere del Sulcis.

LUCA MANZELLA - RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA È sicuramente un sito molto interessante, stiamo definendo quali sono le prime aree su cui intervenire…

MICHELE BUONO Quali sono le aree che mettete a disposizione?

STEFANO FARENZENA - DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA Mettiamo immediatamente a disposizione la discenderia, stiamo parlando di circa 3 km e mezzo e il pozzo 2 che è un pozzo di riflusso da 500 metri di profondità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una discesa verticale di mezzo chilometro quella del pozzo 2, invisibile dall’esterno. Consideriamo che un impianto all’aperto di EnergiVault, in Cina, è alto 140 metri.

LUCA MANZELLA - RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA Certo la dimensione del pozzo è limitata però il fatto che l’altezza sia tre volte quella cinese dà chiaramente un potenziale molto interessante anche per questo tipo di pozzo.

GIANMARCO ZORLONI - RESPONSABILE SVILUPPO ATTIVITÀ ENERGY VAULT Quindi per la stessa massa possiamo immagazzinare tre volte l’energia che possiamo accumulare nel sito cinese.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Masse che salgono dal fondo della miniera e quando la rete chiede energia scendono per 500 metri.

MICHELE BUONO Che tipo di materiali potrebbero essere impiegati per questa discesa?

GIANMARCO ZORLONI - RESPONSABILE SVILUPPO ATTIVITÀ ENERGY VAULT Allora noi possiamo usare dalla terra che troviamo qua nelle vicinanze, possiamo usare materiali di scarto, materiali di demolizione anche legati al carbone o sennò possiamo usare dei fluidi come per esempio l’acqua. MICHELE BUONO Sotto la miniera ce ne sta tanta di acqua.

GIANMARCO ZORLONI - RESPONSABILE SVILUPPO ATTIVITÀ ENERGY VAULT 4 Assolutamente, noi potremmo prendere l’acqua che già deve essere tolta dalla miniera, perché se no si inonderebbe, e sfruttare questa in un circuito chiuso per poi immagazzinare energia

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La materia prima non manca nel sito minerario e si può riciclare tutto, acqua compresa. Può fare da massa l’acqua. In fase d’accumulo l’impianto la capta e la porta in alto. Quando eolico e fotovoltaico producono poco o niente e la rete chiede energia, la massa d’acqua scende e produce elettricità da fonti rinnovabili. Un impianto minerario che si trasforma in centrale idroelettrica. Le gallerie di discesa nelle miniere sono praticabili, un’inclinazione interessante di 3 km. Ci sono pure i binari che trasportavano i carrelli.

MICHELE BUONO Quindi a questo punto voi che potete progettare su questa infrastruttura?

LUCA MANZELLA - RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA In una giornata come questa con moltissimo sole, probabilmente c’è un’eccedenza di energia prodotta che non può essere immessa in rete, questa energia noi la possiamo utilizzare praticamente usando un motore, e questo motore non fa altro che tirare verso l’alto le masse che sono in fondo alla miniera.

MICHELE BUONO Quanto si può stoccare in un impianto come questo di energia?

LUCA MANZELLA - RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA Beh, le prime stime ci danno un’indicazione di un centinaio di mega watt ora. Potrebbe coprire il fabbisogno per un’area dove vivono circa 50mila, 60mila persone.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’area della miniera, di oltre 200 ettari, comprende 30mila m2 di capannoni oltre agli immobili per l’amministrazione.

FRANCESCO LIPPI – AMMINISTRATORE UNICO CARBOSULCIS SPA Beh, potrebbero essere dati a vantaggio di chi vuole insediarsi in loco attraverso dei sistemi di co-working o di incubatori di impresa per perfezionare le proprie ricerche e le proprie conoscenze.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Con la trasformazione delle miniere in batterie di energia gravitazionale si creerebbe un hub energetico, un centro di prototipazione e un laboratorio di nuove tecnologie, quindi un polo di attrazione per ricercatori e imprenditori verso l’area del Sulcis iglesiente.

FRANCESCO LIPPI – AMMINISTRATORE UNICO CARBOSULCIS SPA Noi abbiamo delle competenze che sono quelle ex minerarie, quindi sicuramente tutta quella esperienza per la gestione del sottosuolo che permane comunque un asset strategico.

MICHELE BUONO Quindi i posti di lavoro che ci sono attualmente, quelli sarebbero salvi.

FRANCESCO LIPPI – AMMINISTRATORE UNICO CARBOSULCIS SPA Assolutamente necessari. Sicuramente il potenziamento sul versante dell’ingegneria elettrica, gestori di software o di nuove tecnologie.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E per chiudere il cerchio una cabina elettrica di trasformazione c’è già.

LUCA MANZELLA RESPONSABILE SVILUPPO ENERGY VAULT EUROPA La cabina di trasformazione è l’ultimo tassello, è quello che permette l’interconnessione con la rete elettrica, in particolare questa con la rete elettrica nazionale.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E la storiella zen? L’oca nella bottiglia da tirare fuori senza ucciderla e senza rompere la bottiglia? La risposta è: l’oca è fuori! Non c’è mai stata nessuna oca in nessuna bottiglia. È solo una trappola della mente. E riattivare miniere di carbone escludendo il carbone? L’oca è fuori! MICHELE BUONO Allora ingegnere, questa volta si può partire?

FABRIZIO PISANU - CAPO RICERCA E SVILUPPO CARBOSULCIS SPA Sì, direi che questa volta ci siamo proprio, possiamo partire.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una volta alla miniera ne serviva tanta di energia ma se gli cambi il segno e la vedi come una centrale elettrica, potrebbe darla l’energia alla rete, e gli elettroni in eccesso, che non servono alla Sardegna, potrebbero viaggiare con gli elettrodotti che Terna sta ampliando verso il continente, e contribuire a creare quella abbondanza di energia rinnovabile tanto necessaria al Paese.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, che cosa ha fatto il nostro Michele Buono? Ha messo in contatto questa azienda statunitense e svizzera, la Energy Vault, con la Carbosulcis, che gestisce le miniere dismesse nel Sulcis, che hanno anche un grande problema occupazionale e lui l’ha risolto perché adesso questo modello di energia gravitazionale verrà utilizzato all’interno delle miniere. Insomma, si tratta di pesi che riescono ad accumulare e a rilasciare energia pulita quando c’è bisogno. E come se fosse un gigantesco sistema di batterie, ma senza utilizzare il litio e quindi, quando verranno dismesse, dopo 50 anni, non c’è neppure il problema di come smaltirlo. Sarebbe un gioiello da incastonare nel nuovo corso verde dell’Europa. Dal 2035 è stato imposto che non devono essere più vendute auto con il motore termico, nelle amministrazioni locali si stanno allargando sempre di più le ZTL, insomma c’è una corsa all’elettrico. Solo che nessuno pensa al fatto che c’è qualcuno che dall’altra parte del mondo sta pagando sulla propria pelle il miglioramento ambientale nel nostro continente.

Il comunismo dei ricchi. Tommaso Cerno su L'Identità l'1 Ottobre 2023

Come un nuovo comunismo fatto per i ricchi ci si prospetta un’Europa, e un’Italia, proiettata nel futuro. Palazzi ristrutturati, energia pulita. Solo che a viverci non saranno gli italiani. Ci sono due processi che si sormontano e che minano la nostra possibilità di permetterci ancora il lusso di vivere nel nostro Paese e che non hanno nulla a che fare né con l’etnia né con il colore della pelle, per buona pace di quella sinistra che ogni volta che qualcuno contesta il disastro che ha realizzato negli ultimi 15 anni con le proprie politiche migratorie grida al razzismo. Il fatto è che questo Paese meraviglioso sta per essere predisposto per altri, i ricchi.

E non sarà l’origine né la religione a decidere chi saranno i nuovi italiani venuti con i quattrini a godersi il Paese più bello del mondo quando, con le nostre tasse, avremo finito di farlo transitare verso il suo futuro verde. Perché il progetto è magnifico ma non prevede che a bordo di questo treno ci siano gli italiani normali e se mai l’avesse previsto, significa che le scelte politiche che ci hanno portati a questo punto se lo sono dimenticati. E così mentre i prezzi dell’energia aumentano di un altro 18%, sono fuori controllo, fanno guadagnare pochi grandi gruppi, Ursula von der Leyen progetta la stretta finale.

Mentre la Bce nel pieno di una crisi economica resa ancora più devastante da un post pandemia mai terminata e da una guerra senza senso per cui spenderemo altri miliardi di euro in armi alza per 10 volte consecutive i tassi di interesse con la scusa di incidere sull’inflazione, senza incidere sull’inflazione ma incidendo sulle finanze già instabili di milioni di famiglie. Le questioni sono due: o il progetto è quello di renderci poveri ma verdi, appunto per qualcun altro. E questo progetto è meditato e si sta realizzando senza che noi ne parliamo. E prevede che entro pochi anni milioni di italiani saranno passati dall’essere proprietari di casa ad essere affittuari dei nuovi grandi proprietari, nella maggior parte dei casi fondi, e che i famosi risparmiatori della penisola saranno diventati recordmen del credito al consumo.

Uno scenario terribile ma che se qualcuno ha progettato è almeno comprensibile. Oppure, peggiore delle ipotesi, tutto questo sta succedendo senza che ce ne rendiamo conto e questo confermerebbe l’impressione che ho e cioè quella della peggiore classe dirigente europea degli ultimi 30 anni incarnata dalla peggiore politica economica dal sogno di Ventotene.

Mazzata per il Ppe. Legge sulla natura, l’asse Popolari-Conservatori sconfitto in Europa: via libera alla Nature Restoration Law. Carmine Di Niro su L'Unità il 12 Luglio 2023 

Nel Parlamento europeo di Strasburgo va in scena la grande sconfitta dell’asse Popolari-Conservatori, che puntano in particolare col duo Weber-Meloni a formare una nuova maggioranza in Europa col voto del 2024.

È passata infatti con 336 voti favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti la Nature Restoration Law, legge che mira a ripristinare il 20% delle aree terrestri e marine dell’Unione europea entro il 2030.

Respinto il tentativo da parte del capogruppo e presidente del Ppe, il tedesco Manfred Weber, di spaccare la “maggioranza Ursula”: la mozione sostenuta dai Popolari, dall’Ecr di Meloni, dall’estrema destra di Identità e democrazia (con all’interno Lega e lepenisti) più il 30% dei liberali di Renew Europe per rigettare la legge sul ripristino della natura era stata a sua volta respinta in plenaria con 312 voti a favore 324 contro e 12 astenuti.

La vittoria è tutta di Frans Timmermas, vicepresidente della Commissione Ue, socialista e con la delega al Gree Deal. Dopo la durissima battaglia all’ultimo voto, Timmermans ha potuto esultare e rivendicare come cruciale il voto odierno, definito “cruciale per il futuro del Green Deal e per gli obiettivi di neutralità climatica”.

Escono a dir poco malconci dal voto odierno invece i Popolari: almeno 21 voti del gruppo, probabilmente la componente irlandese, ha sconfessato la battaglia di Weber votando a favore della legge. “Siamo delusi dall’esito del voto sulla legge per il ripristino della natura, nonostante le obiezioni e le perplessità di tre commissioni parlamentari. Temiamo che questa legge sia controproducente e abbia conseguenze sociali ed economiche significative“, ha commentato a caldo il Partito popolare europeo, che deve fare i conti con una bocciatura che non è il segnale aspettato, anche nell’ottica del voto del prossimo anno.

Cosa prevede la legge

La Nature Restoration Law prevede, come detto, come obiettivo vincolante per i Paesi membri quello di ripristinare il 20% delle aree terrestri e marine dell’Unione europea entro il 2030, così da fermare la perdita di biodiversità.

Altro obiettivo della legge è quello di ridurre pesticidi chimici del 50% entro il 2030, l’aumento delle aree protette, gli sforzi per salvare gli impollinatori, ma anche l’idea di garantire nessuna perdita di spazi verdi urbani entro il 2030 e programmare un aumento del 5% entro il 2050.

Nel progetto della legge è inoltre previsto “un minimo del 10% di copertura arborea in ogni città“, la riumidificazione delle torbiere prosciugate e che ci aiutano nell’assorbire carbonio, diverse azioni per l’aumento della biodiversità nei terreni agricoli, il ripristino degli habitat nei fondali marini o la rimozione delle barriere fluviali per liberare 25mila chilometri di fiumi in modo da prevenire disastri durante le alluvioni.

Carmine Di Niro 12 Luglio 2023

L’Europarlamento dice sì alla legge sul «ripristino della natura», sconfitte le destre e il Ppe di Weber. Decisivi i 21 eurodeputati popolari che hanno votato in dissenso dal proprio gruppo, esultano ecologisti e sinistra. Giacomo Puletti su Il Dubbio il 12 luglio 2023

Il Parlamento di Strasburgo ha approvato il Nature Restoration Law con 336 voti favorevoli, 300 contrari e 13 astenuti. La legge prevede con obiettivi vincolanti per gli stati membri di ripristinare il 20 per cento delle aree terrestri e marine nell’Ue in modo da fermare la perdita di biodiversità entro il 2030. Fra i passaggi più importanti della legge la volontà di ridurre pesticidi chimici del 50 per cento entro il 2030, l'aumento delle aree protette, gli sforzi per salvare gli impollinatori, ma anche l'idea di garantire nessuna perdita di spazi verdi urbani entro il 2030 e programmare un aumento del 5 per cento entro il 2050.

A favore della legge c’erano il gruppo S&D, i Verdi, la sinistra e i liberali, oltre ad associazioni ambientaliste d'Europa, giovani dei movimenti verdi, 6000 scienziati europei, numerosi accademici e oltre un milione di cittadini che hanno firmato un appello per il "sì". Durante il voto era presente tra il pubblico anche Greta Thnuberg, a sostegno del provvedimento. 

Contrari il Ppe, i Conservatori e i vari gruppi di destra tra cui la Lega e il partito di Marine Le Pen, ma anche le associazioni di categorie come Coldiretti che negli ultimi mesi si erano spese per tentare di affossare la Nature Restoration Law e difendere gli interessi dell'agricoltura e della pesca, minacciate a loro dire da una legge che avrebbe portato a ridurre «produttività e sicurezza alimentare». 

Per il WWF «sono stati ascoltati i cittadini e la scienza!, mentre per il leader dei Verdi Angelo Bonelli «sono stati fermati ladri di futuro». Per Greta Thunberg «senza natura non c'è futuro» ed «è scandaloso che si debba lottare per le briciole» perché «questi problemi non dovrebbero neanche esistere». 

Deluso il Ppe, che teme «che questa legge sia controproducente e abbia conseguenze sociali ed economiche significative», mentre per il leader della Lega Matteo Salvini, che definisce la legge «una follia e uno schiaffo all’intero sistema produttivo italiano»,  l’Italia «rischia di perdere centinaia di migliaia di ettari destinati all’agricoltura». 

Quanto vale il “business” delle Bandiere Blu. Barbara Massaro su Panorama il 13 Maggio 2023

Il turismo sostenibile rappresenta il futuro di un mercato che vale il 10% del Pil mondiale e la garanzia di una Bandiera Blu orienta le scelte di viaggiatori esigenti e consapevoli

Intorno al prestigioso riconoscimento “Bandiera Blu” concesso a spiagge e approdi turistici che rispettano determinati standard ambientali ruotano un sacco di soldi. Soldi virtuosi che ogni anno vengono investiti dalle amministrazioni comunali e regionali per opere di miglioria del territorio e della qualità di acque e arenili al fine di poter rientrare all’interno degli standard necessari per essere insigniti del gagliardone internazionale concesso dalla Fee (Foundation for Environmental Education) che ogni anno premia, appunto, le località marittime, le spiagge e gli approdi turistici che rispettano criteri relativi alla gestione del territorio come qualità delle acque, smaltimento dei rifiuti, servizi di soccorso, strutture e attenzione al medio ambiente. Una garanzia di qualità Il vessillo “Bandiera Blu” ormai da anni, quindi, in Europa è sinonimo di buoni servizi, acque pulite, strutture accoglienti e buona gestione ambientale e questo ai turisti piace. Considerato che il settore turistico rappresenta il 10% del Pil globale e che offre circa un posto di lavoro su 10 in tutto il mondo – solo in Italia, secondo Iriss-Cnr, vale 100 miliardi di euro l’anno –, l'unica strada percorribile per continuare a viaggiare senza danneggiare il Pianeta e i suoi abitanti – sorta di dogma del viaggiatore 3.0 - è quella del turismo sostenibile.

Il turismo sostenibile è la chiave per il futuro del settore

 In un periodo storico in cui la parola “sostenibilità” è il passepartout che apre le porte al successo il business del turismo sostenibile è in costante ascesa e vale miliardi di euro l’anno. In base a quanto emerso da una recente ricerca commissionata dal sito di viaggi Booking.com, la cosiddetta “generazione Z” – la fascia di età compresa tra i 16 e i 30 anni – è quella più attenta alla salute del Pianeta e agli effetti che le azioni del genere umano hanno sulla Terra. Di conseguenza, è più responsabile nelle scelte sociali ed ecologiche rispetto alle generazioni passate: oltre la metà, il 54%, riconosce infatti che l’impatto ambientale che i viaggi hanno sulle destinazioni è un fattore importante e da considerare durante la loro organizzazione. Inoltre, il 52% preferirebbe visitare una destinazione meno nota se ciò avesse un peso minore sull’ambiente. I giovani viaggiatori rappresentano un target chiave per chi si occupa di accoglienza in quanto si muovono spesso, spendono, usufruiscono di servizi e vogliono trattarsi bene. Ecco quindi che emerge in maniera chiara l’importanza strategica di potersi meritare la Bandiera Blu e quindi “sedurre” questi possibili visitatori. Una recente indagine di Coldiretti ha evidenziato come, da dopo la pandemia, si sia potenziata la corsa alla Bandiera Blu grazie ai finanziamenti a fondo perduto - concessi alle amministrazioni municipali - che sono serviti ad esempio per opere murarie di rifacimento, infrastrutturazione e sistemazione dei porti, luoghi di sbarco e ripari per la piccola pesca e molto altro. Un business miliardario Lo scorso anno il valore aggiunto della Bandiera Blu concesso alle differenti località turistiche solo in Italia ha mosso 30 milioni di turisti stranieri che hanno scelto di trascorrere le vacanze in una delle tante località dove sventolava il vessillo. Secondo i dati che arrivano ancora da Coldiretti l’indotto turistico derivato dal prestigio Bandiera blu è stato di 35,7 miliardi. Recarsi in una località insignita della bandiera dalla FEE costa di più, ma il viaggiatore oggi preferisce investire nella qualità del soggiorno e quindi è disposto a mettere mano al portafogli. Il portale Abitare Co ha mappato gli aumenti dei prezzi degli alloggi nelle località turistiche dopo aver ricevuto la Bandiera Blu. Si passa dal +171% di Cattolica, al +153% di Cervia al +142% di Caorle per citare i casi più eclatanti. Parimenti la perdita della bandiera determina una diminuzione del prestigio del costo, un calo dei prezzi, ma anche dell’indotto. Quanto vale il turismo sostenibile in Italia Il turismo “verde” in generale in Itale vale oltre 10 miliardi di euro l’anno e le amministrazioni comunali sono sempre più consapevoli della necessità di investire nella direzione della qualità dell’ambiente e delle strutture per attrarre viaggiatori di anno in anno più esigenti. Il grande turismo di massa è di fatto tramontato. Si viaggia tutto l’anno e si viaggia con esigente sempre più sfaccettate. Basti pensare ai nomadi digitali e a coloro che hanno scelto lo smart working come modalità di vita e che girano il mondo tenendo il computer sotto braccio. Nel 2022 un alloggio a dimensione di smart worker in una località Bandiera Blu costava tra i 700 e i 1200 euro a settimana e c’era sempre il tutto esaurito.

L’impero del sole e del carbone. Giovanni Brussato su Panorama il 02 Maggio 2023.

Quello dell'energia resta un problema mondiale dalla difficile soluzione e comprensione; con differenze politiche, sociali, economiche da paese a paese L’impero del sole e del carbone

E’ ormai entrata nel lessico quotidiano la definizione di impronta carbonica, “carbon footprint”: la misura che esprime il totale delle emissioni di gas ad effetto serra utilizzata per quantificare gli impatti emissivi, in materia di cambiamenti climatici, di quanto ci circonda: dai prodotti di uso quotidiano alla produzione di energia, all’impatto di un “like” in un social. La misura dell’impronta carbonica si ottiene attraverso una metodologia analitica nota come “Life Cycle Assessment (LCA)”, l’analisi del ciclo di vita che parte dall’estrazione delle materie prime costituenti il prodotto, alla sua produzione, distribuzione, uso e dismissione finale. Qualche anno fa lo scandalo sulle emissioni della Volkswagen, anche noto come “Dieselgate”, portò alla scoperta della falsificazione della misura delle emissioni di automobili munite di motore diesel del gruppo Volkswagen vendute negli Stati Uniti d'America e in Europa. A scoprire l’imbroglio fu l'Agenzia statunitense per la protezione dell'ambiente, EPA, che contestò alla Volkswagen la violazione del Clean Air Act, la legislazione degli Stati Uniti sulla qualità dell'aria. Molti ricorderanno come fosse stato modificato il software della centralina per superare in maniera fraudolenta i test sulle emissioni a scapito dei vincoli ambientali. Da anni l’IPCC, il Gruppo intergovernativo di esperti sul cambiamento climatico, ci avvisa che, affinché il nostro Pianeta abbia un futuro, dobbiamo intervenire per contrastare i cambiamenti climatici. Ma soprattutto ci dice che oggi abbiamo a disposizione tecnologie e soluzioni per raggiungere gli obbiettivi climatici previsti dall’accordo di Parigi. Tra le tecnologie a nostra disposizione, secondo l’IPCC, per condurci verso un futuro a basse emissioni di carbonio ci sono le energie rinnovabili, eolica e solare.

Sulle tecnologie eoliche e fotovoltaiche sono stati realizzati e pianificati investimenti per molte centinaia di miliardi di dollari da parte di Europa e Stati Uniti eppure, ad oggi, non esiste un’agenzia governativa, europea o statunitense che, come l’EPA, certifichi, attraverso una metodologia unificata, l’intensità carbonica di queste tecnologie. Un’agenzia che raccolga e certifichi i dati necessari a realizzare un’analisi del ciclo di vita e certifichi l’impronta carbonica, ad esempio, dei pannelli fotovoltaici. I report dell’IPCC si basano su studi che “stimano” l’impronta carbonica senza però uniformare i loro criteri di analisi del ciclo di vita. Talvolta queste pubblicazioni mancano di quella che viene definita “peer review”, una revisione paritaria che costituisce una valutazione critica della loro pubblicazione da parte di specialisti aventi competenze analoghe a quelle di chi ha prodotto l'opera. Ma soprattutto quello che lascia perplessi è che questi studi utilizzano, per i loro calcoli, dati provenienti da fonti che spesso non riflettono gli standard industriali globali o utilizzano mix energetici adottati in Europa o Stati Uniti che sono basati sull’energia idroelettrica o gas naturale.

Ma gli impianti che producono le tecnologie solari non sono in Europa e nemmeno negli USA bensì in Cina che possiede, di fatto, il controllo sull’industria solare globale. Oltre dieci anni fa gli impianti di produzione hanno iniziato a operare in regioni come lo Xinjiang e lo Jiangsu per produrre polisilicio “solar grade” ovvero con caratteristiche specifiche per essere usato nel settore fotovoltaico. La stessa Agenzia internazionale per l’energia, IEA, sottolinea come oltre il 75% dell'energia elettrica dello Xinjiang e del Jiangsu sia generata con il carbone: pare evidente che l’impronta carbonica dell’energia idroelettrica è cosa diversa da quella generata dalla combustione del carbone. Su questo tema è chiarificante un esempio riportato da Enrico Mariutti nella suo studio “The dirty secret of solar industry” (The dirty secret of solar industry – Enrico Mariutti). Nel 2018 una pubblicazione condusse un’estensiva analisi del ciclo di vita dell’industria cinese del vetro. Ricordiamo che il vetro è un componente fondamentale del pannello solare. I dati, forniti dalla China Development and Reform Commission, condussero i ricercatori a stimare che il 70% dell’energia provenisse dal carbone e calcolarono che, anche utilizzando un 20% di vetro riciclato, l’impronta carbonica fosse di 0,68 kgCO /kg. Nel 2022 altri ricercatori condussero la medesima analisi nell’industria del vetro del Regno Unito. Basata su dati forniti da Eurostat e Guardian Europe i ricercatori stimarono che l’energia provenisse dalla combustione di gas naturale e l’impronta carbonica fosse di 1,12 kgCO /kg peraltro in assenza di vetro riciclato. L’evidente discrepanza tra i dati rende bene la situazione di assoluta anarchia in cui ci troviamo. Inoltre il problema maggiore viene dalle materie prime. Ogni miniera è un caso a sé stante: l’impronta carbonica di un chilogrammo di nichel estratto in Australia è sicuramente diversa se venisse estratto in Indonesia. L’impronta carbonica è condizionata da molteplici parametri che dipendono fondamentalmente dalle caratteristiche geologiche del minerale estratto. La stessa IEA conferma che se il nichel viene estratto da depositi di solfuri, come ad esempio quelli di Norilsk in Russia, la sua impronta carbonica è di circa 10 kgCO /kg ma se viene estratto da lateriti indonesiane la sua impronta carbonica sarà fino a sei volte superiore: 60 kgCO /kg. (IEA, GHG emissions intensity for class 1 nickel by resource type and processing route, IEA, Paris

Inoltre questo valore può sensibilmente cambiare negli anni: solitamente le compagnie minerarie estraggono nella fase iniziale il minerale più ricco per rientrare rapidamente dei costi lasciando il restante per un secondo tempo. Naturalmente il consumo energetico e, di conseguenza, l’impronta carbonica di quel minerale è funzione della sua qualità nel momento in cui viene prodotto. Se si considera che l'attività estrattiva globale rappresenta già oggi il 40% del consumo energetico industriale mondiale, consumo dominato dai combustibili fossili, e destinato a restarlo per i decenni a venire, si capisce bene come questi dati possano influire in modo determinante sulle valutazioni effettuate. Gran parte della promessa dell'energia solare pulita deriva dalla sua convenienza. Il futuro dell'energia solare fotovoltaica appare luminoso perché ha ottenuto miglioramenti sorprendenti dei costi in un periodo di tempo relativamente breve. Per essere chiari, probabilmente parte di questi progressi è avvenuta grazie ai legittimi progressi tecnologici e all'innovazione nella produzione. Le aziende cinesi hanno investito molto in fabbriche moderne e di grandi dimensioni che hanno raggiunto un'elevata efficienza di scala, aiutate anche da un sostanziale sostegno governativo sotto forma di sussidi diretti ed indiretti. Ma l’esistenza di un mercato globalizzato richiede l’adozione di regole comuni, trasparenti e misurabili al fine non solo di evitare dinamiche distorsive del mercato ma soprattutto per definire le caratteristiche di sostenibilità ambientale di qualsiasi prodotto. Senza la realizzazione di uno standard internazionale unico di riferimento, che sostituisca quelli presenti a livello di singolo paese, che impedisca l’uso di dati non rigorosamente dimostrati, la percezione che rimane, come sottolinea Mariutti, è che la volontà non sia tanto di misurare l’impronta carbonica dell’energia “verde” ma solo di convincere che sia bassa.

Case green: interventi su 1,8 milioni di edifici. Chi lo deve fare, costi e risparmi. Milena Gabanelli ed Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023.

Che in Italia e in Europa vi sia la necessità condivisa di migliorare l’efficienza energetica degli edifici e delle abitazioni è un fatto. Da noi, fin dal 2006, la legge 296 ha previsto detrazioni fiscali del 55% della spesa sostenuta per interventi di risparmio energetico nel patrimonio immobiliare. Nel 2013 lo sgravio è stato aumentato fino al 65% (75% sulle parti comuni dei condomini). Ad oggi sono stati 5,5 milioni gli interventi rientranti nell’Ecobonus, per oltre 53 miliardi di investimenti, con un risparmio complessivo che supera i 22.600 gigawattora l’anno, secondo il Rapporto Enea del 2022. I lavori hanno riguardato soprattutto la sostituzione degli infissi, l’installazione di caldaie a condensazione e pompe di calore, le schermature solari.

Gli edifici messi peggio

Con il decreto Rilancio del 2020 il governo Conte ha introdotto il Superbonus del 110% che copre anche gli interventi di riqualificazione energetica, vincolandoli però al miglioramento di almeno due classi. Al 28 febbraio 2023, sempre secondo il monitoraggio Enea, il costo totale a carico dello Stato, fra condomini e edifici unifamiliari, è stato di ben 75,4 miliardi di euro.

Una spesa enorme per l’erario a fronte di un numero di asseverazioni di lavori limitato: poco più di 384 mila finora, pari all’1,1% dei 35 milioni di unità immobiliari residenziali censite in Italia, o al 3,2%, se si considerano gli oltre 12 milioni di edifici. Nonostante tutti questi incentivi, secondo Ance, in Italia circa il 35% degli immobili risulta in classe G, e il 25% in F. Un problema che, in proporzioni diverse, riguarda tutti gli Stati membri.

Cosa dice la direttiva

Su questo scenario interviene la direttiva europea sul miglioramento della prestazione energetica degli edifici. Sulla proposta della commissione Ue è stato approvato dalla competente commissione del Parlamento un testo con numerosi emendamenti che da un lato accelerano i tempi e dall’altro danno più flessibilità agli Stati membri nell’attuazione delle disposizioni. Ieri anche l’aula ha dato l’ok, e nelle prossime settimane partirà il negoziato (Commissione, Parlamento, Consiglio) per arrivare alla direttiva finale. Se venisse approvata definitivamente quest’anno, gli Stati membri avrebbero tempo fino al 2025 per recepirla. Il governo italiano si prepara a dare battaglia perché sostiene che le nuove regole imporrebbero costi insostenibili. «Una patrimoniale europea» tuona il leader della Lega Matteo Salvini. È davvero così?

(...) nelle prossime settimane partirà il negoziato (Commissione, Parlamento, Consiglio) per arrivare alla direttiva finale.

Gli edifici esentati

Il testo prevede, per gli immobili residenziali, il raggiungimento della classe energetica E entro il primo gennaio 2030 e della classe D entro il primo gennaio 2033. Al momento però ogni Paese ha la propria di classificazione e un criterio unico valido per tutti verrà definito in sede di negoziazione. Dopodiché ogni Stato dovrebbe procedere così: rifare la classificazione energetica degli edifici, partendo dalla peggiore, la G, fino alla A4 (zero emissioni). Sappiamo da ora che però sono esentati gli alloggi sociali di proprietà pubblica, gli edifici ufficialmente vincolati per il loro valore architettonico o storico, gli immobili utilizzati per meno di 4 mesi all’anno, quelli indipendenti con una superficie totale inferiore a 50 metri quadrati. Inoltre i singoli Paesi potranno chiedere alla commissione Ue di esentare dagli obblighi fino al 22% di tutti gli edifici residenziali e di prolungare la scadenza al gennaio 2037 per ragioni economiche e per la indisponibilità di forza lavoro qualificata. Il nostro governo dunque potrebbe inizialmente restringere parecchio la platea degli edifici.

Obbligo per 1,8 milioni di immobili

La proposta di direttiva, spiega il vicedirettore dell’Ance Romain Bocognani, che sta seguendo questa partita dall’inizio, in realtà prevede in questa prima fase l’obbligo di intervenire solo per il 15% degli edifici più inquinanti. Tradotti in numero, e supponendo che il criterio di classificazione europeo non si discosti dal nostro, nella classe G dovrebbero finire fra gli 1,4 e 1,8 milioni di edifici suddivisi più o meno a metà tra condomini e unità unifamiliari. Per queste case dovrebbero essere disposti lavori di efficientamento in grado di raggiungere la classe E nel 2030 e la classe D nel 2033. Se si partisse l’anno prossimo, ipotesi molto ottimista, dice l’Ance, bisognerebbe dunque ristrutturare dai 140 mila ai 180 mila edifici l’anno per dieci anni. «Per capire la dimensione di tale sfida – dice l’associazione – basti pensare che con gli incentivi del 110%, sono stati realizzati poco meno di 100mila interventi nel 2021 e 260 mila nel 2022. La direttiva prevede, quindi, che nei prossimi anni dovremo mantenere un ritmo costante, simile a quello sperimentato nell’ultimo anno». Si può dire che non tutti gli interventi richiedono il cappotto termico, ma non c’è dubbio che il primo problema è quello del rispetto dei tempi. Serve un esercito di muratori, idraulici, elettricisti, falegnami, che non ci sono, e quei pochi si fanno pagare a peso d’oro. Colpa di un sistema formativo delle scuole professionali, delle imprese, di Confindustria che non è stato lungimirante.

Quanto costa salire due classi?

Il secondo problema è quello dei costi. Il governo dovrebbe sostenere fiscalmente anche i nuovi interventi previsti dalla direttiva proprio mentre fatica a chiudere il rubinetto del superbonus, costato finora più del doppio del previsto. E anche gli interventi per prendere il Superbonus richiedono il salto di due classi e hanno un costo medio di circa 600 mila euro per i condomini e 114 mila euro per le abitazioni unifamiliari. Però non è corretto partire dagli stessi parametri, perché quello del 110% è un mercato drogato (paga tutto lo Stato) che adotta come riferimento le tariffe massime del prezziario Dei. Allora quanto costerebbe passare dalla classe G alla E, e cosa bisogna fare concretamente? Il calcolo è quasi impossibile perché dipende dalla zona, e ogni caso è a sé, ma grossolanamente ci si può orientare. Per una casa singola di 100 mq ubicata al centro nord e costruita 50 anni fa, si devono rifare gli infissi con i doppi vetri, montare la caldaia a condensazione e coibentare il tetto. Poi, per passare alla D, ci vuole il cappotto termico o in alternativa la pompa di calore al posto della caldaia. A seconda di quel che è necessario fare, la spesa viaggia dai 20 ai 40.000 euro. Più o meno gli stessi interventi servono in un condominio e il costo, ovviamente, dipende dal numero degli appartamenti. In ogni caso, la commissione del parlamento Ue ha chiesto che la direttiva sia accompagnata da incentivi europei e nazionali. In Italia gli incentivi in vigore per questi interventi arrivano già al 65%.

I vantaggi

Il terzo problema riguarda la presunta svalutazione delle case che, secondo gli oppositori della direttiva, sarebbe conseguenza delle nuove regole europee. Gli operatori del mercato sostengono che oggi, a parità di anno di costruzione e di superficie, un immobile di classe A vale almeno il 30% in più di uno di classe G. Quindi l’efficientamento in realtà ha tre vantaggi: 1) valorizza l’immobile, 2) più della metà dei costi sostenuti possono essere detratti dalla dichiarazione Irpef in dieci anni, 3) un risparmio sulle bollette dal 20 al 50%. La direttiva non prevede sanzioni per il singolo che decide di non migliorare le prestazioni energetiche della propria casa, ma è il mercato stesso a determinarne un deprezzamento. E questo, certamente, non piace ai palazzinari che devono vendere. A carico del Paese invece, in caso di mancato recepimento o attuazione della direttiva nei tempi stabiliti, si aprirebbe la procedura d’infrazione, che vuol dire pagare le multe. Riepilogando: in vista non c’è nessuna patrimoniale, ma la creazione di tanto lavoro, e il vero problema è la mancanza di manodopera.

Tra auto e case l'Europa in nome dell'ambiente ci costerà almeno 100 mila euro a famiglia. su Panorama il 15 Febbraio 2023

Ieri il via libera da Bruxelles allo stop definitivo per auto diesel e benzina dal 2035; poi le norme sulle case ad impatto zero. Operazioni dai costi elevatissimi e che non tutti si potranno permettere Cristina Colli Si fa presto a dire «green», a parlare di case ad impatto zero, o di automobili non inquinanti. Principi validissimi che però devono fare i conti con la realtà e qui le cose diventano improvvisamente più complesse. La rivoluzione green europea su case e macchine decisa dall'Unione Europea ha e avrà un costo per i cittadini. Abbiamo per questo provato a fare una simulazione prendendo come esempio una famiglia di ceto medio, che vive in un appartamento di 100/120 metri quadrati in periferia e ha due macchine (un citycar e una berlina). Il risultato (senza prendere in considerazione gli incentivi e i bonus) parla di una spesa che si aggira attorno ai 50 mila euro per la conversione verde dell’appartamento e un esborso da un minimo di 50 mila euro per le nuove auto. Totale del conto: oltre 100mila euro. Le nuove regole

La direttiva europea sulle case green stabilisce, per arrivare a zero emissioni del settore edilizio entro il 2050, l’obbligo dell’obiettivo della classe energetica E entro il 2030 e D entro il 2033. In Italia sono oltre 9milioni gli edifici che dovranno essere ristrutturati, oltre il 70%. Per quanto riguarda le auto ieri è arrivato dal Parlamento europeo lo stop alle immatricolazioni di macchine a diesel o benzina a partire dal 2035. Questo significa che da quella data in poi si potrà circolare con le proprie auto diesel o benzina, ma che se si acquisterà una nuova vettura, questa dovrà essere elettrico. A gennaio in Italia la situazione delle immatricolazioni è stata questa: il 26,7% mild hybrid, il 26,5% a benzina, il 19% diesel, il 10% ibride, il 4,7% ibride plugin e il 2,5% elettriche pure. Quale sarà dunque la spesa per la trasformazione green per la “nostra” famiglia che vive in un appartamento di periferia di 100/120 metri quadrati e ha due macchine? Per ristrutturare servono cappotto, infissi e caldaia nuovi. Il proprietario di un appartamento di 100/120 metri quadrati in un palazzo in periferia può arrivare a spendere fino a 45 mila euro. I costi cambiano a seconda di dove si trova la casa, sia per quanto riguarda la zona climatica (guadagnare classi energetiche a Bolzano richiede più fatica e quindi più spese che farlo a Palermo) sia per quanto riguarda la posizione dell’appartamento (la periferia ha prezzi diversi dal centro storico). La prima spesa è quella per coibentare l’edificio. Il costo del cappotto termico esterno della propria casa ha un prezzo che oscilla dagli 80 ai 100 euro al metro quadrato. Serve poi una caldaia più moderna. Qui il costo dipende dalla potenza dell’apparecchio che si installa, si va dai 15 ai 30mila euro. Necessari poi i termostati intelligenti sui radiatori (non meno di 100 euro l’uno). E per un impianto fotovoltaico sul tetto, con una potenza sufficiente per 20 appartamenti servono poi altri 50mila euro circa. Un condominio con 20 appartamenti per guadagnare 2 classi energetiche può arrivare a spendere fino a 600mila euro, tradotto significa fino a 30mila euro ad appartamento. E ci sono infine gli infissi, che hanno un grosso impatto sul conto finale. In un appartamento di 100-120 metri quadrati in zona non centrale, con 6/7 finestre, servono tra i 10 mila e i 15 mila euro. Passando alle macchine, qui il costo per compare un’auto elettrica è di almeno il 20/30% superiore rispetto a un’auto diesel e benzina. La “nostra” famiglia ha, come abbiamo detto, un citycar e una berlina compatta. Se nel 2035 si troverà a dover comprare due macchine nuove le dovrà prendere elettriche. Quanto spenderà? Almeno 65/70mila euro. Due esempi? Per la citycar: La Fiat 500 100% elettrica parte da 29.950 euro, la Renault Twingo da 23mila euro. Per la berlina: per una Volkswagen ID.3 ci vogliono quasi 35mila euro, per una Citroen e-C4 38.250 euro ©Riproduzione Riservata 

Non si butta via niente. L’energia serve tutta, non sono quella prodotta dalle rinnovabili. Davide Tabarelli su L’Inkiesta l’8 Febbraio 2023.

È necessario investire in tutte le filiere, senza trascurare le fonti tradizionali, perché è il miglior modo per fronteggiare le debolezze strutturali del sistema energetico europeo

Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul numero 55 di We – World Energy, il magazine di Eni

Dopo lo shock del 2022 i prezzi scenderanno, il problema è quando. Nei mercati altamente finanziarizzati, dove esiste grande instabilità, prima o poi i prezzi tornano giù; quando, è difficile dirlo. Nel 2023 è improbabile, perché la crisi che stiamo attraversando ha carattere strutturale, è destinata a durare anni, con questioni non solo legate al gas russo, ma che derivano da debolezze profonde del sistema energetico dell’Europa. Il gas è diventato una commodity come altre, soggetta a meccanismi a volte incomprensibili, con l’instabilità che è ormai la regola e l’unica certezza a cui ci si può affidare. Tuttavia, di gas nel mondo ce n’è tantissimo, molto anche in Italia, territorio ricco da sempre di risorse minerarie. Ci metteremo del tempo, ma il gas arriverà e i prezzi scenderanno, da noi come nel resto d’Europa.

Le fonti alternative sono importanti ma non risolutive

Arriveranno anche le fonti alternative, quelle che tutti noi vorremmo fossero più importanti, ma il loro contributo non può essere risolutivo nei prossimi anni. Aiuteranno la diversificazione e ridurranno le emissioni totali di gas climalteranti; tuttavia, rimarranno su una posizione marginale, non distante da quella odierna. Emblematico, anche per il prossimo 2023, è quanto sta accadendo quest’anno in Italia, nel pieno della crisi. Sotto pressione della politica, si cerca giustamente l’accelerazione della costruzione di nuova capacità da fotovoltaico e da eolico, con un incremento dell’ordine di 5 miliardi di chilowattora, che porterà il totale per la prima volta oltre i 50 miliardi di chilowattora. È un traguardo positivo, ma rappresenta sempre il 17 percento del totale della domanda. Peraltro, questo si verifica in un momento di eccezionale siccità nell’ultimo anno che ha portato ad un crollo delle piogge e della produzione idroelettrica.

Nel 2022 il calo dell’idroelettrico sarà dell’ordine del 30 percento, circa 15 miliardi di chilowattora in meno rispetto all’anno prima, calo che vanifica di tre volte l’aumento delle nuove rinnovabili. L’intermittenza stagionale, oltre a quella giornaliera, è la grande limitazione fisica che impedisce alle rinnovabili di diventare più importanti nell’immediato e nei prossimi anni. Crescono poco nonostante siano molto convenienti, perché i loro costi sono enormemente più bassi dei prezzi di vendita. Per l’eolico non si arriva a 100 euro per megawattora, mentre il fotovoltaico ha costi anche verso i 50 euro. I prezzi della borsa elettrica, dove possono vendere anche i produttori da rinnovabili, sono da mesi sopra i 250 euro per megawattora, tenuti alti dal fatto che risentono delle quotazioni del gas. La crisi del gas rende ancora più pressante e opportuno accelerare sulle rinnovabili, ma le loro limitazioni fisiche ne impediscono una crescita più veloce.

Conta una maggiore stabilità del mercato

La soluzione per avere prezzi del gas più bassi sta nel ristabilire maggiore equilibrio in un mercato dove, a causa della guerra, è venuto meno il 40 per cento dell’offerta, 155 miliardi metri cubi che l’Europa prendeva dalla Russia, di cui 29 per l’Italia. Sostituire nell’arco di pochi mesi questi volumi non è possibile e, anzi, saranno necessari anni per ricostruire quelle infrastrutture che dovranno portare altro gas verso l’Europa. L’altra soluzione, praticabile nel breve termine, è quella di ridurre i consumi, ossia la domanda, attraverso un calo dell’attività economica, o, addirittura, attraverso il razionamento. Nel primo caso si tratta dell’effetto delle bollette che le imprese non riescono più a pagare, perché superiori fino a 4 volte a quelle di un anno prima, e che le obbligano a tagliare i consumi. Il razionamento è la conseguenza di tagli alle forniture che si potrebbero rendere necessari in quei giorni di picco della domanda per il freddo, nei mesi di gennaio e febbraio, quando anche le scorte faranno fatica a fronteggiare le richieste.

In ogni caso, nel 2023 la situazione resterà segnata da instabilità, con oscillazioni violente delle quotazioni e con le bollette delle famiglie e le fatture delle imprese che seguiranno, con più lentezza, questi movimenti. Saranno ancora le borse, in particolare quella di Londra dell’Intercontinental Exchange (ICE) di Londra, che guideranno tutta la struttura dei prezzi dell’energia. È anche su questi che si concentra molta dell’attenzione dei regolatori, tentati di intervenire sulla spinta del mondo politico che li vede come uno strumento della speculazione.

In questo periodo di caos totale, originato dalla follia della guerra, le borse hanno espresso indicazioni altamente significative attraverso i loro prezzi. Certo, hanno problemi di efficienza, sono poco liquidi, hanno un’importanza eccessiva rispetto alla dimensione del mercato fisico. Tuttavia, non ci sono alternative in Europa e le quotazioni del TTF (Title of Transfer Facility) hanno anticipato molto bene gli avvenimenti. Il TTF era stato in forte salita già dal giugno del 2021 e sembrava ingiustificata la sua corsa da 30 euro per megawattora a 50, diventati poi 80 euro, perché la guerra era un evento che razionalmente si pensava non potesse accadere.

Invece, ha avuto ragione il mercato del TTF, perché poi la guerra è arrivata, il 24 febbraio 2022. In un contesto in cui impera il disordine, i mercati, con la loro instabilità, hanno dato indicazioni significative. Sono sempre, nonostante i vari problemi, il risultato di decisioni di acquisto e vendita di migliaia di operatori, tutti accumunati, anche gli speculatori, dal fatto di dover prendere le decisioni migliori in base alle informazioni loro disponibili. Questo è il beneficio dei mercati altamente liquidi e anche finanziarizzati, il diffondere in maniera ampia, aperta e senza limitazioni le informazioni.

Quello che ha fatto il TTF è stato indicare che chi comprava sempre al rialzo, fino a portare i prezzi da 20 a 100 euro per megawattora a fine 2021, aveva il timore che arrivasse una guerra che avrebbe determinato una drammatica scarsità di offerta. La maggioranza degli osservatori giudicava come folle questa eventualità, ma poi si è rivelata corretta e la spirale al rialzo non solo è diventata sensata, ma poi è continuata su tutto la rimanente parte del 2022.

Guardando al futuro

Riconosciuti pregi e difetti del mercato TTF, è utile provare a ricavarne qualche informazione per il futuro. Ad esempio, osservando il grafico, si può notare che il primo ottobre 2020 la curva forward era piatta e i prezzi per il 2021 venivano previsti stabili a 15 euro per megawattora. La linea arancione non è altro che la serie di prezzi fissati il primo ottobre 2020 per i contratti che avevano scadenza nei mesi successivi fino al 2022. Allora, quando la guerra era ancora lontana, la previsione per i prezzi di inizio 2022 era di 14 euro per megawattora; poi, invece, il prezzo è salito abbondantemente sopra i 100 euro.

Dalla crisi in poi, da fine 2021, le curve per il futuro indicano sempre un ribasso, in quanto partivano da valori molto alti e le riduzioni erano scontate. Quando le quotazioni delle scadenze future sono più basse, allora si dice che il mercato è in deporto, o backwardation. Nella situazione contraria, con prezzi riferiti al futuro più alti, si è in riporto, o contango. Le ultime curve di fine novembre 2022 indicano un calo dei prezzi nel 2025, ma verso i livelli che, con il passare dei mesi si sono alzati e sono fermi a 100 euro. In sostanza i mercati ci stanno dicendo che i prezzi del gas rimarranno a lungo molto alti. La speranza è che si sbaglino, come spesso è accaduto in passato.

È possibile, quasi doveroso, criticare il mercato per eccesso di finanza, ma si tratta dei soliti problemi che vengono tirati fuori per giustificare qualche tentativo di intervento volto a limitare i prezzi d’imperio. Altre volte il puntare il dito contro la speculazione è un pretesto per evitare di affrontare i problemi più seri, che sono sempre quelli dei fondamentali, quelli semplici, come aumentare l’offerta e come ridurre i consumi. In questo paradosso è finita molta della politica europea che, di fronte alla drammaticità della crisi e con pochi strumenti di intervento a disposizione, è finita spesso ad accusare di scarsa efficienza i mercati, così da liberarsi dagli obblighi che invece le derivano per riportare ad equilibrio i fondamentali. Per un anno la politica europea si è concentrata sul tetto al prezzo, facile slogan che, con il trascorrere dei mesi, è diventato più complicato, difficile da applicare e, sostanzialmente, poco utile per fare calare i prezzi.

Qualcosa è stato fatto sul fronte dell’aumento dell’offerta, attraverso i rigassificatori, in arrivo con molto ritardo, mentre la produzione interna in Europa, in particolare in Olanda e in Italia, continua a calare. Lo spostamento sul carbone è avvenuto in maniera silenziosa, quasi di nascosto, per lo più in Germania, nell’ex Germania dell’Est, dove si concentra molta della capacità che si voleva già da tempo chiudere.

In Italia, il paese con la Germania più esposto alle importazioni dalla Russia, si è proceduto con troppa lentezza alla riapertura di centrali a carbone. Sono state riaccese quelle che erano state da poco chiuse, ma si poteva fare di più per far ripartire quelle chiuse da tempo. In vista di problemi un po’ più gravi nel 2023 per carenza del gas russo sarebbe urgente che in tutta Europa si riattivasse più velocemente la capacità a carbone messa da parte negli anni passati. Si tratta di riaperture momentanee, solo per la durata della crisi, in attesa che le tensioni si attenuino quando arriveranno più gas o più rinnovabili; dopo di che si potranno richiudere.

Un aiuto importante potrebbe venire dal nucleare, come accaduto in Germania, dove la chiusura di tre centrali è stata rimandata almeno di un paio di anni. Tuttavia, per il nucleare si sta profilando una crisi anche peggiore di quella del gas, perché di metano nel mondo, sotto terra, ce n’è tantissimo e si tratta solo di portarlo ai mercati con nuovi investimenti che necessitano di due o tre anni per essere realizzati, ma poi arriveranno. Invece, il nucleare francese, quello che è in crisi, non è sostituibile, non nel breve termine, né nel medio termine. Realizzare nuova capacità in Europa, e anche in Francia, è sostanzialmente impossibile, soprattutto per l’ostilità a questa tecnologia.

I tre reattori in costruzione in Europa, uno in Francia, uno in Inghilterra e uno in Finlandia, questo in fase di avviamento, dimostrano l’impossibilità di costruire decine di nuovi impianti in grado di sostituire quelli vecchi. Da qui la spiegazione dei continui alti prezzi dell’elettricità che arrivano dalla Francia e che tengono alti i prezzi del resto d’Europa, dando così un sostegno indiretto ai prezzi del gas. Paradossalmente, proprio adesso che manca gas dalla Russia, serve urgentemente capacità a gas per la Francia, l’unica in grado di compensare la fermata delle vecchie centrali nucleari.

Il quadro dell’energia per il prossimo 2023 per l’Europa è tutt’altro che tranquillo, con il gas che continuerà a mancare e con le difficoltà emerse con il nucleare francese, che tendono a peggiorare. Da qui l’esigenza urgente di realizzare nuovi investimenti in tutte le filiere energetiche, ovviamente a partire da quelle delle fonti rinnovabili, senza però trascurare le fonti tradizionali, in particolare quelle del gas, le uniche che ci possono salvare nel breve, medio e lungo termine.

Davide Tabarelli è presidente e cofondatore di Nomisma Energia, società indipendente di ricerca sull’energia e l’ambiente con sede a Bologna. Ha sempre lavorato come consulente per il settore energetico in Italia e all’estero, occupandosi di tutti i principali aspetti di questo mercato. Pubblica sulle principali riviste dedicate ai temi energetici.

A mani vuote. La sesta grande estinzione di massa e i soliti negazionisti senza prove credibili. Oscar di Montigny su L’Inkiesta il 3 Febbraio 2023.

Numerosi studi hanno certificato che la biodiversità sulla Terra si riduce anno dopo anno. Ma molti si ostinano a definirsi scettici, seppur privi di evidenze scientifiche

Con il suo libro “The Sixth Extinction: an Unnatural History”, Elizabeth Kolbert ci ha mostrato la prova che siamo all’inizio, o più probabilmente nel mezzo, della sesta grande estinzione di massa della biodiversità da quando è sorta la vita sulla Terra. Ma questo il primo caso in cui l’evento è causato totalmente dall’uomo.

Kolbert non è certamente la prima ad arrivare a questa conclusione: di altri studi che certificano e adducono prove schiaccianti ve ne sono in quantità. Tuttavia, alcuni continuano a negare che tali prove esistano davvero e sostengono che sono stati proprio gli scienziati della conservazione e della biodiversità a sovrastimarle, al fine di attirare la maggiore attenzione pubblica e politica per incrementare le opportunità di ottenere fondi per la ricerca.

«La negazione differisce dallo scetticismo», scrivono i ricercatori dell’università delle Hawaii e del museo di storia naturale di Parigi nel loro nuovo studio pubblicato da poco su Biological Review. «Lo scetticismo è una componente genuina della ricerca scientifica e della scoperta, che mette in discussione presupposti, risultati, interpretazioni e conclusioni, fino a quando il peso dell’evidenza non supporta una conclusione o un’altra, invece, la negazione è semplice incredulità in quel peso di prove. La nozione della sesta estinzione di massa, o almeno di una grave crisi della biodiversità, affronta sia lo scetticismo che la negazione, così come la nozione di cambiamento climatico antropogenico».

Sono essenzialmente due le tesi promosse con l’intento di negare. La prima afferma che tutti i tassi di estinzione stimati sono stati volutamente incrementati e che la velocità con cui stanno scomparendo le specie non sia significativamente maggiore rispetto al passato. La seconda sostiene che ogni estinzione viene naturalmente compensata dalla comparsa di nuove specie e che, «poiché gli esseri umani sono parte integrante del mondo naturale, piante e animali che scompaiono a causa delle attività umane sono da considerarsi come un fenomeno naturale, un effetto collaterale della normale traiettoria evolutiva della vita sulla Terra».

Tuttavia, fanno notare gli autori di questo studio, le prove fornite dagli scettici fanno leva solamente sui dati raccolti nella Lista Rossa dell’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) – l’indicatore critico della salute della biodiversità mondiale istituito nel 1964. Ma la Lista Rossa, pur essendo uno strumento imprescindibile, è decisamente incompleta e per questo fuorviante. Quasi tutti gli animali valutati in questo database, dicono gli autori dello studio, sono mammiferi o uccelli o quantomeno vertebrati, cioè una rappresentanza esigua della vita animale sul pianeta.

«Nella Lista Rossa sono state infatti complessivamente valutate oltre centoventimila specie delle quali più di 52.500 sono vertebrati. Sebbene si tratti di un’enorme quantità di forme di vita, questo numero copre appena il 5,6 per cento delle circa 2,14 milioni di specie animali e vegetali accertate dalla stessa Iucn. I dati sono quindi profondamente parziali e troppo “vertebratocentrici”, ma come sottolineano nello studio, la vita animale sulla Terra è indiscutibilmente invertebrata, pertanto le tesi di scettici e negazionisti sono prive di evidenze scientifiche.

Cosicché, assumendosi il compito di dimostrare che la sesta estinzione di massa è purtroppo realmente in atto sciogliendo ogni dubbio, il gruppo di scienziati ha fornito con questo studio nuove e incontrovertibili prove secondo le quali solamente negli ultimi cinquecento anni si è già estinto circa il dieci per cento di tutte le specie viventi, confermando quindi che il tasso attuale di estinzione supera di gran lunga quello naturale di fondo.

È stata scoperta l’antica tecnica indigena per rendere fertili i terreni. Sara Tonini su L'Indipendente l’11 gennaio 2023.

Nei siti archeologici del bacino del Rio delle Amazzoni sono state trovate delle misteriose macchie di terreno insolitamente fertili. Conosciute anche come “terra scura”, sono state a lungo oggetto di discussione per quanto riguarda la loro origine e composizione, di colore più scuro rispetto ai terreni circostanti e più ricche di carbonio. Ma una recente scoperta ha portato a pensare che le popolazioni indigene dell’Amazzonia avrebbero deliberatamente creato questo terreno incredibilmente fertile per migliaia di anni. I ricercatori hanno infatti dimostrato che gli indigeni Kuikuro, una popolazione che ancora oggi vive nel sud-est del Brasile, producono intenzionalmente un terreno simile per l’agricoltura intorno ai loro villaggi, cosa che porterebbe a credere che la pratica era conosciuta e diffusa anche in tempi più antichi. La scoperta è stata presentata il 16 dicembre scorso ad un meeting dell’American Geophysical Union.

La “terra scura” è solo una delle tante prove che le popolazioni indigene hanno modificato l’Amazzonia per migliaia di anni. Il mondo occidentale ha infatti a lungo considerato il “polmone del Pianeta” come una vasta area selvaggia incontaminata e gli indigeni in generale come popolazioni più dedite alla sopravvivenza nella natura che responsabili di essa e delle sue modifiche. Ma ci sono numerosi casi che dimostrano la capacità delle popolazioni autoctone di tutelare e migliorare l’ambiente circostante: in Nepal, ad esempio, in soli ventiquattro anni la percentuale della superficie coperta da alberi è raddoppiata grazie alla cura delle comunità locali, e così anche in altre zone dell’America Latina e dei Caraibi, dove i tassi di deforestazione sono più bassi nelle foreste protette da gruppi di autoctoni che in quelle a gestione statale. Un altro esempio proviene dalla California, dove i fuochi controllati dai nativi americani per svolgere cerimonie rituali non solo non sarebbero pericolosi ma aiuterebbero ad evitare enormi incendi. E ora, grazie ad una serie di studi e a quest’ultima scoperta, è sempre più evidente come le popolazioni indigene abbiano plasmato attivamente i loro territori per migliaia di anni prima dell’arrivo degli europei e, in particolare per l’Amazzonia, che la presenza di terra scura vicino ai siti archeologici significhi che le popolazioni di un tempo usavano questo terreno per coltivare. 

Taylor Perron, scienziato della terra del Massachusetts Institute of Technology (MIT) e relatore dello studio, insieme ad altri colleghi, ha inoltre esaminato alcune interviste agli abitanti di Kuikuro condotte da un regista locale nel 2018. Da quelle conversazioni è emerso che gli abitanti dei villaggi di Kuikuro producono attivamente la terra scura – eegepe in Kuikuro – utilizzando cenere, scarti di cibo e bruciature controllate. «Quando si pianta dove non c’è eegepe, il terreno è debole», ha spiegato l’anziano Kanu Kuikuro in una delle interviste. «Ecco perché gettiamo la cenere, le bucce di manioca e la polpa di manioca». I ricercatori hanno poi raccolto campioni di terreno intorno ai villaggi Kuikuro e ai siti archeologici nel bacino del fiume Xingu in Brasile. Il team ha riscontrato “notevoli somiglianze” tra i campioni di terra scura provenienti dai siti antichi e moderni: entrambi erano molto meno acidi dei terreni limitrofi – probabilmente grazie all’effetto neutralizzante della cenere – e contenevano livelli più elevati di sostanze nutritive utili alle piante.

[Un terreno che assomiglia alla terra scura si trova nei villaggi di Kuikuro e nelle loro vicinanze (uno di questi è visibile dall’alto), nel sud-est del Brasile. Fonte: GOOGLE EARTH, DATI CARTOGRAFICI – MAXAR TECHNOLOGIES]Ma c’è di più: queste analisi hanno anche rivelato che la terra scura contiene in media il doppio del carbonio rispetto ai terreni circostanti. Le scansioni a infrarossi della regione di Xingu suggeriscono che l’area è disseminata di terra scura e che circa 9 megatoni di carbonio – le emissioni annue di carbonio di un piccolo Paese industrializzato – potrebbero non essere stati registrati nell’area. La tecnica mostra come le antiche popolazioni siano state in grado di prosperare in Amazzonia sviluppando un’agricoltura sostenibile che allo stesso tempo permettesse di immagazzinare carbonio e potrebbe essere presa da modello per mitigare i cambiamenti climatici.

«Le persone del passato antico hanno trovato un modo per immagazzinare molto carbonio per centinaia o addirittura migliaia di anni», ha affermato Perron. Forse possiamo imparare qualcosa da questo. [di Sara Tonini]

Le auto elettriche sono meno affidabili di quelle a benzina. Andrea Soglio su Panorama il 4 Dicembre 2023

L’indagine di Consumer Reports sui problemi riscontrati dagli automobilisti Usa. Tra le case tradizionali male Chrysler e Mercedes, brillano Lexus e Toyota Le auto elettriche sono in media meno affidabili di quelle tradizionali endotermiche. È il risultato, abbastanza sorprendente, di un’indagine condotta dal periodico americano Consumer Reports. Il giornale conduce ogni anno un sondaggio tra i proprietari di automobili negli Stati Uniti, ai quali chiede di segnalare i problemi che hanno avuto con i loro veicoli negli ultimi 12 mesi: le aree coperte dalle domande sono una ventina, tra cui motore, trasmissione, sistemi di infotainment, verniciatura, batterie. Quest’anno sono state messe sotto la lente 330 mila auto costruite dal 2000 in poi. Dall’analisi emerge che le auto elettriche hanno il 79% di problemi in più rispetto ai veicoli con motore a combustione interna. «La maggior parte delle auto elettriche oggi viene prodotta da case automobilistiche che sono alle prime armi con questa nuova tecnologia o da aziende come sono alle prime armi con questa nuova tecnologia o da aziende come Rivian che sono prive di esperienza nella produzione di automobili» spiega Jake Fisher, direttore senior di Consumer Reports. «Non sorprende che abbiano dei problemi e abbiano bisogno di un po 'di tempo per risolverli». Fisher afferma che alcuni dei difetti più comuni che i proprietari di veicoli elettrici segnalano riguardano i motori elettrici, la ricarica e le batterie. Trattandosi di una nuova tecnologia, ci vuole tempo perché le case automobilistiche trovino tutti i difetti e li correggano. «E come i nostri dati hanno costantemente dimostrato, i consumatori attenti all'affidabilità sarebbero meglio serviti se rinunciassero a veicoli nuovi di zecca» consiglia Fisher. Tesla promossa Nella classifica di affidabilità la Tesla si piazza più o meno a metà con un punteggio di 48, meglio di Audi (43 punti) e sotto Bmw (64 punti). La casa californiana è risultata migliore rispetto alle concorrenti specializzate in auto elettriche perché ha più esperienza in questo campo rispetto a qualsiasi altra casa automobilistica. E quindi presenta meno difetti nei motori o nella trasmissione. Però i proprietari di Tesla continuano a segnalare problemi di qualità costruttiva come verniciature irregolari, finiture imperfette, maniglie delle porte che non funzionano, e bagagliai che non si chiudono. Ciononostante la Model Y di Tesla è per la prima volta tra i modelli consigliati dal giornale e si aggiunge alla Model 3. Molto bene le ibride A differenza delle pure elettriche, le auto ibride hanno creato ben pochi problemi ai loro proprietari americani: hanno il 26% in meno di difetti rispetto ai modelli convenzionali. Il che è dovuto alla forte presenza in questo segmento del gruppo Toyota che è da sempre un leader di qualità e che ha un’esperienza molto consoidata negli ibridi: la prima Prius fu e che ha une sperienza molto consoidata negli ibridi: la prima Prius fu lanciata 25 anni fa. Anche le case coreane Hyundai e Kia, note per la loro affidabilità, producono auto ibride. Invece le ibride plug-in, cioè quelle dotate sia di motore a scoppio sia di batterie più grandi che vanno caricate alla spina, sono le peggiori in termini di affidabilità con il 146% di problemi in più rispetto ai veicoli a benzina o diesel. I migliori e i peggiori Per quanto riguarda la classifica generale di affidabilità per marca, al primo posto si piazza la Lexus, al secondo Toyota (stesso gruppo giapponese), al terzo Mini (gruppo Bmw), al quarto Acura, al quinto Honda (entrambe dello stesso gruppo), al sesto Subaru, al settimo Mazda. All’ottavo si piazza Porsche, al nono Bmw e al decimo Kia. Dei dieci brand più affidabili, ben sette sono asiatici. All’ultimo posto in 30° posizione si trova Chrysler, preceduta, risalendo la classifica dal basso verso l’alto, da Mercedes, Rivian, Volkswagen, Jeep e Volvo. Molte marche diffuse in Europa, come Peugeot, Renault o Fiat non sono prese in considerazione vista la scarsa presenza sul mercato Usa.

Green hypocrisy. Report Rai PUNTATA DEL 19/11/2023 di Cataldo Ciccolella, Giulio Valesini

Collaborazione di Eva Georganopoulou Stefano Lamorgese

La rivoluzione verde, come tutte le rivoluzioni, non è un pranzo di gala.

Deforestazione, centrali a carbone, interi villaggi sgomberati con la forza, scarti chimici nelle acque, operai bruciati vivi, schiavi bambini, fauna e flora devastate, incidenti mortali. Sono il prezzo nascosto dell’auto elettrica. La rivoluzione verde, infatti, come tutte le rivoluzioni, non è un pranzo di gala. La Commissione Europea ha deciso che dal 2035 si potranno vendere solo veicoli elettrici. Bisogna abbattere a tutti i costi le emissioni di Co2 per combattere l’effetto serra. Ma se la transizione avverrà senza tenere in conto i costi umani e ambientali, rischia di essere solo una tinta di verde che copre ogni sorta di abusi. La parte più importante di un’auto elettrica è la sua batteria: 500 chili di minerali tra cui nichel, litio, manganese, cobalto, che viaggiano fino a 50.000 miglia nautiche prima di raggiungere la fabbrica in cui saranno trasformati in celle. Non proprio a Km zero. E d’altronde i fornitori di materie prime per ogni singola casa automobilistica sono centinaia: è difficile sapere da dove arrivano e dove finiscono i minerali per i veicoli elettrici, nemmeno il congresso americano è riuscito a farli mappare. Report ha deciso di indagare sulla filiera del nichel, un minerale che costituisce il 10% circa del peso delle batterie più performanti, dai 39 ai 43 chili per auto. La troupe di Report è finita in Indonesia dove ha potuto documentare quanto poco pulita è la filiera e quanto incide sui diritti umani più basici, a partire dall'accesso all'acqua. Anche nella vicina Germania, la fabbrica di Tesla è al centro di infuocate polemiche per il suo impatto ambientale.

Si ringrazia Habib Nadjar Buduha fondatore e Presidente di Konservasi Kima Tolitoli-Labengki Conservation Team per le immagini dei fondali marini di Sulawesi, Indonesia Amnesty International per le immagini della zona di Kolwezi in Repubblica democratica del Congo.

La nota di Mecaprom TCO oggi Advanced Technologies Solutions

Le informazione fornite da CINEA LIFE ENQUIRIES

- I rapporti su filiera del nichel indonesiana

- Il rapporto della Corte Conti Ue e la risposta della Commissione sulla politica industriale dell’UE in materia di batterie

- Rapporto Amnesty International sulla Repubblica democratica del Congo

- Risposte delle case automobilistiche a Report

 La nota di Mecaprom TCO oggi Advanced Technologies Solutions

Da: A: Enrico Bianconi [CG] Redazione Report Oggetto: Re: R: REPORT RAI3/ Richiesta contatto Data: venerdì 27 ottobre 2023 21:34:01 Egregio Dott. Ciccolella, evidentemente a causa della scarsa chiarezza della mia ultima mail, noto una evidente difficoltà di comprensione del mio punto di vista; pur non essendo un giurista, a me risulta netta la differenza tra il diritto di cronaca (sacrosanto e costituzionalmente garantito) ed il diritto al rilascio coatto di intervista (chiaramente inesistente). Ho già espresso la mia opinione in merito alla Sua richiesta nei seguenti termini che Le chiedo gentilmente di rispettare: non desidero rilasciare alcuna dichiarazione/opinione in merito ad argomenti che – direttamente come indirettamente – possano minimamente interferire con un’ indagine attualmente in corso da parte dell’ Autorità Giudiziaria. Mi pare sia una posizione chiara quanto legittima; ritengo dunque inutile ed inopportuno proseguire nel tentativo di indurmi ad assumere condotte contrarie ai miei principi ed alle mie personali convinzioni. Gradirei pertanto continuare a svolgere il mio lavoro, possibilmente senza ulteriori intromissioni nella mia vita privata come professionale. Cordiali saluti, Enrico Bianconi Il 26 ott 2023 17:20, "[CG] Redazione Report" <> ha scritto: Egregio Ing. Bianconi, La ringrazio comunque per il riscontro. Pur comprendendo il suo punto di vista, devo respingere le sue insinuazioni sul nostro lavoro giornalistico, che almeno alla data attuale è ancora pienamente consentito dalle leggi italiane anche quando si applica a eventi che sono sotto la lente degli inquirenti. Sin dalla mia prima e-mail credo di averle chiaramente indicato l’interesse alla questione del finanziamento europeo che, per quanto ne so, non ha a che vedere con l’incidente e le relative indagini, e su cui quindi mi aspetto una risposta in intervista o per iscritto alle seguenti domande: 1. Dopo il completamento del progetto, il coordinatore aveva 90 giorni per presentare la relazione finale, peraltro necessaria per l’erogazione dell’ultima tranche di finanziamento. Come mai nel maggio 2023 (prima dell’incidente quindi) il suo gruppo ha notificato a Cinea un ritardo nella stesura del rapporto di rendicontazione e avete chiesto e ottenuto un periodo di grazia di quattro settimane? Non avevate diligentemente raccolto la documentazione necessaria negli anni precedenti oppure ci sono stati problemi di altro genere? 2. Perché scaduto questo periodo di un mese non avete presentato la rendicontazione entro i nuovi termini? 3. Come mai, nonostante ulteriori solleciti di Cinea, ad esempio il 5 settembre e il 19 settembre, avete presentato il rapporto finale solo il 22 settembre, e peraltro incompleto secondo Cinea? 4. Come spiega che Cinea ha dovuto fare ulteriori due solleciti e solo il 16 ottobre 2023 il rapporto finale è stato ripresentato, ma stranamente di nuovo privo di alcuni documenti richiesti? Quale problema vi impedisce di produrre questi documenti a oggi? 5. La Advanced Techno Solutions sin dalla fondazione nel 2006 risulta avere tutte le quote intestate a una fiduciaria svizzera. Dato che avete partecipato a un bando pubblico europeo, ci può dire chi sono i soci effettivi (ultimate beneficial owners), ossia i fiducianti? Le chiedo cortesemente di farmi sapere se è disponibile a una intervista filmata o di inviarmi una risposta scritta entro le h 15:00 di martedì 31 ottobre. Distinti saluti, Cataldo Ciccolella Report Da: Enrico Bianconi Inviato: giovedì 26 ottobre 2023 10:23 A: [CG] Redazione Report Oggetto: R: REPORT RAI3/ Richiesta contatto Egregio sig. Ciccolella, spiace abbia dovuto attendere svariati giorni per un riscontro alla sua così cortese richiesta di intervista, ma differentemente rispetto alla posizione di giornalisti come lei, noi comuni cittadini siamo tenuti a rispettare una serie di normative, che lo Stato non a caso prevede a tutela di determinati ambiti ed interessi. Poiché mi è parso evidente la sua richiesta di intervista avesse come argomento precipuo (se non unico) quanto sfortunatamente accaduto in Napoli lo scorso giugno, mi preme rilevare come esistano delle necessità decisamente più rilevanti come cogenti – e qui mi permetto di citare il contenuto della sua ultima mail in data 23 u.s. – rispetto “al diritto del pubblico di essere informato in modo compiuto sui fatti…”; proprio coerentemente con questa sua ultima affermazione infatti, le ricordo sia in corso una delicata indagine da parte dell’Autorità Giudiziaria, tesa proprio all’accertamento dei fatti, dei quali poi il pubblico potrà essere informato. Qualora però lei ritenga di potersi sostituire al lavoro della Magistratura nell’accertare con precisione i fatti e desideri divulgarli più rapidamente presso il pubblico, rispetto a quanto farà l’indagine in corso, tale suo punto di vista non mi obbliga certamente ed in alcun modo ad interferire -in maniera più o meno diretta poco importa- con gli accertamenti tecnici allo stato in atto in sede di indagini preliminari. Sono certo comprenderà il mio punto di vista e, con il tempo, lo apprezzerà; La saluto cordialmente, Ing. Enrico Bianconi Da: [CG] Redazione Report Inviato: venerdì 13 ottobre 2023 12:44 A: Enrico Bianconi Oggetto: I: REPORT RAI3/ Richiesta contatto Egregio Dott. Bianconi, nonostante siano passati diversi giorni dalla mia richiesta, e nonostante mi risulta lei abbia letto l’email, e a dispetto della serietà della questione e del fatto che il suo nominativo mi è stato indicato dal MASE, lei non mi ha ancora ricontattato. Le segnalo che presto trasmetteremo un servizio in cui la sua società sarà menzionata con riferimento al progetto LIFE 16 ENV/IT/00042 e all’incidente di Napoli. Per questo le ribadisco l’assoluta urgenza di un suo contatto e con la comunicazione presente le formulo anche una richiesta di intervista ufficiale in cui lei (o altro esponente aziendale) possa rappresentare il punto di vista del suo gruppo societario sugli eventi legati al progetto in questione. Aspetto quindi un suo riscontro entro la giornata odierna. Sottolineo che l’assenza del punto di vista del gruppo ATS/Mecaprom danneggerebbe il diritto del pubblico di essere informato in modo compiuto sui fatti, e soprattutto sarebbe dannosa per la vs stessa compagine sociale, che rifiuterebbe di rappresentare la propria posizione. Distinti saluti Cataldo Ciccolella Report Da: [CG] Redazione Report Inviato: mercoledì 4 ottobre 2023 19:44 A: Enrico Bianconi Oggetto: REPORT RAI3/ Richiesta contatto Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Web: report.rai.it Egregio dott. Bianconi, Le scrivo per il programma Tv Report-Rai3 perché sto lavorando a un servizio sulla transizione ecologica, che andrà in onda a metà novembre, riguardante più in particolare l’ambito dei veicoli elettrici e dei progetti innovativi nel settore automotive. In questo contesto racconteremo del progetto “Life-Save” Solar Aided Vehicle Electrification (LIFE 16 ENV/IT/00042) e più in generale del tema dell’adattamento dei veicoli endotermici alle nuove esigenze della transizione verde. A tal proposito, le chiedo cortesemente un contatto per una chiacchierata telefonica finalizzata a capire lo stato attuale del progetto e i suoi risultati, anche alla luce degli eventi degli scorsi mesi. Il suo nominativo mi è stato indicato dagli enti istituzionali coinvolti nel finanziamento europeo e quindi ritengo doveroso - e utile per entrambi - approfondire la materia, al fine di informare i telespettatori nel modo più preciso e accurato sulla questione. Per questo la prego di contattarmi al XXXXXXXXX. La ringrazio in anticipo per il riscontro. Un cordiale saluto, Cataldo Ciccolella Report

GREEN HYPOCRISY” Di Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella Collaborazione di Eva Georganopoulou Montaggio Marcelo Lippi, Raffaella Paris Grafica Giorgio Vallati

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Dal 2035 è stato imposto che non devono essere più vendute auto con il motore termico. Nelle amministrazioni locali si stanno allargando sempre di più le ztl, insomma c’è una corsa all’elettrico; solo che nessuno pensa al fatto che c’è qualcuno, che dall’altra parte del mondo, sta pagando sulla propria pelle il miglioramento ambientale del nostro continente.

GIULIO VALESINI Senti, ma lo devi cambiare il furgone, inquina.

AUTOMOBILISTA No, questo no.

GIULIO VALESINI Perché?

AUTOMOBILISTA Stiamo in bianco rovinato.

GIULIO VALESINI Sarai anche in bianco rovinato ma tra un po' il sindaco qui non ti fa più circolare.

AUTOMOBILISTA Andiamo a rubare, andiamo a rubare. Facciamo quello che facevamo prima, andiamo a rubare.

GIULIO VALESINI Eh no, dai... Però questo lo devi cambiare, è vecchio.

AUTOMOBILISTA Stiamo in bianco rovinati.

GIULIO VALESINI Quindi adesso che succede? lo sai che questo è un fuorilegge.

AUTOMOBILISTA E noi siamo fuorilegge come lui, andiamo a rubare.

GIULIO VALESINI Che euro è questo furgone?

AUTOMOBILISTA Euro zero, guarda…

GIULIO VALESINI Inquina…

AUTOMOBILISTA Inquina.

GIULIO VALESINI Però la qualità dell'aria?

AUTOMOBILISTA 5 È bona, guarda, la respiriamo noi, guarda quanto è bella.

GIULIO VALESINI Quanti anni ha questa macchina?

AUTOMOBILISTA Questa è del 2001. La devo rottamare, in cambio della nuova.

GIULIO VALESINI Se la sarebbe risparmiata quindi?

AUTOMOBILISTA Assolutamente sì. Prima di mettere stop alle auto avrei aumentato il trasporto pubblico. Avrei fatto qualche altra cosina perché a fare i divieti è facile. A fare il resto è più difficile.

GIULIO VALESINI È vecchia, inquinante dice il sindaco.

AUTOMOBILISTA Il sindaco me li dessi lui i soldi.

GIULIO VALESINI Ma la deve cambiare, però.

AUTOMOBILISTA La cambieremo.

GIULIO VALESINI Sa che adesso, da novembre…

AUTOMOBILISTA Vado con lui. Me faccio prendere dall'auto blu sua. Mi porta lui a lavoro?

GIULIO VALESINI Che farà?

AUTOMOBILISTA Non la cambierò.

GIULIO VALESINI Che euro è?

AUTOMOBILISTA Questa dovrebbe essere euro 2, dovrebbe essere…

GIULIO VALESINI Questa proprio… via.

AUTOMOBILISTA E che faccio? Non lavoro?

GIULIO VALESINI Però c’è il problema dell’inquinamento delle città.

AUTOMOBILISTA Eh, lo so. A me dispiace per l’inquinamento, ma che devo fare? Lavorare devo lavorare.

GIULIO VALESINI Non può andare con i mezzi, con l'autobus?

AUTOMOBILISTA Vuoi vedere quello che ho dietro al cofano? I ferri? L’attrezzatura da lavoro?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Solo nella capitale fuorilegge finiranno 300mila veicoli. A guardia della ztl ecologica ci saranno le telecamere di ben 51 varchi. I cittadini con le auto inquinanti hanno formato un comitato e raccolto oltre 30mila firme in poche settimane.

GIULIO VALESINI Di che anno è?

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Questa qui è un'automobile del 2005.

GIULIO VALESINI Quindi ha 18 anni.

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Ha 18 anni, io di meccanica, a parte questa botta che mi ha dato un camion…

GIULIO VALESINI È un diesel o benzina?

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Questa è un diesel, un diesel.

GIULIO VALESINI Euro?

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Euro 4.

GIULIO VALESINI Però la ratio dice, della delibera, voi avete una macchina vecchia, inquinante.

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL La delibera si basa sui dati matematici dell'Arpa Lazio. L'Arpa Lazio, noi abbiamo verificato, i dati effettivi, dati alla mano, siamo scesi, ma più della metà degli inquinanti del 2010. Quindi la situazione è in via di miglioramento, non è in via di peggioramento. Eppure, bloccano l'automobile.

GIULIO VALESINI Ztl fascia verde da tutto il giorno, mezzanotte/ventiquattro. E se uno, come dire, entra o esce lo stesso, insomma, infrange la regola, che succede?

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Ogni passaggio sono 163 euro di multa.

GIULIO VALESINI Con le telecamere.

ENRICO INGAMI - PRESIDENTE COMITATO NO ZTL Con le telecamere, con le ztl che ti riprendono e ti mandano la multa comodamente a casa. La seconda multa sono 560 e rotti euro. E la terza volta che passi, ti sospendono la patente per un mese.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non solo le auto nuove costano di più ma anche l’usato è talmente richiesto che l’anno scorso ha toccato un rincaro medio del 24% che nel primo trimestre 2023 ha lambito il 30%.

SANDRO BARCAROLI - CONCESSIONARIO AUTO Sono saliti proprio perché il nuovo ha un’attesa molto lunga e quindi chi vuole una vettura pronta consegna, magari anche un seminuovo lo paga di più. I prezzi sono lievitati. Mentre prima c’era una produzione che abbondava, quindi si trovavano vetture a chilometro zero, oggi se tu vuoi una vettura, la ordini, la fabbrica te la produce e poi te la consegna.

GIULIO VALESINI Quasi su richiesta.

SANDRO BARCAROLI - CONCESSIONARIO AUTO Bravissimo, è quasi su richiesta. I prezzi sono cambiati perché c’è meno sconto.

GIULIO VALESINI Perché?

SANDRO BARCAROLI - CONCESSIONARIO AUTO Perché le case stanno facendo cassa.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L'Unione Europea punta sulla sostenibilità ed elargisce soldi per finanziare progetti di ricerca green nel trasporto privato. Solo per lanciare le batterie elettriche ha messo quasi due miliardi di euro.

ANNEMIE TURTELBOOM - CORTE DEI CONTI EUROPEA I fondi europei sono destinati principalmente alla ricerca e all'innovazione e meno alla produzione vera e propria della batteria. Nella nostra relazione abbiamo constatato che manca una supervisione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Una pioggia di soldi europei finiti in mille rivoli, tra cui 1 milione e 800 mila euro su un ambizioso progetto italiano che promette di trasformare le vecchie auto inquinanti, in veicoli puliti a emissioni ridotte grazie all’energia solare. Sarebbe la svolta per tanti cittadini in difficoltà con i nuovi limiti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Una svolta soprattutto per chi non può partecipare alla transizione ecologica comprando una Tesla da 60mila euro. Quale sarebbe la svolta? Quella di poter consentire ai ceti meno abbienti di poter entrare nella zona ztl gratis. Come? L’idea ce l’ha un professore dell’università di Salerno, Gianfranco Rizzo che ipotizza di trasformare delle vecchie auto, con il motore termico, in ibride e per questo attingere anche ai finanziamenti europei. Capoprogetto di questa idea è la Mecaprom, che è un’azienda storica, specializzata nell’engineering automobilistico, specializzata in prototipi. E che cosa deve fare? Sostanzialmente deve assemblare su una vecchia Polo Volkswagen del 2009, che gira a gasolio, un kit composto da un pannello solare, da delle batterie e un convertitore. Sostanzialmente fino a sessanta chilometri orari la macchina va ad energia elettrica, poi diventa ibrida e alle velocità superiori comincia ad andare solo a gasolio. Per quantificare l’entità delle emissioni coinvolgono dei ricercatori del CNR. Tra questi c’è anche Fulvio Filace, un giovane laureando in ingegneria meccanica; aveva un sogno nel cassetto, quello di poter lavorare con la Ferrari. Invece, quel giorno, sale su quella maledetta auto. I nostri Giulio Valesini e Cataldo Ciccolella.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO È il 23 giugno scorso. Sono quasi le due del pomeriggio quando dallo Stems, l’Istituto motori del Cnr, esce una vecchia Polo Volkswagen Diesel del 2009. Un prototipo di ibrido imbocca la tangenziale di Napoli, vicino Corso Malta. Dopo pochi chilometri prende fuoco.

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Io stavo tornando a casa, faceva caldissimo quel giorno. Davanti a me, si manifesta questa enorme colonna di fuoco che parte da quest'auto. Io ero la prima auto che sopraggiungeva.

GIULIO VALESINI Ma lei ha sentito un'esplosione?

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Io non ho sentito un'esplosione, ho visto un'enorme fiammata.

GIULIO VALESINI Come se ci fosse stata una combustione?

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Una combustione, ma una combustione non ordinaria.

GIULIO VALESINI Quanto erano alte queste fiamme?

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Per me una quindicina di metri. Se la cosa fosse successa a pochi minuti prima, la deflagrazione sarebbe accaduta in mezzo a un traffico di macchine, quindi sarebbe stato un disastro ancora maggiore.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Alla guida del prototipo c’è Maria Vittoria Prati, una ricercatrice esperta nell’analisi delle emissioni inquinanti delle auto. Accanto a lei è seduto Fulvio Filace, un brillante laureando in Ingegneria meccanica. Dovevano misurare emissioni e consumi reali su strada dell’ibrido sperimentale.

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Io vedo questa palla di fuoco uscire dalla macchina. In realtà questa palla di fuoco era Fulvio, tentava di salvarsi la vita, buttandosi dalla vettura. lo poi lo porto all'ombra del mio veicolo. E lì cominciamo a parlare, perché Fulvio era lucido.

GIULIO VALESINI Cosa le ha raccontato Fulvio?

TULLIO CIARLONE - TESTIMONE INCIDENTE Proprio pochi secondi prima che scoppiasse l’incendio, lui e la docente, la professoressa stavano parlando che stavano sentendo uno strano odore acre in auto. Anche io sentivo in quel momento un odore acre nell’aria, che non era associabile al tipico odore di combustione di idrocarburi, quindi benzina, piuttosto che diesel, era un odore diverso.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nessuno dei due occupanti dell’abitacolo sopravvive alle ustioni. Fulvio Filace stava per conseguire la specializzazione in Ingegneria meccanica per l’Energia e l’Ambiente alla Federico II di Napoli. Al Cnr era finito quasi per caso. GIULIO VALESINI È vero che il suo grande sogno sarebbe stato...

MARIA ROSARIA CORSARO - MADRE DI FULVIO FILACE Era andare alla Ferrari. Lui mi diceva sempre: “Chissà se mi prenderanno”. Gli piacevano i motori. Tre anni fa si laureò in una triennale a ventidue anni. Aveva l'ambizione e desiderava andare a lavorare in qualche bella azienda dove poter mettere a frutto i suoi studi, la sua passione.

GIULIO VALESINI Voi cosa sapevate del progetto a cui stava lavorando Fulvio al Cnr?

MARIA ROSARIA CORSARO - MADRE DI FULVIO FILACE Ha solo detto: “Mamma, guarda, sono arrivate due macchine da Salerno, dall'Università di Salerno che noi dobbiamo testare per vedere i gas di scarico, per vedere quanto inquinano”.

GIULIO VALESINI Vi ha mai parlato di rischi, pericoli legati al progetto?

SALVATORE FILACE - PADRE DI FULVIO FILACE A me aveva detto una cosa: le macchine sono troppo sfruttate, queste che dobbiamo fare, diciamo, questi test.

GIULIO VALESINI Sono vecchie.

SALVATORE FILACE - PADRE DI FULVIO FILACE Esatto, sfruttate, hanno troppi chilometri.

GIULIO VALESINI Al Cnr non vi hanno dato neanche una spiegazione?

MARIA ROSARIA CORSARO - MADRE DI FULVIO FILACE Ci hanno detto che avrebbero indagato loro internamente e basta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il progetto è nato dentro le stanze del Dipartimento di Ingegneria meccanica dell’Università di Salerno. Nel 2014 il docente dell’ateneo Gianfranco Rizzo, titolare del brevetto, lancia la società spin off Eproinn. I finanziamenti europei arrivano nel 2017, concessi ad un gruppo di imprese, che oltre alla Srl di Rizzo vedeva come capofila la Mecaprom Technologies Corporation, importante azienda del settore automobilistico di Torino. L’amministratore della Mecaprom, al momento del lancio del progetto, è Fabrizio Regis.

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Buongiorno, salve. Come va?

GIULIO VALESINI La macchina è stata fatta qui, è stata allestita qui?

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Sì.

GIULIO VALESINI Non è molto chiara la storia. Voi che idea vi siete fatti su cosa può essere successo?

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Assolutamente nessuna idea. Noi l’abbiamo data al Cnr, a Rizzo e compagnia bella.

GIULIO VALESINI Rizzo è Salerno, Rizzo è vostro partner?

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Esatto. Da lì in avanti non sappiamo assolutamente che cosa sia stato fatto sopra, né nessuno ci ha informati.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma cosa ha provocato l’incidente mortale? Report ha recuperato i messaggi Whatsapp scambiati tra i ricercatori del CNR e quelli di Eproinn nelle ore prima della tragedia. Emergono dubbi e problemi tecnici tra fili volanti e informazioni approssimative recuperate a distanza.

RICERCATORE CNR Salve professore. Abbiamo smontato lo schienale e abbiamo trovato uno dei componenti gialli staccati e l’altro in parte attaccato, va collegato? L’altro era di riserva o nelle movimentazioni si è smontato?

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Si saranno staccati nelle movimentazioni.

MARIA VITTORIA PRATI Si devono ricollegare? Nello slave il filo sembra unito, nel master ci sono due pezzi.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN No, quello doveva essere un sigillo antimanomissioni, ma non è essenziale che ci siano per il funzionamento.

RICERCATORE CNR Professore, l’alimentatore dodici volt della macchina va collegato lì come in foto? Perché si è staccato.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Sì, va lì.

MARIA VITTORIA PRATI Grazie Francesco, giusto per essere sicuri perché da un lato l’etichetta dice ch5 dall’altro ch9.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Sono le etichette di default. Non le ho mai sostituite.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I problemi continuano fino a pochi giorni prima dall’esperimento.

MARIA VITTORIA PRATI Ma come si fa ad usarla solo in elettrico?

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Bisogna accendere solo il quadro e accelerare.

MARIA VITTORIA PRATI Ma non accelera, ho provato.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Si avverte quanto meno il tentativo di spinta?

RICERCATORE CNR Francesco scusa, questi fili scollegati dovevano essere così o si sono scollegati? Non hanno nessuna etichetta.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN No, devono stare scollegati.

RICERCATORE CNR Ah, va bene. Abbiamo riprovato in elettrico e adesso è andata.

GIULIO VALESINI E al gruppo di scienziati non rimane che affidarsi alla protezione della Madonna. Maria Vittoria Prati ha un altro importante dubbio che rimane senza risposta.

MARIA VITTORIA PRATI Una domanda, siccome fa caldo, useremo aria condizionata a palla del veicolo. Problemi in ibrido?

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Per caratterizzare i consumi io penso che non dovrebbe essere usata l’aria condizionata perché il motore dell’aria condizionata sta sulla distribuzione, credo, e porterebbe ad aumentare i consumi del motore.

MARIA VITTORIA PRATI Oppure proviamo con tutti i finestrini aperti. A che temperatura esterna va in protezione la batteria? Perché gli strumenti installati a bordo riscaldano abbastanza l’interno.

FRANCESCO ANTONINO TIANO - EPROINN Non so qual è la temperatura di protezione della batteria. Non abbiamo ricevuto informazioni e supporto dal produttore. Però penso che dovrebbe riuscire funzionare senza problemi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’autore del brevetto del prototipo di auto ibrida con energia solare è il professor Gianfranco Rizzo.

GIULIO VALESINI Lei un'idea se la sarà fatta.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN - SUNMOTIVE Un’idea ce l’ho ma è una fase molto delicata.

GIULIO VALESINI Me la dica, me la dica allora.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE No, non gliela posso dire perché io ho parlato subito con, diciamo, la polizia, poi ho parlato con i magistrati, con i carabinieri. Ho detto tutto quello che dovevo dire. E so che questa è una fase delicata in cui si deve tenere riservatezza.

GIULIO VALESINI Lei è convinto che siano state le bombole, però io ho un testimone che mi ha parlato, mi ha detto che non c’è stata esplosione. No, professore, una cosa… Ho letto le chat, su questo mi deve rispondere, ho letto delle chat del vostro gruppo di lavoro.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Io l’ascolto, non confermo né smentisco. Io l’ascolto perché sono una persona educata e sono un fan di Report.

GIULIO VALESINI Sì, però c’è anche un interesse perché sono morte due persone… Mi ascolti. Ho letto le chat del vostro gruppo di lavoro. Ok. C'erano consulenze fatte a distanza su fili che non sapevano dove andavano messi. Cioè, mi sembrava tutto abbastanza improvvisato, professore, glielo dico onestamente. Lei ha capito a cosa mi riferisco? A quali chat, no?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Non confermo e non smentisco.

GIULIO VALESINI Eh, ma c’è poco da smentire. Ho letto le chat.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Sono cose di cui ho parlato con i magistrati.

GIULIO VALESINI Ma quelle chat rivelano un'approssimazione pazzesca.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Ho parlato con i magistrati di queste cose.

GIULIO VALESINI Però una cosa mi ha colpito. Su questo però mi può dare una spiegazione. La professoressa Prati a un certo punto chiede qual è la temperatura di protezione della batteria e dite che voi non avete dati. Il produttore non ve l'ha fornita e non vi ha dato supporto. Perché dentro la macchina faceva molto caldo, troppo caldo.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Non mi risulta.

GIULIO VALESINI Come non le risulta?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Questo dato non mi risulta.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO All’Istituto motori del CNR il prototipo era stato preparato con la strumentazione per fare le rilevazioni del gas di scarico in condizioni di guida reali. Comprese due bombole messe a bordo per il test. In una c’era una piccola concentrazione di gas propano.

GIULIO VALESINI Io ho la composizione di una delle due bombole. C’era una piccola percentuale, molto minima di propano.

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Sì.

GIULIO VALESINI Voi dite: non posso essere state le bombole?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Quasi sicuramente non sono saranno state bombole.

GIULIO VALESINI Quasi o sicuramente?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Per quelle che sono le concentrazioni, a nostra conoscenza, non possono essere state le bombole.

GIULIO VALESINI Il testimone che io ho intervistato è riuscito a parlare con Fulvio subito dopo l’incidente e riferisce un odore molto forte acre poco prima della combustione. Che cosa può essere?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR È un deterioramento delle batterie quell’odore acre. Ma più che acre penso che sia tipo alcolico.

GIULIO VALESINI Ma quindi è la batteria?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Potrebbe essere la batteria.

GIULIO VALESINI La professoressa Prati dice: ma qual è la temperatura di protezione della batteria? Fa questa domanda che tra l’altro non riceve risposta perché chi aveva…

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Sinceramente questa cosa non lo so se è proprio così, perché le dico, le dico subito…

GIULIO VALESINI Gli dicono che non avevano avuto i dati dal produttore.

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR No, non è così. Io verificherò queste chat.

GIULIO VALESINI Io so che la professoressa fa questa domanda, la risposta da parte di un ricercatore di Salerno è che non avevano questo dato e che non era stato fornito.

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Non è possibile che ci sia stato un contraddittorio su questo.

GIULIO VALESINI Mi ha sorpreso molto, sa che cosa?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Eh, sì.

 GIULIO VALESINI … che quando la macchina arriva qui e viene poi montata la strumentazione per le famose rilevazioni, ci sono parecchi dubbi rispetto a dei fili, alcuni staccati, e le consulenze vengono fatte a distanza. Cioè, mandavano le foto di questi fili e dicevano: “Ma questo è attaccato o è staccato? Questo dove va messo? A destra o sinistra?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Questo non lo so.

GIULIO VALESINI Ma è la prassi lavorare così?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR No, guardi, queste cose non le so quindi non le posso rispondere.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Eppure, il Cnr ha annunciato l’avvio di un audit interno per capire cos'è davvero successo al prototipo.

GIULIO VALESINI Il Cnr, Stem si era fatto un contratto con Sunmotive?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Sì.

GIULIO VALESINI Cioè, a voi chi vi pagava per questa attività sulla macchina?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Allora, la nostra interfaccia era la Sunmotive nella persona del professor Gianfranco Rizzo e dalla nostra parte c’era la collega Maria Vittoria Prati che aveva condiviso con Sunmotive degli accordi.

GIULIO VALESINI Quindi esiste un contratto?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Ma sicuramente esisterà un contratto.

GIULIO VALESINI Questo non lo sa? Lei non lo sa?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Io in questo momento non lo so.

GIULIO VALESINI Quindi lei non mi sa dire il Cnr quanto prendeva per fare questa sperimentazione?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Penso che ci sarà stato un preventivo di spesa per fare questa sperimentazione. GIULIO VALESINI Eh, ma io lo chiedo a lei, è lei la direttrice.

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Lei vuole sapere quanto il Cnr…

GIULIO VALESINI Eh!

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Mi informerò e se vuole le faccio sapere.

GIULIO VALESINI Perché è il Cnr a pagare l’assicurazione dell’auto? La macchina era assicurata per la Rc.

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Pare che sia sempre così, mi hanno detto.

GIULIO VALESINI Ed è escluso il rischio incendio. Come mai?

BIANCA MARIA VAGLIECO - DIRETTRICE STEMS-CNR Questo non lo so, mi spiace non lo so.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L'obiettivo finale era la commercializzazione dell’HySolarKit, il sistema che permetterebbe alle vecchie auto di circolare nelle ztl ecologiche. A giugno Rizzo aveva anche firmato un accordo con l'Agenzia dello sviluppo sostenibile dell'Uzbekistan, grazie ad un incontro organizzato dal nostro ministero degli Esteri. Per verificare quanti soldi e in quali tranche finiscono sul progetto, abbiamo contattato la Commissione Europea che finanzia il programma Life, che ci ha rimandato al ministero dell’Ambiente, punto di riferimento per le società italiane. Ma un funzionario del ministero ci dice, erroneamente, che i dati non sono pubblici, Neanche i beneficiari della capofila Mecaprom, l’azienda piemontese del settore automobilistico vogliono parlare dell’uso dei finanziamenti.

GIULIO VALESINI Ma come sono stati spesi i soldi del progetto?

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Anche questo perché dovrei parlarne? GIULIO VALESINI Ma lei è Mecaprom, scusi?

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Perché dovrei parlarne? Sono cose praticamente nostre aziendali che non, non mi sembra etico e corretto parlare.

GIULIO VALESINI Sono soldi pubblici però…

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 Lo so, certo.

GIULIO VALESINI Quindi sarebbe giusto ed etico parlarne.

FABRIZIO REGIS – AMMINISTRATORE MECAPROM TECHNOLOGIES CORPORATION 2015-2021 No.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La famiglia Regis deve amare molto la riservatezza, perché sin dalla nascita la società del gruppo risulta sempre intestata a una fiduciaria svizzera e il primissimo amministratore era Angelo Iaselli, un veterano delle fiduciarie con, in passato, la tessera della loggia P2.

GIULIO VALESINI I soldi chi li ha spesi e dove sono finiti? Lì non c'erano tutti quei soldi, in quel progetto, professore, in quella macchina.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEATO EPROINN – SUNMOTIVE Ma questa è la sua opinione, comunque...

GIULIO VALESINI Come mai è stato rendicontato soltanto il 22 settembre, il giorno dopo che Report ha chiesto informazioni all'ufficio europeo che erogava i soldi? È una coincidenza?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEATO EPROINN – SUNMOTIVE Con quello che è successo? È normale che abbiamo avuto un ritardo.

GIULIO VALESINI Sì, ma guarda caso noi il 21 chiediamo conto all'Unione europea, il 22 viene rendicontato?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEATO EPROINN – SUNMOTIVE Non lo so assolutamente, una combinazione.

GIULIO VALESINI Una combinazione. Non mi investa. Un attimo. Chi ha a speso i soldi?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEATO EPROINN – SUNMOTIVE Chi li ha spesi? Allora si faccia un giro sui siti della Comunità Europea, del progetto europeo e vede come capo progetto...

GIULIO VALESINI Il capoprogetto era Mecaprom, quindi li ha spesi Mecaprom? Ma la macchina chi l'ha allestita?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEATO EPROINN – SUNMOTIVE È la prima volta che si trova davanti a un progetto europeo? Va a vedere come sono i finanziamenti, i cofinanziamenti, perché per ogni euro che viene erogato dalla Comunità Europea ce ne stanno altrettanti che vengono spesi dai partner. E ci stanno delle regole molto precise, ci stanno dei vademecum, dei costi molto precisi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Abbiamo scoperto che Mecaprom e soci hanno già preso 1 milione e 300mila euro di soldi europei. C’è poi una rata finale di 500mila euro che sarà concessa dopo una relazione consuntiva. I nostri dovevano depositare tutto entro fine maggio ma, poco prima della scadenza, chiedono una deroga di un mese. Il rapporto finale lo presentano però solo il 22 di settembre, ben oltre i termini, quando è nell’aria che Report sta indagando. Ma è incompleto. L’Europa allora fa altri solleciti e il 16 ottobre Mecaprom lo ripresenta. Ma anche stavolta è giudicato carente.

GIULIO VALESINI Ci fate vedere questa rendicontazione dei soldi?

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Alcune sono pubbliche.

GIULIO VALESINI Non sono pubbliche.

GIANFRANCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO EPROINN – SUNMOTIVE Non ancora, ma lo saranno. C'è una procedura, c’è una procedura.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora bocche dall’Europa su come sono stati spesi i soldi. Semicucite invece al Ministero dell’Ambiente dove un funzionario ci ha dato sì delle informazioni ma non rilevanti. Invece il dubbio è che non siano state affatto cucite con i realizzatori di quel progetto visto che dopo che ci siamo interessati è spuntata fuori la rendicontazione, pare anche incompleta. È uno dei lati oscuri di questa vicenda che aveva anche una sua nobiltà perché consentiva, avrebbe consentito la speranza, a chi non aveva la possibilità economica, di entrare gratis nella zona ztl. Solo che questo progetto meritava qualcosa di più di un accrocco di fili che abbiamo visto. È un po' una storia esemplare questa: uno ha una bella idea, un bel progetto che ha anche delle finalità sociali, viene visto con indulgenza, interesse da parte della Commissione Europea, poi però c’è tanta approssimazione nel realizzarlo. Ne hanno pagato le spese, con la loro vita, due ricercatori del Cnr e il dito viene puntato, in base alle testimonianze raccolte dal nostro Giulio Valesini, contro la batteria. È inquietante, proprio in questo momento dove c’è la corsa all’elettrico, c’è la corsa a reperire le materie prime e a costruire le batterie. Questo anche perché il Commissario, l’ex Commissario Timmermans, l’olandese, aveva deciso, stabilito che l’Europa deve diventare il primo continente a mobilità elettrica. Ecco, insomma, noi abbiamo chiesto un’intervista a lui per chiedere insomma qual è il prezzo che bisogna però pagare per questo, l’abbiamo chiesto sia a lui che al suo successore, Maros Sefcovic, ma hanno rifiutato l’intervista. Che cos’è che gli avremmo chiesto e che non hanno voluto sentire?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Era il 14 luglio del 2021 quando la Presidente della Commissione annuncia in conferenza stampa il lancio del Green Deal europeo.

CONFERENZA STAMPA “DELIVERING THE EUROPEAN GREEN DEAL” - 14/07/2021 URSULA VON DER LEYEN – PRESIDENTE COMMISSIONE EUROPEA L'obiettivo è quello di fare dell'Europa il primo continente al mondo neutrale dal punto di vista climatico. Ecco perché abbiamo deciso di rendere l'obiettivo climatico non solo un'aspirazione politica, ma anche un obbligo giuridico.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il Green Deal europeo prevede entro il 2035 l’obbligo di zero emissioni per auto e furgoni di nuova produzione, nei fatti si potranno vendere solo auto elettriche. Un obiettivo ambizioso, finito sotto la lente di ingrandimento della Corte dei Conti Europea.

ANNEMIE TURTELBOOM - CORTE DEI CONTI EUROPEA La Commissione europea è molto ambiziosa ma il nostro ruolo è vedere come hanno fatto i calcoli: sta lavorando con dati vecchi, che risalgono al 2016, ma siamo nel 2023, e anche dati incompleti.

GIULIO VALESINI Insomma, voi sostanzialmente dite che abbiamo avuto una strategia cieca? Ci siamo mossi un po’ al buio?

ANNEMIE TURTELBOOM - CORTE DEI CONTI EUROPEA Abbiamo un accesso limitato alle materie prime minerarie. Questo significa che dobbiamo importarle da Paesi extraeuropei. La produzione di batterie richiede molta energia che da noi costa cara. Per questo siamo arrivati a due conclusioni: o non si raggiunge l'obiettivo del 2035 o lo si raggiunge importando automobili, soprattutto da Stati Uniti e Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il rischio è concreto: pochi giorni fa Stellantis ha firmato un accordo con la cinese Leapmotor anche per vendere le loro auto elettriche in Europa. Insomma, se non puoi batterli, unisciti a loro.

ANDREA TASCHINI – DIRIGENTE E CONSULENTE D’AZIENDA Se le materie prime sono possedute dalla Cina, le batterie sono fatte in Cina. È molto probabile che anche le auto verranno fatte in Cina, anche se di marche europee.

GIULIO VALESINI Metteranno gli stabilimenti da quella parte lì?

ANDREA TASCHINI – DIRIGENTE E CONSULENTE D’AZIENDA Io essendo un manager, evidentemente metterei la produzione di auto più vicina possibile al massimo valore che riesce a dare, quindi batteria, motori elettrici, software per la maggior parte sono prodotti in Cina, e l'auto me la vado a produrre in Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A rischio c’è tutta la filiera dell’automobile europea. E anche la stabilità sociale.

ANNEMIE TURTELBOOM - CORTE DEI CONTI EUROPEA Ricordiamoci che in Europa 3 milioni e mezzo di persone lavorano nell'industria automobilistica. In Italia, sono circa 200mila. Puoi spingere sulla neutralità climatica ma bisogna anche vedere se vogliamo raggiungere l'obiettivo solo importando dalla Cina.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Nel 2023 la vendita in Europa delle auto elettriche è raddoppiata rispetto al 2022. Un'auto su cinque, di nuova immatricolazione, è elettrica. Fanalino di coda è l’Italia.

GIULIO VALESINI Come si trova?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA Di merda.

GIULIO VALESINI No, perché?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA Perché la odio. Perché comunque sia tutti i giorni devo stare a cercare di caricare, fare, brigare. È faticoso.

GIULIO VALESINI Perché hai scelto un’auto elettrica?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA Sono obbligato, perché mi serve una macchina piccola per la città.

GIULIO VALESINI Tanta gente se la compra perché dice che così l’aria è poi pulita. Ci credi?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA Se partiamo dalle macchine, penso, è lunga ancora.

GIULIO VALESINI Entro novanta secondi la devi attaccare.

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 Si, a posto.

GIULIO VALESINI E quanto tempo ci metti a caricare?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 Dipende dalla potenza della colonnina. Le colonnine free to X, quelle veloci, a 350 watt, me la ricaricano in mezz’ora.

GIULIO VALESINI Perché si è comprato un’auto elettrica?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 Spendo meno. La macchina è fantastica. Una volta che ti abitui ad utilizzarla è un po’ come usare il telefono. Io lavoro in un’azienda che si occupa di green. Per cui per noi è importante anche a livello di immagine aziendale.

GIULIO VALESINI Far vedere di essere ecologici davvero?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 Non è far vedere, lo siamo davvero.

GIULIO VALESINI Secondo lei l'energia da dove la prendono?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 Non lo so.

GIULIO VALESINI Non bastano questi pannelli solari?

PROPRIETARIO AUTO ELETTRICA 2 No, non credo che bastino.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il prezzo di un’auto elettrica dipende soprattutto dalla batteria che sostituisce il motore tradizionale. Le più usate hanno nichel, cobalto, litio e manganese in quantità che variano in base ai produttori. Devono garantire durata di utilizzo, velocità di carica, potenza. Ad esempio, in un pacco batterie, ci sono da 39 a 43 chili di nichel.

SILVIA BODOARDO – PROFESSORESSA TECNOLOGIE APPLICATE POLITECNICO DI TORINO Questa è una cella industriale di tipo cilindrico, un po’ tipo quella che si utilizza dentro i pacchi batteria per l'automotive, ma possiamo avere anche formati diversi. Se io devo avere un sistema che lavora di potenza, cercherò una cella che mi permetta una migliore distribuzione del calore.

GIULIO VALESINI Queste sono le famose celle che sono dentro i pacchi batterie delle auto elettriche?

SILVIA BODOARDO – PROFESSORESSA TECNOLOGIE APPLICATE POLITECNICO DI TORINO Certamente, abbiamo tante celle, tanti piccoli cilindretti connessi tra di loro.

GIULIO VALESINI Quanto pesa una batteria?

SILVIA BODOARDO – PROFESSORESSA TECNOLOGIE APPLICATE POLITECNICO DI TORINO La batteria pesa intorno ai cinquecento chili. GIULIO VALESINI Cosa c'è dentro questa batteria?

SILVIA BODOARDO – PROFESSORESSA TECNOLOGIE APPLICATE POLITECNICO DI TORINO Nel catodo abbiamo i metalli, quelli che ci preoccupano per certi aspetti che contengono nichel, cobalto, manganese.

GIULIO VALESINI Di solito litio, no ce l’abbiamo, no?

SILVIA BODOARDO – PROFESSORESSA TECNOLOGIE APPLICATE POLITECNICO DI TORINO Litio sicuramente. Non è detto che questo sarà il futuro per sempre. Tutto quello che c'è dentro la batteria può essere riciclato, ma questo ci costa ancora un po' di fatica, anche perché oggi le celle che sono sul veicolo sono ancora buone, insomma, non sono ancora a fine vita.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, se si vuole diventare il primo continente a mobilità elettrica del mondo, devi avere a disposizione le batterie che significa poi avere a disposizione le materie prime che la compongono, cioè nichel, litio, cobalto e rame. Il circolo, di solito, è questo: le case automobilistiche acquistano le batterie da Cina e Korea che non le producono per intero loro; le assemblano, fanno lavorazioni intermedie, acquistano le materie prime raffinate da quei paesi dove la manodopera costa meno che da loro e dove non c’è la tutela dell’ambiente. Ora Report si è messo sulle tracce del nichel che incide per il 10 per cento sulle batterie, quelle più performanti. Il filo di Arianna ci ha portato fino all’Indonesia dove nel 2020 il Governo ha preso una decisione: non si esporta più nichel, facciamo tutto qui dentro, sviluppiamo l’industria, diamo un valore aggiunto anche occupazionale. Poi però all’improvviso qualcosa è andato storto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Chi vuole il nichel per le batterie deve andare in Indonesia, il più grande paese del sud est asiatico: 280 milioni di abitanti, alcuni vivono negli sfavillanti grattacieli di Giacarta e molti altri in baracche e favelas. A trainare il pil, che ha superato quello italiano, è il settore delle materie prime di cui l’Indonesia è ricchissima: oggi è il primo produttore mondiale di nichel. Per capire come viene estratto e lavorato bisogna volare nella parte orientale del paese a Weda Bay o a Morowali. Questo è l’IMIP, un gigantesco distretto industriale da 15 miliardi di dollari, nato in partnership con un’azienda cinese, la Tsingshan. Qui si fa tutto, dall’estrazione alla raffinazione, ai semilavorati. Praticamente l'intera industria automobilistica mondiale prende qui parte del suo nichel per le batterie, da Tesla a Stellantis, da Mercedes a Volkswagen, fino ai marchi cinesi come Byd, il principale produttore globale di auto elettriche. Grazie alla massiccia deforestazione dell’area, oggi l’IMIP copre più di 3mila ettari di estensione.

ARIE ROMPAS - GREENPEACE INDONESIA A settembre 2023 l'area delle operazioni del nichel in Indonesia ha raggiunto quasi un milione di ettari con ben 362 licenze. Per le riserve di nichel ancora da esplorare abbiamo scoperto che verranno disboscati altri 600mila ettari di foresta vergine, una cifra spaventosa. Significa che la lavorazione del nichel, oltre a produrre emissioni molto elevate, distruggerà anche la biodiversità della regione.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Anche a causa della guerra in Ucraina, il nichel dall'Indonesia è diventato molto popolare, anche perché costa meno. A capo dell’Associazione delle industrie minerarie del nichel in Indonesia c’è la segretaria generale Meidy Katrin che a noi non nasconde l’euforia per gli affari che vanno a gonfie vele.

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA Quest'anno abbiamo estratto 178 milioni di tonnellate di minerale grezzo. Abbiamo un'altra compagnia che sta costruendo una nuova fabbrica e un'altra che la sta progettando. L'obiettivo nazionale è 467 milioni di tonnellate. Riesci a immaginartelo? Ma non mi chiedere nulla dell’inquinamento ambientale.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Disboscare qui per avere auto pulite nelle nostre ztl, così l’Indonesia sta diventando una nuova Amazzonia. Centinaia di chiatte stazionano intorno ai porti dei distretti industriali, l’energia per estrarre i minerali delle batterie è tutta a carbone. Nel 2013 l’Indonesia emetteva 164 milioni di tonnellate di Co2 dal solo carbone, con il boom estrattivo, oggi, sono raddoppiati a 303 milioni di tonnellate. Ogni tonnellata di nichel prodotto in Indonesia emette in media 58 tonnellate di biossido di carbonio equivalente, ben al di sopra della media mondiale.

GIULIO VALESINI È tutto un controsenso, cioè noi stiamo lavorando per costruire macchine, batterie per auto verdi e stiamo inquinando col Co2, con l'uso del carbone in una maniera impressionante.

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA È vero. Sembra un controsenso. Le auto verdi prodotte con energia a carbone. Tu vorresti che andassimo a pannelli solari, però immagina che abbiamo 177 linee di produzione che richiedono un sacco di energia. E da noi c’è tanto carbone, quindi usiamo quello, non possiamo mica importare energia.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il risultato è questo: tutto il giorno dagli impianti si alzano impressionanti colonne di fumo, dappertutto l’aria è irrespirabile e gli abitanti si proteggono come possono con le mascherine. All’ospedale pubblico i problemi respiratori sono ormai un'emergenza.

SAYA ADRIANI - PRONTO SOCCORSO OSPEDALE MOROWALI Tutti i giorni arrivano pazienti con problemi respiratori acuti. Non sono solo anziani ma anche giovani, persino molti bambini.

GIULIO VALESINI C’è una relazione secondo voi tra questi casi di problemi respiratori e l’attività di estrazione delle miniere?

SAYA ADRIANI - PRONTO SOCCORSO OSPEDALE MOROWALI Servirebbe uno studio per valutare l’impatto dell’inquinamento dell’industria sulla salute delle persone, ma finora nessuno l’ha mai fatto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO E oltre all’aria anche le acque non se la passano meglio. Per raffinare il nichel sono stati avviati ben dieci impianti con il controverso metodo detto HPAL, ossia la lisciviazione acida ad alta pressione. Consiste nel trattare con acido solforico a temperature di 255 gradi e pressione altissima le rocce grezze frantumate. Per ogni tonnellata di nichel lavorata, si producono circa 1,5 tonnellate di rifiuti pericolosi.

SEPTIAN HARIO SETO - VICEMINISTRO AGLI INVESTIMENTI E ALLE MINIERE Vogliamo assicurarci che il mondo abbia abbastanza scorte di nichel, sia per l'acciaio che per i veicoli elettrici. Abbiamo deciso di lavorare il nichel qui e poi venderlo sul mercato: avremo più posti di lavoro, più sviluppo economico, più ricchezza per tutti.

GIULIO VALESINI Noi siamo stati a Morowali e abbiamo filmato una situazione ambientale, un impatto ambientale pesantissimo. Sembra quasi che vi interessi più il business, no, che la tutela della salute dei vostri cittadini.

SEPTIAN HARIO SETO - VICEMINISTRO AGLI INVESTIMENTI E ALLE MINIERE È vero, abbiamo un problema di inquinamento ma non è vero che non stiamo facendo nulla. Abbiamo dato tempo alle aziende fino alla fine di quest'anno per migliorare la situazione. Chi non è in regola chiuderà l’impianto.

GIULIO VALESINI Voi, tra l’altro, avete il problema dello smaltimento se non sbaglio di quattro milioni di tonnellate di rifiuti tossici prodotti con l’estrazione del minerale: cosa ci fate con questi rifiuti tossici?

SEPTIAN HARIO SETO - VICEMINISTRO AGLI INVESTIMENTI E ALLE MINIERE I rifiuti pericolosi vengono seccati e stoccati a terra. Se un’azienda non ha una gestione adeguata del residuo tossico, non gli rilasceremo il permesso per lo stabilimento.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma se stoccati a cielo aperto in una zona ad alto rischio di sismi e alluvioni come l’Indonesia, i fanghi tossici possono finire ovunque, specie nelle acque.

ARIE ROMPAS - GREENPEACE INDONESIA L’uso di questo metodo non è mai stato testato da noi. Si rischia un enorme impatto sull’ambiente. Si è già iniziato a trovare inquinamento proveniente dalle raffinerie sulle coste e anche nei fiumi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’area di deposito a cielo aperto dei rifiuti tossici, solo del colosso IMIP, oggi copre 600 ettari, difficile che pioggia e vento non spargano residui chimici nei corsi d’acqua e nelle falde. Questa zona dieci anni fa era solo un villaggio di pescatori con poche centinaia di abitanti che vivevano grazie alla pesca. Oggi il mare è inaridito, flora e fauna morte. Abbiamo potuto documentare che le acque del mare sono rosse, mentre solo pochi anni fa erano blu cristallino. Quelle dei fiumi, lontane dall’oceano, sono rosso intenso.

CAPOVILLAGGIO Vedi? È tutto inquinato. È colpa dello smaltimento dalla fabbrica di IMIP. L’impianto è li. In linea d’aria sarà circa mezzo chilometro. Con le correnti i loro rifiuti arrivano in mare. Qui avevamo una gabbia per prendere i pesci. Tutti i pesci nella gabbia sono morti perché l'acqua è troppo calda e sporca a causa degli scarti industriali che si riversano in questo canale di scolo. Capisci? Tutti morti, morti.

GIULIO VALESINI Il nichel serve alle grandi case automobilistiche per la transizione ecologica. Per un mondo migliore. CAPOVILLAGGIO Non c'è alcun problema, signore. Purché anche noi possiamo godere dei frutti di questa industria del nichel rimanendo nella nostra isola. Questa è casa nostra.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Questo era il fondale marino qualche anno fa, prima del boom del nichel. La barriera corallina prosperava, e i pesci affollavano le acque. Un ambientalista locale, Habib Nadjar Buduha, è riuscito a filmare la devastazione in fondo al mare, come si presenta oggi, con una coltre di sabbia inquinata e i coralli ormai morti. Abbiamo chiesto conto ai proprietari del complesso IMIP, e del gemello IWIP. Ma si sono negati. Né siamo potuti entrare nel loro hotel di lusso per dirigenti e uomini d’affari. È privato, si accede solo per invito. Allora siamo andati a cercarli a Londra, alla Settimana della borsa dei metalli, in un lussuoso albergo che sembra un castello, usato come set per diverse scene di Harry Potter. Ma stavolta la sparizione non gli è riuscita: abbiamo intercettato un manager del gruppo cinese Tsingshan, l’azionista di maggioranza, poco contento di vederci.

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Mi raccomando non citate il mio nome.

CATALDO CICCOLELLA Qui ci sono delle immagini che abbiamo raccolto perché una delle nostre preoccupazioni è che ci sono degli scarti del processo di raffinazione che finiscono nelle acque.

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Dove avete fatto questi video?

GIULIO VALESINI Morowali. IMIP.

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Le hai fatte tu queste immagini?

CATALDO CICCOLELLA Due settimane fa.

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Due settimane fa?

GIULIO VALESINI Cosa è questo?

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Dici che è inquinamento? Forse è ...

CATALDO CICCOLELLA L’acqua era calda, stranamente calda.

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Secondo me non è colpa dei rifiuti tossici ma è qualche scarto che arriva dalle centrali elettriche oppure forse è caduto in mare qualcosa durante il carico o lo scarico nella zona portuale. Ti faccio vedere delle foto dall’hotel privato di IMIP. Da lì’ il mare è azzurro.

CATALDO CICCOLELLA Un altro problema è lo stoccaggio degli scarti tossici da HPAL. Ora vengono trattenuti con una specie di diga. Ci sono pericoli come inondazioni o terremoti?

ANDERSON GUAN - MANAGER TSINGSHAN Il terremoto è normale in Indonesia. Ma sono dieci anni che abbiamo avviato il parco industriale di Morowali e cinque anni quello di Weda Bay. È tutto sicuro, non è successo nulla sinora.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il dirigente dell’azienda lo nega ma le acque dell’oceano sono insolitamente calde, quasi bollenti soprattutto vicino all’impianto di lavorazione dove siamo riusciti ad arrivare con la barca di un pescatore locale.

ARWAL – PESCATORE L’acqua è davvero troppo calda a causa degli scarti che arrivano dagli stabilimenti. C’è un canale che porta i residui della fabbrica nel mare. Vedi? È lì. Può provare a mettere la mano dentro l’acqua, ma attento perché è molto calda.

GIULIO VALESINI Bollente, eh sì.

ARWAL – PESCATORE Anche la notte c’è odore di carbone, al punto che ci sembra di non poter più respirare.

SEPTIAN HARIO SETO - VICEMINISTRO AGLI INVESTIMENTI E ALLE MINIERE Guardala così. Morowali, otto anni fa, era solo un'area povera se non riusciamo a sviluppare questa industria, la gente rimarrà povera. Avete visto quante moto ci sono a Morowali?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO I lavoratori vivono in baracche sporche, affollati in piccole stanze, con servizi igienici che sfociano direttamente nelle fogne a cielo aperto. Gli stabilimenti di lavorazione hanno attratto migliaia di operai da tutta l’Indonesia e anche dalla Cina. La sera, al cambio turno, riempiono la strada che porta dentro il parco Industriale di IMIP.

LAVORATORE IMIP 1 È tutto contaminato, io ho problemi di respirazione. Ho la tosse. A volte mi sento bruciare il petto e la gola. L'aria dentro la fabbrica è piena di polvere, respiriamo poca aria pulita ormai.

LAVORATORE IMIP 2 Ci sono stati incidenti seri dentro la fabbrica. Noi chiediamo di continuo più sicurezza ma non ci ascoltano.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Le condizioni lavorative sono pessime. I turni di lavoro arrivano anche a dodici ore al giorno e in fabbrica mancano protezioni e sistemi di sicurezza, nonostante i profitti milionari dell’azienda. Pochi mesi fa l’Indonesia si è commossa per la morte della ventenne Nirwana Selle: molto nota sui social, era una esperta operatrice di gru di una raffineria di nickel non lontana da IMIP. Morta bruciata viva a causa di un corto circuito elettrico che ha causato un’esplosione. L’impianto non era manutenuto a dovere.

LAVORATORE IMIP 3 Noi lavoratori siamo spiati. Ci sono persone pagate da IMIP per controllarci che scattano foto o video dentro la fabbrica. Ce ne sono anche fuori. Se IMIP sa che parliamo con i giornalisti saremo licenziati.

LAVORATORE IMIP 4 Non possiamo far uscire notizie sugli incidenti. Qualche collega ha pubblicato sui social immagini di incidenti all’interno della fabbrica, sono stati scoperti e puniti. Fanno così invece di migliorare la sicurezza.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il governo indonesiano corteggia le grandi industrie automobilistiche e ha appena fatto una legge per togliere tutele ai lavoratori al fine di attrare capitali esteri.

GIULIO VALESINI È vero che Elon Musk vuole venire a investire in Indonesia?

SEPTIAN HARIO SETO - VICEMINISTRO AGLI INVESTIMENTI E ALLE MINIERE Sì, lo posso confermare, vuole fare investimenti in Indonesia. Ne stiamo parlando da più di un anno e mezzo. Tesla già acquista il nichel da noi attraverso il suo fornitore. Se ora vuole venire ad aprire uno stabilimento tutto suo, ovviamente gli diamo il benvenuto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Stellantis indica tra i suoi fornitori di nichel due società cinesi, senza dire che la lavorazione avviene qui. E le concorrenti sono ancora più opache sulla filiera.

GIULIO VALESINI E le aziende tedesche?

PIUS GINTING - RICERCATORE E ATTIVISTA BMW e Volkswagen hanno stipulato contratti di fornitura di batterie con la coreana Samsung SDI e il gigante cinese delle batterie CATL, che si riforniscono di componenti da GEM, che a sua volta, controlla una società locale che opera nella zona industriale IMIP a Morowali. Anche Mercedes acquista il nichel direttamente da CATL che a sua volta si rifornisce sempre dalla Gem.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A parlare è Pius Ginting, autore di due rapporti molto dettagliati sulla filiera del nichel per le auto elettriche, pubblicati dalla fondazione Rosa Luxembourg, il pensatoio della sinistra tedesca. I titoli sono eloquenti “La strada verso la rovina” e “Il lato oscuro delle batterie”.

GIULIO VALESINI E Tesla?

PIUS GINTING - RICERCATORE E ATTIVISTA Anche Tesla acquista le batterie sempre da CATL e dalla coreana LG Energy solution che attraverso una società controllata lavora il nichel proprio presso la zona industriale di Morowali. Insomma, non si scappa. Tutti vengono in Indonesia a rifornirsi di nichel.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il marketing ha già deciso: se guidi un grosso SUV elettrico, con centinaia di chili di minerali estratti, stai combattendo la buona battaglia verde, quasi come fossi un attivista di Fridays for Future.

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA È la Cina che controlla il 99%, della filiera. È solo grazie a loro se in Indonesia ora c’è questo boom del nichel per le batterie. Sai loro si preoccupano solo di far soldi e non si intromettono nella nostra politica.

GIULIO VALESINI Tesla, Volkswagen, Stellantis che comprano il nichel dall'Indonesia per le loro batterie, sanno come viene prodotto? O possono dire: "Noi non sapevamo che in Indonesia inquinano"?

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA Ma andiamo. Noi non nascondiamo nulla a nessuno, qui c’è la massima trasparenza. Tutti gli investitori occidentali sanno bene come si estrae il nichel qui e come si fanno le lavorazioni successive, i manager sono già stati a controllare. Sanno bene da dove viene quello che arriva nei vostri paesi.

GIULIO VALESINI Trova che la posizione occidentale, delle aziende occidentali che, come dire, fanno del verde marketing, un valore aggiunto, è un po' ipocrita?

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA Il marketing verde lo fate voi e magari qualcuno deve nascondere qualcosa.

GIULIO VALESINI Quello che da noi vendono come verde, verde non è.

MEIDY KATRIN LENGKEY - SEGRETARIA GENERALE ASSOCIAZIONE INDUSTRIA MINERARIA INDONESIANA Sì, sì. L’importante è dire che la valutazione del ciclo di produzione della batteria è verde, non c’è bisogno di rivelare al mercato i dettagli di ogni fase della lavorazione, altrimenti qualcuno dirà che il marchio di quella azienda è sporco. Ma per questo ci sono i team che fanno il marketing. E poi andiamo. Questo è business.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Questa estate il Parlamento Europeo ha approvato un regolamento per le batterie. L’obiettivo è controllare meglio la filiera, ma i produttori potranno scegliersi il controllore e lo pagheranno per certificare che le batterie sono verdi e senza sfruttamento. Il relatore è Achille Variati.

GIULIO VALESINI Il costruttore avrà tutto l'interesse a dire la mia batteria è sostenibile.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO C'è, ci dovrà essere un’autorità indipendente…

GIULIO VALESINI Ma indipendente, pagata dal costruttore?

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO No.

GIULIO VALESINI Cioè, non sono io che pago il mio certificatore? Che scelgo il certificatore?

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO No, questo sarebbe grave.

GIULIO VALESINI Leggendo il regolamento mi sembra che si accennasse al fatto di enti notificati, cioè pagati dalle aziende che certificano la bontà del processo.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO Mi auguro che se tu hai prodotto le materie prime critiche in modo sporco, tu non dovresti poter commercializzare le tue batterie in Europa.

GIULIO VALESINI Lei usa correttamente il condizionale.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO Beh, ho usato il condizionale perché sappiamo quanti siano forti gli interessi.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO C’è poi un dettaglio che dice tutto. Le batterie dovranno dichiarare quanto inquinano in termini di Co2 sul ciclo di vita, ma per ora non c’è alcuna soglia massima. Cioè, posso fare batterie sporche come quelle con nichel indonesiano, lo dichiaro e le vendo comunque. Pur di raggiungere l’obiettivo del 2035 l’UE chiuderà un occhio.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO Le batterie sono un imperativo nel Green Deal.

GIULIO VALESINI E ma come vengono fatte? Non sono green.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO Noi non raggiungeremo mai gli obiettivi del Green Deal.

GIULIO VALESINI Il problema è noi li raggiungeremo, magari in Europa, ma a scapito di altre zone del mondo così.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO E vabbè lì, è lì la serietà di quella di quelle due diligence è fondamentale.

GIULIO VALESINI C’è un mondo fuori dall’Europa.

ACHILLE VARIATI - EUROPARLAMENTARE PARTITO DEMOCRATICO Capisco, capisco.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il regolamento europeo delle batterie prevede il controllo della filiera. È una bella iniziativa però chi è che controlla? Le stesse aziende che le producono attraverso la certificazione degli enti notificati, cioè enti che paganno loro stessi. Ora, l’esperienza ci dice che non sempre funziona questo metodo anche perché quali sono quegli enti che scontentano chi li paga? E poi i cinesi consentiranno agli ispettori di muoversi liberamente nelle loro aziende o nei paesi dove si riforniscono della materia prima? Insomma, la logica finora è stata quella dell’occhio non vede, cuore non duole. Per abbassare le emissioni di Co2 nel nostro paese le alziamo da un’altra parte del mondo. È una sottile forma di colonialismo, poco importa se poi c’è la deforestazione, c’è la violazione dei diritti umani, c’è la corruzione, poco importa se poi, ogni tanto, brucia vivo qualche operaio. Ecco, ma di tutto questo, le aziende automobilistiche che cosa sanno? Noi abbiamo provato a chiedere e ci hanno risposto BMW, Mercedes, Stellantis e Volkswagen. Non rispondono nel merito ma ci dicono che non comprano direttamente i minerali, e che impongono ai loro fornitori di rispettare le buone pratiche. Tesla invece non ci vuole dare alcun riscontro. Ci spediscono un link dal quale si evince che hanno fatto ispezioni in Indonesia e che stanno prendendo provvedimenti, non dicono però quali e non commentano lo stato dell’ambiente, né quello dei lavoratori. Comunque, tutte le risposte le potete trovare sul nostro sito. Ora quello che è certo è che se l’Europa vuole diventare il primo continente a mobilità completamente elettrica, insomma, deve trovare un modo per reperire le batterie e anche le materie prime. E qual è la soluzione? La soluzione può essere quella o di trovare le materie prime sotto il proprio suolo, oppure importare dall’estero. Però su questo devi passare sotto la Cina che controlla il 90% della filiera. Oppure l’alternativa è comprare le auto dagli Stati Uniti e dalla Cina, le auto elettriche. Poi quelle degli Stati Uniti sempre dal dragone dipendono. Oppure è quello di scavare nel sottosuolo come abbiamo detto e per questo il progetto di Von Der Leyen e anche del nostro ministro Urso è quello di trovare nel nostro sottosuolo almeno il dieci per cento dei minerali critici a cominciare poi di riciclarne il quindici per cento. Però noi, da dove cominciamo a scavare?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Poche settimane fa il ministro del made in Italy Adolfo Urso ha annunciato un ambizioso piano minerario nazionale con decine di siti da rilanciare, sparsi nel centro e nel nord ovest a caccia di sedici minerali critici. Poi bisognerà anche pensare alla lavorazione.

29/03/2023 ADOLFO URSO - MINISTRO IMPRESE E MADE IN ITALY Faremo nei prossimi mesi una nuova mappa dei giacimenti in Italia. Il più grande giacimento in Italia di litio è in un parco naturale in Liguria.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Non è litio ma titanio. Il più grande giacimento d'Europa di cui parla il ministro Urso è qui, in questo angolo di Liguria di straordinaria bellezza, nelle viscere dell'area protetta Unesco del Beigua, tra Genova e Savona. Ai suoi margini si vuole aprire una miniera perché il titanio è una risorsa preziosa per la transizione verde e anche per l’industria della difesa e della comunicazione.

GIULIO VALESINI Siete seduti sopra una miniera d'oro.

DANIELE BUSCHIAZZO - PRESIDENTE PARCO NATURALE REGIONALE DEL BEIGUA Io credo che un distretto minerario sia incompatibile con un parco. Anche perché poi sarà necessario, pensare anche allo smaltimento di quello che viene estratto e non è utilizzato come biossido di titanio, quindi…

GIULIO VALESINI Se io estraggo cento, quanto residuo rimane?

DANIELE BUSCHIAZZO - PRESIDENTE PARCO NATURALE REGIONALE DEL BEIGUA Novanta dovrebbe essere residuo e dieci biossido di titanio. Il minerale è dentro l’eclogiti e nell’eclogiti c'è l'amianto. Adesso è in forma inerte. Nel momento in cui mi metto a scavare, lo libero.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il progetto europeo per i minerali critici prevede di mettere il bollino di interesse strategico su alcune miniere. Significa che i permessi saranno concessi con leggi speciali, in un paio d’anni al massimo. Non ci sarà modo di opporsi per le popolazioni locali. La famiglia Giacobbe ha lasciato la città per venire ad aprire un allevamento sostenibile qui nel parco e di titanio non vogliono sentir parlare.

MANUELA GIACOBBE - ALLEVATRICE Abbiamo avuto questa idea delle capre e questo ci è sembrato un posto bellissimo. E in effetti è un posto bellissimo.

GIULIO VALESINI È la ragion di stato che chiama, no, cioè il titanio, è un minerale strategico, serve al Paese, serve alla transizione ecologica.

MANUELA GIACOBBE – ALLEVATRICE Ma qua distrugge anche tante cose.

GIULIO VALESINI Le compensazioni che vi potrebbero arrivare non vi interessano? Cioè, magari…

MANUELA GIACOBBE - ALLEVATRICE Che compensazioni mi danno?

GIULIO VALESINI L’azienda che estrae vi dice: “Vi diamo, non so, un ampliamento della stalla, dei soldi…

MANUELA GIACOBBE - ALLEVATRICE Loro se mi fanno ampliare la stalla che tanto poi il mio formaggio non sarà venduto io cosa me ne faccio dell’ampliamento della stalla?

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Uno studio dell'Università di Genova ha messo in guardia sui possibili danni ambientali causati dalle tecniche di estrazione del titanio contenuto nelle rocce del Beigua. C’è solo una miniera simile al mondo ed è in Cina. Nel 2021 la giunta Toti ha autorizzato il via libera alle ricerche, nella zona a ridosso del parco, alla Compagnia Europea Titanio, una piccola società di Cuneo con appena 10 mila euro di capitale sociale.

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Si ritiene che ci siano qualcosa come 400 miliardi di risorse lì dentro.

GIULIO VALESINI 400 miliardi di euro?

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Sì.

GIULIO VALESINI Di controvalore economico?

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Si.

GIULIO VALESINI Accidenti…

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Io non so quanto sia il Pil della Liguria, ma penso che sia ben lontano.

GIULIO VALESINI Lei stessa neanche mi sa dire, non lo so come poi si potrebbe fare per estrarre in maniera pulita.

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Ma capisce che io... Come posso avere le competenze per darle delle soluzioni su un’estrazione in maniera pulita?

GIULIO VALESINI Lo so, però siete voi che chiedete l’autorizzazione, scusi, io a chi devo fare la domanda?

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO A chi eventualmente un domani deciderà di utilizzare questa risorsa. Non a me.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L’ idea è di vendere la licenza a una multinazionale che ha capitali e strumenti per scavare in quest’area. Ma il progetto, ancora prima di partire, è già finito in tribunale ed è in attesa del pronunciamento del Consiglio di Stato.

GIULIO VALESINI Il governo ha detto: “Benissimo, apriamo le miniere”. Avete come dire il vento in poppa.

ADA BENEDETTO – CONSIGLIERA DI AMMINISTRAZIONE COMPAGNIA EUROPEA TITANIO Questo potrebbe essere il momento giusto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Ma il piano del governo prevede decine di siti da rilanciare a caccia di minerali: oltre al titanio Ligure, si cercano zinco, piombo, argento in Lombardia, passando per il litio nel nord del Lazio, il recupero delle miniere sarde e il cobalto e nichel sulle alpi, vicino Torino.

GIANCLAUDIO TORLIZZI - FONDATORE SOCIETÀ DI CONSULENZA TCOMMODITY Se si vuole proseguire lungo la strada dell'elettrificazione, non c'è un'alternativa.

GIULIO VALESINI Bisogna fare leggi speciali?

GIANCLAUDIO TORLIZZI - FONDATORE SOCIETÀ DI CONSULENZA TCOMMODITY Assolutamente sì, sì, sì.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Gianclaudio Torlizzi, della Luiss, ha scritto, a inizio anno, uno studio che è finito su tutte le scrivanie che contano, compreso il ministero della Difesa di cui è consulente e quello dello Sviluppo economico. Titolo: “Perché l’Italia ha bisogno di un piano minerario nazionale”.

GIANCLAUDIO TORLIZZI - FONDATORE SOCIETÀ DI CONSULENZA TCOMMODITY C’è proprio un termine di militarizzazione delle materie prime, come arma geostrategica nei confronti di chi quella materia prima non ce l'ha.

GIULIO VALESINI Chi ha mano le risorse minerarie in questo momento, probabilmente, ha in mano il pallino del gioco. Chi ce l’ha in mano?

GIANCLAUDIO TORLIZZI - FONDATORE SOCIETÀ DI CONSULENZA TCOMMODITY La Cina, controlla circa il 90% della filiera legata, legata al green perché è un processo altamente inquinante.

GIULIO VALESINI Quindi adesso la Cina sta tenendo i prezzi bassi per sbaragliare la concorrenza. Domani, quando sarà monopolista, alzerà i prezzi e ci strozza.

GIANCLAUDIO TORLIZZI - FONDATORE SOCIETÀ DI CONSULENZA TCOMMODITY Questo è lo scenario più probabile.

CATALDO CICCOLELLA Pensa ci sia davvero un potenziale di rinascita dell’industria mineraria italiana?

ADAM FAN - PRESIDENTE BORSA METALLI SHANGHAI A livello mondiale ci sono aree come l'Africa e l'Australia che sono economicamente più convenienti. Voi italiani siete molto più bravi con le Lamborghini, le Ferrari o l'opera.

CATALDO CICCOLELLA Insomma, non riusciremo ad avere batterie con minerali europei?

ADAM FAN - PRESIDENTE BORSA METALLI SHANGHAI Non ce la potete fare da soli, non ne avete abbastanza. Ma forse tra dieci o vent'anni, quando i veicoli elettrici saranno un prodotto di massa, avrete una certa autonomia con il riciclo, come sta accadendo oggi per il piombo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il presidente della borsa dei metalli di Shanghai ci prende in giro. Voi pensate a fare quello che sapete fare meglio, le auto da corsa e le opere liriche, al resto pensiamo noi. Almeno fino a quando non saremo in grado di riciclare le loro materie prime finite nelle batterie. Invece per quello che riguarda il titanio che dovrebbe essere estratto dalle viscere del parco Unesco ligure, insomma, il progetto di Urso rischia di impantanarsi nelle pastoie giudiziarie. È finito in tribunale, perché la popolazione non vuole neppure cominciare a scavare nelle zone limitrofe al parco. E nell’occhio del ciclone è finito anche Elon Musk e la Tesla, insomma, per la sua rivoluzione verde, criticato per il modo con cui si approvvigiona delle materie prime ma anche per la gestione della sua prima Gigafactory, che è stata posizionata nella zona, in una delle zone più moderne della Germania, questo perché ha comportato una deforestazione del posto e anche una compromissione della falda acquifera.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il mega impianto di Elon Musk è nella regione di Brandeburgo, a 35 chilometri da Berlino. È il primo stabilimento di produzione di Tesla in Europa. Si fanno le famose auto ma anche le batterie al litio. È stato inaugurato in grande stile a marzo dell’anno scorso con Elon Musk che improvvisava balletti mentre consegnava personalmente le prime trenta Tesla appena sfornate. Per far posto ai 227mila metri quadri dello stabilimento sono stati abbattuti trecento ettari di foresta. La Gigafactory è stata costruita dentro un'area di protezione dell'acqua potabile del Land e ora è associata all’ impoverimento delle acque e a sospetti di inquinamento delle falde.

GIULIO VALESINI Quali sono gli effetti negativi della presenza di Tesla, qua sul territorio?

STEFFEN SCHORCHT -ASSOCIAZIONE AMBIENTALISTA VNLB Questa è tra le regioni più secche della Germania. Questa situazione è stata aggravata da Tesla.

GIULIO VALESINI Ma il problema dell’acqua è che ce n’è poca o loro, l’impianto di Tesla, rischia di inquinare o sta inquinando le falde acquifere?

STEFFEN SCHORCHT - ASSOCIAZIONE AMBIENTALISTA VNLB Tesla vincola per contratto una quantità d'acqua pari a quella di una piccola città di 40mila abitanti e l'acqua che Tesla vincola non è più disponibile per altri progetti come scuole o costruzione di abitazioni o altri insediamenti. Allo stesso tempo, Tesla sta mettendo in pericolo le falde acquifere perché utilizza molte sostanze chimiche nella produzione.

GIULIO VALESINI Perché siete preoccupati per l’acqua?

STEPHANY – ABITANTE BRANDEBURGO Non sappiamo quali incidenti avvengano nello stabilimento e in che modo le sostanze pericolose finiscano in acqua. Temo che qui diventi come in America, dove posso bere solo acqua in bottiglia e non più dal rubinetto.

GIULIO VALESINI Ma Tesla cosa vi ha detto sugli incidenti?

STEPHANY – ABITANTE BRANDEBURGO Hanno detto di aver rimosso le sostanze chimiche e che nulla è finito nelle acque sotterranee. Ma possiamo verificarlo personalmente? Certo che no.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO In questa stazione viene trattata l’acqua delle falde per renderla potabile. Nel Land di Brandeburgo lo scorso anno per la prima volta nella storia della Germania, l’autorità ha razionato l'acqua per i nuovi residenti.

ANDRÉ BÄHLER - PRESIDENTE WSE AUTORITÀ DELL’ACQUA BRANDEBURGO Da circa dieci anni si registra un calo della ricarica delle acque sotterranee. Ciò significa che la ricarica delle falde acquifere, che utilizziamo per produrre acqua potabile, è sempre minore. Allo stesso tempo, la domanda è in aumento. In pratica stiamo vivendo a debito, a spese delle persone che avranno bisogno dell'acqua in futuro.

GIULIO VALESINI Da contratto, quanta acqua l’anno voi date a Tesla?

ANDRÉ BÄHLER - PRESIDENTE WSE AUTORITÀ DELL’ACQUA BRANDEBURGO Abbiamo concordato con Tesla un limite massimo di 1,8 milioni di metri cubi all'anno. Si tratta di una percentuale significativamente superiore al dieci per cento del totale erogato.

GIULIO VALESINI Voi avete iniziato a razionare l’acqua, è corretto? Per i cittadini?

ANDRÉ BÄHLER - PRESIDENTE WSE AUTORITÀ DELL’ACQUA BRANDEBURGO Sì.

13/08/2021 GIORNALISTA Alcuni critici dicono che c'è un problema idrico per la regione.

ELON MUSK Questa regione ha tanta acqua, guardatevi intorno.

GIORNALISTA La gente del posto dice che non c’è acqua per…

ELON MUSK No, è completamente sbagliato. Qua c’è acqua ovunque. Vi pare un deserto qua?

GIORNALISTA Grazie.

ELON MUSK È ridicolo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO L'ufficio statale per l'ambiente ha registrato ventisei incidenti ambientali dall'apertura della fabbrica, fra cui incendi e perdite di gasolio e vernici. La preoccupazione delle associazioni ambientaliste è cresciuta da quando Tesla ha presentato un progetto di ampliamento della fabbrica che porterà la produzione ad un milione di macchine l’anno e oltre 20mila dipendenti assunti.

ANDRÉ BÄHLER - PRESIDENTE WSE AUTORITÀ DELL’ACQUA BRANDEBURGO Veniamo a conoscenza di incidenti solo dopo il fatto. Possiamo andare sul sito, effettuare le nostre misurazioni e rilevare le cose. Solo che se si tratta di acque sotterranee ormai è troppo tardi.

GIULIO VALESINI Voi come autorità dell’acqua siete contrari all’idea di un ampliamento di Tesla?

ANDRÉ BÄHLER - PRESIDENTE WSE AUTORITÀ DELL’ACQUA BRANDEBURGO Si, ma non saremmo comunque noi a fermare lo sviluppo di Tesla.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO A dare il semaforo verde sarà l'Agenzia statale per l'ambiente che però vuole prima esaminare le critiche in un'audizione con le altre autorità coinvolte. Gli ambientalisti contestano i documenti presentati dall'azienda americana. Centinaia di pagine oscurate e dati tenuti nascosti per non rivelare segreti industriali.

STEFFEN SCHORCHT - ASSOCIAZIONE AMBIENTALISTA VNLB Sono stati oscurati i nomi di molte sostanze chimiche e ci sono stati anche problemi con l'esame delle obiezioni. Non sono state consegnate in tempo.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Jörg Steinbach è il ministro dell'Economia del Land di Brandeburgo. A marzo è volato negli Stati Uniti per portare personalmente una lettera di sostegno al progetto di ampliamento di Tesla. Ha fatto visita agli stabilimenti di Elon Musk ad Austin con addosso una maglietta di Tesla, come ha mostrato con orgoglio sul suo profilo X.

JÖRG STEINBACH - MINISTRO ECONOMIA - LAND BRANDEBURGO Si tratta di una grande storia di successo economico per noi. Oggi abbiamo tra gli 11mila e i 12mila dipendenti.

GIULIO VALESINI Vi siete apertamente schierati a favore di Tesla. E questo è stato visto da molti come un atteggiamento un po’ troppo sottomesso nei confronti di Tesla e di Elon Musk. Ha fatto un errore a indossare la maglietta di Tesla lei che è un ministro e ha una funziona pubblica, non so…

JÖRG STEINBACH - MINISTRO ECONOMIA - LAND BRANDEBURGO Non so se si sia trattato di un errore, perché in realtà sostengo solo ciò che ritengo giusto. Sono il ministro dell'economia, sto cercando di far crescere l'economia del Brandeburgo.

GIULIO VALESINI Noi abbiamo intervistato il presidente dell’autorità delle acque e diceva nel vostro territorio, per la prima volta nella storia della Germania, si è arrivati a razionalizzare l’acqua.

JÖRG STEINBACH - MINISTRO ECONOMIA - LAND BRANDEBURGO Sì, è quello che ha fatto l'autorità ma non ha alcun motivo per farlo.

GIULIO VALESINI Sul piano presentato da Tesla sull’ampliamento, ci sono centinaia di pagine mancanti, sono piene di omissis, di dati cancellati in nome della riservatezza industriale.

JÖRG STEINBACH - MINISTRO ECONOMIA - LAND BRANDEBURGO Abbiamo un'autorità altamente competente che conosce i dati completi e la copia che è stata oscurata. La decisione finale sull'autorizzazione sarà presa sulla base di tutte le conoscenze disponibili, in conformità con la legge.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, Elon Musk sta aprendo Gigafactory in tutto il mondo. Una l’ha aperta anche in Cina che controlla la filiera dell’elettrico, l’abbiamo visto, ma è un paese fuori controllo dal punto di vista etico e ambientale. Anche perché per raggiungere gli obiettivi del New Green Deal l’abbiamo delegata ad inquinare per noi al riparo dalla nostra coscienza. La Cina è responsabile del 29% delle emissioni dei gas serra globali nel 2022, l’Europa del 6,6%. Insomma, produce auto elettriche utilizzando centrali a carbone. A qualche migliaio di chilometri da Bruxelles c’è un altro paese che sta pagando l’obiettivo dell’Europa di diventare il primo continente elettrico al mondo. La colpa di questa popolazione, l’unica colpa di questa popolazione è quella di vivere su una miniera di cobalto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO La zona di Kolwezi, in Congo, è ricca di cobalto, altro minerale per le batterie ma invece che una benedizione si è trasformato in una sventura per le popolazioni locali. È una denuncia di Amnesty International. La miniera si deve espandere costi quel che costi e così inghiotte aree abitate e la gente viene sfollata, anche con la forza.

KANINI MASKA - ABITANTE KOLWEZI La nostra fonte d'acqua. Il nostro bestiame. Le scuole, dove i nostri figli ricevevano un'istruzione. Il nostro ospedale. Il nostro mercato. Lo stadio dove i nostri figli andavano a giocare. Le nostre chiese. Abbiamo perso tutto.

CANDY OFIME - AMNESTY INTERNATIONAL La domanda di minerali cresce e si deve allargare la miniera. È per questo che dal 2016 la gente del posto è stata sfrattata senza preavviso e senza poter negoziare. Chi si è rifiutato è stato allontanato con la violenza. Persino una bambina di due anni ustionata dai militari mandati dalle società minerarie.

KANINI MASKA - ABITANTE KOLWEZI Ci siamo chiesti se fosse una guerra o qualcos'altro. I soldati erano con i fucili e noi, appena arrivati dai campi, avevamo tanta paura mentre li vedevamo bruciare le nostre case.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Kolwezi è una cittadina di circa 500mila abitanti ma è situata interamente sopra un'area mineraria. Ora è a rischio di una deportazione quasi completa, nuove case saranno demolite.

JOSEPH KITENGE - ABITANTE KOLWEZI Hanno bruciato la mia casa e le mie cose. E ora non ci danno alcun risarcimento. Io combatterò per averlo, ma mia figlia soffre terribilmente per le violenze subite e nulla potrà ripagare quanto è avvenuto.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Oltre al danno anche la beffa. Le multinazionali hanno promesso delle compensazioni, salvo poi elargire pochi spicci. Da questa miniera attinge al cobalto Elon Musk che ha stretto un accordo anche in Bolivia per accaparrarsi il litio, altro elemento fondamentale per la batteria.

DA REPORT DEL 19/3/2018 INGEGNERE SUDAMERICANO Il litio è sciolto nell’acqua. Con delle reazioni chimiche dobbiamo prima ottenere il carbonato di litio; venite, vi faccio vedere. Ecco, nelle batterie si usa questo. Questo è un sacco di mezza tonnellata, 500 kg.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Se il litio è il petrolio, LA nuova penisola arabica è il Sudamerica. Qui siamo nel Salar di Atacama, un lago salato a 2.500 metri di altezza nel nord del Cile, una delle zone più aride del pianeta. Qui hanno gli stabilimenti i principali produttori di litio del mondo: l’americana Albemarle e la cilena SQM, con cui recentemente il patron di Tesla, Elon Musk ha stretto un accordo.

JUDITH CRUZ MORALES – COMMISSIONE TERRA E ACQUA DI PEINE Questo è il mio villaggio; lì c’è la miniera di Albemarle e al nord ci sta SQM, il verde che vedete è grazie all’acqua sotterranea. Noi siamo agricoltori e allevatori, ma l’acqua comincia a scarseggiare: la usano nelle miniere. Così distruggeranno il Salar, ci sono voluti milioni di anni per formarsi.

JUDITH CRUZ MORALES, COMMISSIONE TERRA E ACQUA DI PEINE Stiamo entrando nella miniera di SQM, tutti i tubi che vedete portano l’acqua verso la miniera.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Il litio si estrae mischiando il sale con l’acqua e facendola poi evaporare al sole. Per questo si usano immense quantità di liquidi.

ALONSO BARROS – AVVOCATO COMUNITÀ DI PEINE Il Salar è un lago sotto un tappo di sale; da qui SQM pare che stia estraendo 1.700 litri al secondo di salamoia. E poi c’è l’acqua dolce. In questa zona SQM ha 5 pozzi per 230 litri al secondo. Una barriera idraulica che sta facendo abbassare il livello dell’acqua seccando tutte queste lagune. Il rischio è che venga distrutta la biodiversità. Nell’anno 2006, quando si autorizzò un aumento dell’estrazione, morì un’intera generazione di fenicotteri, guarda queste immagini, queste sono le uova, distrutte.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO SQM fu privatizzata ai tempi di Pinochet. Negli anni Novanta finisce sotto il controllo di Julio Ponche Lerou, genero del dittatore, uno degli uomini più ricchi del Sudamerica. Ha firmato un contratto in esclusiva per lo sfruttamento del litio nel Salar di Atacama fino al 2030 in cambio del 5 per cento delle vendite di un costo di concessione di 10mila dollari. In cambio avrebbe guadagnato 100mila dollari l’anno.

MAURICIO DAZA – AVVOCATO PARTE CIVILE PROCESSO SQM Per garantirsi lo sfruttamento del Salar SQM ha finanziato illegalmente per decenni gran parte dei partiti di destra e di sinistra in Cile. Stiamo parlando esplicitamente di corruzione. Nonostante ciò, lo Stato ha firmato recentemente un nuovo contratto con SQM, che prevede royalties più alte, ma anche un importante aumento della quantità di litio estratto, fino a 180mila tonnellate l’anno.

GIULIO VALESINI FUORI CAMPO Centottantamila tonnellate di litio hanno un valore di mercato 2,8 miliardi di dollari. Il rinnovo del contratto tra Stato e SQM ha diviso il paese. È finita con scontri di piazza. Se il litio è il nuovo petrolio ecco che nascono i nuovi sceicchi. La Bolivia, che attualmente è il paese più povero del Sudamerica, è la nuova Arabia Saudita. Sulle Ande, a 3.600 metri di altezza, dopo 100 km di strade sterrate, si raggiunge il Salar de Uyuni, una delle meraviglie del mondo: un lago salato di 10mila km quadrati. Un’altra meraviglia della natura sfregiata a beneficio dell’altra parte del mondo.

GIULIO VALESINI Lo sa che qualcuno lo considera un effetto collaterale minore in un percorso verso un mondo migliore, verso un mondo più pulito, più giusto?

CANDY OFIME - AMNESTY INTERNATIONAL Tutti i diritti umani sono interconnessi, non possiamo avere un ambiente pulito, sano e sostenibile nel nord globale a scapito di altri diritti umani. Le aziende occidentali devono fare una verifica del rispetto dei diritti umani dei loro fornitori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Tra i fornitori congolesi di cobalto a Tesla c’è Kamoto, Kamoto è controllata dal gruppo Glencore, multinazionale che ha realizzato degli extraprofitti miliardari sulle materie prime. Kamoto paga gli operai 3,5 dollari al giorno in più gli dà anche un litro e mezzo di acqua. Ecco, alla faccia della generosità. Abbiamo capito che l’estrazione delle materie è legata alla violazione dei diritti dell’uomo. Ma anche dell’ambiente, alla deforestazione, alla contaminazione di acqua e aria, alla sottrazione di beni senza il consenso della popolazione, allo sgombro dei villaggi. Anche, insomma, a provocare la morte di operai che a volte bruciano vivi. L’Europa riesce a sopportare questo peso pur di raggiungere il suo obiettivo di diventare il primo continente al mondo elettrificato, oppure riuscirà a sostenere questo peso quando cominceranno a scavare le miniere nel nostro paese, nel nostro continente? Oppure è il caso di rivedere i nostri stili di vita e anche il nostro modello di trasporti?

Buongiorno controtuttelemafie.it, Mi chiamo Franca Rovelli e sono una Redattrice per il Blog di Energia-Luce.it 

Vi contatto per presentarvi il nostro ultimo articolo: "Record Mondiale a Monaco: Auto Elettrica percorre 2.500 km con una sola ricarica", in cui presentiamo la macchina dei record con uno sguardo verso il futuro della mobilità green. 

Sentitevi liberi di inserire questo articolo originale nel vostro sito web così com'è o modificarlo a seconda delle vostre esigenze editoriali e, se interessati, abbiamo a disposizione anche immagini di corredo da poter aggiungere. 

Vi chiedo solamente l'accortezza di esplicitare la fonte per evitare di incorrere in problemi di copyright con Google.

Record Mondiale a Monaco: Auto Elettrica Percorre 2.500 km con una Sola Ricarica 

Un inedito record mondiale è stato stabilito a Monaco: un'auto elettrica ha percorso 2.500 km con un'unica ricarica, senza alcuna interruzione per fare rifornimento. Il sorprendente risultato è stato raggiunto da un team di studenti tedeschi nell'ambito delle attività l'IAA Mobility di Monaco di Baviera, ovvero la fiera dedicata alla mobilità elettrica. 

Le caratteristiche del veicolo 

L’auto si chiama Muc022, ed è stata testata attraverso una maratona durata sei giorni in un hangar dell'aeroporto della città bavarese in cui il veicolo ha percorso suddetta distanza con una batteria dotata di 15,5 kWh di potenza nominale. 

Muc022 è stata appositamente realizzata con materiali compositi ultraleggeri che le conferiscono un peso di soli 170 kg (incluse le batterie). Inoltre, la sua forma aerodinamica le permette di ottimizzare l’attrito con l’aria, anche se per via delle dimensioni ristrette può ospitare solamente un passeggero all’interno di un abitacolo non esattamente confortevole.

La velocità massima raggiungibile dal veicolo è di soli 42 km/h; tuttavia, a rappresentare il suo punto di forza sono i consumi: infatti la muc022 è alimentata da due motori di da 400W, una potenza simile a quella di un comune pannello solare utilizzato per produrre energia elettrica. Più nello specifico, l’auto vanta motori a magneti permanenti ed un modello di inverter innovativo al nitruro di gallio. Infatti, pare proprio essere l’inverter il segreto della muc022, in quanto costituisce un elemento fondamentale per un veicolo elettrico, trasformando la corrente continua proveniente dalle batterie in corrente alternata. La presenza di un inverter efficiente come quello dell’auto in questione offre svariati vantaggi come tempi di ricarica più veloci, batterie più piccole con prestazioni ugualmente efficienti e con una maggiore lunghezza di vita utile.  

Il futuro dell’auto elettrica

Sicuramente il record stabilito a Monaco costituisce una nota positiva per il mondo della mobilità green. Ma che futuro ha l’auto elettrica?

Un sondaggio ha dimostrato che anche in Olanda, paese che detiene il record di centraline di ricarica elettrica e che viene preso come punto di riferimento per gli ambientalisti, il 96% dei proprietari di auto a benzina afferma di non essere ancora disposto a passare all’elettrico.

Le motivazioni del rifiuto sono molteplici, ma la causa principale è l’alto costo delle vetture. In Olanda le auto elettriche più economiche hanno infatti un prezzo che si aggira intorno ai 25 mila euro, che spesso corrisponde anche al doppio dell’equivalente modello a benzina e/o a gas. D’altronde, anche il tentativo del governo Olandese di erogare un bonus di 3 mila euro per incentivare l’acquisto di automobili elettriche non ha sortito i risultati sperati. Inoltre, bisogna anche considerare come le auto elettriche siano ancora esenti dalla tassa di circolazione, seppur questa imposta verrà ripristinata dal 2026. L’Associazione Automobilistica Olandese (ANWB) ha espresso preoccupazione e ha evidenziato come molte persone vorrebbero in realtà passare alle auto elettriche, ma sono preoccupate sia dagli attuali costi che dai costi aggiuntivi che potrebbero presentarsi in futuro. 

Insomma, al di là del record, il futuro dell’elettrico sembra ancora essere molto incerto, e tutti questi ostacoli potrebbero dissuadere gli automobilisti dall’adozione di veicoli elettrici ed impedire il raggiungimento degli obiettivi climatici stabiliti per il 2050 volti a combattere la crisi energetica. 

Fonte: Studio Energia-Luce

Grazie in anticipo per il tempo dedicatomi.

Cordialmente, Franca Rovelli

Redattrice papernest, papernest è una giovane start-up che supporta le persone nelle loro procedure amministrative.

Italia: Nuovo Record in Ricarica Elettrica grazie agli incentivi. Daniele Tarantino , SEO Specialist, 14 Novembre 2023 su energia-luce.it

Sommario: L’Italia si sta rapidamente affermando come uno dei leader europei nel settore della mobilità elettrica, grazie ad un’impressionante crescita delle stazioni di ricarica per i veicoli elettrici. Con un balzo notevole del 44,1% rispetto all’anno scorso, settembre 2023 ha segnato un record storico con 47.228 colonnine di ricarica pubbliche sparse sul territorio nazionale. Questa espansione, che evidenzia l’impegno nel dotare il paese di un’infrastruttura moderna e sostenibile, è un passo significativo verso un futuro di energie rinnovabili e un futuro più verde.

La crescita non è stata uniforme in tutto il paese. La Lombardia, con oltre 8.000 punti di ricarica, si conferma al primo posto, mentre la Campania emerge come la regione con la crescita più rapida nel 2023 (+2.212 impianti da inizio anno). Altri progressi significativi sono stati fatti nel Sud e nelle Isole, dove si concentra ora il 23% del totale dei punti di ricarica. Questa distribuzione regionale dimostra un impegno per un’espansione equilibrata e accessibile a livello nazionale.

Mentre l’infrastruttura di ricarica lungo le autostrade italiane si sviluppa rapidamente, con 851 punti di ricarica al 30 settembre 2023, la sfida ora è superare l’immobilismo di alcuni operatori autostradali per garantire un servizio efficiente e capillare.

Quanto costa la ricarica dell’auto elettrica?

La scelta tra ricaricare il proprio veicolo elettrico a casa o in una stazione pubblica è influenzata da diversi aspetti. Per chi opta per la comodità domestica, una normale presa di 3 kW può essere sufficiente, con costi assimilabili a quelli di un elettrodomestico. Tuttavia, i tempi di ricarica sono più lunghi, variando tra le 5 e le 8 ore. Per accelerare il processo, molte persone scelgono di installare un Wallbox, una stazione di ricarica privata, che offre tempi di ricarica più rapidi.

Per le ricariche pubbliche, le stazioni variano in termini di potenza e tipo di corrente, con colonnine che vanno da 7 kW (corrente alternata) fino a 350 kW (corrente continua). In media, il costo per ricaricare presso stazioni a corrente alternata oscilla tra i 40 e i 72 centesimi al kWh, mentre per quelle a corrente continua, il prezzo varia tra i 45 e i 79 centesimi al kWh. Considerando una ricarica di 40 kWh per il costo di un kWh in Italia, il costo totale può variare dai 16 ai 31,6 euro, a seconda della stazione e del tipo di abbonamento, se disponibile.

Il Bonus Colonnine Elettriche: Un Passo Verso il Futuro

L’Italia compie un passo significativo verso la mobilità sostenibile con l’introduzione del “Bonus colonnine elettriche”, una misura governativa finalizzata a promuovere l’adozione di veicoli elettrici. Questo incentivo, mirato a supportare i cittadini e i condomini che si impegnano nell’installazione di infrastrutture di ricarica, rappresenta un elemento chiave nella strategia di riduzione delle emissioni e nella transizione verso un’energia più pulita.

Il bonus copre l’80% delle spese sostenute per l’installazione delle colonnine di ricarica elettrica, includendo l’acquisto delle colonnine stesse, i lavori elettrici necessari, le opere edili indispensabili, sistemi di monitoraggio, spese di progettazione, supervisione dei lavori, sicurezza, test e connessione alla rete elettrica. Per gli individui, il tetto massimo del rimborso è fissato a 1.500 euro, mentre per le installazioni in condomini può raggiungere gli 8.000 euro.

Nel 2023, il periodo per la presentazione delle domande è stato stabilito tra il 9 e il 23 novembre, rivolto a coloro che hanno effettuato installazioni dal 1° gennaio al 23 novembre dello stesso anno. 

Le domande devono essere presentate attraverso una piattaforma online, richiedendo l’accesso tramite SPID, CIE o CNS. 

Importante sottolineare che i pagamenti relativi all’installazione devono essere tracciabili, attraverso metodi come bonifici e carte di credito o debito.

Importante evidenziare anche le limitazioni operative dell’incentivo, tra cui la finestra temporale ristretta per le richieste e l’obbligo di utilizzo di strumenti di comunicazione certificati come la PEC. Inoltre, l’importanza di una misura non retroattiva per il 2024, che sia chiara e stabile, per stimolare efficacemente il mercato delle infrastrutture di ricarica e supportare i cittadini nella transizione all’auto elettrica.

In conclusione, l’Italia sta avanzando verso un futuro più green,  con una rete di ricarica elettrica in espansione e politiche incentrate sull’ecologia. Questi sforzi non solo migliorano l’accessibilità e l’usabilità dei veicoli elettrici, ma posizionano anche il paese come un modello per la sostenibilità in Europa.

Quanto ci costano le auto elettriche. Poche scendono sotto i 25mila euro, ma con gli incentivi si riesce a risparmiare. Omar Fumagalli il 6 Novembre 2023 su Il Giornale.

Nuovi marchi e storiche case accrescono di continuo la propria offerta Bev, le auto elettriche, ma non molte sono davvero accessibili all'italiano medio nel prezzo, prima ancora che nella gestione pratica. Non a caso, quest'anno in Europa il 15% dell'immatricolato è Bev, ma l'Italia resta in coda: nemmeno il 4%.

Listini non popolari

Tralasciando le vendite assolute che premiano Tesla e altre berline medio superiori, davvero prestanti, sicure e capaci di fare anche viaggi (se il driver è connesso e trova colonnine fast) le protagoniste dei segmenti popolari come A e B, che dovrebbero sostituire gradualmente le termiche con vantaggi nei centri urbani, ci sono ma con prezzi lordi mai inferiori ai 25 mila euro. Un muro da abbattere solo con prossime generazioni di Bev eco in tutto. Apripista annunciata la Citroen e-C3, in arrivo nel 2024.

Convenienti con gli incentivi

Intanto, grazie agli incentivi è possibile acquistare un'elettrica di quelle in consegna con rottamazione e risparmiare parecchio: 5 mila euro e oltre, dipende dai contributi regionali o provinciali, che si sommano a quello dello Stato (vedi in Lombardia o Veneto, dove il bonus complessivo diventa a quattro zeri) se la stessa rientra in prezzi di listino che siano 42 mila euro, circa.

Piccole Bev europee

Si parte allora dal basso con Dacia Spring, che dichiara 230 km di autonomia nei suoi 3,7 metri d'ingombro per quattro occupanti e scende a prezzo netto di 16.500 euro circa, con bonus statale. Per avere una bella e curata Fiat 500 elettrica, che spazia su più allestimenti e anche varianti di batteria, occorrono almeno 24 mila euro, incentivati. Nel mezzo, sempre parlando di piccole elettriche utili all'utenza urbana, ci sono la Twingo Electric e la smart Fortwo, con autonomie entro i 200 km in Wltp misto e prezzi netti rispettivamente da 19mila e 20mila euro. Chi non rottama e non è in zone molto incentivate da enti locali, ha comunque bonus ma spesso oltre che dimezzati. Allontanando il miraggio di un'elettrica che costi poi poco, visti i costi di carburante e d'officina oggi, al prezzo medio della classica Panda Fire che spopolava un tempo.

I segmenti superiori

Vero è che i tempi e il costo dalla vita cambiano, che certe Bev permettono più servizi. Salendo di segmento sono anche capaci di soddisfare per stile e prestazioni massime quasi tutti. Regina del momento non è solo Tesla, premiata dal mercato per come vende la Model Y, ma anche Audi con la Q4 e-tron, Mercedes con EQA, o Polestar, con la 2. Auto che nel dichiarato Wltp superano spesso i 550 km e che realmente almeno 350 km li fanno, da cariche. Vanno bene, ricche di comfort e Adas, ma costano almeno 47mila euro l'americana, 57mila le tedesche e poco oltre 50mila la svedese. Gioia nostrana potrebbe essere la Fiat 600e: degno compromesso in termini di ingombri (4,1 metri), spazio a bordo, prestazioni (400 km Wltp) e semplicità, ma quotata al lancio non meno di 30 mila euro, con incentivi statali. Se dobbiamo pensare alla rivalità cinese, oggi, ecco Byd Atto3. Premiata agli ultimi test NCAP per ecologia e sicurezza, più spaziosa e lievemente prestante dell'italiana, costa almeno 42 mila euro: da incentivo, ma non siamo certo popolari.

L'alternativa del noleggio

Sono proprio gli incentivi il centro della discussione, in varie nazioni ora più caute nell'elargire fondi misurando solo emissioni veicolo. Staremo a vedere quanto conviene puntare a sfruttarli, finché tali e finché non debuttano vere low-cost (attesissima l'erede di Panda) o pensare al possesso finanziato, di breve periodo, se si vuole una Bev. Con formule noleggio e altro che sposi chi la prova, valutando la propria compatibilità oltre che il valore stesso dell'auto, tra qualche anno. Tra le piccole, il canone di noleggio per una 500e dalla Casa, attualmente aggira i 400 euro mensili.

L'auto elettrica della discordia. Stefano Graziosi su Panorama il 05 Ottobre 2023

Questo veicolo può creare fibrillazioni nei rapporti di Berlino con Parigi e Washington. Ecco perché Che Berlino non auspichi rotture con la Cina non è mai stata una novità. A renderlo ulteriormente manifesto è la questione dei potenziali dazi alle auto elettriche cinesi. Come riportato da Politico, la Commissione europea aveva avviato un’indagine il mese scorso sui veicoli elettrici importati da Pechino. “I mercati globali sono ora inondati di auto elettriche cinesi più economiche. E il loro prezzo è mantenuto artificialmente basso da enormi sussidi statali”, aveva dichiarato il presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, per poi aggiungere: “Questo sta distorcendo il nostro mercato”. Caldeggiata da Parigi, l’inchiesta sulle auto elettriche cinesi potrebbe portare ad un aumento delle tensioni commerciali tra l’Unione europea e il Dragone. E l’ipotesi di dazi da parte dell’Ue è stata accolta con freddezza da Berlino. “Non ne sono molto convinto, per dirla educatamente”, ha detto a tal proposito il cancelliere tedesco, Olaf Scholz, la settimana scorsa. “Il nostro modello economico non dovrebbe basarsi o fare affidamento sul protezionismo, ma sull'attrattiva dei nostri prodotti”, aveva aggiunto. Una linea, questa, che era già stata adottata, pochi giorni prima, dal ministro dei Trasporti tedesco Volker Wissing “In linea di principio non penso molto

Trasporti tedesco Volker Wissing. In linea di principio non penso molto alla costruzione di barriere sul mercato”, aveva dichiarato rispetto all’idea di dazi europei contro le auto elettriche cinesi. “Dobbiamo assicurarci di produrre i nostri veicoli elettrici in modo competitivo, per la Germania e per i mercati mondiali”, aveva proseguito, citando rischi per l’economia tedesca. Insomma, quella sui dazi alle auto elettriche cinesi rischia di essere l’ennesimo dossier in grado di spaccare l’Unione europea al suo stesso interno. Un elemento che potrebbe avere degli impatti anche sulle relazioni transatlantiche. Già dai tempi di Barack Obama i rapporti tra Washington e Berlino sono attraversati da turbolenze su vari fronti. Inoltre, non va trascurato che la questione dell’auto elettrica è ormai entrata pienamente nella campagna elettorale per le presidenziali statunitensi del 2024. Lo sciopero in corso dei metalmeccanici americani contro Ford, Stellantis e General Motors è, almeno in parte, dovuto proprio alle crescenti preoccupazioni, nutrite dai colletti blu nei confronti dei veicoli elettrici. Donald Trump è andato subito all’attacco, criticando le politiche di Joe Biden favorevoli a queste auto. L’ex presidente ritiene, in particolare, che tali politiche avvantaggeranno soltanto la Cina e che, al contempo, danneggeranno il comparto automobilistico del Michigan. Biden, dal canto suo, ha cercato di correre parzialmente ai ripari, varando misure che possano ridurre l’impatto socioeconomico del passaggio all’elettrico. Resta tuttavia il fatto che molti metalmeccanici americani continuano ad essere preoccupati, mentre a Washington il focus è sul cercare di evitare una dipendenza dalla Repubblica popolare cinese nel settore. Non è quindi escluso che, in futuro, l’auto elettrica possa creare ulteriori attriti tra Stati Uniti e Germania. Gli americani non hanno d'altronde mai digerito i forti legami economici tra Berlino e Pechino.

La caduta, le batterie e il "thermal runaway": l'ipotesi sull'incendio del bus. Per la procura "non risultano particolari fiamme o un incendio in senso tecnico del bus precipitato, ma che c'è stata una fuoriuscita di gas dalle batterie di litio su cui stiamo facendo accertamenti". Ecco dunque perché l'ipotesi del Thermal Runaway non è da escludere. Di cosa si tratta e quali sono le batterie presenti sul mercato. Domenico Ferrara il 4 Ottobre 2023 su Il Giornale.

È colpa delle batterie? Nel tremendo e tragico incidente di Mestre, che ha causato la morte di 21 persone, sono finite subito sul banco degli indiziati. Il bus dell'azienda cinese Yutong era il modello E12, diciotto tonnellate e mezzo di stazza con batterie di tipo FLP da 422,87 kWh e raffreddate a liquido. Ma cosa vuol dire LFP? Proviamo a fare chiarezza.

Partiamo innanzitutto dal dire una cosa: i veicoli elettrici non sono maggiormente soggetti a incendi. Infatti, secondo uno studio del National Fire Protection Association, il rischio di incendio è 64 volte inferiore rispetto alle vetture con motore endotermico. È vero invece che quando una batteria prende fuoco è più difficile da spegnere, seppur la propagazione dell'incendio sia più lenta. A volte è necessario monitorare fino a 48 ore la batteria per scongiurare la riattivazione della combustione.

Da non sottovalutare poi il cosiddetto "thermal runaway", una fuga termica che si alimenta in maniera autonoma quando vi è un eccessivo aumento della temperatura, provocando l’incendio dell’elettrolita liquido che di per sé è molto infiammabile. E cosa può innescare questo tipo di esplosione? Tra le cause ci possono essere un cortocircuito interno o esterno provocato per esempio da un incidente o da un forte impatto meccanico, come per esempio una caduta da grande altezza. L'impatto può così deformare la batteria esternamente o anche internamente così da rompere il separatore (una sorta di filtro) tra anodo e catodo. Quando i due terminali si toccano, ecco che avviene il corto circuito interno a cui l’elettronica di sicurezza non può pore rimedio. Ecco dunque che il calore aumenta sempre di più fino a incontrare l’effetto Thermal Runaway. Il procuratore di Mestre, Bruno Cherchi, ha affermato che "non risultano particolari fiamme o un incendio in senso tecnico del bus precipitato, ma che c'è stata una fuoriuscita di gas dalle batterie di litio su cui stiamo facendo accertamenti". Ecco dunque perché l'ipotesi del Thermal Runaway non è da escludere.

Detto questo, cosa vuol dire LFP?

L'acronimo indicata la composizione della batteria, in questo caso litio-ferro-fosfato. Ma sul mercato ci sono altri tipi di batterie, come quelle NMC (nichel-manganese-cobalto) e NCA (nichel-cobalto-ossido di alluminio).

Le batterie LFP in teoria rispetto alle altre sono quelle sono più resistenti e meno suscettibili a problemi di surriscaldamento. Una variante delle LFP, ancora più sicura, è quella che monta l'architettura Blade e che se viene perforata non esplode.

Le batterie NMC sono meno sicure delle LFP perché presentano un rischio maggiore di fuga termica in caso di sinistro anche se hanno prestazioni in termini di densità energetica e accumulo.

C'è un video in cui si vede un test di penetrazione effettuato su una batteria NCM che esplode e si incendia nel giro di tre secondi e su una LFP con architettura Blade che invece rimane stabile, non esplode e non si incendia. Le LFP invece si perforano ma sono meno soggette a incendio rispetto alle NMC.

"Tempi più lunghi per spegnere i motori elettrici. L'impatto violento causa dell'incendio". "L'incendio di un pacco batterie elettriche, rispetto a un veicolo tradizionale che prende fuoco, comporta tempi di spegnimento molto più lunghi". Pierluigi Bonora il 5 Ottobre 2023 su Il Giornale.

«L'incendio di un pacco batterie elettriche, rispetto a un veicolo tradizionale che prende fuoco, comporta tempi di spegnimento molto più lunghi. Le batterie, quelle agli ioni di litio in particolare, autoproducono infatti ossigeno, con la conseguenza che l'incendio si auto-sostiene. Ne deriva una maggiore difficoltà nel domare le fiamme».

Roberto Gullì, comandante vicario dei Vigili del fuoco di Firenze e referente del Corpo nazionale dei Vigili del fuoco per la sicurezza stradale e gli incidenti, spiega quale deve essere il comportamento dei soccorritori sul luogo di una sciagura della strada, nel caso specifico se a essere coinvolto è un veicolo elettrico, sia un'auto sia un mezzo di trasporto delle persone, come nella tragedia di Mestre.

Comandante Gullì, per debellare le fiamme determinate dal surriscaldamento delle batterie di un automezzo, i tempi sono molto lunghi, in alcuni casi anche di giorni.

«Anche le dimensioni della batteria incidono sui tempi impiegati per spegnere l'incendio. Il mezzo, comunque, viene monitorato fino a 72 ore anche dopo l'apparente spegnimento delle fiamme. E questo per vedere se ci sono nuovi punti di accensione. Ecco perché il bus coinvolto nell'incidente è stato portato in un luogo isolato: le temperature, anche a distanza di tempo, possono innalzarsi».

Il bus precipitato portava i pacchi batterie, molto pesanti, sul tetto. L'incendio potrebbe essere divampato a causa dell'impatto violento?

«L'impatto può essere all'origine dell'incendio, anche se le batterie, che nel caso di un mezzo pesante posso arrivare a pesare quintali, sono chiuse in un contenitore che viene testato proprio per gli urti. Ma potrebbe esserci stato anche il malfunzionamento delle celle, come capita per la batteria di uno smartphone che subisce uno schiacciamento».

Esiste un problema di esalazioni nocive per l'uomo e per l'ambiente, suppongo.

«Sì. Nel caso delle batterie agli ioni di litio viene prodotto acido fluoridrico, molto tossico. Ma anche la combustione di una tappezzeria all'interno di un appartamento produce sostanze dannose. Bisogna, quindi, allontanarsi immediatamente. Chi interviene, inoltre, dev'essere munito di dispositivi a protezione delle vie aeree».

Il rischio di intossicazione è elevato perché chi accorre sul posto non sa che le fiamme si sprigionano da un mezzo elettrico.

«I Vigili del fuoco sono muniti di autorespiratore. Le ambulanze attendono il nostro primo intervento sul veicolo e gli agenti hanno il compito di mettere l'area in sicurezza».

Esperienze personali?

«Poche, se relative a veicoli elettrici, molte di più nel caso di mezzi alimentati da combustibili tradizionali. In Italia, la diffusione di veicoli 100% elettrici è ancora limitata e, di conseguenza, gli incidenti sono rari. Da parte nostra, come Corpo nazionale, abbiamo in corso un aggiornamento continuo con le Case automobilistiche allo scopo di saper intervenire correttamento e in sicurezza in occasione di incidenti, come quello di Mestre. È una rincorsa continua visto l'avanzamento delle tecnologie riguardanti proprio le batterie».

L'operazione di ricarica deve essere sempre fatta correttamente.

«L'utilizzo di sistemi non certificati può pure generare il surriscaldamento delle batterie».

E la proposta di vietare l'accesso delle auto elettriche ai piani interrati delle rimesse?

«Le automobili a Gpl non potevano essere parcheggiate; ora, se munite di sistemi di sicurezza adeguati, non hanno problemi... ».

Il dramma delle 21 vittime del bus: dalla sicurezza al rischio elettrico. Rita Cavallaro su L'Identità il 4 Ottobre 2023 

I familiari di quei 21 turisti morti sul bus precipitato dal cavalcavia di Mestre dovranno attendere i risultati di un’indagine complicata per conoscere la verità sulla fine dei propri cari. Perché l’incidente avvenuto alle 19.38 di martedì scorso appare così inspiegabile da aprire scenari che vanno dal malore dell’autista a un guasto tecnico. E più si raccolgono gli elementi, meno si restringe il campo delle ipotesi al vaglio della Procura di Venezia, che ha aperto un fascicolo sulla strage, al momento contro ignoti, e che attende l’autopsia sul corpo di Alberto Rizzotto, 40 anni e autista esperto.

Quello che gli investigatori dovranno accertare è il motivo per cui il conducente del bus sia sopraggiunto sul cavalcavia senza frenare, abbia effettuato una manovra azzardata e sia volato giù per una quindicina di metri. Le batterie del mezzo elettrico, prodotto da una società cinese e con meno un anno di vita, hanno preso fuoco nell’impatto e l’incendio non ha dato scampo ai viaggiatori: in 21, tra cui una bambina e un neonato, sono morti. Erano saliti sullo shuttle a mezz’ora dalla strage. Rizzotto, che aveva preso servizio circa 90 minuti prima, li aveva prelevati a piazzale Roma. Direzione un camping fuori città, ma nel tragitto qualcosa è successo, forse ancora prima di raggiungere quel cavalcavia da dove il bus è volato giù.

Gli inquirenti stanno studiando con attenzione il filmato delle telecamere di sorveglianza, che mostra l’autobus sopraggiungere spedito, affiancarsi ad altri mezzi fermi nel traffico ma senza frenare, sfondare con una manovra azzardata almeno due lampioni che si spengono e precipitare nel vuoto in un punto in cui il guardrail era interrotto. I soccorritori hanno recuperato le due scatole nere e le telecamere interne del mezzo e stanno visionando gli ultimi momenti di guida di Alberto Rizzotto, per capire se davvero il 40enne sia stato colpito da malore o abbia tentato in tutti i modi di evitare l’incidente. Quello che sarà fondamentale escludere, per chiudere il cerchio, e bloccare sul nascere le polemiche riguardo alla sicurezza dei veicoli elettrici ormai ritenuti indispensabili per la transizione ecologica, è se la strage sia stata causata da un guasto tecnico.

Ad alimentare questa probabilità un whatsapp di una cittadina che parla di alcuni testimoni che avrebbero visto lo shuttle prendere fuoco “nella rampa di salita del cavalcavia” e aggiunge che il conducente non poteva fermarsi “perché era stretto tra le altre auto in coda”. Una ricostruzione che potrebbe essere compatibile con la dinamica, in quanto sull’asfalto non ci sono tracce di frenata ma sul guardrail sono rimasti i segni neri delle gomme del bus, che avrebbe strusciato sulle lamiere finché il paracarro non si è interrotto, nel punto in cui è precipitato. Non è escluso che, in presenza di un incendio nel vano batterie, il sistema elettronico possa aver bloccato l’alimentazione e, a quella velocità, Rizzotto non abbia potuto fare nulla per fermare il bus, se non il tentativo disperato di utilizzare il guardrail per arrestare la marcia. Peccato che la ringhiera fosse interrotta in quel tratto. Senza contare che l’incendio provocato dalle batterie ha complicato fin da subito le operazioni di soccorso. E forse, qualche vittima in più poteva essere salvata. Sotto la lente, dunque, l’azienda produttrice cinese Yutong, che ha fornito 20 bus elettrici a La Linea Spa, che garantisce il sistema di navette a Venezia. La stessa Yutong avrebbe dovuto fornire 100 bus elettrici alla città di Torino, dopo che nel 2020 si era aggiudicata la gara indetta dall’operatore del trasporto pubblico locale Gtt. Ma il contratto da 72 milioni di euro era stato “annullato dopo la verifica” perché sarebbe emerso che l’azienda, “è risultata non avere i requisiti necessari”.

Principalmente quelli della sicurezza, che il Comune ha ritenuto insufficienti nella verifica del processo di assemblaggio. Secondo le indiscrezioni, per tagliare i costi di produzione, i mezzi elettrici non sarebbero partiti da Hong Kong già pronti, ma sarebbero stati assemblati sulla nave durante il tragitto dalla Cina all’Italia. Un caso passato sotto traccia, l’ennesima noiosa storia di burocrazia e appalti, ma che oggi assume contorni inquietanti di fronte alla strage di Mestre, almeno finché l’analisi delle scatole nere non escluderà l’ipotesi di un guasto tecnico dello shuttle. Perché la rivoluzione green senza se e senza ma non può prescindere dalla sicurezza dei cittadini. Mancanza di sicurezza che si affianca al danno previsto per le aziende europee e i produttori italiani a seguito della decisione dell’Ue sullo stop ai motori a combustione entro il 2035. Un boomerang, con il mercato dell’auto sotto il monopolio della Cina, che avrà un doppio binario di guadagno. La superpotenza cinese non solo resterà tra le poche a produrre le auto diesel e benzina, ma già oggi è il Paese tra i maggiori esportatori delle batterie al litio, quelle che vanno installate sulle vetture elettriche. Forse le stesse che hanno contribuito alla strage di Mestre. 

Mestre: si indaga sui rischi dell’elettrico. Spunta il “Thermal Runaway”. Eleonora Ciaffoloni su L'Identità il 4 Ottobre 2023

Incidente di Mestre: sotto accusa guardrail e batterie, sii indaga sui rischi dell’elettrico, e spunta il “Thermal Runaway”.

“Stiamo lavorando sulla dinamica dell’incidente che ha visto il bus toccare e scivolare lungo il guardrail per un cinquantina di metri, e infine, con un’ulteriore spinta a destra, precipitare al suolo” ha detto il Procuratore di Venezia Bruno Cherchi. È questa la ricostruzione, chiara, degli ultimi attimi prima dell’incidente che a Mestre è costato la vita a 21 persone. Al vaglio degli inquirenti ci sono le immagini delle telecamere di sorveglianza, ma anche la scatola nera del mezzo: quel che è ad ora possibile accertare è che “Non ci sono segni di frenata, né contatti con altri mezzi”, ma soprattutto “Non si è verificato alcun incendio” all’interno del mezzo prima dell’impatto con il terreno, “Né c’è stata una fuga di gas delle batterie a litio che ha provocato fuoco e fumo”. Eppure, pur avendo sgombrato il campo dalle possibili illazioni sulla responsabilità di quanto accaduto, emergono altri, significativi dubbi, strutturali e tecnici. Intanto, le indagini si interrogano su come sia stato possibile che l’autobus sia potuto precipitare abbattendo facilmente le barriere di protezione del cavalcavia. Il cosiddetto guardrail è stato posto sotto osservazione in primis dall’ad della società del bus: “Quel guard rail sembra una ringhiera” ha dichiarato Massimo Fiorese; dichiarazioni che sembrerebbero supportate anche dalle immagini delle telecamere che riprendono il bus mentre si “appoggia” sulle barriere che, sotto il peso del bus non reggono e vengono sfondate. Inoltre, il mezzo procedeva a velocità ridotta e non sembra impattare contro le barriere con forza: e su questo Fiorese rincalza “Purtroppo non è un guard rail… tanto è vero che mi sembra che lo stanno sostituendo e ci sono i lavori in corso, giusto poco prima”. Tra le altre segnalazioni, anche un pezzo di guard rail mancante “già dalle immagini di Google Maps del 2022”.

Gli inquirenti dovranno fare luce sull’infrastruttura, mentre un secondo dubbio si cela dietro l’incidente: le fiamme divampate dal mezzo a seguito della caduta dall’alto sui binari della ferrovia. La questione riguarda la sicurezza del motore elettrico dell’autobus: non tanto sulla falsa credenza di una batteria surriscaldabile più facilmente infiammabile di un motore endotermico – sfatata dallo studio del National Fire Protection Association – quanto sulle problematiche specifiche delle batterie al litio che presentano reattività dei materiali ed elevata densità di energia coinvolta. Un sistema che può essere soggetto a guasti e a un fenomeno cosiddetto “Thermal Runaway” che implica un rapido aumento della temperatura delle celle della batteria con rilascio di gas infiammabili. A confermare questo tipo di reazione, che può innescarsi in presenza di queste batterie è Francesco Vellucci, ricercatore Enea impegnato da tempo sullo studio dei nuovi possibili materiali per queste batterie, nel laboratorio di Casaccia a Roma del Dipartimento Tecnologie energetiche e Fonti rinnovabili. “Sì, l’abuso prolungato può provocare problemi alle batterie al litio utilizzate sugli automezzi elettrici, fino ad arrivare a provocarne l’esplosione”. Esplosione, secondo alcuni studi, che potrebbe essere provocata anche da una caduta da grande altezza innescando il thermal runaway: “È anche quello meccanico” ci spiega Vellucci, “Causato per la compressione della batteria in una caduta. Anche solo in una sua parte, in una delle sue celle. Si provoca quello che chiamiamo ’venting’, l’uscita degli aeriformi che può innescare poi pure un’esplosione”. Per questo, racconta, “La ricerca e gli studi vengono attualmente declinati sui materiali che meglio possono favorire la sicurezza delle batterie.

Sicurezza che, questo va precisato, in un settore industriale abbastanza recente è da costruire e migliorare giorno per giorno. Ciò da tempo, negli automezzi di più avanzata produzione, viene già comunque assicurato dai sempre più perfezionati sistemi di diagnostica e controllo, perché questi fenomeni possono attuarsi anche senza effetti traumatici, durante la marcia. Proprio per questo, vi sono dei meccanismi di sicurezza. Vellucci sottolinea la presenza di “Alert che avvisano da un lato il conducente tanto da poterlo indurre anche al fermo del veicolo e, dall’altro, consentono di escludere il funzionamento della parte della batteria aggredita dall’accaduto”. E non solo: “Ogni produzione di batterie di questo tipo è sempre preceduta da una serie di test, compresi quelli ne provocano la compressione per caduta dall’alto”. Anche sulla causa delle fiamme e sul funzionamento del bus indagheranno gli inquirenti, mentre torna a galla la questione sulla sicurezza sui moderni mezzi elettrici che aumentano sulle strade.

Il viadotto sul futuro. Tommaso Cerno su L'Identità il 5 Ottobre 2023

Non facciamo gli ipocriti. La strage di Mestre ci colpisce, come è ovvio, ma è un viadotto della morte che ci parla del futuro. Ci interroga, anche se non vogliamo ammetterlo, su quella maledetta parola che ormai è entrata nelle nostre vite: elettrico. Perché si può provare a dissimulare finché si vuole, a ripetere che tutta la nostra attenzione va alle vittime e ai feriti, ma dai primi minuti dopo quella tragedia che sembra la scena di un film la domanda che circola e che spacca in due, come al solito, il paese del giudizio immediato e delle perizie in ritardo è se quel bus elettrico, di ultima generazione, abbia contribuito all’incendio per colpa della sua tecnologia o se sarebbe avvenuta la stessa cosa con il vecchio motore a scoppio.

E il problema è che se la rissa mediatica è già in atto, colpevole anche una frase bislacca del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini che si è cimentato in una capriola fra le colpe del guardrail che ha ceduto, e su cui serviranno perizie tecniche precise, e la voce (“mi dicono”, ha usato queste parole) di un rischio legato alle batterie del motore, anche fra gli esperti si è aperto un dibattito che ha il sapore della politica più che dell’ingegneria meccanica o elettrica. E dai social alla strada, ormai giriamo intorno a questo dubbio: ma davvero questi motori elettrici nascondono pericoli che non immaginiamo?

Il fatto è che la domanda è lecita. Anzi è perfino imperativa, visto che da anni ormai parliamo di una transizione verso l’elettrico che riguarderà gran parte delle tecnologie del nostro quotidiano. Ciò che è strano è che non ce la facessimo prima, ciò che davvero colpisce è che sia servita una strage di quelle dimensioni e con quella precisa dinamica per portare la questione alla luce. E non si tratta solo di sicurezza, si tratta della nostra fideistica tendenza a buttarci nel futuro senza porci interrogativi, surfando sulle onde della politica anziché su quelle del dubbio, della curiosità, della precauzione, che sono i pilastri del metodo scientifico su cui si fonda l’Occidente che tiriamo spesso in ballo a sproposito.

Anche stavolta, proprio come succede con l’allarme immigrazione, è sempre e solo la cronaca che ha la forza di imporci le domande dei nostri tempi.

Eppure la politica dovrebbe essere quella che le anticipa e che ci fa trovare preparati di fronte a ciò che accade, dimostrando di avere già le risposte agli interrogativi che i cittadini si trovano di fronte quando qualcosa di grave accade o qualcosa va storto. Perché dal Covid fino alla guerra in Ucraina, sono state tante le prove per capire che una visione monocolore e lineare non contiene la risposta ai fatti complessi, a ciò che cambia nel profondo le nostre vite, la nostra quotidianità e le nostre aspettative.

Dovremmo avere imparato a farci delle domande. E non esaurire in un no o in un sì ogni questione. Anche se ci fa sentire molto più al sicuro dirci che abbiamo capito tutto e che, se per caso compare un dubbio, c’è sempre qualcuno che ci può rispondere facendoci sentire nella ragione. Perché basta andare a cercare la voce più simile alla nostra, che tanto la troveremo, per essere sicuri che non siamo soli. Anche se ignari di cosa davvero ci stia capitando.

Tesla, ora gli ambientalisti radicali le bruciano. Antonio Castro su Libero Quotidiano il 30 settembre 2023.

Paradossi del radicalismo ambientalista. Finiscono al rogo- neppure fossero fattucchiere - le verdissime (?) Tesla. Certo fa riflettere l’assalto notturno - rilanciato dall’agenzia Dpa - ad un rivenditore delle famose macchine a batteria, diventate icona della svolta ambientalista a quattro ruote. A metà settembre in Germania un gruppo radicale di sinistra di Francoforte-Fechenheim ha dato alle fiamme il parco macchine di un rivenditore locale. Rivendicando l’assalto, per chi avesse qualche dubbio, con un comunicato: «L’azienda (Tesla, ndr) rappresenta l’ideologia del capitalismo verde e della distruzione globale e colonialista», sottolineando poi che l’auto elettrica sia semplicemente una «cinica menzogna». Non è ancora chiaro se gli eco terroristi dall’anima green (che nella notte fra martedì 12 settembre e mercoledì 13 hanno dato alle fiamme) , appartengano alla stessa falange che hanno bloccato il traffico sulla tangenziale tagliando pure gli pneumatici dei Suv.

Per il momento quello che è certo è che 15 auto sono finite al rogo - neppure fossero le streghe del Medioevo - è che per estinguere le fiamme della flotta Tesla Model 3 ci sono voluti ben 45mila litri d’acqua. Con buona pace dell’impatto ambientale (dell’impronta ambientale) che ogni comportamento umano porta in dote. Nella narrazione corrente la macchina elettrica doveva rappresentare la panacea di tutti i mali dell’inquinamento globale. Gli Stati Uniti hanno varato, nel dicembre scorso un maxi piano miliardario per sostenere l’industria “verde” (agevolazioni fiscali e sussidi pari a 367 miliardi di dollari per aumentare la produzione interna statunitense di veicoli elettrici, pannelli solari e batterie). Il che in soldoni facendo un raffronto per un automobilista medio americano - in un maxi sconto pari a 7mila dollari solo per sostituire l’auto con un modello a batterie. 

Ma c’è dell’altro. Mentre la Norvegia ha deciso di abbattere i consumi di carburanti fossili (l’88% del parco auto privato circolante è a batterie), non disdegna di esplorare i nuovi giacimenti per garantirsi, insieme alla Gran Bretagna quell’autonomia energetica che la crisi del conflitto tra Ucraina e Russia ha messo in risalto. Giusto l’altro ieri la Gran Bretagna ha dato il via libera a un importante progetto per garantirsi l’estrazione di petrolio e gas nel Mare del Nord. E infatti la North Sea Transition Authority ha approvato lo sviluppo del giacimento di Rosebank, consentendo ai proprietari Equinor e Ithaca Energy di portare avanti il progetto circa 130 chilometri a nord-ovest delle Isole Shetland. L’Nsth britannico ha un doppio ruolo un po’ bizzarro: da un canto deve per mandato «massimizzare i benefici economici delle risorse energetiche britanniche del Mare del Nord» così come dovrebbe «a di aiutare il Paese a raggiungere i suoi obiettivi di riduzione delle emissioni di carbonio». Bizzarro come mandato un tantino divergente. Come se non bastasse il primo ministro Rishi Sunak in vista delle elezioni già fissate per il 2024 - ha scartavetrato gli impegni ambientali. A cominciare dal rinvio (dal 2030 al 2035) del divieto di circolazione dei veicoli a benzina e diesel. E la Norvegia cose c’entra? Equinor, azionista all’80% di Rosebank, investirà tanto per cominciare 3,8 miliardi di dollari nel progetto esplorativo con la società britannica Ithaca Energy (20%). Come dire: si può essere green a Oslo e dintorni ma poi pecunia non olet. Tanto meno quello del petrolio dei mari del Nord.

I segreti delle batterie cinesi. Il dominio della Cina prosegue anche nel settore delle batterie per i veicoli elettrici. Cosa rischiano i Paesi europei. Matteo Milanesi su nicolaporro.it il 30 Agosto 2023.

Proprio pochi giorni fa, sulle colonne di questo sito, analizzavamo il “paradosso cinese” di questo ultimo anno. Un Paese in stato di stagnazione, ma che nei settori strategici del futuro (eolico, solare e batterie) sta conoscendo un vertiginoso sviluppo, tanto da mettere in crisi non solo il continente europeo, ma anche quello americano. A ciò, ricordavamo anche la questione di Taiwan, dove la Cina (nel minor tempo possibile) è sempre più certa di un’invasione, che permetterebbe a Xi Jinping di mettere mano sulla produzione del 65 per cento di semiconduttori a livello mondiale.

Ora, è il Financial Times ad analizzare ulteriormente la crescita di Pechino. Le società di batterie Catl e Byd hanno superato i rivali giapponesi e sudcoreani, lasciando “agli Stati Uniti e all’Europa il dubbio su come alimentare un’industria di auto elettriche, senza fare affidamento sulla Cina per il pezzo più importante e costoso del puzzle”. L’opzione cinese, per ora, sembra inesorabile, visto che il regime è in grado di unire la componente tecnica a quella economica, rendendo il prodotto finale più conveniente per il consumatore.

Il dominio della Cina

Ma è proprio la velocità con cui Pechino sta crescendo che allarma gli analisti occidentali. La società Catl, per esempio, è nata solo 12 anni fa e oggi costituisce quasi il 40 per cento del mercato delle batterie per macchine elettriche a livello globale. Ed insieme a Byd è riuscita a ridurre “i costi di capitale nelle loro fabbriche a meno di $60 milioni per gigawattora di batterie prodotte, secondo gli analisti di Bernstein, contro $88 milioni / GWh per LG e SK, i due maggiori gruppi coreani, e $103 milioni / GWh per la giapponese Panasonic“.

Nonostante tutto, c’è una lancia che può essere spezzata a favore della tecnologia occidentale, nonché giapponese e sudcoreana: l’autonomia. Nella maggior parte dei veicoli elettrici venduti al di fuori della Cina, infatti, è offerta un’autonomia maggiore e prestazioni superiori rispetto alla chimica catodica del litio ferro fosfato, in cui la Catl cinese è specializzata. Ovviamente, rende il prodotto finale più costoso, ma pure con una durata di vita più breve.

Crisi Ue

Il tutto ha portato l’esperto Tim Bush, analista di batterie con sede a Seoul per Ubs, a ritenere che tecnologia Lfp cinese sarà destinata a dominare il mercato globale delle batterie dei veicoli elettrici. Una previsione, che se effettivamente corretta, metterebbe l’Europa con le spalle al muro, visto il processo di Green Deal e di sostenibilità ambientale (ma non economica) che Bruxelles sta percorrendo ormai da anni.

Anche Joe Biden sta tentando di correre ai ripari, attraverso quella misura tanto contestata durante i 4 anni di Donald Trump alla Casa Bianca: i dazi, affiancati alle centinaia di miliardi di dollari di sussidi, destinati ai contribuenti, per ridurre la dipendenza economica degli Stati dalla dittatura comunista e aumentare la produzione locale. Ora, però, è soprattutto l’Unione Europea ad essere dinanzi ad un bivio: se si vorrà procedere sulla strada dell’auto elettrica, l’affidamento alla tecnologia cinese pare essere inesorabile. In tal modo, però, il costo ricadrà sul fattore geopolitico. Al contrario, se Bruxelles vorrà seguire Washington, ecco che dovrà definitivamente accantonare il sogno green. Quale sarà la scelta finale?

Matteo Milanesi, 30 agosto 2023

L’auto elettrica in Italia non sfonda: solo quattro mezzi ogni cento tra le nuove immatricolazioni. Pesano i costi. Gli investimenti sulle colonnine premiano il Nord Europa. Nel nostro Paese la rete è adeguata. Ma solo con questi numeri. Tommaso Carboni su L'Espresso il 30 Agosto 2023

Staccò i cavalli dalla carrozza, mettendo al loro posto una rudimentale batteria. Scozia, 1831. Robert Anderson oggi ha una pagina Wikipedia di nemmeno tre righe. Ma il futuro dell’auto mondiale comincia proprio dal fiasco di quell’oscuro ingegnere. La sua carrozza, in effetti la prima auto elettrica della storia, non era molto pratica: andava avanti, sì, ma la batteria non si poteva ricaricare. Eppure quello non fu il bacio della morte per quel tipo di motore. Pare che in America, nel 1900, circolasse il doppio di veicoli elettrici rispetto al numero di vetture a benzina - certo, con batterie migliori di quella progettata da Anderson. L’elettrico però aveva i giorni contati. La produzione di massa della Ford Model T, l’espansione dell’industria petrolifera e l’abbassamento dei prezzi sancirono la vittoria del motore endotermico in Europa e Stati Uniti. Così il Novecento è stato il secolo di bielle e pistoni. Il secolo della crescita, del benessere, ma anche dell’accumulo di gas serra nell’atmosfera, alla base dell’attuale riscaldamento globale e del cambiamento climatico.

I trasporti generano circa il 20% del totale dei gas serra nel mondo e i veicoli stradali ben più della metà di questa quota. Ed è così che l’auto elettrica, a zero emissioni, ha potuto prendersi la sua rivincita.

La svolta è cominciata nel 2003 con la nascita di Tesla, la casa automobilistica di Elon Musk. Oggi siamo nel pieno di questa rivoluzione. Pensate che dieci anni fa le auto elettriche e ibride realizzavano solo lo 0,2% delle vendite di auto nuove nel mondo. La loro quota è salita al 13% nel 2022, e continuerà a crescere. Anche le stime più prudenti indicano che nel 2040 circa tre quarti (il 75%) delle vendite di macchine nuove in tutto il mondo saranno completamente elettriche. Dunque la strada è segnata: Asia, America ed Europa si muovono nella stessa direzione. Le case automobilistiche e la filiera delle componenti hanno investito e investiranno nella transizione elettrica 1.160 miliardi di dollari entro il 2030. Una cifra impressionante, ed è anche per questo – grazie a innovazioni ed economie di scala – che i prezzi stanno scendendo, anche se restano alti rispetto alle controparti a benzina e diesel.

Poi c’è la spinta dei governi. La Cina vuole che entro il 2035 tutte le nuove auto vendute sul proprio mercato siano elettriche, ibride oppure a idrogeno. Anche il presidente americano Joe Biden ha proposto limiti più rigorosi, il più stringente dei quali prevede che entro il 2032 circa due terzi delle nuove macchine vendute siano alimentate da batterie. In questa corsa si inserisce l’Europa che fra tutti si pone gli obiettivi più ambiziosi. Il Consiglio europeo dei ministri dell’Energia ha fissato per il 2035 il divieto di immatricolare auto e veicoli leggeri inquinanti, aprendo la strada alla mobilità completamente elettrica.

Una fuga in avanti considerata da molti eccessiva. L’Europa, fra poco più di dieci anni, sarebbe in effetti l’unico continente a bloccare la vendita di nuove macchine con motori endotermici. Roberto Vavassori, presidente dell’Anfia, l’associazione della filiera automobilistica italiana, dice che il passaggio all’elettrico è necessario ma con un’obiezione di fondo: «In Europa ci stiamo chiudendo in un cul-de-sac abbastanza inspiegabile. Perché non abbiamo vantaggi competitivi manifesti, non abbiamo tecnologie molto superiori ad America e Cina nell’elettrico». Una parte dell’industria automobilistica chiede alle istituzioni europee di rispettare la neutralità tecnologica, il principio secondo cui conta l’obiettivo (ridurre le emissioni di gas serra), non il modo in cui lo raggiungi. Chi spinge su questa strada sostiene che esistano carburanti alternativi a bassissime emissioni. La Germania ha strappato una deroga per continuare a vendere in Europa auto alimentate da e-fuels, i carburanti sintetici basati sull’idrogeno anche oltre il 2035. Fa pressione anche l’Italia, che cerca di sfruttare l’apertura per accreditare i biocarburanti, per ora rimasti fuori.

Il punto fondamentale è che queste soluzioni allungherebbero la vita del motore endotermico. E una transizione un po’ più lunga potrebbe anche essere meno traumatica, sostengono in molti. Tanto più che l’Europa produce attorno al 7% dei gas serra globali, e il trasporto stradale europeo meno di un quarto di questa quota, quindi più o meno l’1,5% delle emissioni di CO2 nel mondo. Secondo Vavassori, anche se tutto il comparto europeo dell’auto si convertisse all’elettrico, con le attuali fonti di energia le emissioni si ridurrebbero della metà. Per il pianeta quindi un calo quasi irrilevante. Mentre per la filiera italiana la transizione energetica avrà certamente un impatto.

Secondo l’Anfia, ci sono circa 450 aziende e 70mila lavoratori che saranno toccati dal cambiamento. I rischi però non sono affatto uguali per tutti. Nel passaggio all’elettrico il 60-65% delle componenti di un veicolo non subisce modifiche importanti, spiega Vavassori. Del resto la macchina elettrica è sempre una macchina: il pianale, le sospensioni, i freni, le ruote, gli interni e molte altre parti non cambiano. Il passaggio invece è molto più critico per tutti quei settori legati al motore endotermico. Una parte di dipendenti, magari più in là con gli anni, andrà effettivamente aiutata anche con scivoli e prepensionamenti.

Il punto è capire di quante persone si tratti. «Dipende da come accettiamo a livello europeo il concetto di neutralità tecnologica. Come ci sappiamo aprire ai carburanti alternativi, gli e-fuel cari alla Germania, ma anche i biofuel usati già abbastanza in nord Europa nelle flotte di trasporto pesante», continua Vavassori. «Oggi carburanti bio e sintetici sono molto costosi. Ma sono tecnologie ancora agli inizi. Bisogna investire e fare ricerca. Perché se c’è una strada per l’Europa per ricominciare a essere leader nella mobilità è soprattutto con ricerca e sviluppo in carburanti e combustibili alternativi, e anche in chimica alternativa delle batterie per essere meno dipendenti dalle materie prime cinesi».

È un dato di fatto che case sportive come Ferrari e Porsche vogliano fortemente la benzina sintetica. Tuttavia, per diversi analisti gli e-fuel e i biofuel non sono la panacea. Costosi e ancora difficili da produrre su larga scala: secondo una stima della Federazione europea per i trasporti e l’ambiente, la disponibilità di e-fuel in Europa sarà così limitata che nel 2035 potrà alimentare non più del 2% dei veicoli in circolazione. Se così fosse, per la filiera italiana la strada migliore sarà quella di attrezzarsi per prosperare in un futuro dominato dall’elettrico. E la transizione, se ben accompagnata, potrebbe portare anche a un aumento del numero di occupati nel settore dell’auto che negli ultimi 20 anni ha perso in Italia più del 20% dei posti di lavoro. Secondo una ricerca dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e di Motus-e, l’associazione di industriali, filiera automotive e mondo accademico che vuole accelerare la mobilità elettrica, il passaggio alle macchine a batterie potrebbe far guadagnare all’Italia più di 15mila posti di lavoro entro il 2030. Questo perché, secondo Motus-e, i tre quarti degli occupati nella filiera dell’auto non producono componenti legate esclusivamente al motore endotermico. Dunque, una crescita pure marginale delle attività connesse all’elettrificazione (pezzi per le batterie, inverter, elettronica di potenza) potrebbe compensare anche un dimezzamento di posti nelle parti più a rischio delle auto tradizionali.

Per il 2030, l’obiettivo sarebbe portare sulle nostre strade circa quattro milioni di veicoli elettrici. Dai numeri dell’ultimo semestre, emerge che l’elettrico sta crescendo bene in Europa, dove ha preso il 15% del mercato, ma la diffusione è molto più lenta in Italia, dove le nuove immatricolazioni elettriche hanno una quota di meno del 4% del totale (in tutto il parco circolante elettrico italiano, secondo Motus-e, è di 200mila macchine).

La strada quindi è lunga, servono incentivi, ma soprattutto i prezzi devono scendere: le auto a batteria, non a caso, stanno avendo più successo in Nord Europa, mercati più ricchi. L’altro ostacolo, citato da tutti gli analisti del settore, sono le colonnine di ricarica. I governi cominciano a rendersene conto. Come verranno ricaricate tutte le auto elettriche? Oggi l’Unione Europea ha predisposto circa mezzo milione di punti di ricarica: un numero scarso, a detta degli esperti, e le strutture sono anche distribuite in modo piuttosto diseguale. Fino al 2030, secondo Acea, l’associazione europea dei costruttori auto, dovrebbero essere installati 14mila punti di ricarica pubblici a settimana, ma il numero oggi è fermo a duemila. Sono concentrati in Olanda, che ha più di 100mila punti, Francia (circa 83mila) e Germania (82 mila). Ma anche l’Italia non è messa male: stando alle ricerche di Motus-e, ha più di 45mila punti di ricarica pubblici e 400mila privati. Più che sufficienti, per le (ancora) poche auto elettriche in circolazione.

Quanto costa una ricarica per auto elettrica in Europa? Paese che vai, cifra che spendi. Sergio Barlocchetti su Panorama il 28 Agosto 2023

L’Italia è al quarto posto con 6,53 euro per 100 km, con un aumento medio del 18% accusato durante l’anno 2022 

Certo che l’auto elettrica è per ricchi, come ha recentemente detto il capo di Renault Luca De Meo, ma non nel soltanto nel senso finanziario, anche nello stile di vita. Se vivete in una villa, o comunque in una casa indipendente, installare una stazione di ricarica sarà infinitamente più facile per voi rispetto a hi vive in un condominio, anche se dotato di garage. Se poi si guarda ai costi dell’energia elettrica, l’Europa è un guazzabuglio di norme e di prezzi differenti e l’Italia è al quarto posto nella classifica dei paesi più costosi in quanto a chilowatt. Lo dice un sito internet irlandese, Switcher.ie i cui redattori hanno messo a confronto le offerte disponibili nelle varie nazioni. Tenendo conto dei costi dell’elettricità domestica riportati nelle tabelle Eurostat disponibili (giugno 2023) valutando il costo medio di ricarica delle 50 auto più vendute in Europa nel 2022 secondo JATO.com. L’energia alla spina più conveniente è in Kosovo, dove quanto serve per fare cento chilometri a batteria si spendono 3,92 euro, mentre la nazione più cara è la Danimarca, con oltre 7 euro per la medesima distanza e a parità di automobile. L’Italia è al quarto posto con 6,53 euro per 100 km, con un aumento medio del 18% accusato durante l’anno 2022. A fare la differenza è ovviamente come l’energia viene prodotta e distribuita, nonché dalla tassazione applicata per i diversi scopi dell’utilizzo, ma anche dal prezzo del gas, e questo la dice lunga su quanto siano effettivamente ecologiche le auto a batteria. Il gas, peraltro, è soggetto alle situazioni geopolitiche, al mix energetico che ogni nazione compone con le fonti rinnovabili, le imposte e i sussidi, il prezzo d’importazione e l’applicazione delle politiche ambientali. Ecco, allora, che prima di imporre le Bev sarebbe stato opportuno allineare le politiche energetiche europee fino a ottenere una distribuzione riservata alla rete di ricarica, con costi dedicati e calcolati con parametri differenti. I più vicini d’attività di coltivazione ricorderanno il prezzo del “carburante agricolo”, molto più economico di quello venduto nei distributori, ma anch’esso recentemente afflitto da un aumento di almeno venti centesimi. Insomma, proprio come per la moneta unica, si è voluto fare un salto nel vuoto prima di capire dove avremmo finito per appoggiare i piedi. E invece stiamo cadendo di faccia.

La nuova norma europea sulle batterie è legge: dalla produzione sostenibile al riciclo. Roberto Demaio su L'Indipendente il 20 Agosto 2023 

Il regolamento UE sulle batterie sostenibili è ora legge sul territorio di tutti i paesi membri. Ai Ventisette verrà fornita la capacità di rafforzare le norme di sostenibilità per tutte le batterie e di disciplinarne l’intero ciclo di vita, dalla produzione al riciclo. Il fine è quello di ridurre gli impatti ambientali e sociali attraverso nuove regole stringenti per gli operatori, che dovranno verificare l’origine delle materie prime utilizzate per le batterie immesse sul mercato. Per questo motivo sono anche previste nuove linee guida di etichettatura e informazione sui componenti, un nuovo “passaporto della batteria elettronico”. Stabiliti anche gli obiettivi di contrasto all’abbandono delle componenti rare come litio, cobalto, rame, piombo e nichel: entro il 2031 più dell’80% dovrà essere recuperabile dopo il consumo. Infine, a partire dal 2027 i consumatori dovranno essere in grado di rimuovere e sostituire le batterie nei loro dispositivi elettronici in qualsiasi momento del loro ciclo di vita.

È dal 2006 che le batterie e i rifiuti derivati sono disciplinati a livello europeo. Nel 2017 la Commissione ha avviato l’Alleanza europea delle batterie: un progetto che mira a garantire l’approvvigionamento di tutti i condensatori necessari a “decarbonizzare” il settore dei trasporti e dell’energia. A causa delle nuove condizioni socio-economiche, degli obiettivi del Green New Deal e degli sviluppi tecnologici, a dicembre 2020 la Commissione ha proposto di rivedere la direttiva per affrontare la crescente domanda di batterie, visto che a livello globale si prevede un aumento di 14 volte entro il 2030 con l’UE che potrebbe rappresentare ben il 17% di tale domanda.

Ora, dopo il via libera del Parlamento lo scorso 14 giugno e passati i 20 giorni stabiliti dopo la pubblicazione in Gazzetta ufficiale dell’UE, il nuovo regolamento è ufficialmente legge su tutto il territorio dei paesi membri. Sono inclusi tutti i tipi di batterie e relativi rifiuti: portatili, per veicoli elettrici, per l’avviamento, industriali, per l’accensione e fulminazione e per i mezzi di trasporto leggeri (biciclette, monopattini elettrici e scooter). È stato disposto l’obiettivo del 45% entro la fine del 2023, del 63% entro il 2027 e del 73% entro il 2030 per la raccolta dei rifiuti di batterie portatili da parte degli stessi produttori. Previsto anche di migliorare il recupero delle componenti rare: 50% entro il 2027 e 80% entro il 2031 per il litio, 90% entro il 2027 e 95% entro il 2031 per cobalto, rame, piombo e nichel. Inoltre, sono stati fissati anche gli obiettivi sui livelli minimi obbligatori di contenuto riciclato per le batterie industriali: 16% per il cobalto, 85% per il piombo, 6% per litio e nichel. Tra 13 anni le soglie saranno innalzate, rispettivamente, al 26% per il cobalto, 85% per il piombo, 12% per il litio e 15% per il nichel.

Infine, come già trattato in un altro articolo de L’Indipendente, a partire dal 2027 i consumatori dovranno essere in grado di rimuovere e sostituire le batterie nei loro prodotti elettronici in qualsiasi momento del ciclo di vita. Le informazioni e i dati chiave – tra cui l’impronta di carbonio se la capacità sarà superiore a 2 chilowattora – saranno forniti su un’etichetta e un codice QR permetterà di accedere ad un passaporto digitale con informazioni dettagliate utili sia ai consumatori che ai professionisti per incrementare l’economia circolare delle batterie. L’entrata in vigore del nuovo regolamento è stato annunciato anche su X-Twitter dalla Commissione, che ha dichiarato: «Le batterie sono strategiche per la transizione dell’UE verso un’economia climaticamente neutra. A partire da oggi, il regolamento sulle batterie garantirà che le batterie siano sicure, circolari e sostenibili per l’intero ciclo di vita». [di Roberto Demaio]

Estratto dell’articolo di Benedetta Vitetta per “Libero quotidiano” domenica 30 luglio 2023.

Dopo settimane di infinite polemiche e discussioni tra i Paesi Ue, la scorsa primavera il Parlamento europeo ha deciso che dal 2035 non si potranno più vendere nuove auto (e furgoni) con motori a benzina o diesel. […] Ma ora- a distanza di soli pochi mesi- ecco che arriva il dietrofront. E non come ci si potrebbe aspettare da parte della classe politica, ma direttamente dai grandi colossi mondiali dell’automotive che iniziano a comprendere che l’obiettivo 2035 è troppo ravvicinato nel tempo. 

E difficilmente nel periodo si riuscirà a far sì che milioni e milioni di cittadini scelgano di passare all’auto elettrica. Soprattutto visto che - complice l’inflazione che sta attanagliando più o meno l’intero pianeta- i listini delle auto Bev (acronimo di veicolo alimentato a batteria, ndr), le auto completamente elettriche, sono ancora particolarmente cari. […]

La casa automobilistica che per prima ha annunciato il primo passo indietro è stata la Volkswagen che, circa un mese fa, ha deciso di tagliare temporaneamente la produzione di vetture elettriche nel grande sito di Emden (Bassa Sassonia) dove da un paio d’anni si sta lavorando pressoché solo sulle Bev. Il motivo? L’attuale domanda di auto elettriche è circa il 30% più bassa delle previsioni ipotizzate. […]

Ad aggiungersi al colosso tedesco, nelle scorse ore è arrivato il grido d’allarme del gruppo francese Renault. «La Ue ci ripensi, lo stop alle auto a benzina slitti al 2040». Così il ceo del gruppo d’Oltralpe, Luca De Meo  […] «Dopo un anno di inflazione, immagino un periodo deflattivo su energia, logistica e materie prime. Situazione che si può gestire in due modi» ha affermato, «osi abbassano i costi e i prezzi o si abbassano i costi e si tengono i prezzi stabili. E credo che noi, ma anche molti dei nostri competitor, opteremo per questa seconda strada. C’è stato un aumento strutturale dei prezzi ed è difficile che ora si possa tornare indietro».

E se questa è la situazione nel Vecchio Continente, oltre Oceano le cose non vanno certo molto meglio. Tanto che proprio nei giorni scorsi l’americana Ford ha annunciato di aver rallentato il ritmo di produzione di veicoli elettrici perché i clienti esitano a far il grande passo negli acquisti. […] Insomma a pesare sulle scelte della maggior parte degli automobilisti del pianeta oggi non è certo l’ambiente e il fatto di voler inquinare meno, semmai il portafoglio. A contare è il vil denaro. Nulla di più. […]

Vince l'ideologia: le auto elettriche per la prima volta più vendute di quelle diesel. In Europa si è consumato uno storico sorpasso: a giugno, per la prima volta, si sono vendute più automobili elettriche rispetto a quelle diesel. Marcello Astorri il 20 Luglio 2023 su Il Giornale.

In Europa si è consumato uno storico sorpasso: a giugno, per la prima volta, si sono vendute più automobili elettriche rispetto a quelle diesel. Le nuove immatricolazioni di auto elettriche a batteria, infatti, sono scattate con una crescita del 66,2%, raggiungendo le 158.252 unità e una quota di mercato del 15,1 per cento. Mentre le diesel, ormai demonizzate su scala continentale a colpi di ztl, segnano un declino rispetto a giugno 2022 del 9,4% e si fermano a 139.595 auto vendute, scivolando al quarto posto tra le tipologie di alimentazione più scelte. Questo è il dato più sorprendente tra quelli rilasciati da Acea, l'Associazione europea dei costruttori di automobili. Il sorpasso non si è ancora verificato se si prendono in considerazione i primi sei mesi del 2023, ma è solo questione di tempo: le due tipologie di motore sono distanziate da poche decine di migliaia di auto e le elettriche sono cresciute del 53,8% contro il declino dell'1,8% dei motori diesel. A quanto pare, quindi, gli incentivi offerti da vari Paesi (tra cui l'Italia) e il forte imprinting politico della Commissione europea stanno sortendo i primi effetti sul mercato dell'auto continentale. Conservano il primato i veicoli a benzina (379.067, con una quota di mercato del 36,3%) e, in seconda piazza, le auto ibride-elettriche (motore endotermico associato a quello elettrico) crescono tanto e arrivano a quota 254.100 (con un balzo del 32,4% e una quota di mercato del 24,3%).

Lasciando, invece, il particolare per volgere lo sguardo sul mercato Ue nel suo complesso, a giugno 2023 sono state vendute 1.045.073 vetture, con una crescita del 17,8% rispetto allo stesso mese del 2022. Si tratta dell'undicesima crescita su base mensile consecutiva. Ad eccezione dell'Ungheria (-1,4%), tutti i mercati dell'Ue sono cresciuti, compresi i quattro maggiori: Germania (+24,8%), Spagna (+13,3%), Francia (+11,5%) e Italia (+9,1%). Nella prima metà del 2023, le immatricolazioni di auto nuove nell'Ue sono aumentate in modo significativo (+17,9%), raggiungendo i 5,4 milioni di unità. I miglioramenti degli ultimi mesi, sottolinea Acea, indicano che l'industria automobilistica europea si sta riprendendo dalle interruzioni di fornitura causate dalla pandemia. Tuttavia, i volumi cumulativi sono inferiori del 21% rispetto al 2019. La maggior parte dei mercati della regione è cresciuta significativamente nei primi sei mesi del 2023, compresi i quattro più grandi: Spagna (+24,0%), Italia (+22,8%), Francia (+15,3%) e Germania (+12,8%).

L'effetto elettrico, se si osserva il fenomeno nella prima parte del 2023, è stato dirompente in diversi Paesi: in Belgio, per esempio, la vendita dell'elettrico è cresciuta addirittura del 153,6% sullo stesso periodo dell'anno scorso, passando da 17.187 a 43.578. Il mercato cresce forte anche in Danimarca (+115,3%) e Austria (+61,3%). E tra Paesi big dell'automobile continentale? L'elettrico avanza su tutti i mercati, va meglio però in Francia dove sono stati venduti quasi 140mila auto elettriche (il 15,5% di tutte quelle immatricolate, attestatesi a circa 890mila). In Germania la quota di mercato è del 15,7% su tutto il venduto (1,39 milioni). In Italia, in sei mesi, si sono venduti oltre 32mila veicoli elettrici, ma questo numero pesa solo per il 3,88% sulle oltre 840mila auto immatricolate. Nel nostro Paese sono presenti agevolazioni per acquistare auto elettriche, che vanno da uno sconto massimo di 5mila euro a uno minimo di 2mila. Anche se, chi ne acquista una, deve poi fare i conti con la penuria di colonnine di ricarica.

Estratto dell'articolo di Andrea Paoletti per corriere.it l'1 maggio 2023.

Sono sempre di più i punti di ricarica per auto elettriche ma si aprono interrogativi importanti sotto il punto di vista della sicurezza. Le colonnine sono infatti il punto di contatto attraverso il quale non solo passa la corrente elettrica, ma anche le informazioni di funzionamento della vettura e i dati dell’account dell’utente collegato. Chiunque riesca ad inserirsi in modo fraudolento può facilmente entrare nell’app con cui si gestisce il rifornimento e, addirittura, entrare nello smartphone e accedere a tutti i dati sensibili contenuti al suo interno.

La mappa dei rischi

I rischi sono tanti, come ha fatto notare HWG, società specializzata in cyber security: non solo per l’utente singolo, ma anche per la vettura stessa che può essere a sua volta «hackerata» e resa inutilizzabile in alcune sue componenti, fino al punto di trasmettere il «virus» anche ad altri esemplari dello stesso modello.

Un rischio soprattutto per le flotte aziendali, ma anche il semplice proprietario di una vettura potrebbe trovarsi sottoposto ad un’esosa richiesta di riscatto per «sbloccare» la vettura, stessa procedura che potrebbe colpire il fornitore di energia con punti di rifornimento o addirittura l’intera rete bloccata. I crimini che si possono commettere da una semplice colonnina possono anche essere un semplice furto dell’energia, ovvero manipolare il sistema per ottenere ricariche gratuite, oppure accedere ai dati delle carte di credito o dei conti correnti associati agli account degli utenti, rubandone l’identità per effettuare prelievi indebiti.

[…]

Meglio ricaricare a casa

Innanzitutto sono da privilegiare i punti di ricarica domestici o quelli presenti su luogo di lavoro, in quanto meno appetibili per i «cybercriminali» rispetto alle colonnine gestite direttamente dai principali fornitori di energia. Nel momento in cui invece si deve scegliere il proprio «provider» è importante documentarsi sugli standard di sicurezza adottati e scegliere quello che offre i migliori standard di protezione. […]

Una rete elettrica per l'Europa. Report Rai. PUNTATA DEL 24/04/2023 di Michele Buono

Collaborazione di Edoardo Garibaldi e Filippo Proietti

Se ci fosse una super rete elettrica europea l’energia sarebbe conveniente, sicura. ​​​​​

Il dibattito odierno si sviluppa però su uno solo degli ingredienti della decarbonizzazione: l’installazione di nuova capacità energetica da fonti rinnovabili. Non si parla di come far viaggiare l’energia tra i singoli Stati europei e di come accumularla. Se infatti le rinnovabili sono energie non programmabili, mettendo insieme il vento dei paesi del nord e il sole dei paesi del sud, si potrebbe compensare questo effetto rendendo il Vecchio continente un’unica grande centrale elettrica da fonti rinnovabili. Per far questo è necessario migliorare le infrastrutture su cui viaggia l’energia per non perdere quella prodotta in eccesso in alcuni momenti dell’anno. Le tecnologie ci sono e le materie prime non potranno esserci sottratte da nessun dittatore, ci vuole solo la volontà politica. L’Europa ha conosciuto la pace dopo la creazione della Comunità del carbone e dell’acciaio. Potrebbe conoscere nuovamente un periodo di grande prosperità. Basterebbe volerlo, per davvero. 

UNA RETE ELETTRICA PER L’EUROPA” di Michele Buono collaborazione Edoardo Garibaldi Filippo Proietti immagini Dario d’India e Cristiano Forti Fabio Martinelli montaggio Veronica Attanasio

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Europa. Mare del Nord. Se vuoi coltivare il vento qui fai un affare.

MATHIAS FISCHER – POTAVOCE TENNET GERMANIA Questo parco eolico non è collegato solo alla Germania, è in rete con molti paesi del Nord e potrebbe diventare la centrale elettrica di tutta Europa.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Viaggiamo verso nord ovest, direzione Oceano Atlantico, e il vento tira ancora più forte. Questa è l’Irlanda. Lo coltivano anche qui il vento e dà belle soddisfazioni.

JOHN FITZGERALD – AMMINISTRATORE DELEGATO SUPERNODE - DUBLINO L’anno scorso il 35% dell’elettricità l’abbiamo prodotto solo con il vento. Ci sono stati dei momenti però in cui non bastava e abbiamo avuto bisogno di molto gas naturale e carbone, e questa non è una cosa buona. Dovremmo importare anche il sole ma occorrono collegamenti migliori con l’Europa continentale, per esportare la nostra energia e importarla quando ci manca.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sicilia. C’è chi coltiva il sole e lo trasforma in elettricità. Quella in più potrebbe prendere la strada del Nord quando occorre.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C ENGINEERING Gli elettroni vanno dove noi li facciamo andare. Quindi se noi li facciamo andare verso una direzione differente rispetto alla rete nazionale, loro ci vanno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ci vogliono le strade per fare correre gli elettroni; una rete intelligente che sappia sempre quale fonte rinnovabile stia producendo in abbondanza, per inviare quell’elettricità a chi ne ha poca in quel momento; e batterie di qualsiasi tipo per conservarla l’energia pulita, pronta per i momenti di scarsità.

HENDRIK SÄMISCH – FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO NEXT KRAFTWERKE - COLONIA Più i mercati sono grandi e collegati tra di loro, più sono bilanciati i prezzi dell'elettricità.

EDDIE O’CONNOR – PRESIDENTE SUPERNODE - DUBLINO Beh, il risultato a lungo termine sarebbe un'energia molto più economica le cui fonti appartengono all'Europa. Se i 27 stati membri si mettessero insieme, restando uniti, sarebbe come giocare in un torneo ma nella stessa squadra.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Un sistema dove l’elettricità non va in una sola direzione ma fa andata e ritorno per bilanciare domanda e offerta, quindi ognuno ha bisogno dell’altro.

ANTONELLA BATTAGLINI – AMMINISTRATORE DELEGATO RENEWABLES GRID INITIATIVE BERLINO In un Europa connessa si parla di scambi non si parla di importazioni o esportazioni.

MICHELE BUONO Perché si è alla pari?

ANTONELLA BATTAGLINI – AMMINISTRATORE DELEGATO RENEWABLES GRID INITIATIVE BERLINO Perché si è solidali, perché un sistema comune significa un beneficio comune.

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO Gli interscambi a quel punto sarebbero normali.

MICHELE BUONO Con l’impatto sui prezzi?

DAVIDE CHIARONI – POLITECNICO DI MILANO I prezzi di riferimento diventerebbero quelli delle rinnovabili nell’ordine dei 55, 65 euro al Megawattora.

MICHELE BUONO Al posto di?

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO Al posto di valori che sono saliti sopra i 300 Euro al Mwh ma che hanno per lungo tempo stazionato sopra i 120, 150 Euro al Mwh, quindi diciamo la metà come minimo del prezzo di riferimento di quest’ultimo periodo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Europa ci sono 27 reti elettriche e sono anche mal collegate tra loro perché oggi si parla molto, si discute molto sugli impianti che producono energia pulita, non su come farla viaggiare poi. Perché il sole non è che alimenta sempre i pannelli fotovoltaici, tramonta, così come il vento non soffia sempre sulle pale, e così come scarseggia l’acqua per l’idroelettrico. Ma anche qualora ne producessimo di più di energia pulita, non sapremmo bene come farla viaggiare. Come se avessimo parlato delle auto o dei treni senza poi progettare le autostrade e i binari. E insomma, però se c’è un flusso di energia elettrica, non ammette ingorghi. Deve fluire con costanza, calibrata. Altrimenti che cosa succede: che quella che produci in più sei costretto a buttarla oppure va in tilt il sistema. E questo non possiamo permettercelo perché è uno spreco. Visto quello che abbiamo pagato, le bollette negli ultimi anni, toccando punte mai viste a causa delle speculazioni a causa della guerra. Abbiamo dovuto addirittura razionare l’energia, abbiamo dovuto fare i conti con l’inflazione. I paesi membri hanno speso addirittura 700 miliardi di euro per aiutare le famiglie a calmierare le bollette elettriche. Ecco, che cosa accadrebbe invece se ogni paese mettesse a disposizione dell’altro una quota di energia pulita che produce in più? Se il sole di Siracusa, della Sicilia, dialogasse con le pale del nord Europa? Immaginate un sistema dove quando fa caldo i pannelli fotovoltaici della Sicilia contribuissero a ricaricare un’auto elettrica a Copenaghen. O viceversa quando fa freddo le pale del nord Europa contribuissero a riscaldare un appartamento nella periferia di Napoli. Ecco, immaginate una grande rete interconnessa europea, una grandissima comunità energetica che ha al centro le fonti rinnovabili, le fonti di energia pulita con una rete intelligente, che sa dove prendere e come prendere l’energia quando c’è in più e indirizzarla laddove c’è bisogno. Una grande inchiesta che ha anche una proposta del nostro Michele Buono.

EDDIE O’CONNOR – PRESIDENTE SUPERNODE - DUBLINO Le oscillazioni del prezzo dell’energia fossile hanno sempre provocato recessioni economiche in Europa, tutto perché l’energia su cui facciamo affidamento proviene da paesi esterni quando, invece, noi europei potremmo farcela da soli l’elettricità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ma non è solo una questione di fonti rinnovabili.

MICHELE BUONO Esiste una rete elettrica che possiamo definire europea?

JOHN FITZGERALD - AMMINISTRATORE DELEGATO SUPERNODE - DUBLINO No. L’infrastruttura energetica europea per l’elettricità è fatta da circa 27 reti nazionali non molto ben collegate fra di loro. Poteva funzionare nel XX secolo quando facevamo affidamento su carbone, petrolio e gas.

MICHELE BUONO Con l’avvento delle rinnovabili, il sistema di trasmissione esistente in Europa è idoneo a sostenere questo cambiamento?

ANDREW KEANE - DIRETTORE ENERGY INSTITUTE – UNIVERSITY COLLEGE DUBLINO Occorre sviluppare la rete e le infrastrutture locali in tutti i paesi europei, e aumentare il numero degli interconnettori ad alta tensione, tra gli Stati, per trasportare in modo efficiente l’elettricità da fonti rinnovabili da dove viene prodotta a dove sono i centri di domanda.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E gli irlandesi vogliono fare arrivare lontano il loro vento, farsi consegnare il sole a domicilio e giocare una partita di dimensioni europee.

MICHELE BUONO Perché non fare ognuno a casa propria?

ANTONELLA BATTAGLINI – AMMINSTRATORE DELEGATO RENEWABLES GRID INITIATIVE - BERLINO Io non avrò mai abbastanza per soddisfare il mio fabbisogno 24 ore, sette giorni alla settimana in ogni momento, quello che noi ci aspettiamo dal sistema elettrico. Se noi ci mettiamo in comune tu darai a me quando io ne avrò bisogno io darò a te quando tu ne avrai bisogno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Occorono però nuove strade per far viaggiare gli elettroni da fonti rinnovabili e farli arrivare a destinazione. Ne occorrono tante e pure lunghe. Oggi invece è come se a questo treno - facciamo che siano elettroni da rinnovabile - ogni tanto mancassero i binari e pure qualche galleria per raggiungere territori diversi che chiedono elettricità.

ETTORE BOMPARD – DIRETTORE SCIENTIFICO ENERGY SECURITY TRANSITION LAB - POLITECNICO DI TORINO Ai fini della creazione di un mercato unico non si permette lo sfruttamento delle fonti energetiche meno costose, che sono quelle da fonte rinnovabile.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ogni paese se le gioca in casa propria e quando non bastano ci sono sempre le fonti fossili, più costose, a garantire la base.

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO La fonte energetica dominante all’interno di ogni singolo paese va a determinare il prezzo di riferimento MICHELE BUONO Quindi aree con prezzi differenti dove i prezzi alti, a quel punto, sono la marea che si alza e tirano su tutte le barche; quindi, si alza il prezzo per tutti quanti, si fa la media.

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO Eh sì perché poi il prezzo si determina sulla base della fonte che costa di più e quindi questo fa evidentemente salire il prezzo complessivo.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Al contrario, se lo schema energetico di questa area fosse esteso a tutto il continente, in Europa ci sarebbero zone omogenee con prezzi più bassi. Germania, Wilster, pochi chilometri dal Mare del Nord.

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA Dietro di me potete vedere un cavo, il Nord Link, che proviene dalla Norvegia. È lungo più di 600 km e trasporta corrente continua. Questo impianto la trasforma in corrente alternata, per immetterla nella rete elettrica tedesca.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Stessa cosa in senso contrario. La Germania mette il vento con impianti a terra e in mare. NordLink è l’interconnetore che collega la Germania alla Norvegia. Parte da qui il cavo e viaggia attraversando canali, dighe e il mare del Nord per più di 500 Km fino ad arrivare alla stazione di conversione norvegese. La Norvegia ha tanta acqua e mette i bacini idroelettrici.

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA Quando in Norvegia c’è una forte domanda di elettricità noi esportiamo energia eolica in eccesso da loro.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Con l’elettricità che arriva dalla Germania, nei bacini idroelettrici si pompa l’acqua verso l’alto e in questo modo i bacini diventano una batteria. Quando serve rilasciano l’acqua che mette in moto le turbine per produrre elettricità.

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA E viceversa, quando qui c’è calma di vento, possiamo importare in Germania elettricità proveniente dalle centrali idroelettriche.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO In questo modo il sistema è sempre in equilibrio: tanto si produce e tanto si consuma. Sole e vento non sono costanti, ma con questo sistema è come se ci fosse una centrale sempre pronta a garantire l’energia in ogni momento.

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA La capacità di NordLink è di 1400 Megawatt che corrisponde quasi a una centrale nucleare e mezza. E riusciamo a soddisfare, in Germania, il fabbisogno di più di tre milioni e mezzo di abitazioni.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO In Germania la richiesta maggiore di elettricità proviene dal Sud.

FLORIAN POLLEY – CONSULENTE DIGITALE TENNET GERMANIA Il Sud sta richiedendo 1466 Mw. Quelli disponibili non sono sufficienti. Questo è il caso tipico in cui linee di corrente continua ad alta tensione come il SudLink saranno decisive.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E sempre dal nodo di Wilster sta partendo un’altra linea

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA Stiamo costruendo un’altra stazione di conversione per collegare gli impianti di NordLink al nuovo SudLink.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Verso la Baviera e il Baden-Württemberg, la zona industriale della Germania.

MICHELE BUONO Fate dialogare il sole del sud con il vento del nord.

MATHIAS FISCHER – PORTAVOCE TENNET GERMANIA Proprio così. Stiamo creando una rete!

FLORIAN POLLEY – CONSULENTE DIGITALE TENNET GERMANIA Oltre alla Norvegia siamo collegati all’Olanda, alla Repubblica Ceca e all’Austria.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Quindi più interconnessioni e reti lunghe di trasporto, e tanti impianti distribuiti sui territori. Le fonti rinnovabili, però, sono capricciose, e il loro carattere dipende dalla meteorologia. Ma se le metti in relazione cambiano carattere e non sono più scostanti. Neuss a nord di Colonia.

NORBERT DYCKERS – GESTORE IMPIANTO BIOGASS – NEUSS (GERMANIA) Sono il gestore di un impianto agricolo di biogas della potenza di 1200 KW. I nostri cogeneratori sono collegati insieme ad altri impianti a Next, un’azienda che vende elettricità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Colonia. Next Kraftwerke. I dati di tutti arrivano in questa scatola.

MICHELE BUONO Qual è il vostro ruolo?

HENDRIK SÄMISCH - FONDATORE E AMMINISTRATORE DELEGATO NEXT KRAFTWERKE - COLONIA Colleghiamo circa 14000 impianti su un’unica piattaforma in modo da formare una vera e propria centrale virtuale.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO In questo modo migliaia di impianti sparsi possono raggiungere l’efficienza di un’unica centrale, sempre in grado di garantire la fornitura di energia rinnovabile indipendentemente dalle condizioni meteorologiche.

NORBERT DYCKERS – GESTORE IMPIANTO BIOGASS - NEUSS (GERMANIA) Next è in grado di inviarci indicazioni con largo anticipo con la richiesta di energia. Segnale verde accendi il cogeneratore, rosso spegni.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Grazie all’incrocio dei dati degli impianti con il fabbisogno dei clienti e le previsioni meteorologiche, la centrale virtuale è in grado di organizzare la produzione.

NORBERT DYCKERS – GESTORE IMPIANTO BIOGASS - NEUSS (GERMANIA) Nei momenti in cui la centrale non riesce a soddisfare la domanda elettrica e il sole è coperto, entrano in azione tanti piccoli impianti come questo e coprono questi vuoti nel fabbisogno energetico.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La chiave è aggregare per fare massa critica. Sassonia. Dresda. Università tecnica.

PAUL SEIDEL – RESPONSABILE RICERCA SISTEMI ENERGETICI – UNIVERSITA’ TECNICA DI DRESDA Abbiamo pensato la rete non più composta da centrali grandi ma da tante piccole cellule che lavorano tra di loro

MICHELE BUONO Come avete tradotto in realtà questa visione?

PAUL SEIDEL – RESPONSABILE RICERCA SISTEMI ENERGETICI – UNIVERSITA’ TECNICA DI DRESDA Ogni produttore di impianti energetici usa protocolli diversi e questo è un problema. Per farli dialogare, siamo riusciti a trasformare questi dati in un protocollo unico, un solo linguaggio.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Nasce così una startup e progetta questa scatola, la Swarm Box, letteralmente Scatola dello Sciame, in grado di imbarcare proprio tutti in un’unica centrale virtuale.

TOBIAS HESS - COFONDATORE DI ENERGIEKOPPLER - DRESDA È possibile coinvolgere anche i piccoli impianti che troviamo nelle abitazioni mono familiari ad esempio.

IRINA WEIS - COFONDATRICE ENERGIEKOPPLER - DRESDA Siamo in grado di farli lavorare insieme a grandi parchi eolici e fotovoltaici, cogeneratori, batterie e anche pompe di calore, gestendoli tutti in modo automatico e senza creare scompiglio nella rete.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È bastato questo per fare cambiare visione al gruppo Leag. MICHELE BUONO Producete energia elettrica con il carbone e avete integrato una tecnologia, la Swarm Box, che serve a rendere protagoniste le fonti di energia rinnovabile, perché?

CHRISTIAN FÜNFGELD - LEAG ENERGY CUBES – COTTBUS (GERMANIA) Il nostro piano è di continuare a produrre energia anche dopo la fine della produzione elettrica con il carbone.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E hanno cominciato anche loro a collegare piccoli e grandi impianti di rinnovabili. E la stessa Leag sta coprendo le proprie superfici con fotovoltaico ed eolico per sostituire già una parte di centrali a carbone.

MICHELE BUONO A quante centrali convenzionali si può paragonare questa nuova centrale virtuale?

RENÉ REDMANN - LEAG ENERGY CUBES – COTTBUS (GERMANIA) A una centrale media, a carbone, con un gigawatt di potenza. Il nostro piano è quello di arrivare perlomeno a 7 gigawatt.

MICHELE BUONO E se ogni paese mette quello che ha e condividiamo l’energia in eccesso in un mercato unico?

CHRISTIAN FÜNFGELD - LEAG ENERGY CUBES - COTTBUS (GERMANIA) Dovremmo rinforzare le interconnessioni tra i paesi europei per fare in modo che l'elettricità dall'Italia del sud arrivi fino in Germania. Solo in questo modo potremmo indirizzare l'elettricità a seconda del fabbisogno di ognuno.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Da Germania e Norvegia arriva l’esempio virtuoso: 600 chilometri di rete, il Nord Link che collega la Norvegia, i bacini idroelettrici della Norvegia con le pale eoliche del nord della Germania e viceversa. Perché poi quando soffia del vento in più l’energia eccedente dalla Germania finisce in Norvegia. Visto che funziona, che cosa hanno fatto? Stanno lavorando per creare il “sud link”: questa volta collega le pale eoliche del Nord della Germania con il fotovoltaico del sud della Germania. Strada facendo si sono poi allacciate Austria, Olanda e Repubblica Ceca. È un piccolo embrione di una super rete europea. Ma perché non lo fa il resto d’ Europa? Anche perché allargando gli attori in campo e allargando il campo da gioco, hai la possibilità di avere una continuità nel rifornimento dell’energia pulita, non rischi di rimanere a secco, elimini la discontinuità che è uno dei difetti della produzione di energia da rinnovabili. E sempre in Germania c’è un altro embrione di esempio virtuoso: hanno messo in rete 14 mila piccoli impianti di biogas, eolico, fotovoltaico e sono coordinati da una sorta di centrale unica virtuale, una piattaforma che invia a loro anche dei dati meteorologici per stimolare la produzione di energia quando non c’è sole o quando non c’è vento, o magari piove, si stimola la produzione delle centrali a biogas e viceversa. E questo consente di mantenere in equilibrio il sistema e assicurare l’energia pulita costantemente. E poi c’è un problema però di fondo; che i produttori di impianti di rinnovabili utilizzano dei protocolli diversi. E allora una startup si è inventata la sua Swarm Box, la scatola dello sciame, che serve praticamente a far dialogare tra loro i piccoli impianti di produzione, anche quelli familiari con i grandi campi eolici, i grandi campi fotovoltaici con generatori e accumulatori, le batterie e le pompe di calore. Ecco, il paese, il mondo, il pianeta non può più permettersi di continuare a bruciare carbone, e a lungo il gas, vista la situazione. Adesso abbiamo tutte le tecnologie per produrre, accumulare e trasportare l’energia pulita. Da Dublino arrivano i super cavi che sono in grado di trasportare quantità di corrente elettrica come mai nel passato. Potremmo arrivare a realizzare il sogno di alimentare un piccolo, riscaldare un piccolo appartamento della periferia di Parigi con le pale del nord Europa. Ecco, solo che per fare tutto questo c’è bisogno di una rete 8 intelligente, che sappia cioè andare a prendere l’energia pulita laddove è in eccesso per distribuirla laddove c’è bisogno. Beh, in Italia, in Puglia noi abbiamo la rete intelligente più grande d’Europa. Appartiene al gruppo Enel ed è pronta ad accettare la sfida.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sicilia. Acireale. Questa è Baxenergy, un campus di ricerca e sviluppo nel settore delle telecomunicazioni e dell’energia.

SIMONE MASSARO – AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY - ACIREALE (CT) Questa che vediamo nello schermo è una centrale eolica che sta producendo energia dal vento in Germania. In questo momento questa centrale sta operando al 43% della sua capacità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO In questo momento quindi la rete tedesca potrebbe attingere dal fotovoltaico e dal termodinamico della Sicilia dove c’è abbondanza di sole

SIMONE MASSARO – AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY - ACIREALE (CT) Al contrario, durante la sera, assumendo una condizione di vento migliore, potremmo avere un flusso inverso.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Consentendo alle due aree collegate di avvicinarsi al 100% di energia rinnovabile se ci fossero linee di trasporto a sufficienza.

MICHELE BUONO Proviamo a fare una simulazione: in un contesto europeo continentale

SIMONE MASSARO – AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY - ACIREALE (CT) Il nostro ruolo potrebbe essere quello di riuscire a prendere il meglio da ogni paese, facendo sì che paesi con risorse energetiche diverse possano interconnettersi e scambiare la loro energia con i paesi confinanti senza creare degli sbilanciamenti.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E magari fare entrare nella partita anche queste automobili. Siracusa. Ci hanno sempre saputo fare da queste parti con il sole. Con gli specchi poi non ne parliamo. Ma non vogliono bruciare navi questi ragazzi, studenti di ingegneria a Palermo e degli istituti tecnici di Siracusa. Progettano e producono prototipi di automobili elettriche che si alimentano con la propria carrozzeria fatta di pannelli fotovoltaici.

ENZO DI BELLA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FUTURO SOLARE - SIRACUSA Abbiamo scoperto che insomma questa auto è alla fine una piccola centrale su ruote.

MICHELE BUONO Cioè?

ENZO DI BELLA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FUTURO SOLARE - SIRACUSA Una volta accumulate queste batterie, accumulata l’energia nelle batterie della vettura stessa, se l’auto è ferma e quindi è parcheggiata, potrebbe in teoria andare a rilasciare questa energia alla rete stessa.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una modalità di trasporto, urbana magari, che a regime non solo non peserebbe sulla rete ma la andrebbe ad alimentare.

MICHELE BUONO Che risparmio ci sarebbe?

ENZO DI BELLA – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE FUTURO SOLARE - SIRACUSA Se appunto prendiamo in considerazione i 40 milioni di veicoli circolanti in Italia e facciamo un’ipotesi di rendere fotovoltaiche, diciamo così, queste automobili, circa 400mila, sarebbero in grado di generare circa 2,8 megawatt giornalieri di energia.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Area di Trapani, la tecnologia del solare termodinamico qui è già disponibile. VINCENZO FLORIDIA – AMMINISTRATORE ECOPRIME ITALIA È una normalissima centrale elettrica solo che la fonte fossile viene sostituita da una fonte sostenibile ovvero il sole.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Gli specchi riflettono la luce del sole su un tubo attraversato da sali fusi che, riscaldati, raggiungono una temperatura di 540 gradi. Il vapore prodotto alimenta le turbine che producono energia elettrica in maniera tradizionale. Tra Partanna e la Piana di Misiliscemi due impianti di solare termodinamico da 4Mw ciascuno e un campo fotovoltaico a fare da supporto. MICHELE BUONO Fotovoltaico più termodinamico insieme che cosa abilita?

VINCENZO FLORIDIA – CAPO ECOPRIME ITALIA Consente di produrre energia elettrica quando c’è il sole per 24 ore.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Il fotovoltaico produce di giorno e consente al termodinamico di accumulare energia nei serbatoi, in forma di calore, pronta per fare elettricità anche quando il sole tramonta. In Sicilia si può fare surplus con il sole e anche con il vento.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C ENGINEERING Quando l’energia solare qui in Sicilia e l’energia eolica vanno in rete insieme, già oggi in alcune ore del giorno il prezzo va a zero. Significa che l’energia non viene remunerata perché l’eolico e il fotovoltaico saturano la capacità di trasmissione della rete.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È come produrre merci in un territorio con poche strade e pure strette per raggiungere i mercati. Chi ha investito ha sperato in strade nuove e capaci. Senza limiti e strozzature si aprirebbe un mercato di dimensioni europea, e la materia prima da lavorare è pure abbondante.

AURELIO VITO CAMPANELLA – AMMINISTRATORE C&C ENGINEERING Daremo un valore aggiunto alle industrie perché pagheranno l’energia meno ma daremo anche lavoro e occupazione di livello e di qualità anche ai nostri lavoratori, alle nostre figure professionali.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Torino. Politecnico.

MICHELE BUONO Cambiamo architettura di trasmissione e di interconnessione della rete europea e vediamo che succede.

ETTORE BOMPARD – DIRETTORE SCIENTIFICO ENERGY SECURITY TRANSITION LAB - POLITECNICO DI TORINO Sono delle nuove autostrade a corrente continua.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una super rete ad alto voltaggio da sovrapporre all’infrastruttura già esistente per trasportare il vento del nord e il sole del mediterraneo, e alimentare abitazioni e imprese di tutto il continente.

ETTORE BOMPARD – DIRETTORE SCIENTIFICO ENERGY SECURITY TRANSITION LAB - POLITECNICO DI TORINO Questa nuova infrastruttura permette nel futuro di raggiungere quelle quote di penetrazione di rinnovabile del 70 - 80% che sono previste in Europa tra il 2030 e il 2050.

JOHN FITZGERALD – AMMINISTRATORE DELEGATO SUPERNODE - DUBLINO In inverno, quando il vento è forte da nord, il sole è debole nel Mediterraneo e in estate quando i venti da nord si indeboliscono, la risorsa solare nel bacino del Mediterraneo direi che è fenomenale. Ci sarebbe una complementarità quasi perfetta.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Irlanda. Sulla costa occidentale il vento viaggia tra gli 11 e i 12 metri al secondo, una velocità che rende l’energia prodotta più economica. Per catturarla bastano gli impianti eolici. Poi però c’è un problema se vuoi trasmetterla nei Paesi lontani.

EDDIE O’CONNOR- PRESIDENTE SUPERNODE - DUBLINO Il limite di energia che può passare in un cavo di rame. I costi di una super rete sarebbero proibitivi. Ecco perché abbiamo deciso di creare una forma molto più economica di trasmissione di questa elettricità.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Dublino. SuperNode. Sono tutti concentrati a lavorare su questo cavo che non ha rame al suo interno ma un composto ceramico. Emiliano Frulloni, ingegnere italiano, è il responsabile del dipartimento tecnologico.

EMILIANO FRULLONI – RESPONSABILE DIPARTIMENTO TECNOLOGICO SUPERNODE - DUBLINO Noi proponiamo l’utilizzo di superconduttori ad alta temperatura, che riesce a parità di volumi a trasportare dieci volte la potenza che un sistema tradizionale potrebbe trasportare.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Mentre con il cavo in rame si potrebbero trasportare al massimo fino a 2.500 ampere, con il superconduttore in materiale ceramico si arriverebbe a ben 20 mila ampere. Senza più colli di bottiglia e congestioni, per l’energia prodotta dalle fonti rinnovabili.

EMILIANO FRULLONI – RESPONSABILE DIPARTIMENTO TECNOLOGICO SUPERNODE - DUBLINO Perché il superconduttore funzioni deve essere mantenuto a meno 200 gradi centigradi.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E sottoposto a stress termici, il cavo non cambia la sua dimensione, mentre la resistenza al suo interno cala man mano che la temperatura diminuisce, fino ad arrivare al punto massimo di superconduttività. Il grafico indica che la resistenza è sparita. Funziona.

MICHELE BUONO In un quadro europeo fortemente interconnesso che lavoro farebbe questo cavo?

EMILIANO FRULLONI – RESPONSABILE DIPARTIMENTO TECNOLOGICO SUPERNODE - DUBLINO Se noi pensiamo che gli elettroni saranno il petrolio del domani, questo cavo sarebbe un grande oleodotto per trasportare questi elettroni dove ce n’è bisogno dai posti in cui vengono prodotti.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO A patto però che tutta la rete sia intelligente. Sennò gli elettroni come fanno a sapere dove devono andare? Per il momento è Puglia Active Network la più grande rete intelligente d’Italia e d’Europa. 67mila impianti, per la maggior parte fotovoltaici e anche eolici, sono collegati alla rete. E-Distribuzione. Sala di controllo di Bari.

MICHELE BUONO Dov’è l’intelligenza della rete?

ETTORE CARUSO – RESPONSABILE MANUTENZIONE RETE E-DISTRIBUZIONE SPA Questo cerchietto arancione è un impianto di produzione se non avessimo l’intelligenza, non sapremmo se effettivamente può dare energia ai clienti connessi a quella rete o se deve prelevarla.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Insieme all’elettricità, quindi, devono viaggiare in rete anche le informazioni per fare arrivare l’energia ai clienti dove serve, coordinando in tempo reale migliaia di impianti.

ETTORE CARUSO – RESPONSABILE MANUTENZIONE RETE E-DISTRIBUZIONE SPA La nostra intelligenza ci permette appunto di capire dove c’è la produzione e dove c’è la richiesta e far sì che queste si connettano tra di loro istante per istante.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO In modo che l’energia rinnovabile venga sempre utilizzata e diventi protagonista.

GIANNI CENERI – RESPONSABILE TECNOLOGIA GRIDSPERTISE Se in questa area, ad esempio in Puglia, abbiamo un surplus generale di produzione di energia, quell’energia chiaramente non deve essere sprecata

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Questo è un gemello digitale della rete elettrica di Gridspertise partecipata da Enel.

GIANNI CENERI – RESPONSABILE TECNOLOGIA GRIDSPERTISE Grazie a questo sistema da remoto noi possiamo intervenire, riconfigurare la rete; quindi, riconfigurare un po’ la strada e fare in modo che quegli elettroni arrivino laddove sono più necessari.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ogni abitazione diventa parte interattiva del sistema elettrico: dà e prende energia. La rete intelligente riesce a produrre surplus e a trasmetterlo verso nord, dove c’è più richiesta. Se tutto il Paese fosse nelle condizioni tecniche di produrre energia rinnovabile in abbondanza, potrebbe trasmetterla fino al nord Europa, contribuendo a un sistema integrato di scambio. Politecnico di Torino. Simuliamo di aumentare l’apporto delle fonti rinnovabili in Europa passando da un 20% di produzione a circa un 75.

MICHELE BUONO A questo punto come cambierebbe lo scenario?

ETTORE BOMPARD – DIRETTORE SCIENTIFICO ENERGY SECURITY TRANSITION LAB - POLITECNICO DI TORINO Abbiamo una riduzione significativa dell’impatto ambientale in termini di emissioni di anidride carbonica, diminuiscono del 50%

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E siccome le tecnologie elettriche sono più efficienti potremmo risparmiare addirittura il 25% di energia per produrre la nostra ricchezza. Politecnico di Milano.

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO Avremmo una realtà di prezzo energetico non soltanto più bassa ma soprattutto più stabile perché il grande vantaggio delle fonti rinnovabili è che una volta fatte le installazioni, il carburante, cioè il sole o il vento, non lo pago più.

MICHELE BUONO La valutazione per aumentare le interconnessioni a livello europeo sono all’incirca 140 miliardi più le reti intelligenti.

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO Sì e più gli investimenti di impianti di rinnovabili e parliamo all’incirca di 1.000-1.200 miliardi

MICHELE BUONO L’impatto economico di questo investimento?

DAVIDE CHIARONI – COFONDATORE ENERGY STRATEGY - POLITECNICO DI MILANO La riduzione dei costi di approvvigionamento nell’ordine dei 400 miliardi l’anno; investimenti complessivi da realizzare che potrebbero essere nell’ordine dei 1.500 miliardi vuol dire che a regime potremmo, grazie al risparmio sulla componente dei combustibili fossili, in 4-5 anni rientrare degli investimenti fatti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora in cinque anni ti saresti pagato gli investimenti fatti. Che sono sugli impianti e sulla rete, poi, una volta fatto quello, insomma, l’energia, il combustibile non lo paghi più. Non paghi certo né il vento né il sole, questo ti renderebbe intanto indipendente 13 dal dittatore di turno, dalle turbe dei paesi e poi avresti delle bollette più economiche, più stabili, più impermeabili ai tentativi di speculazione. E poi un domani se volessimo, potremmo convertire tutto ciò che è energia proveniente da combustibile, ecco, in elettrico. Puramente elettrico. Che ci consentirebbe anche di risparmiare il 25% di energia, perché i dispositivi elettrici sono molto più efficienti. C’è il problema di aver garantita un flusso di corrente di energia da rinnovabili 24 ore su 24. E questo è un esempio che potrebbe venire dal campus siciliano, di giorno attivi fotovoltaico, di notte passi al termodinamico. Poi la rete intelligente per gestire tutto questo ce l’abbiamo è in Puglia, raccoglierebbe laddove si produce in eccesso per indirizzare laddove c’è bisogno. Ecco bisognerebbe replicare questi esempi se vogliamo raddoppiare quella quota, il 20% di energia pulita che abbiamo fino a oggi prodotto, soprattutto se vogliamo avvicinarci all’obiettivo dell’Europa emissioni zero nel 2050. Ci sarebbe poi da identificare quelle aree idonee dove costruire nuovi impianti di rinnovabili. La legge l’abbiamo fatta, non abbiamo però nominato chi deve identificare queste aree. Ci sarebbe anche da recuperare le miniere dismesse che una volta estraevano carbone, oggi potrebbero essere invece trasformate invece in accumulatori di elettroni da restituire alla collettività. Se le recuperassimo restituiremmo una speranza ad un territorio e ad una popolazione che oggi sono completamente abbandonati. E forse è per questo che quando un giornalista va lì e parla con gli amministratori e porta una idea vincente, ecco gli occhi degli amministratori improvvisamente si illuminano.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E se mettessimo a disposizione pure le miniere? Ci arriviamo. Svizzera. Canton Ticino. Arbedo Castione. Qui progettano sistemi di accumulo gravitazionali, stesso principio dell’idroelettrico.

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Invece di acqua come pompaggio elettrico noi facciamo questi blocchi di 35 tonnellate

MICHELE BUONO FUORI CAMPO L’energia rinnovabile prodotta in eccesso solleva i pesi. Quando la rete chiede energia, perché c’è poco vento e non c’è sole, i pesi scendono e si produce elettricità.

LUCA MANZELLA – RESPONSABILE SVILUPPO EUROPA ENERGY VAULT È una sequenza gestita dal nostro software proprio per garantire la continuità di fornitura di energia elettrica.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È una batteria che accumula energia senza perdere la carica.

ROBERT PICONI - AMMINISRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Questi blocchi possono stare là per giorni, per ore perché tutto è energia potenziale in altezza.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO È un impianto di accumulo che viene progettato di volta in volta. Il principio rimane, cambiano forma e dimensioni.

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Si può costruire più o meno dappertutto, dobbiamo avere un po’ di altezza ovviamente perché è gravità

LUCA MANZELLA – RESPONSABILE SVILUPPO EUROPA ENERGY VAULT Qui dietro alle mie spalle vedete un modulo in formato ridotto. È possibile combinare 14 più moduli per raggiungere la dimensione dello stoccaggio necessario al progetto o richiesta dal cliente.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Può durare perlomeno cinquant’anni, e a fine vita gli elementi che la compongono sono riciclabili.

LUCA MANZELLA – RESPONSABILE SVILUPPO EUROPA ENERGY VAULT Anche questa è economia circolare perché all’interno delle masse mobili possiamo inglobare materiali di rifiuto tipo fibre di vetro derivanti dalle pale eoliche, ceneri di carbone, residui di costruzione, residui minerari.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Energia gravitazionale, quindi l’importante per i pesi è basta che ci sia spazio per andare su e giù.

MICHELE BUONO È possibile andare invece in profondità con questi impianti, per esempio dentro delle miniere che sono in disuso, che sono state chiuse?

ROBERT PICONI - AMMINISTRATORE DELEGATO ENERGY VAULT Sì, è possibile, è quasi ideale per noi, perché serve l’altezza, meglio andare giù che in altezza, sopra, allora è molto interessante.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Sardegna. Sulcis Iglesiente. Miniere di Carbosulcis. Non si estrae più carbone qui. Tempo fino al 2027 per le operazioni di dismissione: bonifica, messa in sicurezza del sito e ricerca di un’altra attività, eventualmente. Se non succede niente si chiude. Proponiamo di trasformare le miniere in deposito di energia rinnovabile con il sistema di stoccaggio gravitazionale. Verifichiamo le condizioni.

STEFANO FARENZENA – DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA La miniera è organizzata con due cantieri in superficie e i due cantieri sono collegati in sottosuolo attraverso una serie di gallerie.

MICHELE BUONO Quindi le gallerie funzionano?

STEFANO FARENZENA – DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA Le gallerie funzionano e sono efficienti attualmente.

MICHELE BUONO E i pozzi che profondità hanno?

STEFANO FARENZENA – DIRETTORE TECNICO MINIERE CARBOSULCIS SPA Variano dalle profondità di 350 metri quelli di Seruci per arrivare a 500 metri di profondità quelli di Nuraxi Figus.

MICHELE BUONO Dal punto di vista geologico, tiene la miniera? Possiamo stare sicuri?

FABRIZIO BORDICCHIA – GEOLOGO CARBOSULCIS SPA Assoluta non ci sono problemi di sorta, da questo punto di vista. Sia i pozzi che le gallerie sono assolutamente sicuri.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Scendiamo. La profondità c’è, e pure il diametro del pozzo minerario è sufficiente per inserire gli impianti. L’importante adesso è che il suolo sia asciutto. Non c’è traccia di acqua e nemmeno di infiltrazioni. Le gallerie sono accessibili e praticabili.

MICHELE BUONO Che competenze voi potete impiegare in tutto questo?

FRANCESCO LIPPI - AMMINISTRATORE DELEGATO CARBOSULCIS SPA Le competenze sono innanzitutto quelle legate alle professionalità interne che servono per il mantenimento in vita delle infrastrutture e in particolar modo di quelle sotterranee per le quali occorre chiaramente esperienza, professionalità e conoscenza dello stato dei luoghi. MICHELE BUONO Voi siete pronti?

FABRIZO PISANU – CAPO RICERCA E SVILUPPO CARBOSULCIS SPA Sì, noi siamo pronti e non vediamo l’ora di iniziare.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Si libererebbero degli spazi in superficie per impianti di produzione rinnovabile e la sovracapacità di produzione potrebbe essere raccolta dal vostro impianto di stoccaggio?

FRANCESCO LIPPI - AMMINISTRATORE CARBOSULCIS SPA Assolutamente sì.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Qui intorno ci sono impianti eolici di altre società.

FRANCESCO LIPPI - AMMINISTRATORE CARBOSULCIS SPA Una volta realizzata l’infrastruttura potremmo anche sviluppare degli accordi di partnership con altri player che possono utilizzare eventualmente la nostra infrastruttura per stoccare l’energia prodotta in surplus.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Una cabina elettrica primaria c’è già. Una volta portava energia alla miniera, gliene serviva tanta. Adesso Carbosulcis potrebbe darla l’energia alla rete.

FABRIZO PISANU – CAPO RICERCA E SVILUPPO CARBOSULCIS SPA La cabina primaria è essenziale perché è la finestra verso la rete elettrica nazionale.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E gli elettroni che non servono alla Sardegna potrebbero viaggiare con gli elettrodotti che Terna sta ampliando verso il continente e contribuire a creare quell’abbondanza energetica nazionale da poter scambiare in un dialogo europeo. Germania. Land del Brandeburgo. Un centinaio di chilometri da Berlino. Un parco eolico nella foresta.

ANNETTE BUSCH - DIRIGENTE DEL CORPO FORESTALE HAVEL-ODER-SPREE (GERMANIA) Ci troviamo nel territorio di Niederlehme. L’area misura 2400 ettari. Era una zona militare prima.

ARNOLD PERLICK – DIRETTORE TERRITORIALE CORPO FORESTALE HAVELODRA-SPREE (GERMANIA) La usavano l’Armata popolare Nazionale e i sovietici per le esercitazioni con i carrarmati.

MICHELE BUONO Quanto spazio si è creato nelle aree ex militari in Germania per le rinnovabili?

ANNETTE BUSCH - DIRIGENTE DEL CORPO FORESTALE HAVEL-ODER-SPREE (GERMANIA) Sono stati identificati 4.000 ettari, 1.200 sono già utilizzati, il resto è in via di realizzazione.

MICHELE BUONO Quanto è stato installato?

ANNETTE BUSCH - DIRIGENTE DEL CORPO FORESTALE HAVEL-ODER-SPREE (GERMANIA) Ad oggi sui terreni federali abbiamo installato 59 impianti eolici e 31 superfici ospitano impianti fotovoltaici.

MICHELE BUONO Quanto si produce?

ANNETTE BUSCH - DIRIGENTE CORPO FORESTALE HAVEL-ODER-SPREE (GERMANIA) Sono stati prodotti 500 milioni di kilowattora. Questo corrisponde a 4 milioni di euro di entrate annuali per l'Istituto per gli immobili federali.

ARNOLD PERLICK – DIRETTORE TERRITORIALE CORPO FORESTALE HAVELODRA-SPREE (GERMANIA) Soldi che vanno direttamente al Ministero delle finanze, otteniamo quindi energia elettrica verde e aumentiamo lo sviluppo delle rinnovabili. Una storia in cui ci sono solo vincitori.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Italia. Lazio. Frosinone. Aeroporto militare Moscardini, potrebbero essere disponibili 90 ettari per un parco fotovoltaico nel caso di trasferimento del 72esimo stormo. Il progetto del circolo Legambiente di Frosinone è già pronto.

STEFANO CECCARELLI - PRESIDENTE CIRCOLO LEGAMBIENTE FROSINONE Questo sito può produrre l’energia per i consumi domestici di un quinto della popolazione della provincia di Frosinone.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Grazie a una distesa di pannelli bifacciali con 70 Mw di picco.

STEFANO CECCARELLI - PRESIDENTE CIRCOLO LEGAMBIENTE FROSINONE Questo sito è perfetto per un impianto di grossa taglia perché non c’è una valenza paesaggistica perché non viene sottratta terra agli usi agricoli, perché questo è un terreno che è stato sempre off limits negli ultimi 70 anni.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Ma a un anno dalla conversione in legge del decreto energia non c’è ancora un piano operativo, il Ministero della Difesa non ha ancora individuato i siti da mettere a 17 disposizione per produrre energia rinnovabile. L’esempio virtuoso viene da Ferrovie dello Stato che un piano ce l’ha. Siamo molto energivori - si sono detti nel piano industriale 2022 - 2031 Organizziamoci per autoprodurre l’energia che ci serve.

ROBERTO TUNDO – RESPONSABILE TECNOLOGIA E INNOVAZIONE DIGITALE GRUPPO FS Nel piano industriale abbiamo l’obiettivo di raggiungere il 40% di quei 6,2 terawatt ora annui di consumi totalmente autoprodotti da fonti rinnovabili.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Hanno individuato 30 milioni di m2 di aree da valorizzare, in loro possesso lungo la linea ferroviaria. Si tratta di 50mila km lineari su cui operare con l’apporto di Anas, società del gruppo. Facciamo un altro ragionamento: Ferrovie possiede una rete, e le cabine elettriche, che la collegano alla rete nazionale sono sue. MICHELE BUONO Voi avete una bella rete di trasmissione elettrica …

ROBERTO TUNDO – RESPONSABILE TECNOLOGIA E INNOVAZIONE DIGITALE GRUPPO FS Complessivamente la rete ferroviaria è pari a 17mila km di linea operativa in esercizio.

MICHELE BUONO Potrebbe essere utilizzata per convogliare non solo l’energia da voi prodotta ma per raccogliere l’energia rinnovabile che si produce intorno a voi?

ROBERTO TUNDO – RESPONSABILE TECNOLOGIA E INNOVAZIONE DIGITALE GRUPPO FS Non vedo elementi di ostacolo tecnico in questo senso però a raccordare i contributi che possano venire anche dall’esterno.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO Raccogliere e trasmettere, quindi, con la propria rete, l’energia prodotta non solo dai propri impianti, ma anche da tutti gli altri, non di proprietà, distribuiti lungo la rete nazionale.

ROBERTO TUNDO – RESPONSABILE TECNOLOGIA E INNOVAZIONE DIGITALE GRUPPO FS Il progetto nei fatti crea una comunità energetica diffusa a livello nazionale.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO La comunità energetica più grande d’Europa grazie a una rete parallela di trasmissione.

SIMONE MASSARO - AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY – ACIREALE (CT) Una nuova autostrada sopra alla quale possano essere trasportati gigawatt interi di corrente elettrica, milioni di chilowatt che si spostano da un punto all’altro della nazione senza la necessità di creare nuove infrastrutture elettriche.

MICHELE BUONO FUORI CAMPO E la possibilità di creare surplus di energia rinnovabile da trasmettere oltre confine.

MICHELE BUONO E tutto questo in uno scenario europeo integrato, di mercato unico, quale sarebbe l’apporto dell’Italia a questo punto?

SIMONE MASSARO - AMMINISTRATORE DELEGATO BAXENERGY – ACIREALE (CT) E questa è la cosa bellissima se lo stesso approccio fosse utilizzato anche in altri paesi dell’Europa, sarebbe possibile utilizzare la rete ferroviaria per scambiare energia elettrica anche attraverso i confini nazionali. MICHELE BUONO FUORI CAMPO E gli elettroni che non servono al Paese, potrebbero viaggiare e contribuire allo scambio con la rete europea. Berlino Swp. Istituto per la sicurezza e gli affari internazionali. Sicurezza, geopolitica, e che le reti disegnano nuovi territori, è materia loro. In effetti abbiamo smesso di farci la guerra in Europa quando abbiamo messo in comune il carbone e l’acciaio.

MICHELE BUONO Che nesso ci potrebbe essere: carbone e acciaio precondizione della Comunità Europea e dell’Unione Europea e Comunità dell’Energia Elettrica?

JACOPO MARIA PEPE – RICERCATORE ISTITUTO PER LA SICUREZZA E GLI AFFARI INTERNAZIONALI SWP (BERLINO) Il nesso sarebbe la volontà politica di rifondare l’Europa. In questo caso sarebbe una rifondazione sulle priorità date alle rinnovabili perché è solo questo il vero scambio politico, cioè come superare i contrasti e le diversità e divergenze di interessi se si pone alla base dell’Unione europea la trasformazione del sistema energetico e industriale. Su questo punto la comunità elettrica europea potrebbe essere lo strumento, come fu la Comunità del carbone e dell’acciaio, per superare l’impasse politico nel quale ci troviamo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’energia pulita come collante politico dei Paesi. L’Europa come una gigantesca comunità energetica, quell’Europa che oggi è in crisi e che potrebbe rifondarsi sul mercato comune dell’energia pulita. Questo ci svincolerebbe dai capricci del dittatore di turno, dai cartelli di mercato, dalle speculazioni. Oggi quello scenario è completamente cambiato. Solo che in tutto questo non abbiamo ancora ben capito il nostro Paese quale partita stia giocando. Si è messa nell’ambito della transizione nelle mani dei lobbisti del gas e dell’energia fossile, quando noi invece avremmo tutte le competenze per produrre energia pulita, cumularla e anche trasportarla. Avremmo anche in embrione una super rete, l’ha scoperta il nostro Michele Buono nel corso dell’inchiesta, è quella di Ferrovie dello Stato, che avrebbe oltretutto anche in pancia una bella fetta del Pnrr. Ecco, quella rete che potrebbe un domani anche collegarsi al Sudlink in Germania, quindi al Nord dell’Europa, potrebbe raccogliere energia a basso costo, pulita, trasportare persone e fare utili. Insomma, una pacchia. Potrebbe anche raccogliere quell’energia gravitazionale dalle miniere del Sulcis. Un’esperienza svizzera, il nostro Michele Buono, l’ha consegnata la sua esperienza agli amministratori delle miniere abbandonate e, insomma, una energia, che verrebbe dal meccanismo di blocchi di cemento, accumulano andando in su quando l’energia è in eccesso e poi la restituiscono quando manca il sole o il vento. Ecco, insomma, quando l’ha proposta agli amministratori, gli amministratori sono andati in eccitazione, perché si tratterebbe di recuperare un territorio, delle competenze che hanno e che potrebbero andare perse, restituendo dell’energia, degli elettroni questa volta puliti. Invece chi non è pervenuto è il ministero della Difesa, dovrebbe dare un contributo nell’ambito della legge della transizione energetica a identificare le aree militari dismesse attraverso la sua società, Difesa e servizi Spa, insomma avrebbe dovuto identificare Commissari e subcommissari che dovevano valutare le aree idonee da dedicare alla costruzione di nuovi impianti fotovoltaici. Dopo un anno non l’hanno fatto, questo mentre le aree dismesse militari all’estero, lo abbiamo 19 visto, stanno già fornendo energia. Qui invece siamo ancora a carissimo amico, non sappiamo neppure quante aree sono da dedicare, insomma, le abbiamo chieste non ci hanno risposto. Ora, a proposito invece di chi dorme da piedi.

Luangwa Project. Report RaiPUNTATA DEL 19/06/2023

di Luca Chianca

Collaborazione di Alessia Marzi

Report è stato in Zambia a verificare il “Luangwa Community Forests Project”, il più grande progetto di Redd+ di tutta l'Africa

Dal 2019, l'Eni è entrata nella governance con l'obiettivo di salvaguardare la foresta per abbassare il suo bilancio di emissioni da carburanti fossili. Zero emissioni, infatti, è l'obiettivo portato avanti dalle aziende europee entro il 2050, in modo tale da poter frenare l'aumento delle temperature globali e stabilizzarle entro 1,5°C. Ed è in questo quadro che è stato introdotto il meccanismo dei progetti REDD+ per incentivare la protezione delle foreste con evidenti effetti positivi sull'ambiente e sulla lotta ai cambiamenti climatici. In cambio, chi gestisce il progetto e ha salvato la foresta, può vendere o acquisire crediti di carbonio che vanno poi a compensare le emissioni di Co2 che vengono emesse in atmosfera. Da questo progetto l'Eni ha già conteggiato nei propri bilanci crediti di carbonio pari a 1,4 mln di tonnellate nel 2021, 1,7 mln di tonnellate per il 2022 mentre per il 2023 dovrebbe essere sulla stessa cifra. Ma come funziona il progetto e cosa fa esattamente?

 

Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma

Alla Cortese Attenzione del dott. Roberto Albini Responsabile Media Relations Piazza Ezio Vanoni, 1 – 20097 San Donato Milanese (MI) Via Emilia, 1 - 20097 San Donato Milanese (MI) Roma 5 maggio 2023

Gentile dott. Albini, in una delle prossime puntate di “Report”, il programma di Rai3, ci occuperemo del progetto di conservazione forestale REDD+ denominato Luangwa Community Forests Project (LCFP), in Zambia. Considerati gli investimenti fatti da Eni nell’ambito di questo progetto, al fine di fornire una chiara e corretta informazione ai nostri telespettatori, riteniamo essenziale poter approfondire il tema, in particolare sui punti che elenchiamo a seguire. Come programma televisivo, sarebbe per noi fondamentale poter dare voce alle posizioni di Eni a mezzo videointervista, da concordare in base alle vostre disponibilità.

1. Quale è il dettaglio del coinvolgimento di ENI nel progetto LCFP? Che volumi economici Eni intende investire nei progetti REDD+ rispetto al suo profitto lordo e quale di questa percentuale è destinata al progetto LCFP;

2. Nell’ambito del progetto LCFP, quanti di questi fondi vengono canalizzati nel supporto alle popolazioni locali? I crediti acquisti da Eni a quanto ammontano? Entrano all’interno del mercato volontario dei crediti di carbonio o sono tutti da destinare alla compensazione delle emissioni dell’azienda?

3. Cosa significa l’ingresso di Eni nella governance del progetto LCFP in termini di responsabilità per l’azienda?

4. Secondo il Piano strategico 2021-2024, Eni prevede entro il 2050 di compensare più di 40 milioni di tonnellate (Mton) di CO2 ogni anno grazie a progetti REDD+: quanto di questa programmazione è ascrivibile agli investimenti al Luangwa Community Forests Project

5. Che tipo di due diligence è stata fatta da Eni prima di entrare nella governance e acquistare crediti di carbonio nell’ambito del progetto LCFP in Zambia?

6. Confrontandoci con analisti indipendenti, appartenenti a realtà diverse, abbiamo riscontrato una sovrastima della riduzione delle emissioni generate dal progetto, a cui si aggiunge un downgrade della valutazione del stesso operata dalla società BeZero: quali misure Eni ha adottato in merito a queste osservazioni?

7. Uno dei motivi che ha portato a una sovrastima della CO2 non immessa in atmosfera risiederebbe nell'area di riferimento per la stima molto diversa rispetto all'area del progetto (diversa altitudine, densità di popolazione, tipologia di foresta). È un elemento attenzionato da Eni? Che tipo di controllo viene fatto dall’azienda sulle basi e sullo stato di avanzamento del progetto?

8. Abbiamo verificato nelle aree interessate come le popolazioni non siano del tutto coinvolte nel progetto o ricevano solo parte dei benefici che un progetto del genere prevede: come Eni valuta questo elemento?

9. Abbiamo verificato nelle aree interessate come siano ancora possibili, nonostante il percorso in essere, alcune attività turistiche di safari e caccia. Come Eni valuta questa scelta?

10. I progetti REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation in developing countries) rivestono un ruolo importante nel piano di decarbonizzazione e nella comunicazione di Eni. Quali sono le progettualità avviate e a che punto si trova ciascun investimento? Quanti di questi progetti vedono ufficialmente Eni coinvolta nei progetti di deforestazione forestale (per esempio Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Ministero della transizione ecologica - MiTE)

11. Quale tipologia di controlli porta a termine ENI per verificare in maniera indipendente l’integrità ambientale dei progetti REDD+ da cui acquista crediti di carbonio o con cui collabora in alcun modo?

12. Stando ai dati pubblicati da Greenpeace UK, le compagnie ENI e l’International Airlines Group - prese a campione perché entrambe hanno dichiarato i loro obiettivi di compensazione forestale - avrebbero bisogno del 12% del totale delle foreste disponibile al mondo per mantenere le loro promesse climatiche. Come Eni commenta questo tipo di valutazione?

13. Pur non essendo richiesta alcuna divulgazione sui progetti di conservazione forestale finanziati dalle realtà private, perché Eni, in parte di proprietà statale, non ha scelto di pubblicare ogni dettaglio delle proprie attività? Per ogni dettaglio in merito alla nostra richiesta è possibile contattare l’autore del servizio Luca Chianca al 339 6348016.

Ringraziandovi sin d’ora per quanto potrete fare, porgiamo i più cordiali saluti Report-Rai3 Da: Albini Roberto Carlo

Inviato: martedì 6 giugno 2023 15:59 A: [CG] Redazione Report Oggetto: R: [EXTERNAL] Richiesta intervista_Report, Rai 3

Buon pomeriggio, abbiamo ricevuto la richiesta e vi daremo riscontro quanto prima. Cordiali saluti. Roberto Albini Il giorno 16 giu 2023, alle ore 10:02,

Redazione ha scritto: Gentilissimi, per esigenze di produzione avremmo necessità di ricevere riscontro circa la richiesta di informazioni inviata lunedì 5 giugno, entro la giornata di domani mattina, 17 giugno, alle ore 10. Vi ringraziamo per la disponibilità. Cordiali saluti, Redazione Report Da: Albini Roberto Carlo Inviato: venerdì 16 giugno 2023 18:33 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Re: [EXTERNAL] Richiesta intervista_Report, Rai 3

Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Buon pomeriggio, ci stiamo confrontando con i nostri legali e certamente vi faremo avere una riposta entro la giornata di domani, chiedendovi cortesemente qualche ora in più rispetto alle 10,00 se dovesse rendersi necessario. Grazie, cordialmente. Roberto Albini Il giorno 17 giu 2023, alle ore 14:10,

[CG] Redazione Report ha scritto: Gentile dott. Albini, la registrazione degli interventi di studio del conduttore della prossima puntata di Report, in onda lunedì 19 giugno, è in essere. Abbiamo atteso fino alle ore 14.00 ma per ragioni di produzione non ci è possibile sforare rispetto a tale orario. Ovviamente come di consuetudine sarà nostra cura offrire l’integralità delle posizioni ENI sul nostro sito. Cordialmente,

Redazione Report sabato 17/06/2023 15:31 Gentile Redazione, al fine di poter rispondere in modo completo a ognuna delle domande che ci avete trasmesso, evitando eventuali tagli, preferiamo fornire le informazioni che richiedete per iscritto e non a mezzo intervista. Di seguito trovate sia le risposte puntuali, domanda per domanda, attribuibili a Eni, da citare a seconda dei punti che intenderete introdurre nel servizio, sia una dichiarazione complessiva sul tema da utilizzare a fine servizio, se servisse, da parte del conduttore. Teniamo a precisare che la posizione generica non sostituisce le singole risposte ed è formulata se utile per l’economia della trasmissione. Confidiamo nella completezza delle informazioni che vorrete dare ai vostri ascoltatori. Grazie, cordialmente. Ufficio stampa Eni Dichiarazione complessiva Eni raggiungerà nel 2050 le zero emissioni nette delle proprie attività industriali e dell’utilizzo dei propri prodotti da parte dei consumatori. I crediti di carbonio, per la compensazione delle emissioni non abbattibili con le tecnologie disponibili, rappresentano solo il 5% delle riduzioni per raggiungere tale obiettivo. I progetti sviluppati secondo lo schema REDD+ delle Nazioni Unite sono di particolare importanza in questa fase iniziale per l’elevato tasso di deforestazione e degrado forestale nel mondo. Si tratta di progetti virtuosi certificati da soggetti internazionali autorevoli e indipendenti (almeno altrettanto indipendenti quanto chi li contesta), che producono importanti ricadute positive oggettive per i territori e il contesto ambientale che li ospita. 1. Quale è il dettaglio del coinvolgimento di Eni nel progetto LCFP? Che volumi economici Eni intende investire nei progetti REDD+ rispetto al suo profitto lordo e quale di questa percentuale è destinata al progetto LCFP; Nel 2019, Eni ha firmato un accordo ventennale con BioCarbon Partners (BCP), società leader nei progetti a lungo termine di conservazione delle foreste, per sostenere il Luangwa Community Forest Project (LCFP) attraverso l’acquisto dei crediti di carbonio generati, entrando contestualmente come membro attivo nella governance del progetto. Il progetto coinvolge a oggi 17 chiefdom - ovvero 17 comunità locali – e oltre 200mila beneficiari. Con la sottoscrizione dell’acquisizione di crediti di carbonio Eni assicura al progetto, con una prospettiva di lungo termine, un flusso finanziario capace di sostenere i costi di progetto e rendere disponibili le cosiddette conservation feesutilizzabili dai 17 chiefdom coinvolti per la realizzazione di progetti sociali a loro diretto beneficio. I dati economico-finanziari sono commercialmente sensibili per ragioni di concorrenza e coperti da clausole contrattuali di riservatezza; Eni, pertanto, non fa disclosure su tali dati 2. Nell’ambito del progetto LCFP, quanti di questi fondi vengono canalizzati nel supporto alle popolazioni locali? I crediti acquisiti da Eni a quanto ammontano? Entrano all’interno del mercato volontario dei crediti di carbonio o sono tutti da destinare alla compensazione delle emissioni dell’azienda? Non meno del 70% dei proventi della vendita dei crediti vengono allocati localmente. I fondi sono stati destinati, ad oggi, ad oltre 230 progetti comunitari per l’accesso all’acqua potabile, alla salute, all’educazione e alla formazione professionale, alle migliori pratiche agricole e al microcredito. I crediti, generati secondo gli schemi volontari e acquistati da Eni (1.7 milioni nel 2022), vengono utilizzati per compensare volontariamente ed esclusivamente le proprie emissioni. 3. Cosa significa l’ingresso di Eni nella governance del progetto LCFP in termini di responsabilità per l’azienda? L’ingresso di Eni nella governance del progetto permette di verificare in modo diretto i piani di sviluppo locale promossi nell’ambito dell’iniziativa, monitorando l’evoluzione delle attività connesse. Inoltre, consente di portare l’esperienza di Eni nella programmazione di lungo termine e nel conseguente monitoraggio. 4. Secondo il Piano strategico 2021-2024, Eni prevede entro il 2050 di compensare più di 40 milioni di tonnellate (Mton) di CO2 ogni anno grazie a progetti REDD+: quanto di questa programmazione è ascrivibile agli investimenti al Luangwa Community Forests Project Il piano strategico 2021-2024, presentato a febbraio 2021, prevedeva un obiettivo di compensazione delle emissioni tramite progetti di Forestry pari a circa 40 milioni di tonnellate di CO2 all’anno al 2050. In realtà, dopo due edizioni, il piano strategico 2023-2026, presentato a febbraio 2023, prevede un obiettivo di compensazione delle emissioni inferiore a 25 milioni di tonnellate all’anno al 2050 tramite crediti generati da progetti non solo di forestry come riportato nella riposta 10. I crediti contrattualizzati con il progetto LCFP rappresentano circa il 12% del fabbisogno di crediti ad oggi pianificato fino al 2050. 5. Che tipo di due diligence è stata fatta da Eni prima di entrare nella governance e acquistare crediti di carbonio nell’ambito del progetto LCFP in Zambia? La validazione iniziale di ciascun progetto e il relativo design, la definizione dell’area del progetto, la baseline e le altre informazioni principali dello stesso vengono verificati da soggetti terzi indipendenti (auditors) certificati per svolgere tale tipo di attività. I rapporti sono disponibili per consultazione pubblica. Per garantire terziarietà e trasparenza, le verifiche periodiche su ciascun progetto (ovvero la sua conformità ai criteri di qualità e certificazione e il calcolo dei crediti da rilasciare) vengono effettuate da auditors diversi da quelli che hanno validato inizialmente il progetto. Ad ulteriore tutela è previsto un obbligo di rotazione che impedisce allo stesso verificatore di certificare un progetto per più di cinque anni. Gli auditors autorizzati a condurre le verifiche sui progetti REDD+ devono essere accreditati in appositi registri professionali quali l'ANSI (American National Standards Institute). Gli enti di registro conducono poi la propria revisione dei singoli rapporti, prima di convalidare ogni verifica. Ciascun progetto di Eni è sottoposto alla dovuta due diligence, come previsto dal Sistema di Controllo Interno e di Gestione dei Rischi e descritto all’interno della Management System Guideline Anticorruzione pubblicata sul sito eni.com (“MSG Anti-Corruzione”), volta a verificare che ogni soggetto terzo che intenda instaurare un rapporto contrattuale con Eni o altre società nel perimetro di controllo di Eni rispetti i principi etici e anti-corruzione stabiliti da Eni nell’ambito della suddetta MSG e l'esistenza di potenziali fattori di rischio che devono essere presi in considerazione (c.d. Red Flag). 6. Confrontandoci con analisti indipendenti, appartenenti a realtà diverse, abbiamo riscontrato una sovrastima della riduzione delle emissioni generate dal progetto, a cui si aggiunge un downgrade della valutazione dello stesso operata dalla società BeZero: quali misure Eni ha adottato in merito a queste osservazioni? Si rimanda alle risposte 5 e 7, che dettaglia il meccanismo di validazione di ciascun progetto, sottoposti a processi di audit, esterni e autorevoli, opportunamente rendicontati nei registri. Ricordiamo che la validazione e la certificazione dei progetti si basano su criteri scientifici e su dati di dettaglio e su campionamenti effettuati sull’area di progetto non meno attendibili rispetto ad altre valutazioni puramente teoriche. 7. Uno dei motivi che ha portato a una sovrastima della CO2 non immessa in atmosfera risiederebbe nell'area di riferimento per la stima molto diversa rispetto all'area del progetto (diversa altitudine, densità di popolazione, tipologia di foresta). È un elemento attenzionato da Eni? Che tipo di controllo viene fatto dall’azienda sulle basi e sullo stato di avanzamento del progetto? I progetti vengono valutati accuratamente confrontando l’evoluzione del tasso di deforestazione rispetto all’andamento di un’area di riferimento, la cosiddetta “baseline”. La definizione della baseline di riferimento dei progetti non viene fatta solo su base teorica ma attraverso campionamenti sul campo e definendo le aree di progetto in maniera dettagliata e prendendo in considerazione molteplici fattori locali. Il design dei progetti è soggetto a controllo da parte di verificatori indipendenti e successivamente validato dall’Ente di Registro. Tra gli elementi certificati vi è anche il meccanismo di condivisione dei benefici con le istanze locali (il benefit sharing mechanism), il meccanismo di consultazione delle comunità e il loro consenso informato Free, Prior, and Informed Consent (FPIC). Come menzionato nella quinta risposta, per garantire terzietà e trasparenza le verifiche periodiche su ciascun progetto (la sua conformità ai criteri di qualità e certificazione e il calcolo dei crediti da rilasciare) vengono effettuate da auditors diversi da quelli che hanno validato inizialmente il progetto. 8. Abbiamo verificato nelle aree interessate come le popolazioni non siano del tutto coinvolte nel progetto o ricevano solo parte dei benefici che un progetto del genere prevede: come Eni valuta questo elemento? Uno degli elementi chiave del progetto è proprio il coinvolgimento delle comunità attraverso i Community Forest Management Groups, gruppi eletti localmente, che allocano i proventi della vendita dei crediti di carbonio in progetti di sviluppo locale, conferendo alla foresta e alla sua protezione un valore diretto e tangibile per le popolazioni locali. La partecipazione diretta delle popolazioni locali alla tutela delle foreste tramite le alternative di sviluppo locale proposte dal progetto permette di dare sostenibilità e continuità alle iniziative. Come riportato alla risposta 2, non meno del 70% dei proventi della vendita dei crediti vengono allocati localmente. I flussi finanziari hanno permesso alle comunità di sviluppare iniziative per l’accesso all’acqua potabile, alla salute, all’educazione e alla formazione professionale, alle migliori pratiche agricole e al microcredito. Secondo i dati comunicati da Biocarbon Partners, verificabili online sul loro sito, il progetto ha contribuito a incrementare il reddito medio familiare di più del 200% tra il 2016 al 2022. Proprio a fronte dei risultati positivi del progetto, nel 2022, 5 nuovi chiefdoms si sono aggiunti ai 12 che hanno inizialmente aderito a LCFP. 9. Abbiamo verificato nelle aree interessate come siano ancora possibili, nonostante il percorso in essere, alcune attività turistiche di safari e caccia. Come Eni valuta questa scelta? Il taglio illegale della legna e il bracconaggio sono vietati per legge, il progetto non impone nell’area di progetto limitazioni all’accesso o all’utilizzo dei prodotti non legnosi, i cosiddetti “non-timber forest products (NTFPs). Il progetto fornisce tuttavia un importante contributo, oltre alla lotta contro il cambiamento climatico e al contributo significativo allo sviluppo e alla resilienza delle comunità tra le più vulnerabili del Paese anche alla tutela degli ecosistemi e dei servizi ecosistemici collegati e alla protezione della biodiversità. Il progetto, infatti, preserva, in aree complementari a parchi e riserve, corridoi ecologici essenziali per numerose specie tra le quali, ad esempio, il licaone, il pangolino di Temminck, il leopardo e il leone incluse alcune presenti nella Red List IUCN. Secondo il report di CCB Standards, il progetto ha migliorato l’integrità ecologica e la biodiversità dell’area. I sondaggi condotti dagli stakeholder locali mostrano che la biodiversità, nel corridoio di fauna selvatica che connette i cinque parchi nazionali e che l’iniziativa mira a preservare, si è mantenuta su livelli stabili. Nell’area di Munyamadzi, inoltre, la fauna selvatica è stata incrementata, secondo il monitoraggio regolare effettuato dall’inizio del progetto. 10. I progetti REDD+ (Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation in developing countries) rivestono un ruolo importante nel piano di decarbonizzazione e nella comunicazione di Eni. Quali sono le progettualità avviate e a che punto si trova ciascun investimento? Quanti di questi progetti vedono ufficialmente Eni coinvolta nei progetti di deforestazione forestale (per esempio Programma delle Nazioni Unite per lo sviluppo, Ministero della transizione ecologica - MiTE) – chiediamo chiarimenti alla redazione su questa domanda, che cita il MITE, non più esistente con tale nome, e il programma delle Nazioni Unite, che potrebbe o non potrebbe essere il cosiddetto REDD+ L’obiettivo zero emissioni nette al 2050 di Eni verrà raggiunto, per il 95%, attraverso un ventaglio di soluzioni individuate per decarbonizzare le proprie attività e operazioni. L’azienda ha adottato un approccio olistico che fa perno su efficientamento energetico, tecnologie all’avanguardia e sullo sviluppo dei business esistenti, come quello delle rinnovabili, della bioraffinazione e della mobilità sostenibile, ulteriormente rilanciati con la creazione delle due società dedicate Plenitude ed Eni Sustainable Mobility. I progetti di compensazione delle emissioni, i cosiddetti “carbon offset” contribuiscono solo per il 5% al raggiungimento dell’obiettivo di zero emissioni nette al 2050. Nel breve periodo la protezione delle foreste è - come rilevato da Nazioni Unite, Unione Europea e Banca Mondiale[1]- uno degli strumenti più efficaci e immediatamente utilizzabili per contenere il livello di CO2 nell'atmosfera, considerando che ogni anno la deforestazione causa emissioni per quasi 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica (secondo Global Forest Watch). Per questo motivo Eni ha deciso di avviare il proprio piano di compensazioni attraverso progetti di protezione delle foreste secondo lo schema Reducing Emissions from Deforestation and forest Degradation (REDD+) delle Nazioni Unite e validati secondo gli standard internazionali più elevati per la certificazione non solo della riduzione delle emissioni di carbonio ma anche dell’ottenimento di risultati socio-ambientali positivi. Progressivamente Eni prevede di compensare le proprie emissioni residue facendo leva su soluzioni basate sulla natura, le cosiddette “Natural Climate Solutions” e su Progetti Tecnologici, con l’obiettivo di massimizzare nel tempo la componente di rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, la cosiddetta “carbon removal”. Eni sostiene iniziative di Carbon Offset in Messico, Malawi, Costa D’Avorio e Tanzania e sta valutando progetti in diversi Paesi tra i quali Ghana, Mozambico, Vietnam e Angola. 11. Quale tipologia di controlli porta a termine ENI per verificare in maniera indipendente l’integrità ambientale dei progetti REDD+ da cui acquista crediti di carbonio o con cui collabora in alcun modo? Vedere risposte 5 e 7 12. Stando ai dati pubblicati da Greenpeace UK, le compagnie Eni e l’International Airlines Group - prese a campione perché entrambe hanno dichiarato i loro obiettivi di compensazione forestale - avrebbero bisogno del 12% del totale delle foreste disponibile al mondo per mantenere le loro promesse climatiche. Come Eni commenta questo tipo di valutazione? Questa affermazione non appare corretta. Innanzitutto, è necessario ricordare che la compensazione delle emissioni residue rappresenta solo il 5% delle azioni per il raggiungimento delle zero emissioni nette nel 2050. Inoltre, è importante sottolineare, come già indicato nella risposta 10, che la protezione delle foreste rappresenta una leva essenziale nel breve periodo per il contrasto al cambiamento climatico e che la strategia Eni per la neutralità carbonica al 2050 prevede una progressiva riduzione dei crediti da progetti REDD+ e una progressiva massimizzazione di crediti da su soluzioni basate sulla natura, le cosiddette “Natural Climate Solutions” e su Progetti Tecnologici, con l’obiettivo di massimizzare progressivamente la componente di rimozione dell’anidride carbonica dall’atmosfera, la cosiddetta “carbon removal”. Non abbiamo contezza dei dati relativi all’International Airlines Group ma per quanto concerne i piani di Eni la stima presentata, anche se fosse riferita alle sole foreste primarie e secondarie alle quali è applicabile il programma REDD+ definito dalle Nazioni Unite (solo una parte delle foreste mondiali), è sovrastimata per un ordine di grandezza.

LUANGWA PROJECT di Luca Chianca collaborazione Alessia Marzi Immagini di Alfredo Farina Ricerca immagini di Paola Gottardi LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Siamo nel cuore dell'africa australe lungo il fiume Luangwa, in Zambia. Intorno a noi quasi un milione di ettari di savana, foresta e qualche piccolo villaggio vicino al fiume dove vivono un migliaio di persone. JAPHER Stiamo entrando dentro il progetto per la salvaguardia della foresta. Al di qua del fiume c'è l'area non vincolata, mentre qui inizia l'area protetta per gli alberi e gli animali.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Oggi anche se questa vasta area è tutelata, ai turisti bianchi è permesso cacciare. Al nostro arrivo a darci il benvenuto c'è una carcassa di un leone, lasciata qui come un trofeo.

CHRISS B ZULU Spesso gli elefanti ci distruggono i raccolti e siamo costretti a camminare per giorni per arrivare alla città più vicina per mangiare.

LUCA CHIANCA Però gli uomini bianchi vengono qui a fare i safari per uccidere i leoni, le sembra giusto?

CHRISS B ZULU È previsto dal programma.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il programma si chiama Luangwa Community Forests Project, il più grande progetto di salvaguardia di tutta l'Africa che genera anche crediti di carbonio

LUCA MANES – RESPONSABILE COMUNICAZIONE ONG RECOMMON Significa evitare la deforestazione di ampie parti del territorio quindi preservare e conservare delle immense foreste con evidenti effetti postivi sull'ambiente e sulla lotta ai cambiamenti climatici.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO In cambio, chi gestisce il progetto e ha salvato la foresta, può vendere o acquisire crediti di carbonio che vanno poi a compensare le emissioni di Co2 che vengono emesse in atmosfera. Nel 2019 nella governance del progetto è entrata anche la nostra Eni.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’idea di Eni è quella di aderire al progetto per impedire la deforestazione, tutelare e prevenire dal cambiamento climatico, e contenere l’aumento demografico. Tutto questo le consente di accumulare dei crediti di carbonio. Stimati entro il 2024 in 6 milioni di tonnellate di co2. Questi crediti può venderli oppure può compensare le proprie emissioni di co2 quando brucia energia da fossili. Ora che cosa sta facendo materialmente Eni in questo progetto che è il più ambizioso dell'Africa? Va tutto bene fino a quando poi uno non va a fare i calcoli o verificare l’avanzamento dei lavori. Come ha fatto il nostro Luca Chianca.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO I progetti REDD+, in cambio delle compensazioni di carbonio per le aziende inquinanti, contribuiscono alla salvaguardia delle foreste e di territori incontaminati come quello intorno al fiume Luangwa.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Thales Pupo West è un ricercatore dell'Università di scienze e geografia ambientale di Amsterdam. Inizia a sviluppare progetti sui crediti di carbonio qualche anno fa, ma poi ci ripensa.

THALES PUPO WEST – RICERCATORE DIPARTIMENTO DI SCIENZE E GEOGRAFIA AMBIENTALE - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Più lavoravo sui progetti e visitavo questi posti, più diventavo scettico sul fatto che stessero effettivamente funzionando.

LUCA CHIANCA Qual è il problema principale in questi progetti?

THALES PUPO WEST – RICERCATORE DIPARTIMENTO DI SCIENZE E GEOGRAFIA AMBIENTALE - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM È definire fin dall'inizio il reale grado di deforestazione dell'area in assenza del progetto. Perché se sovrastimi questo dato il progetto non è più credibile.

LUCA CHIANCA E nel Luangwa project, quali sono state le vostre conclusioni?

THALES PUPO WEST – RICERCATORE DIPARTIMENTO DI SCIENZE E GEOGRAFIA AMBIENTALE - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM È come se non avesse alcun impatto. LUCA CHIANCA Questo è un problema serio?

THALES PUPO WEST – RICERCATORE DIPARTIMENTO DI SCIENZE E GEOGRAFIA AMBIENTALE - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Sì, perché significa che il progetto non dovrebbe emettere alcun credito perché non sta realmente riducendo la deforestazione. E se queste compensazioni non sono reali significa che anche le affermazioni delle aziende che rivendicano i crediti di carbonio non sono valide.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO A Luembe abbiamo incontrato il capo di una delle 17 municipalità che ricadono nell'area del progetto è che dovrebbero ricevono una parte dei fondi grazie allo sfruttamento dei crediti di carbonio utilizzati dall'Eni.

LUCA CHIANCA Quello che vorrei capire però è se prima del progetto c'era una forte deforestazione in questa zona?

GERALD MULOWA – CAPO DELLA COMUNITÀ DI LUEMBE Non c'era molta deforestazione però oggi è sicuramente più sotto controllo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Ad accorgersene e certificare un downgrade da A a B del progetto, a dicembre scorso, è stata anche la Bezero di Londra, una delle più importanti agenzie di rating al mondo che si occupa proprio del mercato dei crediti di carbonio.

SEBASTIEN CROSS – COFONDATORE SOCIETÀ DI RATING BEZERO Gran parte dell'area del progetto si trova dentro un parco nazionale che era già sotto tutela. E quindi si riduce la probabilità che il progetto dei crediti di carbonio stia facendo la differenza.

LUCA CHIANCA Cosa significa per l'Eni per esempio il vostro downgrade del progetto?

SEBASTIEN CROSS – COFONDATORE SOCIETÀ DI RATING BEZERO È come avere un credito a rischio più elevato rispetto ad altri, ma il carbonio è solo un aspetto del progetto. Ci sono una serie di altri benefici, come gli impatti sulla biodiversità, gli impatti socioeconomici, e quindi devi considerare il tutto come portafoglio d'investimento fatto di vari elementi.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Il progetto deve avere anche impatti positivi sul territorio. Per verificare questi benefici però bisogna andare sul campo.

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Queste sono le vecchie aule che abbiamo utilizzato fino adesso, come puoi vedere sono molto vecchie e pericolose per i bambini.

LUCA CHIANCA Perché che problemi ci sono?

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Ci sono crepe dappertutto, le finestre sono rotte e i pavimenti sono di terra e poi con queste lamiere sul tetto qui dentro fa molto caldo.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Questa è la vecchia scuola elementare, l'unica che serve questa zona accanto al fiume Luangwa dove abitano solo 2000 persone. Accanto alle vecchie classi ormai dismesse c'è un'altra struttura dove i bambini stanno facendo lezione.

LUCA CHIANCA Più o meno quanti anni hanno questi bambini?

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Vanno dai 10 ai 14 anni.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Qui i bimbi iniziano molto più tardi ad andare a scuola e spesso fanno turni pomeridiani a causa del poco spazio a disposizione. Ed è per questo che il progetto REDD+ di Eni ha finanziato la costruzione di un nuovo edificio.

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Questa è la nuova scuola costruita un anno fa. È formata da tre classi.

LUCA CHIANCA E perché non c'è niente dentro dopo un anno?

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Perché l'edificio non è stato ancora affidato ufficialmente alla scuola.

LUCA CHIANCA Ma non c'è niente?

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA No

LUCA CHIANCA I banchi?

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA No, non ci sono

LUCA CHIANCA Non ci sono le sedie

IVES MWANZA – MAESTRO DELLA SCUOLA PRIMARIA DI MSHALIRA Nemmeno le sedie. Immaginiamo che da questo progetto la compagnia stia guadagnando molti soldi e ci chiediamo perché facciano così poco per noi.

LUCA CHIANCA Abbiamo visto questa scuola in cui non c'è niente, c'è solo l'edificio? Come è possibile?

GERALD MULOWA – CAPO DELLA COMUNITÀ DI LUEMBE I soldi che otteniamo non sono sufficienti.

LUCA CHIANCA Ma un progetto che genera milioni di euro non ha i soldi per delle sedie?

GERALD MULOWA – CAPO DELLA COMUNITÀ DI LUEMBE A noi non dicono quanti soldi fanno, ma quest'anno c'hanno dato circa 50 mila euro e la maggior parte di questi soldi se ne va per trasportare il materiale per costruire in queste zone remote.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Nel suo villaggio, che è a pochi chilometri dal confine dell'area tutelata, però hanno costruito un ufficio e qualche casa per l'organizzazione che si occupa di gestire i soldi che arrivano dal progetto, regalando anche una moto al suo presidente.

LABAN NG'AMBI – PRESIDENTE DEL BOARD RISORSE DI COMUNITÀ – LUEMBE Sì con i soldi dei crediti di carbonio c'hanno dato anche altri 3 veicoli, due Land Cruiser e un camion.

LUCA CHIANCA La moto va bene?

LABAN NG'AMBI – PRESIDENTE LUEMBE COMMUNITY RESOURCE BOARD Va molto bene.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Secondo l'Eni non meno del 70% dei proventi della vendita dei crediti vengono ridati al territorio ma non ci hanno detto quanti per ragioni di riservatezza.

ABDON MWAWZA Il progetto è stato imposto alla comunità

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Joph è uno dei tanti piccoli agricoltori della zona a ridosso dell'area tutelata dal progetto dove ha un piccolo campo di cotone

JOSPH SALAKA – AGRICOLTORE Non spiegano alla comunità cosa sta succedendo.

LUCA CHIANCA Cosa via aspettate dal progetto? GERALD MULOWA – CAPO DELLA COMUNITÀ DI LUEMBE Maggiore trasparenza perché non capiamo bene la scienza e la matematica dietro questo sistema di crediti di carbonio.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Tra le iniziative promosse dal progetto c'è anche quella di scongiurare un aumento della popolazione che potrebbe causare un impatto negativo sulla deforestazione. Eppure, Recommon e Greenpeace hanno scoperto che durante la presentazione del progetto, già prima dell'ingresso di Eni, avrebbero inserito una densità di popolazione maggiore.

LUCA MANES – RESPONSABILE COMUNICAZIONE ONG RECOMMON Sembrerebbe esserci una forte incongruenza tra il dato presentato nelle carte iniziali e il dato reale riguardo la densità di popolazione, chiaramente se il dato è minore, come secondo noi è, c'è un minore rischio deforestazione e quindi anche il calcolo sui crediti di carbonio va rivisto, va rivisto al ribasso.

LUCA CHIANCA FUORI CAMPO Eppure, a certificare il progetto è stata la società statunitense Verra, la più grande al mondo, in tema di mercato volontario dei crediti di carbonio.

AXEL MICHAELOWA – DIRETTORE CENTRO RICERCA POLITICHE AMBIENTALI UNIVERSITÀ DI ZURIGO Il mercato volontario, come dice il nome, non ha subito alcuna regolamentazione e le regole di fatto le fanno i pochi privati che generano e certificano con i loro progetti dai 3 ai 400 milioni di crediti di carbonio l'anno. Per esempio, nei comitati di una delle due società leader, Verra, troviamo aziende, servizi elettrici, compagnie petrolifere e del gas: gli standard se li decidono da soli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Secondo l’ong Renoster, quello dello Zambia, il progetto è quello che si presta alla più grande manipolazione della storia per quello che riguarda le aree che consentono l’accumulo di certificati dei crediti di carbonio. Questo perché le imprese si impegnano sì a evitare la deforestazione, si impegnano a contenere l’aumento demografico, ma dove lo fanno in un’area che già è deserta di suo e che è anche in gran parte un parco naturale tutelato da anni. Facile poi dire siamo stati bravi. Il problema è che tutto questo lo certifica Verra, che è la stessa società che certifica il 75 per cento delle imprese in materia di crediti di carbonio. Aspettavamo una risposta di Eni, non è arrivata in tempo ne daremo conto su queste contraddizioni sul nostro sito, per completezza di informazioni. 

Emissioni zero 2035: le falsità degli Efuel e dei biocarburanti. Domenico Affinito e Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 19 Aprile 2023

Chi nei prossimi anni deve acquistare un’auto cosa sceglierà? Le previsioni del settore non lasciano dubbi, mentre a seminarli ci pensano i portatori di interessi e le loro rappresentanze politiche. Partiamo da due dati certi: 1) il settore auto da solo è tra le principali fonti di emissioni climalteranti in Europa, 2) dal 2035 non si potranno più immatricolare auto con il motore a scoppio. Il 28 marzo, infatti, i ministri europei dell’Energia hanno ratificato il regolamento a maggioranza: astenute Italia, Bulgaria e Romania, contraria la Polonia. Chieste due deroghe: la Germania per gli Efuel e l’Italia per i biocarburanti. La prima è stata accettata perché i carburanti sintetici sono considerati neutri in termini di CO2. La seconda respinta. Il nostro Paese però tornerà alla carica, soprattutto dopo aver incassato un’apertura al ruolo dei biocarburanti nel processo di decarbonizzazione del settore dei trasporti da parte del G7 che si è svolto a Sapporo in Giappone domenica 16 aprile. Il tema in discussione è: Efuel e biocarburanti si possono considerare green? Ci aiutano i professori del Politecnico di Milano Marcello Colledani, Simone Franzò, Carlo Giorgio Visconti e il dirigente del Centro Ricerca del Cnr Nicola Armaroli.

Gli Efuel oggi non esistono

Efuel sta per electrofuel: sono combustibili sintetici ricavati da monossido di carbonio e idrogeno, che non esistono in natura. Il monossido si ricava catturando la CO2 (per esempio dalle ciminiere delle centrali a carbone) e l’idrogeno dall’acqua con l’elettrolisi: servono 9 kg di acqua per ogni kg di idrogeno e 55 kWh di energia elettrica, pari al consumo elettrico settimanale di una famiglia italiana. Si tratta quindi di un processo molto energivoro. Il prodotto finale è un carburante liquido che, bruciando, ha più o meno le stesse emissioni inquinanti della benzina. Si possono dunque considerare neutri a livello di emissioni di CO2? No, secondo uno studio di Transport & Environment, think tank europeo creato da 61 organizzazioni senza scopo di lucro che osserva gli impatti dei trasporti su ambiente e salute. Considerando l’intero ciclo di vita un’auto alimentata a carburanti sintetici prodotti utilizzando il 100% di energia rinnovabile produrrebbe l’82% di emissioni di CO2 in meno di una a benzina tradizionale, rimanendo comunque più impattante di un’auto elettrica a batteria, alimentata al 100% con energia rinnovabile, che ne produrrebbe l’87% in meno. Ma è una tecnologia ancora di là da venire, e sulla quale le tedesche Bosch e Porsche stanno investendo da anni, motivo per cui la Germania spinge e protegge questo ipotetico segmento di mercato. Qualora si arrivasse a una produzione su vasta scala, sono combustibili che andranno bene soprattutto per i mezzi pesanti, come navi ed aerei. 

Biocarburanti, l’interesse dell’Eni

Allo stesso modo l’Italia punta sui biocarburanti perché c’è l’interesse dell’Eni. Si ricavano dal processo di fermentazione del mais, colza, olio di palma, canna da zucchero. Oggi il 90% arriva da colture dedicate, che significa consumo di suolo e acqua. Vanno bene anche gli olii esausti della ristorazione, che però andrebbero importati: in Italia ogni anno se ne recuperano 40.000 tonnellate e, anche trasformandole tutte in carburante, stiamo parlando dello 0,25% del consumo annuo nazionale. Bruciando emettono meno CO2, ma non sono neutri perché quella emessa dai processi produttivi e dal motore non si bilancia con quella assorbita dalle piante in fase di crescita. 

La via dell’elettrico

L’auto elettrica è già in fase avanzata ed è considerata l’alternativa percorribile per tre motivi: 1) trattandosi di una tecnologia ha grandi margini di miglioramento, a differenza degli idrocarburi, degli Efuel e dei biocarburanti; 2) ha il minor impatto ambientale se alimentata da elettricità proveniente da fonte rinnovabile, e nei piani questo dovrebbe avvenire entro il 2035; 3) è più efficiente dal punto di vista energetico: il 70% contro il 25% del motore a scoppio. Il punto critico è la produzione delle batterie e il loro riciclo. 

L’impatto delle batterie

Il 90% delle batterie oggi si fanno con il litio, nichel, manganese e cobalto. Il 50% del cobalto si trova in Congo, mente il 58% del litio è in Sud America (Argentina, Bolivia e Cile). Si tratta di materiali la cui disponibilità è messa in crisi dalla forte domanda, inoltre c’è una questione di monopolio: estrazione, lavorazione e produzione delle batterie è al 56,5% in mano cinese. Per essere un po’ meno dipendenti bisognerà darsi una mossa sulle materie prime, che ci sono pure in Europa, e sulla costruzione di gigafactory. Secondo i dati di Transport & Environment, sviluppati appositamente per Dataroom, oggi esistono 6 principali impianti di batterie su larga scala in Europa: la Datl cinese in partnership con Mercedes, le coreane Samsung Sdi, Sk innovation, LG Chem, la cino-giapponese Envision AESC, e una sola è europea: la svedese Northvolt. Nel 2022 hanno sfornato circa 2,5 milioni di batterie, a fronte di 2,6 milioni di auto elettriche. Altre 40 gigafactory, però, sono in progetto o costruzione. Sta di fatto che tutto il processo, dall’estrazione al prodotto finale ha un enorme impatto sia ambientale che di emissione di CO2. E allora dove sta il vantaggio? 

Durata della batteria

Ogni singola batteria ha una durata garantita per 8/10 anni e 160 mila km di percorrenza. Oggi in Europa la vita media di un’auto a benzina è di dieci anni con 100 mila km di percorrenza. La batteria di un’auto non è più utilizzabile quando l’efficienza scende sotto l’80%, ma può riutilizzata nell’industria o come storage per le energie rinnovabili. Arrivata a fine vita i materiali della batteria possono essere recuperati: oltre l’80% del cobalto, il 95% di nichel e rame e almeno il 90% di litio. In Europa oggi (dati Transport & Environment) esistono 27 impianti di pretrattamento con una capacità complessiva di 150.000 t di batterie nel 2022 (uno è in Italia), e 7 gli impianti di riciclo con una capacità complessiva di 16.600 t di batterie. Sono tutti saturi, ma è un settore in espansione e su cui conviene puntare. 

Quanto rende il riciclo

Secondo le stime del Politecnico di Milano investendo a livello europeo 5 miliardi, il guadagno è di 2 miliardi all’ anno. Per il nostro Paese invece, a fronte di un investimento in impianti di riciclo per 283 milioni di euro, si prospettano margini per 120. L’altro fronte è quello della ricerca di materiali sostitutivi come il sodio, che può soppiantare il litio. Ancora una volta la Cina è più avanti: il colosso Byd ha presentato il 18 aprile a Shanghai la Seagull, una city car con batterie proprio agli ioni di sodio al modico prezzo di 10.638 euro. L’evoluzione tecnologica e il riciclo dei materiali coinvolge anche tutta la filiera dei pannelli solari e fotovoltaici. 

Il prezzo finale

Per il consumatore, anche il più attento ambientalista, alla fine è una questione di prezzo: oggi acquistare un’auto elettrica economica (segmento B) costa di più di una uguale a benzina. Se guardiamo al consumo invece al momento si spende uguale: per entrambe vi vogliono 30 euro per fare 300 km. Le differenze però non sono banali: l’auto elettrica non ha manutenzione, si rompe meno, per i primi 5 anni non si paga il bollo. I tempi di ricarica: 2/3 ore per quella completa, 20 minuti per quella ultrafast. 

Le colonnine sono in espansione ovunque. Dove sta andando il mercato e dunque la preferenza degli automobilisti si vede dai numeri: le auto a benzina e gasolio vendute in Europa sono passate dal 39,9% del 2021 al il 36,4% del 2022; quelle elettriche dal 9,1% al 12,1%. L’unico Paese dove è cresciuta la vendita di motori a scoppio è stata l’Italia (più 17% nell’ultimo trimestre del 2022) sarà per via del fatto che sono finiti gli incentivi o perché la politica è poco reattiva sulla transizione. E anche le proiezioni (dati Transport & Environment/Bloomberg) indicano una strada ormai tracciata: l’elettrico raggiungerà il 23% nel 2025, il 30% nel 2025, il 40% nel 2027 e il 70% nel 2030. Sul fronte dei prezzi la stessa fonte indica un dimezzamento entro i prossimi 5 anni. E allora la domanda è: nel 2035 chi si comprerà un’auto a Efuel o a biocarburante?

Green per necessità. Redazione su L’Identità il 2 Marzo 2023

di EDOARDO GREBLO e LUCA TADDIO

La necessità sempre più urgente di affrontare il riscaldamento globale ha reso non più rinviabile l’esigenza di liberarsi dalla dipendenza dai combustibili fossili e di favorire una transizione verso l’uso di energie rinnovabili e a bilancio di carbonio neutro. Le strategie diversive di coloro – si tratti di individui, aziende, nazioni o generazioni – che si oppongono alla definizione di obiettivi di riduzione vincolanti e di tempistiche precise rappresentano una evidente dimostrazione di insensibilità per il salto culturale imposto dalla realtà del cambiamento climatico. A volte si tratta di negazionismo, che liquida ogni evidenza scientifica come espressione di complotto o truffa. A volte di puro e semplice immobilismo, che si ispira a considerazioni di ragionevole prudenza circa i costi della transizione o che riflette l’incertezza riguardo ai suoi risultati ultimi.

Ciò nonostante, sono molte, invece, le forze politiche, civiche e istituzionali che hanno preso atto del salto immaginativo necessario per entrare nella prossima era della storia e che si stanno attivando a favore di una transizione verso un’economia verde a zero emissioni di carbonio. La nascita di una coscienza ambientale globale, impegnata a promuovere una transizione condivisa ed efficace verso nuove forme di crescita economica, che non dipendano da aumenti di emissioni, come accade attualmente e come continuerà ad accadere fino a quando la nostra fonte di energia saranno i combustibili fossili, si sta materializzando in luoghi e istituzioni impegnati a modellare le soluzioni in base alla specificità dei nuovi problemi. Una coscienza ambientalista capace di fare pressione sulle istituzioni che governano l’ordine economico internazionale per indirizzare i maggiori investimenti in sistemi e tecnologie energetiche a zero emissioni di carbonio come l’energia solare o le auto elettriche.

 Anche per ragioni strettamente economiche. Stando a un documento pubblicato congiuntamente da New Climate Economy, World Resource Institute e International Trade Union Confederation, investire nell’energia solare fotovoltaica crea 1,5 volte più posti di lavoro rispetto all’investimento della stessa quantità in combustibili fossili; migliorare l’efficienza energetica degli edifici crea 2,8 volte più posti di lavoro dei combustibili fossili per dollaro speso; il trasporto di massa crea 1,4 volte più posti di lavoro rispetto alla costruzione e riparazione di strade, e il ripristino dell’ecosistema crea 3,7 volte più posti di lavoro della produzione di petrolio e gas. Si tratta di numeri che confermano le tesi sostenute da Jeremy Rifkin, uno dei più convinti e convincenti sostenitori della transizione verso un’economia decarbonizzata, il quale ha affermato che la transizione verso un’economia svincolata dai combustibili fossili non costituisce un ostacolo al benessere, ma rappresenta un investimento che, a medio termine, è in grado di generare il miglioramento delle condizioni di vita per molti. La formula chiave, usata da Rifkin e altri autori, è Green New Deal, nuovo patto verde, che evidentemente si rifà al New Deal di Roosevelt che negli anni ’30 rilanciò l’economia americana dopo la crisi del 1929. E di Green New Deal ha parlato anche l’attuale Commissione europea presieduta da Ursula von der Leyen, che ha posto questo tema al centro della propria strategia. Il piano prevede una serie di investimenti nelle tecnologie che rispettano l’ambiente allo scopo, tra l’altro, di promuovere l’impiego di energie rinnovabili per decarbonizzare il settore energetico, ripristinare gli ecosistemi degradati e allargare sempre di più le aree terrestri e marine protette, favorire la sostenibilità della produzione alimentare, sostenere l’industria attraverso l’innovazione affinché sia motore di cambiamento e crescita, incentivare una costruzione edilizia con prestazione energetica efficiente, introdurre forme di trasporto pulite ed economiche. Attraverso la definizione di questi obiettivi, l’Ue si candida a diventare il primo continente a impatto climatico zero entro il 2050.

 C’è tuttavia un aspetto che merita di essere sottolineato. Anche se il cambiamento climatico è un problema globale la cui soluzione non può prescindere dalla cooperazione di tutti i paesi del mondo, quando si tratta di valutare in che modo le energie rinnovabili e la transizione energetica possano andare a beneficio delle persone è necessario ricordare che le politiche di adattamento si realizzano tipicamente a livello locale. Anche per delle banali ragioni materiali: le energie rinnovabili creano occupazione e attività economica in modo territorialmente più disperso rispetto alle industrie energetiche convenzionali. Si pensi soltanto, per fare un esempio, alla differenza tra una singola centrale elettrica e una moltitudine di turbine eoliche. Il cambiamento climatico è un problema mondiale che richiede soluzioni a livello territoriale. Sono i territori e le comunità locali a doversi esporre in prima linea per muoversi alla ricerca di soluzioni alla crisi climatica, attenuare l’impatto del riscaldamento globale e rafforzare la resilienza. Se a livello globale è necessario definire una governance che rappresenti ed equilibri gli interessi spesso contrastanti tra i diversi paesi, è a livello locale che molto può essere fatto, tramite il rafforzamento dei territori, del ruolo degli Stati e dell’Europa in chiave federalista.

It ain’t over till it’s over. Le tre lezioni da imparare sul mancato stop ad auto a benzina e diesel dal 2035. Istituto Bruno Leoni su L’Inkiesta il 7 Marzo 2023.

Il Consiglio Ue ha fatto bene a rinviare la decisione sul regolamento sulle emissioni dei veicoli leggeri perché il ruolo della politica ambientale è quello di fissare gli standard emissivi, non scegliere quale specifica tecnologia usare per raggiungere il risultato. L’editoriale dell’Istituto Bruno Leoni su Linkiesta

Il destino del motore a combustione interna sembrava segnato ma l’esecuzione sulla sedia elettrica è stata sospesa all’ultimo momento. Il voto del Consiglio Ue sul regolamento sulle emissioni dei veicoli leggeri, originariamente previsto per questa settimana, era considerato un passaggio meramente formale. Invece, all’ultimo istante si è formata una (potenziale) minoranza di blocco – Italia, Germania, Polonia e Bulgaria – che ha indotto la presidenza di turno svedese a rinviare la discussione a data da destinarsi. 

Vedremo se quello che è stato finora un progetto bandiera della Commissione finirà su un vicolo cieco o se si troverà un accordo sull’asse Bruxelles-Berlino, magari prevedendo specifiche esenzioni per i motori alimentati da carburanti puliti.

Dal nostro punto di vista ci sono, in questa vicenda, tre lezioni importanti. La prima riguarda il merito della decisione. Molti hanno provato a raccontare la vicenda come un braccio di ferro tra i fautori dell’innovazione tecnologica e le resistenze quasi luddiste dei nostalgici del passato. Nulla potrebbe essere più fuorviante.  È probabile che, alla fine, il motore elettrico si imporrà. Ma ciò di cui stiamo discutendo non è quale delle alternative tecnologiche sia preferibile. Al contrario, si tratta di decidere se l’arbitro debba fischiare la fine della partita prima che il tempo si sia esaurito, escludendo dal campionato una delle squadre.

Il ruolo della politica ambientale dovrebbe essere quello di fissare gli standard emissivi, non scegliere quale specifica tecnologia vada impiegata per raggiungere il risultato. E non tragga in inganno il fatto che la proposta di regolamento, dal punto di vista formale, guarda appunto alle emissioni: misurando le sole emissioni rilasciate allo scarico, e ignorando la fase a monte, di fatto si mettono fuori gioco carburanti puliti o addirittura a emissioni negative.

La seconda lezione riguarda la politica europea. È abbastanza singolare che – finalmente – si arrivi ad affrontare questa discussione solo quando l’iter di approvazione del provvedimento è agli sgoccioli. Il regolamento ha ottenuto, oltre al placet della Commissione che lo ha proposto, l’endorsement del Parlamento e l’accordo del Consiglio. 

Finora i critici erano stati malamente tacitati. Bene, quindi, che si sia rotto il velo di ipocrisia che ha circondato l’intera discussione finora, ma sarebbe stato più sano avere un confronto – come si diceva una volta – franco e cordiale nelle sedi e nei momenti propri. Se questa lezione sarà stata appresa, lo vedremo in occasione dei prossimi provvedimenti altrettanto controversi, a partire dalla proposta di regolamento sul packaging.

L’ultima lezione è per l’opinione pubblica e tutti quelli che cercano di combattere battaglie culturali, a volte quasi solitarie. In tutti questi anni sollevare critiche è stato difficilissimo e ha prodotto violente campagne stampa. Eppure, alla lunga, avere il coraggio delle proprie idee serve. 

Se il governo Meloni ha preso una posizione così dura; se i liberali tedeschi hanno dato una spallata alla coalizione che regge il governo Scholz; se tutto questo si è verificato, è anche perché hanno avuto a disposizione munizioni intellettuali da spendere. Spesso chi interpreta posizioni minoritarie svolge un mero ruolo di testimonianza. A volte però l’impegno paga. It ain’t over till it’s over.

Le politiche climatiche verdi avvelenano l’economia tedesca. Giovanni Brussato su Panorama il 7 Marzo 2023

Berlino paga un conto salato all'estero alle ideologie green che costano

L’ambizione europea di diventare il primo continente climaticamente neu ed essere il modello di riferimento per un pianeta “verde” sta presentand cittadini tedeschi i primi tangibili effetti di una potenziale deindustrializzazione. La fuga verso il carbone cinese di una delle princip industrie chimiche tedesche, la BASF, che proprio dalla patria dell’Energiewende europea vuole fuggire lasciando disoccupati 2.600 add per salvare l’azienda dal baratro “green” , è uno di questi. L’aumento dei c energetici di oltre tre miliardi di euro sommati ai vincoli normativi ed alla lentezza dei processi burocratici europei hanno suggerito alla multinazio tedesca di spostare parte delle attività fuori dalla Germania. Secondo BASF lo sviluppo della sua unità produttiva in Cina contribuirà al della sua domanda di gas naturale nel paese ottenendo una riduzione dell emissioni di CO di 0,9 milioni di tonnellate metriche all'anno: un success climatico del governo dei Verdi. BASF potrebbe non essere l’ultimo grupp lasciare il paese secondo Matthias Zachert, CEO di Lanxess. I prezzi dell'energia non sono più competitivi in Germania ma soprattutto Zacher ritiene che l'energia possa essere tornare, in futuro, a prezzi simili a quell avevano garantito la competitività dell’economia tedesca. Altre due importanti aziende chimiche tedesche Evonik e Covestro, che insieme impiegano oltre 50.000 persone, hanno annunciato un pesante ca dei profitti che potrebbe avere conseguenze occupazionali. Covestro, com BASF, la scorsa settimana ha annunciato l'intenzione di costruire un gran impianto di materie plastiche in Cina. La produzione di prodotti chimici d base, fertilizzanti o composti azotati, come l'ammoniaca, è stata particolarmente compromessa ed il dubbio, persistente, è se la produzion dell'industria chimica tedesca potrà riprendersi vista anche la volontà di B di ridurre la sua produzione in Europa in modo permanente. Un sondaggi condotto dall'Associazione tedesca dell'industria chimica, VCI, alla fine d gennaio, ha mostrato che quasi la metà delle aziende chimiche vorrebbe ridurre i propri investimenti in Germania a causa dei costi energetici. Difficoltà certificate anche nel recente Bollettino economico della Bce che rileva “segnali del fatto che le importazioni, soprattutto di beni intermed abbiano in parte rimpiazzato la produzione manifatturiera locale nei setto maggiore intensità energetica" nella UE. L’analisi segnala che in German metà del 2022 l’industria chimica avrebbe iniziato a importare ammoniac anziché produrla, a causa dell’elevato volume di gas necessario alla sua fabbricazione. Volumi delle importazioni di manufatti per sottosettore.

Variazioni percentuali dei volumi delle importazioni e contributi in punti percentuali rispetto a gennaio 2020.

Così mentre diventa manifesta l’intenzione “del resto del mondo” , Cina e altre economie emergenti, di non seguire in alcun modo il percorso clima europeo la lobby eolica non sembra ancora paga e Hans-Dieter Kettwig, C Enercon GmbH, il più grande produttore tedesco di turbine eoliche, ha criticato la prevista limitazione dell'uso dell'energia eolica a “solo” il 2% superficie della Germania: l’estensione del nostro Friuli Venezia Giulia per intenderci. Sostenendo come sia necessario più che triplicare la già enorm potenza eolica tedesca passando da oltre 60 GW fino a 200 GW con l’unica apprezzabile differenza che quando Eolo smette di soffiare invece di qualc migliaio di pale ferme se ne vedranno alcune decina di migliaia. Comunque molte turbine eoliche in Germania sono già ferme, nonostante vento, semplicemente perché le reti elettriche non sono nemmeno in grad trasmettere l'elettricità generata. Spesso la rete elettrica è sovraccarica e inutili ulteriori investimenti in energie rinnovabili intermittenti, tecnolog bandiera del governo dei Verdi, visto che l’infrastruttura della rete è del tu inadeguata. E naturalmente al danno si aggiunge la beffa perché i consum devono comunque corrispondere centinaia di milioni di euro ogni anno ag operatori per l'elettricità che avrebbero potuto generare durante la fase d distacco dalla rete. Tuttavia il “Geisterstrom” , letteralmente “energia fantasma” , pare esser problema ignoto al cancelliere Scholz ed al ministro Habeck, così come il che mantenere le turbine collegate alla rete costringe, in caso di sovrapproduzione di energia elettrica, ad instradarla all'estero a prezzi negativi. Visto che la compensazione per i produttori è pari alle entrate ch avrebbero ricevuto se avessero immesso regolarmente l'elettricità in rete qualcuno ipotizza che la soluzione più semplice sarebbe quella di smetter pagare l’"energia fantasma". Ma con questa soluzione il governo dei Verd teme di non trovare abbastanza imprenditori disposti ad investire i loro s in turbine eoliche. Nel frattempo, a portare in attivo i bilanci, ci pensano i consumatori tedeschi.

La confusione in cui si dibatte il governo è palese: se da un lato con il min Habeck annuncia che le proiezioni di crescita della domanda di elettricità Germania prevedono un aumento dagli attuali 550 terawattora a 700-750 terawattora entro il 2030, per la diffusione della mobilità elettrica e delle pompe di calore, dall’altro tempo è allo studio un nuovo progetto di legge prevede la possibilità, per gli operatori di rete, in situazioni di crisi, di ridu tempo indeterminato la fornitura di energia alle pompe di calore, auto elettriche private e sistemi di accumulo delle batterie. In un quadro in cui l'espansione dell'energia eolica e solare rende la produzione di energia sempre più inaffidabile, gli obiettivi climatici più se imposti da Scholz e Habeck, comportano l'introduzione “pianificata” di 1 milioni di auto elettriche, 6 milioni di pompe di calore, nonché dei sistem elettrici di l'accumulo. Secondo la Frankfurter Allgemeine Zeitung i gesto rete temendo di essere il capro espiatorio dell’incompetenza del governo hanno dichiarato in una lettera al Ministero dell'Economia e della "Protez climatica" di non essere in grado di tenere il passo con il "livello di ambiz del governo federale e con la crescita delle auto elettriche e la conseguent domanda delle infrastrutture di ricarica. E, se da un lato, Deutsche Bahn, le ferrovie tedesche, ha raddoppiato i tren il trasporto del carbone, in media, 30.000 tonnellate vengono trasportate grandi centrali elettriche ogni giorno, dall’altro l’industria tedesca della mobilità sostenibile ha le sue gatte da pelare con E-bility, il produttore di scooter elettrici, che nel mese di febbraio ha presentato istanza di fallime Dopo le difficoltà di approvvigionamento e l’aumento dei costi energetici perdita dei finanziamenti ha compromesso la sostenibilità economica dell’azienda. Analoga sorte per la start-up berlinese Avocargo, che vende noleggia biciclette cargo elettriche, e ha presentato istanza di insolvenza una situazione debitoria ormai fuori controllo. Ed anche il produttore di a elettriche solari Sono Motors dovrà interrompere la produzione dell’auto elettrica solare Sion per mancanza di finanziamenti. Audi sta considerando di aprire la sua prima fabbrica negli Stati Uniti vist generosi sussidi promessi dall’Amministrazione Biden ed anche la casa m Volkswagen, potrebbe essere coinvolta nella costruzione della fabbrica di elettriche statunitense. Nel frattempo i consigli di amministrazione di BM Mercedes e Volkswagen sono sempre più frustrati dalla politica dei Verdi, richiede l'eliminazione radicale di tutti i veicoli a benzina, diesel e ibridi se aver minimamente valutato lo sforzo tecnico ed economico costituito dal realizzazione dell'infrastruttura elettrica. E’ sperabile che, nel tempo otte rinviando sine die il voto per l'adozione del regolamento sulle emissioni d CO ,i liberali tedeschi riportino alla realtà i loro colleghi al governo. Decisone, quella sul bando dei motori endotermici, di cui il governo Melon assunto la paternità sostenendo la necessità di una transizione sostenibil equa e pianificata con attenzione, per evitare ripercussioni negative sotto l'aspetto produttivo e occupazionale. Appunto. Allora forse è opportuno c Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Pichetto Fratin, ed il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Urso, osservino con attenzione immagini dell’ANSA che arrivano da Portovesme, dove gli operai solo sali protesta su una ciminiera contro la chiusura dell’unico impianto italiano zinco e piombo da primario. In particolare osservino quelle riprese che svelano, tutt'attorno allo stabilimento, la presenza massiccia di pale eolic icona della loro inefficienza sistemica. Prezzi medi annuali dell'elettricità nel mercato del giorno prima e differe su base annua UE27/EEA e Svizzera. Dati in Eur/MWh. Fonte ACER. Perchè osservando il grafico qui sopra, tratto dal Wholesale Electricity Ma Monitoring 2022 dell’Agenzia UE per la cooperazione fra i regolatori nazi dell'energia (ACER) è facile rendersi conto che l’Italia è la maglia nera del dei prezzi elettrici. Anche peggio della Germania...

Buongiorno controtuttelemafie.it, Mi chiamo Giulia Giordano e sono una redattrice per il blog di Energia Luce.

Abbiamo voluto proporre un articolo sulle Centrali Elettriche Virtuali (VPP) e il potenziale che hanno di stravolgere il mondo dell’energia nel prossimo decennio.

In vista della coalizione dei più grandi nomi della tecnologia e dell'automotive dell’11 Gennaio 2023, in questo articolo andiamo ad analizzare il funzionamento dei VPP, i loro vantaggi e come anche un'auto elettrica possa diventare unità di produzione di energia.

Sentitevi liberi di inserirlo nel vostro sito così com'è o modificarlo a seconda delle vostre esigenze editoriali e, se interessati, abbiamo a disposizione anche immagini di corredo da poter aggiungere.

Vi chiedo solamente l'accortezza di esplicitare la fonte per evitare di incorrere in problemi di copyright con Google. Fonte: energia-luce.it/news/centrali-elettriche-virtuali/ 

Centrali Elettriche Virtuali - Auto Elettriche 

Aziende e privati stanno affrontando un'impennata dei costi dell'energia elettrica a causa della crisi energetica globale. Vista la forte dipendenza della nostra economia da carburante e energia, innovazioni come le Centrali Elettriche Virtuali (VPP) possono essere la soluzione. Si tratta di un servizio prezioso che può aiutare a prevenire le interruzioni in caso di crisi energetica. Inoltre, i VPP possono incoraggiare una maggiore diffusione delle energie rinnovabili, gestendo meglio il flusso e il riflusso di energia solare ed eolica che fluttua in base al tempo e all'ora del giorno.

Infatti, grazie a questa tecnologia gli utenti dell'energia intelligente, come i proprietari di veicoli elettrici, possono collegare le loro risorse energetiche per creare un VPP. In questo modo possono diventare sia consumatori che produttori di energia. Come? Utilizzando la ricarica bidirezionale dei veicoli elettrici, l'energia può fluire in due direzioni. Ciò significa che l'energia può essere utilizzata per ricaricare i veicoli elettrici e può anche essere restituita alla rete quando c'è un surplus di energia. In vista dell'aumento del numero di veicoli elettrici in circolazione, sarà sempre più importante adottare queste pratiche di ricarica intelligente per garantire che la rete possa soddisfare la crescente domanda di elettricità.

Che cos'è una Centrale Elettrica Virtuale?

Le centrali elettriche virtuali - in inglese "Virtual Power Plants" (VPP) - aggregano tramite un sistema in cloud, diverse unità di produzione di energia elettrica decentralizzate in un unico sistema di controllo. In un VPP possono confluire diverse tipologie di asset energetici, come: 

veicoli elettrici

impianti fotovoltaici

centrali eoliche

impianti a biogas

centrali idroelettriche

impianti di cogenerazione

micro-reti

batterie

sistemi di raffrescamento/riscaldamento

Quando queste fonti energetiche sono virtualmente combinate per formare un VPP, possono partecipare al mercato libero dell'energia come un unico grande impianto. Infatti, una centrale elettrica virtuale grazie ad algoritmi intelligenti abilitati all'intelligenza artificiale permette di gestire la produzione, l'immagazzinamento e il fabbisogno di energia in modo intelligente sulla base di elementi quali le condizioni metereologiche, i cambiamenti del prezzo luce e la domanda di energia. 

Quali sono i vantaggi? 

I vantaggi delle centrali elettriche virtuali sono molteplici. Prima di tutto, un unico sistema di controllo permette la condivisione di energia: se un impianto sta consumando molta più energia di quella che produce, può sfruttare quella proveniente dagli altri sistemi collegati. 

I vantaggi legati a questo processo sono evidenti: 

Risparmio energetico - riduzione di costi di produzione 

Risparmio di denaro - diminuisce il costo della ricarica 

Efficienza energetica - riduzione di emissioni e trasporti

Aumento affidabilità della rete - riduzione della pressione sulla rete elettrica 

In breve, i VPP rendono la rete più affidabile e resistente alle condizioni climatiche estreme, abbassano i costi dell’energia, consentono l'elettrificazione dell'economia e aiutano a integrare più energia pulita che riduce l'inquinamento atmosferico e i suoi effetti negativi sulla salute.

Google, GM e Ford uniti per le Centrali Elettriche Virtuali 

I più grandi nomi della tecnologia e dell'automotive si sono uniti in una coalizione l’11 Gennaio 2023 per sviluppare standard e politiche per le centrali elettriche virtuali. La nuova coalizione si chiama Virtual Power Plant Partnership (VP3) ed è stata inizialmente finanziata da Google Nest e General Motors e sarà guidata dall'organizzazione no-profit RMI. Tra i membri fondatori figurano anche Ford, le società di energia solare SunPower e Sunrun, nonché il produttore di pannelli elettrici intelligenti SPAN e diverse altre società di gestione dell'energia.

Le centrali elettriche virtuali sono ancora relativamente nuove. Per questo motivo, diventa imperativo stabilire delle pratiche standardizzate che ne permettano la diffusione in grande scala. Infatti, questa tecnologia diventerà sempre più necessaria nei decenni a venire visto l’aumento delle interruzioni di corrente causate da ondate di calore, incendi e altri eventi atmosferici anomali generati dal cambiamento climatico.  

Per dare un esempio concreto, i primi VPP sono stati messi alla prova l’estate scorsa in California, quando il rischio di interruzioni di corrente a causa delle alte temperature è stato evitato grazie all'aiuto di una centrale elettrica virtuale Tesla e dei termostati intelligenti Nest di Google. 

Grazie in anticipo per il tempo dedicatomi.

Cordialmente, Giulia Giordano

Redattrice Energia

Auto elettriche, a benzina e diesel: cosa cambia dal 2035? Ci sono incentivi? Rita Querzè e Andrea Rinaldi su Il Corriere della Sera il 15 Febbraio 2023.

1. Cosa ha stabilito il Parlamento europeo?

Dal 2035 non potranno più essere immatricolate auto con motore endotermico. Quindi diesel o benzina. Ma anche le ibride. Potranno essere immatricolate solo auto a emissioni zero allo scarico. La decisione spiana la strada all’auto elettrica. Ma si sta lavorando anche su idrogeno e biocarburanti. Questi ultimi soprattutto nell’ottica di un impiego per mezzi pesanti.

2. Quali tipi di auto sono immatricolate oggi in Italia?

A gennaio sono state immatricolate il 26,7% di automobili mild hybrid, il 26,5% a benzina, il 19% con motore diesel, il 10% ibride, il 4,7% ibride plug-in e il 2,5% elettriche «pure».

3. Qual è la differenza tra auto elettriche, mild hybrid, ibride e ibride plug-in?

L’auto elettrica è alimentata da batterie ricaricabili che muovono il motore. La mild hybrid prevede che il motore tradizionale sia supportato da un piccolo elettrico. La vettura plug-in hybrid consente di ricaricare il veicolo alle colonnine di ricarica, non possibile invece nelle auto full hybrid in cui l’accumulatore si ricarica in decelerazione e frenata.

4. Agli italiani piacciono le auto elettriche?

A gennaio le immatricolazioni complessive sono aumentate del 19% rispetto allo stesso mese del 2022 ma quelle di auto elettriche sono diminuite. L’Italia è ultima in Europa per le immatricolazioni di auto elettriche in rapporto alla popolazione. In Norvegia a gennaio erano elettriche l’85% delle auto vendute. Il 21% in Austria, il 18 in Svizzera, il 13% in Germania e il 10% circa in Germania e Regno Unito, il 5,9% in Spagna. E, infine, il 2,5% in Italia.

5. Quali sono i modelli di auto elettriche più venduti in Italia? E quali sono prodotte nel nostro Paese?

Nell’ordine, Fiat 500E (in Italia), Smart Fortwo, Renault twingo, Tesla model Y, Volkswagen Id.3.

6. Qual è la copertura del territorio per quanto riguarda le colonnine?

I punti di ricarica in Italia sono 36.772 distribuiti su 19.335 infrastrutture di ricarica che si trovano in 15.048 location. Sulla rete autostradale Aspi le stazioni di ricarica ad alta potenza sono 50.

7. Quanti i posti a rischio nel nostro Paese con la transizione all’elettrico?

Lo studio più citato è quello targato Clepa, meno 60 mila posti da qui al 2040 in Italia, meno 275 mila in Europa. Ma c’è un’indagine che va in controtendenza. Secondo la ricerca condotta da Motus-E, associazione delle imprese dell’elettrico, insieme con Cami, Centro di ricerca per l’innovazione nell’automotive guidato dall’università Ca’ Foscari di Venezia, i posti di lavoro nel 2030 potrebbero addirittura aumentare del 6%, a condizione di investire sulla transizione.

8. Quante auto si producono in Italia?

Nel 2022 Stellantis ha assemblato 685.753 tra vetture e veicoli commerciali (+1,8%). Nel 2016 erano 1.002.966. Ferrari ha consegnato 13.221 auto e Lamborghini 9.233.

9. Il governo ha stanziato incentivi per l’acquisto di auto non inquinanti?

Con il nuovo anno sono di disponibili 630 milioni di euro di bonus: 190 milioni per veicoli con emissioni nella fascia 0-20 grammi di anidride carbonica per chilometro (elettrici); 235 milioni per veicoli con emissioni nella fascia 21-60 grammi (ibridi plug-in); 150 milioni per veicoli con emissioni comprese nella fascia 61-135 grammi. E poi 5 milioni per i ciclomotori non elettrici; 35 milioni per quelli elettrici e 15 milioni per quelli commerciali elettrici.

10. Verranno prodotte anche batterie in Italia?

Stellantis intende costruire a Termoli, dove assembla motori endotermici, una gigafactory da 40 Gigawattora che sarà operativa nel 2026, a Mirafiori realizzerà un centro per il riciclo di accumulatori.

Tra ideologia e dirigismo. Storia di Carlo Lottieri su Il Giornale il 15 febbraio 2023.

La decisione del Parlamento europeo di bloccare a partire dal 2035 la produzione di veicoli ritenuti inquinanti (a benzina e diesel) rappresenta un ulteriore passo in una direzione ben chiara. Dopo che il 9 febbraio scorso la Commissione Industria dell'europarlamento aveva approvato la rottamazione della maggioranza delle abitazioni, adesso è il turno delle aziende europee che producono autovetture tradizionali. Lo spirito di queste nuove misure, a ogni modo, è il medesimo.

Alla base di queste norme c'è un'ideologia ambientalista che è pronta a compiere le scelte più devastanti senza curarsi minimamente delle conseguenze. In particolare, va precisato che oggi l'argomento cruciale non è l'inquinamento, ma la produzione di anidride carbonica, ritenuta responsabile dei cambiamenti climatici.

La tesi, presentata come una verità incontrovertibile, è che il riscaldamento anche di un solo grado sarebbe accompagnato non soltanto da molti più guasti che vantaggi, ma per giunta andrebbe interamente imputato all'azione umana. La volontà di mettere sotto controllo l'intera società, operando una generale green transition, si basa su questa semplice tesi: le nostre attività emettono anidride carbonica e quest'ultima produce l'aumento della temperatura. E sull'altare di questo grado in più è necessario sacrificare tutto, ignorando qualsivoglia analisi costi-benefici.

Con i fanatici non è facile discutere. E in effetti i fautori di questa religione secolare non ammettono alcun confronto: pensano che si debba pagare qualsiasi prezzo pur di ridurre le emissioni, e non a caso ignorano le conseguenze anche ambientali delle auto elettriche, sebbene la produzione delle batterie sia altamente inquinante (tanto più che vanno cambiate di continuo). Come non prendono in considerazione le tesi del fisico Franco Prodi quando avanza le sue obiezioni, allo stesso modo neppure valutano le controindicazioni dell'elettrico.

Nelle direttive che rottamano case e aziende automobilistiche non c'è solo la faziosità ambientalista, perché tutto poggia su una visione dirigista. I piani quinquennali di sovietica memoria sono finiti nella spazzatura della storia, ma i nostalgici di quel mondo hanno oggi trovato altre occasioni per progettare dall'alto la nostra esistenza: anche su periodi più lunghi dei 5 anni. E così per le vetture si ragiona su scadenze che talvolta arrivano al 2040, mentre per le case si punta addirittura all'obiettivo di un 2050 con tutti edifici a impatto zero.

Come sempre, però, questa volontà di programmare società ed economia trascura che in tanti casi sappiamo davvero ben poco. Gli europarlamentari ignorano quali saranno le tecnologie fra trent'anni, né possono prevedere quale sarà lo stato delle nostre conoscenze in materia ambientale. Chi vive di slogan, però, di questo non si cura.

È boom di auto elettriche, ma ora gli ambientalisti le combattono. Federico Rampini su Il Corriere della Sera il 14 Febbraio 2023.

Un rapporto degli accademici della University of California le mette sotto accusa: i componenti sono prodotti con attività inquinanti. Ma il rischio è diventare schiavi delle autocrazie e dei loro monopoli

 Lo stop dell’Unione europea alle auto a benzina e diesel dal 2035 sancisce un’evoluzione già in corso sui mercati: le vendite di auto elettriche avanzano a gran velocità, in alcune parti del mondo sono già un quarto del totale. Ma la conversione del nostro parco auto si scontra con la resistenza occidentale a scavare sotto terra per estrarre le materie prime necessarie ai veicoli elettrici.

E in California un autorevole manifesto ambientalista fa scalpore perché dichiara guerra anche all’auto elettrica: troppo inquinante, non è una soluzione. Il decesso annunciato per l’auto a benzina o diesel riceve l’approvazione formale dell’Europarlamento, ma la direzione di marcia è già evidente per molti consumatori. Nel 2022 per la prima volta le auto elettriche hanno superato la soglia del 10% del totale globale. Ne sono state vendute 7,8 milioni, con un aumento del 68% in un solo anno. La media mondiale nasconde delle punte molto più avanzate. All’avanguardia ci sono Cina e Germania.

Sul mercato tedesco le autovetture elettriche hanno già raggiunto il 25% della produzione l’anno scorso, su quello cinese quasi il 20% delle nuove immatricolazioni sono totalmente elettriche. Tutti questi dati escludono le ibride che farebbero salire le percentuali ancora più in alto. La media europea è 20% come quella cinese. Gli Stati Uniti restano più indietro (6% di auto elettriche sul totale venduto nel 2022) pur avendo un campione mondiale come Tesla, tuttora il numero uno per le vendite di auto elettriche sul pianeta.

Ma l’Inflation Reduction Act varato da Joe Biden contiene incentivi fiscali talmente generosi per i veicoli elettrici, che si prevede un balzo di vendite anche in America (il nome dell’Inflation Reduction Act può ingannare, in realtà si tratta del Green Deal di Biden, generoso di sussidi per le tecnologie verdi e la transizione sostenibile).

Un altro segnale significativo che viene dal mercato è questo: le vetture elettriche si avvicinano a gran velocità ai prezzi di quelle a benzina o diesel. Il calo dei prezzi di listino deriva sia dalle agevolazioni fiscali, sia dai risparmi sui costi di produzione che si realizzano quando aumentano i volumi sfornati dalle fabbriche. A proposito di fabbriche, però, un’altra notizia americana accende un faro sulle nostre contraddizioni (nostre in quanto occidentali). La Ford annuncia la costruzione nel Michigan di una nuova fabbrica per produrre batterie per le sue auto elettriche, con un investimento di 3,5 miliardi di dollari e l’assunzione di 2.500 dipendenti. Però produrrà sotto licenza della Catl, il numero uno cinese nelle batterie elettriche. La nostra dipendenza dalla Cina in questo settore non fa che aumentare.

L’Inflation Reduction Act o Green Deal di Biden è un perfetto esempio delle contraddizioni di cui siamo prigionieri. Da un lato tenta di ridurre lo schiacciante monopolio cinese nelle tecnologie verdi – batterie elettriche o pannelli fotovoltaici – d’altro lato la stessa Amministrazione Biden cede alle pressioni di alcune lobby ambientaliste e dissemina ostacoli contro lo sfruttamento di risorse locali. A cominciare da terre rare e minerali strategici usati nelle batterie o nei pannelli solari. Con una mano Biden dà ordine al suo Dipartimento di Energia di finanziare per 700 milioni un progetto per il litio nel Nevada, 300 milioni per una fabbrica di grafite in Louisiana. Ma con l’altra mano Biden autorizza il suo ministero dell’Interno a bloccare una nuova miniera di rame, nickel e cobalto in Minnesota.

Sono tutti minerali e metalli indispensabili per le batterie elettriche. Per adesso vengono estratti per lo più in paesi emergenti, poi lavorati e raffinati in Cina: quindi per il tipo di processi industriali usati in quei paesi, inquinano molto più che se facessimo le stesse cose a casa nostra; però l’inquinamento avviene “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, quindi per gli occidentali il problema non esiste. Tant’è, l’America è spaccata in due sulle attività minerarie: è possibile procedere speditamente con nuovi progetti di estrazione solo in quegli Stati Usa dove governano i repubblicani, e dove spesso già esistono industrie minerarie con antiche tradizioni.

Un caso tipico è il Nebraska, dove di recente è stato avviato un nuovo progetto di estrazione di terre rare tra cui titanio scandio e niobio. Il governatore del Nebraska è il repubblicano Jim Pillen, l’industria mineraria è ben radicata nello Stato, e la popolazione locale considera un “dovere patriottico” approvare l’estrazione per emanicparsi dalla Cina.

Ben diverso è il messaggio che viene dalla California, culla dell’ambientalismo moderno. Gli ecologisti californiani ebbero un ruolo pionieristico negli anni Settanta. Oggi molti di loro abbracciano le versioni più estremiste di quella che sembra diventata la religione dell’anti-sviluppo. Un esempio eclatante viene da un nuovo rapporto intitolato “Achieving Zero Emissions with More Mobility and Less Mining”. Lo hanno redatto accademici della University of California riuniti sotto l’egida del Climate + Community Project. Avrà sicuramente un’influenza considerevole, come tutti i proclami ambientalisti che vengono dalla California. Questo Rapporto contiene una vera e propria dichiarazione di guerra contro l’auto elettrica. Partendo da considerazioni ovvie: l’auto elettrica non è affatto a zero-emissioni, molti suoi componenti per essere prodotti richiedono attività inquinanti, a cominciare appunto dai metalli e terre rare, per finire con la costruzione della rete distributiva (i caricatori).

L’elenco dei misfatti dell’auto elettrica è arcinoto a chi l’ha studiata da vicino. Ma fino a un’epoca recente mettere in evidenza “l’impurità” dei veicoli elettrici era un tale tabù, che il regista Michael Moore subì un linciaggio sui social e una vera e propria censura da parte del pensiero unico ambientalista, quando realizzò un documentario sul lato oscuro della transizione a un mondo di Tesla. Le contraddizioni non riguardano solo l’America.

Di recente la Svezia ha annunciato la scoperta di nuovi giacimenti di terre rare, il deposito più ricco di tutta l’Europa. La società svedese incaricata di sfruttare queste risorse, la Luossavaara-Kiirunavaara Aktiebolag, o Lkab, potrebbe effettuare l’estrazione e la lavorazione riducendo al minimo le emissioni carboniche: il Nord della Svezia abbonda di energie rinnovabili, dall’idroelettrica al nucleare all’eolico. Estrarre e manipolare terre rare in Svezia inquina di sicuro molto meno che farlo in Cina. Però l’industria mineraria viene ostacolata lo stesso: è comunque “sporca”, e poi c’è l’inquinamento acustico, insomma a nessuno piacere averla in casa propria.

È così che tra contestazioni, consultazioni con la popolazione locale, test tecnici e permessi, le previsioni svedesi parlano di almeno 10 – 15 anni per attingere a questo nuovo deposito. È evidente la sintonia tra i problemi della Svezia (la terra di Greta Thunberg) e il Rapporto californiano citato sopra, frutto degli accademici che si sono nominati i guardiani della purezza del movimento ambientalista. Se sono contrari all’auto elettrica, che cosa propongono come alternativa? Un mondo popolato di pedoni, di biciclette, e di treni, è la loro idea della mobilità. Un’idea molto tipica da “ZTL”, da privilegiati che abitano in centri urbani ben serviti dai mezzi pubblici. Più realisticamente, se vince questa nuova crociata delle frange più estremiste dell’ambientalismo, significa che saremo schiavi più che mai delle autocrazie e dei loro monopoli.

RICARICA TRICOLORE. Angelo Vitolo su L’Identità il 14 Febbraio 2023

A che punto è arrivata l’Italia, nel campo delle infrastrutture per la mobilità elettrica? Apparentemente diradate le polemiche che danno il nostro Paese in ritardo, arriva il rapporto di Motus-E a segnalare una crescita record delle colonnine di ricarica ad uso pubblico, una rete che fa meglio di quelle di Francia, Germania e Regno Unito. Dalla piattaforma di dialogo tra gli attori della filiera dell’e-mobility arrivano numeri confortanti. Nel 2022 sono stati installati 10.748 punti di ricarica a uso pubblico, di cui il 27% ad alta potenza (+ 41%). L’accelerazione ha bruciato ogni statistica nell’ultimo trimestre, con 3.996 punti messi a terra. E’ il miglior risultato mai registrato in Italia. Ora, sono diventati 36.772 punti di ricarica.

 Nel complesso, cresce il peso delle infrastrutture ad alta potenza sul totale: raddoppiati i punti in corrente continua DC, triplicati i punti ultraveloci con potenza oltre i 150 kW. Aumentano i punti di ricarica in autostrada (496) che potrebbero essere molti di più se fossero stati pubblicati i bandi per consentire agli operatori l’installazione massiva delle colonnine. Lo Stivale è “elettrico” di più al Nord, con il 58% delle colonnine. Lo seguono il Centro con il 22% e il Sud e le Isole con il 20%. La Lombardia è la regione più virtuosa, con il 16% dei punti di ricarica italiani. Roma è capitale delle colonnine tra le città metropolitane (2.751 punti).

In rapporto agli abitanti, l’area più marcata dalle colonnine è quella della provincia di Venezia.

 Ma ciò che è importante, rispetto a tanti scandalismi del passato, è che nell’86% del territorio nazionale è presente almeno un punto di ricarica in un raggio di 10 km. Il rapporto di Motus-E, come era prevedibile, richiama a maggiori sforzi da fare al Sud e, in generale, per un miglioramento dei processi autorizzativi ancora troppo lunghi e articolati: è uno scandalo, questo sì, che oggi il 19% delle infrastrutture installate sia inutilizzabile perché non è stato possibile realizzare il collegamento alla rete da parte dei distributori di energia o per motivi burocratici.

 I risultati migliori di quelli della Francia, della Germania e del Regno Unito si fermano per l’e-mobility al numero delle colonnine installate. Perché in questi Paesi le immatricolazioni delle auto elettriche sono aumentate (+25,3%, +32,3%, +40,1%). L’Italia, invece, mel 2022 ha fatto il passo del gambero, con un -27,1%. Mentre una instant survey di Areté di queste ore rivela che 1 italiano su 5 sarebbe disposto a comprare un’auto alla spina solo a patto che costi meno di 30mila euro.

 Prezzi delle auto elettriche a parte, Motus-E segnala la necessità di “non sprecare gli oltre 700 milioni di euro del PNRR destinati all’installazione di più di 21mila stazioni di ricarica ad alta potenza – dice il segretario Francesco Naso -. Allo stato, per come è impostata la normativa, c’è infatti il rischio di non riuscire a impiegare le ingenti risorse messe a disposizione dall’Europa, almeno nel primo bando che senza interventi scadrà a maggio, ma non è ancora stato aperto”.

Da risolvere, poi, il collo di bottiglia per le colonnine nelle autostrade: “I concessionari autostradali sono obbligati per legge a pubblicare i bandi per l’installazione delle colonnine, ma nessuno ha bandito le gare per l’assegnazione della subconcessione per la ricarica dei veicoli elettrici. Chiediamo chiarezza al Governo, per garantire così che anche l’Italia possa avere una indispensabile rete di ricarica sulle autostrade”.

«Vi racconto la mia odissea a Milano con l'auto elettrica nuova di zecca». Redazione Verità&Affari Panorama il 14 Febbraio 2023.

Nel giorno in cui l'Europa conferma lo stop ad auto diesel e benzina dal 2035 la storia di un automobilista green, pentito

Ero fortemente intenzionato ad acquistare una Bmw Serie 7 elettrica, ma dopo un solo giorno di prova ho acquistato sì una Bmw Serie 7 , ma diesel”. Comincia così quello che appare come un vero e proprio sfogo giunto in redazione da parte di un automobilista emiliano. “Vivo nel modenese e per lavoro mi sposto spesso anche se su percorsi non lunghi, principalmente nel Nord Italia. Cambio l’auto ogni tre anni circa. Questa volta ero fortemente intenzionato a passare all’elettrico” spiega l’uomo, un piccolo imprenditore di successo. “Dopo essermi informato e fatto le dovute comparazioni la mia scelta è caduta sulla BmW Serie7i, una vettura a mio avviso davvero straordinaria. Così contatto il concessionario per la prova di rito. Ritiro l’auto, che mi dà subito ottime sensazioni, e stabilisco, vista l’autonomia ben più che sufficiente, di recarmi ad un appuntamento a Milano, una città a sicura portata di batterie e piena di centraline di ricarica” prosegue.

Articolo de “The Wall Street Journal” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 17 gennaio 2022.

Secondo nuovi dati e stime, l'anno scorso le vendite di veicoli elettrici sono aumentate in tutto il mondo, soprattutto grazie alla forte crescita in Cina e in Europa, dando sollievo a un mercato automobilistico ancora in generale colpito da preoccupazioni economiche, inflazione e interruzioni della produzione.

 Se negli Stati Uniti i veicoli elettrici rappresentano ancora una frazione delle vendite di automobili, in Europa e in Cina la loro quota sul mercato totale sta diventando consistente e, con l'affermarsi di questa tecnologia, stanno influenzando sempre più le sorti del mercato automobilistico.

 A livello mondiale, l'anno scorso le vendite di veicoli elettrici hanno superato un traguardo fondamentale, raggiungendo per la prima volta una quota di mercato del 10% circa. Le vendite globali di veicoli completamente elettrici hanno totalizzato circa 7,8 milioni di unità, con un aumento del 68% rispetto all'anno precedente, secondo le ricerche preliminari di LMC Automotive e EV-Volumes.com, gruppi di ricerca che seguono le vendite di automobili – scrive il WSJ.

Ralf Brandstätter, responsabile delle attività di Volkswagen AG in Cina, ha dichiarato venerdì ai giornalisti che i veicoli elettrici continueranno ad espandersi rapidamente e che la Cina potrebbe presto raggiungere un punto in cui le vendite di veicoli convenzionali inizieranno a diminuire in modo permanente, mentre i veicoli plug-in conquisteranno una quota di mercato maggiore.

 "L'anno scorso un veicolo su quattro che abbiamo venduto in Cina era un plug-in, e quest'anno sarà un veicolo su tre", ha dichiarato Brandstätter. "Non abbiamo ancora raggiunto il punto di svolta, ma contiamo di arrivarci tra il 2025 e il 2030".

 Secondo LMC Automotive, i veicoli completamente elettrici hanno rappresentato l'11% delle vendite totali di auto in Europa e il 19% in Cina. Insieme ai veicoli ibridi plug-in, che possono essere collegati per ricaricare la batteria ma hanno anche un piccolo motore a combustione, la quota di veicoli elettrici venduti in Europa è salita al 20,3% del totale lo scorso anno, secondo EV-Volumes.com.

In Germania, il più grande mercato automobilistico europeo, i veicoli elettrici hanno rappresentato il 25% della produzione di nuovi veicoli lo scorso anno, secondo la VDA, l'associazione dei produttori automobilistici tedeschi. A dicembre, nel Paese sono stati venduti più veicoli elettrici che auto convenzionali.

 Le vendite di auto nuove sono diminuite complessivamente di circa l'1% a 80,6 milioni di veicoli, secondo i dati LMC, con una crescita di quasi il 4% in Cina che ha contribuito a compensare il calo dell'8% negli Stati Uniti e del 7% in Europa, colpita dall'indebolimento dell'economia globale, dall'impennata dei costi energetici, dalle interruzioni della catena di approvvigionamento e dalla guerra in Ucraina.

 Bayerische Motoren Werke AG, il produttore tedesco di auto di lusso, è stato uno dei tanti produttori che l'anno scorso ha visto aumentare le vendite di modelli plug-in anche se le vendite complessive sono diminuite. BMW ha registrato un calo del 5% nelle vendite totali di auto nuove, ma le vendite di veicoli elettrici sono più che raddoppiate lo scorso anno.

 "Siamo fiduciosi di poter ripetere questo successo l'anno prossimo, perché abbiamo un portafoglio ordini ancora elevato per i modelli completamente elettrici", ha dichiarato questo mese il responsabile delle vendite di BMW Pieter Nota, commentando la crescita delle vendite di modelli elettrici.

VW, il più grande produttore europeo per vendite, ha dichiarato giovedì che le vendite complessive di auto nuove sono scese del 7% a 8,3 milioni di veicoli lo scorso anno, ma le vendite di veicoli elettrici sono aumentate del 26% a 572.100 unità. I dati di vendita comprendono la vasta gamma di marchi dell'azienda, tra cui VW, il produttore di auto sportive Porsche, il marchio di auto di lusso Audi e i marchi di autovetture Skoda e Seat.

 La maggior parte delle vendite di veicoli elettrici di VW è avvenuta in Europa, ma la crescita delle vendite è stata più forte in Cina e negli Stati Uniti, ha dichiarato l'azienda.

Altri produttori hanno registrato un divario simile, con una forte crescita delle vendite di auto elettriche - favorita in parte dalla disponibilità di una gamma più ampia di modelli oltre al leader di mercato Tesla Inc - e vendite deboli o in calo di veicoli convenzionali. Ford Motor Co. Ltd., Mercedes-Benz Group AG e BMW hanno dichiarato che le loro vendite di veicoli elettrici sono più che raddoppiate nel 2022, mentre le vendite totali di veicoli sono diminuite.

 Le case automobilistiche europee hanno concentrato la produzione e la vendita di veicoli elettrici sui mercati nazionali, nel tentativo di rispettare le normative dell'Unione Europea sulle emissioni. L'anno scorso hanno anche iniziato a espandere in modo più aggressivo la loro attività di veicoli elettrici in altri importanti mercati, in particolare in Cina e negli Stati Uniti.

In Cina, che l'anno scorso ha rappresentato circa i due terzi delle vendite globali di auto completamente elettriche, i produttori nazionali stanno guadagnando terreno sui tradizionali produttori di auto occidentali e stanno iniziando a espandersi anche in Europa e negli Stati Uniti.

 A livello mondiale, Tesla ha mantenuto il primo posto in una classifica globale di produttori per vendite di veicoli completamente elettrici, seguita dai produttori cinesi BYD Co. e SAIC Motor Corp. e dai marchi del gruppo VW, secondo uno studio pubblicato da Stefan Bratzel, direttore del Center of Automotive Management, un gruppo di ricerca automobilistica in Germania.

 Gli Stati Uniti sono in ritardo rispetto alla Cina e all'Europa nella diffusione dei veicoli elettrici, ma l'anno scorso i produttori di auto hanno venduto 807.180 veicoli completamente elettrici negli Stati Uniti, con un aumento della quota di veicoli completamente elettrici al 5,8% di tutti i veicoli venduti rispetto al 3,2% dell'anno precedente. Tesla è ancora il produttore di veicoli elettrici dominante al mondo, ma i produttori di auto tradizionali stanno riducendo il suo vantaggio con il lancio di nuovi modelli elettrici.

 Ford è ora il secondo produttore di veicoli elettrici per vendite negli Stati Uniti, seguito da Hyundai Motor Co. e dalla sua affiliata Kia Corp. Nel frattempo, General Motors Co. Ltd., VW e Nissan Motor Co. hanno perso quote di mercato negli Stati Uniti lo scorso anno.

 Gli analisti avvertono che nel 2023 potrebbe essere difficile ripetere la forte performance dei veicoli elettrici dell'anno scorso, poiché le preoccupazioni economiche pesano sui consumatori e gli sconti in denaro sui veicoli elettrici vengono ridotti o eliminati del tutto in alcuni Paesi. L'aumento dei prezzi dell'elettricità in Europa, sulla scia dell'attacco russo all'Ucraina, ha anche diminuito l'attrattiva dei veicoli elettrici rispetto alle auto a combustione.

La Germania ha registrato un'impennata negli acquisti di veicoli elettrici dell'ultimo minuto a dicembre, in quanto i consumatori si sono affrettati ad approfittare degli incentivi governativi prima che venissero tagliati quest'anno. Dal 1° gennaio, i sussidi governativi per l'acquisto di un veicolo elettrico con un prezzo di listino fino a 40.000 euro sono scesi a 4.500 euro dai precedenti 6.000 euro. 

Negli ultimi due anni, i produttori di auto, soprattutto in Europa, hanno faticato a trovare componenti chiave come i chip per computer per mantenere la produzione al passo con la domanda. Questo squilibrio tra domanda e offerta è uno dei motivi per cui le case automobilistiche hanno registrato profitti elevati l'anno scorso, nonostante il calo delle vendite. 

Con l'indebolimento dell'economia, l'attenuazione dei problemi della catena di approvvigionamento e l'esaurimento delle sovvenzioni, i produttori potrebbero avere maggiori difficoltà a mantenere i prezzi elevati delle auto nuove, dato che inseguono un numero potenzialmente inferiore di clienti acquirenti. Questo potrebbe portare a una spirale di prezzi al ribasso che potrebbe colpire i profitti.

"È probabile che la domanda si indebolisca nel prossimo anno", ha dichiarato Peter Fuss, analista del settore auto di Ernst & Young. "La debolezza dell'economia farà sì che i consumatori al dettaglio e le aziende siano più riluttanti. È possibile che l'offerta superi la domanda e che si ricominci a vedere sconti".

Automotive. Auto elettriche, ecco quante ne circolano nel mondo. L'e-mobility avanza spedito in tutto il mondo. Le auto elettriche immatricolate sono sempre più numerose con i mercati cinesi ed europei a fare da traino: ecco la situazione e le prospettive per il nostro Paese. Alessandro Ferro il 15 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La rivoluzione che porterà all'elettrico è già iniziata e avanza spedita a gonfie vele: mentre il 78% degli italiani si dice favorevole a una mobilità sostenibile, il Report a cura di Fondazione Symbola ed Enel "100 Italian E-Mobility Stories 2023" fa sapere che circolano già quasi 20 milioni di auto elettriche per passeggeri, 1,3 milioni di veicoli elettrici commerciali e ben più di 280 milioni di mezzi per quanto riguarda le due ruote.

Germania davanti a tutti

In Italia, il 2021 si è chiuso con un aumento del 199% sulle vendite di ibride ed elettriche rispetto al 2020 con un quasi 40% sul totale delle immatricolazioni. Si avanza a passo spedito ma in Europa, per adesso, il comando lo deteniene la Germania con oltre 680 mila nuove immatricolazioni, più del doppio del Regno Unito (306mila) e Francia (303mila). Ma l'elettrico è in costante crescita tant'è che numerose stime propendono per un parco auto superiore al 50% nel giro di sette anni grazie alla tecnologia BEV. Oltre alla Cina, proprio l'Europa traina questo mercato con un aumento pari al 65,7% delle auto elettriche o con basse emissioni nel 2021 rispetto all'anno precedente.

"Garantire sostenibilità ambientale"

Supportare e riconvertire l'automotive italiano è fondamentale perché così si potrà garantire "la sostenibilità dal punto di vista ambientale, senza trascurare quella economica e sociale", ha dichiarato il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso, nel messaggio inviato in occasione della presentazione del Report di cui abbiamo appena parlato e promosso da Fondazione Symbola ed Enel X Way. Il governo a dicembre ha convocato un tavolo per sottolineare il "sostegno della transizione ecologica, da perseguire tuttavia tenendo conto del principio di neutralità tecnologica". L'obiettivo primario è quello di sostenere innovazione ed eccellenze nel campo dell'e-mobility oltre alla produzione di "nuovi e più efficaci strumenti indispensabili a garantire la competitività e la crescita economica del Paese, coerentemente con gli obiettivi di decarbonizzazione al 2035 e al 2050".

Le prospettive per l'Italia

Ambiziose in linea con il governo Meloni e con uno sguardo verso un futuro concreto sono le idee del ministro dell'Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, il quale ha dichiarato che verranno installate più di 21mila colonnine elettriche per riqualificare la rete di distribuzione del carburante ma non solo. Intervistato da Milano-Finanza, il ministro ha parlato dell'assoluta necessità per l'Italia di avere il nucleare di quarta generazione e che il Mediterraneo possa diventare hub del gas. Sull'elettrico, però, fa sapere che sono stati firmati due decreti definiti cruciali grazie ai quali "verranno installate entro la fine 2025 almeno 7.500 infrastrutture di ricarica super-rapida sulle strade extraurbane, escluse quindi le autostrade, e 13.755 infrastrutture di ricarica veloci nelle città. Il piano non lascia indietro alcuna area del Paese, grazie al grande lavoro fatto dai tecnici del ministero".

"Alternative all'elettrico 100%"

Nel Pnrr, 2,2 miliardi sono previsti per iniziative che favoriscano la produzione di energia da fonti rinnovabili e destinati ai piccoli Comuni al di sotto dei 5mila abitanti. L'elettrico, però, dovrà essere affiancato anche da alternative "come il biometano e tutta una serie di elementi di produzione di carburanti sintetici, che possono mantenere i motori termici e le aziende del settore", ha dichiarato il ministro durante il convegno sul futuro delle aziende dell'automotive in vista dello stop ai motori termici previsto nel 2035. "I passaggi per arrivare all'elettrico sono la via maestra che dobbiamo seguire - ha aggiunto Pichetto Fratin - anche aiutando le aziende in questo periodo di trasformazione. Se è vero che non possiamo fermare questo cambiamento, dobbiamo gestirne l'adattamento".

"Bene l'automotive italiana"

I numeri della ripresa del settore automobilistico a fine 2022 sono confortati dalle percentuali in rialzo rispetto al novembre del 2021: +10,3% invece del -13,7% dello stesso periodo dell'anno precedente: lo ha fatto sapere il direttore di Anfia (Associazione Nazionale Filiera Industria Automobilistica), Gianmarco Giorda, il quale ha sottolineaot che sottolineando che "continua il trend positivo anche per l'indice della fabbricazione di autoveicoli, in rialzo a doppia cifra nel mese (+13,5%), e per l'indice della produzione di parti e accessori per autoveicoli e loro motori (+7,2%)". L'auspicio è che il trend in crescita si possa assestare anche nel 2023 "anche grazie alla spinta degli incentivi all'acquisto delle vetture a zero e a basse emissioni e dei veicoli commerciali leggeri elettrici, disponibili dal 2 gennaio scorso e prenotabili dal 10 gennaio sulla piattaforma Ecobonus del Mimit", così come abbiamo scritto sul Giornale.it e quali sono i veicoli coinvolti nello specifico.

Alessandro Ferro

PFAS, eliminato l’ultimo dubbio: “sono cancerogeni certi”. Stefano Baudino su L'Indipendente il 4 Dicembre 2023

Trenta scienziati dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (IARC) hanno fatto chiarezza sul legame tra esposizione a sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) e insorgenza di tumori. In un lavoro che verrà presto pubblicato sulla rivista scientifica The Lancet Oncology, i ricercatori hanno infatti concluso che una delle tipologie di PFAS più diffuse è certamente cancerogena e che pertanto va inserita nel gruppo 1 delle sostanze che possono causare neoplasie. L’aggiornamento della lista avrà una forte rilevanza in tutti quei processi in cui le vittime di queste pericolose sostanze industriali chiedono giustizia, come nel caso dei cittadini veneti che da anni si battono contro le istituzioni e l’azienda che ha sversato PFAS nella falda idrica sotto le province di Vicenza, Padova e Verona.

In particolare, i Pfoa, composto chimico della famiglia dei Pfas, sono stati considerati cancerogeni per gli esseri umani “sulla base di prove sufficienti di cancro negli esperimenti sugli animali – scrivono i ricercatori – e di prove meccanicistiche forti nell’uomo esposto”. Si parla, nello specifico, di un rapporto causa-effetto tra la presenza di Pfoa nel sangue, nei tessuti e negli organi dei soggetti contaminati e le patologie da essi sviluppate. I Pfos, altro appartenente al gruppo dei Pfas, sono stati invece fatti rientrare nel gruppo 2B (a cui in precedenza appartenevano i Pfoa) poiché “possibilmente” cancerogeni. La ricerca, che presto vedrà la luce, illustrerà gli utilizzi industriali dei Pfas e prenderà in esame le correlazioni con determinate tipologie di tumore, in particolare quelli del rene e dei testicoli. Il rapporto, inoltre, conferma la trasmissibilità da mamme a neonati, nonché il fatto che i Pfas determinano una minore reazione dei vaccini e una maggiore vulnerabilità alle infezioni.

I contenuti del nuovo studio costituiscono l’ennesimo tassello tecnico-scientifico che ha evidenziato la grande pericolosità dei Pfas, dando ragione a quell’universo di movimenti e associazioni – primo tra tutti quello delle “Mamme No Pfas” – che da sempre, in piazza come nelle aule giudiziarie, denunciano la questione. Attualmente è in corso davanti alla Corte d’Assise di Vicenza un processo che vede alla sbarra i dirigenti della Miteni di Trissino – azienda chimica specializzata in produzione di intermedi fluorurati per agrochimica, farmaceutica e chimica, dichiarata fallita nel 2018 – per le responsabilità sottese al grave inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche di una vasta falda acquifera in Veneto, che avrebbe coinvolto 350mila cittadini nelle aree di Vicenza, Padova e Verona. In aula Pietro Comba, ex dirigente in pensione di Iss, lo scorso giugno ha riferito che nel 2017 svolse con i tecnici della Regione un lavoro atto a porre le basi dello studio epidemiologico per accertare le possibili correlazioni tra la presenza di Pfas nel sangue e l’insorgenza di tumori. Un progetto che si sarebbe arenato, a detta di Comba, per motivazioni politiche. Recentemente, in seguito alle pressioni ricevute dalle associazioni ambientaliste e dalle forze di opposizione, l’assessora regionale leghista alla Sanità Manuela Lanzarin ha ammesso che a bloccarlo furono «ragioni di approfondimenti di natura economica-finanziaria». Un mese fa, peraltro, è stata archiviata l’indagine a carico degli stessi manager della Miteni per omicidio colposo ai danni di tre lavoratori e per lesioni colpose rispetto alle patologie che hanno colpito 18 loro colleghi. Il gip, su proposta dei pm, aveva deciso di archiviare anche per la difficoltà di delineare una connessione certa tra Pfas e patologie riscontrate. Ma ora i risultati della ricerca dello IARC sembrano dire esattamente l’opposto.

Un importantissimo ruolo, nella cornice di questa battaglia per la verità e la giustizia, è stato giocato da vari movimenti ambientalisti che, tra il 2015 e il 2016, riuscirono a inaugurare una rilevazione a campione che mise in luce valori elevati di Pfas nel sangue dei residenti dei comuni coinvolti dal disastro ambientale. La questione fu così grave da indurre, nel 2018, il governo a dichiarare lo stato di emergenza, istituendo una zona rossa in ben 30 comuni, e, tra il novembre e il dicembre 2021, l’Alto Commissariato dell’Onu a inviare in missione in Veneto una delegazione per comprendere se la gestione dell’emergenza abbia violato i diritti umani. Ne conseguì un rapporto in cui si evidenziò come “in troppi casi, l’Italia non è riuscita a proteggere le persone dall’esposizione a sostanze tossiche”.

Successivamente, l’allarme Pfas è risuonato anche in Lombardia. Uno scenario inquietante è infatti emerso dal rapporto “Pfas e acque potabili in Lombardia, i campionamenti di Greenpeace Italia”, pubblicato due mesi fa dall’associazione ambientalista, in cui è stato attestato che ben 11 dei 31 campioni raccolti nelle acque potabili di una serie di Comuni di tutte le province Lombarde risultano , contaminati da Pfas. In 4 casi l’organizzazione ha registrato una contaminazione da Pfas superiore al limite indicato nella Direttiva europea 2020/2184, ovvero 100 nanogrammi per litro. Lo scorso maggio, in seguito a numerose richieste di accesso agli atti inoltrate alle Agenzie di tutela della salute e agli enti gestori delle acque lombarde, la stessa associazione aveva pubblicato i risultati delle analisi eseguite dalle autorità competenti sulla concentrazione di Pfas nell’acqua destinata a uso potabile in Lombardia tra il 2018 e il 2022. Dall’esame era risultato positivo alla presenza di sostanze perfluoroalchiliche circa il 19% dei campioni (ben 738). Il valore più alto di positività ai Pfas (pari all’84% dei campioni) era stato trovato nelle acque della provincia di Lodi, seguita da Bergamo (60,6%) e Como (41,2%), mentre a Milano era risultato contaminato quasi un campione su tre. [di Stefano Baudino]

Che cosa sono i Pfas e dove si trovano. C’è un modo per proteggersi? Anna Fregonara su Il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.

Le sostanze perfluoroalchiliche si trovano in padelle, contenitori alimentari, acqua di rubinetto e tessuti impermeabili. Secondo un nuovo studio si diffondono nell’ambiente. Ecco come limitare l’esposizione. 

Tutti ne veniamo in contatto ogni giorno: quando ci vestiamo con abbigliamento impermeabile, quando cuciniamo con padelle antiaderenti, quando puliamo i denti con il filo interdentale, quando acquistiamo cibo già pronto o lubrifichiamo la catena della bicicletta.

Proprietà

Sono davvero in tanti oggetti di uso quotidiano le Pfas, acronimo inglese di PerFluorinated Alkylated Substances, ossia sostanze perfluoroalchiliche (o acidi perfluoroacrilici) molto usate dall’industria per le loro proprietà. «Il successo dipende proprio dalla loro caratteristica di comportarsi in modo da essere repellenti all’acqua e all’olio, ma al tempo stesso di essere traspiranti e resistenti alle alte temperature. L’azione delle Pfas è il risultato di una reazione chimica di carbonio e fluoro», spiega Emilio Benfenati, responsabile dipartimento di Ambiente e salute dell’Istituto di ricerche Mario Negri di Milano.

Il nuovo studio

Una nuova ricerca, però, dimostrerebbe che n on sono così sicure per la nostra salute. Un gruppo di ricercatori su Environmental Science & Technology Letters ha studiato la presenza di questi composti in 42 imballaggi alimentari canadesi utilizzati per il fast food, dagli involucri per panini ai contenitori per insalate. Quando i ricercatori hanno di nuovo analizzato, due anni dopo, gli stessi campioni conservati in un sacchetto sigillato al buio a temperatura ambiente, hanno notato che la composizione di Pfas era cambiata: la loro concentrazione totale era diminuita fino all’85%, cosa che non avrebbe dovuto essere possibile. Infatti, i «nuovi» Pfas, detti polimerici, sono nati come alternative a quelli più tradizionali a catena lunga e la logica era che fossero più sicuri perché più stabili e troppo pesanti per fuoriuscire dai materiali in cui sono presenti. Invece pare che si scompongano in molecole più piccole potenzialmente tossiche e che si diffondano nell’ambiente, dove possono rimanere per secoli senza biodegradarsi, e negli alimenti.

I rischi

«La via espositiva principale è quella orale», prosegue l’esperto, «le assorbiamo quindi da quello che mangiamo e beviamo. Nessun allarmismo, però, perché nessun singolo prodotto può esporre a livelli pericolosi di Pfas in un solo utilizzo. Tuttavia poiché sono comuni e si possono accumulare nell’organismo nel corso del tempo, si può vedere come ridurre l’esposizione. Innanzitutto attraverso la regolamentazione. L’Ente europeo per la sicurezza alimentare (Efsa) si è pronunciato valutando i risultati degli studi scientifici a disposizione, sia epidemiologici sia su animali (questi ultimi nel caso dei Pfas non sono sempre direttamente trasferibili all’uomo), e ha rilevato un aumento del colesterolo, mentre altri rapporti hanno mostrato alterazioni a livello di fegato e tiroide, del sistema immunitario e riproduttivo, sviluppo di alcuni tipi di neoplasie.

I cibi dove si trovano

Nel 2020, l’Efsa ha indicato una nuova soglia di sicurezza per 4 tra le principali Pfas che si accumulano nell’organismo. «Una dose settimanale tollerabile di 4,4 nanogrammi per chilo di peso corporeo a settimana», precisa Stefano Polesello, ricercatore dell’Irsa (Istituto di ricerca sulle acque)-Cnr di Brugherio (Mi). «L’unico modo per difendersi sarebbe non bere e non mangiare. Le Pfas sono diffuse in tutte le acque, persino in piogge su aree remote, ma continuiamo a bere l’acqua del rubinetto perché è, in genere, controllata. Gli alimenti che accumulano di più Pfas sono uova e fegato. Non significa non mangiare più uova, ma limitare il consumo di quelle provenienti da aree impattate. Ortaggi e frutta, possono assorbire Pfas dal terreno, ma sono a catena corta che il nostro organismo non accumula, anche se non possiamo escludere a priori che non abbiano effetto», conclude Polesello.

Piccoli consigli

Invece, i piccoli accorgimenti che si possono prendere sono, per esempio, cambiare la pentola di Teflon rovinata e sostituirla con una nuova o una di ghisa, di acciaio inox o di ceramica, limitare l’uso di tessuti antimacchia e antiacqua o scegliere quelli che si dichiarano privi di Pfas. Il punto su cui mi concentrerei di più, però, è ridurre la frequenza con cui si mangia da imballaggi di carta, cartone e fibre vegetali. Questi contenitori possono avere Pfas e altre migliaia di sostanze, come gli ftalati o alcuni plastificanti, che possono essere rilasciate nei cibi. Per questo, è meglio scegliere il più possibile alimenti freschi così avremo anche molti vantaggi nutrizionali». Infine, dal punto di vista della ricerca, serviranno molti studi prima di arrivare a una conclusione definitiva sulle Pfas, sviluppate per la prima volta negli anni ‘40 e appartenenti a un ampio gruppo di oltre 4 mila sostanze che variano nella loro composizione chimica. «Per questo l’aspetto principale è individuare le priorità. Magari ci si concentra sul fatto che, cucinando una frittata nel Teflon che forse contiene sostanze tossiche, forse assorbiamo particelle, ma perdiamo di vista, per esempio, che se mangiamo una bistecca o una pizza abbrustolite assorbiamo acrilammide che è sicuramente tossica», conclude Benfenati.

Detriti spaziali.

L’Eco-truffa legale.

Gli inceneritori.

Gli Animali.

Le Nazioni.

Le Città.

La Padania.

La Sicilia.

Le Auto.

I silenzi dello Stato.

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I jet privati.

La Sanzione.

Miteni.

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I Militari.

La Sanità.

Le Aziende Energivore.

Detriti spaziali.

TECNOLOGIA E CONTROLLO. I detriti spaziali attorno alla Terra sono oltre 170 milioni: l’ultimo è una borsa degli attrezzi. Roberto Demaio su L'Indipendente il 23 Novembre 2023

Da quando l’astronauta della Nasa Ed White perse uno dei suoi guanti nello spazio dopo essere uscito dalla sua capsula nel giugno del 1965, il numero di detriti spaziali che ruotano intorno alla Terra è aumentato esponenzialmente: sono oltre 170 milioni ad oggi, e vanno da piccole macchie di vernice provenienti dai veicoli spaziali a vecchi satelliti abbandonati in orbita. L’ultimo rifiuto è volato via accidentalmente dalla Stazione Spaziale Internazionale (ISS) questo mese e vale circa 100.000 dollari: si tratta di una borsa degli attrezzi abbastanza luminosa da poter essere individuata anche ad occhio nudo, che è ora in orbita attorno alla Terra e che lì potrebbe rimanere per anni. Il piano di pulizia dello spazio intorno alla Terra ha un ostacolo: trovare una strategia economica e funzionale per deorbitare i satelliti una volta raggiunta la fine della loro vita. Per ora, le agenzie spaziali stanno collaborando con alcune aziende per creare strumenti in grado di “afferrare” i detriti e trascinarli in orbita e le istituzioni europee stanno progettando nuove regole per la gestione del traffico spaziale.

La valigetta si è allontanata mentre gli astronauti della Nasa Jasmin Moghbeli e Loral O’Hara stavano eseguendo una manutenzione all’esterno dell’avamposto orbitante. I funzionari della Nasa hanno scritto che «i controllori di volo hanno individuato la borsa degli attrezzi utilizzando le telecamere della stazione esterna» e che «gli strumenti non sono stati necessari per il resto della passeggiata spaziale». La Nasa ha poi rassicurato che la probabilità che gli strumenti colpiscano la stazione in futuro è fuori pericolo: «Il controllo missione ha analizzato la traiettoria della borsa e ha stabilito che il rischio di ricontattare la stazione è basso e che l’equipaggio a bordo e la stazione spaziale sono al sicuro senza che sia richiesta alcuna azione». L’astronomo Dave Dickinson ha dichiarato che la borsa ha una magnitudine stellare (la scala di luminosità usata dagli astronomi che va da -30 a +30) di +6 (circa metà della luna piena), il che renderebbe possibile il suo avvistamento nel cielo notturno con un paio di binocoli.

Il futuro della borsa sembra segnato: «Andrà alla deriva» ha affermato Rory Holmes, amministratore delegato di ClearSpace, un’azienda che sviluppa la tecnologia per rimuovere i detriti dallo spazio, che secondo i piani avverrà per la prima volta nel 2025. «Tornerà lentamente sulla Terra, ma ci vorranno molte centinaia di anni e sarà un rischio per quel tempo. Ciò non significa che verrà scoperto in un campo tra diversi secoli e finirà in un museo. Date le dimensioni della borsa degli attrezzi, probabilmente alla fine brucerebbe nell’atmosfera», ha poi aggiunto. Tuttavia, i detriti spaziali possono risultare pericolosi sia per gli astronauti – che di tanto in tanto cambiano posizione insieme alla ISS per evitare l’impatto coi detriti – che per gli oltre 10.000 satelliti attualmente in orbita, che risultano essenziali per le comunicazioni. Non c’è da stupirsi quindi se l’Agenzia spaziale britannica ha assegnato a ClearSpace e alla società Astroscale 4 milioni di sterline per progettare missioni che mirino a rimuovere tali rifiuti spaziali. L’idea è quella di sviluppare satelliti in grado di catturare grandi pezzi di detriti e smaltirli in modo sicuro. «Fondamentalmente abbiamo un artiglio gigante. Andiamo a prendere i pezzi e li tiriamo giù… nella parte superiore dell’atmosfera in modo che possano bruciare in sicurezza», ha concluso Rory Holmes.

Secondo le stime dell’Agenzia Spaziale Europea, i detriti di lunghezza superiore a 10 cm attualmente in orbita sono oltre 29.000, quelli di lunghezza superiore a 1 cm sono 670.000 ed i rifiuti spaziali di lunghezza superiore a 1mm sono oltre 170 milioni. Si tratta di dimensioni che, nonostante sembrino irrisorie, possono creare gravi danni: una collisione con un oggetto di 10 cm avverrebbe a oltre 40 J/g e comporterebbe una frammentazione catastrofica di un satellite, mentre un oggetto di 1 cm, se impattato alla velocità di rivoluzione intorno alla Terra, potrebbe disabilitare completamente un veicolo spaziale e penetrare gli scudi della Stazione Spaziale Internazionale.

Incremento di rifiuti spaziali dal 1950. In nero il numero totale di oggetti, in rosso i detriti frammentati, in rosa il numero di detriti generati da missioni spaziali e in magenta i corpi di razzi lasciati in orbita. Fonte: NASA

È anche per questi motivi che proprio il mese scorso è arrivata la prima multa spaziale, assegnata per 150.000 dollari alla società Dish Network per non aver spostato un satellite adibito alle telecomunicazioni giunto a fine vita nella corretta e pattuita orbita di smaltimento. Per quanto riguarda l’Unione europea, la Commissione ha annunciato che proporrà una legge spaziale che stabilirà le regole per la gestione del traffico spaziale per l’accesso sicuro allo spazio e il ritorno dallo spazio l’anno prossimo, anche se il modo con cui far deorbitare i satelliti una volta raggiunta la fine della loro vita rimane ancora una sfida. [di Roberto Demaio]

L’Eco-truffa legale.

Dagospia il 30 maggio 2023. L’ECO-TRUFFA "LEGALE" (E MULTI MILIARDARIA) DELLE GRANDI AZIENDE CHE PRODUCONO ACCIAIO, CEMENTO, PETROLIO E ALLUMINIO – NEL 2005 L’UE HA CREATO UN SISTEMA DI QUOTE DI EMISSIONE DI CO2 GRATUITE PER CONVINCERE LE IMPRESE A INQUINARE MENO. A OGNUNA VENIVA DATO UN NUMERO DI TONNELLATE DI GAS DA EMETTERE CHE CON IL TEMPO DOVEVA ESSERE RIDOTTO – IL SISTEMA È DIVENTATO UN MERCIMONIO: LE AZIENDE CHE INQUINAVANO MENO DEL PREVISTO METTEVANO ALL'INCANTO LE QUOTE RIMANENTI GUADAGNANDOCI SOPRA. SI STIMA CHE ABBIANO INTASCATO 98,5 MILIARDI DI EURO...

 Articolo di “Le Monde” – dalla rassegna stampa estera di “Epr Comunicazione” il 30 maggio 2023.

"Diritti di inquinare". In un momento in cui l'Unione europea sta intensificando gli obiettivi di decarbonizzazione per il 2030, le aziende produttrici di cemento e acciaio hanno sfruttato il sistema di sostegno dell'UE per gonfiare i loro profitti – leggiamo nella prima parte dell’inchiesta dei giornalisti di Le Monde 

È una storia trentennale che vale miliardi di euro. Trenta lunghi anni che non passeranno negli annali dell'Unione Europea (UE) come i più gloriosi nella lotta al riscaldamento globale. Tre decenni durante i quali le industrie più inquinanti del Vecchio Continente - acciaio, cemento, petrolio, alluminio e altre - hanno ricevuto quote di emissione di CO2 gratuite, una sorta di "diritto a inquinare" che avrebbe dovuto essere ridotto nel tempo, per incoraggiarle a ridurre le loro emissioni di gas serra.

Tuttavia, il sistema è stato rapidamente deviato dal suo scopo originario e trasformato in uno strumento finanziario che consente ai beneficiari di aumentare i loro profitti rivendendo tali quote. Solo tra il 2013 e il 2021, secondo le stime del World Wildlife Fund, le maggiori industrie emettitrici hanno intascato 98,5 miliardi di euro, e solo un quarto di questa somma (25 miliardi di euro) è stato destinato all'azione per il clima. 

Il sistema di quote gratuite, lanciato il 1° gennaio 2005 e tuttora in vigore, è destinato a scomparire nel 2034. Il 18 aprile, il Parlamento europeo ha adottato un nuovo piano climatico che prevede la sua graduale sostituzione con un "meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere dell'UE", questa volta con l'obiettivo di rendere più ecologiche le importazioni dai settori che emettono più CO2. Optando per un meccanismo più semplice, l'UE non ha fatto ufficialmente il suo mea culpa. Ma è di questo che si tratta.

Come abbiamo rivelato dopo otto mesi di indagini, con il sostegno finanziario del fondo Investigative Journalism for Europe (IJ4EU), questo sistema, che doveva essere benevolo nei confronti dell'industria, è stato dirottato dal suo scopo originario. Abbiamo esaminato le industrie dell'acciaio e del cemento in Francia e Spagna, due dei maggiori beneficiari. 

Un'analisi approfondita delle transazioni finanziarie registrate da questi attori nel sistema di scambio di quote di emissione (SEQE-EU-ETS) conferma ciò che alcuni sospettavano da tempo: le aziende hanno rivenduto alcune delle loro quote gratuite per centinaia di milioni di euro, a volte miliardi. Ma a differenza dell'enorme frode sull'IVA che ha scosso il sistema nei suoi primi giorni, costando ai Paesi dell'UE 6 miliardi di euro e portando a condanne giudiziarie anni dopo, la diversione in questione è legale. 

La storia è iniziata al Vertice di Rio del 1992. In quell'occasione nacque l'idea di una carbon tax per le industrie dei Paesi sviluppati, per rendere l'economia più rispettosa dell'ambiente. L'iniziativa non ottenne il sostegno unanime degli Stati membri, in particolare la Francia bloccò la decisione. Nel 1997, il Protocollo di Kyoto ha riportato la questione sul tavolo.

Al Gore, vicepresidente degli Stati Uniti, trovò l'idea interessante, ma temeva che questo approccio non sarebbe stato approvato dal Congresso americano. Era quindi necessario elaborare un sistema più compatibile con il modello capitalistico, in vista di un possibile riavvicinamento dei mercati transatlantici in futuro. 

Il Vecchio Continente ha quindi creato un mercato europeo del carbonio, in cui i produttori potevano acquistare e vendere quote per regolare le loro emissioni di CO2. "L'UE ha creato da zero un mercato che non era mai esistito prima. È la prima volta nella storia dell'umanità", sottolinea Thomas Pellerin-Carlin, direttore del programma Europa dell'Institut de l'économie pour le climat. Oggi questo mercato è il principale centro finanziario del suo genere al mondo, anche se altri stanno emergendo, ad esempio in Cina.

"Fin dall'inizio sono state sollevate alcune questioni fondamentali. Quale modello dovrebbe essere utilizzato per assegnare le quote che le aziende scambieranno tra loro? Dovrebbero essere cedute gratuitamente o vendute? Chi sarà coperto dal meccanismo? Le aziende potranno conservare le quote da un anno all'altro?", afferma Julien Hanoteau, professore di economia e sviluppo sostenibile presso la Kedge Business School di Aix-Marseille. 

Un modello sta rapidamente prendendo forma, anche se non gode di un sostegno unanime. Ogni anno, l'Unione Europea decide di assegnare quote gratuite di CO2 alle aziende industriali, in base ai gas serra che si stima emetteranno nei dodici mesi successivi. Una quota equivale a una tonnellata di CO2.

Dopo un anno, gli impianti industriali devono restituire un numero di quote equivalente alle loro emissioni effettive di CO2. Se hanno emesso più CO2 del previsto, possono acquistare quote aggiuntive dalle aziende che non hanno utilizzato tutte le loro, secondo il principio "chi inquina paga" ideato dai creatori di questo mercato. 

Al contrario, se hanno emesso meno CO2 del previsto, possono rivendere le quote in eccesso che detengono. Le quote non hanno una data di scadenza. E quando sono in eccedenza, diventano azioni sotto forma di semplici attività finanziarie che le aziende possono vendere a piacimento, senza alcun corrispettivo, o integrare acquistandone altre sul mercato, se il prezzo del carbonio è sceso.

Nel suo rapporto annuale del 2022, ArcelorMittal dichiara di detenere 154 milioni di euro in "attività finanziarie immateriali" relative alle quote di CO2 al 31 dicembre 2021 e 691 milioni di euro al 31 dicembre 2022, secondo l'associazione internazionale di giornalisti Finance Uncovered con sede a Londra, contattata per la nostra ricerca. Secondo l'azienda, questo è il risultato di acquisti che sono "giunti a scadenza", consentendole di rafforzare il lato attivo del suo bilancio per importi considerevoli. 

La fase pilota del programma europeo di quote gratuite è iniziata vent'anni fa, nel 2003. La distribuzione è iniziata timidamente nel 2005, per raggiungere la velocità di crociera nel 2008. La logica iniziale è sorprendente a posteriori. Più CO2 un impianto industriale prevede di emettere, più diritti di inquinare riceve.

Dal 2008 al 2012, le quote vengono assegnate sulla base degli anni di produzione precedenti alla crisi economica. Di conseguenza, i produttori ricevono molte più quote di quelle che effettivamente emettono. Alcuni produttori stessi hanno subito espresso riserve sui metodi del sistema SEQE, come il produttore di cemento spagnolo Cementos Tudela Veguin e quello francese Vicat. 

"Ci siamo detti che eravamo su una china scivolosa, che potenzialmente avremmo dovuto restituire le scorte concesse in eccesso. Eravamo consapevoli che non poteva durare, che qualcuno avrebbe chiamato la fine del gioco a un certo punto", commenta Eric Bourdon, vicedirettore generale del produttore francese di cemento, che da parte sua ha scelto di non toccare le quote in eccesso che gli erano state distribuite, una strategia in contrasto con quella dei suoi concorrenti. "Abbiamo venduto un po' all'inizio, ma ci siamo fermati molto rapidamente. Ora abbiamo 4,5 milioni di tonnellate di quote di CO2. Dovremo decidere come utilizzarle al meglio", continua. 

È vero che le regole di assegnazione sono state modificate nel 2012 e di nuovo nel 2018. Ma gli abusi sono continuati, come dimostra l'ultimo rapporto sullo stato del sistema ETS dell'UE, pubblicato nel 2022 dalla Tavola rotonda europea sui cambiamenti climatici e la transizione sostenibile. L'eccedenza accumulata di quote gratuite si è stabilizzata solo nel 2013, e anche allora a un livello molto alto, l'equivalente di 1,3 miliardi di tonnellate di CO2 all'anno. E solo nel 2017 le emissioni di CO2 in tutti i settori hanno iniziato a diminuire in modo significativo. 

Per l'eurodeputato Yannick Jadot (Europe Ecologie-Les Verts), che da anni chiede l'abolizione delle quote gratuite, la situazione è amara. "Le autorità pubbliche hanno creato un mercato dal nulla, accettando fin dall'inizio tutti gli intollerabili eccessi della finanziarizzazione dell'economia", afferma l'ex candidato dei Verdi alle elezioni presidenziali del 2022. "Il governo avrebbe potuto benissimo recuperare il denaro generato dalla vendita delle quote per compensare le attività inquinanti in modo ecologico, abbassare l'IVA o ridurre l'imposta sul reddito. Ma questa non è stata la scelta fatta, lasciando invece le aziende libere di operare", aggiunge Hanoteau.

Le quote vengono messe all'asta ogni mattina alle 11.00. All'inizio, le transazioni rappresentavano un piccolo milione di tonnellate di CO2 al giorno. Da allora, il mercato è diventato più sofisticato. Oggi copre quasi 18.000 impianti e le aziende industriali, attraverso banche, fondi di investimento, broker e una dozzina di società di trading, scambiano ogni giorno da 20 a 30 milioni di tonnellate di CO2, anticipando le future variazioni del prezzo del carbonio. 

"Il mercato è diventato molto interessante per gli investitori. Il prezzo del carbonio era inizialmente di 7 euro per tonnellata, è salito a 24 euro nell'agosto 2008 e ora si aggira intorno ai 100 euro. Alcuni prevedono che raggiungerà i 150 euro nel 2030 e, nel frattempo, più dell'80% delle transazioni sono speculative piuttosto che legate a questioni ambientali", afferma Ismael Romeo, direttore di SendeCO2, una società di trading con sede a Barcellona.

Ivan Pavlovic, specialista della transizione energetica presso Natixis (filiale del gruppo Banque Populaire Caisse d'Epargne), conferma: "Anche se per il momento sono ancora una minoranza, i fondi di investimento speculativi specializzati nei mercati del carbonio, che scommettono su queste quote, ora esistono". Secondo la società di analisi finanziaria britannica Refinitiv, nel 2021 sono stati scambiati sul mercato quasi 11 miliardi di tonnellate di CO2, per un valore di 683 miliardi di euro. 

Il sistema si è presto rivelato difettoso. Le transazioni sono difficili da tracciare, anche per gli esperti del settore. "Il sistema è piuttosto esoterico. A tutti i livelli, compresa la Commissione europea, nessuno ha una visione globale e unanime. È una scatola nera. Solo i direttori finanziari o industriali delle aziende interessate sanno esattamente cosa si fa con queste quote", ammette il responsabile di una società di scambio di quote di CO2. 

A volte, le transazioni non sono giustificate solo da ragioni finanziarie. "Possono anche essere ispirate da eventi climatici o politici. Le società energetiche, escluse dal sistema di quote gratuite nel 2013 perché le utilizzavano per aumentare il prezzo dell'elettricità, sono ora obbligate ad acquistare le quote a proprie spese. Possono rivenderne alcune alla fine dell'inverno, se la temperatura è stata più alta del previsto e le loro emissioni di CO2 sono state quindi inferiori. Lo stesso vale in caso di inflazione dei prezzi dell'energia, come nell'estate del 2022, quando i prezzi del gas sono saliti alle stelle", sottolinea Gregory Idil, trader di Vertis Environmental Finance, una società con sede a Bruxelles.

Comunque sia, le aziende sono riluttanti a divulgare queste informazioni, che considerano sensibili per la loro competitività industriale. "Le transazioni sono il riflesso dell'attività economica. Se un'azienda dice di aver venduto quote, potenzialmente sta riconoscendo che la sua produzione è diminuita", spiega il trader Ismael Romeo, con sede a Barcellona. Inoltre, non tutti sono uguali quando si tratta di diritti di inquinamento. British Steel lo ha imparato a sue spese. Dopo essersi liberata delle sue quote gratuite per compensare le perdite finanziarie, ha dovuto riacquistare i diritti di inquinamento per poter continuare le sue attività ed essere autorizzata a emettere CO2. Solo che nel frattempo il prezzo del carbonio è salito alle stelle. Alla fine l'azienda si è sovraindebitata e, vittima delle sue speculazioni, ha finito per fallire nel 2019. 

Opacità

La vendita di quote è soggetta al sigillo del "segreto commerciale". Questo argomento è stato addotto da diverse aziende che abbiamo intervistato per commentare le informazioni contenute nel nostro database. In Spagna, i produttori di cemento ci hanno indirizzato alla loro federazione dei datori di lavoro, Oficemen, per ottenere dati consolidati sul settore. Tuttavia, la federazione ha rifiutato. "Oficemen non ha alcun dato. Queste domande riguardano i problemi specifici delle aziende e saranno loro a rispondervi", ha risposto un portavoce. Nessuna di loro lo ha fatto.

Un'altra difficoltà è rappresentata dal fatto che le transazioni finanziarie effettuate da ciascuno dei 18.000 siti industriali che hanno beneficiato di quote gratuite vengono pubblicate retrospettivamente dall'UE con un ritardo di tre anni. Attualmente, mentre le assegnazioni di quote gratuite sono note fino al 2022, le ultime cifre disponibili per le rivendite si riferiscono al 2019. Anche così, non raccontano l'intera storia. Poiché alcuni impianti sono passati di mano, è impossibile ricostruire la storia delle transazioni sito per sito. I registri delle transazioni dell'Unione europea (EUTL), su cui abbiamo lavorato con l'aiuto del database sul sito web EUETS. info, ci permettono di tracciare, per data e ora, gli scambi di quote tra operatori. Tuttavia, non mostrano i cambiamenti di proprietà degli impianti industriali che possono essersi verificati nel periodo studiato (2005-2019), il che contribuisce all'opacità di questo mercato.

Il produttore svizzero di cemento Holcim si rifiuta di commentare le cifre, sostenendo che il suo ambito è cambiato dopo la fusione con Lafarge nel 2015, che ha portato alla vendita di cementerie da parte della nuova entità. Lo stesso vale per la tedesca Heidelberg Materials (ex HeidelbergCement), che ha apportato importanti modifiche alla sua rete di cementerie in Europa, dopo l'acquisizione nel 2016 dell'italiana Italcementi e della sua filiale francese Ciments Calcia. 

La spagnola Cementos Portland Valderrivas è diventata leader nella penisola iberica quando ha assunto il controllo di Uniland nel 2006, ma ha riacquistato la piena proprietà dell'azienda solo nel 2013, dopo aver venduto la sua controllata Cementos Lemona all'irlandese CRH. Il suo concorrente, Cementos Molins, sottolinea che nel 2013 ha acquisito un impianto dalla messicana Cemex a Barcellona, che secondo lui "distorce" il suo equilibrio commerciale delle quote. La collega brasiliana Votorantim Cimentos si trova nella stessa situazione, essendo entrata nel mercato iberico solo nel 2012 rilevando i siti della portoghese Cimpor. 

Aziende "in eccesso"

Una cosa è certa: un gruppo come ArcelorMittal ha sempre ricevuto più quote gratuite di quelle emesse in CO2. E questo vale anche oggi. Il gigante dell'acciaio ha venduto grandi quantità di quote nel 2008 e ancora nel 2011 e 2012. Tuttavia, per ragioni di ottimizzazione finanziaria, ne ha anche riacquistate alcune in alcuni anni, quando il prezzo del carbonio era in calo. In totale, secondo i registri dell'EUTL, tra il 2005 e il 2019 il gigante dell'acciaio ha venduto 3,7 miliardi di euro di quote e ne ha acquistate 1,8 miliardi, generando un margine di 1,9 miliardi di euro. Contattata da Le Monde, ArcelorMittal France non ha potuto confermare queste cifre. 

Sempre secondo i registri EUTL, Holcim ha avuto un'eccedenza di diritti di inquinamento fino al 2017. Ha venduto molte quote tra il 2008 e il 2012, prima della fusione con Lafarge, che ha venduto anch'essa molte quote. In totale, le due società che si sono fuse avrebbero venduto 1,3 miliardi di euro e acquistato 339 milioni di euro fino ad oggi, con un saldo positivo di 986 milioni di euro. Gli importi sono sepolti nei conti del gruppo e sono impossibili da trovare come tali nelle relazioni annuali. "I dati sulle transazioni sono dati aziendali che non divulghiamo", afferma Lafarge France.

Il loro concorrente, Heidelberg Materials, è stato in attivo fino al 2016. Questo importante attore dell'industria europea del cemento, presente in Francia con il marchio Ciments Calcia e in Spagna con le cementerie Sociedad Financiera y Minera, avrebbe anche smaltito una quantità significativa di quote dopo la crisi finanziaria del 2008, per un totale di 732 milioni di euro, ma ha interrotto questa pratica nel 2016 e ha anche acquistato 364 milioni di euro di valore, realizzando un profitto di 368 milioni di euro. Secondo un portavoce, l'azienda tedesca "purtroppo non dispone di queste informazioni".

In Spagna, Cementos Portland Valderrivas, una filiale del gigante dei lavori pubblici FCC, è uno dei maggiori responsabili delle emissioni di CO2. Dal 2008 al 2012, ha ricevuto ogni anno un volume spropositato di diritti a inquinare, molto sproporzionato rispetto alle sue emissioni effettive. L'eccedenza è terminata solo nel 2021. Si dice che abbia venduto alcuni di questi diritti, intascando 288 milioni di euro, e ne abbia acquistati 11 milioni, con un profitto di 277 milioni. L'azienda rifiuta di commentare queste cifre. "La nostra politica è di non partecipare alle indagini giornalistiche", ci hanno detto. [...]

Gli inceneritori.

Vince il diritto alla salute: i dati epidemiologici degli inceneritori devono essere pubblici. Roberto Demaio su L'Indipendente giovedì 27 luglio 2023.  

Chiunque risieda nei pressi di un impianto di incenerimento di rifiuti ha il diritto ad accedere ai dati relativi alla mortalità e la frequenza di malattie. A stabilirlo una storica sentenza del TAR del Piemonte, pubblicata a febbraio di quest’anno e passata decisamente in sordina, la quale ha riconosciuto tali dati epidemiologici come “informazioni ambientali” a cui la Pubblica amministrazione deve consentire l’accesso. La decisione deriva da un ricorso promosso dal Coordinamento lecchese rifiuti zero contro l’Università degli Studi di Torino. Quest’ultima, anni fa, aveva evidenziato l’assenza di correlazione tra aree di residenza e patologie riconducibili all’esposizione di emissioni inquinanti. Il Coordinamento aveva quindi avanzato una richiesta di accesso alle informazioni usate dall’Università per giungere a tale conclusione. Dall’Ateneo nessuna risposta, da cui quindi, il ricorso vinto.

La vicenda ha inizio con la pubblicazione di un articolo scientifico su Epidemiologia e Prevenzione, in cui l’autore Cristiano Piccinelli si firma quale collaboratore del Dipartimento di scienze cliniche e biologiche dell’Università degli Studi di Torino. L’articolo fa riferimento ad un altro studio epidemiologico condotto dall’Ateneo con le Agenzie di tutela della salute della Brianza su mandato dei sindaci dei Comuni di Lecco. Lo studio riguarda gli effetti sulla salute dei residenti delle emissioni provenienti dall’inceneritore gestito a Valmadrera (LC) della società pubblica Silea Spa, responsabile di quasi 100mila tonnellate di rifiuti bruciati nel 2022. Per verificare la correttezza delle conclusioni, le quali non correlavano aree di residenza e insorgenza di patologie riconducibili all’esposizione di inquinanti, il Coordinamento lucchese rifiuti zero, impegnato da anni per la tutela dei cittadini dai possibili effetti dannosi dell’incenerimento dei rifiuti lecchesi, ha richiesto all’Università l’accesso alle informazioni ambientali utilizzate per la ricerca.

L’Università però non ha dato nessun riscontro e così l’associazione ha deciso di ricorrere al Tar Piemonte a settembre 2022. L’ateneo si è opposto sostenendo che i dati richiesti dall’associazione non erano soggetti al diritto d’accesso in quanto erano personali, “sensibili” e non qualificabili come “informazioni ambientali”. Tuttavia, i giudici hanno ritenuto che «i dati relativi alle coorti di popolazione posti alla base di uno studio epidemiologico sugli effetti delle emissioni di una discarica di rifiuti costituiscono a pieno titolo informazione ambientale strettamente connesse con i riferimenti appena richiamati. I dati relativi alla popolazione oggetto di studio sono pertanto direttamente connessi sia con i fattori ambientali che con lo stato di salute e sicurezza umana di cui all’art. 2, comma 1 lett. a) del decreto legislativo 195/2005 e sono riconducibili alla nozione di informazione ambientale».

L’Università è stata quindi condannata a fornire i dati, tutelando la riservatezza delle persone fisiche cui si riferiscono con anonimizzazione e pseudonimizzazione. Si tratta di un precedente storico che potrebbe permettere a cittadini ed associazioni, spesso in lotta contro l’aumento di inceneritori, di poter realizzare in proprio degli studi sugli effetti particolari di impianti o sorgenti ambientali, sfruttando la sentenza del Tar Piemonte. [di Roberto Demaio]

Gli Animali.

Mucche troppo rumorose e fattorie puzzolenti: boom di denunce in Francia. Storia di Massimo Balsamo su Il Giornale lunedì 4 dicembre 2023.

Una grande piaga affligge i tribunali della Francia: le denunce dei neo-rurali contro contadini e allevatori. Secondo i dati resi noti dal sindacato degli agricoltori FNSEA, attualmente sono in corso 480 cause di ogni tipo: tra le motivazioni più comuni, le mucche muggiscono troppo forte, il rumore delle galline all’alba o delle mietitrebbie e l’odore troppo forte degli animali. Un fenomeno in aumento esponenziale dal 2020 in poi: complice la pandemia da Covid-19, sempre più francesi hanno deciso di trasferirsi in campagna per allontanarsi dal caos e abbracciare vita sana e aria fresca. Ma non è tutto rose e fiori.

Uno dei tanti esempi è stato riportato da France Bleu: nel 2022, un allevatore di mucche di Saint-Aubin-en-Bray (Oise) è stato condannato a risarcire 110 mila euro di danni a resi residenti locali che da dieci anni si lamentavano del rumore e dell’odore proveniente dalla sua fattoria. Un caso che scatenò parecchie polemiche, con tanto di manifestazioni e cortei a sostegno dell’agricoltore. Altro tema di discussione è l’utilizzo di pesticidi in prossimità delle abitazioni: a Vetheuil (Val d’Oise) da cinque anni va avanti uno scontro che vede coinvolti un contadino e un suo vicino di casa, preoccupato per l’utilizzo di agrofarmaci.

Ma la politica è al lavoro per salvaguardare i contadini: l’Assemblea nazionale francese discuterà un disegno di legge che si pone l’obiettivo di proteggere le attività agricole e così alleggerire il carico dei tribunali. Con questo nuovo provvedimento presentato dal ministero della Giustizia, si mira a ridurre drasticamente le possibilità di denuncia da parte dei neorurali.“C’è un aumento delle controversie nelle zone rurali e per questo è necessario ricordare le regole del gioco”, la sottolineatura dell’avvocato Timothée Dufour ai microfoni di RMC: “Si tratta di proteggere le attività preesistente all’arrivo dei ricorrenti”.

“Coloro che vengono a stabilirsi nelle zone rurali non possono pretendere che i contadini, che sono lavoratori che ci danno da mangiare, cambino il loro modo di vivere”, il monito del ministro Eric-Dupond Moretti. Contadini e allevatori saranno dunque tutelati all’interno dei loro confini, a prescindere dalle lamentele dei vicini infastiditi da rumori e odori. L’indirizzo è chiaro: sempre nel rispetto delle norme vigenti, gli agricoltori hanno il diritto di continuare a lavorare e, volendo, di rinnovare le infrastrutture. Sta dunque per terminare l'epoca del vicino capriccioso, che immaginava la campagna solo come silenzio, relax e cibo chilometro zero.

Estratto dell’articolo di Man. Cos. per “Libero Quotidiano” il 29 giugno 2023.

Era una delle più grandi leggende legate, in qualche modo, alla questione dell’inquinamento mondiale, anche se ai tempi si calcava più che altro sul fantomatico “buco dell’ozono” - vale a dire la riduzione dello spessore dello strato di ozono nell’atmosfera terrestre, fascia che ci protegge dai raggi ultravioletti, e dunque assottigliandosi ci esporrebbe alle conseguenze del cosiddetto “effetto serra”. Ma sì, quello che oggi viene comunemente definito “riscaldamento globale”.

Ecco, si diceva che fra le cause principali della riduzione dell’ozono ci fossero nientemeno che le flatulenze dei bovini. In sostanza, i peti del miliardo e 300 milioni di bovini presenti al mondo sarebbero responsabili anche del cambiamento climatico. In realtà, la tesi è stata oltremodo ridimensionata, ma evidentemente è rimasta particolarmente evocativa.

Basti pensare che l’Irlanda […] potrebbe abbattere quasi 200mila mucche nei prossimi tre anni, e proprio per combattere così dicono, così credono- il cambiamento climatico. Per adesso è una proposta, sia pur avanzata dal dipartimento dell’Agricoltura di Dublino, preoccupato che il Paese rispetti gli obiettivi climatici dell’Unione europea, in base ai quali Dublino dovrà ridurre del 30% le sue emissioni di Co2 entro il 2030 rispetto ai livelli del 2005. E da che cosa cominciano? Dall’abbattimento delle mucche.

Come detto, i bovini in Irlanda sono una cosa seria, altroché: secondo stime ufficiali, ci sarebbero 2,5 milioni di bovini per la produzione di latticini e carne. Una produzione che rappresenta ben i due terzi di quella dell'intero comparto agricolo irlandese, e il 90% delle esportazioni agroalimentari. Questo business è cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni: tra il 2013 e il 2022, le mucche da latte presenti nel Paese sono aumentate di ben il 40%. E con loro, secondo il dipartimento dell’Agricoltura, sarebbero cresciute anche le emissioni inquinanti. Tanto che «nei prossimi tre anni- così scrive- dovrebbero essere ritirate dal mercato circa 65.000 vacche da latte all’anno».

E gli allevatori, poveri? Per loro si tratterebbe di incassare un indennizzo di 3mila euro per ogni capo abbattuto. Una proposta che però al settore non piace proprio. […]

Gli allevamenti bovini non sono inquinanti: la lobby degli allevamenti vince a Bruxelles. Roberto Demaio su L'Indipendente il 12 Luglio 2023 

L’Eurocamera ha deciso di escludere gli allevamenti di bovini dalla direttiva UE sulle emissioni industriali e di abbassare i requisiti anche per quelli di suini e pollame. Nonostante le stime dell’Agenzia europea per l’ambiente sulle emissioni di metano provocate dagli allevamenti intensivi, passa la linea di difesa sostenuta da partiti di destra e liberali: non equiparare le grandi stalle alle grandi industrie. Secondo la difesa sarebbe errato paragonare le emissioni derivanti dagli allevamenti a quelle industriali perché il metano sarebbe riassorbito dalle piante e perché applicare ulteriori restrizioni aumenterebbe le importazioni da Paesi terzi che non sempre rispettano rigorosamente l’ambiente. Le associazioni ambientaliste invece non sono d’accordo e sostengono che la decisione permetterà di continuare ad inquinare “la nostra aria, il suolo e l’acqua”. Gli allevamenti intensivi sono stati anche legati al fenomeno della deforestazione e pongono problemi igienico-sanitari ed epidemiologici non indifferenti.

Con 396 voti a favore, 102 contrari e 131 astenuti, gli eurodeputati hanno adottato la posizione negoziale sulla direttiva, sostenendo l’obiettivo proposto dalla Commissione europea di includere nei nuovi obiettivi di riduzione delle emissioni miniere e grandi impianti che producono batterie. Ma sugli allevamenti di bestiame su larga scala la posizione è stata diversa: si è votato per mantenere l’esenzione dalla regolamentazione per gli allevamenti con meno di 2000 suini (o 750 scrofe) e 40 mila esemplari di pollame. A differenza da quanto proposto dalla Commissione, gli allevamenti di bovini sono stati invece esclusi dalla direttiva. La decisione sembrerebbe in antitesi rispetto al piano del Green Deal europeo: secondo l’Agenzia europea per l’ambiente, il settore zootecnico da solo è responsabile del 54% di tutte le emissioni di metano di origine antropica dell’UE, soprattutto a causa dei bovini. Gli allevamenti sono responsabili del 73% dell’inquinamento idrico dell’agricoltura. Quelli intensivi invece sono responsabili del 94% delle emissioni di ammoniaca e, in Italia, costituirebbero la seconda causa di formazione di polveri sottili, che sarebbero responsabili di circa 50mila morti premature ogni anno nel nostro paese. Secondo Greenpeace le misure bocciate avrebbero riguardato meno del 2% degli allevamenti più inquinanti dell’Unione.

La decisione dell’Eurocamera e l’opposizione dei partiti di destra e liberali italiani è conferma del voto espresso anche a marzo 2023: il Consiglio dei ministri dell’Ambiente aveva approvato un testo di compromesso, con il voto contrario dell’Italia e del ministro Gilberto Pichetto Fratin. Il limite non più 150, ma 350 unità di bestiame adulto: quindi 350 bovini (stessa soglia per gli allevamenti misti), 875 maiali, 700 scrofe, circa 21.500 galline ovaiole o polli. Chi si è opposto alla decisione, insieme a Filiera Italia, al Comitato dei produttori Intercani Italia, Italiazootecnica e Assocarni, sostiene che è scientificamente errato paragonare le emissioni derivanti dagli allevamenti a quelle industriali poiché il metano prodotto sarebbe riassorbito in tempi rapidi dalle piante e rientrerebbe nel ciclo vitale. Secondo i produttori, la direttiva “comporterebbe un ingiustificato aggravio di costi a carico degli allevatori che rischierebbe di far scomparire un elevato numero di stalle con gravi impatti negativi sull’intero ecosistema agricolo”. Le caratteristiche rurali della produzione bovina “consentono la salvaguardia e la tutela del territorio, prevenendo il dissesto idrogeologico e l’abbandono delle aree marginali grazie alla presenza costante dell’allevatore/ agricoltore”. Per il presidente di Confagricoltura, Massimiliano Giansanti, il voto degli eurodeputati rappresenta “una decisione di grande rilievo per le prospettive della zootecnia italiana ed europea”. Giansanti ha dichiarato: «Qualsiasi contrazione del potenziale produttivo europeo determina l’aumento delle importazioni dai Paesi terzi dove non sempre vigono regole rigorose come quelle dell’Ue in materia di protezione dell’ambiente».

Le associazioni ambientaliste invece non sono d’accordo. Greenpeace Europa ha dichiarato che “gli allevamenti di bovini più grandi e più tossici, così come migliaia di allevamenti di suini e polli, potranno continuare a inquinare la nostra aria, il suolo e l’acqua”. Secondo Federica Ferrario di Greenpeace Italia, la decisione rappresenterebbe “un danno enorme per l’agricoltura sostenibile che premia gli allevamenti intensivi e inquinanti che distruggono gli ecosistemi, creando un danno per le realtà più piccole, sempre più penalizzate dalle politiche europee”. Gli allevamenti intensivi sono stati anche legati al fenomeno della deforestazione e, quindi, a numerose conseguenze sul clima e sulla salute dell’uomo. Inoltre, concentrazioni così elevate di animali allevati in condizioni igienico-sanitarie non ottimali pongono problemi anche dal punto di vista epidemiologico: come indicato anche in uno studio del 2021 pubblicato sulla rivista Nature, soprattutto negli ultimi 30 anni, gli animali da allevamento sono stati al centro di molteplici epidemie, tra cui l’aviaria e l’influenza suina, col serio rischio che queste malattie evolvano e passino con più facilità alla diffusione tra esseri umani. [di Roberto Demaio]

Le Nazioni.

Estratto da lab24.ilsole24ore.com mercoledì 4 ottobre 2023.

[...] Nel 2021 le emissioni globali di CO2 sono rimbalzate e del 5,3% rispetto al 2020, restando appena dello 0,36% al di sotto dei livelli del 2019. Cina, Stati Uniti, Ue, India, Russia e Giappone sono le economie che emettono più CO2 al mondo. Insieme, rappresentano il 49,2% della popolazione mondiale, il 62,4% del Pil globale, il 66,4% del consumo di combustibili fossili e il 67,8% delle emissioni globali di CO2 fossile. Tutti e sei hanno aumentato le emissioni di CO2 nel 2021 rispetto al 2020. 

Le emissioni dell’Unione europea sono aumentate del 6,5% nel 2021, da un livello eccezionalmente basso nel 2020 a causa dei blocchi causati dalla pandemia di Coronavirus. Tuttavia, l’anno scorso le emissioni dell’UE sono diminuite del 5% rispetto al 2019. Ciò mette la Ue sulla strada per raggiungere il proprio obiettivo di ridurre le emissioni del 55% entro la fine di questo decennio.

La Cina è di gran lunga il Paese che ne produce di più: il 33% del totale nel 2021. Da sola, supera la somma delle quattro economie che la seguono: Stati Uniti (12,5%), Unione Europea (7,3%), India (7%) e Russia (5%). Pechino punta a raggiungere il picco di emissioni «prima del 2030»: significa che non smetterà di aumentarle per diversi anni ancora. 

La classifica cambia radicalmente se si considerano le emissioni pro-capite, un criterio non troppo significativo, che inevitabilmente premia i Paesi più popolati. In questo caso, gli Stati Uniti superano la Cina. [...]

Le città.

(ANSA il 26 giugno 2023) - "L'inquinamento dell'aria continua a rappresentare uno dei principali problemi ambientali soprattutto in ambito urbano". E' quanto afferma l'Istat nel rapporto 'Noi Italia' in cui precisa che nel 2022 il 37% delle famiglie percepisce come inquinata l'aria della zona dove risiede, quasi un quinto delle famiglie lamenta invece la presenza di odori sgradevoli.

Rispetto al 2021, aumenta di 2,2 punti percentuali la quota di famiglie che lamentano l'inquinamento dell'aria, e di 1,6 punti percentuali la percezione di odori sgradevoli nella zona dove si risiede. Nel 2022, in Italia, l'Istat stima un rialzo dello 0,9% delle emissioni di gas serra totali. I dati del 2021 indicano una crescita delle emissioni complessive di gas serra del 6,2% (dai 381.248 migliaia di tonnellate CO2 equivalente del 2020 a circa 404.849), da imputare alla riapertura delle attività economiche e alla ripresa della mobilità post Covid.

L'8,1% delle emissioni è da attribuire ai processi industriali (-8,6% rispetto al 2019 e -23,2% rispetto al 1990), l'8,6% al settore agricoltura (-11,4% rispetto al 1990) e il 4,9% al settore rifiuti (+7,7% rispetto al 1990), a causa dell'aumento delle emissioni da smaltimento in discarica (16,8%), che rappresentano il 76,6% delle emissioni dei rifiuti.

La Padania.

Anna contro Eva. Report Rai PUNTATA DEL 03/12/2023 di Chiara De Luca

Ogni giorno in Valle Stura circa 1000 tir attraversano il centro di alcuni comuni montani.

Report è tornata per vedere come è cambiata la situazione in Valle Stura, dove ogni giorno circa 1000 tir attraversano il centro di alcuni comuni montani. Sono diretti per il 70 per cento allo stabilimento di Acqua Sant’Anna e per il 30 per cento in Francia. Proprio il management dell’azienda che produce il noto marchio acqua Sant’Anna è protagonista di una vicenda giudiziaria. Tutto ruota intorno a un articolo secondo cui il brand Acqua Eva sarebbe stato di proprietà della Lidl. Una notizia falsa, che però ha allarmato il mondo della grande distribuzione.

- Le risposte del dott. Moscato

- Le risposte della società Red Circle

- Le risposte di Coop Alleanza 3.0

 

- Le risposte del dott. Moscato

Da: Inviato: A: Oggetto: Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Gentili signori, per conto del sig. Moscato, mio assistito, riscontro la vostra e-mail del 9 novembre u.s. Il mio assistito mi chiede di rendervi alcune precisazioni rispetto alla sua posizione nella vicenda Acqua Eva/Acqua Sant’Anna. In primo luogo, occorre precisare che il sig. Moscato non è parte del procedimento che vede imputati il dott. Bertone ed il dott. Cheri e che, nel processo in corso, è stato sentito in qualità di testimone. Conseguentemente, il sig. Moscato non ha riportato alcuna condanna per i fatti oggetto del procedimento penale, né la riporterà avendo il medesimo definito la propria posizione in via definitiva. Il sig. Moscato è stato dipendente di Acqua Mia, società controllata da acqua Sant’Anna ed il suo rapporto lavorativo è cessato nel 2019 a seguito di dimissioni. Va ancora precisato che in passato il sig. Moscato ha creato diversi blog che trattavano tematiche politiche e che in relazione a tali pagine virtuali il mio assistito ha ricevuto alcune minacce anche gravi. Conseguentemente, il sig. Moscato si era determinato a far apparire un nome diverso dal proprio quale intestatario dei siti al fine di tutelare la propria persona. La circostanza che il sito web mercatoalimentare.net creato dal sig. Moscato fosse formalmente intestato alla nonna deceduta è quindi riconducibile a tale necessità. Tale impostazione era stata salvata in automatico sul sito di Aruba, servizio di hosting presso cui il mio assistito ha registrato il dominio in questione, ed il sig. Moscato non ha semplicemente e prontamente percepito che il dominio fosse stato registrato con il nominativo della familiare deceduta. Si tratta di un disallineamento del tutto fortuito ed involontario. Quanto all’utilizzo della “carta di credito emessa da un istituto bancario londinese”, trattasi di semplice carta prepagata online, di quelle emesse a costo zero, non dissimile da molte altre carte prepagate emesse da istituti virtuali analoghi (per chiarire, l’istituto ad aver emesso la prepagata del sig. Moscato è ePayments Ltd, banca online piuttosto nota). Occorre ancora precisare che la carta prepagata di cui sopra, utilizzata dal sig. Moscato per l’acquisto del dominio “mercatoalimentare.net”, era chiaramente intestata al medesimo ed il relativo conto bancario aperto mediante l’utilizzo dei propri documenti d’identità. Viene da sé che la condotta posta in essere dal sig. Moscato, su indicazioni - quanto ai contenuti da inserire sul sito - ricevute dal dott. Bertone e dal dott. Cheri, è priva di qualsivoglia intento dissimulatorio personale. A conferma di ciò l’immediata disponibilità del sig. Moscato a rendere dichiarazioni avanti alla Procura della Repubblica una volta appreso dell’esistenza dell’indagine. Tanto si ritiene di dover precisare in merito ai vostri quesiti, ogni ulteriore dichiarazione è stata già resa dal sig. Moscato nelle opportune sedi giudiziarie. Ritendo con ciò di avervi compiutamente riscontrato, vi invito ad evitare di contattare nuovamente il sig. Moscato non essendo il medesimo intenzionato ad apparire in video o su testate giornalistiche, a rilasciare dichiarazioni al di fuori delle competenti sedi giudiziarie, ritenendo che sia già stata riservata fin troppa attenzione ad un ragazzo di soli 27 anni (22 all’epoca dei fatti). Cordiali saluti. Federico Rosso Avv. Federico Rosso Federico Rosso lunedì 13 novembre 2023 11:08 [CG] Redazione Report R: RICHIESTA INFORMAZIONI - REPORT RAI 3 Redazione Report RAI Via Teulada, 66 - 00195 Roma (RM)     Egregio Sig. Davide Moscato Email: Gentilissimo Sig. Moscato, in una delle prossime puntate di Report, in onda su Rai 3, ci occuperemo della vicenda giudiziaria scaturita dalla pubblicazione dell’articolo “Acqua Eva è un brand di proprietà Lidl?” Diffuso nel 2018 sul sito mercatoaliementare.net e che paventava ipotetici rapporti societari tra Fonti Alta Valle Po S.p.A e il gruppo Lidl. Secondo quanto emerso dalle indagini, tale articolo sarebbe stato scritto da lei, sotto indicazioni del dottor Alberto Bertone, presidente e amministratore delegato di Acqua Sant’anna, e del dottor Luca Cheri, direttore commerciale di Acqua Sant’Anna. Dal momento che non ha voluto concederci un’intervista, per dare al nostro pubblico una corretta e completa informazione avremmo bisogno di alcune informazioni. Nel 2018, quando ha pubblicato l’articolo, lei era dipendente di Acqua Mia, società controllata da acqua Sant’Anna? Inoltre, dall'indagine emerge che il sito web sia stato creato da lei, che sia stato intestato a sua nonna deceduta e che il dominio sia stato pagato con una carta di credito emessa da un istituto bancario londinese. Ci può confermare queste informazioni? A che scopo ha utilizzato queste modalità? Quando si è concluso il suo rapporto lavorativo con le società riconducibili ad Alberto Bertone e perché? Ci risulta che l’azienda riconducibile al dottor Bertone controllasse i suoi spostamenti attraverso un gps, per quale motivo? Infine, ci risulta che lei dopo il rinvio a giudizio abbia richiesto la messa alla prova. Ci può confermare questa informazione? Restiamo a disposizione al numero di redazione ************ o al numero dell’autrice del servizio Chiara De Luca ********* Per motivi di produzione le chiediamo, gentilmente, una risposta entro mercoledì 15 novembre pv. Certi di sua cortese risposta, distinti saluti Redazione Report/Rai 3
 

- Le risposte della società Red Circle

Press Red Circle [RC0007] lunedì 13 novembre 2023 14:16 [CG] Redazione Report FW: RICHIESTA INFORMAZIONI - REPORT RAI 3 Da: Inviato: A: Cc: Oggetto: Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Spettabile Redazione di Report, rispondiamo alla vostra e-mail dell’8 novembre scorso a OTB Corporate Communication che ce l’ha inoltrata, confermando che, a più riprese, nel corso del 2018 e del 2019, Red Circle Investments, guidata da un management diverso da quello attuale, ha negoziato la possibile acquisizione di una partecipazione in Fonti Alta Valle Po S.p.A. In quel periodo, infatti, Red Circle Investments ha condotto trattative con diverse società operanti nel settore delle acque minerali in cui era interessata ad investire. Non è però corretto affermare che le trattative con la Fonti Alta Valle Po S.p.A. si sono interrotte nel 2018 a causa della diffusione dell’articolo che citate nella vostra mail. Pur confermando che a suo tempo Red Circle Investments era venuta a conoscenza dell’articolo e ne aveva dato notizia a controparte, precisiamo che le trattative furono interrotte nel 2018 non in ragione di tale circostanza, ma perché non era stato possibile raggiungere un accordo sulla struttura dell’operazione, come comunicato a Fonti Alta Valle Po S.p.A. e come dimostrato dal fatto che le trattative sono riprese a maggio 2019 per poi concludersi definitivamente dopo alcuni mesi a causa della perdurante impossibilità di trovare un accordo su elementi fondamentali dell’operazione, inclusa la valutazione della società. A causa del tempo intercorso e di cambiamenti avvenuti nel nostro organico, non è possibile ricostruire le esatte modalità con cui Red Circle Investments era venuta a conoscenza dell’articolo in questione e chi lo aveva segnalato. Infine, considerato che Red Circle Investments è del tutto estranea alla vicenda giudiziaria di cui vi state occupando, auspichiamo vogliate evitare riferimenti alla nostra società nel servizio che state preparando e vi chiediamo cortesemente di informarci, in ogni caso, della vostra decisione a riguardo prima della messa in onda del servizio. Cordiali saluti, Red Circle Investments Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Tel. +39 06 36866393 Email: Website: report.rai.it Spett. le Ufficio Stampa AOTB Corporate Gentilissimi, vi contattiamo dalla redazione di Report, un programma in onda su Rai3. In una delle prossime puntante ci occuperemo della vicenda giudiziaria che ha coinvolto la società Fonti Alta Valle Po S.p.A. La società sarebbe stata oggetto di un articolo diffamatorio che paventava ipotetici rapporti societari tra la stessa e il gruppo Lidl. A seguito della conversazione telefonica avuta con la dott.ssa Arianna Alessi, in cui emerge che non è possibile realizzare un’intervista al dott. Renzo Rosso, vi chiediamo, per dar al nostro pubblico una corretta e completa informazione, di confermarci cortesemente alcune informazioni. In particolare, ci risulta che nel 2018 la Red Circle Investments, prima della diffusione di tale articolo, fosse interessata alla società Fonti Alta Valle Po S.p.A, proprietaria del marchio Acqua Eva, e che poi a causa della diffusione dell’articolo “Acqua Eva è un brand di proprietà della lidl?”, inviato da un concorrente della società Fonti Alta Valle Po S.p.a, abbia interrotto la trattativa che era in corso. Vi chiediamo, inoltre, se potete indicarci chi è il competitor che vi ha inviato l’articolo. Per qualsiasi informazione potete contattare la giornalista Chiara De Luca al numero *********. Per esigenze di produzione, vi chiediamo cordialmente una risposta entro mercoledì 14 novembre pv. In attesa di un vostro riscontro, porgiamo cordiali saluti. Redazione Report

 

- Le risposte di Coop Alleanza 3.0

Da: Inviato: A: Oggetto: Silvia Mastagni <******@*****.coop.it> giovedì 16 novembre 2023 16:19 [CG] Redazione Report; R: RICHIESTA INFORMAZIONI - REPORT RAI 3 Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Gentile redazione, per rispondere alla vostra richiesta non essendoci una centralizzazione degli acquisti per questa tipologia di prodotto abbiamo verificato lo stato dell’arte a livello di singole cooperative. L’ Acqua Eva si trova attualmente sugli scaffali di tutte e 7 le grandi cooperative ad eccezione di Coop Alleanza 3.0. Le scelte di ridimensionare o in altri casi cessare gli approvvigionamenti delle acque fa parte di una prassi consolidata e fisiologica di ricambio di tipologie di acqua fra le meno vendenti; dunque, è dovuta a ragioni di ordine commerciale. Nel caso specifico da voi citato di Unicoop Firenze non c’è stata invece alcuna interruzione dei rapporti. Silvia Mastagni Coordinamento comunicazione Coop Responsabile Ufficio Media e Pr Associazione Nazionale Cooperative Consumatori - COOP Via G.A. Guattani, 9 - 00161 Roma Rispetta l’ambiente: se non è necessario, non stampare questa mail Da: [CG] Redazione Report <***********@rai.it> Inviato: giovedì 9 novembre 2023 12:22 A: Silvia Mastagni <*******@*****.coop.it>; Oggetto: RICHIESTA INFORMAZIONI - REPORT RAI 3 Per garantire una migliore tutela della privacy, Microsoft Office ha impedito il download automatico di questa immagine da Internet. Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Email: redazionereport@rai.it Website: report.rai.it Spett. le Ufficio Stampa c.a dott.ssa Silvia Mastagni, Gentilissima dottoressa Mastagni, la contattiamo dalla redazione di Report, in onda su Rai3. In una delle prossime puntante ci occuperemo della vicenda giudiziaria che ha coinvolto la società Fonti Alta Valle Po S.p.A, che detiene il marchio acqua Eva. La società sarebbe stata oggetto di un articolo diffamatorio “Acqua Eva è un brand di proprietà Lidl?” che paventava ipotetici rapporti societari tra la stessa e il gruppo Lidl. Per dare al nostro pubblico una corretta e completa informazione, avremmo bisogno di alcune informazioni. Ci risulta che a seguito della pubblicazione del suddetto articolo, le reti di supermercato dell’Italia centrale Unicoop Firenze e Centrale Adriatica abbiano cessato i propri rapporti commerciali con la società Fonti Alta Valle Po S.p.a e che i supermercati che avrebbero tolto acqua Eva dai propri scaffali a partire dal 2018 siano in tutto 560, potete confermarci questa informazione? I contratti sono stati disdetti o non rinnovati? Vorremmo sapere come mai avete cessato tali rapporti commerciali e per quanto tempo. Per qualsiasi informazione potete contattare la giornalista Chiara De Luca al numero**********. Per esigenze di produzione, vi chiediamo cordialmente una risposta entro mercoledì 15 novembre pv. In attesa di un vostro riscontro porgiamo cordiali saluti. Redazione Report
 

ANNA CONTRO EVA” Di Chiara De Luca Immagini di Dario D’India, Paco Sannino Montaggio e grafica Michele Ventrone SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora vediamo invece chi è che ha nascosto la propria identità dietro a una guerra commerciale per le acque.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Siamo in Bassa Valle Stura, in provincia di Cuneo. Qui ogni giorno 1000 tir attraversano il centro di alcuni Comuni montani…

PERSONA È una vergogna. Lo vogliono loro questo.

PERSONA Se ci incastriamo, poi bisognerebbe fare un’altra strada per far passare tutti i camion.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Una parte dei tir, circa il 30 per cento, è diretta in Francia. Qui, infatti, c’è il valico internazionale della Maddalena, uno dei valichi che collega l’Italia con la Francia, in cui non si paga il pedaggio.

CHIARA DE LUCA Scusi dove va?

PERSONA In Francia.

CHIARA DE LUCA Ma perché fa questo percorso e non quello a pagamento?

PERSONA Si è già data la risposta da sola.

CHIARA DE LUCA Quanto costa fare quello alternativo? PERSONA Eh beh il tunnel sono più di 300 euro.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il risultato del passaggio dei Tir è spesso questo.

PERSONA Un camion ha tranciato una macchina.

PERSONA Noi eravamo messi qua di lato per far passare il camion che si è allargato e poi ha iniziato a stringere per passare fino a quando ci ha trascinato con sé.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO L’altra parte dei tir, il 70 per cento va e viene dallo stabilimento di Acqua Sant’Anna. Questi tir attraversano la Valle, passano per i centri storici dei comuni di Demonte, Aisone, fino a raggiungere Vinadio dove ha sede lo stabilimento di Acqua Sant’Anna. Il loro costante passaggio rende impossibile la vita in Valle.

PERSONA Dieci anni fa ero già in giro avanti e dietro con la mascherina.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Demonte i 1000 tir passano proprio all’interno del centro storico delimitato su entrambi i lati da portici medievali, che a causa della loro conformazione trattengono lo smog.

PERSONA È pieno di nero guardi. Lo respiriamo tutti i giorni purtroppo.

PERSONA Dai nostri balconi, dalle nostre porte, dai davanzali delle finestre, tutti i giorni togliamo questa roba.

PERSONA La polvere brucia perfino la tenda.

CHIARA DE LUCA Quelle polveri li sono potenzialmente cancerogene?

IVO PAVAN - CHIMICO E IGIENISTA INDUSTRIALE Esatto, sono polveri cancerogene. La polvere nera è l’effetto dei gas di scarico dei motori a diesel.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E le emissioni sono talmente alte che nel piccolo centro di Demonte, secondo Arpa si respira la stessa aria che si respira in una città come Torino che è tra le più inquinate d’Italia.

PERSONA Ma anche solo questione di rumore, io di notte sentivo il rumore del Cant adesso sento solo rumore dei camion.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Le vibrazioni dei tir, poi, minano anche la solidità dei palazzi e si è cercato negli anni di correre ai ripari con questi rinforzi posizionati sotto i portici di Demonte che sono tra l’altro vincolati dalla soprintendenza. Siamo ritornati in Valle Stura a distanza di due anni esatti…

CHIARA DE LUCA È cambiata la situazione?

LORRIS EMANUEL - PRESIDENTE UNIONE MONTANA VALLE STURA No, sono aumentati ancora un po’ di più i tir collegati al valico internazionale. L’ Acqua Sant’Anna ha fatto anche una scelta commerciale quella di puntare sul basso prezzo e dunque sulla quantità per poter generate utili.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO È che ci sia un peggioramento lo si percepisce soprattutto dalla desolazione che c’è nella valle… PERSONA Adesso non c’è più nessuno sotto i portici; non c’è più nessuno.

PERSONA Demonte è spopolato. Negozi ce ne sono pochi, pochissimi diciamo, che c’è una panetteria, la macelleria…

CHIARA DE LUCA Prima ce ne erano di più? PERSONA Uhh era pieno… tutto pieno.

ADRIANO BERNARDI - SINDACO DI DEMONTE (CN) Sopportiamo e sopportano una situazione che è comunque sempre più pesante, sempre meno facile accettare. Una difficoltà, di vivere la vita sociale all’interno di quello che è il cuore del paese.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Anche il piccolo comune di Aisone non se la passa meglio.

PERSONA Vedete? L’aria che si respira è sempre più inquinata.

PERSONA Qua i tavoli sono sempre neri, perciò, devi passarli due-tre volte al giorno. Pensate cosa respiriamo…

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Altro snodo sulla via dell’acqua è il comune di Gaiola dove i 1000 tir sono obbligati a passare sul già provato Ponte dell’Olla causando anche qui diversi problemi di viabilità… Negli anni passati infiltrazioni di acqua avevano causato il crollo di interi pezzi di ponte.

PAOLO BOTTERO - SINDACO DI GAIOLA (CN) Anas intende avviare un progetto di recupero conservativo del ponte e un allargamento del medesimo.

CHIARA DE LUCA Quindi è il ponte che si deve adattare al passaggio di questi tir.

PAOLO BOTTERO - SINDACO DI GAIOLA (CN) Sì, questa è un’assurdità perché evidentemente questo ponte non può essere pensato come alternativa alla viabilità.

CHIARA DE LUCA Salve, Dottor Bertone buongiorno, sono Chiara De Luca una giornalista di Report, ci eravamo già sentiti all’epoca.

ALBERTO BERTONE - PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO ACQUA SANT’ANNA Di?

CHIARA DE LUCA Report, Rai3. Le rubiamo veramente un minuto, non entri perché sennò non posso riprenderla, le rubo veramente un minuto. Le volevo chiedere della Valle Stura, siamo ritornati lì, la situazione è veramente drammatica. Quale uomo d’affari lei che utilizza tutte le risorse della valle, quelle più importanti, non ritiene che vada tutelata?

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il presidente e amministratore delegato di acqua Sant’Anna, per non rispondere alle nostre domande si fa accompagnare in uscita sul retro. CHIARA DE LUCA Dottor Bertone si fa accompagnare sul retro per non risponderci? Le chiediamo solo di rispondere a qualche domanda. Noi siamo ritornati a Demonte. È una situazione drammatica anche i suoi tir che sono la maggior parte circa il 70 per cento, stanno contribuendo, in qualche modo, a rovinare tutta quella splendida valle. Lei che acquisisce quelle risorse non si sente in dovere di tutelarla? Ci può rispondere almeno sulla valle dottor Bertone? Non ha nulla da dire? Non ha nulla da dire ai cittadini della valle Stura?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora il manager di Acqua Sant’Anna Alberto Bertone, con noi non parla. È un po’ imbarazzato. Anche perché il 70% di quei tir che avete visto insomma, trasporta acqua, gran parte proprio bottiglie di Acqua Sant’Anna. Ecco e lo sfruttamento delle risorse idriche di quel posto porta ricavi per 300 milioni di euro l’anno; questo solo nel 2022, per un utile di 26 milioni di euro a fronte di un pagamento del canone di 2 milioni di euro l’anno. Ecco, siamo tornati in quei paesi della valle Stura a distanza di due anni. La nostra Chiara De Luca ha visto, insomma, che non è che la situazione sia migliorata. Anzi, è peggiorata. I cittadini sono stressati dall’inquinamento e dalle vibrazioni del passaggio dei tir. E stanno anche aspettando che venga risolta, venga trovata una variante che è bloccata da decenni perché c’è insomma, un vecchio fortino, il forte della Consolata, che è vincolato dai Beni Culturali. Allora, quell’area, la zona del cuneese, è un‘area ricchissima di sorgenti d’acqua. Ci sono vari interessi, ecco. E può accadere che all’insaputa dei consumatori possa avvenire una guerra commerciale senza esclusione di colpi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Piemonte è una delle Regioni italiane dove viene imbottiglia più acqua minerale. 90 sono le fonti da cui viene attinta, 39 le concessioni e 13 le aziende imbottigliatrici. La maggior parte delle estrazioni avviene nella provincia di Cuneo dove ci sono 6 stabilimenti. Tra questi, oltre a quello del colosso e leader del settore in Italia Acqua Sant’Anna, c’è anche la più piccola e meno nota Acqua Eva…

GUALTIERO RIVOIRA - AMMINISTRATORE DELEGATO FONTI ALTA VALLE PO Acqua Eva, oggi la sorgente roccia azzurra è l’acqua più alta d’Europa con un residuo fisso molto basso. La prima bottiglia di Acqua Eva è stata imbottigliata a ottobre 2010, quindi 13 anni fa.

CHIARA DE LUCA È un’acqua appetibile sul mercato?

GUALTIERO RIVOIRA - AMMINISTRATORE DELEGATO FONTI ALTA VALLE PO È molto appetibile sul mercato, perché le acque demineralizzate si trovano principalmente a nord dell’Italia, nella zona del Piemonte…

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Così tanto appetibile da finire nel mirino di Alberto Bertone, fondatore, presidente e amministratore delegato di Acqua Sant’Anna. Nel 2009 Bertone era in lizza per diventare uno dei soci proprio dell’azienda che detiene il brand Acqua Eva, ma alla fine furono coinvolti i cugini Rivoira che poi nel 2018 acquisiscono la maggioranza delle quote.

GUALTIERO RIVOIRA - AMMINISTRATORE DELEGATO FONTI ALTA VALLE PO Alberto Bertone io ho avuto già modo di incontrarlo diverse volte, abbiamo fatto dei pranzi e colazioni di lavoro; ci siamo incontrati in regione o in provincia, insomma c’è sempre stato un rapporto io pensavo tra piemontesi; è vero che siamo concorrenti però insomma…

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Quel dubbio che insinua Gualtiero Rivoira nasconde la guerra che il manager di Sant’Anna avrebbe condotto con armi non convenzionali. Il primo colpo basso è quando viene pubblicato un articolo dal titolo: “Acqua Eva è un brand di proprietà Lidl?”. La pubblicazione risale al 2018 sul sito mercatoaluimentare.net. “È la domanda che si stanno ponendo i buyer della grande distribuzione da alcune settimane…”

NICOLA MENARDO - AVVOCATO FONTI ALTA VALLE PO L’articolo attraverso un accostamento di notizie vere e considerazioni ambigue ipotizzava che attraverso la figura di uno dei soci storici di Acqua Eva, Lidl esercitasse un controllo su Acqua Eva, nulla di più errato.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Uno dei soci di Acqua Eva a essere citato nell’articolo è Norbeert Gasser, amministratore delegato di Fruit Service, che ci fa sapere di essere esclusivamente un fornitore di Lidl. L’articolo crea allarme tra i clienti della grande distribuzione, preoccupati che comprando Acqua Eva possano favorire il competitor Lidl.

NICOLA MENARDO - AVVOCATO FONTI ALTA VALLE PO Vengono richiesti alla società tramite incontri personali, telefonate o messaggi di posta elettronica dei chiarimenti dalla grande distribuzione organizzata.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Coopitalia allarmata invia una mail a Acqua Eva. “Abbiamo necessità con estrema urgenza di una nota ufficiale quale chiarimento su quanto riportato dall’inchiesta”.

GUALTIERO RIVOIRA - AMMINISTRATORE DELEGATO FONTI ALTA VALLE PO Abbiamo avuto un momento veramente di difficoltà. Su alcuni scaffali di alcuni grossi gruppi italiani, forse anche dei più grossi, automaticamente è stata tolta la nostra acqua è stata messa delle altre acque e anche delle acque della Sant’Anna.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La rete di supermercati Unicoop Firenze sospende la fornitura di Acqua Eva dal 2019 fino al 2021, mentre la grande cooperativa Coop Alleanza 3.0 toglie le bottiglie di Acqua Eva dagli scaffali dei propri punti vendita nel 2018 e da allora non sono mai più ritornate.

LUCA POMA – PROFESSORE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE - UNIVERSITÀ LUMSA ROMA Ovviamente gli altri supermercati dicono io non ho nessuna intenzione di tenere sullo scaffale un’acqua che è di proprietà di un mio concorrente e quindi levano Acqua Eva dagli scaffali con danni per milioni.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO 560 Supermercati in seguito a quell’articolo pubblicato sul blog, tolgono Acqua Eva dai loro scaffali. La società decide di fare una denuncia in Procura. Parte l’indagine e di apre il vaso di Pandora.

LUCA POMA – PROFESSORE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE - UNIVERSITÀ LUMSA ROMA Un’indagine che con grande sorpresa dopo un po’ di tempo conferma che questo articolo era stato costruito da persone interne ad Acqua Sant’Anna.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A scrivere l’articolo, sembrerebbe su indicazioni del patron Alberto Bertone e di Luca Cheri direttore commerciale di Acqua Sant’Anna è Davide Moscato, blogger e allora dipendente di Acqua Mia, società controllata da Acqua Sant’Anna, che confessa tutto alla procura di Cuneo.

DAVIDE MOSCATO – BLOGGER – DIPENDENTE ACQUA MIA RICOSTRUZIONE DICHIARAZIONI RESE NEL PROCEDIMENTO PENALE “Quando sono entrato in azienda nel 2018 ho iniziato a ricevere pressioni da Alberto Bertone e Luca Cheri […], volevano che io pubblicassi un articolo su Acqua Eva”.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Questi i messaggi WhatsApp che Bertone gli inviava.

MESSAGGI ALBERTO BERTONE – PRESIDENTE ACQUA SANT’ANNA “Ciao Davide non dovevi fare quella cosa di acqua Lidl? Da mandare su Facebook ai Buyer, i nomi dei buyer te li dà Luca”.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E ancora…

MESSAGGI ALBERTO BERTONE – PRESIDENTE ACQUA SANT’ANNA “Aspetto sempre Eva, sai che ci tengo”.

DAVIDE MOSCATO – BLOGGER – DIPENDENTE ACQUA MIA RICOSTRUZIONE DICHIARAZIONI RESE NEL PROCEDIMENTO PENALE “I messaggi che mi inviava Bertone per me erano molto pressanti dato che avvenivano in un contesto generale dell’azienda già piuttosto intimidatorio. L’articolo mi è stato dettato da Luca Cheri”.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Lo stesso direttore commerciale Luca Cheri in un messaggio WhatsApp invita Moscato alla cautela, c’è timore che possano essere scoperti.

MESSAGGIO LUCA CHERI – DIRETTORE COMMERCIALE ACQUA SANT’ANNA “Ciao Davide […] dovremmo prima condividere con […] il nostro legale e soprattutto essere sicuri di evitare riconducibilità a te per cui a fonti di Vinadio spa.”

DAVIDE MOSCATO – BLOGGER – DIPENDENTE ACQUA MIA RICOSTRUZIONE DICHIARAZIONI RESE NEL PROCEDIMENTO PENALE “L’ho pubblicato per tenerli buoni, ho creato ad hoc un blog vuoto che non aveva né visibilità esterna né traffico, il link dell’articolo non poteva essere visibile, se non divulgato. Io ho inviato il link dell’articolo solo a loro due”.

CHIARA DE LUCA Era consapevole che le informazioni, comunque avrebbero influenzato il mercato visto che erano false, dottor Bertone? CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per evitare che l’articolo fosse riconducibile a lui e dunque alla società, Moscato crea appositamente un blog il cui dominio risulterà intestato a sua nonna deceduta anni prima e per pagarlo utilizzerà una carta emessa da un istituto bancario londinese.

GUALTIERO RIVOIRA - AMMINISTRATORE DELEGATO FONTI ALTA VALLE PO Siamo rimasti veramente basiti. Sicuramente questa attività è stata fatta per danneggiarci e la cosa ben più grave è che Bertone subito dopo in due volte ha cercato di comperarci.

CHIARA DE LUCA Come mai avete diffuso quest’articolo? Quale era l’intento? Quello di acquisire la società, Acqua Eva il brand…

ALBERTO BERTONE - PRESIDENTE E AMMINISTRATORE DELEGATO ACQUA SANT’ANNA Non voglio parlare.

CHIARA DE LUCA Avete fatto in modo che non si risalisse a voi, addirittura avete scomodato un defunto. Cioè un po’ aggressivo come approccio soltanto per acquisire una società dottor Bertone. Visto che il sito web non era indicizzato; chi è che ha inviato questi articoli ai Buyer? Non ci dice nulla? Totale silenzio.

MESSAGGIO LUCA CHERI – DIRETTORE COMMERCIALE ACQUA SANT’ANNA “Sta venendo fuori un casino”.

DAVIDE MOSCATO – BLOGGER – DIPENDENTE ACQUA MIA “Lo Tolgo?”

MESSAGGIO LUCA CHERI – DIRETTORE COMMERCIALE ACQUA SANT’ANNA “No.”

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Moscato però successivamente si decide a rimuoverlo.

DAVIDE MOSCATO – BLOGGER – DIPENDENTE ACQUA MIA RICOSTRUZIONE DICHIARAZIONI RESE NEL PROCEDIMENTO PENALE “Mi sono accorto delle possibili conseguenze penali e civili solo quando ho ricevuto la diffida dei legali di Acqua Eva, mi sono spaventato e ho rimosso l’articolo. Sono stato trasferito in un magazzino, il mio ufficio era in un gabbiotto senza riscaldamento. Alla fine, mi sono licenziato”.

LUCA POMA – PROFESSORE DI MANAGEMENT REPUTAZIONALE - UNIVERSITÀ LUMSA ROMA Acqua Eva era un’azienda in forte crescita, c’erano anche degli accordi per internazionalizzare il marchio, c’è un nome importante dell’imprenditoria italiana che avrebbe acquistato una quota di Acqua Eva per lanciarla sul mercato internazionale. Forse questo è bastato?

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A voler internazionalizzare il marchio Acqua Eva sarebbe stata la Red Circle Investment di proprietà di Renzo Rosso, patron del noto marchio di abbigliamento Diesel. Ma l’accordo, anche per questo motivo viene sospeso… MAIL “Aggiungiamo che uno dei vostri competitors ci ha gentilmente informato che Acqua Eva è accusata di essere controllata da Lidl, non ci è chiaro con quali conseguenze relativamente al business stesso… Preferiamo sospendere il deal”.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, una guerra commerciale senza esclusione di colpi. I manager di Acqua Sant’Anna, Bertone e Cheri, avrebbero ispirato l’uscita online di un articolo nel quale tra notizie vere e quelle false, insomma, si insinuava un dubbio. Che la proprietà di Acqua Eva fosse in realtà del gruppo tedesco Lidl. Insomma, è falso però è stato sufficiente perché alcuni attori della grande distribuzione, insomma, andassero in autotutela. Togliessero dagli scaffali Acqua Eva. E nelle more anche Sant’Anna ha cercato di mettere le mani, di acquistare Eva in questo frangente. Poi che cosa accade? Che una volta denunciata la vicenda, una volta svolte le indagini, i manager Bertone e Cheri, sono finiti a processo con l’accusa di reato… con l’accusa di turbata libertà dell’industria, del commercio e diffamazione aggravata. Mentre il blogger Moscato che aveva pubblicato l’articolo, poi dopo la denuncia si è spaventato, insomma, ha ottenuto la sospensione del reato. E la Coop ci scrive invece che ha tolto Eva dagli scaffali per motivi commerciali, non certo per l’articolo. La Red Circle di Renzo Rosso che era interessata all’acquisto di Eva invece, che poi ha interrotto le comunicazioni, dice che è stato solamente perché non ha raggiunto un accordo. L’articolo non c’entra nulla. Però insomma, la Red Circle ci dice chi è quel competitor di Acqua Eva che ha segnalato l’articolo. È passato troppo tempo, se ne sono dimenticati. Insomma, però è certo che questa vicenda crea un grande imbarazzo a tutti.

Falda e faldoni. Report rai. PUNTATA DEL 29/10/2023

di Lucina Paternesi

Collaborazione di Giulia Sabella

Come è possibile che la Regione Veneto abbia permesso a un’azienda privata di interrare quei rifiuti a due passi dalle risaie?

Tra i 24 comuni del veronese in cui si coltiva il riso vialone nano, tra i più pregiati e l’unico insignito del marchio I.G.P. in Europa, c’è anche il piccolo comune di Sorgà, in provincia di Verona. Tra un campo di riso e l’altro, però, incombono le ruspe che hanno iniziato gli scavi per realizzare una discarica per rifiuti speciali non pericolosi: il “car fluff”, un pulviscolo contenente tutto ciò che non si può più riciclare dalle auto che rottamiamo. Come è possibile che la Regione Veneto abbia permesso a un’azienda privata di interrare quei rifiuti a due passi dalle risaie e dalle acque pure che inondano quei terreni? Il terreno su cui sorgerà la discarica è privato, l’azienda l’ha acquistato e ha iniziato a pagarlo prima di ottenere il via libero definitivo dalla Regione, nonostante la contrarietà della comunità locale. Ma non è l’unica stranezza. Secondo il progetto che l’azienda ha presentato alla Regione la falda acquifera si troverebbe ben al di sotto di dove si dovrà scavare; è toccato alla piccola amministrazione di Sorgà rifare tutti i rilievi sul terreno fino a che il Tar ha sospeso gli scavi e ora si dovrà pronunciare sul futuro della discarica e del piccolo Comune. Ma quanto è costato tutto questo?

Le risposte della società Cordifin

La nota di RMB Spa

La nota di RMI Spa

La nota della Regione Veneto e della Direzione Ambiente

Le risposte della società Cordifin

Da: Cordifin S.p.A. - Segreteria Inviato: venerdì 27 ottobre 2023 13:01 A: [CG] Redazione Report Oggetto: R: Richiesta informazioni - Report, Rai3

RAI Spett.le Redazione di Report, riscontriamo la Vostra comunicazione a mezzo mail del 26 ottobre 2023: la scrivente Società ha venduto l’intero capitale sociale di RMI Srl nel mese di luglio 2023. Gli atti del procedimento amministrativo che ha condotto al Decreto n. 1/2023 emesso dal Direttore Regionale dell’Area Tutela e Sicurezza del Territorio della Regione Veneto in data 11 gennaio 2023 sono visionabili sul sito della Regione Veneto: il progetto può essere proposto solo con disponibilità delle aree garantita da formale contratto e nel caso di specie un preliminare di compravendita. Confidando di essere stati esaustivi, distintamente salutiamo. CORDIFIN S.p.A. P.zza R. Simoni, 1 37122 VERONA URL:cordifin.it

Da: [CG] Redazione Report Inviato: giovedì 26 ottobre 2023 10:23 A: Oggetto: Richiesta informazioni - Report, Rai3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Sito: report.rai.it RMI – Gruppo Cordifin

Gent.mi, Alla luce delle trascorse interlocuzioni, torniamo a sollecitare un vostro riscontro in merito ad alcuni quesiti relativi alla realizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta, nel comune di Sorgà (Verona) presentata da Rmi Rottami Metalli Italia che, oggi, è entrata a far parte del gruppo RMB SpA, in vista della messa in onda del servizio in una delle prossime puntate della trasmissione. In particolare vorremmo capire come è stata svolta l’indagine idrogeologica sulla falda acquifera nei terreni dove dovrebbe sorgere la discarica – oggi oggetto di sospensiva da parte del Tar – dal momento che le analisi prodotte dall’amministrazione comunale di Sorgà riportano dati incompatibili con quelli del progetto presentato alla Regione Veneto da parte di RMI. Inoltre vorremmo capire come mai parte del pagamento dei suddetti terreni, acquistati da RMI lo scorso 15 febbraio 2023, è avvenuto prima che la Regione Veneto rilasciasse il Provvedimento autorizzatorio unico regionale all’istanza presentata da RMI S.p.A. Per motivi di produzione vi chiediamo di poter ricevere una risposta entro le ore 13 di venerdì 27 Ottobre. Vi ringraziamo per la cortese collaborazione, Un cordiale saluto, La redazione di Report

La nota di RMB Spa

Da: rmbspa.com Inviato: venerdì 27 ottobre 2023 12:16 A: [CG] Redazione Report Cc: rmbspa.com Oggetto: R: Richiesta informazioni - Report,

Spett.le Redazione di Report, riscontriamo la Vostra comunicazione a mezzo mail in data 26 ottobre u.s. che in calce riportiamo per comodità. La nostra Società ha acquisito l’intero capitale sociale di RMI Srl nel mese di luglio 2023, a conoscenza, per evidenze rese in buona fede dal venditore, del contenzioso pendente avanti il TAR Veneto a seguito di impugnativa da parte del Comune di Sorgà del Decreto n. 1/2023 emesso dal Direttore Regionale dell’Area Tutela e Sicurezza del Territorio della Regione Veneto in data 11 gennaio 2023. Restiamo, pertanto, in attesa dell’esito del procedimento giudiziario. Si conferma che la Discarica di Ca’ di Capri non rientra tra gli asset acquisiti con la suddetta operazione. Restiamo comunque disponibili per ulteriori chiarimenti. In attesa di conferma di ricezione della presente, porgiamo distinti saluti. Barbara Carolfi Segretaria di Direzione R.M.B. S.p.A.

Da: [CG] Redazione Report Inviato: giovedì 26 ottobre 2023 10:19 A: Oggetto: Richiesta informazioni - Report, Rai3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Sito: report.rai.it Alla c.a. di RMI – Rottami Metalli Italia Alla c.a. di RMB SPA

Gent.mi, vi scriviamo dalla redazione del programma di Rai3 Report perché nella prossima puntata andrà in onda un breve servizio sul progetto di realizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta, nel comune di Sorgà (Verona) presentata da Rmi Rottami Metalli Italia che, oggi, è entrata a far parte del gruppo RMB SpA. Per molto tempo abbiamo portato avanti interlocuzioni con la vecchia proprietà – purtroppo senza successo – per cercare di capire alcuni punti poco chiari della vicenda che, come saprete, ha portato il Tar del Veneto a chiedere una sospensiva sui lavori di scavo in attesa di ulteriori approfondimenti. Proprio per questo motivo vi scriviamo per capire se siete a conoscenza della forte contrarietà delle amministrazioni locali – non solo il Comune di Sorgà – che insistono sui terreni, anche quelli limitrofi, alla zona dove dovrebbe sorgere la discarica e, soprattutto, che le indagini e gli studi idrogeologici prodotti da RMI sulla profondità della falda acquifera risultano incompatibili con gli studi fatti redigere, in autotutela, dall’amministrazione comunale di Sorgà. Corrisponde infine al vero che nell’acquisto da parte di RMB SpA dell’azienda RMI – Rottami Metalli Italia, non è rientrata la discarica di Ca’ di Carpi alle porte di Verona? Per motivi di produzione vi chiediamo di poter ricevere una risposta entro le ore 13 di venerdì 27 Ottobre. Vi ringraziamo per la cortese collaborazione, Un cordiale saluto, La redazione di Report

La nota di RMI Spa

Da: Marco Sala Inviato: venerdì 27 ottobre 2023 12:53 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Riscontro Vostra mail 26 ottobre 2023 Priorità: Alta

Spett.le Redazione di Report, Con la presente, riscontriamo la comunicazione che codesta Redazione ha fatto pervenire alla società Cordifin, che, a suo tempo, era titolare dell’intera partecipazione del capitale sociale di RMI. Tale partecipazione, come noto a codesta Redazione, è stata di recente acquistata da RMB SpA che, ad oggi, controlla pertanto RMI Srl. Con riguardo al primo quesito posto, in merito all’indagine geologica sulla falda acquifera, evidenziamo come RMI, ai fini del rilascio del titolo autorizzativo, abbia reso tutte le indagini richieste dalla normativa di riferimento. Nello specifico, le indagini sulla falda, anche in relazione alle modalità in cui la Regione ha inteso approfondire la questione, sono state effettuate in modo scrupoloso ed esaustivo da parte di un autorevole esperto, il Prof. Zangheri Ordinario in Idrogeologia dell’Università di Padova, che ha chiarito sia l’insussistenza di una situazione di importanza e di fragilità della falda sia l’assoluta assenza di interferenza tra il bacino della discarica e la falda medesima. Le indagini rese anche da altri autorevoli esperti di RMI sconfessano i dati opposti dai tecnici dell’amministrazione comunale di Sorgà, la cui credibilità dovrebbe quantomeno ritenersi affievolita dalla posizione serbata dall’ente di preconcetta ostilità all’iniziativa. La documentazione resa è comunque stata posta all’attenzione delle competenti strutture regionali, che l’hanno vagliata nel contraddittorio delle parti (richiedente, comune ed altri enti intervenuti nel procedimento), pervenendo ad una conclusione (il provvedimento autorizzativo), ad oggi al vaglio della giustizia amministrativa, chiamata a valutarne la legittimità proprio per gli aspetti in questione. Alle parti, non rimane pertanto che attendere le determinazioni giudiziali, con buona pace di ogni loro considerazione in merito. Ci preme poi precisare, in merito alla precedente interlocuzione che, sia sempre stata manifestata la disponibilità di RMI, anche attraverso il contatto con la dott.ssa Paternesi, alla richiesta di Report di un’intervista avente ad oggetto il riciclo dei veicoli fuori uso e la discarica di Sorgà. La durata di tale intervista, secondo quanto anticipato, si sarebbe protratta stata per circa 45 minuti, ma, per riferite e comprensibili esigenze redazionali, ai fini della messa in onda, si sarebbe poi dovuto operare un consistente stralcio, riducendola per uno spazio di soli 5/10 minuti. RMI ha richiesto, in ragione del contenuto prettamente tecnico degli argomenti trattati, di poter visionare la sintesi che Report avrebbe effettuato per rendere il definitivo assenso alla sua messa in onda. La riteniamo una richiesta legittima, atteso la logica aspettativa di RMI di evitare che lo stralcio potesse ingenerare fraintendimenti di contenuti, che, come detto, sono essenzialmente di natura tecnica. Da RMI era stata offerta, sempre dalla lettura delle mail, la possibilità di trasmettere un filmato esplicativo delle operazioni di riciclo delle autovetture a fine vita la cui parte non recuperabile sarebbe stata destinata alla discarica di Sorgà. Report non ha mai accettato la condizione di visione da parte dell’intervistato dell’esito del montaggio del filmato dell’intervista. Il mancato esito positivo delle interlocuzioni, pertanto, non è da attribuire a RMI. Restando in attesa di conferma di ricevimento, si porgono Distinti Saluti.

La nota della Regione Veneto e della Direzione Ambiente

Da: Walter Milan Inviato: venerdì 27 ottobre 2023 14:05 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Re: Richiesta intervista - Report, Rai3

Spett.le Redazione, quanto già riferitoVi dagli uffici regionali descrive i fatti e le argomentazioni espresse nel giudizio pendente avanti al TAR Veneto, la cui udienza di merito è calendarizzata per il prossimo 7 dicembre, nel corso della quale saranno esaminati tutti gli aspetti oggetto di contestazione da parte dei ricorrenti. Nel merito della Vostra gentile richiesta, specificando che ogni dettaglio sarà illustrato approfonditamente nelle opportune sedi sopra citate, sentiti gli uffici regionali è possibile rendere noto alla Vostra redazione che l'esecuzione di indagini idrogeologiche d'inziativa dell'Autorità procedente non è prassi che venga adottata in procedimenti amministrativi volti al rilascio di autorizzazioni ambientali; viene solitamente valutata la documentazione presentata dal proponente, con riferimento alla conformità a quanto previsto dalla vigente normativa e alla coerenza con la documentazione tecnica a disposizione degli uffici e riportata nella pianificazione regionale. E' bene aggiungere che il soggetto che presenta la documentazione, per quanto di pertinenza, si assume la piena responsabilità in sede civile (ed eventualmente penale) di quanto inviato. Gli uffici regionali comunicano anche, con l'occasione, che la documentazione inviata dal Comune è pervenuta successivamente alla conclusione del procedimento di valutazione e non è stata pertanto oggetto di esame da parte del comitato regionale VIA. Grazie per la Vostra attenzione, un saluto cordiale. Walter Milan Vincenzoni Capo Ufficio Stampa Giunta Regionale del Veneto Dorsoduro, 3901 - Palazzo Balbi - 30123 VENEZIA

Da: [CG] Redazione Report Date: gio 26 ott 2023 alle ore 09:29 Subject: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 To: XXX@regione.veneto.it, Area Tutela del territorio Cc: ufficiostampaatregione.veneto.it

Gent.mi, in vista della messa in onda del servizio relativo al progetto di realizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta, nel comune di Sorgà (Verona), presentata dalla ditta RMI S.p.A, e alla luce della sospensiva richiesta dal Tar del Veneto, vi scriviamo per chiedervi di poter ricevere risposta ad alcuni quesiti aggiuntivi rispetto alla nota che il Dottor Giandon ci ha inviato lo scorso 11 maggio. In particolare, vorremmo sapere se durante l’iter autorizzativo del progetto, prima che la Direzione Ambiente e Transizione Ecologica rilasciasse, lo scorso 15.12.2022, l’Autorizzazione integrata ambientale, la Regione Veneto attraverso le sue Direzioni o il Comitato tecnico regionale, ha effettuato proprie rilevazioni o indagini idrogeologiche circa la profondità della falda acquifera in località De Morta, sui terreni dove dovrebbe sorgere la discarica, o ha solo vidimato quanto riportato nel progetto dell’azienda RMI, ad oggi parte del gruppo RMB. È stata tenuta in considerazione la Relazione Geologia ambientale e idrogeologica, firmata dal Dottor Mantovani in data 5 Dicembre 2022 e commissionata dall’Amministrazione comunale di Sorgà per il rilascio dell’Autorizzazione Integrata ambientale pubblicata con decreto n.360 il 15/12/2022? Per motivi di produzione vi chiediamo di poter ricevere una risposta entro le ore 13 di venerdì 27 Ottobre. Un cordiale saluto, La redazione

Da: regione.veneto.it Per conto di Direzione Ambiente Inviato: giovedì 11 maggio 2023 10:14 A: [CG] Redazione Report Cc: Assessore Bottacin; Area Tutela del territorio Oggetto: Re: Richiesta intervista - Report, Rai3

Spettabile Redazione, con riferimento alle mail sotto riportate e all'incontro con la Vostra giornalista di ieri mattina desidero esporvi le seguenti considerazioni. L'incontro è stato per me inaspettato, sono stato avvicinato all'uscita dal palazzo Linetti mentre mi stavo recando con una certa urgenza a palazzo Balbi per una riunione; non ero certamente nelle condizioni migliori per fornire le risposte alle domande poste dalla Vostra giornalista che tra l'altro riguardavano anche aspetti di non mia diretta competenza. Per questo invio per iscritto alcune precisazioni relative alle questioni da lei sollevate in modo che sia più chiaro quanto ho cercato affrettatamente di esporre ieri. In premessa mi corre l'obbligo di precisare che della complessa vicenda tecnica, giuridica e amministrativa è stato interessato il TAR Venetoche in data 28/4/2023 ha sospeso l’efficacia del provvedimento autorizzativo al fine di consentire una valutazione re adhuc integra del merito della causa. L’udienza per la discussione di merito è stata fissata in data 30/11/2023. Le considerazioni di seguito esposte sono coerenti con la documentazione presentata dalla Regione Veneto nell’ambito del citato giudizio e con le argomentazioni ivi esposte. 1) In merito all’iter del procedimento amministrativo di autorizzazione Con istanza acquisita al protocollo regionale con n. 487003 in data 16.11.2020, la Società Rottami Metalli Italia S.p.A., ha richiesto, ai sensi dell'art. 27-bis del D.Lgs. n. 152/2006 e ss.mm.ii. e della L.R. n. 4/2016 (DGR n. 568/2018), l'attivazione del procedimento finalizzato all'acquisizione del provvedimento autorizzatorio unico regionale (PAUR) relativamente al "Progetto di discarica in conto proprio per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta del Comune di Sorgà in provincia di Verona. Sottocategoria "Discariche per rifiuti inorganici a basso contenuto organico o biodegradabile" con deroghe". Nella seduta del Comitato Tecnico Regionale VIA del 03.03.2021 avveniva la presentazione del progetto in questione, così come rimodulato, e veniva nominato il gruppo istruttorio incaricato dell'esame dello stesso. Il proponente ha provveduto alla presentazione al pubblico dei contenuti del progetto e dello studio di impatto ambientale, secondo le modalità concordate con il Comune di Sorgà, ai sensi dell'art. 14 della L.R. n. 4/2016, in presenza ed in videoconferenza in data 25.05.2021. Il progetto veniva discusso, nel corso delle sedute del 25.05.2022 e del 01.06.2022, dal Comitato Tecnico Regionale V.I.A. che, all'unanimità dei presenti, esprimeva parere favorevole al rilascio del provvedimento di VIA, subordinatamente al rispetto delle condizioni da recepire in sede di Autorizzazione Integrata Ambientale, nonché di alcune condizioni ambientali. In data 01.06.2022 si svolgeva la seduta della Conferenza di Servizi, che si determinava favorevolmente, sulla base delle posizioni prevalenti ai sensi dell'art. 14 -ter della L. n. 241/1990, in ordine al rilascio del provvedimento di VIA sul progetto in parola, subordinatamente al rispetto delle condizioni da recepire in sede di rilascio dell'Autorizzazione Integrata Ambientale e delle condizioni ambientali riportate nel parere del Comitato Tecnico Regionale V.I.A. n. 183 del 01.06.2022. Con il decreto n. 60 del 19.07.2022, il Direttore della Direzione Valutazioni Ambientali, Supporto Giuridico e Contenzioso, in qualità di direttore della struttura regionale competente in materia di VIA, adottava il provvedimento di VIA favorevole a condizione che, in sede di rilascio dell'A.I.A., per le motivazioni riportate nelle premesse del parere del Comitato Tecnico Regionale V.I.A. n. 183 del 01.06.2022 (Allegato A al medesimo decreto), fosse previsto quanto indicato nel medesimo parere e, subordinatamente, al rispetto delle condizioni ambientali ivi riportate. La Conferenza di Servizi, nella seduta conclusiva, acquisito l'assenso senza condizioni della Provincia di Verona in quanto assente, si esprimeva favorevolmente, con giudizio prevalente, sul rilascio dell'A.I.A., con le prescrizioni proposte dai competenti Uffici regionali nel corso della seduta del 30.08.2022, come integrate dalla prescrizione proposta nel corso della medesima seduta, e al rilascio del provvedimento autorizzatorio unico regionale. Con decreto n. 360 del 15.12.2022 il Direttore della Direzione Ambiente e Transizione Ecologica, in qualità di direttore della struttura regionale competente per materia, ha rilasciato alla ditta Rottami Metalli Italia - RMI s.p.a., l'Autorizzazione Integrata Ambientale per l'attività individuata al punto 5.4 dell'Allegato VIII alla Parte Il del D.Lgs. n.152/2006 e ss.mm.ii., relativamente all'istanza presentata, subordinatamente al rispetto delle condizioni e delle prescrizioni riportate nell'Allegato A al medesimo decreto. Infine in data 11.01.2023 è stato adottato il Decreto del Direttore dell'Area Tutela e Sicurezza del Tenitorio n. 1 con cu è stato rilascio alla Rottami Metalli Italia RMI s.p.a. il provvedimento unico regionale ai sensi dell'art. 27-bis del D.Lgs. n. 152/2006 e della L.R. n. 4/2016, avente ad oggetto "Progetto di discarica in conto proprio per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta del Comune di Sorgà in provincia di Verona. Sottocategoria "Discariche per rifiuti inorganici a basso contenuto organico o biodegradabile" con deroghe" Comune di localizzazione: Sorgà (VR). Comuni interessati: San Giorgio Bigarello (MN), Castel D'Ario (MN). (DGRV n. 568/2018) (Doc. 15). 2) In merito alla segnalazione in autotutela trasmessa dal Comune di Sorgà in data 15.12.2022 con la quale il Sindaco chiedeva venisse “ sospesa la procedura e ogni autorizzazione ad iniziare i lavori della discarica" e “in subordine che venga fatta con urgenza un supplemento di istruttoria in collaborazione e compresenza tra Regione Veneto, Comune di Sorgà e RMI spa disponendo nuove indagini geologiche per togliere ogni incertezza sulla profondità della falda e sulla reale consistenza dell'argilla, naturalmente prima de/l'emissione del PAUR da parte dell'Unità Regionale competente”, e lamenta il fatto che “Di tale nota e della documentazione tecnica allegata alla medesima non si fa alcuna menzione nell'impugnato PAUR né in alcun altro atto del procedimento, né all'istanza è mai stato dato riscontro da parte di Regione Veneto ”. Al riguardo si evidenzia che il provvedimento autorizzatorio unico regionale, in base alla definizione di cui all'art. 27-bis, comma 7 del D.lgs. n. 152/2006, costituisce "la determinazione motivata di conclusione della conferenza di servizi ". La Conferenza di Servizi, nella seduta conclusiva del 30.08.2022, si è espressa favorevolmente, con giudizio prevalente, sul rilascio dell’AIA con le prescrizioni proposte dagli Uffici regionali e sul rilascio del Provvedimento Autorizzatorio Unico Regionale. Pertanto il PAUR non poteva tener conto dell'istanza citata dal ricorrente, in quanto è stata trasmessa successivamente alla conclusione della Conferenza di Servizi. 3) Rispetto all’ipotesi di mancato rispetto delle misure di tutela stabilite dall'allegato D al vigente "Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti" del Veneto laddove si esclude "la realizzazione di discariche per rifiuti pericolosi e non pericolosi (...) nelle aree da salvaguardare individuate dal Piano di Tutela Acque: (...) Acquiferi confinati pregiati da sottoporre a tutela per la produzione di acqua potabile". Secondo il Comune il territorio comunale di Sorgà, ove risulta localizzato il progetto di discarica in questione, sarebbe individuato dal “Piano di Tutela Acque" della Regione Veneto (approvato con D.C.R. n.107 del 05/11/2009) tra i "Comuni con acquiferi confinati pregiati da sottoporre a tutela per la produzione di acqua potabile”, come risulterebbe dalla tabella 3.21 inserita nell'allegato A2 ("Indirizzi di Piano") del suddetto PTA. Il Comitato Regionale VIA, nel parere n. 183 del 01.06.2022, ha ritenuto il progetto "compatibile con la pianificazione di settore vigente", ovvero sia con il Piano Regionale di Gestione dei Rifiuti che con il Piano di Tutela Acque, in quanto "a causa della presenza -come elemento naturale- di arsenico oltre i limiti di potabilità (di 10 ug/L), l'acquifero collocato in territorio di Sorgà non è ad oggi utilizzato (il pozzo utilizzato in passato a fini acquedottistici è stato chiuso e spostalo in Comune di Erbè), come confermato dal gestore del servizio pubblico interpellato sul punto che ha escluso la prevista attivazione in futuro di nuovi pozzi", essendo quindi venuto meno, "di fatto, l'oggetto tutelato dal Piano". 4) In relazione alle problematiche relative alla viabilità di accesso all'impianto Secondo le valutazioni del Comitato VIA, la viabilità prevista per l'accesso alla discarica, ivi compreso il tratto di via Bosco prima dell'ingresso alla strada di accesso alla discarica, consente il traffico di mezzi pesanti. Come approfondito nel corso dell'istruttoria, il tratto di strada in questione è stato interessato solo da un'ordinanza che si limita a istituire un limite di velocità per il traffico degli autoveicoli con massa superiore a 3,5 tonnellate, ma non dispone il divieto di transito. Va da sé che il Comune stesso, qualora avesse ritenuto tale viabilità inadeguata al traffico di mezzi pesanti, avrebbe dovuto porre il divieto di transito apposito. Accertata la transitabilità della viabilità da parte di mezzi pesanti, il Comitato, dall'analisi dello studio di traffico effettuato, ha valutato la significatività del traffico indotto dalla presenza dell'impianto su tale viabilità. I risultati di tali valutazioni sono analiticamente esplicitati nel parere VIA: il Comitato ha ritenuto che, dall'analisi della documentazione presentata dal proponente, comprese le integrazioni e le controdeduzioni alle osservazioni, si riscontra che l'incidenza sul flusso del traffico generato non sia significativa. Distinti saluti. Paolo Giandon Direzione Regionale Ambiente e Transizione Ecologica Area Tutela e Sicurezza del Territorio Segreteria Direzione Ambiente e Transizione Ecologica Area Tutela e Sicurezza del Territorio 30121 VENEZIA Il giorno mar 9 mag 2023 alle ore 10:10 Direzione Ambiente ha scritto: Spettabile Redazione, la discarica per car-fluff in comune di Sona è in fase di chiusura, i conferimenti sono conclusi e la richiesta di sostituzione di parte di rifiuti, presentata dalle ditte Rotamfer e RMI, è stata oggetto di una verifica di assoggettabilità a VIA (tutti i documenti del procedimento sono consultabili al seguente link) non ha avuto seguito per effetto della valutazione negativa a seguito della presentazione dell'istanza di cui al punto 4) del Decreto di non assoggettabilità n. 47 del 31/5/2022. Il progetto di nuova discarica in comune di Sorgà, presentato dalla ditta RMI, è stato oggetto di un procedimento di valutazione di impatto ambientale che ha portato all'approvazione di un Provvedimento Autorizzativo Unico Regionale (art. 27bis del d. lgs. 152/2006) che è stato oggetto di sospensiva del TAR e che è solo in parte competenza della scrivente Direzione. Tutta la documentazione relativa agli elaborati presentati e alle fasi istruttorie svolte dal Comitato Regionale VIA e dalle competenti strutture della Giunta Regionale sono pubblicati sulla pagina VIA della Regione Veneto. Gli atti di conclusione dei procedimenti sono pubblicati nel Bollettino Ufficiale della Regione Veneto. Eventuali altri documenti che riteneste utili per ulteriori chiarimenti possono essere richiesti tramite le modalità di accesso agli atti previste dalla normativa vigente. Per eventuali ulteriori necessità relative ad esigenze di comunicazione potete contattare l'Ufficio Stampa. Distinti saluti. Direzione Regionale Ambiente e Transizione Ecologica Area Tutela e Sicurezza del Territorio Segreteria Direzione Ambiente e Transizione Ecologica Area Tutela e Sicurezza del Territorio 30121 VENEZIA

Da: [CG] Redazione Report Date: gio 4 mag 2023 alle ore 16:01 Subject: Richiesta intervista - Report, Rai3 To: Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Sito: report.rai.it Alla ca del Dottor Paolo Giandon Direzione Ambiente e Transizione Ecologica Regione Veneto Palazzo Linetti Egregio Direttore, scriviamo dalla redazione del programma di Rai 3 Report perché in una delle prossime puntate ci occuperemo del tema del riciclo e della rottamazione dei veicoli. Vista la presenza di una discarica di ‘car fluff’, ora non più operativa, a pochi passi dalla città di Verona e anche alla luce del recente provvedimento del Tar del Veneto che ha sospeso l’efficacia del provvedimento di Autorizzazione integrata ambientale, nonché paesaggistica, per la realizzazione di una discarica per rifiuti speciali non pericolosi in località De Morta, nel comune di Sorgà (Verona), presentata dalla ditta RMI S.p.A., Le scriviamo per chiederle di poter fissare con Lei un appuntamento per registrare una breve video intervista sull’argomento. Per ogni altra informazione la giornalista che si occupa del servizio, Lucina Paternesi, è sempre disponibile al numero di telefono XXX. Certi di un Suo cortese riscontro, Le porgiamo i più cordiali saluti La redazione di Report

FALDA E FALDONI di Lucina Paternesi collaborazione di Giulia Sabella immagini di Davide Fonda, Marco Ronca, Andrea Lilli montaggio Sonia Zarfati Grafiche Giorgio Vallati

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Viene dal lontano Giappone e ha trovato il suo habitat ideale nella pianura a cavallo tra Veneto e Lombardia e le province di Verona e Mantova. Il riso vialone nano è tra i più pregiati al mondo, il primo in Europa a ottenere il marchio IGP.

WALTER SARTI – RISTORATORE Noi ci troviamo in una zona delimitata a sinistra dal Mincio, a destra dall’Adige e in basso dal Po, in questa zona che è ricchissima di acqua viene prodotto il riso.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tra i 24 comuni del veronese in cui può essere coltivato il vialone nano, c’è anche il piccolo comune di Sorgà, poco più di 2.900 abitanti.

CHRISTIAN NUVOLARI – SINDACO DI SORGÀ (VR) Fino agli anni Sessanta, Settanta, qua c’erano solo campi di riso.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO A primavera le risorgive inondano i terreni misti a limo e sabbia e creano l’ambiente ideale per la raccolta del chicco a fine estate. Qui il vialone viene servito ancora alla vecchia maniera.

WALTER SARTI – RISTORATORE Si fa bollire 7-8 minuti, si copre con un canovaccio col coperchio e si lascia riposare in un luogo caldo. Una volta cotto, si presentava asciutto.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il vialone nano è la ricchezza di questo territorio. Lo sa bene la Regione Veneto che ha concesso un finanziamento di 400mila euro dai fondi per lo sviluppo rurale per promuovere i suoi prodotti IGP, tra cui la Strada del Riso Vialone Nano. Da un lato la Regione promuove, dall’altro azzoppa.

CHRISTIAN NUVOLARI – SINDACO SORGÀ (VR) Stanno scavando la discarica di car fluff e adesso hanno iniziato a portare qua le ruspe, a iniziare a spianare il terreno.

PIERGIOVANNI FERRARESE – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA GIOVANI VERONA Stiamo parlando di un’enorme montagna che andrebbe ad accogliere circa il 40% del car fluff nazionale, cioè quello che è lo scarto, tutto quel materiale non riutilizzabile derivante dalla demolizione delle autovetture.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Lo spettro che si aggira tra queste campagne è che nel giro di un paio d’anni a Sorgà si formi una collina di rifiuti come questa discarica alle porte di Verona.

GRETA RASOLI – ASSESSORA ALL’AMBIENTE COMUNE DI SORGÀ (VR) Nel piano gestione rifiuti, aggiornato nel 2022 dalla Regione del Veneto, uno degli elementi discriminatori per poter non realizzare questi tipi di insediamento è quello che ci sia una presenza di un’acqua pregiata come può essere la nostra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora. Un’acqua di pregio che serve per coltivare un riso pregiato, il Vialone Nano che è l’unico, il primo anzi, ad essere stato tutelato in Europa con il marchio IGP. Ora, che questo sia un acquifero di pregio lo scrive la stessa Regione che però, con le sue decisioni, lo mette a rischio perché ha deciso di costruire una discarica proprio nelle zone limitrofe ai campi dove viene coltivato il riso; una discarica di scarti degli scarti delle automobili, il cosiddetto il car fluff. Ce ne è una simile vicino Verona, a Sona dove però ci sono dei fenomeni di autocombustione. Gli abitanti hanno protestato, la discarica verrà costruita per questo motivo in un altro paesino lontano dalle città: a Sorgà. Sorgà è un paesino di 3mila abitanti che si sono arrabbiati perché coltivano questo riso pregiato. Hanno scritto alla Regione, dice: “ma perché non vieni a vedere quanto effettivamente è profonda la falda, prima di dare l’autorizzazione? Perché è la stessa acqua con la quale coltiviamo il riso”. Ma siccome la Regione non sembra dar loro ascolto, hanno minacciato di, con un referendum, di passare sotto l’amministrazione della regione Lombardia. La nostra Lucina Paternesi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Di un’auto rottamata non si butta via niente, o quasi. È composta per il 75% di metallo ed è quindi facilmente riciclabile. Si recuperano anche bulloni e pneumatici, plastiche e rivestimenti e, dopo la bonifica da oli e liquidi, si separano tutti gli altri metalli, fino a che non resta solo lo scheletro che viene demolito e trasportato sotto forma di pacchetto in un altro impianto per la frantumazione.

ANSELMO CALÒ – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEMOLITORI AUTOVEICOLI Perché si chiama fluff? Perché questa roba non è pesante, è volatile, e per farla volare meglio di solito si manda un soffione che lo manda in alto e quell’altra invece precipita perché è pesante.

LUCINA PATERNESI Quindi la parte leggera, la parte volatile, è il car fluff?

ANSELMO CALÒ – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEMOLITORI AUTOVEICOLI È il car fluff.

LUCINA PATERNESI E questo è quello che poi finirà in discarica. Quindi alla fine che cosa c’è lì dentro?

ANSELMO CALÒ – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEMOLITORI AUTOVEICOLI Plastiche piccole, legno, gommapiuma, pezzetti di gomma delle guarnizioni, il tessuto che ricopre i sedili. In tutta Europa viene mandato a termocombustione.

LUCINA PATERNESI Quindi gli inceneritori?

ANSELMO CALÒ – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE NAZIONALE DEMOLITORI AUTOVEICOLI E chi gestisce gli inceneritori è più interessato a incenerire rifiuti che pagano di più, come per esempio gli urbani.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E infatti qui i resti del car fluff la Regione ha autorizzato un’azienda privata a stoccarli a due passi dalle risaie di Sorgà.

DANIELA GARILLI – CONSIGLIERE MINORANZA COMUNE DI SORGÀ (VR) Io direi che l’impianto si voleva fare e si è scelto quel comune, così piccolo, molto lontano, che porta pochi voti.

RITA MILANI – RESPONSABILE AREA TECNICA COMUNE DI SORGÀ (VR) FINO AL 30/09/2023 Queste sono le famose vasche dove appunto andranno a posizionare questo car fluff.

LUCINA PATERNESI E sono scavate… RITA MILANI – RESPONSABILE AREA TECNICA COMUNE DI SORGÀ (VR) FINO AL 30/09/2023 Sono scavate…

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Secondo i dati riportati nel progetto di RMI, l’azienda privata autorizzata dalla Regione a costruire la discarica, la falda si troverebbe a cinque metri e mezzo sottoterra. Ma i conti non tornano.

RITA MILANI – RESPONSABILE AREA TECNICA COMUNE DI SORGÀ (VR) FINO AL 30/09/2023 Abbiamo rilevato che l’acqua è sempre stazionaria a un metro e trenta. Poi è piovuto per 15 giorni, una settimana e l’acqua l’abbiamo trovata a 0.85 metri.

LUCINA PATERNESI Quindi significa che qualora loro dovessero scavare di due metri, già nel primo metro, potrebbero trovare acqua.

RITA MILANI – RESPONSABILE AREA TECNICA COMUNE DI SORGÀ (VR) FINO AL 30/09/2023 Certo.

LUCINA PATERNESI Dottor Giandon ci aspetta possiamo parlare un attimo? Sono Paternesi di Report.

PAOLO GIANDON – DIREZIONE AMBIENTE E TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE VENETO Eh no, no, devo andare dall’assessore…

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Uno dei dirigenti della Regione che ha firmato le autorizzazioni è Paolo Giandon.

LUCINA PATERNESI Come si fa a non tenere conto, nel momento in cui l’amministrazione comunale del luogo dove sorgerà la discarica, dice che la falda non è, come dichiarato dal progetto, a 5 metri e mezzo, ma a un metro di profondità.

PAOLO GIANDON – DIREZIONE AMBIENTE E TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE VENETO Quella che ho firmato io è un’autorizzazione integrata, cioè io ho preso atto che le valutazioni erano state fatte tenendo conto anche degli elementi forniti dal comune.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con un piezometro il geologo incaricato dal comune ha rifatto tutte le misurazioni. Ne ha piazzati tre: uno nella parte più alta, uno in mezzo e uno a valle e a fine aprile, dopo settimane di siccità, siamo tornati sul luogo degli scavi per controllare anche noi.

GEOLOGO INCARICATO DAL COMUNE Proviamo a misurare. All’incontro della falda sentiamo il segnale sonoro. LUCINA PATERNESI Vuol dire che è già arrivato all’acqua?

GEOLOGO INCARICATO DAL COMUNE E abbiamo la falda in questo momento che è a un metro e 73 da questo piano campagna. LUCINA PATERNESI Voi li avete messi i piezometri?

PAOLO GIANDON – DIREZIONE AMBIENTE E TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE VENETO La mia struttura è quella che prende atto delle valutazioni fatte, io non è che posso poi impiegare altrettanto tempo per fare delle ulteriori altre verifiche.

LUCINA PATERNESI Quindi lei prende per buono quello che le arriva.

PAOLO GIANDON – DIREZIONE AMBIENTE E TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE VENETO Eh sì, certo. LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Quindi la Regione Veneto che ha approvato la discarica tra le risaie di Sorgà ha preso per buoni i dati forniti dalla stessa azienda: RMI, Rottami Metalli Italia, parte della holding del gruppo Cordifin, azienda leader nel settore metallurgico e della lavorazione dei rottami in ferro, con un giro d’affari di 2 milioni e mezzo nel 2021. Da qualche settimana, è stata però acquistata dalla bresciana RMB. Fa parte della Cordifin anche la Rotamfer, che gestisce la discarica di Cà di Capri, tra Verona e Sona, e che è finita sotto inchiesta già 15 anni fa per traffico illecito di rifiuti speciali, pericolosi e tossico nocivi. Dopo una condanna in primo grado, i dirigenti sono stati assolti, ma alcune contestazioni sono andate prescritte.

LUCIO SANTINATO – COMITATO CITTADINI DI LUGAGNANO (VR) Nel 2006 è stato approvato un innalzamento fino a 12 metri del piano campagna dei rifiuti che possiamo ammirare in questo momento.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tra coltivazioni di kiwi e pesche e orti privati, per oltre quarant’anni la Rotamfer ha stoccato il car fluff nella discarica di Cà di Capri e già nel 2000 l’Arpav certificava che i terreni erano inquinati da piombio, cadmio e PCB. Nel 2007 la forestale ha messo i sigilli.

MICHELE BERTUCCO - PRESIDENTE LEGAMBIENTE VENETO 2007-2011 Non venivano bonificati quindi i liquidi dei freni, gli oli e altro e finivano in discarica. I carabinieri fanno una verifica, scoppia il caso perché in realtà la discarica poi rimane sotto sequestro per sette anni.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Ma oltre al rischio di inquinamento delle falde, la paura più grande è quella degli incendi. Fenomeni di autocombustione, con temperature fino a 400 gradi, si sono già verificati proprio nella discarica di Cà di Capri.

LUCINA PATERNESI Le case, l’abitato è a 200-300 metri dalla discarica, come si vivevano questi episodi?

LUCIO SANTINATO – COMITATO CITTADINI DI LUGAGNANO (VR) Era una combustione interna, si sentiva solo un forte odore di gomma bruciata. Mentre gli incendi che si erano sviluppati in superficie, quelli avevano fuoco e fiamme. L’ipotesi che avevano formulato era quella che all’interno del corpo dei rifiuti fosse finita della limatura o di alluminio o di zinco che a contatto con l’acqua ha fatto reazione.

LUCINA PATERNESI La discarica che RMI vuole fare a Sorgà è una copia di quella che avete qui a Cà di Capri.

MICHELE BERTUCCO - PRESIDENTE LEGAMBIENTE VENETO 2007-2011 Su progetti così complessi il buonsenso direbbe: faccio fare una serie di verifiche da parte dei miei uffici in Regione. La Regione non l’ha mai fatto e sembra non volerlo fare neanche in questo caso.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tuttavia la Regione ha dato il via libera alla realizzazione della nuova discarica. Al sindaco di Sorgà non è rimasto che rivolgersi al Tar.

CHRISTIAN NUVOLARI – SINDACO DI SORGÀ (VR) La discarica dovrebbe essere grande circa 115mila metri quadri, loro ne hanno acquistati però circa 500mila quindi mi aspetto purtroppo che in futuro sarà ulteriormente allargata.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO A vendere il terreno è stato l’avvocato Alexander Gelmi che ha lo studio qui a Verona. Lo ha ereditato dalle proprietà di famiglia e l’ha rivenduto a RMI a 3 milioni e 750 mila euro. Parte dei soldi l’avvocato li avrebbe incassati prima del via libera definitivo della Regione.

LUCINA PATERNESI Il prezzo di vendita risulta un po’ alto, rispetto alle stime del mercato del momento.

ALEXANDER GELMI – AVVOCATO EX PROPRIETARIO TERRENI Il prezzo anzi… anzi. Dal punto di vista della notizia giornalistica, qual è la curiosità?

LUCINA PATERNESI Erano sicuri di ottenere il via libera dalla Regione, nonostante la contrarietà delle amministrazioni locali? ALEXANDER GELMI – AVVOCATO EX PROPRIETARIO TERRENI Lo può sapere semplicemente dall’azienda, che ne so io! Evidentemente la società ha visto che erano sulla buona strada e hanno deciso di darmi la caparra.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO RMI ha offerto denaro al comune di Sorgà per compensarlo dei disagi conseguenti la costruzione della discarica.

CHRISTIAN NUVOLARI – SINDACO DI SORGÀ (VR) Ci hanno proposto una compensazione di circa 200mila euro che io ho rifiutato.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il disagio si ripercuoterebbe anche sulle strade locali che vedrebbero passare ogni giorno l’andirivieni dei camion pieni di materiali di scarto da svuotare in discarica. E anche noi finiamo intrappolati nel traffico di mezzi agricoli che ogni giorno fanno avanti e dietro su questa strada. Per passare, bisogna che uno dei due si faccia da parte. Per sistemare la carreggiata, la Regione ha imposto all’azienda un contributo massimo di un milione e mezzo.

CHRISTIAN NUVOLARI – SINDACO SORGÀ (VR) Per mettere in sicurezza questa strada qui, che parliamo comunque di 3 chilometri, servono come minimo sui 5 milioni e sette.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tutte le criticità riscontrate nel progetto sono state fatte presenti alla Regione.

CRISTIAN NUVOLARI – SINDACO DI SORGÀ (VR) La Regione Veneto non ci ha neanche lontanamente risposto, veda lei un po’ come ci ha trattato. Siamo comunque un ente pubblico e rappresentiamo tremila abitanti.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Nasce da qui la provocazione del comitato anti-discarica: indire un referendum per passare dal Veneto alla Lombardia, perché la vicina provincia di Mantova si è sempre espressa contro la discarica.

CRISTIAN NUVOLARI – SINDACO DI SORGÀ (VR) Abbiamo già speso 110mila euro, cioè soldi sottratti ai servizi dei cittadini per cose che secondo noi dovevano essere state fatte, secondo me, dalla Regione.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il Tar del Veneto ha accolto la richiesta di sospensiva “considerato”, si legge nell’ordinanza, “che la causa richiede approfondimenti e che la prosecuzione dei lavori di escavazione, potrebbe arrecare danni irreversibili agli interessi tutelati”.

LUCINA PATERNESI Vi ha colto di sorpresa la decisione del Tar?

PAOLO GIANDON – DIREZIONE AMBIENTE E TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE VENETO Evidentemente il tribunale ha ritenuto che c’erano degli aspetti poco chiari e andrà ad approfondire se alcune mancanze sono state fatte chiederà di riaprire il procedimento.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Nel frattempo, qualche ora dopo il nostro arrivo a Sorgà, vediamo le ruspe andar via.

LUCINA PATERNESI Non ricominciate domani né lunedì?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Non tornano, almeno per un mese: fino a quando il Tar non deciderà il da farsi. La regione Veneto dice che secondo lei il progetto è buono, è quello che ha fatto la ditta. Si fida se questo progetto è stato fatto in termini di legge. La ditta, la RMI, da parte sua, dice che i dati in suo possesso sulla falda acquifera sarebbero contrastanti rispetto ai dati dei tecnici del comune di Sorgà. E dicono c’è una certa ostilità, abbiamo visto. Beh, vorrei anche vedere: non vogliono fare certo la fine degli abitanti di Sona dove la discarica a un certo punto comincia a bruciare, e vogliono difendere il loro riso.

In gran parte d’Europa si respira aria tossica: nessuno peggio della Pianura Padana. Simone Valeri su L'Indipendente il 22 Settembre 2023 

In Europa la qualità dell’aria è ancora a livelli critici. Il solo inquinamento da polveri ultrasottili (PM2,5) provoca circa 400 mila morti all’anno in tutto il continente. Non a caso – secondo un’indagine – ben il 98% degli europei vive in aree con inquinamento oltre soglia di sicurezza per questo inquinante. Tuttavia, le differenze a livello geografico sono marcate. L’Europa orientale, con la Macedonia del Nord come stato peggiore, presenta una condizione significativamente più grave dell’Europa occidentale. Fa eccezione proprio l’Italia e, in particolare, la Pianura Padana, la quale non solo registra ancora i dati più preoccupanti tra i 27 Stati europei in termini di inquinamento atmosferico, ma anche il più grave peggioramento della qualità dell’aria negli ultimi quatto anni. Il risultato è che, ad oggi, 8 delle 10 province più inquinate dell’Unione sono situate proprio nella nostra Penisola. In cima alla non invidiante classifica, vi sono Milano, Cremona e Monza, con valori di particolato ultrasottile superiori a 21 milligrammi ogni metro cubo, ovvero, livelli oltre 4 volte superiori ai limiti stabiliti dall’Organizzazione mondiale della sanità.

Le linee guida più recenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) stabiliscono che le concentrazioni medie annuali di PM2,5 non dovrebbero superare i 5 microgrammi per metro cubo (µg/m3). L’analisi, tenendo conto di questa soglia, ha rilevato che appena il 2% della popolazione europea vive in aree entro questo limite, mentre quasi i due terzi vive in zone in cui la concentrazione di PM2,5 è addirittura più che doppia rispetto alle linee guida dell’OMS. La valutazione, coordinata dal quotidiano inglese The Guardian,  è stata realizzata combinando immagini satellitari dettagliate e misurazioni da oltre 1.400 stazioni di monitoraggio a terra. Il risultato è stato una mappa interattiva che rivela le aree più colpite del Vecchio Continente. Nel dettaglio, è emerso che i residenti di sette Paesi dell’Europa orientale – Serbia, Romania, Albania, Macedonia del Nord, Polonia, Slovacchia e Ungheria – hanno un tasso di mortalità doppio a causa dell’inquinamento atmosferico. Oltre la metà della popolazione della Macedonia settentrionale e della Serbia vive con un valore di PM2,5 quattro volte superiore a quello stabilito dall’OMS. Nella Pianura Padana la situazione è analoga. All’estremo opposto c’è la Svezia, dove, al contrario, nessuna porzione del territorio supera del doppio i livelli di PM2,5 ritenuti sicuri. Inoltre, solo alcune aree della Scozia settentrionale rientrano tra le poche in Europa a scendere significativamente al di sotto di tale valore.

L’inquinamento atmosferico rimane quindi un punto debole per l’UE. Questi dati confermano, ancora una volta, che si è davanti una vera e propria crisi della salute pubblica. Per tentare di arginare il problema, la scorsa settimana il Parlamento europeo ha votato per l’adozione delle nuove linee guida dell’OMS sul PM2,5. La legge, che deve però ancora essere oggetto dei negoziati con il Consiglio, fisserebbe un limite giuridicamente vincolante per le concentrazioni annuali di PM2,5 a 5µg/m3, rispetto agli attuali 25µg/m3. Tuttavia, entro il 2035. Diversi esperti affermano da tempo che sarebbe invece necessario intervenire subito e con urgenza, sottolineando un crescente numero di prove che dimostrano come l’inquinamento atmosferico abbia effetti negativi su quasi tutti gli organi del corpo. Nel complesso, il traffico, l’industria, il riscaldamento domestico e l’agricoltura sono le principali fonti di PM2,5, ma l’impatto di tale inquinante è spesso avvertito in modo sproporzionato dalle comunità più povere. “I Paesi più colpiti – spiega il Guardian – sono anche quelli con il reddito medio più basso, con poche eccezioni degne di nota”.

L’eccezione in questione è, per l’appunto, l’Italia. Nel nostro Paese, la pessima qualità dell’aria dipende da una combinazione di fattori, in parte geomorfologici ma anche e soprattutto politici. Basti pensare che quasi tutte le regioni del Nord Italia hanno dichiarato guerra alle istituzioni europee in relazione ai nuovi e più stringenti vincoli sulla direttiva per la qualità dell’aria. Il contenuto delle direttive UE, in particolare, ha mandato su tutte le furie proprio i governatori delle regioni della Pianura Padana, l’area dell’Europa occidentale con più morti premature a causa dell’inquinamento. Per il presidente della Lombardia, Attilio Fontana, l’impatto delle nuove regole sarebbe economicamente devastante, poiché «bisognerebbe chiudere il 75% delle attività produttive, impedire la circolazione dei tre quarti dei veicoli, chiudere il 75% degli allevamenti e delle attività agricole del territorio». Contro i governatori si sono scagliati scienziati, ricercatori, medici e operatori della sanità pubblica, che hanno indirizzato una lettera al governo italiano al fine di chiedere di fermare la loro iniziativa. “Ogni ulteriore flessibilità e deroga nell’attuazione di misure, anche radicali dove necessario, per la riduzione delle emissioni di inquinanti non fa altro che aggravare i danni per la salute dei cittadini in termini di malattia e morte – hanno scritto i firmatari convinti che, senza una nuova direttiva “ambiziosa”, il nostro Paese dovrà affrontare costi sanitari sempre più esosi e non garantirà un futuro sano alle nuove generazioni. [di Simone Valeri]

Estratto dell’articolo di Riccardo Palmi per ilmessaggero.it giovedì 21 settembre 2023.

Il Guardian lancia l'allarme sull'inquinamento nella Pianura Padana. Un'area - quella a cavallo Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna - tra le peggiori in Europa per quanto riguarda l'inquinamento atmosferico. «È impossibile vivere qui», afferma uno degli intervistati.  

Il reportage

Nell'articolo "Impossible to live like this": Italy’s Po Valley blighted by air pollution among worst in Europe (Impossibile vivere così: la Pianura Padana è colpita da un inquinamento atmosferico tra i peggiori in Europa), il giornale britannico rileva come più di un terzo delle persone in queste zone respiri un'aria quattro volte superiore al limite di riferimento dell'Oms per il particolato più pericoloso presente nell'aria.

Il Guardian sottolinea come una delle città con la qualità peggiore dell'aria in Europa, secondo l'Agenzia europea dell'ambiente, sia Cremona, dove c'è peraltro la più alta percentuale di decessi nel Paese - tra i 150 e i 200 per 100.000 residenti - attribuiti al particolato fine, o PM 2,5. […]

C'è il caso di Crotta d'Adda, un paese nel cremonese in cui gli abitanti si sono barricati in casa, per un paio di settimane per il forte odore che arrivava dall'area agricola causando ad alcuni vomito, difficoltà respiratorie, vertigini, occhi gonfi e mal di testa. «È impossibile vivere così», ha affermato al giornale britannico uno degli intervistati, Cristiano Magnani.  [...]

Il rapporto dell'Agenzia Europea dell'Ambiente. Inquinamento, Pianura Padana maglia nera in Europa per qualità dell’aria. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Aprile 2023 

La Pianura Padana resta la regione più inquinata dell’Europa occidentale. È quanto emerge dai dati dell’Agenzia Europea dell’Ambiente (EEA), l’organismo dell’Unione Europea che monitora le condizioni ambientali. Gli ultimi dati hanno fatto registrare un generale miglioramento della qualità dell’aria rispetto al passato ma continuano a rappresentare un grande rischio per la salute.

L’EEA ha preso in considerazioni sostanze inquinanti cui si associa lo sviluppo di patologie principalmente cardiovascolari e respiratorie dopo l’esposizione a lungo termine. Si parla principalmente di particolato, di ozono e di biossido di azoto. Ad avere l’impatto maggiore sulla salute – viene associato al cancro ai polmoni, infarti e infezioni respiratorie – è il PM2,5.

Le cause dell’inquinamento in Nord Italia sono note da anni e molteplici. L’area è molto popolata, ci sono tante città, è densamente industrializzata. Soffia inoltre poco vento in Pianura Padana e le sostanze inquinanti ristagnano e non vengono disperse. La classifica delle città con oltre 50mila abitanti più inquinate del 2021, che tiene conto delle concentrazioni di PM2,5, riporta solo città del nord nelle prime dieci posizioni. In testa Cremona seguita da Padova e Vicenza sul podio. A seguire Venezia, Brescia, Piacenza, Bergamo, Alessandria, Asti e Verona. 12esima Milano, 14esima Torino. Solo due città polacche, Piotrkow Trybunalski e Nowi Sacz, e una croata, Slavonski Brod, hanno valori di concentrazioni di PM2,5 superiori a quelli di Cremona.

Secondo l’Agenzia Europea sono oltre 1200 i minori che muoiono ogni anno in Europa a causa dell’inquinamento atmosferico, perciò si chiede ai governi politiche specifiche per la protezione di bambini e ragazzi. Secondo il rapporto sono poco più del 10% le aree verdi che si trovano entro un raggio di 300 metri dagli istituti scolastici. Solo il 6% delle strutture è coperto da alberi. Le scuole con i dintorni più green si trovano generalmente nei Paesi del Nord Europa. La prima città con una qualità dell’aria definita accettabile è Genova.

Altissime e allarmanti concentrazioni di particolato si registrano anche nell’Europa centro-orientale, dove le principali cause sono l’uso del carbone per il riscaldamento e la produzione industriale. In Italia e nel bacino del Mediterraneo ci sono ancora alte concentrazioni di ozono per via del ruolo dell’irradiazione solare e del calore nella formazione di questo gas.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

La Sicilia.

Inquinamento, in Sicilia c’è un’Ilva nascosta di cui nessuno parla. Enrico Bellavia su L'Espresso il 26 maggio 2023. 

Lo sfregio della costa tra Augusta e Siracusa è uno dei più grandi disastri ambientali del nostro Paese. Morti e veleno, la salute scambiata con il miraggio dell’industrializzazione. L’inchiesta di Fabio Lo Verso diventa un libro

Prima fu il petrolio, più tardi la chimica, quindi il cemento. Si prendono tutto. Tra Augusta, Melilli e Priolo sventrano la terra, cancellano villaggi. Ammorbano l’aria. Avvelenano il mare e la falda. E con le fiamme dei camini, con i neon di viali squadrati e deserti accendono a giorno le notti della baia, mai più placida, solcata da cargo e cisterne in un andirivieni tumultuoso sotto i bagliori di quelle luminarie. Nutrono i pesci di acidi, insozzano l’acqua di lordure, appestano di misture la posidonia esanime. E non è sufficiente.

Noi crediamo di pagare subito e in quel modo il prezzo dell’illusione. Più indifferenti che inconsapevoli, ci è comodo ignorare che siamo parte del conto. Che lo lasceremo ai figli e ai figli dei figli. Del debito non intravediamo il saldo. Non è bastato consegnarci a un’esistenza da mutanti di un sogno industriale che non è il nostro, darci da vivere con la paga dell’inferno quotidiano, imporci lutti e poi irridere le nostre perdite nello sberleffo di una giustizia quasi sempre clemente con il potere. Mentre millantano bonifiche di carta, lasciamo impronte lì dove il sottosuolo restituisce l’indicibile che dicevano sepolto. E che ancora può uccidere. Proprio mentre ci ripetiamo che non avevamo scelta. Che ci presero per fame, quasi ad assolverci del consenso tributato a una classe politica imbelle e dell’ossequio riservato al capitale dei nuovi colonialisti: settentrionali, privati e pubblici, atlantisti, russi e chissà cos’altro.

Rimaniamo ammaliati dal suono delle sirene dei capannoni.

È musica che porta note di progresso, racconta di un mezzogiorno riscattato. Che però cerca nell’altro da costruire e non nell’oro che possiede il proprio avvenire. Così ci portano il futuro sotto, intorno e dentro casa. Indicandoci un orizzonte di abbondanza a chilometro zero, a patto di dimenticare quale sia quello che ci appartiene. E di non guardare più dalle finestre perché il Mediterraneo scompare dietro la selva di tralicci e comignoli. Quando siamo costretti a serrare gli scuri, immaginando di arginare così il puzzo che ci torce le budella negli spasmi della nausea, con la polvere che si porta via i polmoni, ci ripetiamo che è tutta questione di vento. Se tira di là ti risparmia, se gira di qua no, ma non dura tanto. E poi, basta allontanarsi di poco: se vai verso Catania non è poi così male, a Brucoli ci sono i turisti, e giù c’è Siracusa, il Plemmirio, l’azzurro e il verde che ti guidano fino all’incanto. Dopotutto, la Sicilia è un’isola, ovunque ci sono spiagge, cosa vuoi che sia sacrificarne qualche chilometro per la ricchezza?

Rassegnati. Per non inerpicarci più, infagottati nella nostra goffaggine, su per i tre scalini del Treno del Sole direzione Nord, con appresso le valigie strabordanti, scrigni della nostra miseria, accettiamo di indossare tute da operaio su mutandoni ruvidi da contadini. Voltiamo le spalle agli occhi muti degli dèi che a prua dei gozzi vigilano la rotta per calare le reti. Lasciamo quei legni all’ormeggio convinti che il sogno ci ha raggiunto. E ce ne andiamo a stipendio e sindacato.

A lavorare per i petrolieri, per i capitani dell’industria, per i signori del calcestruzzo. E ci occupiamo pure di smaltirgli la spazzatura. Sotto, intorno e dentro casa. E dove se no? Anzi, finiamo per importarla, di spazio ne abbiamo. E c’è sempre il mare. Ci facciamo campi di calcio e strade e palazzi sopra i massetti che dovrebbero tappare le scorie. E contenti ringraziamo pure chi ci porta soldi, agio, divertimento e modernità.

Liquidiamo come farneticazioni le parole di chi attenta al nostro benessere. Mestatori e detrattori che blaterano di vittime, neonati malformati, incidenti sul lavoro. Non vogliamo vedere, né sentire. E neppure contare i morti. Sudditi di un sogno che la realtà non deve fugare. E che proviamo a far durare il più a lungo possibile.

Se un manager fugge, ne aspettiamo ansiosi un altro. Se una famiglia prende il largo, aspettiamo che approdi una compagnia. Se la geopolitica degli affari impone nuovi partner, ce li facciamo piacere. Come con la Marina, la Nato e il rischio nucleare. E non smettiamo, attaccati come ci hanno lasciati alla sopravvivenza del ricatto che non prevede scelte sul pane da portare in tavola. Sul bordo degli Ottanta, Enzo Maiorca (Siracusa, 1931-2016), una vita in apnea in quelle stesse acque che aveva visto purissime me la raccontò così: «A nord di Siracusa pagammo il prezzo all’industrializzazione del petrolchimico, creando generazioni di “spostati”, contadini e pescatori entrati in fabbrica, sradicati dal loro ambito e dalle loro idee. Allora, negli anni Cinquanta, ci sembrava un giusto prezzo per uscire dalla miseria. E così questo mare lo abbiamo visto di tutti i colori: rosso, grigio e con le mèches. Ci consolava sapere che rimaneva salva la costa di levante e quella a sud. Non è così, niente è più al riparo dalla voracità».

Questa è la storia che racconta il lucido e implacabile reportage di Fabio Lo Verso con le foto di Alberto Campi, “Il mare colore veleno” (ed. Fazi). Un viaggio in piano su pochi chilometri di superficie, denso nella profondità delle testimonianze, dell’analisi, dei risvolti e delle implicazioni lungo un pezzo di Sicilia che è nell’itinerario delle guide ma che rimane fuori dagli spot e dalle cartoline turistiche. L’indicibile specchio della nostra vergogna.

Le Auto.

I diesel Euro 5 sono 'salvi' (anche in Lombardia) fino al 2025. Redazione l'8 settembre 2023 su milanotoday.it.

Il decreto del governo che rinvia le scadenze facoltative e obbligatorie per le regioni. In Lombardia ancora 2 milioni per il bando per rinnovare l'autovettura

Tutte le regioni del bacino padano (Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna) si vedono rinviato il termine entro cui vietare la circolazione dei diesel Euro 5 nelle città superiori a 10mila abitanti. Lo ha stabilito il consiglio dei ministri con un decreto legge che impone alle regioni padane di aggiornare, entro sei mesi, i piani di qualità dell'aria, modificando eventualmente i decreti attuativi. Nel frattempo, come già da qualche anno, le regioni possono disporre, dal 1° ottobre al 31 marzo di ogni anno, il blocco di alcune tipologie di mezzi, ma in ogni caso i diesel Euro 5 non potranno essere 'toccati' prima del 1° ottobre 2024. Poi, dal 1° ottobre 2025, la limitazione alla circolazione sarà "inserita nei piani della qualità dell'aria" dele regioni, che quindi saranno a quel punto obbligate a limitare anche i diesel Euro 5.

Si sposta così di un anno (al 2024) il termine temporale che aveva fatto molto discutere nelle scorse settimane, quando in Piemonte, a giugno, è stato varato il decreto attuativo che avrebbe 'stoppato' i diesel Euro 5 in 76 comuni (tra cui tutti i capoluoghi) dal 15 settembre. Una decisione contestatissima dalle popolazioni interessate e che aveva generato polemiche tra chi sosteneva che "ce lo impone l'Europa" e chi ribatteva che "si sapeva da anni".

Il bando per sostituire le auto inquinanti

Sul fronte lombardo, che non era interessato dal provvedimento nel 2023, il plauso al governo arriva dall'assessore all'ambiente Giorgio Maione, secondo cui "non si possono costringere decine di migliaia di famiglie a sostituire l'automobile dall'oggi al domani". L'assessore promette che ci sarà un confronto tra regione, comuni e associazioni di categoria per condividere le tempistiche concrete. L'assessore sottolinea poi che la Lombardia, col bando 'rinnova autovetture 2023', ha investito 10 milioni di euro consentendo a 4.744 famiglie di sostituire un veicolo inquinante con un veicolo a zero o bassissime emissioni. Un incentivo che arriva fino a 4mila euro, e sono ancora disponibili 2 milioni. C'è tempo fino al 31 ottobre.

Per partecipare al bando occorre essere residenti in Lombardia al momento della domanda e avere un'auto a benzina (fino a Euro 2 incluso) o diesel (fino a Euro 5 incluso) da sostituire. Il contributo è di 4mila euro per l'acquisto di una vettura a zero emissioni (elettrica), e scende al salire delle emissioni, fino al limite di 120 grammi/km di Co2 e di 126 mg/km di Nox. Ci sono anche tetti massimi di spesa per l'auto nuova, che vanno da 35mila a 45mila euro (pagina 7 del bando). Inoltre ci si impegna a tenere il veicolo nuovo per almeno 24 mesi.

Pd e Avs: "Scelta miope"

Parla di "scelta miope" del governo Miriam Cominelli, consigliera regionale del Pd in Lombardia: "Non considera che la Lombardia è una delle regioni europee più a rischio per gli eventi estremi causati dal cambiamento climatico. Posticipare di un anno le misure di limitazione della circolazione dei veicoli diesel Euro 5 e investire pochi soldi per permettere ai cittadini di cambiare l'auto significa non prendere consapevolezza del tempo che viviamo", commenta la consigliera, secondo cui le 4.744 famiglie aiutate sono "numeri risibili" rispetto a 10 milioni di abitanti. "La transazione energetica - conclude Cominelli - non è una scelta opzionabile ma una necessità impellente". 

Governo contestato anche dal deputato Marco Grimaldi di Alleanza Verdi Sinistra, torinese. "L'Italia ha tre procedure d'infrazione europee concluse e una in corso, ed è il paese che più di tutti ha violato la direttiva sulla qualità dell'aria. Oltretutto i diesel Euro 5 sono quelli più coinvolti nel dieselgate, con emissioni dichiarate inferiori a quelle effettive", afferma Grimaldi, ricordando che il Piemonte "ha avuto 2 anni per accompagnare la decisione del blocco al 2023, presa non oggi ma nel 2021, invece ha aspettato il 30 giugno 2023 per rendere attuativa quella delibera. Rimandare il blocco dei diesel al 2025 è la sconfitta di tutti, non la vittoria di qualcuno".

 Il Veneto approva Move-In: tracciamento e limiti chilometrici per le auto vecchie. Roberto Demaio su L'Indipendente il 9 settembre 2023.

Via libera in Veneto alla “scatola nera” che misurerà i chilometri percorsi dai veicoli inquinanti, che potranno circolare anche nelle zone vietate a patto di rispettare un limite di percorrenza parametrato alla classe ambientale. Come già in Lombardia, in Piemonte e in Emilia-Romagna, anche in Veneto sarà attuato “MoVe-In – Monitoraggio veicoli inquinanti”. È ciò che prevede il Progetto di legge n. 198 della Giunta regionale “Modifica alla L.R. 16 aprile 1985, n. 33, Norme per la tutela dell’ambiente”, approvato all’unanimità dal Consiglio regionale del Veneto. Già preannunciati interventi per 250.703 euro per l’utilizzo della banca dati di Milano ma ancora nulla sui dettagli operativi e sui limiti consentiti per ogni categoria, anche se l’orientamento sembra puntare al modello lombardo. Secondo tale schema, si pagheranno 50 euro per l’iscrizione, 30 euro per il montaggio dell’apparecchio e 20 euro l’anno per il canone. Questi ultimi, comprenderanno i servizi di raccolta dei dati di tracciamento e geolocalizzazione che però, nonostante i divieti siano in vigore solo in aree particolari, saranno attivi su qualsiasi tipologia di tratto stradale e affidati a operatori privati TSP (Telematic Service Provider).

Per accedere al servizio, sarà necessario registrarsi ad una piattaforma web o all’app, inserire il nome e la targa e scoprire qual è il limite annuo che si deve rispettare. Se verrà effettivamente seguito l’esempio lombardo, i veicoli Euro 0 potranno circolare per un massimo di 1.000 chilometri, gli Euro 1 per 2.000, gli Euro 2 per 4.000, gli Euro 3 per 7.000 e gli Euro 4 fino a 10.000 chilometri. È concessa una tolleranza del 3% e, in caso di sforamento, l’auto non potrà più essere usata nelle zone vietate in nessun giorno della settimana 24 ore su 24 fino all’anno successivo. Nonostante il fatto che le restrizioni si applicheranno solo a determinate aree e centri storici, la geolocalizzazione sarà sempre attiva e quindi il conteggio dei chilometri avverrà su qualsiasi tipologia di tratto stradale. Il fine è quello di erogare “bonus” che aumenteranno i limiti annuali per le aree vietate: 200 metri in più per ogni chilometro percorso su strade extraurbane o su autostrade con velocità compresa tra i 30 ed i 110 chilometri all’ora e 100 metri aggiuntivi per ogni chilometro percorso su strade urbane con accelerazioni che non devono superare i due metri al secondo quadrato. Tutti dati che, nonostante l’ok del Garante per la Privacy, saranno raccolti e poi trasmessi alla regione da operatori privati TSP (Telematic Service Provider).

Il Relatore Silvia Rizzotto (Lega), presidente della Seconda commissione consiliare, ha osservato che “l’inquinamento veicolare incide poco sulla qualità dell’aria, rispetto a quello domestico e industriale”. Dichiarazioni coerenti anche con i dati europei, ma che sembrano scontrarsi proprio con il progetto di legge presentato, il quale, appunto, costringe chiunque possieda un veicolo “inquinante” ad installare una scatola nera per circolare nelle “aree verdi”. Zone a traffico limitato che sono in fase di espansione e che, secondo le dichiarazioni del sindaco di Milano Giuseppe Sala, potrebbero ispirarsi alla ULEZ di Londra, la quale è stata estesa a quasi tutto il territorio e prevede una tassa giornaliera di 12,50 sterline per tutti i veicoli fino alla categoria Euro 4.

Secondo i dati Istat riferiti al 2022, il 20,1% della popolazione italiana è a rischio povertà e, secondo le statistiche dell’ACI (Automobile Club d’Italia), il 50,18% delle autovetture circolanti appartengono alla categoria Euro 4 o inferiore e il 17,38% sono Euro 0, Euro 1 o Euro 2. Il provvedimento, nonostante il nobile obiettivo della lotta all’inquinamento atmosferico, rischia di diventare un ulteriore peso per i cittadini meno abbienti e di far pagare la transizione verde a tutti coloro che purtroppo l’auto nuova non possono permettersela. [di Roberto Demaio]

Quanto inquinano le nuove auto? Promossi e bocciati del Green Ncap, la classifica sulla sostenibilità dei veicoli. Maurizio Bertera il 4 Luglio 2023 su Il Corriere Della Sera.

L’obiettivo delle analisi Green Ncap è quello di fornire informazioni sempre più precise sulla sostenibilità ambientale dei veicoli. L’ultima classifica

Come funziona l’analisi

L’obiettivo delle analisi Green Ncap è quello di fornire informazioni sempre più precise sulla sostenibilità ambientale dei veicoli, con un approccio più ampio che tenga conto non solo delle emissioni allo scarico. Questa modifica ha, infatti, esteso l’analisi all’intero ciclo di vita della vettura testata. In questo modo, l’ente indipendente punta a fornire informazioni più precise in merito alla sostenibilità di un’auto. Il giudizio finale (espresso in stelle, da un minimo di zero a un massimo di cinque) si articola in tre macrocategorie: Clean Air, Energy Efficiency e Greenhouse Gas. Ogni categoria comprende una lunga serie di parametri che determinano il punteggio complessivo. Green Ncap effettua sia analisi in laboratorio che test in strada, in condizioni reali di utilizzo dei veicoli. In questo modo, il punteggio complessivo è ancora più preciso e tiene conto di diverse variabili. Curiosità: nell’ultima tornata di test, sono state analizzate un’auto elettrica, una diesel, una mild hybrid e due benzina.

Cinque stelle per la Volskwagen ID.5

Premessa: un'auto elettrica, almeno quando si parla di emissioni, non ha problemi nell’analisi e quindi la Volkswagen ID.5 non fa eccezione. Il Suv tedesco, testato nella versione Pro Performance con motore da 150 kW e batteria da 77 kWh, ha infatti ottenuto 5 stelle con 10/10 alla voce "Clean Air Index", quello relativo alle emissioni. Ma ha stupitol'efficienza generale, con valori di consumo tra i più bassi mai registrati nonostante un peso superiore alle 2,1 tonnellate. Secondo le prove l'autonomia totale è di poco superiore ai 500 km, che diventano 250 a temperature ben al di sotto degli 0 gradi. In totale il punteggio è stato di del 96%, con una votazione di 5 stelle, il massimo.

Tre stelle per Bmw Serie 2 Coupé

Unica diesel della tornata era la Bmw Serie 2 Coupé 220 d, capace di far registrare ottimi valori (7,6/10) per quanto riguarda le emissioni, in particolare per il controllo sul particolato, per valori complessivi che rimangono ben al di sotto delle soglie stabilite da Green NCAP. Il 220d si conferma campione di efficienza nella categoria, con consumo medio di 5 litri ogni 100 km, 4,8 nella guida standard e 6,3 in autostrada. In totale la coupé bavarese ha ottenuto un punteggio medio del 55%.

Due stelle e mezzo per Dacia Sandero Stepway

E’ campione di vendita, anche in Italia, ma non ha convinto gli esperti del Green Ncap. Mossa dal 1.0 benzina da 90 cavalli la Dacia Sandero Stepway è riuscita a ottenere 6,1/10 (risultato superiore alla media) per quanto riguarda i test sulle emissioni, grazie specialmente al sistema di post-trattamento dei gas di scarico. I consumi registrati sono stati di 5,7 litri ogni 100 per la guida standard, 7,8 per i viaggi in autostrada. Come sottolineato dal Green Ncap a causa dei dati di consumo non particolarmente positivi e delle emissioni di gas serra per l'approvvigionamento del carburante, il punteggio medio della Sandero Stepway si ferma al 47%, validi per 2 stelle e mezzo.

Due stelle e mezzo per Mercedes Classe C

Una sorpresa negativa per una delle bestseller della Stella. Secondo i test del Green Ncap il 1.5 mild hybrid della Classe C non la aiuta particolarmente ad abbattere le emissioni, né tantomeno i consumi con 6,6 litri ogni 100 km di media e 8,1 per la guida in autostrada. Risultato: valori di CO2 alti e 3/10 come voto per le emissioni di gas serra. Tutto questo ha portato la berlina della Casa tedesca a ottenere il 46% come votazione finale e 2 stelle e mezzo.

Due stella per Ford Tourneo Connect

Il 1.5 turbo da 115 cavalli, senza alcun tipo di elettrificazione, faceva presumere un punteggio non brillante. Ma non è stato questo elemento a penalizzare la Ford Tourneo Connect. Come evidenziato dal Green NCAP infatti è la forma della carrozzeria a influenzare fortemente sia consumo di carburante sia le emissioni di CO2, portando a risultati particolarmente bassi negli indici di efficienza e di gas serra. Bilancio che, nel caso delle emissioni, è inferiore rispetto a quanto registrato dalla "cugina" Volkswagen Caddy mossa dallo stesso motore. A peggiorare le performance ci ha pensato la presenza del cambio automatico sul multispazio dell'Ovale Blu. Complessivamente, il commerciale Ford ha ottenuto un punteggio del 32%. Da qui le 2 stelle.

L’Europa contribuisce all’inquinamento in Africa inviando auto obsolete. Simone Valeri su L'Indipendente il 15 Marzo 2023.

A causa della spinta alla sostituzione del parco automobilistico, l’Europa sta contribuendo all’inquinamento in Africa in quanto vi esporta milioni di veicoli obsoleti che non soddisfano gli standard minimi di emissioni. Queste le conclusioni di un Rapporto del Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente finalizzato a sostenere i paesi in via di sviluppo nell’adozione di politiche più sostenibili. Secondo il documento, sono stati circa 14 i milioni di vecchi veicoli esportati dall’Europa, ma anche da Giappone e Stati Uniti, tra il 2015 e il 2018. Quattro su cinque di questi veicoli sono finiti dentro i confini di Paesi poveri, dei quali più della metà in Africa. Un fenomeno in crescita e destinato ad acuirsi ancor più col passare del tempo e la definizione di nuove norme in linea con la transizione all’elettrico. L’export di auto obsolete, nel 2015, si limitava a soli tre milioni e mezzo di auto usate, ma già nel 2019 ne sono stati esportati cinque milioni.

Tra i tre principali esportatori di auto usate, l’Unione europea si attesta in prima posizione contribuendo al 54% del flusso totale, seguita da Giappone (27%) e Stati Uniti (18%). Le principali destinazioni dei veicoli usati dall’UE sono l’Africa occidentale e settentrionale, il Giappone esporta principalmente verso l’Asia e l’Africa orientale e meridionale, mentre gli Stati Uniti perlopiù verso il Medio Oriente e l’America centrale. Nel complesso, il 70% dei veicoli commerciali leggeri esportati è stato quindi destinato a paesi in via di sviluppo. Nel periodo in esame, l’Africa ne ha importato il maggior numero (40%), seguita dall’Europa dell’Est (24%), dall’Asia (15%), dal Medio Oriente (12%) e l’America Latina (9%). Questo commercio, che secondo le Nazioni Unite andrebbe regolamentato, avanza una serie di preoccupazioni legate alle emissioni inquinanti e climatiche dei veicoli usati, alla loro qualità e sicurezza, al consumo di energia e ai costi di gestione. In relazione all’impatto ambientale è poi verosimile che il fenomeno non faccia altro che esacerbare le già pessime condizioni dei paesi poveri in termini di inquinamento. La maggior parte dei paesi in via di sviluppo ha infatti una regolamentazione blanda, limitata o inesistente sull’importazione dei veicoli usati importati e le poche norme che esistono sono spesso scarsamente applicate.

Dei 146 paesi analizzati nel rapporto, solo 18 hanno adottato un divieto assoluto di importazione di veicoli usati per motivi ambientali, di sicurezza o per tutelare la propria industria manifatturiera. In definitiva è proprio tale divario nelle misure politiche tra mercati esportatori e importatori ad aver alimentato questo commercio globale di veicoli usati obsoleti, vecchi, non sicuri e inquinanti. Una quota ampia dei veicoli destinati ai paesi poveri manca infatti dei requisiti ambientali di base, andando così a contribuire in modo determinante all’inquinamento atmosferico e alle emissioni climatiche nei paesi destinatari. Oltre l’80% dei veicoli esportati dai soli Paesi Bassi – ha evidenziato ad esempio il rapporto – era infatti al di sotto della standard Euro 4 e la maggior parte non aveva nemmeno un certificato di circolazione valido. Nel complesso, la flotta globale di veicoli leggeri – quelli su cui il rapporto si è focalizzato – è destinata a raddoppiare entro il 2050. Non a caso, circa il 90% di questa crescita avverrà nei Paesi non OCSE, ovvero tutti quelli che importano un gran numero di veicoli usati dai paesi economicamente più avanzati. Ad oggi, nonostante il ruolo critico che svolgono negli incidenti stradali, l’inquinamento dell’aria e gli sforzi per mitigare il cambiamento climatico, non esistono attualmente accordi regionali o globali sul commercio internazionale di veicoli usati. [di Simone Valeri]

I silenzi dello Stato.

La mal'aria. Report Rai PUNTATA DEL 12/06/2023 di Emanuele Bellano

Collaborazione di Cecilia Bacci, Chiara D’Ambros e Roberto Persia

Immagini di Chiara D'Ambros, Davide Fonda e Fabio Martinelli

L'inquinamento dell'aria provoca circa 60mila morti causando malattie all'apparato respiratorio ma anche al sistema cardio-circolatorio.

Dal 2006 le Regioni italiane sforano costantemente i limiti di legge previsti per il particolato e il biossido di azoto. Quali misure sono state prese dalle amministrazioni per tutelare la salute dei cittadini? Cosa è stato fatto e cosa invece manca all'appello? Report ha ricostruito il sistema di vigilanza e di misurazione delle sostanza inquinanti: manca un monitoraggio delle particelle più sottili, le ultrafini, che sono le più pericolose per l'organismo, perché entrano capillarmente nel sangue e da lì raggiungono tutti gli organi compromettendo la loro funzionalità. Oltre ai danni alla nostra salute, tutto questo ha una pesante ricaduta economica: le procedure di infrazione aperte dall'Unione Europea rischiano di costarci circa 2 miliardi di euro ciascuna. Mentre i costi sanitari vanno dai 2.000 euro ad abitante all'anno a Torino fino ai 2.800 euro a Milano.

MAL’ARIA di Emanuele Bellano Collaborazione di Cecilia Bacci, Chiara D’Ambros, Roberto Persia Immagini di Chiara D’Ambros, Davide Fonda, Fabio Martinelli

CHIARA - MAMMA DI ANDREA Mio figlio a circa un anno di età ha iniziato ad avere delle bronchiti. Queste bronchiti sono diventate progressivamente sempre più frequenti e ha iniziato a fare da molto piccolo - praticamente un anno - cicli di cortisone, cicli di aerosol in continuazione. E, ovviamente come immagino tutti i genitori, ci si chiede cosa si può fare oltre a imbottirlo di medicine e i pediatri dicono: poi certo, abitiamo a Torino, c’è l’aria inquinata.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dalla nascita il piccolo Andrea vive in una città che supera in maniera sistematica i limiti consentiti di polveri sottili.

CHIARA FOGLIETTA - ASSESSORA ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA - COMUNE DI TORINO È una condizione preoccupante. Noi su 12 inquinanti ne sforiamo 3 che sono il particolato, quindi il PM10, il PM2.5 e i diossidi di azoto. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La legge prescrive che il PM10 non deve superare i 50 microgrammi per metrocubo d’aria per più di 35 giorni in un anno. A Torino il limite è stato superato 98 giorni nel 2022, 75 giorni nel 2021, 98 giorni nel 2020. I superamenti sono costanti da quando la misurazione è diventata obbligatoria, cioè dal 2008. L’anno scorso Torino è risultata per il PM10 la città più inquinata d’Italia.

CHIARA - MAMMA DI ANDREA A Torino c’è un bel parco sulla collina. Dall’altro vedevamo Torino con una cappa di smog - praticamente sempre - e quindi ti chiedi e mi chiedevo, ecco, lì, quell’aria lì mio figlio la sta respirando. E ovviamente ti senti incapace di difendere un bambino che si affida totalmente a te. A mio figlio è stato fatto diagnosi di un’asma bronchiale però queste bronchiti che ha avuto da molto piccolo hanno anche causato una sorta di malformazione dei bronchi per cui il catarro tende ad accumularsi lì ed è per questo che lui recidiva, si infetta più facilmente di altri bambini.

EMANUELE BELLANO Ogni quanto tempo aveva, nella fase più acuta, le bronchiti?

CHIARA - MAMMA DI ANDREA Ah, in continuo. C’è stato un anno che ho fatto 11 cicli di antibiotico e il cortisone non lo smettevamo mai. Mai.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo 5 anni, la famiglia del piccolo Andrea decide di lasciare Torino e trasferirsi in collina, fuori città. E deposita in tribunale una denuncia contro la Regione Piemonte.

CHIARA - MAMMA DI ANDREA Abbiamo deciso di fare una causa non tanto per noi. Il mio pensiero era per tutti gli altri. Cioè, a Torino è pieno di bambini che continuano a giocare nei parchi di Torino, a crescere a Torino e che magari non hanno le stesse opportunità per fare la scelta che ho fatto io. E a loro chi ci pensa? Dovrebbero essere coloro che ci governano.

EMANUELE BELLANO La signora Chiara si rivolge a un pool di avvocati e di medici che ricostruiscono responsabilità ed esposizione del bambino agli inquinanti atmosferici.

FABRIZIO BIANCHI - EPIDEMIOLOGO AMBIENTALE - ISTITUTO FISIOLOGIA CLINICA CNR Siamo andati a cercare di capire se l’esposizione a un inquinamento così elevato come c’è stato a Torino - specialmente nei primi 4 anni, nei giorni e poi anche l’anno successivo - hanno prodotto dei danni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma esiste un rapporto documentato di causa-effetto tra esposizione agli inquinanti dell’aria e malattie?

FRANCESCO FORASTIERE - EPIDEMIOLOGO E CONSULENTE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Questa relazione di causa-effetto è stata stabilita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Environmental protection agency americana, l’Health Canada. Diciamo che oggi sull’inquinamento atmosferico è un po’, il paragone che è stato fatto è come il fumo di sigaretta: sappiamo che induce una patologia multiorgano.

EMANUELE BELLANO Quali sono le malattie per cui oggi è stato stabilito un rapporto di causa ed effetto?

FRANCESCO FORASTIERE - EPIDEMIOLOGO E CONSULENTE ORGANIZZAZIONE MONDIALE DELLA SANITÀ Per esempio, l’asma nei bambini, la bronchite cronica, la bronchite cronica ostruttiva e il tumore polmonare. C’è una relazione di causa-effetto con alcune malattie cardiovascolari, in primis l’infarto del miocardio ma anche con l’ictus, lo stroke. C’è una relazione di causa-effetto anche, che è stata stabilita da poco tempo, anche con la demenza e con il basso peso alla nascita.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A causa di queste malattie l’Agenzia per l’Ambiente dell’Unione Europea ha stabilito che nel 2022 in Italia sono morte circa 60 mila persone uccise dall’esposizione ad alti valori di smog.

ALDO FERRARA - PROFESSORE DI MALATTIE RESPIRATORIE - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA Va tenuta presente una cosa: che, nelle cause di decesso non si leggerà mai morto o deceduto per smog. Quindi è un iceberg. Il numero di decessi è verosimilmente più alto tanto è vero che l’Organizzazione mondiale della sanità dice che nel ventunesimo secolo forse più del 20 per cento delle patologie sarà ambiente-correlato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Gli inquinanti dell’aria sono in prevalenza tre: Biossido di Azoto, noto come NO2, generato per lo più dalla combustione dei motori a scoppio diesel e benzina; l’ozono e poi i particolati fini e finissimi, conosciuti come PM10 e PM2,5. L’epidemiologa Barbara Hoffmann ci mostra la differenza tra un polmone sano e uno esposto a polveri sottili.

BARBARA HOFFMANN – MEMBRO SOCIETÀ INTERNAZIONALE DI EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE A sinistra potete vedere un polmone sano. A destra invece un polmone che è stato esposto agli inquinanti dell’aria. Si vedono tutti questi punti neri qui, sono delle sub-particelle che si accumulano, proprio come avviene nei fumatori. A sinistra un polmone sano, dove ci sono queste piccole bolle d’aria, dove avviene lo scambio di ossigeno. Qui invece gli alveoli si sono trasformati in queste grandi sacche che non partecipano più agli scambi gassosi.

EMANUELE BELLANO Questo cambiamento è generato dall’esposizione allo smog quindi?

BARBARA HOFFMANN – MEMBRO SOCIETÀ INTERNAZIONALE DI EPIDEMIOLOGIA AMBIENTALE Sì. In Europa le polveri sottili causano tra i 200 mila e i 300 mila morti all’anno. L’Italia è il paese più colpito: ci sono circa 60 mila morti ogni anno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma oltre al PM10 e al PM2,5 ci sono particolati più sottili nell’aria inquinata che respiriamo?

GIORGIO BUONANNO - PROFESSORE DI FISICA TECNICA - UNIVERSITÀ DI CASSINO Ci sono polveri che hanno diametri inferiore ai cosiddetti 100 nanometri. Chi emette queste polveri ultrafini? Essenzialmente processi di combustione.

EMANUELE BELLANO Significa? GIORGIO BUONANNO - PROFESSORE DI FISICA TECNICA - UNIVERSITÀ DI CASSINO Processi di combustione significa ogni volta che ho una fiamma sostanzialmente: quindi, anche un'automobile ma anche quando io brucio della legna per riscaldamento.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Parliamo di particelle fino a mille volte più piccole del PM10.

GIORGIO BUONANNO - PROFESSORE DI FISICA TECNICA - UNIVERSITÀ DI CASSINO Queste polveri ultrafini hanno la capacità addirittura di superare la barriera che abbiamo tra ossigeno e sangue quindi entrare in circolo con il sangue e raggiungere qualsiasi organo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per misurare queste particelle serve un condensatore come questo, che conta il particolato ultrafine attraverso un laser.

GIORGIO BUONANNO - PROFESSORE DI FISICA TECNICA - UNIVERSITÀ DI CASSINO In questo momento i laser stanno contando una concentrazione di circa 7 mila particelle a centimetro cubo. Siccome noi ogni due respiri inaliamo circa un litro di aria, ovvero mille centimetri cubici, io sto inalando, durante questa intervista, circa 7 milioni di particelle ogni due respiri. Sono tante o sono poche? Se io mi trovo in uno street canyon, quindi una strada trafficata con palazzi alti dove la ventilazione è ridotta, lì possono arrivare a concentrazioni di cento milioni di particelle ogni due respiri.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Le Arpa, cioè le agenzie regionali per l’ambiente, sono gli organi ufficiali che misurano gli inquinanti presenti nell’aria.

EMANUELE BELLANO Le polveri ultrafini sono misurate oggi?

ALESSANDRO DI GIOSA - DIRIGENTE CENTRO REGIONALE QUALITÀ DELL’ARIA - ARPA LAZIO No, un monitoraggio sistematico diffuso di queste particelle non è presente.

SECONDO BARBERO – DIRETTORE GENERALE ARPA PIEMONTE Non siamo in grado di dire qual è la frazione ultrafine. Ecco, questo con le tecniche, coi protocolli analitici attuali questo non è possibile farlo.

EMANUELE BELLANO Quindi noi siamo scoperti rispetto a queste particelle che poi sono le più dannose per l’organismo?

GIORGIO BUONANNO - PROFESSORE DI FISICA TECNICA - UNIVERSITÀ DI CASSINO Assolutamente sì, siamo completamente scoperti.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Le polveri ultrafini, quelle mille volte più piccole delle PM10, sono pericolosissime. Sono quelle che funzionano un po’ come un taxi: trasportano le sostanze cancerogene o tossiche nel luogo più profondo dei polmoni, là dove avviene lo scambio tra ossigeno e sangue, gli alveoli polmonari, filtrano le barriere naturali, entrarono nel sangue e si depositano negli organi. Sono pericolosissime: abbiamo scoperto che nessuno le monitora. Monitoriamo invece le altre sostanze inquinanti: PM 10, PM 2.5 ma non è che facciamo chissà che per migliorare la situazione. Le nostre regioni, le nostre città dal 2006 a oggi hanno sforato più volte i limiti di particolato e biossido di azoto. Per questo siamo stati condannati per ben tre volte dalla Corte di Giustizia Europea e rischiamo anche delle multe, sanzioni miliardarie. L’OMS da tempo giudica le patologie derivanti dall’inquinamento atmosferico pericolose alla stregua di quelle derivanti dall’ alimentazione scorretta o dal tabagismo. Per questo dal 2021 ha dimezzato i limiti di esposizione annuali del PM2.5 da 10 microgrammi per metro cubo a 5, quella delle PM10 da 20 microgrammi a 15. E per il Biossido di Azoto la soglia è scesa da 40 microgrammi a 10. Ecco, una revisione che dovrà essere recepita, se passerà la direttiva europea, entro gennaio del 2030. Solo che questo ha già provocato le forti proteste dei presidenti delle Regioni Lombardia, Emilia-Romagna, Veneto e Piemonte, che sono quelle, poi, tra le più inquinate d’Europa, perché già fanno fatica a rispettare i limiti imposti, che sono quelli vecchi. Sforano di continuo. Immaginiamo poi se dovessero rispettare quelli imposti a partire da gennaio del 2030. Giudicano questi provvedimenti folli e giudicano a rischio l’attività imprenditoriale del 75 per cento delle imprese della Pianura Padana. Invece chi chiede che venga rispettata, a tutela della salute, la normativa, questi limiti, sono gli scienziati. Lo hanno chiesto al Governo e agli stessi presidenti ma tanto a chi importa? Perché nessuno ha pagato fino a oggi per non aver rispettato questi limiti. Però c’è stata una svolta: a Torino a ottobre scorso una famiglia - Chiara e il compagno - hanno presentato una denuncia a tutela del proprio figlio al tribunale per accertare le responsabilità e anche per valutare un risarcimento perché la Regione Piemonte e il Comune di Torino hanno impedito al proprio figlio di respirare un’aria pulita. Ecco, questa sentenza, se verranno accertate delle responsabilità, potrebbe cambiare un andazzo: quello degli amministratori che fino a oggi non hanno fatto altro che lasciare il cerino bollente in mano all’amministratore successivo. Regioni e Comuni avrebbero avuto la possibilità, avrebbero dovuto di concerto adottare piani per migliorare la qualità dell’aria. Non l’hanno fatto. Torino, per esempio, ha sforato più volte i limiti dell’inquinamento.

DIEGO TRIDIMONTI Siamo nel centro di Torino, è pieno di macchine in circolazione. Sono le 11.00 e la ZTL non è in funzione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La ZTL Centrale a Torino è attiva, infatti, dalle 7.30 alle 10.30 di mattina. EMANUELE BELLANO Come mai solo per tre ore al giorno?

CHIARA FOGLIETTA - ASSESSORA ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA - COMUNE DI TORINO Allora, la nostra ZTL Centrale insiste su una porzione che è il 2 per cento della superficie della nostra città. Andare a incidere solo su una porzione di territorio che, ripeto, è il 2 per cento di 130 chilometri quadrati, non migliorerebbe la qualità dell’aria sul nostro territorio.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Proprio per questo, il piano di risanamento della qualità dell’aria della regione Piemonte già da anni imponeva ai Comuni di ampliare le aree Ztl. Né l’amministrazione attuale né le precedenti hanno rispettato questa prescrizione.

EMANUELE BELLANO Perché non aumentare i tempi di blocco del traffico a 6 ore, 8 ore come avviene in altre città, come avviene a Milano?

CHIARA APPENDINO – SINDACA DI TORINO (2016-2021) Intanto la rassicuro che tutto quello che noi abbiamo fatto, ed è tanto, sull’ambiente non lo abbiamo fatto perché c’era qualcuno che ci diceva che dovevamo farlo ma... EMANUELE BELLANO Però in questo caso non è stato fatto, no?

CHIARA APPENDINO– SINDACA DI TORINO (2016-2021) No, è stato fatto ma in un percorso diverso, perché allora perché 7.30-19.30 e non 7.30-18.30 e non 7.30-15.30? Cioè, il punto è che se vogliamo fare una misura vera, efficace, strutturale, che limita e non semplicemente far sì che le macchine magari girino intorno ed emettano ancora più inquinamento perché è talmente piccola, vedo che lei ha la carta lì, la ZTL di Torino, quindi semplicemente rischi che girino intorno. Che cosa abbiam fatto? Un lavoro più serio, cioè uno studio sulla mobilità, su come si muovono le persone per studiare una ZTL che è quella che poi abbiamo prodotto che sì, disincentiva il traffico.

EMANUELE BELLANO Come mai in 5 anni di amministrazione non siete riusciti poi a rendere attivo questo progetto di cui mi parla?

CHIARA APPENDINO– SINDACA DI TORINO (2016-2021) Abbiamo prodotto una prima ZTL, ripeto, che è stata bloccata sostanzialmente dal covid e quindi abbiamo dovuta ritirarla. Avevamo già prodotto un altro modello che è quello della città, che è quello che ha oggi la città in eredità.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Sta di fatto che nei 5 anni di amministrazione di Chiara Appendino, così come ancora oggi, dalle 10.30 del mattino e per tutto il giorno, si arriva con l’auto sotto la Mole Antonelliana, a piazza San Carlo, o a Palazzo Madama, nella centralissima piazza Castello. EMANUELE BELLANO Rischia di essere una ZTL in pratica inesistente, ininfluente.

CHIARA FOGLIETTA - ASSESSORA ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA - COMUNE DI TORINO Allora, siamo in fase di studio se allungare il nostro orario della ZTL, ma ci stiamo concentrando molto di più su una ZTL molto più allargata, perché ha una superficie di 70 chilometri quadrati in cui andare a controllare i veicoli diesel che non possono entrare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Un’area che esiste già, almeno sulla carta. In tutta la città di Torino è già presente dal 2021 il divieto di circolazione per i veicoli più inquinanti: benzina da Euro 0 a Euro 2 e diesel da Euro 0 a Euro 4.

EMANUELE BELLANO I controlli su questo tipo di divieti come vengono fatti?

CHIARA FOGLIETTA – ASSESSORA ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA - COMUNE DI TORINO Vengono fatti dal corpo di polizia municipale.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Che però non ha personale sufficiente. E così basta osservare i veicoli che circolano per capire che il divieto è solo sulla carta. In dieci minuti abbiamo contato questo furgone diesel Euro 3, quest’auto a benzina Euro 2 e poi quest’altro furgone diesel Euro 3: tutti mezzi il cui transito è rigorosamente vietato.

EMANUELE BELLANO Non ci sono telecamere che monitorano tipo gli ingressi della città per vedere che questi veicoli non entrino o comunque non circolino?

CHIARA FOGLIETTA - ASSESSORA ALLA TRANSIZIONE ECOLOGICA - COMUNE DI TORINO Allora, agli ingressi della nostra città in questo momento no.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Se anche i veicoli più inquinanti viaggiano indisturbati, chi prova a usare un mezzo più ecologico per spostarsi in città alla fine si ritrova così.

DIEGO TRIDIMONTI Adesso andiamo a togliere il filtro della mascherina che fondamentalmente ho usato per un mese qua in giro per Torino, nel quotidiano. E questo quello che respiriamo a Torino girando in bicicletta.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il controllo con le telecamere per l’accesso in città non c’è neanche a Genova, Napoli o Bologna. Eppure, i Comuni scrivono sui loro siti che in tutto il perimetro cittadino è vietato l’accesso alle auto più inquinanti. Come, per esempio, a Roma. Questo è il limite orientale della ZTL fascia verde. Ognuna di queste strade è un accesso ma oggi non ci sono né un cartello di divieto, né varchi elettronici. E infatti auto e furgoni diesel da Euro 0 a Euro 3 circolano liberamente come anche i veicoli a benzina fino a Euro 2.

EMANUELE BELLANO La fascia verde oggi, prima l’anello ferroviario, non hanno telecamere, non hanno varchi che controllano l’accesso in città da parte di questi veicoli.

SABRINA ALFONSI - ASSESSORA ALL’AMBIENTE – ROMA CAPITALE Noi oggi stiamo mettendo nella fascia verde tutta la delimitazione dei varchi. Ci sono i cantieri che stanno installando i varchi elettronici su tutto il perimetro della nuova fascia verde.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La fascia verde nasce nel 2014 insieme a un’altra area Ztl che vieta i veicoli più inquinanti: l’anello ferroviario. Per entrambi i divieti sono rimasti sempre fasulli perché la giunta di Virginia Raggi negli ultimi 5 anni non ha mai provveduto a installare i varchi.

EMANUELE BELLANO L’auto Euro 0, Euro 1, Euro 2 a benzina.

SABRINA ALFONSI - ASSESSORA ALL’AMBIENTE - ROMA CAPITALE No, non li hanno mai messi, non è mai.

EMANUELE BELLANO Non è mai stata controllata, non è controllata oggi e non è mai stata controllata?

SABRINA ALFONSI - ASSESSORA ALL’AMBIENTE - ROMA CAPITALE Prima della nostra amministrazione no. È controllata soltanto dai vigili. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Che qui, come nelle altre città italiane, non sono abbastanza per controllare le auto. Quando spuntano i primi varchi nella fascia verde, alcuni cittadini di Roma manifestano davanti al Campidoglio contro il sindaco.

ROMA 10/05/2023 – MANIFESTAZIONE NO ZTL MANIFESTANTE 1 Cittadini romani! Sensibilizziamo i nostri concittadini perché la protesta sta salendo. Perciò si metterà paura, ma dobbiamo essere tutti uniti, fuori dagli schemi politici, tutti uniti. No ZTL! No ZTL!

MANIFESTANTI IN CORO Vattene via, Gualtieri vattene via, vattene via, Gualtieri vattene via!

MANIFESTANTE 3 Assessore Patanè, l’auto nuova compracela te!

FABRIZIO SANTORI - CONSIGLIERE COMUNALE ROMA CAPITALE - LEGA SALVINI PREMIER Diciamo no perché i dati sull’inquinamento non dicono che bisogna fermare solo il mezzo privato ma bisogna fare tanto altro.

FABRIZIO SANTORI - CONSIGLIERE COMUNALE ROMA CAPITALE - LEGA SALVINI PREMIER Immagini lei se 500 mila persone - dovrebbero essere tra i 500 mila e i 700 mila i mezzi privati che vengono fermati - dovessero utilizzare un mezzo pubblico. Immagini che cosa accadrebbe in questa città. Già oggi è impensabile prendere la metro A, la metro B.

EMANUELE BELLANO Quindi, diciamo, il trasporto pubblico in qualche maniera oggi…

SABRINA ALFONSI - ASSESSORA ALL’AMBIENTE - ROMA CAPITALE È deficitario rispetto alla richiesta della città.

EMANUELE BELLANO Non garantisce al cittadino di spostarsi in maniera adeguata.

SABRINA ALFONSI - ASSESSORA ALL’AMBIENTE - ROMA CAPITALE No, è assolutamente deficitario rispetto alla richiesta e alla necessità di mobilità all’interno della città.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO 71 associazioni ambientaliste di tutta Europa hanno dato vita alla campagna di monitoraggio “Clean Cities”. Rispetto a capitali europee come Londra, Berlino o Amsterdam le città italiane sono indietro sulla mobilità alternativa. Roma ha 10 mezzi di sharing mobility ogni 100 abitanti, cioè solo un terzo rispetto ai 30 auspicati come obiettivo. A Genova l’offerta scende a 7 mezzi ogni 100 abitanti, stesso valore di Torino. Fino a Trieste, dove i mezzi in sharing mobility sono solo 1 ogni 100 abitanti. Gli amministratori che avrebbero dovuto prendere provvedimenti per anni hanno rinviato il problema, lasciandolo a quelli che venivano dopo. E così, amministratore dopo amministratore, l’Italia è diventata l'area più inquinata d’Europa.

ANDREA MINUTOLO – RESPONSABILE SCIENTIFICO LEGAMBIENTE Nel 2022 la situazione più acuta - che è quella degli sforamenti del PM10 - vede 29 città aver superato questo limite dei 35 giorni, quindi dai 36 in su. E ovviamente le città che sono messe peggio sono quelle… città come Torino, come Modena, come Milano che hanno superato i 70, 75, 80 giorni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A pagarne le conseguenze oggi sono soprattutto i più piccoli.

ALDO FERRARA - PROFESSORE DI MALATTIE RESPIRATORIE - UNIVERSITÀ DEGLI STUDI DI SIENA Per un motivo molto semplice: il bambino inala la stessa concentrazione di inquinanti rispetto a un soggetto adulto soltanto che, rispetto al padre o alla madre, ha la metà della superficie respiratoria. Quindi la stessa quantità di inquinante ha un impatto doppio. Sono stati studiati 93, bambini, giovani adolescenti, e si vede una riduzione della funzionalità respiratoria di questi giovani fanciulli.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Lo scorso aprile l’agenzia europea che monitora l’inquinamento per l’ambiente ha stimato in 1.200 morti tra gli adolescenti in Europa per via dell’inquinamento dell’aria. Ora, anche l’esperimento - che è stato fatto dai docenti di fisiopatologia respiratoria dell’Università di Siena sui bambini a Roma - ha dimostrato che c’è una riduzione del 25 per cento della loro capacità respiratoria se inalano sostanze inquinanti. Ecco, un danno che aumenta se questi bambini vivono in prossimità di zone dall’alto traffico stradale. E questo è un vero problema perché, se non avviene scambio di ossigeno, questo può compromettere seriamente lo sviluppo di un bambino. Hanno bisogno dell’ossigeno per le loro attività scolastiche, cognitive, per le attività motorie, per giocare, per fare sport. Ecco, le soluzioni che sono state invece adottate negli anni nel Comune di Roma sono un po’ un pannicello caldo. La sindaca Virginia Raggi ci ha scritto - sindaca dal 2016 al 2021 – ci ha scritto che la ZTL Anello Ferroviario, era stata segnalata adeguatamente, anche con campagne informative importanti. Aveva anche chiesto alla polizia locale di controllare, senza però vessare quei cittadini che provenivano delle zone meno abbienti e che non potevano godere dell’utilizzo del trasporto pubblico. La sua era un’idea di creare delle zone a basso impatto ambientale, sul modello di quelle europee incrementando la rete del trasporto pubblico”. Ma è rimasta un’idea. Ora il cerino bollente è passato in mano al suo successore, Gualtieri, che sostanzialmente ha cercato di ampliare la ZTL, l’area verde, ma ha dovuto soccombere di fronte alle proteste dei cittadini, alimentate anche dall’opposizione. Così la scorsa settimana ha approvato delle deroghe: potranno circolare veicoli diesel euro 4 e quelli a benzina euro 3. Poi ha previsto anche un certo numero di entrate per i veicoli più vecchi, quelli più inquinanti. Insomma, il problema è rimasto irrisolto. E pensare che ci sono delle città europee dove sono stati i cittadini a chiedere all’amministrazione: basta con le auto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Amsterdam oggi: un’altra città rispetto a 50 anni fa. Solo 250 auto ogni mille abitanti, in Italia la media è di 660. Ma Amsterdam non è stata sempre così.

SIETZE FABER - PORTAVOCE MUNICIPALITÀ DI AMSTERDAM Negli anni ‘50 e ‘60 le auto erano aumentate molto rapidamente. Nelle foto si vedono macchine parcheggiate ovunque che invadono tutte le corsie. Oggi quelle stesse aree sono così. A quel tempo c’erano molti incidenti. Nel 1970 morirono oltre mille persone. Quell’anno fu fondamentale, perché i cittadini chiesero un cambiamento.

EMANUELE BELLANO Cosa accadde, ci furono manifestazioni?

SIETZE FABER - PORTAVOCE MUNICIPALITÀ DI AMSTERDAM Si crearono gruppi di attivisti contro traffico e incidenti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Migliaia di persone scesero in strada per chiedere meno auto e meno traffico. E la protesta funzionò. Sulla mobilità Amsterdam indisse un referendum.

SIETZE FABER - PORTAVOCE MUNICIPALITÀ DI AMSTERDAM Cosa volete - chiese ai cittadini - una città con poche auto o una città fatta per le auto?

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il referendum passò con il 53 per cento dei voti e Amsterdam iniziò la sua trasformazione verso una città ecologica e meno inquinata.

EMANUELE BELLANO Nel 2018 Amsterdam ha approvato il Clean Air Action Plan, di che cosa si tratta?

SIETZE FABER - PORTAVOCE MUNICIPALITÀ DI AMSTERDAM È un programma il cui obiettivo è trasformare Amsterdam nel 2030 in una città con traffico a zero emissioni.

EMANUELE BELLANO Quali sono le misure con cui intendete raggiungere questo obiettivo?

SIETZE FABER - PORTAVOCE MUNICIPALITÀ DI AMSTERDAM Abbiamo previsto una serie di provvedimenti progressivi che variano a seconda della tipologia di veicoli. Per esempio, dal 2025 tutti i taxi devono essere elettrici. È un gran cambiamento che va fatto con gradualità, informando la popolazione ed educandola alle alternative all’auto.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando Stefania, una ricercatrice universitaria, si trasferisce qui da Padova 12 anni fa, come prima cosa pensa di portare la sua auto.

STEFANIA MILAN - PROFESSORESSA SCIENZE DEI NUOVI MEDIA - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Si è rivelata un’impresa pressoché impossibile, perché il periodo d’attesa per il permesso per parcheggiare in strada - quindi per il permesso residenti, non per un posto auto ma per il diritto di cercarlo - aveva una lista d’attesa di circa otto anni.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Senza un permesso di questo tipo Stefania avrebbe dovuto pagare un ticket quotidiano per il parcheggio di 75 euro.

STEFANIA MILAN - PROFESSORESSA SCIENZE DEI NUOVI MEDIA - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Alla fine, la macchina è rimasta in Italia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I metodi alternativi alla macchina qui sono più economici e più rapidi. Tutti i mezzi pubblici e di sharing mobility si usano con la stessa tessera.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E il costo dei trasporti pubblici è tra i più bassi d’Europa.

STEFANIA MILAN - PROFESSORESSA SCIENZE DEI NUOVI MEDIA - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Grazie a questo sistema, per cui quando si sale in tram si fa il check-in e quando si scende si fa il check-out, un utente paga semplicemente in base al numero di fermate che fa. In questo caso per, credo, tre fermate ho pagato l’equivalente di 15 centesimi. Siamo alla stazione centrale. Sempre con la stessa carta posso prendere in prestito, per le ore in cui mi serve, una bicicletta gialla e blu che è collegata al sistema dei trasporti pubblici olandesi.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E ci sono i tapis-roulant per facilitare il noleggio e la restituzione. Sotto la stazione centrale di Amsterdam c’è un parcheggio con migliaia di biciclette. Il sistema facilita l’interscambio con i treni. A ogni fermata, infatti, lo spazio per le biciclette ha la priorità, anche grazie al costo.

STEFANIA MILAN - PROFESSORESSA SCIENZE DEI NUOVI MEDIA - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Sono a prezzo calmierato: 4 euro e 45 per 24 ore.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Torino il servizio di biciclette in convenzione con il Comune ha smesso di funzionare quattro mesi fa. Attualmente si trovano solo bici private prevalentemente elettriche e il costo è di 25 centesimi al minuto, cioè 15 euro l’ora. Stesso prezzo a Roma, dove non esiste un servizio pubblico di bike-sharing. Come anche a Bologna, dove il servizio privato per le e-bike ha prezzi superiori ai 4 euro l’ora, mentre a Firenze si arriva a 18 euro l’ora per una bici elettrica.

STEFANIA MILAN - PROFESSORESSA SCIENZE DEI NUOVI MEDIA - UNIVERSITÀ DI AMSTERDAM Dal re in poi - quindi non è solo un fenomeno della gente della strada - la stessa famiglia reale ma anche tutto il sistema dei ministri e anche il semplice uomo d’affari dall’avvocato al medico all’ingegnere, tutti usano i mezzi pubblici. La ragione è presto detta: è semplicemente il modo migliore, più rapido di andare da A a B.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ad Amsterdam il trasporto è affidato ai tram elettrici. Qui siamo a Delft, una cittadina a un’ora dalla capitale. Gli autobus sono per la maggior parte elettrici. Tutti gli altri vanno a metano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A Roma su 1.800 autobus quelli elettrici sono solo 25. 1.195 sono a gasolio mentre tra ibrido e metano ce ne sono 580.

ALBERTO ZORZAN - DIRETTORE GENERALE ATAC - AZIENDA PER LA MOBILITÀ DI ROMA CAPITALE ATAC ha in progetto la realizzazione di, e l’acquisto, di circa 400 bus elettrici, 411 in particolare, entro il 2026.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ma già nel 2010 la prima versione del piano regionale di risanamento della qualità dell'aria, prescriveva alle società pubbliche come Atac di rinnovare il parco auto con mezzi a impatto zero o molto basso.

EMANUELE BELLANO Come mai nel 2023 abbiamo a Roma solo 3 linee di autobus elettrici?

ALBERTO ZORZAN - DIRETTORE GENERALE ATAC - AZIENDA PER LA MOBILITÀ DI ROMA CAPITALE Guardi, io sono in azienda da pochi mesi. Non glielo so dire.

ROBERTA LOMBARDI - ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO 2021-2023 Noi finora, abbiamo stanziato negli anni - noi intendo Regione Lazio, anche quando non c’ero io, prima di me - 90 milioni di euro.

EMANUELE BELLANO Su come poi quei soldi venivano utilizzati o sono stati utilizzati dal Comune di Roma, che tipo di controllo ha avuto e ha la Regione?

ROBERTA LOMBARDI - ASSESSORE TRANSIZIONE ECOLOGICA REGIONE LAZIO 2021-2023 La Regione ha degli stati di avanzamento di lavoro, o di acquisto in questo caso, a cui corrisponde il pagamento delle tranche dei finanziamenti. Poi i controlli sull’utilizzo delle risorse pubbliche li fa la Corte dei conti.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra il 2020 e il 2021, nonostante gli alti livelli di inquinanti e nonostante le prescrizioni del piano regionale, Atac acquista e immette in servizio 386 autobus a gasolio.

EMANUELE BELLANO Perché non si passa invece al metano o, meglio ancora, all’elettrico?

ALBERTO ZORZAN - DIRETTORE GENERALE ATAC - AZIENDA PER LA MOBILITÀ DI ROMA CAPITALE Come le ho detto prima, sono scelte che non ho fatto io, quindi all’epoca non ho preso queste decisioni. Sono mezzi comunque Euro 6. EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Quando la decisione è stata presa al comune c’era la giunta Raggi. Finora l’azzeramento delle emissioni dei mezzi pubblici Atac rimane una prescrizione ancora inattivata.

EMANUELE BELLANO Siamo in ritardo rispetto a una città che, da quando vengono monitorate le emissioni, ha dei superamenti annuali.

ALBERTO ZORZAN - DIRETTORE GENERALE ATAC - AZIENDA PER LA MOBILITÀ DI ROMA CAPITALE Se si poteva fare prima, io questo non glielo so dire. Io le posso dire che lo stiamo facendo adesso.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Non solo Atac ma anche Ama, la società pubblica per la raccolta rifiuti di Roma, mantiene mezzi alimentati a gasolio. A Trieste i mezzi per il trasporto pubblico elettrici sono solo l’1 per cento. E questi sono solo degli esempi. Qualcuno ha pensato di fare un conto di quanto ci costa.

JOUKJE DE VRIES - RICERCATRICE CENTRO STUDI CE-DELFT Abbiamo calcolato i danni causati alla salute dagli inquinanti dell’aria in 432 città europee e li abbiamo convertiti in denaro. Abbiamo attribuito un valore a ogni anno di vita perso a causa dello smog così come abbiamo calcolato i costi delle medicine o dei ricoveri in ospedale. EMANUELE BELLANO Alla fine, avete stilato una lista delle città in base ai costi sostenuti dagli abitanti.

JOUKJE DE VRIES - RICERCATRICE CENTRO STUDI CE-DELFT Nella top ten delle città europee che pagano il costo più alto per i danni causati dall'inquinamento ci sono cinque città italiane: Milano, Padova, Venezia, Torino e Brescia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Da nord a sud un pesante contributo all’inquinamento dell’aria viene dal traffico delle autostrade. E anche su questo il governo aveva preso un impegno a intervenire con una legge.

ANDREA POGGIO - RESPONSABILE MOBILITÀ SOSTENIBILE LEGAMBIENTE È una norma che esiste già in Francia, in Svizzera, in Slovenia, in Austria. Non esiste in Italia.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Riguarda le zone in cui le autostrade passano a ridosso dei centri abitati. Uno di questi è certamente il basso Lazio. Qui i comuni di Frosinone, Ceccano e Cassino si trovano a pochi chilometri dalla A1, su cui ogni giorno transitano migliaia di auto e mezzi pesanti. I tre comuni risaltano nella mappa dei siti più inquinati evidenziati in rosso. La società autostrada del Brennero ha condotto uno studio che spiega il perché.

CARLO COSTA - DIRETTORE TECNICO GENERALE AUTOSTRADA DEL BRENNERO Sopra a determinate velocità, le produzioni sono assolutamente esponenziali, quindi si vede chiaramente come velocità sopra i 120/130 chilometri all’ora producono emissioni che sono moltiplicate.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO È sufficiente ridurre la velocità a 90 o 100 chilometri all'ora in quei tratti per generare una riduzione delle emissioni fino al 30 per cento.

EMANUELE BELLANO Il beneficio è legato ai motori diesel o in generale anche agli altri motori, a quelli a benzina?

CARLO COSTA - DIRETTORE TECNICO GENERALE AUTOSTRADA DEL BRENNERO Il beneficio è in assoluto. Tutta la produzione di inquinanti da combustione è contenuta.

EMANUELE BELLANO Quindi anche sul PM10 e sul PM2.5?

CARLO COSTA - DIRETTORE TECNICO GENERALE AUTOSTRADA DEL BRENNERO Sì, anche sul particolato, certo.

EMANUELE BELLANO Come mai non sono stati messi degli obblighi di velocità?

CARLO COSTA - DIRETTORE TECNICO GENERALE AUTOSTRADA DEL BRENNERO Oggi non è possibile, secondo i contenuti dell’attuale codice della strada, individuare l’elemento ambientale come elemento che consenta d’imporre, con una sanzione, una riduzione della velocità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Austria, hanno abbassato il limite della velocità sull’autostrada a 100 km/h già nel 2014. Non per la sicurezza stradale ma per quella della salute pubblica ambientale. E poi il governo Conte aveva, nel 2019, promesso di ritoccare il codice della strada ma non è successo nulla fino al 7 giugno scorso con il decreto Legge “Salva Infrazioni”, in base al quale è possibile per le Regioni abbassare i limiti di velocità sulle autostrade in prossimità dei centri abitati. Ora la palla passa alle Regioni, speriamo facciano presto anche perché noi abbiamo le città tra le più inquinate d’Europa. Ecco, questa mappa è la mappa dell’agenzia Europea per l’ambiente. I puntini blu, come potete vedere, sono quelli che indicano l’aria pulita, Poi dal giallo, arancione, rosso l’aria è più inquinata. E la Pianura Padana, come potete vedere, è l’area più inquinata d’Europa, quasi al pari di quella dei Balcani. Ora, gli amministratori… questo si tratta del PM 2.5, come inquinante. Gli amministratori delle Regioni del nord dicono: non è colpa nostra, è colpa della conformazione geografica, la situazione geografica, quella climatica che impediscono il riciclo dell’aria. Ma la Corte di Giustizia Europea è stata inflessibile: questa non può essere una giustificazione. Prima di tutto viene la salute pubblica. Secondo l’Europa ogni anno in Italia muoiono 60mila persone per l’inquinamento che causa anche delle patologie, oltre quelle respiratorie, cardiovascolari e ogni cittadino è costretto a spendere in cure: a Torino, per esempio, fino a 2.000 euro; a Milano fino a 2.800 euro. E poi, secondo i magistrati europei 2010 al 2018 le città italiane di Torino, Milano, Bergamo, Brescia, Genova hanno sforato continuamente i limiti riguardanti l’emissione di particolato. A Roma invece, sul caso dell’inquinamento dei mezzi di trasporto diesel, i mezzi del trasporto pubblico, 386 bus comprati nel 2020-2021, la sindaca Raggi ci scrive che l’intento era quello di diminuire il traffico privato – e fino a qui ci siamo – ma sono stata costretta a comprare sulla piattaforma Consip, in base a quello che offriva il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Ora, dovrebbero arrivare 400 bus elettrici. E questo è un bene, perché bisogna eliminare l’emissione di quelle particelle ultrafini che sono mille volte più piccole del PM10 che, abbiamo visto, non vengono monitorate ma sono le più pericolose, perché sono quelle che passano i nostri filtri naturali e depositano sostanze cancerogene e tossiche nei nostri organi. Ecco, per eliminarle bisognerebbe eliminare la combustione. Come? E qui le nostre competenze sono state tra quelle riposte nelle future nostalgie.

I veleni di Bussi e i silenzi dello Stato. Ivano Tolettini su L’Identità l’11 Febbraio 2023

I veleni che ammorbano l’ambiente e i silenzi di Stato. Un piccolo Comune, Bussi sul Tirino, contro il moloch dell’inquinamento. Non bastasse la dimensione dell’emergenza, l’amministrazione locale è dovuta scendere in campo addirittura contro il ministero dell’Ambiente che rallentava i lavori, come hanno scritto i giudici amministrativi dando ragione al municipio abruzzese guidato dall’ex sindacalista Salvatore Lagatta. “È una bomba ambientale che va definitivamente disinnescata. Siamo in attesa del completamento del progetto esecutivo, che è già stato affidato dopo l’approvazione di quello definitivo, di modo che potranno partire i lavori di bonifica finanziati con fondi pubblici per quasi 50 milioni di euro”, sottolinea il battagliero Lagatta, che da dieci anni ha impresso una svolta alla politica ambientale. “Siamo impazienti perché è una battaglia dura – aggiunge -, che abbiamo combattuto contro tutti, anche contro il ministero della Transizione Ecologica in Consiglio di Stato, ma dobbiamo la salvaguardia ambientale in primis ai cittadini di Bussi sul Tirino, che qui vivono e che ci hanno sostenuto in questa lotta per un ambiente finalmente pulito”. Dal giugno 2013, quando si è insediato, Lagatta ha avviato tutte le azioni legali possibili per mettere in sicurezza quella porzione di territorio abruzzese che è stata più volte definita dai media come “la discarica più grande d’Europa”, visto che si estende su quasi 20 ettari. A generarla nei decenni sono state le produzioni del sito chimico avviato dalla Edison nel 1901 e proseguite in epoca più recente dalla Solvay Group con la commercializzazione del clorito di sodio e del cloro soda. Dal 2016 è subentrata la Chimica Bussi spa, che fa capo all’imprenditore pisano Donato Antonio Todisco, in precedenza dipendente dell’azienda belga dove si era fatto le ossa e al manager Domenico Greco. Ma la società non ha nulla a che vedere con l’inquinamento, mentre ha un potenziale problema per l’utilizzo dell’acqua pubblica per la produzione di energia idroelettrica, per una concessione su cui si è espressa anche la Corte d’Appello di Roma, sezione tribunale regionale delle acque pubbliche il 6 aprile 2017. Donato Antonio Todisco, tra l’altro, con alcuni collaboratori e i precedenti gestori – in tutto undici persone – di un sito di interesse nazionale a Brescia, rischia il processo per un’altra bomba ambientale, la Caffaro, che da anni è al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica lombarda.

INQUINANTI

Se i veleni di Bussi finora sono stati più forti degli otto ministri dell’Ambiente che si sono susseguiti dal 2007, quando il 12 marzo la Forestale scoprì le discariche di veleni che ammorbavano la terra e che doveva essere messa al sicuro con sollecitudine, l’amministrazione comunale per catalizzare i finanziamenti necessari alla bonifica si è mossa su un doppio binario. Quello amministrativo battagliando con chi si frapponeva alla soluzione del problema, e quello finanziario per trovare i necessari onerosissimi finanziamenti. “Abbiamo dovuto acquistare un’area di sei ettari, quella contraddistinta come 2A e 2B – spiega Lagatta – per orientare i finanziamenti pubblici che se viceversa l’area fosse stata privata non avremmo potuto ottenere”.

CONSIGLIO DI STATO

Il passaggio chiave è avvenuto davanti al Consiglio di Stato, che ha respinto il ricorso del ministero della Transizione Ecologica, accogliendo dunque la posizione del Comune, della Regione Abruzzo e dell’azienda olandese Dec-Deme, quale mandataria di un raggruppamento di imprese, che si è aggiudicata la gara per la bonifica dell’importante sito. In precedenza, nell’aprile 2020, lo stesso Consiglio di Stato era intervenuto ordinando alla società elettrica Edison di avviare i lavori di bonifica sul suolo di sua proprietà. “Questo è avvenuto perché l’opera di messa in sicurezza dell’area è iniziata – conclude il sindaco Lagatta -, ma la battaglia per la tutela dell’ambiente e degli interessi del nostro Comune non si è conclusa”. Adesso c’è quella per l’acqua. Ma questa è un’altra storia.

Le Navi.

Il Brasile affonda una portaerei tossica nell'oceano. Insorgono gli ambientalisti. L'affondamento della "Sao Paulo" è avvenuto a circa 350 km dalla costa brasiliana al largo dell'Atlantico. Le associazioni ambientaliste sul piede di guerra poiché la nave contiene tonnellate di amianto, vernici tossiche e altri materiali pericolosi e inquinanti. Salvatore Di Stefano il 5 Febbraio 2023 su Il Giornale.

La Marina del Brasile ha annunciato di aver affondato, nel tardo pomeriggio di ieri, l'ex portaerei "Sao Paulo", con un'operazione pianificata e controllata. Secondo i vertici militari della nazione sudamericana l'affondamento è avvenuto in pieno oceano Atlantico, a circa 350 km dalle coste del Brasile, in un punto dove le profondità dell'oceano raggiungono i 5mila metri.

Secondo il ministero della Difesa di Brasilia, la decisione è maturata dopo mesi di riflessione, durante i quali i politici hanno capito che l'operazione si era resa necessaria poiché il deterioramento della galleggiabilità dello scafo aveva fatto aumentare a dismisura il rischio di un affondamento accidentale e incontrollato.

Le polemiche

Gli ambientalisti sono sul piede di guerra. L'associazione francese Robin des Boif ha definito la nave "un pacco tossico da 30 mila tonnellate" mentre Greenpeace, Sea Shepherd e Basel Action Network hanno rilasciato una dichiarazione congiunta denunciando "una violazione di tre trattati internazionali sull'ambiente oltre a danni incalcolabili, con impatti sulla vita marina e sulle comunità costiere".

Persino il pubblico ministero federale del Brasile, che ha cercato in tutti i modi di fermare l'operazione, ha avvertito delle conseguenze, sottolineando che la portaerei contiene 9,6 tonnellate di amianto oltre a 644 tonnellate di inchiostri e altri materiali pericolosi.

La storia della portaerei

La nave "Sao Paulo", che originariamente apparteneva alla Marina militare francese con il nome Foch, era stata venduta proprio dai transalpini ai brasiliani nel 2000. Nel giorno di San Valentino di 6 anni fa la Marina del Paese sudamericano ne aveva annunciato il ritiro dal servizio entro il 2020. L'anno successivo il cantiere navale Sok Denizcilik l'aveva acquistata per rottamarla, minacciando poi di abbandonarla perché non riusciva a trovare un porto che la accogliesse.

L'estate scorsa infine la portaerei doveva essere condotta in Turchia per lo smantellamento definitivo, ma, all'altezza dello Stretto di Gibilterra, le autorità ambientali turche avevano cambiato idea, facendo compiere alla nave un rapido dietrofront.

I jet privati.

200 jet privati al giorno portano le élite a Davos per parlare di emergenza climatica. Iris Paganessi su L'Indipendente il 15 Gennaio 2023.

Alla vigilia della nuova edizione del Word Economic Forum arriva l’analisi dell’insostenibilità ambientale dell’appuntamento relativa all’anno 2022, quando i potenti della terra sono arrivati a Davos a bordo di jet privati per parlare – tra le altre cose – di emergenza climatica.

La ricerca, condotta dalla società olandese di consulenza ambientale CE Delft su commissione di Greenpeace International, ha rivelato che il numero di voli effettuati con jet privati, da e per gli aeroporti intorno a Davos, durante la passata edizione del Forum è raddoppiato (1040 voli dal 21 al 27 maggio 2022), generando emissioni di CO₂ quattro volte superiori a quelle che, in media, sono attribuite a questo tipo di velivoli durante il resto dell’anno. In una sola settimana i jet privati in questione hanno prodotto CO₂ al pari delle emissioni medie di 350 mila automobili, nello stesso periodo di tempo. E tra i Paesi con il maggior numero di voli ci sono Germania, Francia e Italia.

Le persone più ricche e potenti del pianeta si ritrovano a Davos per discutere a porte chiuse di questioni cruciali come la crisi climatica e le disuguaglianze, ma ci vanno usando la forma di trasporto più iniqua e inquinante: i jet privati”, ha dichiarato Federico Spadini di Greenpeace Italia, sottolineando l’ipocrisia che si nasconde dietro il WEF.

Stando a quanto riportato dalla ricerca – su 1040 jet privati – il 53% ha percorso tratte inferiori a 750 km, mentre il 38% ha percorso meno di 500 km, un tragitto facilmente percorribile in treno o in auto. Addirittura, il volo più breve registrato è stato di soli 21 km. Per quanto riguarda il Bel Paese, i voli da e per gli aeroporti italiani sono stati in totale 116, di cui 43 sotto i 250 km.

In un momento in cui i governi chiedono alle famiglie di risparmiare energia e fare sacrifici, vietare i jet privati sarebbe un segnale importante di impegno verso una reale transizione energetica che metta fine all’era dei combustibili fossili. L’80% della popolazione mondiale non ha mai preso un aereo, ma soffre comunque le conseguenze delle emissioni che alterano il clima. Se il Forum di Davos volesse davvero dimostrare impegno nel raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi dovrebbe, una volta per tutte, mettere fine all’ipocrisia e all’inaccettabile spreco di energia dei voli privati. Per questo – ha concluso Greenpeace – chiediamo al governo italiano di vietare i jet privati e gli inutili voli a corto raggio, in modo da poter garantire un futuro verde, giusto e sicuro per tutti e tutte.”  [di Iris Paganessi]

La Sanzione.

Chi inquina deve pagare: «carbon tax» e dazi, le logiche delle scelte verdi. Poche settimane fa il Consiglio della UE ha fatto un altro passo avanti nel piano «Pronti per il 55%», l’obiettivo di ridurre entro il 2030 le emissioni nette di gas serra del 55% rispetto ai livelli del 1990. Angela Stefania Bergantino su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Gennaio 2023.

È stato approvato il Meccanismo di adeguamento delle emissioni importate - CBAM il suo acronimo inglese - vale a dire l’introduzione di una Carbon Border Tax, un’imposta sui prodotti ad alta intensità di CO2 che entrano nell’Unione Europea.

La tassa ha un triplice obiettivo. Innanzitutto, quello di promuovere il principio per cui «chi inquina deve pagare». In secondo luogo, di evitare la concorrenza sleale da parte di produttori localizzati in Paesi meno attenti all’ambiente, vanificando la spinta in Europa verso processi di produzione più green. Infine, di rendere più complicato il «carbon leakage» ossia lo spostamento delle emissioni nocive in aree geografiche meno eco-responsabili.

Nel concreto il meccanismo consiste in un obbligo, in capo agli importatori dell’UE, di acquistare certificati di emissione carbonio (i cosiddetti «Carbon credits») corrispondenti al prezzo del carbonio che sarebbe stato pagato se i beni fossero stati prodotti secondo le norme dell’UE in materia di prezzi del carbonio. Se il produttore extra-UE può dimostrare di aver già pagato nel suo Paese un prezzo per il carbonio utilizzato, la tassa per l’importatore UE è uguale a zero.

Con la CBAM non sarà più possibile avvalersi di un fornitore non-Ue più inquinante senza incorrere nella tassa (sovrapprezzo), e i produttori extraeuropei non potranno inondare il mercato di prodotti meno cari ma realizzati con meno attenzione per l’ambiente. Dovrebbe ad esempio consentire ad una acciaieria come l’ex Ilva di Taranto – in piena transizione ecologica – di non preoccuparsi della concorrenza da parte di produttori di acciaio localizzati in paesi dove le restrizioni ambientali sono molto minori e quindi i costi finali ridotti.

Per garantire certezza giuridica e stabilità, il Meccanismo sarà introdotto gradualmente dall’ottobre 2023 e inizialmente si applicherà solo a un numero selezionato di prodotti che presentano due problematicità congiunte: hanno un elevato contenuto di CO2 incorporata nei processi produttivi, come acciaio, cemento, fertilizzanti, alluminio ed elettricità ma anche idrogeno e prodotti trasformati, come viti e bulloni e articoli simili in ferro o acciaio; quindi, la loro produzione è ad alto rischio di rilocalizzazione, proprio per evitare il rigido percorso di decarbonizzazione in corso nella UE.

L’introduzione graduale della tassa è finalizzata a permettere alle imprese di adeguarsi e minimizzare l’impatto sul commercio, ma anche per creare consapevolezza negli operatori e comportamenti più consapevoli, secondo la strategia della «spinta dolce» o «nudging». La sua approvazione in sede europea non è stata tuttavia facile, per la possibilità che la Carbon Border Tax fosse assimilata a un dazio protezionistico, sebbene focalizzata unicamente sul differenziale di trattamento delle emissioni. I meccanismi di aggiustamento delle emissioni di carbonio alle frontiere sono già in vigore in alcune regioni del mondo, ad esempio in California, dove viene applicato un aggiustamento a determinate importazioni di elettricità. Alcuni Paesi, come il Canada e il Giappone, stanno poi progettando iniziative simili.

La tassa colpirà soprattutto prodotti globali, che provengono principalmente da Paesi da cui l’Europa importa in quantità, come la Russia, e a seguire, nell’ordine, Cina, Turchia, Regno Unito, Norvegia, Ucraina, Svizzera, Corea del Sud, India e gli Stati Uniti. Secondo le stime interne della Commissione i prodotti russi potrebbero generare una quota considerevole dei 9 miliardi di euro attesi come entrate complessive di questa misura, sempre che le sanzioni per la guerra in Ucraina consentano la ripresa normale dei traffici.

Di fatto, l’accordo apre la strada per istituire la prima tassa al mondo, per un mercato grande come quello dell’Europa, sui beni ad alta intensità di carbonio che passano i suoi confini. Il significato di politica ambientale globale della scelta non è di poco conto.

Miteni.

PFAS in Veneto: “studio sulla correlazione con i tumori bloccato dalla politica”. Simone Valeri su L'Indipendente lunedì 3 luglio 2023.

Emergono nuovi e agghiaccianti dettagli dal processo, in corso a Vicenza, finalizzato ad attestare le responsabilità della contaminazione da sostanze chimiche PFAS in Veneto. L’accusa, a carico di 15 manager che negli anni hanno gestito l’azienda Miteni incriminata per il vasto inquinamento industriale, è di disastro ambientale. E tra un’udienza e l’altra, i nodi piano piano stanno venendo al pettine. Ad esempio, si sta facendo strada l’ipotesi che, successivamente alla scoperta della contaminazione, una decisione politica abbia impedito la realizzazione di uno studio epidemiologico nella regione Veneto. La scottante rivelazione proviene dal responsabile del Dipartimento di Epidemiologia ambientale dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e consulente dei pubblici ministeri vicentini, Pietro Comba. Alla Corte d’assise, Comba ha infatti esibito un documento contenente un “accordo di collaborazione per l’esecuzione del programma di ricerca” tra l’ISS e la Regione. L’intesa prevedeva un’indagine epidemiologica, della durata di tre anni, sulla popolazione delle aree colpite del Veneto per monitorarne le condizioni sanitarie e individuare eventuali correlazioni tra l’esposizione alle sostanze tossiche e l’incidenza di neoplasie. Tutto era pronto, ma – a detta di Comba – lo studio non è mai partito a causa di una decisione «della parte politica».

Il testo dell’accordo, così come presentato da Comba, portava già la firma dell’allora presidente dell’ISS Gualtiero Ricciardi. Il documento presentava poi una previsione di co-finanziamento di 252 mila euro da parte dell’ISS e di una somma, mai precisata, della Regione Veneto. Quest’ultima, tuttavia, non ha mai sottoscritto l’accordo. Ad ogni modo, Comba non ha specificato se la scelta politica di non procedere sia stata presa dalla Regione Veneto, dal Ministero della Salute o da entrambe le istituzioni. Le dichiarazioni hanno in ogni caso smosso le acque al punto che la consigliera regionale di Europa Verde, Cristina Guarda, ha predisposto un’interrogazione intitolata “La Regione ha bloccato indagine epidemiologica sugli PFAS?”. «Serve fare chiarezza su chi ricadano le responsabilità di un mancato nulla osta – ha spiegato Guarda – perché la testimonianza getta ombre su un aspetto molto delicato della più grande contaminazione da PFAS del nostro Paese. Lo studio – ha aggiunto – ci avrebbe consentito di indagare anche in termini di attentato alla salute pubblica, oltre che di disastro ambientale».

L’azienda Miteni Spa al centro delle indagini, dichiarata fallita nel 2018, era una compagnia specializzata nella produzione di prodotti di sintesi per l’agrochimica e il settore farmaceutico. L’azienda è stata individuata come la principale responsabile del vasto inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (PFAS) di un’ampia falda acquifera in Veneto. La contaminazione ha coinvolto almeno 350 mila cittadini nelle aree di Vicenza, Verona e Padova, motivo per cui i manager della società dovranno ora rispondere di avvelenamento delle acque, disastro ambientale innominato, gestione di rifiuti non autorizzata, inquinamento ambientale e reati fallimentari. La scoperta dell’inquinamento risale al 2013, ma solo tra il 2015 e il 2016 e su spinta delle associazioni ambientaliste e di diversi comitati di cittadini, è partita una rilevazione a campione nei comuni interessati che evidenziò valori elevati di PFAS nel sangue dei residenti. Nel marzo 2018, il governo dichiarò così lo stato di emergenza con il divieto di consumo di acqua potabile e l’istituzione di una zona rossa in 30 comuni. [di Simone Valeri]

Disastro ambientale. Ivano Tolettini su L’Identità il 14 Gennaio 2023.

Il dato documentale è emerso in maniera chiara al processo in Corte d’Assise a Vicenza l’altro pomeriggio quando ha testimoniato Giuseppe Filauro, responsabile del progetto di consulenza ambientale di Erm Italia, che gestì le analisi del sottosuolo. Il disastro era noto fin dal 2008, quando i dirigenti della corporation giapponese Mitsubishi, che guidavano Miteni, sapevano che la falda sottostante l’azienda di Trissino era contaminata da una concentrazione di sali perfluorurati 100 volte superiore alla soglia che negli Stati Uniti fu fissata dopo un analogo disastro ambientale del colosso DuPont”. L’avvocato Angelo Merlin, patrono di parte civile per le società idriche pubbliche Viacqua (Vicenza) e Acquevenete (Padova), lo spiega a margine dell’udienza che potrebbe avere segnato le sorti di una parte dei 15 imputati davanti alla Corte d’Assise di Vicenza per l’ipotesi del disastro ambientale. Intanto, non si smorzano le polemiche tra migliaia di cittadini e la Regione per la calamità ecologica da Pfas che coinvolge 300 mila persone in area rossa a cavallo delle province di Vicenza, Verona e Padova. Ma i cittadini interessati sono molti di più e in prospettiva, poiché l’inquinamento delle falde avanza, qualcuno ipotizza che potrebbe riguardare potenzialmente altre centinaia di migliaia di persone. Il nuovo motivo di scontro sono i costi delle analisi che altri 170 mila veneti, residenti nella zona sulla carta di minore pericolo, individuata come arancione tra Vicenza e Verona, devono sopportare. Si tratta dei Comuni dove l’avvelenamento ha coinvolto i pozzi artesiani privati e non gli acquedotti come in zona rossa, dove da dieci anni si combatte a tutti i livelli contro questo “mostro” chimico penetrato nel sangue della gente impaurita. Il costo delle analisi in convenzione è di 90 euro a persona quando i cittadini chiedono l’applicazione del ticket di 36 euro. La Regione da anni si sobbarca le spese per quanti risiedono in area a rossa, ma finora aveva risposto picche alle richieste delle Mamme No Psfa e di quanti fanno parte del vasto movimento d’opinione che dal 2013 si batte per disinnescare la bomba ambientale – finora la ditta in grado di bonificare Mitenti non è stata individuata – che ha stravolto la vita di 800 mila persone. Se è vero che gli abitanti dei 12 Comuni arancioni potranno sottoporsi agli esami a prezzi calmierati, tuttavia li reputano ancora alti. E chiedono che Luca Zaia faccia di più. Questo lo spiega un comunicato, firmato da una decina di associazioni guidate dalle Mamme No Pfas, dal titolo eloquente: “Una Regione in fuga”. Da dire che a settembre il Commissario dell’Onu, Marcos Orellana, dopo il sopralluogo in terra veneta ha “riscontrato forti violazioni dei diritti della cittadinanza in due ambiti: analisi inadeguate e insufficienti sui cibi; analisi inadeguate e insufficienti sulla salute delle persone”. “Questo dovrebbe far meditare la Regione perché in precedenza aveva promesso che anche per i residenti in zona arancione le analisi sarebbero state a basso costo, spiega Michela Piccoli. Da parte sua la consigliera regionale d’opposizione Cristina Guarda definisce “incomprensibile l’ennesimo no della Regione guidata da Zaia alla richiesta di recuperare terreno su due aspetti fondamentali: l’informazione diffusa e le analisi per chi pur essendo a rischio è stato fin qui escluso”. Anche in convenzione, dicono gli interessati, il prezzo è da sanità privata. “I 90 euro a testa sono troppi – di Elisabetta Donadello per le Mamme No Pfas – perché le strumentazioni per eseguire le analisi ci sono già, così come i punti screening. Non si può guadagnare sui cittadini. Noi chiedevamo il pagamento di un ticket di 36 euro”. I 15 imputati rispondono, a vario titolo, di disastro ambientale, inquinamento, gestione dei rifiuti non autorizzata, avvelenamento delle acque e reati fallimentari: Miteni è fallita. Dall’altro giorno c’è la prova che il disastro ambientale, sulla pelle della gente, era conclamato. Da anni.

La Moda.

Estratto dell'articolo di Marta Camilla Foglia e Milena Gabanelli per corriere.it mercoledì 20 settembre 2023.

Fast fashion sta per «moda rapida e a basso costo». Ma quanto basso? Quando una T-shirt viene venduta a 3 euro e un abito a 7 euro vuol dire che c’è un «prezzo» che viene scaricato su qualcun altro. Partiamo dai costi di produzione: in Italia il costo medio orario nell’industria del tessile e manifatturiero è di 27 euro lordi. In Bulgaria di 5,4 euro, Romania 6,9 in Lituania 9 (Eurostat). In Cina e Vietnam rispettivamente dai 4 ai 3 dollari. […] 

Quasi tutti i grandi marchi da anni hanno delocalizzato una parte della produzione in questi Paesi, inclusi quelli del lusso, che si rivolgono a una clientela benestante. E li abbiamo più volte stigmatizzati, perché hanno sacrificato le aziende manifatturiere locali solo per avidità. Fatta questa doverosa premessa, parliamo della moda usa e getta: l’azienda che si è accaparrata il 50% del mercanto globale del fast fashion si chiama Shein.

L’impennata Shein

Shein nasce nel 2008 su idea dell’imprenditore cinese Chris Xu: inizia con la vendita di gioielli online, ma in pochi anni diventa una delle piattaforme di moda più cliccate al mondo e nel 2020 è arrivata a fatturare 10 miliardi di dollari. A novembre 2021 l’azienda valeva 30 miliardi di dollari e oggi supera i 60, più di Adidas, H&M e Burberry messi insieme. 

La sua app, nel maggio 2022, era la più scaricata negli Stati Uniti, con 27 milioni di download (calcoli in tempo reale di App Annie e Sensor Tower). Shein sfrutta un sistema di algoritmi e analisi dati che rileva le tendenze in evoluzione in tempo reale, riuscendo così a produrre nuovi modelli in appena dieci giorni. Un ritmo impareggiabile rispetto a concorrenti come Zara, che richiedono in media cinque settimane. Il sito arriva a caricare fino a 6000 nuovi prodotti al giorno, e contestualmente riceve regolari denunce di plagio sia da designer emergenti che da case di moda consolidate. 

I clienti preferiti: la Gen-Z

Una popolarità sostenuta anche dall’ingaggio di influencer e celebrities che orientano la fascia di consumatori più attiva sulla piattaforma, quella dei giovanissimi, la cosiddetta Gen-Z. Proprio così, la generazione più sensibile ai temi legati alla sostenibilità ambientale e ai diritti dei lavoratori è anche la maggiore cliente di questo marchio che di trasparente non ha nulla: dalla struttura della società all’origine dei prodotti. 

Ed è utile sapere che prima di arrivare dentro al proprio armadio, un abito o una T-shirt attraversa i processi che ora elenchiamo. Da un rapporto di Bloomberg del 2022 le magliette di cotone vendute da Shein provengono dal lavoro forzato della minoranza Uiguri dello Xinjiang. Questa regione al Nordovest della Cina è uno dei maggiori produttori di cotone al mondo, e la minoranza musulmana è da anni scandalosamente perseguitata e oppressa dal governo cinese. 

Lo sfruttamento dei lavoratori

La giornalista anglo–algerina Imam Amrani è riuscita a entrare con telecamera nascosta in due delle 700 fabbriche di Shein, nella provincia cinese dello Guangzhou. I lavoratori sono costretti a turni di lavoro di 17 ore al giorno, con un solo giorno libero al mese, e condizioni igieniche disumane. Devono produrre 500 capi al giorno e la paga è di 4 centesimi a capo. 

L’inchiesta, realizzata nel 2022, è stata trasmessa dall’emittente statunitense Channel 4. La risposta di Shein è arrivata a giugno 2023 con l’organizzazione di un viaggio-stampa per sei influencer in una delle sue fabbriche. Viene mostrato un ambiente moderno e pulito, con postazioni distanziate, automazione e aree relax. 

Le influencer hanno lodato l’azienda nei loro post parlando di operai felici, qualità e lavoro etico. Inondate di critiche alcune hanno fatto marcia indietro. L’influencer Dani DMC ha rapidamente eliminato dal suo profilo il video in cui tesseva le lodi dell’azienda, sostituito con un altro di scuse per non essersi adeguatamente informata. 

Il costo ambientale

Per realizzare una singola T-shirt di cotone sono necessari in media 2.700 litri d’acqua, (Rapporto WWF-National Geographic). Questo perché il cotone ha sete e le produzioni intensive devono essere irrigate. Poi ci sono i processi di lavorazione: sgusciamento, tintura, filatura, rifinitura, e ogni fase ha bisogno di tanta acqua. Il processo intensivo richiede poi fertilizzanti chimici e diserbanti che vengono assorbiti dal terreno e inquinano le falde. 

Mentre i coloranti azoici, largamente usati perché hanno colori brillanti e poco costosi, possono rilasciare ammine aromatiche potenzialmente cancerogene. Per questo il loro uso in Europa è vietato dal 2002. Ma Shein non produce in Europa. 

Molti suoi prodotti sono sintetici e il tessuto brillante è spesso il risultato di sostanze chimiche tossiche come nonilfenoli e ftalati e, quando finiscono nell’ambiente, danneggiano interi ecosistemi. Un rapporto di Bloomberg ha evidenziato che i prodotti Shein contengono il 95,2% di microplastiche. 

L’inquinamento indossato

Un’indagine di CBC Marketplace ha rivelato che alcuni prodotti di Shein contengono piombo, PFAS e ftalati. Una giacca per bambini esaminata conteneva quasi 20 volte la quantità di piombo considerata sicura da Health Canada. Greenpeace ha inoltre denunciato che alcune sostanze chimiche utilizzate nei prodotti superano i limiti di legge UE. E la pelle, a contatto prolungato con queste sostanze, le assorbe. 

Montagne di rifiuti e emissioni di CO2

La Ellen MacArthur Foundation, uno dei più grandi enti internazionali che operano nel settore dell’economia circolare e della sostenibilità, ha provato a misurare la quantità di indumenti buttati: ogni secondo un camion carico di tessuti viene smaltito in una discarica o incenerito. Ogni anno, a livello globale, vengono generati 92 milioni di tonnellate di rifiuti tessili, di cui solo il 15% viene riciclato. 

È il naturale destino dei prodotti fast fashion a prezzi stracciati: bassa qualità, bassa durata, e rapidamente scartati. Più veloce è il ciclo di consumo, più pesante l’impatto ambientale. La moda, in generale, è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio. […] 

Non tutto è Shein

Sia chiaro: è Shein solo l’ultima della lista e non la sola responsabile di tutto questo. Anche le produzioni massive di altri marchi fast fashion ben noti come Zara, H&M, Bershka e Pull and Bear generano enormi quantità di rifiuti tessili. Nel corso degli anni sono state denunciate le pessime condizioni di lavoro negli stabilimenti di questi marchi e i salari da fame. 

Va detto che da qualche anno stanno introducendo linee più sostenibili e si stanno impegnando in iniziative di responsabilità sociale (almeno in apparenza). Resta il fatto che la natura stessa del fast fashion, con il suo bisogno di produrre rapidamente e a basso costo, fa a cazzotti con le sfide etiche ed ecologiche. 

La strategia UE per un’industria tessile più sostenibile

L’impennata del fast fashion ha spinto la Commissione Europea, a marzo 2022, a definire strategie per rendere l’industria tessile più sostenibile, spingendo per l’utilizzo di tessuti che durano di più, che possono essere riparati e riutilizzati. Ecco cosa cambierà:

1) design ecologico: i tessuti dovranno rispettare standard più elevati in termini di sostenibilità;

2) informazioni chiare: i consumatori avranno accesso a dettagli sull’origine e la sostenibilità dei prodotti attraverso un «passaporto digitale»;

3) impegno aziendale: si esortano le aziende a ridurre la loro impronta di CO2 e a prendere decisioni rispettose dell’ambiente, e dei diritti dei lavoratori.

E ora punta ad eliminare totalmente le sostanze chimiche nocive dall’industria tessile. Ma se compri online da una piattaforma cinese che non rispetta tutte queste belle direttive? In attesa di regole globali si può solo aumentare il grado di consapevolezza nei consumatori. Non contribuire a questo ciclo di consumo non significa mortificarsi. 

 Si può cambiare spesso abito spendendo poco, basta acquistare sul mercato dell’usato, ormai diffuso in tante città. Così si sostiene anche l’economia circolare nei fatti, non solo a parole. Alla fine è sempre la somma dei singoli comportamenti quotidiani che può affossare, o salvare, il pianeta.

Il vero costo del lusso (la follia dietro la perfezione) Marina Savarese su L'Indipendente il 25 Marzo 2023

Quando si parla d’impatto ambientale della moda, si punta immediatamente il dito sul mondo del fast fashion. Giustamente. Un sistema di lavoro basato sulla produzione a ciclo continuo di collezioni durante tutto l’arco dell’anno, con volumi impressionanti e con scarsa attenzione alla qualità, non è di certo un tocca sana per la natura (e nemmeno per l’uomo) e di etico non ha niente. Eppure, anche i signori del mondo del lusso e i grandi marchi, con le loro follie mascherate da maniacale ricerca della perfezione, fanno la loro parte, contribuendo ad alimentare un sistema fatto di sprechi e consumi insensati.

Un tempo le case di moda nate a cavallo degli anni ’70 e ’80, quelle fondate da rinomati stilisti e spesso gestite in maniera familiare, erano basate su principi riguardanti la qualità, la cura e la creazione di abiti e accessori dall’alto valore materiale e immateriale. L’obiettivo era di produrre capi in grado di durare nel tempo e realizzati seguendo i tempi della manifattura, dell’artigianalità e dell’ispirazione. Oggetti di lusso. 

Ma il mito della crescita, della fame e dell’arricchimento facile, ha solleticato l’interesse di tutti; così, anche gli esimi esponenti del mondo del lusso hanno cominciato a comportarsi come marchi di prêt-à-porter. Iniziando a proporre i total look, moltiplicando le collezioni (passando dalle due uscite annuali alle quattro/cinque dei primi anni 2000, con i famosi flash intra stagionali) e incrementando i ritmi produttivi, con la produzione di grandi volumi e la distribuzione dei prodotti fuori da qualsiasi logica stagionale. Un ingrandimento esponenziale ha portato i marchi a mettere la loro firma su molte altre categorie merceologiche: dalla moda al beauty fino ai ristoranti, ma anche alberghi. Il tutto è stato possibile grazie all’acquisizione di questi brand da parte di holding quotate in borsa, ovvero grandi gruppi finanziari che hanno inglobato sotto di loro aziende e stilisti per aumentare i profitti (fuori da queste logiche, al momento, sono rimasti solo Prada, Armani, Moncler e Zegna in Italia, Burberry in Inghilterra, Chanel e Hermes in Francia), riducendo la moda a una macchina per produrre soldi. Spesso in maniera non etica e seguendo il modello tracciato dal fast fashion, dove per avere margini e profitti più alti (per pochi, di solito quelli al vertice) basta tagliare i costi. Ovviamente delocalizzando. Ma spesso seguendo anche una modalità tanto sofisticata quanto insostenibile: quella di una folle ricerca della perfezione, dietro alla quale si nascondono sprechi enormi.

Il primo dispendio di materie prime ed energia avviene negli uffici stile, in quei luoghi avvolti di glamour e mistero, dove si decidono le sorti delle fogge stagionali dei più. In minima parte alcune dinamiche filosofiche sono state rese note dal famoso monologo di Miranda ne Il diavolo veste Prada, che ci ricorda il valore sociale del ceruleo e di certe scelte stilistiche. Peccato aver sorvolato sull’impatto ambientale generato dai capricci di designer e stilisti in fase di progettazione, e sui minuziosi controlli qualità dove per vedere i difetti bisogna andare a cercarli con la lente d’ingrandimento.

Tra campioni e campionari infiniti iniziano i primi sprechi, sotto forma d’innumerevoli prototipi che vengono sdifettati e perfezionati fino allo sfinimento: centimetri in più o in meno da limare o aggiungere, un ricamo da spostare di qualche millimetro, il tono di celestino che non era del celestino giusto… A volte si tratta di dettagli impercettibili, altre volte di grossi errori da correggere. In tutti i casi, quasi sempre, è prevista la realizzazione di un contro-campioni multipli, che in termini pratici vuol dire altro tessuto, altri ricami, altre stampe, altri bagni di colore, altro lavoro. Tutto ciò moltiplicato per svariate centinaia di capi.

Questa è solo la punta dell’iceberg dello spreco. Si potrebbe parlare delle prove di stampa, dove per ogni pattern o disegno da mettere in collezione, sono stampate ingenti quantità di tessuto, solo ed esclusivamente per abbattere i costi (senza valutare il costo ambientale, ovviamente). Quel che avanza, da pochi metri a svariati rotoli, si abbandona, si brucia o si passa la patata bollente a stockisti, che si ritrovano con bancali pieni di materiali sospesi in una bolla, dove è vietata la vendita (la vecchia storia dei loghi che guai a vederli in giro), però bruciare sembra uno spreco e un crimine. E, in effetti, lo è. Ma il sistema, purtroppo, ancora non è responsabilizzato a sufficienza per i suoi errori e per i suoi peccati di leggerezza.

Questione simile ma con l’aggravante avviene nel tentativo di raggiungimento del punto di colore perfetto: un mezzo tono sopra o sotto da quello desiderato è causa di crisi isteriche nel reparto design, ma anche di un consumo di risorse ingenti, perché il processo tintorio richiede una discreta quantità di acqua. Questa devozione al dettaglio è venduta come precisione, ma somiglia tanto a un capriccio. 

E via così, tra cambi repentini d’idee dal giorno alla notte che condannano stoffe preziose a un limbo senza fine e assurdi controlli qualità fatti con la lente d’ingrandimento, dove una minima imperfezione preclude l’utilizzo della materia prima in questione, che si trasforma immediatamente da risorsa a rifiuto. Se non è pazzia questa…

Insomma, la spasmodica ricerca di una perfezione irreale è solo la facciata luccicante di un settore, quello del lusso, che in realtà ne ha perso il senso più profondo. Quello di creare prodotti speciali, curati in ogni minimo dettaglio, senza tempo, eterni, capaci di trascendere il momento e andare oltre perché fatti per durare. Pezzi su misura, esclusivi, unici. Di Lusso. Che, a guardare bene, non sono più appannaggio di questi grandi gruppi, ma di piccoli grandi artigiani e designer indipendenti.  [di Marina Savarese]

La complicata relazione tra moda e chimica Marina Savarese su L'Indipendente il 12 dicembre 2022.

Moda e chimica, due mondi apparentemente distanti, hanno in realtà una relazione molto stretta, anche se a tratti conflittuale. Basta avvicinarsi alla scienza tessile per scoprire che la moda, senza la chimica, va da poche parti. È nei capi che s’indossano, nei cosmetici che vengono usati quotidianamente, negli elementi di arredo della casa, nei giocattoli… dappertutto. C’è, anche se non si vede, e la portiamo giornalmente con noi a contatto con l’organo più grande che abbiamo: la pelle.

L’uso di sostanze chimiche nel tessile è una pratica indispensabile per conferire ai tessuti determinate caratteristiche o qualità: si usano per ammorbidire, per lavare a fondo, per ottenere particolari tipi di colorazioni, per rendere le superfici idrorepellenti, dare stabilità termica o quel praticissimo effetto anti-macchia che salva da innumerevoli lavatrici. Nel corso degli anni le tecniche si sono affinate, la scienza ha fatto grandi passi in avanti e, grazie alla sperimentazione, si sono ottenuti notevoli progressi in molti processi per la realizzazione di questi trattamenti. Per questo, quando si parla di eco-design, non si può prescindere dal chemical management. I primi passi verso una gestione attenta delle sostanze chimiche si sono mossi negli anni 90, con la diffusione di certificazioni volontarie sulla sicurezza chimica dei capi come Oekotex ed Ecolabel. Ma è nel 2007 che è entrata in vigore la direttiva europea Reach (Registration, Evalutation, Authorisation of Chemicals), un regolamento che registra, valuta, autorizza e limita l’uso delle sostanze chimiche tossiche, andando a escludere quelle nocive per l’ambiente e per la salute durante tutte le fasi di produzione del prodotto, con il fine di garantire una maggior sicurezza per il cliente finale. In generale, tutti i prodotti realizzati al 100% in Europa, hanno un certificato REACH oppure sono dichiarati fuori legge. E fin qui tutto bene. 

Il problema sopraggiunge quando i prodotti o la materia prima sono importati dagli altri Paesi (con la delocalizzazione delle produzioni si fa presto a capire che questo è il caso in cui, fatta la regola, si trova subito il modo per aggirarla). Se un abito è realizzato con un tessuto importato dall’India, non c’è nessuna garanzia del rispetto dell’uso delle sostanze chimiche consentite, se non un’auto-certificazione dell’azienda stessa (praticamente bisogna andare sulla fiducia) o con test effettuati a campione (in maniera sporadica e assolutamente casuale). E non si parla solo dell’uso delle sostanze e della pericolosità per chi le maneggia quotidianamente, ma anche del loro smaltimento, che avviene spesso nei corsi d’acqua in modo non proprio pulito (in alcuni Paesi, per capire qual è il colore-tendenza dell’anno, basta affacciarsi a vedere di che nuance è il fiume che si trova vicino alle aziende tessili). La gestione dei processi chimici non è di per sé semplice, figuriamoci quando ci spostiamo in zone remote dove certi tipi di controlli o norme non esistono. Per ovviare a questo far west, nel 2011 Greenpeace ha lanciato la campagna Detox My Fashion, con la quale ha chiesto ai marchi di moda di sostituire i prodotti chimici inquinanti con altri più sicuri. Non ridurre, ma eliminare direttamente certe sostanze; disciplinandone lo smaltimento e impedendo il liberarsi in maniera selvaggia di elementi non biodegradabili che stanno causando danni all’intero ecosistema (l’esempio più noto sono i PFC perfluorocarburi – usati principalmente per l’idrorepellenza e l’impermeabilità – che una volta rilasciati nell’ambiente, possono restarvi per centinaia di anni).

La campagna ha ottenuto un notevole successo e oggi sono molte le imprese che elaborano e impongono ai propri fornitori specifiche RSL (Restricted Substances List), cioè liste di sostanze soggette a restrizioni, e crescono azioni collettive di soggetti industriali che condividono l’impegno per produzioni chimicamente più sicure (la più diffusa è la M-RSL Manufacturing Restricted Substances List di ZDHC, fondazione Zero Discharges of Hazardous Chemicals).

Con tutte queste accortezze e normative, possiamo quindi dormire sonni tranquilli comodamente avvolti nei nostri pigiami? Non ancora. Nonostante gli impegni e i passi in avanti di un sistema sempre più attento e capace di valutare ciò che usa, al momento disponiamo di un mosaico di normative provenienti da dozzine di paesi che stanno cercando di costruire uno standard di sicurezza chimica in maniera incoerente e disorganizzata. Un intricato mondo fatto di certificazioni private, conflitti d’interesse, giochi economici (chi paga le certificazioni? Chi impone ai produttori di andare veloce e gioca al ribasso con i prezzi impedendo di adeguarsi agli standard richiesti?), scarichi di responsabilità e informazioni nascoste ad arte (tanto che per il cliente finale è pressoché impossibile accedere a questi dati). Con il risultato che certe sostanze circolano ancora indisturbate (come da ultimo report di Greenpeace sul colosso Shein che “ha registrato quantità di sostanze chimiche pericolose superiori ai livelli consentiti dalle leggi europee”). 

La soluzione, come suggerito dal Report di Transformers Foundation, potrebbe stare in un’azione reazionaria, collaborativa e coesa. Che si crei uno standard unico, chiaro e adottato su larga scala, indipendentemente dal marchio o dal fornitore. Che si educhino reparti di design, spronandoli a lavorare gomito a gomito con chi ne sa di chimica e con i fornitori stessi, fornendo mezzi economici e tecnologici a questi ultimi per stare al passo con i tempi e spingerli a usare agenti chimici più sicuri. La legge, poi, dovrebbe garantire standard minimi uguali per tutti, controllando ciò che entra nel paese in maniera costante. Infine, fornire una lista delle sostanze presenti nei capi per permettere ai consumatori di fare scelte consapevoli, sarebbe un gesto auspicabile per mettere la salute pubblica davanti ai profitti. 

Poliestere riciclato: una soluzione o un altro problema per il mondo della moda? Marina Morgatta su L'Indipendente il 13 Febbraio 2023.

Il poliestere rappresenta ancora la fibra più prodotta al mondo. Secondo il Textile Exchange Preferred Fiber and Material Report del 2021, stiamo parlando di una copertura del mercato del 52%, di cui solo il 14% è costituito da poliestere riciclato; il resto arriva ancora da risorse vergini, ovvero petrolio e i suoi derivati. 

La storia di questa fibra sintetica, sintetizzata in laboratorio, risale agli inizi del 900, quando l’uomo ha sentito la fortissima esigenza di iniziare a sviluppare fibre a imitazione di quelle naturali (ovviamente per questioni puramente economiche). Mentre i primi tentativi di riprodurre la seta partivano da pasta di legno, trattata poi con sostanze chimiche, è nei laboratori della Dupont che iniziarono le prime ricerche ed esperimenti sui polimeri. I polimeri sono macromolecole lineari formate da lunghe catene di elementi uniti tra di loro dallo stesso tipo di legame. La polimerizzazione, il processo chimico tramite il quale il petrolio e derivati diventano fili per pronti per essere tessuti, è una catena di reazioni prodotte con l’uso di sostanze dai nomi complessi come cicloesanone, adipontrile, paraxilolo e tante altre. Quello che uscì fuori, nel 1953, era la PA 6.6, poliammide 6.6, meglio conosciuto e commercializzato con il nome di Nylon, sotto forma di calzetteria e intimo femminile. Poco dopo è arrivato anche l’elastan, noto come Lycra, altro elemento rivoluzionario per quanto riguarda il concetto di comodità, resistenza e tenacia. Una fibra altamente innovativa, che ha ribaltato usi e costumi e che ha rappresentato un punto di svolta, sia dal punto di vista produttivo, essendo materiali prodotti in laboratorio gli si può conferire caratteristiche come elasticità e impermeabilità difficilmente riscontrabili in tessuti naturali; sia da quello economico, poiché i costi di produzione (e di vendita) sono più contenuti.

Questo ha reso poliestere&Co. utilizzati non solo nel campo della moda, ma anche in quello dell’arredo, delle pavimentazioni, degli smart textiles e perfino nell’edilizia (queste molte applicazioni spiegano la crescita dei volumi produttivi). Uno dei grossi problemi connessi è la non biodegradabilità, che genera notevoli problemi nello smaltimento, anche quando mescolati ad altre fibre. A questo ci possiamo aggiungere che sono poco traspiranti, facilitano la proliferazione dei batteri producendo cattivi odori; per questa ragione vanno lavati spesso, con conseguente rilascio di microplastiche a ogni ciclo di lavaggio (i ricercatori dell’Università di Plymouth hanno scoperto che un carico di lavatrice di 6 kg può rilasciare oltre 700.000 microplastiche). A una riduzione dei costi produttivi è corrisposto un notevole aumento dei costi ambientali. Motivo per cui si è affacciato, negli ultimi anni, il poliestere riciclato.

Dal poliestere vergine a quello riciclato

Obiettivamente invasi dalla plastica, l’idea di acquistare un capo ottenuto da poliestere riciclato rassicura le coscienze e ripulisce, in parte, l’immagine di alcuni marchi, che in qualche modo sentono di contribuire ad alleggerire la loro impronta sul pianeta. In parte, perché dietro al riciclo di questa fibra si nascondono notevoli problematiche che non lo fanno essere meno impattante del suo fratello vergine. A partire dal “cosa” si va a riciclare per ottenere la nuova fibra. Del 14% del poliestere riciclato, il 99% proviene da PET (bottiglie di plastica); il restante 1% proviene da rifiuti oceanici come reti da pesca, tappeti, tessuti di scarto o dai residui di lavorazione pre-consumo. Non si tratta quindi di un processo circolare che va da tessuto a tessuto (il mio maglione di poliestere che si trasforma in nuovo poliestere), bensì da imballaggi a fibre, con tutte le magagne del caso.

Il riciclo meccanico delle bottiglie di plastica è un processo con il quale si risparmia energia (circa il 59% in meno rispetto alla produzione di poliestere tradizionale) e che produce meno CO2; questo senza tenere conto della produzione della materia prima, il PET! 

Però si tratta di un procedimento che indebolisce le fibre, per questo motivo gli abiti in PET riciclato non solo non sono trasformabili all’infinito, ma per garantire le stesse qualità della fibra originale, viene spesso mescolata con una percentuale di sintetico vergine, andando a minare ulteriormente la pretesa di circolarità. Riciclo funzionale, ma con dei limiti evidenti.

Esiste poi un altro aspetto da considerare: la richiesta di bottiglie in PET è condivisa tra l’industria degli imballaggi e quella dell’abbigliamento, provocando una concorrenza spietata tra le due e mettendo in seria difficoltà le imprese di cibo e bevande per il raggiungimento dei loro obiettivi di circolarità (ovvero garantire le quantità obbligatorie di materiale riciclato nel packaging alimentare, come da legislazione europea). 

Auspicabile sarebbe implementare e sviluppare un sistema che consentisse il riciclo reale da tessuto a tessuto, consentendo a quegli abiti dismessi di essere veramente messi in circolo (sempre che siano 100% PL, perché ancora non siamo in grado di riciclare abiti composti da fibre miste). In ogni caso, la domanda di poliestere riciclato è in crescita; tra gli obiettivi della campagna di Textile Exchange c’è quello di raggiungere, nel 2025, la quota 45% di poliestere riciclato, per poi arrivare al 90% entro il 2030. 

Riciclato o meno, il poliestere sempre plastica rimane, con tutte le implicazioni connesse, come il rilascio di microplastiche e la difficoltà di essere riciclato più volte. Però ha un costo contenuto, si adatta bene alle nuove collezioni e s’inserisce perfettamente nei racconti di sostenibilità da parte di aziende che, di sostenibile, non hanno niente. Una soluzione decisamente più semplice, immediata e comunque redditizia, che non mette in discussione logiche produttive ormai consolidate.

Lo sforzo reale, invece di continuare a produrre quantità spropositate di capi con poliestere riciclato, sarebbe quello di ridimensionare le produzioni, puntare sulla qualità e educare le persone a un consumo consapevole.

[di Marina Morgatta]

Le conseguenze sulla salute delle sostanze chimiche usate nella moda. Marina Morgatta su L'Indipendente il 10 gennaio 2023.

Che la moda abbia un impatto negativo sull’ambiente e sulla vita di coloro che ci lavorano ormai è cosa nota: dalle microplastiche rilasciate a ogni lavaggio fino alle tonnellate d’indumenti abbandonati a cielo aperto nei deserti nel sud del Mondo, dalle disumane condizioni di lavoro in moltissime fabbriche fino ai fiumi che cambiano colore stagionalmente per via degli smaltimenti selvaggi delle sostanze chimiche utilizzate. 

Sostanze che si riversano nell’ambiente ma che rimangono anche attaccate alle fibre dei capi che poi andremo a indossare, con le eventuali conseguenze per la nostra salute. 

Il ciclo di produzione di un capo o di un accessorio è un processo lungo e macchinoso, che parte dalla coltivazione della fibra (per la quale spesso sono usati pesticidi), la sua lavorazione per diventare filato, poi tessuto e infine un capo confezionato; in tutti questi passaggi la chimica è presente, sotto forma di tintura, stampa, trattamenti preparatori e altri passaggi utili a conferire determinate qualità al capo (impermeabilità, traspirabilità, anti-macchia, anti-pieghe, e così via). In questo senso la chimica è funzionale, ma in alcuni casi può essere tossica, portando con sé conseguenze poco piacevoli per la salute umana. Per questo motivo nell’Unione Europea l’uso delle sostanze chimiche è regolamentato dal REACH e per lo stesso motivo Greenpeace ha lanciato la campagna Detox My Fashion nel 2011. Il problema della chimica, però, sussiste, in quanto ciò che è considerato nocivo in una parte del mondo può non esserlo in un’altra; con la delocalizzazione della produzione e con merci che vanno e vengono, diventa difficile individuare e tenere sotto controllo le sostanze tossiche realmente presenti nei capi. E spesso arrivano, purtroppo, brutte sorprese.

Quali sono e perché sono pericolose?

Le sostanze chimiche impiegate nel settore tessile sono tantissime; Greenpeace aveva evidenziato 11 gruppi particolarmente nocivi tra i quali alcuni trattamenti ritardanti di fiamma (FR), che possono interferire con gli ormoni e indebolire le difese immunitarie; gli ftalati, usati come plastificanti per PVC, che possono influire sulla riproduzione (sono regolamentati in Europa, in America e Cina, ma solo nei prodotti per bambini); i metalli pesanti, usati in alcune tinture o per la conservazione delle fibre, sono tossici e possono danneggiare il sistema nervoso. Altra sostanza a destare preoccupazione è la formaldeide: usata come prodotto anti-piega, battericida e in alcuni processi di tintura per garantire solidità in seguito ai lavaggi, può causare tumori e irritare la pelle. Le Ammine aromatiche, derivanti da azo-coloranti, sono cancerogene e proprio per questo bandite in Europa fin dagli inizi degli anni 90 (sono regolamentati nella maggior parte del mondo, ma ogni tanto spuntano ancora). Insieme a loro sono state individuate altre 33 sostanze CMR (cancerogene, mutagene e tossiche per la riproduzione) appartenenti al gruppo di metalli pesanti, idrocarburi policiclici aromatici (IPA), solventi, per i quali, nel 2020, sono stati istituiti dei valori limite, oltre i quali il prodotto è dichiarato fuori legge. Questo vale per capi d’abbigliamento, calzature, accessori e altri articoli che sono spesso a contatto con la pelle (federe, lenzuola, coperte, accappatoi, asciugamani). 

Un discorso a parte meritano gli PFAS, per gli amici “forever chemicals” (un nome che non promette niente di buono, perché in pratica non spariscono mai): una serie di circa 9mila composti chimici usati per impermeabilizzare e rendere i prodotti (non solo tessili) resistenti all’acqua o alle macchie. Tecnicamente gli PFAS vanno a creare uno strato in grado di rendere traspiranti i capi anti-pioggia; quando la membrana si rompe, le sostanze finiscono nell’aria dove possono essere inalate o sulle superfici ed essere ingerite. A loro sono collegati a svariati problemi di salute, come cancro, disturbi renali, difetti della nascita e malattie del fegato. Oltre al fatto che inquinano pesantemente acqua e terreno, finendo direttamente nei cibi. 

Le buone notizie e un paio di consigli

In merito alla questione “chimica” governi e istituzioni mondiali si stanno impegnando per rendere sempre più stretti i controlli e, nello stesso REACH, vengono introdotte ogni anno nuove sostanze proibite e nuovi limiti a quelle consentite. È un lavoro in corso, per il quale ci vuole tempo e pazienza. In quanto consumatori, purtroppo, non abbiamo troppi strumenti a disposizione per capire quali e quante sostanze sono presenti nei capi: nelle etichette non ci sono informazioni di questo tipo (le aziende si appellano al segreto commerciale), motivo per cui diventa difficile valutare e scegliere. 

Un’indicazione in più può essere data dalla presenza, sui cartellini, di certificazioni come OEKO-TEX o BLUESIGN. In linea di massima, mentre aspettiamo passaporti digitali dettagliati, il consiglio è di controllare l’etichetta composizione, valutare il Paese di fabbricazione, informarsi sull’azienda, diffidare dei prodotti che scoloriscono e… lavare gli indumenti prima di indossarli. Una piccola accortezza che può salvare la pelle.

[di Marina Morgatta]

I Militari.

Terre a perdere: il documentario sull’impatto dei poligoni militari in Sardegna. L'Indipendente martedì 26 settembre 2023.

Nel novembre 2021 la giudice monocratica del Tribunale di Lanusei (Nuoro), Nicole Serra, dopo quattro ore di camera di consiglio assolve gli otto comandanti che tra il 2002 e il 2010 sono stati alla guida del Poligono sperimentale di addestramento interforze di Salto di Quirra (PISQ), a Perdasdefogu. Su di loro pendeva l’accusa di omissione dolosa aggravata contro infortuni e disastri per non aver adeguatamente recintato e isolato la zona dove si svolgevano le esercitazioni militari NATO e per non aver dotato i militari che si trovavano di servizio ai poligoni delle protezioni necessarie. I resti dei missili e dei materiali inquinanti che venivano utilizzati all’interno del Poligono hanno infatti contaminato l’acqua e la terra. I militari, ma anche i pastori e tutti coloro che vivevano nelle zone adiacenti, si sono ammalati di tumori e patologie neurologiche. Molti animali nacquero deformi, con due teste o con un occhio solo. Il tutto a causa dell’uranio impoverito, dei metalli pesanti e delle scorie radioattive presenti nei materiali bellici utili alle esercitazioni militari.

Le motivazioni della sentenza, emessa ormai due anni fa, non sono ancora state rese note, nonostante ne fosse prevista la pubblicazione per legge a 90 giorni dalla chiusura del processo. Nessuna interrogazione parlamentare, nessuna inchiesta è riuscita ad abbattere il «muro di gomma», come lo definisce il senatore Roberto Cotti, del ministero della Difesa e di quello degli Esteri sulle questioni militari. Eppure, i numeri sono chiari: 168 persone, tra pastori e militari, hanno contratto tumori ematoencefalici, morendo quasi tutte. Chi viveva e lavorava nei territori contaminati ha continuato a morire, nell’indifferenza dello Stato.

Dopo la fine del processo di Quirra, sulla vicenda è calato il sipario e il silenzio. Il documentario Terra a perdere risolleva questo velo, per far sì che non si dimentichi che la vicenda dei poligoni sardi ci riguarda tutti, molto da vicino. Le multinazionali, infatti, continuano ancora oggi a effettuare i test sui nuovi armamenti, ma su di essi continua a vigere il silenzio più totale. Nel frattempo, a gennaio 2024 si aprirà un nuovo processo per disastro ambientale colposo, il quale vedrà processati cinque generali al comando del poligono di Capo Teulada.

La Sanità.

SANITÀ INQUINATA. Angelo Vitolo su L’Identità il 29 Dicembre 2022

Un sistema sanitario che contribuisce alle emissioni climalteranti e, in definitiva, all’inquinamento del nostro pianeta? Una questione non solo italiana, che un recente studio ha analizzato. Ne sono autori gli 11 componenti di un team che ha pubblicato l’Opinion Article “Decarbonization of the Italian healthcare system and European funds. A lost opportunity?”.

Primum non nocere”, principio fondamentale della pratica medica, apre la loro introduzione. Così non è, se rapporti di studio dimostrano che il settore sanitario contribuisce in modo determinante al cambiamento climatico, come l’Health Care’s Climate Footprint Report che tre anni fa evidenziava che l’impronta climatica dei sistemi sanitari mondiali è pari a 514 centrali elettriche a carbone, il 4,4% delle emissioni globali di gas serra. E quindi se il sistema sanitario globale fosse considerato un unico Paese, sarebbe il quinto più grande responsabile di questo inquinamento della Terra. Da qui l’urgenza di questo tema nell’agenda globale. Perciò il Consiglio delle accademie europee e la Federazione delle accademie europee di medicina hanno recentemente invocato l’urgente necessità che il sistema sanitario raggiunga obiettivi ambiziosi di decarbonizzazione in tutta l’Unione europea e oltre.

In questo quadro, il sistema sanitario italiano – come sottolinea l’Opinion Article – ha un’impronta pari al 4% dell’impronta nazionale ma, nonostante il via ad investimenti nella transizione ecologica e a policy di efficientamento energetico delle infrastrutture sanitarie a partire dagli ospedali, evidenzia un PNRR che non menziona esplicitamente il sistema sanitario riguardo alle emissioni climalteranti. Tutto questo, in un Paese ove l’82% delle costruzioni è stato realizzato prima del 1990 e il 58% prima del 1970, quindi prima della legge 10 del 1991 attraverso la quale l’uso razionale dell’energia ha cominciato a essere significativamente regolato.

L’Italia – dice la farmacologa Silvia Ussai, coautrice dell’articolo – si trova in un’occasione unica per investire in un cambiamento del proprio sistema sanitario tramite il PNRR. Poiché si prevede che il contributo del sistema sanitario alla crisi climatica crescerà ulteriormente nei prossimi anni, è necessario avviare e rendere prioritarie politiche specifiche di decarbonizzazione in questo settore, adottando linee guida già esistenti a livello nazionale ed europeo”. “Una di queste misure – precisa – potrebbe essere quella utile a garantire lo sviluppo del sistema di monitoraggio previsto dal Decreto Ministeriale 77, per indirizzare gli interventi sulla prevenzione integrata, strettamente legata all’assistenza sanitaria di tipo comunitario”.Con policy, questo l’auspicio, che dovrebbero riguardare la catena di fornitura sanitaria e le sue emissioni dirette e indirette, la formazione professionale, la governance e i modelli di finanziamento. silvia Ussai lo ribadisce: E’ necessario pensare ad infrastrutture – esistenti e future – efficienti dal punto di vista energetico, oltre che attuare politiche di risparmio e ottimizzazione dell’energia, ad esempio, con l’utilizzo di lampadine a led. Un ulteriore tema molto impattante è la prevenzione dei rifiuti alimentari e l’adozione di diete sane, stagionali e sostenibili all’interno degli ospedali. Inoltre, l’Italia continua a soffrire sotto il profilo della gestione sostenibile dei rifiuti sanitari: oggi, il 30% delle strutture sanitarie non è attrezzato per gestire i carichi di rifiuti esistenti”.

Le Aziende Energivore.

Exxon.

Shell.

Mafiosi.

Exxon.

La multinazionale Exxon conosceva gli effetti del petrolio sul clima dagli anni ’70, ma li ha nascosti. Francesca Naima su L'Indipendente il 18 gennaio 2023.

I danni dell’industria dei combustibili fossili che oggi si tenta di limare erano stati previsti fin dagli anni Settanta, tanto dagli studiosi quanto da chi per anni ha investito nel settore ben cosciente che il proprio arricchimento avrebbe contribuito significativamente al rilascio di enormi quantità di CO2 nell’ambiente. Compagnie petrolifere quali la ExxonMobil Corp, colosso mondiale presente nel mercato europeo sotto i marchi Esso e Mobil, hanno ignorato documenti e indagini in cui venivano elencati i danni ambientali poi verificatosi e dei quali oggi si subiscono le conseguenze. Le proiezioni ormai vecchie di mezzo secolo realizzate dagli stessi studiosi della ExxonMobil Corp parlavano chiaro, annunciando agli azionisti che gli effetti dell’estrattivismo fossile sul riscaldamento globale sarebbero stati “potenzialmente catastrofici”.

Ciononostante, le comunicazioni pubbliche della ExxonMobil sono state strutturate in modo da mascherare consapevolezze tanto importanti, fuorviando i consumatori e ingannando i cittadini. Motivo per cui città, contee e stati hanno intentato azioni legali contro la compagnia petrolifera per avere messo in atto strategie ingannevoli. A fare emergere la strategia di una delle maggiori compagnie petrolifere statunitensi alcuni giornalisti investigativi i quali dal 2015, sono entrati in possesso di documenti aziendali interni alla corporation. Una raccolta di studi, previsioni, dati in cui gli scienziati della Exxon mettevano in guardia i loro dirigenti sul riscaldamento globale; gli accademici Geoffrey Supran, Stefan Rahmstorf e Naomi Oreskes, autori di in un dettagliato studio recentemente pubblicato su Science.org hanno elencato e dettagliato le proiezioni climatiche dell’industria dei combustibili fossili che risalgono almeno al 1977 e che non erano mai state valutate prima.

I registri aziendali contenenti le proiezioni documentate e modellate dagli scienziati della Exxon e della ExxonMobil Corp tra il 1977 e il 2003 dimostrano come le affermazioni pubbliche della stessa società siano state del tutto sconnesse dalle attestazioni scientifiche. Una completa contraddizione tra la comprensione privata e la negazione pubblica elencate nello studio sopracitato attraverso l’esposizione di tre esempi principali inerenti ai cambiamenti della temperatura superficiale media globale, in quanto motore principale degli impatti climatici. Ne emerge come per decenni il colosso petrolifero abbia enfatizzato le incertezze sul potenziale aumento dell’effetto serra escludendo altresì la possibilità del riscaldamento globale antropogenico (cioè causato da alcune attività umane). Almeno fino al 2010 la ExxonMobil Corp ha portato avanti affermazioni fuorvianti, in alcuni casi suggerendo addirittura che i modelli climatici fossero “inaffidabili”.

Comunicazioni pubbliche che “dimenticavano” i dati di cui ormai giornalisti e studiosi sono a conoscenza; i documenti interni PDF originali e le pubblicazioni sottoposte a revisione paritaria non lasciando dubbi: esistono proiezioni esplicite che attestavano come l’aumento delle concentrazioni atmosferiche di gas serra avrebbe portato al riscaldamento globale. Tuttavia, la ExxonMobil Corporation ha continuato a operare pur sapendo, negando l’evidenza scientifica a loro ben nota con affermazioni quali: «Le proiezioni sul clima futuro si basano su modelli climatici completamente non provati o, più spesso, su pura speculazione» (così disse Lee Raymond, CEO di ExxonMobil Corp, nel 1999). Nel 2013 invece, il successore Rex Tillerson, aveva definito i modelli climatici «non competenti» e due anni dopo affermava pubblicamente: «Non sappiamo davvero quali saranno gli effetti sul clima di 600 ppm rispetto a 450 ppm perché i modelli semplicemente non sono così buoni».

Eppure erano state proprio delle proiezioni prodotte dagli studiosi della Exxon a dimostrare l’esatto contrario già nel 1982, ovvero che 600 ppm avrebbe portato a 1,3°C in più di riscaldamento globale rispetto a 450 ppm.

Variazione di temperatura rispetto al tempo osservata storicamente (rosso) rispetto alle proiezioni di riscaldamento globale riportate dagli scienziati di ExxonMobil in documenti interni e pubblicazioni sottoposte a revisione paritaria. Fonte: https://www.science.org/doi/10.1126/science.abk0063

E quest’ultima non è che una delle diverse dimostrazioni schiaccianti di come il colosso petrolifero si sia arricchito continuando a investire in un settore che ben sapeva avrebbe provocato danni gravi e di difficile riparazione al Pianeta. [di Francesca Naima]

Shell.

Transizione finta: gli azionisti di Shell fanno causa alla multinazionale. Simone Valeri su L'Indipendente il 14 febbraio 2023.

In quella che si è configurata come la prima causa al mondo intentata da degli azionisti contro una multinazionale, l’organizzazione ClientEarth, appoggiata da diversi investitori istituzionali, ha denunciato la compagnia olandese Shell per “non aver gestito i rischi materiali e prevedibili posti all’azienda dal cambiamento climatico”. ClientEarth sta così portando in tribunale gli 11 direttori del colosso petrolifero sulla base del fatto che quest’ultimo non sarebbe stato in grado di tutelare gli interessi legali dei suoi azionisti (tra cui la stessa organizzazione). In particolare, le accuse riguardano l’obiettivo di Shell di dimezzare le proprie emissioni entro il 2030. Obiettivo che interesserebbe appena il 10% delle emissioni totali della compagnia quando, invece, una corte olandese ha già stabilito che la Shell dovrà tagliare i suoi gas serra di almeno il 45% entro fine decennio.

Gli obiettivi climatici della compagnia, a conti fatti, porterebbero ad un realistico calo nel rilascio di anidride carbonica di appena il 5%. Percentuale del tutto insufficiente affinché il colosso possa dichiarare di impegnarsi in termini di transizione, ma anche illegale. Questo perché, come anticipato, nel 2021 il Tribunale de L’Aia ha imposto alla compagnia obiettivi vincolanti ben più ambiziosi. Si è trattato del primo grande processo di giustizia climatica conclusosi con la vittoria degli attivisti, alla cui sentenza l’ONG ClientEarth si sta ora appellando. «Per garantire che l’azienda rimanga competitiva nei mercati energetici del futuro, dato che i Paesi e i clienti di tutto il mondo scelgono un’energia più economica e pulita, Shell deve abbandonare i combustibili fossili per adottare un modello commerciale alternativo», ha spiegato ClientEarth nei giorni in cui ha avanzato la causa al cospetto dell’Alta Corte dell’Inghilterra e del Galles.

Quella portata avanti dall’ONG insieme a numerosi investitori istituzionali rappresenta una una cosiddetta causa derivata, una causa intentata dagli azionisti nei confronti dell’azienda che hanno scelto di sostenere. ClientEarth, che è un ente di beneficenza focalizzato sul diritto ambientale, detiene un pacchetto di azioni Shell, probabilmente, proprio allo scopo di farla rigare dritto sulla questione climatica. Ad ogni modo, se questa rappresenta la prima causa intentata da degli azionisti contro una multinazionale, già da qualche anno i principali investitori hanno iniziato a chiedere ai colossi petroliferi, e alle grandi aziende in generale, di allineare le loro emissioni all’Accordo di Parigi. Verso la fine del 2022, ad esempio, un gruppo di azionisti con un patrimonio complessivo di 1.300 miliardi di euro ha chiesto alle maggiori compagnie petrolifere del mondo di agire più rapidamente per ridurre il loro impatto climatico. Così come, nel 2019, 200 investitori istituzionali, con un patrimonio complessivo di 6,5 mila miliardi di dollari, hanno chiesto a 47 delle maggiori società statunitensi quotate in borsa di allineare le loro attività di lobbying sul clima agli obiettivi di Parigi, avvertendo che le attività non coerenti con il raggiungimento degli obiettivi climatici costituiscono un rischio per gli investimenti. [di Simone Valeri]

Nigeria: la Shell dovrà finalmente risarcire le comunità devastate dal petrolio. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 28 Dicembre 2022

Shell, multinazionale britannica operante nel settore petrolifero, pagherà alle comunità contadine della Nigeria un risarcimento di 16 milioni di dollari per i danni ambientali causati dalle perdite dei suoi oleodotti nella zona sud-orientale, nel Delta del Niger, nel periodo compreso tra il 2004 ed il 2007.

È quanto stabilito dall’ultima sentenza di un processo che in realtà va avanti da 14 anni, quando quattro abitanti dei villaggi di Goi e Oruma, situati proprio nel Delta, trovarono il coraggio, con l’appoggio della ONG olandese Friends of the Earth, di denunciare la Shell, accusandola di aver distrutto intere aree strategiche per pesca e coltivazione, e per questo fondamentali per la sussistenza di chi le abita.

La multinazionale petrolifera, pur accettando di pagare un indennizzo alle comunità come stabilito nel 2021 dalla Corte d’Appello dell’Aja (anche se l’ammontare del risarcimento è stato pattuito poco tempo fa), ha sempre negato di essere responsabile di quanto accaduto, attribuendo piuttosto la colpa delle fuoriuscite ad atti vandalici e di sabotaggio compiuti da terzi sui suoi oleodotti. L’accordo monetario “non prevede l’ammissione di responsabilità, risolve tutti i reclami e pone fine a tutte le controversie pendenti relative alle fuoriuscite”, ha tenuto a sottolineare Shell in un comunicato. La sentenza inoltre prevede che la multinazionale si doti al più presto – e obbligatoriamente – di un sistema di sorveglianza che monitori i suoi oleodotti, per evitare, sia nel caso di sabotaggi (come dice l’azienda) che di fuoriuscite accidentali, che episodi di questo tipo si verifichino ancora.

Non è la prima volta infatti che Shell finisce nei guai per questi motivi. Se ne parla praticamente dalle sue prime estrazioni di petrolio in Nigeria, intorno agli anni ’50, quando i problemi legati alla scarsa sicurezza degli oleodotti e ai mancati controlli periodici erano già piuttosto evidenti. E negli anni non sono stati risolti e anzi si sono accumulati a quelli di tutte le altre multinazionali. Basti pensare che solo nel periodo compreso tra il 2020 e il 2021, la National Oil Spill Detection and Response Agency (NOSDRA) della Nigeria ha registrato sul suo territorio 822 fuoriuscite di petrolio, per un totale di 28.003 barili riversati nell’ambiente. Fra gli episodi più gravi che hanno invece visto protagonista esclusivamente Shell, se ne ricordano in particolare due: quello del febbraio 2003, quando ci fu un’esplosione nel giacimento petrolifero abbandonato di Shell a Yorla, che provocò una grave fuoriuscita di petrolio e quello dell’agosto del 2008, quando un guasto all’oleodotto Trans-Niger riversò sulla comunità di Bodo 4.000 barili di greggio. In realtà di incidenti di questo tipo, negli anni, ce ne sono stati moltissimi (si possono leggere qui), ma l’espansione di Shell in Nigeria non si è mai realmente fermata: ad oggi, come riporta Altreconomia, la multinazionale conta 50 pozzi, più di seimila chilometri di oleodotti e gasdotti e ricavi totali derivati dall’estrazione (nel 2019) pari a circa 4,5 miliardi di dollari.

Ci sono tuttavia degli esempi positivi. Shell ad esempio non potrà più cercare giacimenti di gas e petrolio al largo della “Wild Coast”, un’area rurale ed incontaminata facente parte della costa della provincia sudafricana Eastern Cape. Con una sentenza, l’Alta Corte di Makhanda ha stabilito che le esplorazioni in questione – effettuate generando onde sismiche con cui analizzare i fondali – erano state concesse dal governo in maniera illegale. Nel suo piccolo anche il caso del delta del Niger può essere considerato una piccola vittoria. È vero, la cifra accordata (destinata totalmente alle comunità di Oruma, Goi e Ikot Ada Udo) non ridarà agli abitanti del posto quanto perso, non ripulirà le loro terre e neppure le falde acquifere, contaminate da decine di sostanze cancerogene. Almeno non totalmente. Ma, come ha scritto la BBC, “questo traguardo è come una pietra miliare”. Si tratta in effetti del primo riconoscimento che piccole comunità agricole ottengono da un colosso petrolifero per compensare i danni ambientali provocati. [di Gloria Ferrari]

Mafiosi.

Senza ritegno: la prossima conferenza ONU sul clima sarà guidata da un petroliere. Simone Valeri su L'Indipendente il 17 gennaio 2023.

La prossima Conferenza delle Parti sul clima (COP28) avrà luogo negli Emirati Arabi Uniti e sarà presieduta dal capo del colosso petrolifero della nazione. Ai più potrebbe sembrare una bufala, tuttavia, l’informazione è tanto vera quanto contradditoria. Il sultano Ahmed Al Jaber, amministratore delegato del colosso fossile Abu Dhabi national oil company, paradossalmente, avrà infatti il compito di definire l’agenda della principale conferenza internazionale sul clima rivestendo un ruolo centrale nei negoziati. Trattative finalizzate a raggiungere, in teoria, un consenso su punti come la riduzione delle emissioni di CO2 e l’abbandono progressivo dei combustibili fossili. L’ennesima assurdità firmata Nazioni Unite che mina a quel poco di credibilità che rimaneva a detti vertici climatici. Un «oltraggioso conflitto di interessi – commenta Harjeet Singh, capo del Climate Action Network, la rete di oltre 1.800 ONG ambientaliste di 130 Paesi – la continua minaccia dei lobbisti dei combustibili fossili ai colloqui sul clima delle Nazioni Unite ha costantemente indebolito i risultati della conferenza sul clima, ma questo lo porta a un altro livello, pericoloso e senza precedenti».

Una decisione che ha lasciato di stucco scienziati ed attivisti, la quale fa seguito alla già controversa scelta della sede della diciottesima Conferenza delle Parti sul Clima. Come può una nazione economicamente vincolata al settore dei combustibili fossili, gli Emirati Arabi Uniti, essere imparziale su tematiche quali l’abbondono degli stessi? Sono in molti a chiederselo. D’altra parte, le contraddizioni sono di casa alle COP, così come lo è già l’influenza dei delegati dell’una o l’altra industria degli idrocarburi. Basti pensare che al vertice delle Nazioni Unite sul clima di Sharm-el-Sheikh (COP27), il numero di delegati legati ai combustibili fossili è aumentato del 25% rispetto alla COP precedente di Glasgow. A rivelarlo, un’analisi resa nota dalla BBC e realizzata dall’organizzazione Global Witness. L’indagine ha scoperto che più di 600 persone presenti ai negoziati sul clima in Egitto erano in qualche modo legate all’industria del petrolio e del gas, un numero superiore a quello delle delegazioni dei 10 Paesi a maggiore impatto climatico.

Alla prossima COP, quindi, il volere delle industrie del petrolio e del gas potrebbe avere  invece un ruolo diretto, nonché condizionare i colloqui alla luce del sole. Il sultano Al-Jaber, che è anche ministro dell’Industria e delle Tecnologie negli Emirati Arabi Uniti, riguardo le priorità nella lotta alla crisi climatica, ha infatti una posizione chiara: a suo avviso, la transizione ecologica dovrebbe essere effettuata «con pragmatismo e prudenza» in quanto «non possiamo semplicemente staccare la spina al sistema di oggi». Così, giusto per citarne una, il capo del colosso fossile medio-orientale propone addirittura di aumentare gli investimenti nelle fonti fossili di 600 miliardi di dollari all’anno. Sebbene il sultano sia anche presidente di Masdar, società specializzata nello sviluppo di energie rinnovabili, la sostanza non cambia. La scienza è oggi pienamente concorde sul ruolo delle emissioni fossili nell’accelerazione del riscaldamento globale in atto. Le industrie petrolifere, dal canto loro, hanno sempre negato le evidenze e tentato di alimentare scetticismi sulla questione climatica arruolando scienziati ed enti affinché questi manipolassero l’opinione pubblica. Una strategia che ha funzionato per decenni e che solo ora inizia a vacillare. Il risultato? L’industria fossile assume la guida dei negoziati climatici. [di Simone Valeri]

Porto Rico vuole che le multinazionali fossili siano giudicate come i mafiosi. Simone Valeri su L'Indipendente il 23 Dicembre 2022.

La stessa legislazione sulle associazioni a delinquere utilizzata contro i boss mafiosi e i truffatori internazionali dovrebbe essere adottata contro le compagnie fossili accusate di aver cospirato per ingannare la popolazione sulla crisi climatica. È con questa ambiziosa strategia che i legali della prima causa per racket climatico cercheranno di far ritenere l’industria petrolifera responsabile di “decenni di menzogne”. La disputa legale in questione è stata intentata dalle comunità dello stato caraibico di Porto Rico che sono state devastate dall’uragano Maria nel 2017. I querelanti, in particolare, sono 16 comuni, villaggi e città che sono stati duramente colpiti dall’evento estremo che ha provocato migliaia di morti, carestie, danni diffusi alle infrastrutture, nonché il più lungo blackout nella storia degli Stati Uniti.

«Porto Rico è uno dei luoghi più colpiti al mondo dai cambiamenti climatici. Tra uragani, mareggiate, caldo estremo e sbiancamento dei coralli, è il contesto più appropriato per questo contenzioso sul clima», ha dichiarato Melissa Sims, consulente senior dello studio legale Milberg che ha avviato la causa depositata presso la corte distrettuale federale statunitense di Porto Rico. Una contestazione giudiziaria unica nel suo genere che vorrebbe equiparare le decennali cospirazioni dell’industria petrolifera a quelle delle più temibili organizzazioni criminali. In particolare, i legali portoricani hanno intenzione di appellarsi al Racketeer Influenced and Corrupt Organizations Act del 1970, un pacchetto di norme dell’isola originariamente concepito per combattere le associazioni mafiose, ma poi esteso nei tribunali civili per contestare i danni causati dagli oppioidi, dalle emissioni dei veicoli e persino dalle sigarette elettroniche. Ora, è quindi il turno del primo caso simile sui cambiamenti climatici sulla base dell’accusa che le compagnie petrolifere e del carbone internazionali, le loro associazioni di categoria e una rete di scienziati e altri esperti pagati hanno cospirato per ingannare, in questo caso specifico, i residenti di Porto Rico, sul legame diretto tra i loro combustibili che emettono gas serra e la crisi climatica.

Secondo l’accusa, le prove della cospirazione risalgono già al 1989, quando gli imputati, tra cui le multinazionali fossili ExxonMobil, Shell, BP e Rio Tinto, individualmente e attraverso associazioni di categoria, costituirono la Global Climate Coalition, “società senza scopo di lucro finalizzata ad influenzare, pubblicizzare e promuovere gli interessi dell’industria dei combustibili fossili fornendo false informazioni ai loro consumatori e al pubblico in generale“. Il documento, tra le altre cose, sostiene che dette aziende hanno cospirato per uno scopo comune: “ingannare i consumatori e seminare confusione per mantenere alte e redditizie le vendite di combustibili fossili”. Una vera e propria strategia propagandistica, creata appositamente per opporsi al protocollo di Kyoto, il primo grande sforzo internazionale per combattere il cambiamento climatico, compresa di un piano d’azione finalizzato a convincere i consumatori che il riscaldamento globale non si stava verificando e che, se si fosse verificato, non c’era consenso scientifico sulla responsabilità dei combustibili fossili. In sostanza, un piano di negazione del cambiamento climatico messo in atto attraverso versamenti di denaro occulto a istituti di ricerca, gruppi commerciali e società di pubbliche relazioni.

La causa sostiene inoltre che le compagnie fossili sapevano che Porto Rico era un “bersaglio facile” a causa della sua posizione geografica, che rendeva l’isola e la sua popolazione particolarmente vulnerabile agli eventi legati al cambiamento climatico, quali tempeste più calde e umide, caldo estremo e innalzamento del livello del mare. E, più nello specifico, che “i danni causati dalle tempeste del 2017 – e la probabilità che disastri climatici peggiori colpiscano l’isola in futuro – dipendono dalle azioni e dalle omissioni degli imputati, poiché le compagnie petrolifere e del carbone, insieme ai loro complici, sono collettivamente responsabili di oltre il 40% dei gas serra globali”. A dover rispondere delle accuse di frode al consumo, racket, antitrust, false dichiarazioni fraudolente e associazione a delinquere finalizzata alla frode, sette compagnie petrolifere, tre compagnie del carbone e centinaia di organizzazioni e operatori del settore. [di Simone Valeri]


 

L’acqua.

L’aria.

L’acqua.

Legambiente: il 32% delle acque dei mari e dei laghi italiani è inquinato. Stefano Baudino su L'Indipendente sabato 12 agosto 2023.

Il 32% delle acque di mari e laghi, esaminate in 18 diverse Regioni dello stivale dai volontari di Legambiente, si sono rivelate inquinate. È quanto emerge dall’ultimo report pubblicato dall’associazione ambientalista a margine delle campagne itineranti “Goletta Verde” e “Goletta dei Laghi 2023”, effettuate da giugno a inizio agosto. Tra i punti più problematici ci sono le foci dei fiumi, canali e corsi d’acqua che si immettono nei mari o nei laghi.

Nello specifico, su un totale di 387 campioni prelevati nelle acque marine e lacustri d’Italia, ben 124 su 387 (quasi uno su tre) sono risultati oltre il limite di legge. Oggetto dell’indagine è stata la concentrazione nelle acque di parametri di tipo microbiologico, tra cui Enterococchi intestinali ed Escherichia coli. Sono stati considerati come “inquinati” i campioni in cui almeno uno dei due parametri ha travalicato il valore limite previsto dalle leggi sulle acque di balneazione vigenti in Italia (Dlgs 116/2008 e decreto attuativo del 30 marzo 2010) e “fortemente inquinati” quelli in cui almeno uno dei parametri ha superato la soglia per più del doppio.

Gli operatori di Legambiente hanno evidenziato le preoccupanti condizioni del mare italiano, che ogni 78 km vede un punto oltre i limiti di legge. Dopo i prelievi, svolti in 262 diversi luoghi (per il 49% alle foci e per il 51% direttamente in mare), si è attestato che il 36% del campione si pone oltre la soglia normativa: il 30% è stato considerato “fortemente inquinato”, il 6% è stato invece inquadrato come “inquinato”. Altro fattore allarmante è la scarsa informazione offerta ai bagnanti che accedono alle spiagge. Infatti, soltanto nel 15% dei punti esaminati dai volontari è stato trovato il cartello recante le informazioni sulla qualità delle acque, obbligatorio per legge. Nessuna segnalazione in merito alla criticità del punto e al conseguente divieto di balneazione era presente nel 73% delle foci oggetto della ricerca.

Anche la situazione delle acque dei laghi non è delle migliori. L’esame dei campioni prelevati (nel 48% dei casi presso le foci di canali e corsi d’acqua sfocianti nei laghi e nel 52% nelle acque lacustri), ha dimostrato che il 23% – ovvero 29 su 125 – è fuori dai limiti previsti per legge. Il dato è più preoccupante quando ad essere esaminati sono i campioni recuperati presso canali e corsi d’acqua (33%), mentre si abbassa in quelli prelevati direttamente nei laghi (14%).

«La maladepurazione resta un’emergenza cronica del nostro Paese e, oltre a minacciare mare, laghi e biodiversità, costerà centinaia di milioni di euro nei prossimi anni, a causa del pagamento di multe che l’Europa non ci condonerà», ha evidenziato il presidente di Legambiente Stefano Ciafani, commentando i risultati del report. Secondo Ciafani è essenziale «che il Governo Meloni lavori a un piano nazionale per la depurazione nominando al più presto il nuovo commissario per la depurazione che oggi manca ancora all’appello. Occorre completare i lavori della rete impiantisca e prevedere più risorse, perché i fondi specifici previsti dal Pnrr pari ai 600 milioni non sono sufficienti, come ha sottolineato anche la Commissione Europea».

Legambiente ha inoltre messo l’accento sulle serie difficoltà incontrate dall’Italia nell’adempimento degli obblighi imposti dalla direttiva sul trattamento delle acque reflue urbane, con un tasso di conformità pari al 56% (la media europea è superiore di 20 punti percentuali). Per questo, lo scorso giugno il nostro Paese – giudicato non pienamente adempiente alla sentenza della Corte dell’aprile 2014, che aveva stabilito che 41 agglomerati urbani non avevano garantito la raccolta e il trattamento adeguati delle acque reflue urbane – era stato infatti nuovamente deferito alla Corte di giustizia dell’UE. 5 di questi agglomerati, uno in Valle d’Aosta e 4 in Sicilia, sono infatti ancora fermi al palo. In seguito al richiamo, le autorità italiane avevano fatto sapere che “la piena conformità alla sentenza del 10 aprile 2014 non sarà raggiunta prima del 2027”.

[di Stefano Baudino]

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Mare malato, cercasi commissario alla depurazione. Legambiente: fuorilegge un punto ogni 78 km di costa. Angelo Vitolo su L'Identità il 12 Agosto 2023 

Non solo la temperatura ormai aumentata, specie nell’Alto Adriatico. I mari italiani sono sempre più malati, come i laghi. Goletta Verde e Goletta dei Laghi hanno chiuso il loro tour e dicono che maladepurazione, scarichi abusivi, inquinamento e crisi climatica restano la principale minaccia, per l’acqua e per la biodiversità.

Il bilancio di Legambiente anche quest’anno volge al nero: oltre i limiti di legge il 32% dei 387 campioni di acque marine e lacustri prelevati in 18 regioni. Foci dei fiumi, canali, corsi d’acqua che sfociano a mare o nel lago sono i punti più critici, fuorilegge un punto di mare ogni 78 km di costa (ove il 73% di essi non reca nemmeno i cartelli di divieto balneazione obbligatori per legge), ove quest’anno i territori hanno fatto pure i conti con l’intensificarsi di eventi meteorologici estremi, ormai sempre più ripetuti: 712 quelli dal 2010 a giugno di quest’anno in 240 aree costiere, con 186 vittime.

Indagata come sempre, nei campioni prelevati, la concentrazione di parametri microbiologici come enterococchi intestinali ed escherichia coli, con lo scopo di stimolare una cultura della depurazione che vada oltre le emergenze. Tre le proposte al governo, proprio su questi temi: lotta alla maladepurazione, tutela della biodiversità, sviluppo dell’eolico offshore, auspicando che finalmente l’esecutivo nomini il nuovo commissario per la depurazione dotandolo di maggiori risorse. Ad oggi gravano sul nostro Paese quattro procedure Ue di infrazione per la mancata conformità alla Direttiva Acque Reflue: l’ultima ancora in istruttoria, le prime tre già arrivate a sentenza di condanna con una di queste, pendente da 19 anni, giunta alla sanzione pecuniaria. Già pagati, per i ritardi, oltre 142 milioni di euro.

Temi su cui insiste Stefano Ciafani, presidente di Legambiente: “Servono un piano nazionale e più risorse, perché i fondi Pnrr per 600 milioni non sono sufficienti, come dice anche la Commissione Europea”.

E poi, per la biodiversità, sono da anni in stallo decine di Parchi e di Aree marine protette come quelle della Costa di Maratea in Basilicata o della Costa del Monte Conero e della Costa del Piceno nelle Marche. Un ritardo che limita la superficie protetta al solo 11,2%, in un’Europa ove è a rischio l’81% degli ecosistemi. Mentre sul fronte dell’eolico off-shore, Legambiente chiede di accelerare 72 progetti ancora in attesa dell’ok statale lungo le coste di Sicilia, Sardegna e Puglia, Lazio, Calabria, Emilia-Romagna e Molise. E qui una nota scandalosa getta ombre su tanti governi del passato. Alcuni di questi progetti sono stati presentati più di dieci anni fa, con tecnologie ormai obsolete. E altri insistono su aree molto vicine fra loro, quindi non tutti i 50 possibili GW potranno essere effettivamente approvati e realizzati. Un’altra occasione persa dal nostro Paese.

Ma lo scandalo non finisce qui. Simone Togni, presidente Anev, ritorna sul decreto aree idonee per le rinnovabili in stallo e rammenta che “manca ancora il Piano per gli spazi marittimi per individuarle anche in mare. Come Stato membro dobbiamo applicare la Direttiva Ue 2014/89 che istituisce un quadro per la pianificazione: nel pacchetto sulle infrazioni dello scorso aprile c’è un parere inviatoci proprio per questa mancata elaborazione. Avevamo due mesi per metterlo a punto, ma ad oggi non si hanno notizie concrete sul punto. Mentre ancora non abbiamo i decreti di sostegno per le Fonti Energetiche Rinnovabili tradizionali e innovative attesi da anni”.

L’aria.

La qualità dell'aria nelle città italiane è pessima. Ma la politica fa finta di niente. Nonostante il rincorrersi degli allarmi per la salute, le amministrazioni rispondono con interventi blandi mentre cresce il contenzioso giudiziario sui danni da smog. Luigi Balestra su L'Espresso il 7 settembre 2023.

È di qualche settimana fa la notizia di un avviso di chiusura indagini della procura della Repubblica di Torino nei confronti di ex amministratori comunali e regionali di spicco (tra cui Sergio Chiamparino, Piero Fassino e Chiara Appendino). Le indagini sono ancora in corso per alcuni degli attuali vertici, tra cui il presidente Alberto Cirio. I fatti addebitati concernono l’inquinamento atmosferico, tristemente imperante in quei territori, e si fondano su alcuni dati inquietanti: tra i 1000 e i 1400 morti, metà dei quali per malattie cardiovascolari, nel periodo preso in considerazione. 

Al di là della fondatezza o no delle accuse mosse – inefficienze, inadeguatezze, ritardi nell’adozione di misure – per le quali sarà il procedimento giudiziario a fornire un verdetto in merito alla sussistenza di eventuali condotte colpose, rimane sul tavolo un problema scottante, con il quale la politica fa fatica a fare i conti: l’irrespirabilità dell’aria in una significativa parte del Paese, e questo per lunghi periodi durante l’anno. Il rapporto di Legambiente “Mal’Aria di città (cambio di passo cercasi) 2023” è al riguardo impietoso. Milano e Torino troneggiano tra le città a più alto tasso di inquinamento; il Nord Italia è, di fatto, in misura preponderante interessato dal fenomeno. In città come Bologna gli effetti dell’inquinamento risultano peraltro amplificati dalla presenza dei bellissimi portici, patrimonio dell’Unesco, i quali creano una stagnazione dell’aria, divenendo veri e propri contenitori di polveri sottili. 

Uno scenario del genere è destinato in un prossimo futuro a dare la stura a contenziosi di natura risarcitoria particolarmente impattanti. Qualche mese fa la Corte di Cassazione ha sancito la giurisdizione del tribunale ordinario con riguardo a un giudizio avente a oggetto il risarcimento dei danni subiti da un residente nel comune di Milano per aver contratto una patologia a livello di bronchi, faringe e narici causata dell’inquinamento atmosferico. Un’apertura suscettibile di creare, data la vastità del problema, falle enormi nei bilanci delle amministrazioni pubbliche.  

È sufficiente, del resto, consultare le tante applicazioni disponibili per rendersi conto dei livelli inaccettabili della qualità dell’aria che interessano sovente molte città italiane. In questi casi, l’applicazione si dà peraltro carico di consigliare l’astensione dallo svolgimento di un esercizio fisico intenso all’aperto, soprattutto da parte della popolazione a rischio. In uno scenario simile, colpisce il fatto che nessuna raccomandazione in merito alle cautele da adottare provenga dai vertici locali delle amministrazioni interessate, e questo nonostante non possa essere posto seriamente in dubbio che su di esse gravi un dovere di informare la popolazione sui rischi. 

Al cospetto del fondamentale diritto alla salute, sembra quasi vi sia una deliberata volontà di sottacere un problema scomodo da affrontare. La mancanza di dibattito diventa così foriera di gravissimi inconvenienti, poiché impedisce la maturazione di un’adeguata consapevolezza da parte della popolazione e, conseguentemente, pregiudica la possibilità di autodeterminarsi rispetto al bene salute; nel contempo, rimangono in uno stato di latenza gli stimoli ad attivarsi al fine di elaborare una strategia di intervento di portata ampia e con finalità risolutive. E dire che, al fine di innescare un serio e fattivo dibattito, sarebbe sufficiente aprire uno schietto confronto sul citato rapporto Legambiente Mal’Aria, in cui sono tra l’altro contenute una serie di proposte già concretamente adottabili. 

Sul tema non mancano peraltro studi e prese di posizione anche a livello internazionale. La Commissione europea ha di recente pubblicato una relazione in cui, da un lato, si pongono in luce gli ingenti danni – anche in termini di perdita di vite umane – che l’inquinamento, non solo atmosferico, provoca. Dall’altro si ribadiscono gli obiettivi del piano di azione inquinamento zero. Una relazione che, come sottolineato da qualche commentatore, è passata pressoché inosservata. 

Un dato scioccante è quello ricavabile da uno studio pubblicato recentemente sulla rivista The Lancet Planetary Health: solo lo 0,0001% (meno di centomila persone) della popolazione mondiale respira un’aria davvero pulita. Si tratta, dunque, di un problema che agita l’intero arco planetario. L’Italia, tra i Paesi dell’area occidentale, è tra i più colpiti. Per affrontarlo in modo risolutivo occorrerebbe farsi portatori di scelte coraggiose, come tali spesso impopolari, guardando oltre il contesto delle singole città. Scelte che, solo si fosse dotati di lungimiranza, potrebbero però essere concepite come forme di vero e proprio investimento futuro, poiché idonee a dar vita a una riduzione della spesa sanitaria, decretando un aumento del benessere a livello collettivo; in pari tempo, esse potrebbero costituire una potente spinta verso un’innovazione tecnologica realmente attuativa della tanto declamata svolta green. 

Fintanto che gli amministratori pubblici saranno dominati dall’ansia di non urtare il consenso popolare tralasciando, in nome di scelte populistiche, la reale essenza del bene comune, continueremo ad assistere ad interventi flebili e inconcludenti. Dovremo nutrirci di una politica fatta di piccoli passi e di grandi proclami, contraddistinti da blandizie e da preannunciate azioni risolutive di cui sono ignoti tempi di realizzazione e portata. Eppure, i danni catastrofici già prodotti, l’ecoansia dirompente da cui sono afflitti settori sempre più estesi della popolazione giovanile e no, la cattiva salute dei nostri territori e, più in generale, dell’intero Pianeta, sono tutti elementi che imporrebbero di intervenire in modo drastico e realmente efficace, privilegiando – per dirla con Vito Mancuso – valori più importanti rispetto alla realizzazione  del proprio interesse immediato.  

Quel che però non deve sfuggire è che, così come nelle società commerciali l’amministratore può essere chiamato a rispondere quando, a fronte di una situazione di crisi, non adotti scelte e strategie in concreto esigibili al fine di porvi rimedio, allo stesso modo gli amministratori pubblici potranno rendersi responsabili – e questo al cospetto dell’intera collettività – per omesso o inadeguato intervento rispetto a uno stato delle cose oggi non più tollerabile. Quanto del resto accaduto di recente Oltralpe ben può fungere da monito: il 16 giugno scorso il tribunale amministrativo di Parigi ha per la prima volta condannato lo Stato, ritenuto responsabile dell’inquinamento dell’aria nella regione parigina, a risarcire le famiglie di due bimbe vittime di gravi crisi di asma, bronchiti ed otiti, con conseguente necessità di periodi di ospedalizzazione e di cure quanto mai pesanti. In precedenza, il Consiglio di Stato aveva inflitto allo Stato francese un’ammenda di dieci milioni di euro, successivamente aumentata a venti, in quanto reputato colpevole della cattiva qualità dell’aria. 

Una politica virtuosa avrebbe richiesto – e non da oggi, considerate le informazioni e i documenti disponibili ormai da molti lustri – la messa in capo di strategie capaci di invertire tempestivamente l’inesorabile deterioramento delle condizioni di vivibilità delle nostre città, preservando la fondamentale e generale esigenza di poter beneficiare di un’aria respirabile. Ancora una volta ci si ritrova a dover constatare l’assenza di programmazione, cui fa da sfondo una situazione cui è devenuto sempre più difficile porre rimedio. Che siano ancora una volta i processi a dover tentare di porre rimedio a situazioni di crisi la dice lunga sull’incapacità di guardare in modo disinteressato e virtuoso agli effettivi bisogni della collettività.

Effetto garage”, così il fumo prodotto da industrie e camion soffoca la pianura padana. Tra Piemonte, Lombardia ed Emilia, i gas serra generati dalle aziende e dai trasporti avvelenano l’aria e creano una cappa. Peggiorata dalla scarsa ventilazione di quest’area geografica. E le imprese stesse ora studiano come abbattere le emissioni. di Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 14 Marzo 2023

Nebbia in Valpadana, si diceva anni fa per indicare qualcosa di ovvio. Poi la nebbia è diventata smog: «Ma oggi lo smog non c’è più», nota Gianni Tamino, ambientalista di lungo corso. E non è una buona notizia: «Per la siccità il terreno è meno umido, quindi lo è anche l’aria; per questo non si forma più la nebbia. Però, se faccio una fotografia satellitare della pianura padana, vedo un colore omogeneo, un grigio-giallino. Non possiamo più chiamarlo smog perché di quella parola, composta da “smoke” e “fog”, è rimasto solo il fumo: uno strato di ossidi d’azoto e polveri sottili».

Dove c’è industria c’è combustione, quindi fumo, cioè inquinamento. E dove ci sono così tanti impianti come nella pianura padana è normale che d’inquinamento ce ne sia molto. Se a ciò si aggiungono i cambiamenti del clima, che aggravano i problemi di una posizione geografica poco ventilata, l’effetto è quello di una macchina lasciata accesa in un garage. Sebbene gli ambientalisti adottino spesso forme di protesta eclatanti, su questo punto sembra esserci rassegnazione.

Ma il rischio di conseguenze economiche ha spinto gli industriali stessi a cercare una soluzione. A novembre l’associazione che unisce le aziende più inquinanti (definite “hard to abate” perché ridurre le loro emissioni è particolarmente difficile) ha presentato al governo un piano, preparato da Boston Consulting Group e Interconnector Energy Italia, per ridurre l’impatto ambientale.

La riduzione passa attraverso tre leve tradizionali (efficienza energetica, economia circolare e combustibili a bassa intensità carbonica) e tre strategiche (elettrificazione, combustibili come idrogeno o biometano e tecniche di Ccs, cioè cattura, stoccaggio e riutilizzo dell’anidride carbonica). Un piano ambizioso che prevede grandi investimenti e finanziamenti pubblici. E soprattutto richiede tempo: troppo, rispetto ai continui allarmi per l’inquinamento atmosferico che supera i limiti imposti dall’Unione europea nel tentativo di contenere le sostanze più pericolose a livelli compatibili con la salute umana.

Eppure, ogni volta che scatta l’allarme nelle città padane, sindaci e ambientalisti parlano solo di misure che riguardano comportamenti individuali: servizi pubblici, auto elettriche, caldaie poco inquinanti. Stop a barbecue, caminetti, sigarette alla fermata dell’autobus. Nessuno è obbligato a diventare vegano, ma si chiede una stretta sugli allevamenti intensivi.

E il fumo delle industrie non preoccupa? «Noi chiediamo da sempre maggiori controlli, ciò significa anche aumentare gli organici e i poteri delle Arpa», risponde Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia. Nell’ultima edizione del rapporto “Mal’aria”, presentata a gennaio, emerge che tutte le città gravemente inquinate del nostro Paese sono nella pianura padana. «Il report si basa sull’inquinamento misurato nelle città, ma è evidente che questo riflette le emissioni prodotte in un ampio territorio circostante: specie durante i periodi invernali, con l’accumulo d’inquinanti legato al fenomeno dell’inversione termica».

Ai fumi delle ciminiere si aggiunge un altro tipo d’inquinamento legato alle industrie: quello prodotto dal flusso interminabile di camion che trasportano materie prime e merci. A spiegare il loro apporto è Riccardo De Lauretis dell’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale): «Per quanto riguarda le “emissioni esauste”, generate direttamente dalla combustione, il progressivo rinnovo del parco circolante porterà a una riduzione di ossidi di azoto e particolato (Pm10). Le emissioni “non exaust”, dovute all’usura di freni e pneumatici, invece, sono collegate al trasporto su gomma qualsiasi sia la forma di alimentazione dei motori. Le politiche intraprese finora per spostare il trasporto dalla strada ad altre modalità non hanno avuto grande successo. Sono inevitabili, però, se si vorranno rispettare gli obiettivi di mitigazione delle emissioni a medio e lungo termine».

Questi obiettivi sono decisi dall’Ue, che «stabilisce i limiti di inquinamento permessi e rilascia le autorizzazioni prima dell’apertura di ogni nuovo impianto», come ricorda Alberto González Ortiz della European Environment Agency. Ai singoli Stati spetta l’applicazione delle regole, che sono uguali per tutto il territorio dell’Ue: non importa se un impianto è isolato in cima al Monte Ventoso o se si trova in un distretto affollato e poco areato. «Anche il trasporto su rotaia, che porterebbe a diminuire l’inquinamento da traffico legato alle attività industriali, richiede decisioni e investimenti statali», conclude Gonzáles. Nelle mani di chi amministra una città, quindi, restano solo i comportamenti individuali. Ma così la protezione dell’ambiente finisce per essere sentita come una condanna dai cittadini, obbligati a revisioni e cambi di auto, riscaldamenti ridotti, domeniche a piedi e altri “pannicelli caldi” che risolvono ben poco.

L’alternativa? «Ripensare i modelli di produzione, i cui livelli attuali sono insostenibili nel lungo periodo, e consumo». Per combattere la “Mal’aria” «è necessario ripensare i processi industriali le cui emissioni non appaiono altrimenti contenibili». Sembrano parole di Tamino, che alla “Decrescita” ha dedicato anni fa un saggio, ma le citazioni vengono da un rapporto dell’Ispra sulle strategie per ridurre i gas serra. Finché non verranno applicate, sarà come vivere in un garage.

«Azoto, ammoniaca e particelle: ecco dove nasce il cocktail tossico che respiriamo in città». Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 14 Marzo 2023

Industrie e allevamenti, camion e inceneritori: Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia, spiega quanto incidono sulla qualità dell’aria gli impianti vicini alle aree metropolitane

Ogni volta che Legambiente pubblica una nuova edizione di “Mal’Aria”, il suo rapporto sull’inquinamento urbano, i media rilanciano l’allarme sui veleni respirati ogni giorno dai cittadini italiani, in particolare nelle città che si trovano nella zona più industrializzata del Paese. I dati pubblicati all’inizio di quest’anno legano praticamente tutte le città della Pianura Padana, da Torino a Venezia, in un unico allarme per l'inquinamento atmosferico. Ma quanto di questo inquinamento, e per quali sostanze, è riconducibile agli scarichi industriali? Lo abbiamo chiesto a Damiano Di Simine, responsabile scientifico di Legambiente Lombardia.

«Premesso che Mal'aria riporta i dati di inquinamento misurato nelle città, ma che questa misura non è riconducibile alle emissioni urbane (perché in Pianura Padana, specie durante i periodi di accumulo di inquinanti legato al fenomeno dell'inversione termica, gli inquinanti delle città riflettono le emissioni che avvengono in un ampio intorno territoriale della città stessa), e quindi ragionando su una dimensione più ampia, regionale, gli inquinanti prioritari sono NOx e PM, cioè ossidi di azoto e particelle. Parlando però di PM, occorre estendere la valutazione ad un terzo inquinante, l'ammoniaca (NH3), che è il principale precursore (insieme alla NOx) della formazione del PM secondario. Secondo i dati di ARPA Lombardia riferiti a questi inquinanti, la fonte industriale (processi produttivi + combustioni industriali) pesa per circa il 16% delle emissioni di NOx, l'11% delle emissioni di PM10 primario e circa lo 0% delle emissioni di ammoniaca. Ricordiamo che per i tre inquinanti le fonti emissive principali sono rispettivamente il traffico su strada per NOx, la combustione di legna per il PM primario e il settore agricolo per NH3».

Le misure anti-inquinamento da voi richieste riguardano traffico cittadino, impianti di riscaldamento e allevamenti intensivi. Gli scarichi delle industrie sono regolamentati dallo Stato in base alle indicazioni dell'EU, quindi comuni, provincie e regioni non possono intervenire. Ma non si potrebbero chiedere, per esempio, controlli più frequenti? O un tetto alle autorizzazioni per la costruzione di nuovi impianti industriali? O incentivi per le aziende che delocalizzano per esempio in zone montuose del Nord Italia o in altre regioni?

«Sicuramente il tema dei controlli è molto importante e lo chiediamo da sempre: ovviamente occorre aumentare gli organici delle ARPA e i poteri del personale agenziale. Le altre due misure (tetto alla costruzione di impianti industriali e incentivi alla delocalizzazione) hanno grossi problemi di sostenibilità economica e di accettabilità sociale. Delocalizzare in zone montuose significherebbe ad esempio costringere migliaia di lavoratori a intraprendere lunghi viaggi, inevitabilmente automobilistici, per raggiungere le nuove sedi produttive, e ciò probabilmente comporterebbe un aumento di emissioni da traffico superiore ai benefici della delocalizzazione della fonte emissiva. Molto meglio esigere l'applicazione delle BAT (migliori tecniche disponibili per il contenimento delle emissioni) in sede di autorizzazione, e controlli successivamente. La delocalizzazione degli impianti produttivi è già avvenuta nei decenni passati, con trasferimenti degli stabilimenti in Paesi dell'Est Europa o in Estremo Oriente, ovvero luoghi dove la forza lavoro costava meno e le norme ambientali erano più permissive. Ciò sicuramente ha portato ad un miglioramento di qualità dell'aria in Pianura Padana (ma un peggioramento nei Paesi di destinazione), ma anche ad un contraccolpo occupazionale che credo nessun amministratore pubblico vorrebbe assecondare».

 La Pianura Padana ospita una quantità record di inceneritori di rifiuti: 13 solo in Lombardia. Quanto contribuiscono all'inquinamento dell'aria?

«In Lombardia, regione che detiene il maggior numero di inceneritori in Italia, il contributo inquinante delle emissioni da trattamento rifiuti (inclusivo quindi anche di altre modalità di trattamento diverse dall'incenerimento), costituisce il 3% delle emissioni di NOx, lo 0% delle emissioni di PM e lo 0,6% delle emissioni di NH3. Si tratta di un apporto complessivamente marginale».

 La quantità di impianti e la situazione climatica particolarmente infelice (in una zona da sempre poco ventosa e, negli ultimi anni, con sempre meno piogge) sembrano creare nella Pianura Padana un pericoloso "effetto garage": gli scarichi di una singola auto non uccidono, ma se si tiene il motore acceso in un ambiente chiuso diventano un'arma letale. È un'impressione fondata? E come si può affrontare questa situazione?

«La situazione climatica della Pianura Padana è sicuramente infelice sotto il profilo dell'attitudine al verificarsi di condizioni favorenti l'accumulo di inquinanti. Non c'è altro modo per ridurre l'inquinamento che ridurre le emissioni, a partire dalle fonti prioritarie (traffico, riscaldamento a legna, agricoltura ed in particolare zootecnia, ma anche produzione energetica e processi industriali). Si tratta di un approccio inevitabilmente impegnativo ma dimostratamente efficace: negli ultimi 15 anni l'inquinamento da polveri si è ridotto del 33% a seguito della riduzione di emissioni, in particolare di NOx (quasi dimezzate) e di PM (ridottesi di un terzo). Purtroppo nel settore zootecnico la riduzione è stata invece minima (circa l'8% in meno di emissioni di NH3) e ciò in parte spiega come mai, specie negli ultimi anni, i risultati nell'abbattimento dell'inquinamento siano sempre più insoddisfacenti in rapporto allo sforzo di riduzione delle altre fonti emissive».

«Via carbone e petrolio, avanti con Gpl e combustibili bio: così la pianura padana respirerà». Angiola Codacci-Pisanelli su L’Espresso il 14 Marzo 2023

Emissioni industriali. Riscaldamento. E trasporti legati alla produzione. Riccardo De Lauretis dell'Ispra spiega come nasce la concentrazione di veleni nella valle del Po. E cosa si può fare per migliorare la situazione

È una delle zone più industrializzate del mondo. E anche una delle più inquinate. Le grandi ciminiere contribuiscono all’inquinamento atmosferico della pianura padana. A queste si devono però aggiungere i gas prodotti dai motori e il particolato derivato dagli pneumatici del traffico ininterrotto di camion che trasportano materie prime e prodotti. Cosa si può fare per diminuire l’impatto delle industrie sull’aria che respirano i cittadini del Norditalia? Ne abbiamo parlato con Riccardo De Lauretis, responsabile dell'area per la valutazione delle emissioni, la prevenzione dell'inquinamento atmosferico e cambiamenti climatici dell'ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).

Per ridurre l'inquinamento atmosferico nelle città della pianura padana possono essere utili misure contro gli scarichi industriali delle zone limitrofe? E quali sarebbero più efficaci?

«Le emissioni degli impianti industriali sono già regolamentate dalle specifiche Autorizzazioni integrate ambientali di livello nazionale e regionale o dalle Autorizzazioni uniche Ambientali regionali a secondo della dimensione degli impianti. Anche il monitoraggio delle emissioni, così come il monitoraggio della implementazione delle prescrizioni ambientali intervenute a seguito delle visite ispettive, sono di competenza nazionale e/o regionale a seconda della dimensione dell’impianto. Qualsiasi modifica all’impianto o al suo stato di esercizio differente da quanto autorizzato è soggetto a verifica ed eventuale ulteriore autorizzazione».

Ma queste regole generali tengono conto della concentrazione di impianti nella pianura padana? E delle condizioni climatiche, già infelici prima dell’inizio della crisi climatica?

«Per i grandi impianti si è già intervenuto nel passato e si continua ad intervenire nella fase autorizzativa assegnando limiti emissivi al camino inferiori a quelli previsti dalla legge proprio in considerazione del potenziale impatto sul territorio in termini di qualità dell’aria. Inoltre gli scarichi emissivi ai camini avvengono in quota e generalmente hanno un impatto sulla qualità dell’aria sulle aree urbane inferiore a quello dei trasporti o riscaldamento salvo contribuire, in particolare nel bacino padano, in condizioni atmosferiche particolari come tutte le altre emissioni sul territorio alla concentrazioni degli inquinanti in atmosfera».

In un rapporto dell’Agenzia europea per l’ambiente si legge che «l’utilizzo delle migliori tecniche disponibili e l’attuazione dei più ambiziosi obiettivi della direttiva sulle emissioni industriali comporterebbe sostanziali riduzioni delle emissioni: 91 % per il biossido di zolfo, 82 % per il particolato e 79 % per gli ossidi di azoto». È un’ipotesi realistica o solo un libro dei sogni?

«Nell’Unione Europea vi sono ancora molti impianti di produzione di energia elettrica e industriali alimentati a carbone o ad olio combustibile. In Italia la maggior parte degli impianti produttori di energia e industriali sono alimentati a gas con turbine molto efficienti. Ovviamente vi sono ancora margini di miglioramento e l’insieme delle normative ambientali europee, incluse quelle dedicate alla riduzione delle emissioni di gas serra, contribuiranno ad un ulteriore efficientamento degli impianti o a una progressiva riduzione delle emissioni degli inquinanti atmosferici. Ad esempio ad oggi i principali impianti emettitori di biossidi di zolfo sono le centrali a carbone e le raffinerie: per le prime è previsto il “phase out” entro il 2025 (una cancellazione che potrà avvenire forse con un lieve ritardo determinato dalla situazione attuale di incertezza sugli approvvigionamenti energetici). Le raffinerie di petrolio invece sono destinate a trasformarsi in produttori di biocombustibili a seguito della progressiva trasformazione del parco veicolare, che è il principale utilizzatore dei prodotti petroliferi».

Il particolato è prodotto anche dai camion, sia per combustione che per usura degli pneumatici. L'Italia ha un grave ritardo nel trasporto su treno e un uso anomalo del trasporto su gomma. Come si può affrontare questo aspetto del problema?

«Per quanto riguarda le “emissioni esauste”, cioè quelle prodotte direttamente dalla combustione, il progressivo rinnovo del parco circolante con l’introduzione delle tecnologie più moderne così come l’introduzione di veicoli alimentati a gas o GPL comporta una riduzione delle emissioni di ossidi di azoto e particolato (Pm10). Le emissioni “non exaust”, cioè quelle dovute non alla combustione ma all’usura di freni e pneumatici i dell’asfalto, non sono ancora pienamente regolamentate e sono collegate al trasporto di passeggeri e merci su gomma qualsiasi sia la forma di alimentazione dei motori. Le politiche intraprese finora per spostare il trasporto dalla strada alle altre modalità non hanno avuto grande successo ma sono inevitabili se si vorranno rispettare gli obiettivi di mitigazione delle emissioni a medio e lungo termine».

L'Unione Europea ha posto limiti all'inquinamento nelle città, e le città che superano questi limiti devono pagare multe. Ma le multe sono un deterrente efficace? In realtà, almeno in Italia, le città più inquinate sono anche quelle più ricche, che quindi possono permettersi di pagare le multe e continuare a inquinare come prima. Forse premiare i comportamenti positivi funzionerebbe meglio?

«Soprattutto per quanto riguarda le tematiche attinenti ai cambiamenti climatici, le grandi città hanno aderito a progetti internazionali come il Patto dei Sindaci, C40 o altri che prevedono azioni e misure specifiche da adottare sul territorio cittadino. Questi impegni, nati per ottenere una riduzione delle emissioni di gas serra, quasi sempre hanno benefici ulteriori di riduzione delle emissioni degli inquinanti atmosferici (politiche win-win) soprattutto per le politiche e misure di regolamentazione del traffico urbano e del riscaldamento degli edifici. Sicuramente dare pubblicità ai comportamenti o alle iniziative più virtuose potrebbe essere di incentivo e di stimolo per le altre amministrazioni comunali. È quello che fanno diverse associazioni ambientaliste attraverso la presentazione delle classifiche dei comuni o elle regioni più virtuose. Vedo più complicata l’istituzione di un meccanismo di premialità da parte delle istituzioni per la difficoltà di stabilire le condizioni di partenza e di arrivo, e per la elevata disomogeneità tra le città a secondo di dove si trovano sul territorio. Sarebbe possibile invece identificare degli indicatori minimi di qualità che se non rispettati limitino o impediscano l’accesso a fondi e finanziamenti».

Vulnerabilità.

Abusi.

Bonuslandia.

Green.

Vulnerabilità.

Guarda che Garda! Report Rai PUNTATA DEL 22/10/2023 di Rosamaria Aquino

Collaborazione di Marzia Amico

Viaggio a Costermano sul Garda tra interventi urbanistici e tutela del territorio.

Un ponte tibetano sospeso da oltre 300 metri, un mega parcheggio, alberghi vista lago, campeggi, aree attrezzate e giochi sull’acqua sorgeranno in una valle considerata sito di interesse comunitario per alcune specie naturali che si trovano solo lì. Viaggio a Costermano sul Garda: tra boschi che diventano edificabili, ville hollywoodiane a pochi metri da un cimitero protetto da due Stati, terreni acquistati dal Comune concedendo in cambio cubature a chi vuole costruire. Quale equilibrio tra interventi urbanistici e tutela del territorio?

GUARDA CHE GARDA! Di Rosamaria Aquino Collaborazione Marzia Amico Immagini Giovanni De Faveri – Paco Sannino Montaggio e grafica Michele Ventrone

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO E ora passiamo a un patrimonio naturalistico, sito di interesse comunitario, che domina dall’alto il lago di Garda, il paesino di Costermano, dove ci sono degli imprenditori e un sindaco che hanno doti di veggenza. Acquistano e vendono terreni che si trasformano in oro: boschi edificabili, ville hollywoodiane, parcheggi e alberghi. E dove stanno costruendo un ponte a 80 metri di altezza dal suolo, lungo 300 metri. Chi è che ci sta guadagnando? La nostra Rosamaria Aquino. Non è lei che ci sta guadagnando, eh!

FRANCESCA DALL’ORA – NATURALISTA E GUIDA AMBIENTALE ESCURSIONISTICA Ogni volta che passiamo di qua è bellissimo sentire l’acqua, è bellissimo osservare questa sorgente che scende proprio dal versante. È un ambiente veramente speciale, ideale per il nostro gambero di fiume.

RAFFAELLO BONI – RESPONSABILE LEGAMBIENTE BALDO – GARDA “IL TASSO” Guarda quello là che arriva a prendere il mangiare che gli ho buttato, guarda!

FRANCESCA DALL’ORA – NATURALISTA E GUIDA AMBIENTALE ESCURSIONISTICA Guarda che si muove.

RAFFAELLO BONI – RESPONSABILE LEGAMBIENTE BALDO – GARDA “IL TASSO” Che va a prendere il pezzettino bianco… eh, sì, sì.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Valle dei Mulini, cuore del sito di interesse comunitario. Qui nuota il gambero di fiume, specie in via d’estinzione, e nascono orchidee e altri fiori talmente rari che si trovano solo qui.

FRANCESCA DALL’ORA – NATURALISTA E GUIDA AMBIENTALE ESCURSIONISTICA Si chiama gipsofila papillosa, volgarmente “velo da sposa” e non esiste in nessuna altra parte né d’Italia né d’Europa.

RAFFAELLO BONI – RESPONSABILE LEGAMBIENTE BALDO – GARDA “IL TASSO” Un luogo che dovrebbe essere preservato diventa un villaggio turistico perché in realtà si farà un campeggio con caravan e roulotte, dei punti ristoro, dei giochi sull’acqua. Se noi vogliamo avere il Garda che sia attrattivo anche tra cento anni, questo capitale naturale va mantenuto.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E invece sulla valle dei mulini il sindaco di Costermano sul Garda ha un progetto grandioso: il Garda line bridge.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Non sono un visionario, infatti la prima condizione per realizzare la visione qual è? È quella di credere nelle risorse territoriali. Solo una persona che crede in quello che sta facendo realizza quel sogno altrimenti quel sogno non si realizzerà mai.

FRANCESCA DALL’ORA – NATURALISTA E GUIDA AMBIENTALE ESCURSIONISTICA Proprio sopra quella zona dei mulini, poco più in là, partirà dall’altura più alta fino al lato opposto questo ponte tibetano lungo, mi pare, 330 metri circa.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Eppure, qualcosa che unisce le due sponde della valle a quanto pare già c’è e da molto tempo

FRANCESCA DALL’ORA – NATURALISTA E GUIDA AMBIENTALE ESCURSIONISTICA Questo è il ponte in località Molinette che, appunto, in poche centinaia di metri collega la sponda destra alla sponda sinistra della nostra vallata e ci porta in solo cinque minuti proprio al centro di Costermano nella zona della chiesa.

RAFFAELLO BONI – RESPONSABILE LEGAMBIENTE BALDO – GARDA “IL TASSO” Loro parlano di 100mila presenze l’anno. Cioè, come può reggere un equilibrio ecologico in un luogo del genere con le migliaia di persone che dovrebbero arrivare?

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E per capire quanti ingressi sono previsti sul ponte basta vedere i numeri del parcheggio: il progetto ne prevede uno da 400 posti auto e dieci per i bus.

ALEX SOMMETTI – CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Questa è la zona prevista per il parcheggio, che viene acquistato da queste due società, Ma.Ma. e Giovi, nel, tra agosto e settembre 2019 assieme a quella collinetta boscata dietro a questo spazio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO A meno di dieci giorni dall’acquisto dei terreni le due società, Giovi e Ma.Ma., inviano al Comune una manifestazione di interesse. Forse sapevano che su quei terreni che hanno acquistato sarebbe nato un posteggio? Ma chi ha venduto loro il terreno, invece, non ne sapeva nulla?

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Queste persone sono dei calabresi, ho saputo che dopo alla fine vivevano qua da anni. Però io non li avevo mai incontrati e mai visti. Questi qua come mai sono capitati improvvisamente a chiedermi i terreni? Alla fine, loro dicono vabbè facciamo che questo terreno noi vi paghiamo 205mila euro. ROSAMARIA AQUINO Secondo lei invece quanto valeva quel terreno?

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Quel terreno lì per la vastità che aveva, la metratura, tutto l’insieme di cose, la parte di prato, il bosco alle spalle valeva quattro volte il prezzo che ci hanno dato loro.

ROSAMARIA AQUINO Perché se il terreno valeva secondo lei quattro volte tanto, lo ha venduto a una cifra così bassa?

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Noi l’abbiamo venduto a quel prezzo perché, nel momento in cui abbiamo venduto, il nostro terreno risultava agricolo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Poi i due imprenditori ricontattano la signora Marocchini, vogliono acquistare anche un secondo terreno vicino.

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Allora io gli dico: guardi potete aspettare? Perché in questo momento io ho praticamente un problema, avevo una gamba rotta. No: noi abbiamo fretta, noi abbiamo fretta. Io penso che questi erano già d’accordo perché, noi abbiamo fatto l’atto notarile il 17 settembre, dopo dieci giorni praticamente arriva questa trattativa fra il sindaco e queste persone. Il mio terreno che a me è stato valutato il nulla, con questa operazione che ha fatto il sindaco, il valore del terreno in questo momento è quadruplicato.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Al comune quei terreni servono. E i proprietari delle due società, Ma.Ma. e Giovi, poco dopo averli acquistati, glieli offrono. E non chiedono in cambio soldi, ma cubature.

ALEX SOMETTI – CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO A metà settembre viene fatta da queste due società una manifestazione d’interesse per cedere al comune quest’area, chiedendo in cambio 4600 metri cubi per costruire strutture ricettive.

ROSAMARIA AQUINO Quindi un albergo?

ALEX SOMETTI – CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Un albergo. Questi 4600 metri cubi hanno un valore sul mercato di 460mila euro.

ROSAMARIA AQUINO Se un terreno costa 200mila euro, perché il comune cede crediti edilizi per oltre 400mila?

ALEX SOMETTI – CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Avrebbe potuto infatti rilevarlo direttamente dai privati il comune a quel valore e quindi evitare, tra l’altro, di concedere ulteriore cubatura che va a impoverire comunque il nostro territorio.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il sindaco Stefano Passarini, poliziotto in aspettativa, è al suo secondo mandato. È la sua amministrazione che ha offerto le cubature alle due società in cambio di parte dei terreni che avevano acquistato dalla famiglia Marocchini, consentendo di realizzare una ricca plusvalenza. Ma quando andiamo a chiedergli perché, ci accoglie con una troupe degna dei migliori studi televisivi.

ROSAMARIA AQUINO Due società, la Ma.Ma. e la Giovi, hanno acquistato un’area. Come facevano a sapere che il comune lì voleva fare un parcheggio?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Nel 2016, 17, 18 l’idea di fare il parcheggio era sotto il ponte in area della Valle dei Mulini poi invece ho raccontato ai cittadini che sarebbe invece opportuno spostare quel parcheggio in altre aree. E quindi sapevano tutti che l’idea era quella, che era partito un diverso orientamento.

ROSAMARIA AQUINO Lei comunque conosceva le persone che hanno venduto il terreno?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Assolutamente, abitano a dieci metri da casa mia, li conosco da sempre.

ROSAMARIA AQUINO Però se lei doveva farci un parcheggio perché non ha chiesto a loro se avevano voglia di vendere quei terreni?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Ripeto, io non vado dai cittadini a chiedere…

ROSAMARIA AQUINO Vista dall’esterno sembrerebbe che queste due ditte sono le uniche che ci hanno guadagnato però in questo affare

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Chi ci ha guadagnato è il comune.

ROSAMARIA AQUINO In che modo?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Ripeto

ROSAMARIA AQUINO Ha pagato quattro volte quell’area!

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, non ha pagato quattro volte quell’area, l’ha pagata secondo i valori di mercato. Gliel’ho detto prima attraverso una perizia

ROSAMARIA AQUINO Come fa a non fare media una compravendita che è avvenuta nove giorni prima a un prezzo molto inferiore

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Le ripeto, nuovamente per la terza volta, che il prezzo d’acquisto lo fa il comune in base a una perizia esterna.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Lo ha fatto cioè il comune da lui guidato. Avrebbe potuto comprare i terreni direttamente dai vicini, senza perizia e risparmiare altro cemento. Invece, li ha acquistati in cambio di cubature a prezzi quadruplicati e ne hanno beneficiato le società Ma.Ma. e Giovi. I titolari di Ma.Ma., originari di Acri e Saracena, provincia di Cosenza, ma da ormai più di trent’anni sul Garda, gestiscono un ristorante in uno dei luoghi più incantevoli della riva est del lago. Un posto da sogno.

MARIO D’ATRI – IMPRENDITORE Se lei scende da qua, va fino a Sirmione e Peschiera, la maggior parte dei ristoranti sono quasi tutti calabresi. Ma non perché siamo calabresi, perché arrivano i soldi, perché ci abbiamo lavorato. Quelli lì che fanno tante critiche su di noi dovrebbero venirci anche a vedere cosa facciamo, cosa non facciamo

ROSAMARIA AQUINO Voi come sapevate che in quell’area ci si faceva qualcosa di redditizio?

MASSIMO TURANO – IMPRENDITORE Ma noi non lo sapevamo, noi quando abbiamo comprato, le ripeto…

ROSAMARIA AQUINO Avete comprato un campo alla fine

MASSIMO TURANO – IMPRENDITORE Sì, ma in una zona molto prestigiosa. Noi abbiamo acquistato dei terreni semplicemente.

ROSAMARIA AQUINO La cosa strana è effettivamente che voi abbiate una disponibilità economica tale da fare un investimento simile, capito? Cioè, non è la grande ditta altoatesina che arriva…

MARIO D’ATRI – IMPRENDITORE È la banca, gliel’abbiamo detto già.

MASSIMO TURANO – IMPRENDITORE Finiamo l’anno prossimo di pagare il mutuo.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Scorrendo le proprietà dei due soci, ci rendiamo conto che gestire un ristorante sul lago è molto redditizio. Tre o quattro ville multipiano a testa e poi i terreni: 10mila mq tra boschi e vigneti Turano e 5000 d’Atri, più altri 20mila acquistati tramite le società.

ROSAMARIA AQUINO La cosa un po’ strana è che voi acquistate a 205mila, ok, dopodiché, dopo la perizia del comune, fa capire che quel terreno vale non 7 euro come voi avete pagato a metro quadro ma 30 euro a metro quadro quindi voi ci avete fatto un guadagno enorme.

MASSIMO TURANO – IMPRENDITORE È la realtà. Ma questo è un dato di fatto. Poteva anche non concedercelo. Per loro è risultato importante per lo sviluppo del ponte, di tutto quanto il resto, ma noi abbiamo fatto una richiesta.

ROSAMARIA AQUINO Poi loro l’hanno accolta.

MASSIMO TURANO – IMPRENDITORE Eh.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Un buon amministratore cosa fa? Deve creare delle opportunità, l’imprenditore deve cogliere queste opportunità, l’opportunità ad oggi i più ricettivi sono stati realizzati da cittadini residenti, ok, o che hanno portato la residenza della sua famiglia, questo è importante per me, e quindi… Mi sono perso, vabe, mi è sfuggito, non mi ricordo più, ho avuto un lapsus!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Si è perso. In effetti, la storia è un po’ intricata. Allora, questo sindaco ha una visione e anche un’ossessione, quella di costruire un ponte sospeso lungo 300 metri. Ora, però, questa iniziativa viene in qualche modo osteggiata dalle associazioni ambientaliste anche perché è previsto, poi, l’arrivo di 100mila turisti ogni anno, dove parcheggeranno? Insomma, l’ipotesi è quella di farli parcheggiare su dei terreni agricoli che erano di proprietà della vicina di casa del sindaco, solo che lei non la sapeva questa storia, e quindi cede i terreni anche in fretta a degli imprenditori calabresi. Che fanno questi, poi, dopo: rivendono una parte di quei terreni al comune, li offrono, ma non chiedono in cambio dei soldi, chiedono cubature, la bellezza di 4600 metri cubi per costruire strutture ricettive del valore di 400mila euro. Ecco, insomma, fanno un bel colpo, realizzano una bella plusvalenza. Loro dicono: ma guardate che è tutto regolare, noi non lo mettiamo in dubbio e dicono anche: siamo finiti nelle polemiche solo perché siamo di origine calabrese. Noi il preliminare d’acquisto dei terreni lo avevamo fatto tre mesi prima di offrirli poi al comune. Abbiamo chiesto conto al sindaco di tutto questo, è andata la nostra Rosamaria Aquino che però si è trovata di fronte una troupe televisiva che registrava la sua stessa intervista. E poi, all’indomani di questa intervista è successo qualcosa di inaspettato: il sindaco ha inviato una lettera al cda della Rai, alla Commissione di vigilanza, all’Ufficio legale e ha allegato un messaggio che girava nei giorni in cui Rosamaria stava realizzando l’inchiesta, che recitava così: Report si occuperà di infiltrazioni mafiose a Costermano. Ma il sindaco, poi, fa qualcosa di più: a un certo punto organizza un evento con la sua cittadinanza e trasmette per integrale l’intervista che aveva registrato alla nostra Rosamaria Aquino, nel tentativo di bruciare l’inchiesta. Il sindaco più che visionario, tele-visionario. Però, insomma, poi dopo l’effetto non è stato proprio quello che si aspettava.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Vi presento i due temi della serata: il primo l’azione amministrativa di Costermano sul Garda di questi anni e quindi andiamo a vedere l’intervista appunto che è stata fatta qualche giorno fa.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Il sindaco mette in piazza tutta la nostra intervista per smentire il messaggio anonimo circolato in paese ma dalla stessa intervista si capisce che sin da subito erano altri i motivi per cui voleva anticiparla.

STEFANO PASSARINI DURANTE INTERVISTA Fra sei mesi ho le elezioni. Mi permetta. Se lei fa questa intervista e la lancia dopo novembre io esco col mio pezzo e spiego le cose, non posso permettermi…

ROSAMARIA AQUINO DURANTE INTERVISTA Col suo pezzo? Cioè lei è un giornalista?

STEFANO PASSARINI DURANTE INTERVISTA No, non sono un giornalista. Spiego queste cose, poi io faccio altre cose.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E qualcosa della serata organizzata gli va storto.

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Mi sembra che lei sindaco, cioè, per quanto riguarda le regole delle Aree Sic, tutte quelle cose che sono inviolabili, per quello che riguarda le sue cose, tipo il terreno, il bosco di sua moglie, le regole non valgono, invece per quello che riguardano i vincoli che ci sono a livello dei terreni che ho venduto io, invece, secondo me, lei li calpesta perché lei ha detto prima nel video: ah loro le conosco, non mi hanno chiesto mai niente eccetera eccetera… però noi…

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Perché lei mi ha chiesto qualcosa?

MARTA MAROCCHINI - EX PROPRIETARIA TERRENI Ah, perché bisogna chiedere? Cioè se noi le siamo simpatici allora le regole valgono. Perché io ho notato che purtroppo nel Comune di Costermano sul Garda, posso dirlo, davanti a tutti, purtroppo ci sono cittadini di serie A e cittadini di serie B. A noi non è stato mai chiesto niente...

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO E una curiosità vogliamo togliercela anche noi.

ROSAMARIA AQUINO Cosa c’entrano le infiltrazioni mafiose con quello che abbiamo visto?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, ma infatti, ma infatti, lei sta arrivando… Infatti, l’ho detto prima che io la ringrazio per essere qui e che ero convinto che lei si dissociava da questi servizi da questa notizia.

ROSAMARIA AQUINO Da cosa mi devo dissociare dalle voci di paese?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, si deve dissociare dal fatto che non era sua, non era vostra, la notizia che c’erano infiltrazioni mafiose.

ROSAMARIA AQUINO Queste voci da chi arrivano, lei li ha individuati?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, io non faccio questo tipo di indagini…

ROSAMARIA AQUINO Come no, lei è un poliziotto?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Che c’entra.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Che c’entra? Insomma, ce lo chiediamo anche noi. Se poi lo scopo del sindaco nel trasmettere l’intervista originale della nostra Rosamaria Aquino era quello di tranquillizzare la sua cittadinanza, beh ha ottenuto l’effetto contrario perché all’indomani della proiezione tutti i giornali locali hanno riportato la notizia e i contenuti dell’inchiesta di Report, evidenziando anche il messaggio del sindaco, cioè quello dove si parlava, c’era un accostamento tra l’infiltrazione mafiosa e la sua città. Ora, poi, in base a quali elementi lo abbia fatto, noi non lo sappiamo. Ipotesi a parte adesso passiamo al capitolo due cuori e una villa, anche costruita vicino a un cimitero.

ROSAMARIA AQUINO Questa qua è la casa del sindaco?

AUGUSTO DE BENI - CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Tutta la casa del sindaco eccola qua. C’è un muro che la cinge dappertutto.

ROSAMARIA AQUINO E quindi che domina…

AUGUSTO DE BENI - CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Che domina, sì. Questa era zona Sic, sito di importanza comunitaria. L’autorizzazione amministrativa è stata rilasciata ai coniugi Cerpelloni – Passarini, marito e moglie.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. Allora, stavamo parlando di un sito di interesse comunitario che domina dall’alto il lago di Garda. Un posto incantevole, tuttavia si è trasformato negli anni in un cantiere: ville hollywoodiane, boschi edificabili e tutto ruota intorno alla figura di un sindaco. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Lago di Garda, lato est, provincia di Verona. Un affaccio sul lago, oggi, vale oro. E il Veneto è, secondo Ispra, una delle regioni a più alto consumo di suolo. Anche qui, su queste sponde, le gru spuntano come funghi.

ANDREA TORRESANI - DIRETTORE CORRIERE DELLA RIVIERA Vediamo qua il golfo di Garda, c’è la zona boschiva, il lago che attrae milioni e milioni di turisti da tutta Europa e ci sono zone Sic, siti di importanza comunitaria, tutelati dalla Comunità europea, non si potrebbe costruire quasi niente.

ROSAMARIA AQUINO Come si può costruire qui?

ANDREA TORRESANI - DIRETTORE CORRIERE DELLA RIVIERA Chi dà le concessioni è il sindaco del paese, che dovrebbe essere il primo tutore della legge, si è messo in testa di promuovere tutti questi affari. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Costermano sul Garda non ha la fortuna di essere a bordo lago, ma la vista da qui è spettacolare. E il sindaco conosce le potenzialità del suo territorio, e sa come utilizzarle.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Buonasera a tutti, vi ringrazio per la vostra presenza così numerosa. Questa sera parliamo di due temi.

ANDREA TORRESANI - DIRETTORE CORRIERE DELLA RIVIERA Lo stesso sindaco, difatti, insieme alla moglie aveva dei terreni che valevano praticamente nulla, sono stati ceduti a una società tirolese a una cifra di 140 euro al metro quadro, quindi già questo fatto per dei terreni agricoli, terreni boschivi fa pensare. Circa sei mesi dopo si viene a conoscenza che queste aree sono destinate a diventare edificabili.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Leggendo l’atto di compravendita vediamo che le date in cui vengono erogati gli assegni per il pagamento dei terreni del bosco seguono quelle dell’iter dell’approvazione del cambio di destinazione d’uso dei terreni. Un caso?

ROSAMARIA AQUINO Lei da sindaco ha reso edificabile un bosco. Questo bosco era stato venduto a una società altoatesina, la MEP. Chi è che gliel’aveva venduto?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Allora, anche qui, c’è da fare, secondo me, tre premesse. La prima: sarebbe opportuno che lei informasse i telespettatori che questo esposto è già stato archiviato nel 2018…

ROSAMARIA AQUINO Non parlo di esposto, è una cosa che è avvenuta o non è avvenuta?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Certo che è avvenuta.

ROSAMARIA AQUINO È stato venduto un bosco o no?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Certo che è stata avvenuta, ma…

ROSAMARIA AQUINO Da chi? STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) La Procura non ha riscontrato alcuna illegalità.

 ROSAMARIA AQUINO Ma noi non siamo una Procura, noi facciamo domande. Volevo capire se questo bosco era stato venduto e da chi.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) È stato venduto da mia moglie ad una società MEP.

ROSAMARIA AQUINO E poi lei lo ha reso edificabile?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) L’amministrazione. Io non ho mai partecipato ad alcun atto amministrativo che formava quel piano di interventi.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Ci rimane, però, un dubbio sul prezzo, quello medio di un bosco nel suo territorio, è di circa un euro al metro quadro.

ROSAMARIA AQUINO Come fa sua moglie a vendere a 140?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Prima della vendita mia moglie ha fatto fare una perizia a un tecnico che l’ha giurata anche in tribunale per verificarne il valore di quell’area. Ok? E il perito ha, appunto, ha certificato che c’era uno la possibilità di costruirci già un’abitazione vista lago.

ROSAMARIA AQUINO Il terreno è diventato edificabile dopo, non prima…

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, sulla…

ROSAMARIA AQUINO Quando è stato venduto no, sindaco, no.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Ma lei ha verificato la perizia?

ROSAMARIA AQUINO Sì. Nell’atto di vendita…

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) C’era allegata una perizia.

ROSAMARIA AQUINO Ci sono addirittura delle rate che seguono l’iter dell’approvazione poi del cambio di destinazione del terreno quindi all’epoca il terreno non era edificabile.

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) C’è scritto molto chiaramente che c’era una zona di espansione, la zona BB 17, dove si poteva già realizzare 130 mq di abitazione. Le ripeto nuovamente: 130 mq di abitazione in quella posizione, se lei chiede a chiunque uscendo dal comune quanto può valere, vale già abbondantemente la metà di quel prezzo, del terreno che è stato venduto. Poi aveva un’estensione superiore e inserita nella Zto dell’ambito residenziale, quindi aveva potenzialmente una buona prospettiva.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Una prospettiva più che buona, perché dopo l’intervento del comune ora si potrà costruire fino a 3000 mc. Poco vicino a quell’area, altro cemento: sta nascendo un’imponente costruzione.

ROSAMARIA AQUINO Questa qua è la casa del sindaco?

AUGUSTO DE BENI - CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Tutta la casa del sindaco eccola qua. C’è un muro che la cinge dappertutto.

ROSAMARIA AQUINO E quindi che domina…

AUGUSTO DE BENI - CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Che domina, sì. Questa era zona Sic, sito di importanza comunitaria. L’autorizzazione amministrativa è stata rilasciata ai coniugi Cerpelloni – Passarini, marito e moglie. Non so cosa sia, se verrà fuori un villaggio, non lo so.

ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO La casa è a pochi metri dal cimitero tedesco, dove riposano 20mila salme di caduti di guerra: uno dei monumenti più importanti di Costermano.

AUGUSTO DE BENI - CONSIGLIERE GRUPPO SIAMO COSTERMANO Non si poteva costruire, se non a 200 metri. Allora, hanno ridotto i vincoli a cinquanta metri dopodiché questi vincoli da cinquanta metri sono stati portati, per poter costruire a ridosso del confine del cimitero, a cinquanta metri dall’ultima salma. Fatto è che il sindaco e la sua consorte hanno potuto costruire questo popò di costruzione. ROSAMARIA AQUINO FUORI CAMPO Alla riduzione dei vincoli di distanza dal cimitero si sono opposti i tedeschi, la presidenza del Consiglio italiana e due ministeri e a gennaio scorso una sentenza del Tar ha annullato la delibera comunale che dava il via libera alla costruzione di un centro anziani a ridosso delle mura cimiteriali, ribadendo il vincolo di 200 metri.

ROSAMARIA AQUINO Quanto dista la sua abitazione dal cimitero? Dal muretto di cinta?

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Dalle tombe sono circa 80 metri

ROSAMARIA AQUINO Non dalle tombe, dal muretto di cinta

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) Non lo so, lo misuri lei

ROSAMARIA AQUINO Non serve misurarlo per capire che i due muretti sono proprio, sono vicinissimi

ROSAMARIA AQUINO C’è una sentenza del Tar del gennaio 2023 che dice: non si può ridurre arbitrariamente la distanza con il cimitero. Quindi se lì non potrà essere costruito un centro anziani, anche l’abitazione, la sua abitazione non potrebbe stare lì, secondo questa sentenza…

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) No, guardi, lei è meglio che legga la sentenza

ROSAMARIA AQUINO L’ho letta la sentenza

STEFANO PASSARINI - SINDACO DI COSTERMANO SUL GARDA (VR) La sentenza non fa riferimento alcuno a nessuna delle costruzioni attorno al cimitero militare tedesco ma fa riferimento esclusivamente alla pianificazione urbanistica inserita nel piano intervento numero 11 di un centro per anziani del nostro territorio che è un’opera per noi fondamentale, un’opera che vorremmo realizzare e che realizzeremo ed è per quello che abbiamo fatto ricorso in Consiglio di Stato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il Comune di Costermano vuole costruire un centro per anziani a una distanza minore di 200 metri dal muro di cinta di un cimitero, dove riposano le salme di 20mila caduti tedeschi. E l’associazione che gestisce il cimitero, con la Presidenza del Consiglio italiana, il ministero degli Esteri e quello della Difesa hanno presentato ricorso al Tar che ha dato loro ragione: un ente locale non può interpretare in senso restrittivo un trattato tra due stati, il trattato di Bonn, non può calcolare la fascia di rispetto del cimitero a partire dalle salme, cioè da dove sono le tombe, e non invece dove è il muro di cinta. Il sindaco non contento ha fatto ricorso al Consiglio di Stato, insomma, cioè è una coincidenza, ma pure lui sta costruendo là vicino. Insomma, sembra un territorio dove i vincoli vengono interpretati per poi far sorgere un cantiere.

Estratto dell’articolo di Andrea Priante, Milena Gabanelli per il “Corriere della Sera” lunedì 16 ottobre 2023.

Partiamo da questo dato: il territorio italiano per le sue caratteristiche geologiche, morfologiche e idrografiche è uno dei più fragili d’Europa. Il 50% è esposto al rischio sismico, il 20% a frane e alluvioni. Su questa vulnerabilità di base si scatena pure la crisi climatica: i rilevamenti del Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici mostrano che la probabilità di eventi estremi è aumentata in Italia del 9% in vent’anni. 

Ma il nostro Paese sembra sottovalutare i rischi che da un momento all’altro potrebbero mandare le famiglie in rovina. Vediamo perché. Banca d’Italia ha stimato il valore del patrimonio abitativo esposto a rischio alluvioni: quasi mille miliardi di euro, circa un quarto del totale. E il valore di un singolo immobile, quando si allaga, scende del 60%. «Considerando solo i danni subiti dalle abitazioni al piano terra — scrivono i ricercatori — la perdita annua attesa potrebbe arrivare a 3 miliardi di euro». 

L’area più a rischio è il Distretto del Po. La regione con la maggiore perdita annua attesa è l’Emilia-Romagna (0,71% del totale della ricchezza abitativa), seguita da Toscana e Liguria (0,5%). Le meno esposte sono Molise e Basilicata (0,05%). Se consideriamo che «la casa» costituisce il 50% del patrimonio lordo degli italiani, si fa presto a capire che un evento naturale estremo può spazzare via la sicurezza economica di chi quella casa la abita. All’alto rischio di frane e alluvioni va poi aggiunto quello — non legato direttamente al cambiamento climatico — del terremoto.

Secondo lo studio di Antonio Coviello per il Cnr, il 78% delle abitazioni è edificato in zone a rischio idrogeologico o sismico. Tra il 2011 e il 2021, i danni subiti dal patrimonio immobiliare (privato e pubblico) ammontano a circa 50 miliardi. Con ricadute economiche che si scaricano sull’intero sistema Paese. I più esposti e meno assicurati Per ridurre i rischi sarebbe necessario assicurarsi. 

Ma quanto costa? Le polizze sulla casa sono generalmente «componibili», lasciano cioè all’assicurato la possibilità di aggiungere pacchetti. Il prezzo ovviamente varia a seconda del grado di rischio. Se volessimo proteggere contro terremoti e alluvioni un appartamento di 100 metri quadri del valore di 200 mila euro, incluso l’arredamento, stando a una simulazione realizzata per Dataroom dallo staff di Facile.it si parte dai 312 euro annui nell’hinterland milanese, ai 624 a Bari e 636 a Modena. Mentre a Belluno per esempio il prezzo della polizza può quasi raddoppiare a seconda della posizione della casa rispetto alla montagna. In pochi, però, scelgono di stipularla.

[…] Oggi sul mercato italiano le polizze con «estensione alle catastrofi naturali» sono 1,7 milioni (erano 400 mila nel 2016). Se però andiamo a vedere, solo la metà copre tutti i rischi, mentre 579 mila fanno riferimento alla sola eventualità di un terremoto, e 291 mila sono per le alluvioni. L’illusione del risarcimento Negli ultimi anni il governo ha adottato qualche iniziativa per incentivare la popolazione ad assicurarsi contro le calamità. La più rilevante riguarda la norma che a partire dal 2018 elimina l’imposta fiscale sulle polizze e introduce la detrazione del costo del 19% ai fini Irpef. 

Ma allora perché le famiglie che possiedono una casa si espongono a un simile rischio? Pesa la convinzione, ampiamente diffusa, di avere diritto ad un risarcimento totale a carico delle istituzioni. In realtà non esiste alcuna legge che obbliga lo Stato a finanziare la ricostruzione delle proprietà danneggiate: gli stanziamenti non sono prestabiliti ma decisi di volta in volta, a calamità avvenuta e a distanza di anni.

E comunque sempre minimi rispetto ai danni. Da un rapporto di Greenpeace stilato sui dati della Protezione civile, emerge che «tra il 2013 e il 2019 le Regioni hanno segnalato 20,3 miliardi di euro di danni causati da alluvioni e frane». Nello stesso periodo i fondi utili a tamponare l’emergenza stanziati dal governo in favore delle Regioni «ammontano a 1,8 miliardi, ai quali si devono aggiungere 561 milioni chiesti al Fondo di solidarietà europeo». In tutto, circa 2,4 miliardi. Un decimo dei danni totali.

Come funziona all’estero In Italia l’unica assicurazione effettivamente obbligatoria è per chi accende un mutuo, e garantisce solo incendio e scoppio. Nel resto d’Europa le esperienze sono diverse e spesso coinvolgono lo Stato che, a seconda dei casi, assume iniziative che consentono di calmierare i prezzi.  […] 

Il secondo problema: in Italia il 15% delle costruzioni sono abusive, con picchi al Sud, dove fino a due anni fa la maglia nera spettava alla Campania (49 nuove case abusive ogni cento autorizzate), ma dall’ultimo rilevamento Istat ora in testa ci sono Calabria e Basilicata addirittura col 54%, mentre la Campania è salita al 50.  […]

Abusi.

Antonio Giangrande: Quello che non ci dicono. Prendiamo per esempio il fenomeno cosiddetto dell'abusivismo edilizio, che è elemento prettamente di natura privata. I comunisti da sempre osteggiano la proprietà privata, ostentazione di ricchezza, e secondo loro, frutto di ladrocinio. Sì, perchè, per i sinistri, chi è ricco, lo è perchè ha rubato e non perchè se lo è guadagnato per merito e per lavoro.

Il perchè al sud Italia vi è più abusivismo edilizio (e per lo più tollerato)? E’ presto detto. Fino agli anni '50 l'Italia meridionale era fondata su piccoli borghi, con case di due stanze, di cui una adibita a stalla. Paesini da cui all’alba si partiva per lavorare nelle o presso le masserie dei padroni, per poi al tramonto farne ritorno. La masseria generalmente non era destinata ad alloggio per i braccianti.

Al nord Italia vi erano le Cascine a corte o Corti coloniche, che, a differenza delle Masserie, erano piccoli agglomerati che contenevano, oltre che gli edifici lavorativi e magazzini, anche le abitazioni dei contadini. Quei contadini del nord sono rimasti tali. Terroni erano e terroni son rimasti. Per questo al Nord non hanno avuto la necessità di evolversi urbanisticamente. Per quanto riguardava gli emigrati bastava dargli una tana puzzolente.

Al Sud, invece, quei braccianti sono emigrati per essere mai più terroni. Dopo l'ondata migratoria dal sud Italia, la nuova ricchezza prodotta dagli emigranti era destinata alla costruzione di una loro vera e bella casa in terra natia, così come l'avevano abitata in Francia, Germania, ecc.: non i vecchi tuguri dei borghi contadini, nè gli alveari delle case ringhiera o dei nuovi palazzoni del nord Italia. Inoltre quei braccianti avevano imparato un mestiere, che volevano svolgere nel loro paese di origine, quindi avevano bisogno di costruire un fabbricato per adibirlo a magazzino o ad officina. Ma la volontà di chi voleva un bel tetto sulla testa od un opificio, si scontrava e si scontra con la immensa burocrazia dei comunisti, che inibiscono ogni forma di soluzione privata. Ergo: per il diritto sacrosanto alla casa ed al lavoro si è costruito, secondo i canoni di sicurezza, ma al di fuori del piano regolatore generale (Piano Urbanistico). Per questo motivo si pagano sì le tasse per una casa od un opificio, che la burocrazia intende abusivo, ma che la stessa burocrazia non sana, nè dota quelle costruzioni, in virtù delle tasse ricevute e a tal fine destinate, di infrastrutture primarie: luce, strade, acqua, gas, ecc.. Da qui, poi, nasce anche il problema della raccolta e dello smaltimento dei rifiuti. Burocrazia su Burocrazia e gente indegna ed incapace ad amministrarla.

Per quanto riguarda, sempre al sud, l'abusivismo edilizio sulle coste, non è uno sfregio all'ambiente, perchè l'ambiente è una risorsa per l'economia, ma è un tentativo di valorizzare quell’ambiente per far sviluppare il turismo, come fonte di sviluppo sociale ed economico locale, così come in tutte le zone a vocazione turistica del mediterraneo, che, però, la sinistra fa fallire, perchè ci vuole tutti poveri e quindi, più servili e assoggettabili. L'ambientalismo è una scusa, altrimenti non si spiega come al nord Italia si possa permettere di costruire o tollerare costruzioni alle pendici dei monti, o nelle valli scoscese, con pericolo di frane ed alluvioni, ma per gli organi di informazione nazionale, prevalentemente nordisti e razzisti e prezzolati dalla sinistra, è un buon viatico, quello del tema dell'abusivismo e di conseguenza della criminalità che ne consegue, o di quella organizzata che la si vede anche se non c'è o che è sopravalutata, per buttare merda sulla reputazione dei meridionali.

Antonio Giangrande: A COME ABUSIVISMO EDILIZIO ED EVENTI NATURALI.

La Natura vive. Alterna periodi di siccità a periodi di alluvioni e conseguenti inondazioni.

La Natura ha i suoi tempi ed i suoi spazi.

Anche l’uomo ha i suoi tempi ed i suoi spazi. Natura ed Uomo interagiscono, spesso interferiscono.

Un fenomeno naturale diventa allarmismo anti uomo degli ambientalisti.

Da sempre in montagna si è costruito in vetta o sottocima, sul versante o sul piede od a valle.

Da sempre in pianura si è costruito sul greto di fiumi e torrenti.

Da sempre lungo le coste si è costruito sul litorale.

Cosa ci sia di più pericoloso di costruire là, non è dato da sapere. Eppure da sempre si è costruito ovunque perché l’uomo ha bisogno di una casa, come gli animali hanno bisogno di una tana.

Invece, anziché pulire gli alvei (letti) dei fiumi o mettere in sicurezza i costoni dei monti per renderli sicuri, si impongono vincoli sempre più impossibili da rispettare.

Invece di predisporre un idoneo ed aggiornato Piano Regolatore Generale (Piano Urbanistico Comunale) e limitare tempi e costi della burocrazia, si prevedono sanzioni per chi costruisce la sua dimora.

A questo punto, quando vi sono delle disgrazie, l’allarmismo dell’ambientalismo ideologico se la prende con l’uomo. L’uomo razzista ed ignorante se la prende con i meridionali: colpa loro perché costruiscono abusivamente contro ogni vincolo esistente.

Peccato che le disgrazie toccano tutti: in pianura come in montagna o sulla costa, a prescindere dagli abusi o meno fatti da Nord a Sud.

Solo che al Nord le calamità sono disgrazie, al Sud sono colpe.

Peccato che i media razzisti nordisti si concentrano solo su temi che discriminano le gesta dei loro padroni.

Abusi meridionali, abusi «asburgici». Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 23 Maggio 2023 

Un’interrogazione parlamentare sulla storia di un bar-locanda per il quale era stato ottenuto il permesso di tirare su 1.570 metri cubi ma ne tirarono su 3.504. Molti anni dopo la decisione di trasformare l’immobile in appartamenti ottenendo addirittura un aumento fino a 4.070 metri cubi

Ma come: non succede solo nello sgangherato Mezzogiorno dove tirano su case abusive perfino sui costoni franosi dell’isola d’Ischia e buttano giù come a Licata i sindaci che vorrebbero rispettare la legge e demolire le ville fuorilegge quando c’è un ordine d’abbattimento e certi notai arrivano a garantire come a Casalnuovo passaggi proprietà di interi condomini costruiti sulla sabbia violando tutte le norme? No, non succede solo nel Sud. Anzi. Succede perfino in aree come il Trentino da cui si levano a volte cori di ipocrita rimpianto: «Ah, se ci fosse ancora Francesco Giuseppe! Ah, se ci fosse ancora Maria Teresa!».

Racconta dunque il leader dei Verdi Angelo Bonelli, in una interrogazione parlamentare ai ministri della Cultura e della Giustizia, una «piccola storia ignobile», per dirla con Guccini, che merita d’essere conosciuta. È la storia di un vecchio bar-albergo degli anni Settanta sulle sponde settentrionali del lago di Garda nel comune di Nago-Torbole a due passi, per capirci, da Riva del Garda. Si chiamava hotel Panorama, era in via Bellavista sulla strada che sale verso il Parco delle Busatte e non era un nome sprecato: gli ospiti godevano davvero d’una visione dall’alto che faceva luccicare gli occhi.

Anche i soldi luccicavano. Al punto che i proprietari del bar-locanda decisero un colpo gobbo: avuto il permesso di tirare su 1.570 metri cubi, ne tirarono su 3.504. Più del doppio. Andando a invadere addirittura il terreno di un vicino di casa che fece causa. Il tutto in una zona tutelata. Una forzatura che nel 1996, finalmente, venne sanzionata con una sentenza della Corte d’Appello di Venezia che, accertato l’abuso edilizio, forniva al Comune, volendo, la possibilità di abbattere. Macché.

Più o meno abbandonato per vent’anni, l’edificio fu infine comprato da una società che lasciò perdere l’hotel per trasformare l’immobile in appartamenti. Chiedendo addirittura un aumento di cubatura, come se quella che c’era fosse tutta regolare, fino ad arrivare a 4.070 metri cubi. Quasi il triplo della concessione originaria. Aumento concesso dalla giunta comunale a dispetto della sentenza del ‘96. Senza neppure, secondo l’avvocato Stefano Colla, una sanatoria degli abusi già condannati. Ma come mai la magistratura non è intervenuta permettendo anzi che i nuovi appartamenti di pregio fossero in buona parte venduti? Chissà cosa avrebbero detto le autorità asburgiche...

Bonuslandia.

L’insostenibilità di un Paese che punta tutto sull’edilizia. Massimo Taddei su L’Inkiesta il 25 Febbraio 2023

Oltre agli incentivi per le costruzioni, spendiamo moltissimo anche per i proprietari di casa. Un esempio di economia trainata dal mattone? La Turchia, non esattamente un modello di sviluppo

Le discussioni degli ultimi mesi intorno al Superbonus al 110% e agli altri bonus edilizi si sono concentrate soprattutto sul loro costo, che, secondo le stime di Banca d’Italia, si aggira intorno ai 120 miliardi di euro. Un tema di cui si parla meno, però, non è tanto il costo in sé, ma il confronto tra la quantità di risorse investite nel settore dell’edilizia rispetto al resto dell’economia.

Secondo quanto ha spiegato Giacomo Ricotti, capo del servizio assistenza e consulenza fiscale della Banca d’Italia, in audizione alla Camera, le risorse che lo Stato investe nell’edilizia, e in generale sulla casa, sono moltissime. Superbonus, ecobonus e altri bonus edilizi, da soli, peseranno sulle finanze pubbliche circa 15 miliardi all’anno per i prossimi tre anni.

Oltre agli incentivi per le costruzioni, spendiamo moltissimo anche per i proprietari di casa. È il caso della cedolare secca sugli immobili, che semplifica il sistema, ma comporta un vantaggio enorme per i proprietari, che vedono il reddito da locazione tassato meno dell’aliquota minima per il reddito da lavoro. Insomma, il proprietario di un quadrilocale da 700 euro al mese per stanza a Milano paga un’aliquota inferiore a un dipendente che guadagna 20mila euro l’anno, semplificando e assimilando i due tipi di reddito. La cedolare secca venne introdotta per far emergere il sommerso, ma, così come avvenuto per molti bonus edilizi, si è preferito non fare un’analisi costi-benefici. Secondo uno studio presentato su lavoce.info, però, l’effetto sul sommerso è stato modesto, a costo di due miliardi in meno di entrate fiscali in media all’anno.

Decidere di puntare sull’edilizia è una scelta che hanno fatto moltissimi Paesi, dato che gli investimenti nelle costruzioni permettono sia di creare lavoro e incrementare il Pil, sia di generare ricchezza immobiliare per i cittadini. Il problema è che, una volta avvenuta la “ricostruzione”, bisognerebbe concentrarsi su altro. Il mercato immobiliare è molto esteso e integrato negli Stati Uniti e nei grandi Paesi europei. Ne conosciamo tutti l’importanza e, memori della Grande Recessione del 2008, sappiamo cosa può accadere nei momenti in cui le cose vanno male in quel settore. Quasi nessun grande Paese, però, punta sull’immobiliare e sulle costruzioni come motore della propria crescita. Un esempio di economia trainata dall’edilizia? La Turchia, non esattamente un modello di sviluppo.

Il settore delle costruzioni è di fondamentale importanza e va tutelato, ma questo non sembra giustificare l’ammontare di risorse dedicate, considerando anche che presenta spesso ambienti di lavoro pericolosi, condizioni contrattuali e salariali poco trasparenti e un larghissimo ricorso al sommerso. Attenzione: questo non significa che tutti i costruttori evadono le tasse o che il muratore non è un lavoro dignitoso come gli altri, ma semplicemente che, forse, l’edilizia non è il settore su cui vogliamo puntare per il nostro futuro.

Economie più avanzate, come gli Stati Uniti, hanno deciso sì di puntare sulle infrastrutture, ma sociali. Il piano “Build Back Better” di Joe Biden per rilanciare l’economia dopo la pandemia non prevedeva solo investimenti in costruzioni, ma anche sulla creazione di una “infrastruttura sociale”, con maggiori fondi per l’educazione, per la sanità o per la gestione dei carichi familiari, oltre che forti investimenti in ricerca e nuove tecnologie. Un Pnrr fatto bene, insomma.

A proposito degli investimenti in ricerca, fa impressione vedere come il nostro Paese spenda per gli incentivi al settore edilizio cinque volte tanto rispetto a quanto fa per stimolare gli investimenti in tecnologie innovative. Industria 4.0 ha contribuito in maniera sostanziale alla (poca) crescita italiana nella seconda metà dello scorso decennio. Gli incentivi ad acquistare macchinari e tecnologie all’avanguardia hanno permesso alle imprese di aumentare la propria produttività e di diventare più competitive all’interno dei mercati comunitari e internazionali. Eppure, nonostante il suo valore sia stato ampiamente riconosciuto, mentre l’efficacia dei bonus edilizi è stata messa più volte in discussione, il rapporto di spesa nei due campi continua a essere di uno a cinque.

Non si parla di decidere quale settore è meglio di un altro, ma di “allocazione efficiente di risorse scarse”. Immaginate se il governo decidesse di raddoppiare lo stipendio dei collaboratori scolastici per attirare i migliori bidelli in circolazione e garantire che le scuole siano sempre perfettamente pulite e in ordine. Per farlo, però, dovrebbe rinunciare a raddoppiare lo stipendio agli insegnanti, una misura che avrebbe potuto attirare professori migliori e aumentare la qualità dell’istruzione. La situazione è più complessa di così, naturalmente, ma questo piccolo esempio aiuta a capire quanto sia importante definire le proprie priorità.

Green.

CASA VERDE CASA. Cristiana Flaminio su Redazione L'Identità il 17 Gennaio 2023

L’Unione europea vuole rinnovare e ammodernare il patrimonio edilizio privato ma pretende di farlo a spese dei cittadini. La direttiva, che è rimasta a sonnecchiare per più di un anno nei cassetti della politica comunitaria, è stata tirata fuori e conquista il centro del dibattito politico. La ratio alla base della normativa europea va rintracciata nella necessità di abbattere i consumi energetici a causa dei problemi, fin troppo noti, scatenati dalla crisi esplosa a seguito della guerra in Ucraina. Per farlo, l’Ue si appella alla consueta retorica ambientale. Facendole, forse, più un danno che altro.

Il percorso dell’Ue è scadenzato: entro il 2030, gli edifici dovranno raggiungere (almeno) la classe energetica E. Poi, in tre anni, occorrerà salire fino alla D. Tra il 2040 e il 2050, poi, l’Europa dovrà contare solo su edifici a zero emissioni e impatto zero. Il timing non è casuale. Anzi, rappresenta una graziosa concessione, da parte dei burocrati Ue, che inizialmente avevano previsto il termine del primo scalino al 2027. Non rasserena il fatto che non ci saranno sanzioni Ue ai trasgressori ma che saranno demandate ai singoli Stati membri. Nelle scorse settimane si parlava di espliciti divieti a vendere o affittare. Questa circostanza sembrerebbe saltata ma rimane un problema grande (appunto) come una casa. Le abitazioni che non si allineeranno finiranno, fatalmente, deprezzate. In pratica, il mercato immobiliare sarà letteralmente sconvolto. E le famiglie si ritroveranno con proprietà che varranno pochissimo. A meno di intervenire, investendo di tasca propria, per adeguare gli edifici agli standard europei. Un nuovo Superbonus è sicuramente improbabile.

Il centrodestra si prepara alle barricate e Matteo Salvini suona la carica: “Ci opporremo, nel nome del buonsenso e del realismo, come Governo ma soprattutto come italiani: la casa è un bene prezioso, frutto dei sacrifici di una vita, luogo di memorie ed affetti. Lo difenderemo ad ogni costo”. Poi aggiunge: “Come Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti abbiamo già pronto un fondo di oltre 1,5 miliardi di euro per 3 anni da dedicare alla riqualificazione urbana e al recupero del patrimonio edilizio. Abbiamo già fermato la sinistra italiana sulle tasse e le patrimoniali, lo faremo anche oggi”. Per i Verdi, invece, si tratta di una grande opportunità. Angelo Bonelli spiega: “La destra italiana afferma di volere proteggere le case degli italiani, ma in realtà sta condannando le famiglie a continuare a pagare costi economici insostenibili perché il patrimonio edilizio del nostro Paese disperde una quantità inaccettabile di energia: è questa la vera patrimoniale, non l’avvio di un programma di ristrutturazioni”.

Azione, con Mariastella Gelmini, si pone su una posizione mediana: “La direttiva non va demonizzata, può essere uno strumento per ammodernare e rendere ambientalmente sostenibili le abitazioni degli italiani. Naturalmente così com’è la Direttiva è inapplicabile in Italia: bisogna lavorare per modificarla e renderla sostenibile nei tempi e nei costi”.

Una considerazione di pragmatismo arriva da Antonio Decaro, sindaco Pd di Bari e presidente dell’Anci che a Repubblica dice: “Gli obiettivi della direttiva Ue sono condivisibili, ma bisogna individuare gli strumenti adeguati. A cominciare dalle regole: con quelle attuali l’obiettivo dell’80% dei pannelli solari nei centri storici è irraggiungibile. Il Superbonus ha funzionato, anche se nell’ultimo periodo ha subito rallentamenti, perché ha permesso di rinnovare un patrimonio edilizio vetusto”.

Case green, cosa prevede la direttiva Ue. Il Corriere della Sera il 14 Gennaio 2023.

La direttiva Ue sul risparmio energetico degli immobili nel nostro Paese comporterebbe costi insostenibili per privati, imprese e Stato. L’Italia ha un patrimonio immobiliare vecchio ed energivoro e per quanto riguarda il residenziale per gran parte di proprietà di privati che in maggioranza, senza un robusto intervento agevolativo del Fisco, non potrebbero affrontare i costi degli interventi necessari per portare almeno alla classe energetica D i loro immobili. Vediamo perché.

I lavori da fare? Come quelli del superbonus

Alla domanda «che cosa servirebbe per conseguire il risultato proposto da Bruxelles?», una risposta attendibile sarebbe: gli stessi lavori previsti per il superbonus. Ricordiamo, infatti, che l’agevolazione 110% (dal 2023 al 90%) è concessa a condizione che si ottenga un miglioramento di almeno due classi, certificato da un attestato di prestazione energetica (Ape) pre e post lavori. E che la direttiva Ue, in base alle ultime modifiche (ma ci sarà una trattativa tra Commissione, Consiglio e Parlamento), prevede che entro il 2030 tutti gli immobili residenziali debbano essere in classe energetica E (in genere ne fanno parte le case costruite in Italia tra gli anni 80-90). Si pensi però che circa il 60% degli edifici in Italia si colloca oggi tra la classe F e G. E che entro il 2033 la direttiva impone poi il passaggio obbligato alla classe D.

Migliorare di due classi energetiche, le quattro cose da fare

Per migliorare di due classi energetiche è obbligatorio effettuare il cappotto termico dell’involucro e/o cambiare la centrale termica; nella pratica la sostituzione della centrale da sola non basta e si effettuano quasi sempre entrambi i lavori. A questi interventi, detti trainanti, si possono aggiungere altre opere dette “trainate” tese a migliorare ulteriormente le prestazioni dell’edificio: le più gettonate sono la sostituzione dei serramenti e l’installazione del fotovoltaico.

Come sono ripartiti i 62,5 miliardi del superbonus

Quanto ai costi, non è certo possibile calcolare in maniera puntuale l’importo complessivo di una riqualificazione su scala nazionale. Ma, partendo proprio dai costi ufficiali del superbonus (62,5 miliardi di euro al 31 dicembre 2022), si può tentare di individuare almeno l’ordine di grandezza della spesa. I dati Enea aggiornati al 31 dicembre scorso ci dicono che hanno chiesto l’agevolazione 208.622 proprietari di edifici unifamiliari, per una spesa totale di 23,7 miliardi di euro e un esborso medio di 113.757 euro; 102.725 proprietari di unità funzionalmente indipendenti, per un importo totale di 10 miliardi di euro e una spesa di 97.009 euro per edificio; infine 48.047 condomìni (con il termine si intende un edificio con un minimo di due unità immobiliari con proprietari distinti), con un totale di 28,8 miliardi e spesa media di 598.813 euro.

Due immobili su tre da ristrutturare: sono almeno 8 milioni

Secondo le stime di Ance, che comunque si allineano ai dati di Enea sulle certificazioni energetiche effettuate negli ultimi sei anni, i due terzi degli edifici italiani hanno bisogno di interventi strutturali per arrivare a rispettare la direttiva Ue per come si prospetta. Nel dettaglio, sui 12,2 milioni di edifici presenti in Italia almeno 9, costruiti prima dell’entrata in vigore delle norme più stringenti in fatto di consumi energetici entrate in vigore nel 1974, non sarebbero in regola e sarebbero bisognose di riqualificazione. Sulla base di questo dato i costruttori ritengono che, tenendo conto degli immobili esentati (ad esempio le case di superficie inferiore a 50 metri quadrati) almeno due terzi degli immobili censiti (circa 8 milioni) abbia bisogno di ristrutturazione. A questo punto basta una semplice proporzione per arrivare al risultato.

Per le case autonome una spesa di 105 mila euro

Di 12,2 milioni di edifici, 6,3 sono autonomi, due terzi sono 4,2 milioni. Computando 105 mila euro per edificio (media tra case autonome e funzionalmente indipendenti come definite dalle norme sul superbonus) e considerando che di questi 4,2 milioni di abitazioni 311 mila circa hanno già provveduto, la spesa teorica sarebbe di 105 mila x 3,9 milioni, che dà 409,5 miliardi di euro.

Per ogni condominio una spesa di circa 600 mila euro

I condomìni interessati sarebbero circa 4 milioni: 599 mila euro per 4 milioni da poco meno di 2.400 miliardi di euro. Si tratta in totale di oltre 2800 miliardi di euro, ai quali andrebbero aggiunti i costi per gli edifici non residenziali privati e pubblici. Poiché, in media, si possono calcolare 6 abitazioni per condominio (intendendo come tale qualsiasi edificio con almeno due unità immobiliari), l’adeguamento green costerebbe circa 100 mila euro ad appartamento.

Complessivamente costerebbe un anno di Pil

Anche riducendo prudenzialmente il totale risulta che le vecchie stime di un anno di Pil nazionale sono abbastanza ottimistiche. Il motto plurilingue della Ue, uniti nella diversità, è la traduzione di una frase latina. Se ne potrebbe ricordare anche un’altra, frutto della saggezza giuridica dei Romani: ad impossibilia nemo tenetur, ovvero non si può obbligare nessuno a fare cose impossibili.

Green. Cosa prevede la norma dell'Europa sulla casa «green» che costerà cara agli italiani. Cristina Colli su Panorama l’11 Gennaio 2023.

Classe E entro il 2030, Classe A entro il 2050.

La svolta ambientalista imposta dall'Europa sarà pesantissima soprattutto per l'Italia È in arrivo da Bruxelles la nuova direttiva «green» per le case che avrà conseguenze dirette e pesanti sia sul valore degli immobili che sulle tasche degli italiani: la direttiva prevede infatti la classe E entro il 2030 per tutti gli immobili residenziali privati. Una direttiva che pone i proprietari davanti ad un bivio: spendere per adeguarsi alla normativa o vedere deprezzato e di molto il valore del proprio immobile.

Il testo della direttiva (Ue Epbd) è oggetto di discussione a Bruxelles dal 2021, ma ora ci siamo. “Gli edifici dovranno consumare poca energia, essere alimentati per quanto possibile da fonti rinnovabili, e non dovranno emettere in loco emissioni di carbonio da combustibili fossili», ha spiegato Bruxelles. Le tappe sono stabilite: il 24 gennaio è in calendario il sì della Commissione energia del Parlamento europeo ed entro il 13 marzo dovrebbe essere varata la direttiva sull’efficientamento energetico degli immobili. Il pacchetto fa parte della politica ambientale “Fit for 55” , che punta alla riduzione della Co2₂ del 55% entro il 2030, rispetto al 1990. Dopo mesi di trattative si sono trovati compromessi e accordi su un testo definitivo che prevede step a partire dal 2030, per arrivare all’obiettivo emissioni zero nel 2050. Salvo sorprese dell’ultimo minuto, si stabilisce il raggiungimento della classe energetica E entro il 2030 per tutti gli edifici residenziali e salto alla classe D entro il 2033. Sono di classe E generalmente gli edifici costruiti in Italia tra il1990 e il 2000 e per passare alla classe D bisogna ridurre i consumi energetici ancora del 25%. Tradotto in lavori di ristrutturazione: cappotto termico, sostituzione di infissi, nuova caldaia a condensazione. Ci saranno alcune eccezioni. Nella bozza della direttiva le esenzioni fanno tirare un sospiro di sollievo ad alcune categorie. Nessun obbligo per gli immobili di interesse storico, per le chiese e gli edifici di culto, per le seconde case (abitate meno di 4 mesi l’anno) e per le abitazioni indipendenti fino ai 50 metri quadrati.

Cosa succede se non si metterà in regola la casa? Ci saranno sanzioni, ma saranno stabilite dai singoli governi. L’Europa ha demandato agli esecutivi dei diversi Paesi europei la decisione su come intervenire in caso di non raggiungimento del bollino verde europeo. Ma la conseguenza, senza confini e uguale per tutti in caso di non rispetto degli obblighi, sarà la stessa: la riduzione automatica del valore dell’immobile.

CASA GREEN: ITALIA UNO DEI PAESI EUROPEI PIU’ COLPITO DALLA DIRETTIVA EUROPEA L’Italia è uno dei Paesi europei più colpito dalla direttiva green. L’efficienza energetica è classificata su una scala da A (più efficiente) a G (meno efficiente). Nel Bel Paese il 60% degli edifici si posiziona oggi tra la classe F e G. Quindi su 10 case in 6 sarà obbligatoria la corsa alla ristrutturazione. Nel nostro Paese il patrimonio immobiliare è molto vecchio e formato da immobili molto energivori. Su 12,2 milioni di edifici, oltre 9 milioni non raggiungono neanche le minime garanzie energetiche richieste per gli edifici costruiti dopo l'entrata in vigore della normativa completa sul risparmio energetico e sulla sicurezza sismica del 2005. Gli immobili sono responsabili di oltre un terzo delle emissioni di gas a effetto serra nell’Unione Europea, ma la direttiva chiede costi significativi ai cittadini, italiani compresi. In 7 anni (da oggi al 2030) i proprietari di case dovranno ristrutturare, investendo alte somme di denaro. Senza adeguate agevolazioni fiscali il costo della politica green dell’Europa ricadrà in modo significativo sui portafogli dei cittadini.

Valore delle case, mutui e burocrazia: i rischi della stangata green della Ue. Francesco Giubilei l’11 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Una nuova stangata rischia abbattersi sulle tasche degli italiani e l'origine è da ricercare, ancora una volta, nelle politiche green dell'Unione europea

Una nuova stangata rischia abbattersi sulle tasche degli italiani e l'origine è da ricercare, ancora una volta, nelle politiche green dell'Unione europea. La direttiva sull'efficientamento energetico che dovrebbe essere approvata il 24 gennaio dalla Commissione energia del Parlamento europeo per poi essere varata dal Parlamento entro il 13 marzo, prevede che entro il primo gennaio 2030 tutti gli immobili residenziali dovranno avere almeno una classe energetica “E” per poi raggiungere la “D” entro il 2033 e arrivare a emissioni zero tra il 2040 e il 2050. Si tratta di una misura che andrà a colpire in particolare il patrimonio immobiliare italiano costituito da circa il 60% degli edifici con una classe energetica superiore alla "E".

Già da tempo Confedilizia, organizzazione di riferimento dei proprietari di casa, si batte contro i pericoli della direttiva europea che andrebbe a colpire non solo i possessori degli immobili ma metterebbe anche a rischio il sistema bancario come spiega il presidente Giorgio Spaziani Testa: “la direttiva Ue rappresenta un rischio che accomuna sia i proprietari sia le banche per le loro garanzie nel momento in cui avviene una riduzione generalizzata del valore del patrimonio immobiliare italiano. Emergerebbe un problema creditizio, più si va verso la direzione di una tassazione patrimoniale, più si crea condizioni di impoverimento degli italiani e più si creano problemi alle banche”.

Anche l'europarlamentare Pietro Fiocchi, membro della Commissione energia dell'europarlamento, pur salvando qualche aspetto della normativa dopo i passi avanti fatti durante la discussione a Bruxelles, mette in guardia dai rischi:

Sarebbe un disastro per l'Italia, l'Italia ha un patrimonio immobiliare talmente vecchio per cui noi siamo molto più in difficoltà rispetto ad altri paesi. È importante non passi il concetto che non puoi vendere casa tua perché non efficiente da un punto di vista energetico. Diverso è invece il discorso per gli edifici pubblici su cui bisognerebbe intervenire”.

Duro il giudizio di Isabella Tovaglieri, relatrice ombra del provvedimento che a “Il Messaggero” ha spiegato come si tratti di una misura “peggio della patrimoniale”: “la patrimoniale è una tassa, depaupera i risparmi ma il patrimonio resta. Con l'obbligo di ristrutturazione legato all'efficienza energetica, la maggior parte degli immobili italiani perderà le caratteristiche per essere comprato e venduto. Questo significa che, se uno ha un mutuo, la banca perde la garanzia costituita dall'immobile. Sui nuovi mutui, in caso di abitazioni a bassa efficienza, le banche potrebbero chiedere interessi maggiori per concedere il finanziamento. Ma soprattutto ci sarà sempre meno mercato per questi immobili”.

Siamo di fronte a una misura che, come sottolinea la Tovaglieri, è “totalmente sbilanciata sul lato della sostenibilità ambientale” senza tenere in considerazione aspetti sul versante produttivo e industriale e senza che sia stato coinvolto nessun soggetto del comparto edilizio.

È l'ennesima conferma di come l'Ue sui temi ambientali ed energetici continui a prediligere un approccio ideologico mentre a pagarne le conseguenze sono i cittadini.

Foreste distrutte col certificato verde: lo scandalo mondiale delle etichette eco. Le aziende pagano attestati e marchi di sostenibilità. Ma almeno 347 società promosse sono state accusate o condannate per gravi violazioni ambientali. L’inchiesta dell’Espresso con il consorzio Icij e IrpiMedia sul greenwashing e il finto ecologismo. Scilla Alecci, Paolo Biondani, Gloria Riva e Leo Sisti su L’Espresso l’1 marzo 2023.

In Brasile c'è un'azienda che estrae legname nelle foreste dell'Amazzonia con tanto di «certificato di sostenibilità ambientale», anche se è stata multata per 37 volte, dal 1998 al 2022, per disboscamento illegale e commercio illecito. In Cile una società giapponese ha comprato tonnellate di legno da fornitori che utilizzavano finte attestazioni ecologiche sulla provenienza dei tronchi.

In Canada un gruppo di imprese ha elaborato un «piano di gestione forestale sostenibile», certificato da una società di revisione, che è servito ad abbattere distese di alberi nelle foreste protette delle popolazioni indigene, alterando drasticamente il territorio e la vita delle comunità, come spiega una sentenza del tribunale.

Sono alcune delle centinaia di storie di soldi, scandali ambientali e carte truccate che emergono da un'inchiesta giornalistica, chiamata Deforestation Inc (Deforestazione spa), coordinata dall'International consortium of investigative journalists (Icij). Per mesi 140 cronisti di quaranta testate internazionali, tra cui L'Espresso e il sito investigativo IrpiMedia (in esclusiva per l'Italia), hanno esaminato i dati sulle importazioni di legname, i registri delle ispezioni, i verbali delle violazioni ambientali e i dossier della magistratura sul business dello sfruttamento dei boschi e delle foreste in oltre 50 Stati, dall'Europa all'Asia, dalle Americhe alla Nuova Zelanda.

L'inchiesta ha identificato 48 società di certificazione che hanno rilasciato attestati di sostenibilità ambientale a imprese che erano già accusate di aver devastato riserve naturali e oasi verdi, falsificato permessi e organizzato commerci illegali di legno e prodotti derivati. I documenti raccolti mostrano che negli ultimi 25 anni, dal 1998 all'inizio del 2023, almeno 347 aziende del settore del legname hanno ottenuto certificazioni ecologiche anche se erano state denunciate pubblicamente, per gravi violazioni ambientali, da autorità locali, grandi organizzazioni ecologiste e spesso anche da agenzie statali. Almeno 50 di queste società hanno potuto vendere prodotti in legno con le etichette verdi di sostenibilità perfino dopo essere state sanzionate o condannate nei processi. E questa mole di casi è solo la parte visibile del problema: molti governi non pubblicano i nomi delle aziende (e dei manager) responsabili dei reati ambientali.

Al centro dell'inchiesta c'è il sistema delle certificazioni ecologiche, che permettono di vendere prodotti ricavati dal legname, dai mobili alla carta, dai pannolini alle bare, con etichette verdi che rassicurano i consumatori. Queste certificazioni non sono obbligatorie: le lobby dei colossi del legno hanno finora bloccato i progetti per istituire un'autorità pubblica di controllo a livello europeo o mondiale. Ottenere un attestato di sostenibilità ecologica è una scelta volontaria delle aziende, che in questi anni di crisi climatica e disastri ambientali si rivela fondamentale per pubblicizzare i prodotti, per mostrare che si rispetta la natura, le leggi sul lavoro, i diritti umani, i regolamenti e le sanzioni internazionali.

Le certificazioni verdi sono diventate una vera e propria industria, in continua crescita, che a livello mondiale vale dieci miliardi di euro all'anno. Ma soffre di due problemi strutturali. Le certificazioni vengono rilasciate da società private, selezionate dalle stesse aziende interessate. Quindi è il controllato che sceglie e paga il suo controllore. Se la verifica è negativa, si può cambiare il certificatore, magari pagandolo di più. Altro problema documentato da questa inchiesta: succede molto raramente che le società di certificazione (e i loro dirigenti) vengano chiamate a rispondere delle omissioni o addirittura delle false attestazioni contenute nei loro rapporti di sostenibilità, redatti per conto dei clienti.

Anche tra gli esperti di controlli ambientali c’è chi critica l’efficacia delle certificazioni, come Grégoire Jacob, che lavora in una società del settore. Intervistato da Radio France, partner del consorzio Icij, ha dichiarato: «È tutto il sistema su cui facciamo affidamento, quello delle certificazioni in generale, che non funziona. Siamo portati a credere che avremo dei prodotti più rispettosi dell'ambiente. A volte è vero, ma a volte è falso».

Jacob è uno dei sei funzionari o consulenti di varie società di revisione e certificazione, con basi anche in Canada o Stati Uniti, che hanno ammesso che i controlli sono inadeguati e le procedure di verifica inefficaci. Il risultato è che molte etichette verdi ingannano il pubblico, mentre le foreste continuano a scomparire. Secondo i dati raccolti dalla Fao, tra il 1990 e il 2020 il nostro pianeta ha perso 420 milioni di ettari di boschi, una superficie più grande di tutta l'Unione europea.

Il marketing della sostenibilità

Anche se non obbligatorie, le certificazioni ecologiche private sono ormai considerate necessarie, per ragioni commerciali, da molte delle imprese che producono, utilizzano e vendono legname o prodotti agricoli collegati ad attività di disboscamento. Al vertice di questo sistema di autoregolamentazione delle aziende ci sono alcune organizzazioni internazionali, in particolare il Forest Stewardship Council (Fsc), il Programme for the Endorsement of Forest Certification (Pefc) e la Roundtable on Sustainable Palm Oil (Rspo). Sono istituzioni private, create a partire dagli anni Novanta su pressione dei maggiori gruppi ecologisti, con l'obiettivo di fermare la deforestazione.

Questi organismi hanno un ruolo di garanzia e supervisione: i controlli ambientali sono affidati alle società accreditate per le certificazioni. Sono queste ditte private a verificare se le industrie di legname, olio di palma, gomma e altri prodotti della terra utilizzino forniture collegate al disboscamento illegale o ad altri reati ambientali. Nel 2007 la scrittrice J.K. Rowling fu tra le prime a chiedere al suo editore americano di utilizzare solo carta certificata con il marchio Fsc per stampare il suo romanzo «Harry Potter e i doni della morte».

Il settore dei controlli ambientali, che comprende anche test e ispezioni sul campo, ha attirato anche colossi della revisione dei bilanci come Kpmg e Pwc, grandi società quotate in borsa come la multinazionale Svizzera Sgs, e molte altre aziende, come la Pt Inti Multima Sertifikasi in Indonesia. I certificatori possono ispezionare cartiere, intervistare operai forestali, controllare le fabbriche e i processi di produzione e smaltimento. I loro uffici di marketing proclamano obiettivi epocali come «la protezione delle foreste» e «la salvezza de pianeta».

La realtà è però diversa. La distruzione delle aree verdi continua a ritmi folli: l'agricoltura intensiva, la costruzione di strade e palazzi, lo sfruttamento industriale delle foreste sono tra le principali cause del cambiamento climatico e, secondo importanti studi scientifici, sono responsabili di oltre il 10 per cento delle emissioni mondiali dei gas serra che provocano il riscaldamento globale. L'abbattimento degli alberi provoca anche frane, inondazioni, perdita di biodiversità e scomparsa della fauna selvatica.

Un esempio di deforestazione massiccia è il Brasile, dove gli esperti stimano che il 90 per cento del disboscamento sia illegale. Qui solo una piccola percentuale di aziende è disposta a richiedere e pagare i costi delle certificazioni. Per una ragione molto semplice, come spiega ai giornalisti di Icij Marcos Pianello, un ispettore forestale di San Paolo: «Nella foresta girano persone armate, non è un campo giochi. Noi controlliamo solo quelle aree dove un'azienda vuole essere certificata volontariamente. Ma se decide fare qualcosa di sbagliato, è in grado di farlo».

Verde sbiadito

Le organizzazioni Fsc e Pefc sono state fondate negli anni '90 come soluzione volontaria: ambientalisti e politici non erano riusciti a raggiungere un accordo vincolante a livello internazionale per la difesa delle foreste. Da allora, in tutto il mondo sono nate una dozzina di istituzioni private di questo tipo. Ma Fsc e Pefc restano le più influenti. Dichiarano di essere riuscite a fare certificare come «sostenibili» oltre 319 milioni di ettari di foreste, da cui si ricavano migliaia di prodotti venduti in tutto il mondo con le loro etichette verdi. I consumatori possono trovare il loro logo su moltissime merci di uso quotidiano, dai quaderni venduti a Washington agli involucri delle caramelle nei supermercati di Berlino, dai bicchieri di carta negli alberghi canadesi ai mobili venduti su Amazon.

I gruppi ambientalisti e gli esperti di foreste, confrontando i due più diffusi sistemi di certificazione, hanno spesso definito le norme di Fsc più rigorose e più in linea con gli standard degli ecologisti, mentre hanno criticato l'approccio di Pefc, considerato più vicino alle esigenze dell'industria. Negli ultimi anni, però, la reputazione di entrambe le organizzazioni è stata messa in dubbio, con accuse di scarsa trasparenza nelle verifiche ambientali, sequenze di scandali che hanno coinvolto aziende certificate, accuse di conflitti d'interesse e mancanza di controlli sulle società accreditate per le revisioni e ispezioni ecologiche.  

Tre ex dipendenti di queste società private hanno confessato a Icij di aver lasciato il lavoro dopo aver visto svanire l’illusione che potesse avere effetti positivi sul mercato internazionale del legname. Secondo le testimonianze di diversi revisori ed esperti di foreste, i problemi sono iniziati quando sono aumentate a dismisura le aziende pronte a pagare per avere le certificazioni verdi. Con il boom del settore, entrambe le organizzazioni avrebbero allentato i loro standard. «Molti pensavano che questi sistemi di controllo volontario fossero una buona idea, dato che nel mondo si vedono cose orribili», ha dichiarato Bob Bancroft, biologo ed ex revisore forestale in Canada. «Ora sono sollevati se vedono un'etichetta verde su un prodotto in un negozio. Pensano che sia tutto a posto e hanno la coscienza pulita nell'acquistarlo. Ma il problema è proprio questo».

Il direttore generale di Fsc, Kim Carstensen, ha risposto alle critiche con un'intervista a Icij e alla tv tedesca tedesca Wdr: «Riteniamo di essere un buon marchio per una serie di motivi. Abbiamo un sistema di governance che coinvolge le parti interessate, applichiamo norme ambientali rigorose e anche princìpi sociali». In un mondo ideale, ha aggiunto il dirigente, sarebbero i governi a dover controllare e difendere le foreste. «Ma il nostro non è un mondo ideale», ha aggiunto: «Quindi, in una situazione in cui un governo consente la deforestazione, pensiamo che la certificazione Fsc possa svolgere un ruolo importante».

Il capo ufficio stampa di Pefc, Thorsten Arndt, ha precisato: «La credibilità della nostra organizzazione e di altri sistemi di certificazione è stata valutata più volte», sottolineando che le Nazioni Unite hanno riconosciuto a Pefc il merito di aver favorito «progressi verso gli obiettivi di sviluppo sostenibile e l'accordo sulla biodiversità». Arndt ha inoltre risposto, con una nota scritta, che il Pefc rivede le sue regole «sulla base delle più recenti conoscenze, della ricerca scientifica e delle questioni emergenti», proprio per garantire che le foreste siano «gestite in modo sostenibile».

Le società accreditate per la certificazione ambientale, da parte loro, non negano che ci sia stato qualche problema, ma affermano che l'attuale sistema di verifica ha complessivamente contribuito a migliorare la tutela delle foreste in tutto il mondo e ad aumentare i controlli aziendali. «Ai critici che sostengono che la certificazione sia semplicemente un'operazione di greenwashing, vorrei replicare che scambiano l'eccezione con la regola», ha dichiarato Linda Brown, co-fondatrice della Scs Global Services degli Stati Uniti.

Una soluzione vera, europea

L'inchiesta Deforestation Inc ora documenta 347 di queste eccezioni: società certificate che sono state accusate o condannate per attività distruttive delle foreste. La realtà dei fatti resta molto lontana dalle rassicurazioni ambientali diffuse dalle industrie interessate. Nel 2021 le agenzie per la tutela dei consumatori del Regno Unito e dell'Olanda hanno esaminato centinaia di siti aziendali e hanno stabilito che il 40 per cento delle dichiarazioni di eco-compatibilità è in grado di «ingannare i consumatori». Un comitato pubblico australiano ha avviato una ricerca dello stesso tipo nell'autunno scorso.

A Bruxelles la Commissione europea progetta di varare una direttiva contro il cosiddetto greenwashing, definito come una strategia di marketing che si basa su «affermazioni ambientali fuorvianti». Secondo una bozza della proposta in discussione, trapelata da poco, gli Stati membri della Ue verrebbero impegnati a imporre «sanzioni efficaci, proporzionate e dissuasive» alle aziende che pubblicizzano prodotti con qualità ambientali non dimostrabili. La bozza prevede, inoltre, di affidare i controlli su etichette verdi e marchi ecologici a «verificatori indipendenti». Un primo testo ufficiale è atteso per le prossime settimane: la Commissione punta a rendere operative le nuove regole sulle certificazioni ecologiche entro il 2024.

Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e di altre testate internazionali, in particolare Agustin Armendariz, Jelena Cosic, Emilia Diaz-Struck, Miguel Fiandor, Karrie Kehoe, Brenda Medina, Delphine Reuter, Margot Williams (Icij), Giulio Rubino, Edoardo Anziano, Fabio Papetti (IrpiMedia), Anne-Laure Barral (Radio France), Allan de Abreu (Piauí), Attila Biro (Context), Petra Blum (Wdr), Krisna Pradipta (Tempo), Stefan Melichar (Profil), Francisca Skoknic (LaBot), Kirsi Skön (Yle), Lina Verschwele, Marcus Engert (Der Spiegel), Benedikt Strunz (Ndr), Shirsho Dasgupta (Miami Herald), Karlijn Kuijpers (Nrc), Ritu Sarin (Indian Express), Frederik Obermaier, Timo Schober (Paper Trail Media).

Fabrizio Goria per “La Stampa” il 9 gennaio 2023.

Verdi ma non abbastanza. Sono almeno 125 i miliardi di dollari che stanno ballando sul mercato dei fondi Esg, gli investimenti sostenibili. Ovvero il settore più vivace degli ultimi cinque anni. La riclassificazione delle categorie dei fondi, spinta dalle nuove linee guida della Commissione europea, sta portando a una nuova vita per centinaia di strumenti finanziari. Che non erano così sostenibili come immaginato.

 La sola Bnp Paribas ha dovuto riclassificare fondi per 16 miliardi di euro. Lo hanno già fatto, o lo faranno, anche BlackRock, Amundi, Axa, Pimco. Ovvero i maggiori asset manager globali. Gli stessi che stanno già subendo i chiari di luna dei mercati, con il segmento Esg in contrazione di quasi il 20% da inizio anno.

L'illusione di investire in sviluppo sostenibile è durata per un lustro. Ma il giro di vite di Bruxelles ora si fa sentire. Scelta doverosa, quella della Commissione Ue, che ha deciso di andare contro il cosiddetto "greenwashing' , cioè la pratica di maquillage di fondi venduti come green ma poi non erano tali.

 Entro il prossimo 23 gennaio le istituzioni finanziarie sono chiamate rispondere all'indagine condotta dalle autorità europee di supervisione - European banking authority (Eba), European securities and markets authority (Esma) e European insurance and occupational pensions authority (Eiopa) - sull'identificazione delle pratiche scorrette. Ma intanto già molti operatori si sono mossi.

Pochi giorni fa la decisione di Bnp e Dws, la branca d'investimento di Deutsche Bank, che hanno deciso di declassare quasi tutti i propri fondi finora categorizzati come' "Article 9", la più alta designazione Esgpresente in Europa. La scelta delle nuove linee guida della Commissione ha creato malumori diffusi nell'ambiente finanziario. Da BlackRock a Pimco, passando per i gestori italiani come Anima o AcomeA, le decisioni della Commissione Ue sono state accolte con freddezza.

«È decisamente tutto troppo complicato, hanno creato un'architettura regolatoria che non tiene conto dello sviluppo del mercato, né delle sue esigenze», fa notare una fonte di Amundi, uno dei colossi del segmento Esg a livello globale. La società di ricerca e certificazione green Morningstar ha stimato che centinaia di fondi potrebbero dover essere declassati prima che la situazione si plachi. «Questo per conto dello sviluppo del mercato, né delle sue esigenze», fa notare una fonte di Amundi, uno dei colossi del segmento Esg a livello globale.

La società di ricerca e certificazione green Morningstar ha stimato che centinaia di fondi potrebbero dover essere declassati prima che la situazione si plachi. Questo perché i dettami dell'Ue secondo cui i fondi" Article 9" devono detenere investimenti sostenibili al 100%, ad eccezione dei requisiti di copertura e liquidità, hanno spiazzato la maggior parte degli operatori.

 «Sia chiaro, l'Ue ha fissato un regime di classificazione molto ambizioso, ma anche estremamente complesso», ha fatto notare Hortense Bioy, direttore globale della ricerca sulla sostenibilità di Morning. star. Ne deriva un caos non irrilevante. A oggi, meno del 5% dei fondi categorizzati come "Article 9" soddisfa il requisito di sostenibilità al 100% domandato dall'Ue. La storia si complica se si guarda invece alla fascia inferiore, i cosiddetti fondi "Article 8”, con caratteristiche meno stringenti rispetto agli altri. Secondo l'Esma e Morningstarsolo il 18% dei fondi così classificati possono definirsi " sostenibili" in modo effettivo. Di conseguenza, il timore dei gestori è che possano ritrovarsi con fondi declassati dall'oggi al domani.

Considerando che, secondo i dati di Goldman Sachs, il mercato degli "Article 8" vale circa 4.000 miliardi di dollari di patrimonio amministrato, i rischi correlati di un'ondata di downgrade è concreta. Un problema ulteriore, spiega l'associazione di categoria Better Finance, è che molte società finanziarie sono carenti nella comunicazione verso la clientela.

 «Mancano coerenza e trasparenza nell'approccio agli investimenti sostenibili e ambientali», spiega un report della società. «Dobbiamo avere una guida più chiara da parte delle autorità per assicurarci di non essere fuorviati e non ci vengono venduti prodotti di investimento greenwashed», ha dichiarato Guillaume Prache, ad di Better Finance.

Da un lato gli investitori istituzionali, che chiedono il mantenimento dello status quo. Dall'altro l'Ue, che domanda più limpidezza nel processo di categorizzazione per evitare squilibri. In mezzo i risparmiatori, sempre più confusi. In un contesto macroeconomico e geopolitico di incertezza, in cui il maggiore indice del settore, lo S&P 500 Esg Index, ha ceduto il 18% nel corso dello scorso anno, il 2023 è destinato ad aprirsi in salita per gli investimenti verdi.

Ancora grave lo studente. Auto esplosa in Tangenziale a Napoli, morta la ricercatrice a bordo del veicolo prototipo: aveva ustioni sul 90% del corpo. Redazione su L'Unità il 26 Giugno 2023

Dopo quattro giorni di agonia all’ospedale Cardarelli di Napoli, dove era giunta venerdì scorso con ustioni sul 90 per cento del corpo, è morta Maria Vittoria Prati, la ricercatrice senior rimasta vittima con un tirocinante universitario del grave incidente avvenuto sulla Tangenziale di Napoli.

Prati e Fulvio Filace, 25enne laureando in Ingegneria Meccanica, erano entrambi a Bodo di un’auto prototipo, una Volkswagen Polo alimentata con un sistema ibrido-solare.

Auto esplosa in tangenziale, il dramma di Fulvio che sogna di lavorare in Ferrari: “Non vogliamo martiri della ricerca”

L’auto era stata realizzata nell’ambito del progetto Life-Save (Solar aided vehicle electrification) che ha come obiettivo, si legge nella pagina web dedicata, “l’industrializzazione del sistema HySolarKit per la conversione delle auto convenzionali (diesel o benzina) in veicoli ibridi-solari”. Sull’accaduto la Procura di Napoli ha aperto un’inchiesta.

L’incidente, le cui cause saranno accertate proprio dall’inchiesta della Procura, solo per puro causo non ha coinvolto altre vetture che in quel momento erano in transito sul tratto di Tangenziale di Napoli. Prati, 66 anni, era alla guida dei veicolo prototipo quando è avvenuta l’esplosione mentre Filace era seduto sul lato passeggero, subendo danni appena più lievi perché riuscito a lanciarsi fuori dall’abitacolo.

Il 25enne studente dell’Università Federico II resta però ancora ricoverato in gravissime condizioni: proprio oggi l’Ateneo ha diffuso un appello social per donare sangue al giovane. “La notizia dell’esplosione dell’auto in Tangenziale, che ha visto coinvolti una ricercatrice del Cnr e lo studente federiciano – si legge – ha sconvolto tutta la comunità della Federico II. Per aiutare Fulvio bisogna recarsi presso il Centro trasfusionale Cardarelli e specificare di voler donare per Fulvio. Serve sangue di qualsiasi gruppo. Forza Fulvio, l’Ateneo ti è vicino“, conclude il messaggio. Redazione - 26 Giugno 2023

L'incidente del prototipo. Auto esplosa in Tangenziale, è morto anche il tirocinante Fulvio: era ricoverato con gravi ustioni. Carmine Di Niro su L'Unità il 29 Giugno 2023

Fulvio Filace non ce l’ha fatta. Il 25enne studente dell’Università Federico II di Napoli, e tirocinante al Cnr, è morto nella notte all’ospedale Cardarelli dove era ricoverato nel Centro Grandi ustionati da venerdì scorso. Filace era rimasto gravemente ferito nell’esplosione di un’auto-prototipo venerdì 23 giugno sulla Tangenziale di Napoli.

Filace è la seconda vittima dell’incidente avvenuto con l’esplosione della vettura, una Volkswagen Polo alimentata con un sistema ibrido-solare: lunedì, sempre al Cardarelli, era morta Maria Vittoria Prati, 66enne prima ricercatrice del Cnr, che era alla guida dell’auto.

Restano da chiarire le cause dell’esplosione che ha distrutto la vettura causando la morte della professoressa e del tirocinante: sulla vicenda la Procura di Napoli ha aperto un’indagine.

L’incidente solo per puro caso non ha coinvolto altre vetture che in quel momento erano in transito sul tratto di Tangenziale di Napoli. Prati, 66 anni, era alla guida dei veicolo prototipo quando è avvenuta l’esplosione mentre Filace era seduto sul lato passeggero, subendo danni appena più lievi perché riuscito a lanciarsi fuori dall’abitacolo.

L’auto era stata realizzata nell’ambito del progetto Life-Save (Solar aided vehicle electrification) che ha come obiettivo, si legge nella pagina web dedicata, “l’industrializzazione del sistema HySolarKit per la conversione delle auto convenzionali (diesel o benzina) in veicoli ibridi-solari”.

Lunedì l’Ateneo dove studiava Fulvio aveva diffuso un appello social per donare sangue al giovane. “La notizia dell’esplosione dell’auto in Tangenziale, che ha visto coinvolti una ricercatrice del Cnr e lo studente federiciano – si leggeva – ha sconvolto tutta la comunità della Federico II. Per aiutare Fulvio bisogna recarsi presso il Centro trasfusionale Cardarelli e specificare di voler donare per Fulvio. Serve sangue di qualsiasi gruppo. Forza Fulvio, l’Ateneo ti è vicino“, concludeva il messaggio.

Oggi in un’intervista all’edizione napoletana di Repubblica la madre di Fulvio, Maria Rosaria, si sfogava attaccando proprio l’Ateneo: “Ci restano soltanto le preghiere“. Per la madre il figlio Fulvio “è stato sempre uno prudente. Ha sempre fatto il suo dovere, attento e scrupoloso. Quali domande ci dobbiamo fare adesso? Non lo so“. Carmine Di Niro 29 Giugno 2023

Le vittime dei disastri ambientali si rivolgono sempre più spesso alle corti europee. Simone Valeri su L'Indipendente il 3 Gennaio 2023

A seguito della sentenza che ha portato, dopo 14 anni di battaglia legale, alla sconfitta della multinazionale petrolifera Shell per i disastri ecologici causati nel Delta del Niger, qualcosa sta cambiando. Nonostante dei tempi processuali ancora biblici, le vittime di disastri ambientali in varie parti del globo hanno ad esempio realizzato che i tribunali europei sono sempre più aperti a prendere in considerazione i loro casi e a dar loro ragione. Troppo a lungo, infatti, diverse grandi aziende europee operanti all’estero sono rimaste impunite per i danni ecologici che hanno causato, i quali hanno spesso irrimediabilmente alterato interi ecosistemi e compromesso severamente l’economia di sussistenza di comunità locali. In questo senso, un ulteriore esempio è quello relativo alla recente decisione di un tribunale olandese, i cui giudici hanno stabilito di avere l’autorità per esaminare una richiesta di risarcimento presentata contro il produttore di alluminio Norsk Hydro, con sede a Oslo, per l’inquinamento causato nel nord del Brasile. La decisione è stata accolta con favore dalle migliaia di indigeni che hanno citato in giudizio l’azienda per aver danneggiato l’ambiente e minacciato la salute pubblica.

Ma questo non è un caso isolato, anzi. Basti pensare che, solo lo scorso anno, le comunità danneggiate dalle miniere di sale nel nord del Brasile hanno ottenuto il diritto di citare in giudizio l’azienda petrolchimica Braskem nei Paesi Bassi, così come le vittime del disastro della diga di Mariana hanno iniziato a ricorrere legalmente contro il gigante minerario BHP dopo che la Corte d’appello del Regno Unito ha concesso loro l’autorizzazione a intraprendere un’azione collettiva. Gettando uno sguardo al passato, emerge poi come vittorie simili non siano affatto una rarità e che queste siano aumentate progressivamente nel tempo. Oggi, mentre le cause ambientali contro l’una o l’altra multinazionale aumentano a vista d’occhio, è già possibile affermare che i tribunali europei stanno diventando sempre più efficaci nel proteggere i diritti di piccole e povere realtà sociali. Non a caso, quella ambientale, è una delle aree del diritto che si sta sviluppando più rapidamente negli ultimi tempi. Nel complesso, il settore – come ha spiegato Tom Goodhead, socio dirigente dello studio legale UK Pogust Goodhead – «sta considerevolmente evolvendo allo scopo di giudicare sempre più efficacemente, nei tribunali del paese di residenza, le società responsabili di danni ambientali».

Al riguardo, il nuovo atto legislativo più promettente è la legge francese sull’obbligo di vigilanza, che impone a tutte le grandi imprese con sede in Francia e alle società internazionali con una grande presenza nel Paese di stabilire delle misure chiare per prevenire violazioni dei diritti umani e danni ambientali. Il primo caso che ha a tutti gli effetti testato questa legge avanguardistica è stato intentato, nel 2019, contro la compagnia energetica francese TotalEnergies per il suo enorme progetto petrolifero in Uganda e Tanzania. Le ONG francesi e ugandesi hanno affermato che il piano di supervisione ambientale dell’azienda per il controverso oleodotto dell’Africa orientale non era conforme alla legge. Dopo un’udienza in tribunale a dicembre, sebbene si prevedano difficoltà nell’ottenere l’attuazione della norma in territorio straniero, sono ora in attesa di una sentenza. Una legge simile a quella francese entrerà a breve in vigore in Germania e, inoltre, l’Unione europea sembra stia sulla buona strada per far approvare una direttiva sulla sostenibilità aziendale. In definitiva, in un mondo sempre più globalizzato – come ha concluso l’avvocato Goodhead – «le grandi aziende stanno prendendo atto di non poter sempre nascondere le attività delle loro filiali e, sebbene cercheranno ancora di farla franca, è sempre più difficile che i loro illeciti ambientali restino impuniti». [di Simone Valeri]

Miniere urbane. L’Italia snobba il riciclaggio dei rifiuti hi-tech (e rischia di pentirsene). Stefano Carli su Linkiesta il 7 Novembre 2023

Estrarre da smartphone, tv e tutti i dispositivi elettronici le materie prime critiche e le terre rare fondamentali è la nuova frontiera dell’economia circolare. Ma noi come al solito siamo in netto ritardo rispetto al resto del mondo

Smartphone e smartwatch, tv e radio, decoder, tablet e pc, videocamere e impianti stereo, sensori, modem e router, tutta l’elettronica di frigoriferi, lavatrici, lavastoviglie, friggitrici, frullatori, estrattori, boiler, trapani, avvitatori, fon, rasoi, spazzolini elettrici, forni a microonde, fornelli a induzione, diffusori di aria calda e fredda. Quando e finché funzionano sono la tecnologia che rende le nostre vite più facili, piacevoli e piene di comunicazione con gli altri, che ci fa risparmiare tempo e ci risolve problemi (e talvolta ne crea). Quando smettono di funzionare possono diventare due cose: semplici rifiuti oppure “miniere urbane”.

In Italia abbiamo scelto la prima: li lasciamo nelle discariche, in parte – piccola – vengono recuperati e la maggior parte di questo recupero, lo esportiamo all’estero. L’Europa sta cercando di spingerci verso la seconda, ma siamo molto in ritardo. Qui, a differenza di quanto avviene con carta e vetro, plastica e alluminio, dove siamo già oltre gli obiettivi europei per il 2030 e il 2050, non siamo ancora arrivati neanche e metà strada. E, quel che è peggio, ci stiamo rimettendo soldi e ci stiamo giocando un pezzo di futuro.

La definizione di miniere urbane è appropriata perché anche in questo caso bisogna andare a scavare dentro i prodotti per estrarre il loro cuore prezioso fatto di metalli nobili e soprattutto delle cosiddette “terre rare”, ossia le materie prime del futuro, senza le quali la transizione energetica con l’addio alle fonti fossili e l’utilizzo di energie rinnovabili prodotte a partire da fattori naturali come sole, vento e acqua, non si possono fare.

Partiamo dal più semplice: oro e argento. Uno studio targato Onu vecchio ormai di dieci anni stima che il mondo produce (produceva allora) tra i venti ei cinquanta milioni di tonnellate di rifiuti hi-tech. E calcolava che contenessero trecentoventi tonnellate di oro e settemiladuecento tonnellate di argento, per un valore stimato oltre i venti miliardi di dollari.

Se ne estraeva, con le tecnologie di dieci anni fa, non più del dieci per cento. Poi le tecnologie sono avanzate, è arrivato il boom delle energie rinnovabili e quindi pannelli solari, pale eoliche e i motori della nuova mobilità elettrica. Che hanno bisogno del nuovo oro di questo millennio: le “materie prime critiche”, Mpc sui documenti italiani, Crm, Critical Raw Materials, per gli anglofoni. Sono una trentina, ma crescono perché le tecnologie evolvono e scopro nuove esigenze. Tanto che l’Unione europea ne aggiorna annualmente l’elenco: erano trenta l’anno scorso, sono già diventate trentaquattro. Alcune hanno nomi strani ma perché mai sentiti prima: tantalio, niobio, bismuto; con altre siamo già più familiari: litio, cobalto, gallio. E di questi fanno parte le diciassette “terre rare”: metalli dai nomi impossibili – ittirio, cerio, promezio, samario – a metà tra Topolino e gli scaffali Ikea.

In Europa il loro problema principale è l’estrazione: ne abbiamo poche e quelle poche di difficile estrazione perché bisognerebbe aprire miniere e scavare il suolo, con tutto quello che comporta dal punto di vista ambientale. Di fatto l’Unione europea è un grande importatore di Mpc. E come per l’energia fossile, sono importazioni che provengono da Paesi tutt’altro che tranquilli dal punto di vista geopolitico. Il cinquantasei per cento della domanda europea è coperta dalla Cina, come ha rilevato un recente studio Ambrosetti, ma è dalla Turchia che proviene il novantotto per cento dei borati, mentre il settantuno per cento del fabbisogno europeo di platino, iridio, rutenio e radio viene dal Sud Africa. Il settantotto per cento del litio dal Cile.

Non è un problema solo europeo: la Cina fornisce il novanta per cento delle terre rare utilizzate dall’industria a livello mondiale. Senza contare la guerra russo-ucraina. La Russia produce tredici Mpc sulle trentaquattro totali. L’Ucraina è tra i maggiori fornitori europei di titanio, utilizzato in particolare dall’industria aerospaziale Il peso di tutto questo sui piani della doppia transizione europea, quella digitale e quella energetica è evidente. Si stima che di qui al 2040 la domanda di rame e palladio si moltiplicherà per undici volte, quella di litio, componente fondamentale delle batterie e dei sistemi di accumulo, almeno quaranta volte il livello attuale. E c’è già chi prevede che presto i maggiori paesi produttori di Mpc, Cina, Russia, Congo, Sud Africa, possano dar vita alla versione XXI secolo dell’Opec: un’analisi del centro studi dell’Allianz, il maggior gruppo assicurativo europeo, l’ha già battezzata Omec, Organization of Metal Exporting Countries.

Per questo l’Unione europea si è data obiettivi ambiziosi, in grado di diminuire radicalmente la dipendenza dell’economia dell’Unione dalle importazioni di Mpc. Con il Critical Raw Materals Act ha fissato che al 2030 l’autoproduzione europea di tali materie prime arrivi al dieci per cento, la capacità produttiva europea sia almeno del quaranta per cento e che il livello di materia prima critiche secondarie, ossia provenienti dal riciclo, siano al quindici per cento. E che comunque per le importazioni, non si possa dipendere da un solo paese oltre il sessantacinque per cento. Quindi bisogna correre sul riciclo dei rifiuti hi-tech. E qui arrivano i ritardi italiani.

Oggi l’Unione europea ha una media di dieci chili procapite di rifiuti elettronici, l’Italia è a quota sei chili. Il tasso di riciclo dei rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche (Raee), in Italia è al trentaquattro per cento, tra i più bassi d’Europa. E nel 2022 è addirittura sceso. «In Italia le materie prima critiche pesano seicento miliardi, il novantanove per cento le importiamo dall’estero, il sessantacinque per cento dalla Cina», dice Roberto Morabito Direttore del Dipartimento Sostenibilità dei Sistemi Produttivi e Territoriali dell’Enea. «Se già solo raggiungessimo l’obiettivo Ue del sessantacinque per cento, rispetto all’attuale trentaquattro per cento, e soprattutto se avessimo gli impianti per l’estrazione e il riciclo delle Mpc secondarie, il nostro import dalla Cina calerebbe del venticinque per cento e l’impatto sul nostro Pil dell’insieme di questa manovra varrebbe cento miliardi di euro l’anno».

I problemi sono quindi due. Non solo la raccolta, ma anche, e forse prima ancora, la mancanza di impianti di trattamento dei rifiuti hi-tech. Tanto che i due terzi dei Raee raccolti in Italia prende poi la strada del Belgio e della Germania, dove ci sono appunto gli impianti per il loro trattamento, da cui vengono ricavati oro e argento. Poi c’è la gran parte, che sfugge al sistema virtuoso del riciclo e che finisce perlopiù in Africa. Insomma, i Raee sono oggi per l’Italia in primo luogo un costo. Poterebbero diventare una grande opportunità, ma bisogna investirci. La novità è che gli investimenti non sono nemmeno altissimi. Spiega Morabito: “Una tonnellata di schede elettroniche contiene Mpc del valore di 12.000 euro. E viaggiamo su centinaia di migliaia di tonnellate. Un impianto con una capacità di trattare mille tonnellate l’anno di Raee ha un costo di realizzazione sui 6-7 milioni di euro, ma potrebbe produrre Mpc seconde per 12 milioni l’anno. Avrebbe tempi di ammortamento velocissimi”.

C’è infine la questione del salto di qualità tecnologico. La Germania, come anche il Belgio, hanno impianti con una tecnologia vecchia, sono praticamente degli altiforni che lavorano ad 800 gradi: dai Raee trattati ricavano oro e argento ma tutte le Mpc, comprese le terre rare, vengono invece distrutte dalle alte temperature.

Le nuove tecnologie di trattamento dei rifiuti hi-tech ci sono. Sono tecnologie di nuova generazione ma già pronte per l’utilizzo industriale. E si sarebbero potuti utilizzare i fondi del Pnrr per accelerare la realizzazione di nuovi impianti. Ma non è andata così. «In Italia – afferma Morabito – nell’ambito di un recente bando del ministero per l’Ambiente e la Sicurezza Energetica per progetti “faro” di economia circolare relativo ad impianti per raccolta, logistica e riciclo dei Raee, sono stati presentati settantatré diversi progetti. Ne sono stati finanziati sessantasette ma di questi solo sette riguardano la realizzazione di nuovi impianti di recupero di Mpc. Tutto il resto riguarda impianti meccanici di disassemblaggio, volti a recuperare materie prime più tradizionali, come ferro e vetro. C’è un solo progetto per le terre rare, uno per il cobalto e uno per recuperare rame e silicio dai pannelli solari dismessi. Il fatto è che i bandi sono scritti sui parametri dei vecchi impianti. E in grande maggioranza si presentano progetti poco o per nulla innovativi».

Full Metal Racket (di metalli). Giovanni Brussato su Panorama il 18 Ottobre 2023

I furti di metalli industriali sono un evento sempre più comune e porta alla luce un sistema di controllo e garanzia troppo obsoleto Gli scandali che coinvolgono i metalli industriali stanno diventando un evento comune e sembra che non si stia facendo nulla per impedire che accadano ancora. In realtà, in molti casi, ci troviamo di fronte ad una nuova forma di crimine prodotto da una serie di cause strutturali aggravate dalle interruzioni dei flussi di materie prime derivanti dalla guerra in Ucraina. Il commercio di materie prime è un'attività con alti volumi e bassi margini dove spesso i commercianti utilizzano il prodotto che stanno negoziando per ottenere finanziamenti per gestire il flusso di cassa. Nel settore dei metalli, tale garanzia è spesso supportata da documenti cartacei: ricevute di magazzino e documenti di spedizione che registrano informazioni come quantità, qualità, proprietà ed ubicazione delle merci. Dati che possono essere falsificati utilizzando materiale fittizio, oppure utilizzando lo stesso carico per garantire più prestiti.

A volte, il metallo viene semplicemente rubato dai magazzini da bande criminali, ma è la minaccia di frode perpetrata dagli addetti ai lavori del settore che desta sconcerto: la fragilità delle reti di stoccaggio e spedizione rimane un problema irrisolto a causa di protocolli di supervisione, conformità e sicurezza inadeguati: più in generale è l’intero sistema di controllo ad apparire ormai obsoleto per il valore che sono destinati ad acquisire sempre di più i metalli. Giugno 2020, Mercuria, con sede a Ginevra, uno dei più grandi commercianti di materie prime del mondo, acquista rame per un valore di 36 milioni di dollari da un fornitore turco. Ma quando il primo degli otto carichi arriva in un porto cinese, gli ispettori scoprono che il metallo era stato sostituito con pietre senza valore. Il caso, etichettato in Turchia come "la più grande frode commessa nella storia della repubblica turca", evidenziava come la frode fosse stata perpetrata malgrado le misure per proteggere e ispezionare i carichi. Per superare il test di ispezione è bastato che un container venisse dapprima caricato con il metallo e sostituito, dopo l’ispezione, con pietre opportunamente verniciate. Fare affidamento su sistemi cartacei esattamente come accadeva decine di anni fa significa essere vulnerabili alla manipolazione ed alla criminalità. E’ il caso di Aurubis, il più grande produttore europeo di rame, che ha scoperto che dai suoi magazzini mancava metallo per 185 milioni di euro. Una sospetta collusione tra i fornitori di rottami ed i dipendenti della divisione di campionamento che avrebbero falsato i dati sulle quantità di rame effettivamente ricevute. Le azioni del gruppo sono crollate quando per il mercato è stato evidente che l'industria non fosse all'altezza dei suoi controlli e dei suoi processi di base.  Non sempre si tratta di frodi, a volte il metallo viene semplicemente rapinato dai magazzini da bande criminali, com’è accaduto a gennaio nel porto di San Antonio in Cile dove i rapinatori hanno attaccato i lavoratori e rubato 13 container, dodici dei quali avevano rame della compagnia mineraria statale Codelco per un valore di circa 4,5 milioni di dollari. Della fragilità delle reti di stoccaggio e spedizione ne è rimasta vittima, all'inizio di quest'anno, Trafigura, il gruppo globale di trading di materie prime, che ha registrato una perdita di 577 milioni di dollari dopo aver scoperto che i 1.100 contenitori di nichel che aveva acquistato non contenevano il metallo. La società ha accusato le società fornitrici come New Alloys Trading e il commerciante Prateek Gupta di Dubai di "falsa dichiarazione e presentazione di documenti falsi" per perpetrare la frode. Ma la stessa Trafigura è stata messa sotto accusa dal suo finanziatore, Citibank, per gli errori compiuti nel processo di conformità come il mancato controllo del contenuto dei container e della congruenza dei documenti di spedizione e dei certificati di analisi richiesti. Esattamente come pare sia accaduto a marzo al London Metal Exchange (LME) che ha trovato sacchetti pieni di pietre in uno dei suoi magazzini al posto del nichel che avrebbero dovuto contenere. Il presunto nichel era immagazzinato a Rotterdam in un magazzino gestito da Access World, da poco ceduta da Glencore. Le irregolarità erano evidenti, a partire dall’aspetto più banale: il peso dei sacchi. E’ palese che gli operatori di magazzino non hanno rispettato il rigoroso requisito di pesare tutto il metallo prima che venga immesso nei magazzini approvati della borsa. A seguito della scoperta, l’LME ha chiesto all'operatore del magazzino di condurre un'ispezione, al cui esito sono risultati mancanti nove casse di nichel, pari a 54 tonnellate di materiale per un valore di 1,3 milioni di dollari di proprietà di JPMorgan. Evidente il danno d’immagine, più di quello economico, per il più antico mercato dei metalli al mondo.

Se un cambiamento nel settore del trading di metalli, come l’utilizzo di piattaforme digitali in luogo del cartaceo, è probabile possa portare una significativa riduzione delle grandi frodi questo comunque non impedirà ai ladri comuni di continuare con i loro furti poiché è impossibile fermare quella che è destinata a diventare una “pandemia” di furti di metalli dovuta all’aumento del loro prezzo di mercato. Evidenza confermata dalle statistiche che dicono che nel 2021 i furti di rame hanno raggiunto il livello più alto dal 2013, l'ultima volta che i prezzi del rame sono stati così elevati. Ed è lecito attendersi che il problema tenda ad aumentare mentre l’Occidente si muove verso un'economia più elettrificata e quindi più dipendente dal rame. Grazie alle sue eccellenti proprietà di conduttività elettrica, il metallo rosso svolge un ruolo fondamentale nella costruzione di fonti di energia rinnovabile che vanno dall'eolico, al solare, ai veicoli elettrici, alle migliaia di chilometri di cavi in rame necessari per rafforzare le reti elettriche. Ma la stessa sorte riguarda altri metalli come il palladio utilizzato nei convertitori catalitici dei veicoli a benzina, con circa 2-7 grammi per unità, in base al veicolo, mentre il platino, che ha una tolleranza alla temperatura inferiore, viene più frequentemente utilizzato nei veicoli diesel o ibridi (Sara il platino il prossimo collo di bottiglia dell’automotive? - Panorama). Secondo il National Insurance Crime Bureau statunitense i furti di marmitte catalitiche nel paese sono quadruplicati: da 16.660 nel 2020 a 64.701 nel 2022. Inoltre questi eventi possono interagire tra loro ed autoalimentarsi: si consideri che il primo produttore a livello globale di metalli del gruppo del platino è il Sud Africa dove a fermare l’attività estrattiva nelle miniere spesso sono bande di disperati che, rubando i cavi di rame delle installazioni minerarie, interrompono le operazioni di estrazione per settimane paralizzando le locomotive che portano il minerale in superficie (I Miraggi dell’Evoluzione Tecnologica e i Ladri di Rame | l'Astrolabio (amicidellaterra.it)).

Statistica sui furti di rame e gli arresti eseguiti. Queste bande, note come "zama zamas", che in Zulu si traduce più o meno in "giocare d'azzardo", attirati dagli alti prezzi del rame scendono, con corde o scale fatte a mano, da buchi scavati in superficie, in profondità nei pozzi marginali, poco sorvegliati, e li saccheggiano per poi vendere il rame sul mercato nero. La più grande compagnia mineraria del settore del platino al mondo, Sibanye-Stillwater, ha registrato 165 furti dall'inizio del 2021, spesso con l’interruzione forzata delle attività estrattive. Sarà la pervasività dei furti di rame, e la conseguente interruzione delle operazioni minerarie, a definire i futuri costi operativi dell’estrazione e quindi della quotazione del platino. I prezzi sempre più alti del metallo spingeranno coloro che sono in condizioni di povertà a calcolare più il denaro che potrebbero guadagnare vendendo la merce rubata, che il rischio di essere arrestati: i ricettatori pagano tra i 50 e i 250 dollari per un convertitore catalitico e fino a 800 dollari per uno rimosso da un veicolo ibrido. Sulle attività criminali di più alto livello, come lo scandalo che ha scosso l'LME, l'industria potrà intensificare la sua due diligence e passare alla documentazione digitale, ma lo scambio dipenderà ancora da società di magazzinaggio private, e quindi il rischio di frode e persino di cospirazioni, come nel caso di Aurubis, rimane presente: ritenere che la tecnologia possa risolvere qualsiasi problema è un miraggio intrinseco nel nostro attuale modello.

Estratto dell'articolo di Claudio Tito per “la Repubblica” giovedì 23 novembre 2023.

La plastica spacca il governo e anche l’opposizione. Ieri il Parlamento europeo ha approvato il regolamento sugli imballaggi: è la normativa che punta a vietarne l’uso nell’industria. […] sul provvedimento finale il centrodestra si è diviso con il voto favorevole di Forza Italia e quello contrario di Fratelli d’Italia e Lega; l’opposizione di Pd e M5S si è trovata sulla stessa linea ma con molte critiche dai grillini.

Alla fine i sì sono stati 426 (Ppe, S&D, Renew, Verdi e Left, insomma la maggioranza Ursula allargata) e i no 125 (la destra di Ecr e Id). Ma la battaglia è stata soprattutto sulle modifiche su cui avevano insistito in particolare le aziende italiane, sostenute dal governo, e che puntavano sul “riciclo” anziché sul “riuso”. [...]

La versione finale prevede [...] l’esenzione dagli obblighi di riuso per i Paesi che hanno l’85% di quota di riciclo degli imballaggi interessati; esclude il settore agro-alimentare ed elimina il divieto per gli oggetti mono-uso nel settore della ristorazione. […] ha allora esultato il ministro degli Esteri, il forzista Antonio Tajani «[…]È stata bloccata la deriva populista sul riuso spinto che penalizza industria e agricoltura».

[…]. Il partito di Giorgia Meloni canta vittoria sebbene in maniera poco comprensibile, dopo aver appoggiato le modifiche, poi non ha votato il testo finale. 

Così come la Lega. Formando una sorta di blocco sovranista. I grillini, invece, se la prendono con i Dem accusandoli di avere a Strasburgo le stesse posizioni della destra: «È stata un’occasione mancata». Il regolamento dovrà ora passare all’esame del Consiglio per concordare una formulazione e per il via libera definitivo.

Estratto dell'articolo di Giacomo Talignani per “la Repubblica” giovedì 23 novembre 2023.

Si salvano le buste per l’insalata e le confezioni in legno del formaggio Camembert. Addio invece ai piccoli shampoo monouso degli hotel, le bustine delle salse o le pellicole in plastica per le valigie. 

Dopo un mese di instancabili pressioni dell’industria agroalimentare e delle lobby - e dopo 525 emendamenti, la gran parte a firma italiana - il Parlamento europeo dà via libera al regolamento sugli imballaggi (PPWR) pensato per ridurre i rifiuti del packaging. […]

Attraverso un piano di riduzione a tappe degli scarti da imballaggi, vengono comunque mantenuti gli obiettivi per ridurre le 80 milioni di tonnellate di rifiuti (dati 2021) prodotti in Europa: il 5% entro il 2030, il 10% entro il 2035 e il 15% entro il 2040. Inoltre vengono fissati specifici obiettivi di diminuzione del packaging in plastica (10% entro il 2030, 15% entro il 2035 e 20% entro il 2040). 

Nell’Italia campione di riciclo, la vera vittoria è l’approvazione dell’emendamento «che esenta al riuso degli imballaggi gli Stati membri che abbiano raggiunto una percentuale di riciclo pari all’ 85%». Il che significa che nel nostro Paese continueranno a esistere molte confezioni, soprattutto quelle alimentari […]

Rimane il principio però di favorire il riuso e di stabilire i requisiti per l’intero ciclo di vita dell’imballaggio, dalle materie prime allo smaltimento finale. Così come aumentano i divieti per le «sostanze chimiche per sempre » a contatto con gli alimenti, come i PFAS. In concreto sarà vietata la vendita di sacchetti di plastica molto leggeri, inferiori a 15 micron (ma solo se non necessari per motivi igienici oppure forniti come imballaggio primario per alimenti sfusi). Ristoratori e take away dovranno garantire ai consumatori l’uso di un proprio contenitore personale per portare via le vivande, mentre rischiano di saltare le bustine per salse o altri condimenti.

Per gli hotel resiste il divieto per i prodotti “non essenziali” in plastica monouso, […], creme per le mani, mentre negli aeroporti non vedremo più le pellicole termoretraibili per sigillare le valigie. Restano infine i divieti pensati per una piccola serie di usa e getta, tra cui bicchieri, vassoi, bustine; ma non nella ristorazione […]. 

Esentati da obblighi di riuso le bevande come vini, spumanti, spiriti o prodotti vitivinicoli aromatizzati e, con gioia dei produttori del noto formaggio francese Camembert, anche specifici imballaggi alimentari in legno o cera. L’Italia, leader nelle bioplastiche, porta a casa la tutela delle bioplastiche totalmente compostabili e biodegradabili. Al netto di ciò, i Paesi dovranno comunque garantire una raccolta differenziata del 90% dei materiali contenuti negli imballaggi (plastica, legno, metalli ferrosi, alluminio, vetro, carta e cartone) entro il 2029.

[…]

Imballaggi di plastica e pesticidi: in Europa vince la lobby delle industrie. Stefano Baudino su L'Indipendente il 23 Novembre 2023

Giornata nera per l’ambiente ieri a Strasburgo, dove è passata la linea meno ambiziosa sulla riduzione degli imballaggi in plastica ed è stato bocciato il taglio dei pesticidi entro il 2030. Nel primo caso, sebbene gli obiettivi generali di riduzione dei rifiuti plastici siano stati confermati dalla camera UE, è per ora saltato il divieto di utilizzo per alcuni imballaggi definiti “non essenziali”. Con grande soddisfazione dell’Italia, sono state concordate inoltre anche una serie di esenzioni sugli obblighi del riuso per specifici settori industriali. Nessuna posizione negoziale è stata invece trovata per il tema del taglio dei pesticidi entro il 2030. È stata infatti bocciata la relazione dell’eurodeputata dei Verdi, Sarah Wiener, sulla proposta della Commissione europea incentrata sull’uso sostenibile dei pesticidi, che avrebbe rappresentato il mandato del Parlamento nei negoziati con gli Stati membri.

Con 426 sì, 125 no e 74 astenuti, il Parlamento Europeo ha adottato il mandato negoziale sul regolamento sugli imballaggi e sui rifiuti da imballaggio ridimensionando in maniera assai significativa la proposta originariamente partorita dalla Commissione europea, nonché la relazione passata sul tema in commissione ambiente. Il cuore delle indicazioni iniziali delle istituzioni Ue si muoveva attorno a una serie di specifiche direttrici, tra cui spiccavano il riutilizzo dei contenitori con obiettivi minimi per le aziende, il divieto per gli imballaggi “non essenziali”, la progettazione entro il 2030 della totalità degli imballaggi atta a garantire il riciclo al 100% e percentuali obbligatorie di contenuto riciclato che i produttori sono chiamati a inserire nei nuovi imballaggi. Oggetto delle critiche dell’Italia era in particolare la norma concernente gli obiettivi obbligatori delle aziende sul riuso, rispetto a cui è stata approvata una deroga ove il Paese membro raggiunga l’85% di raccolta separata per il riciclo nel biennio 2026-27. Con il voto dell’Europarlamento è inoltre ufficialmente saltato il divieto di uso per determinate tipologie di imballaggio “non essenziali”, come ad esempio le confezioni monouso per i prodotti da doccia degli hotel e le pellicole termoretraibili per i bagagli negli aeroporti. No anche al divieto di immissione nel commercio di involucri di plastica monouso usati per i prodotti ortofrutticoli, come ad esempio le buste usate per confezionare l’insalata. Un ampio ventaglio di esenzioni è stato poi concesso sugli obblighi di riutilizzo delle confezioni per la vendita di vino e spumante.

Niente da fare anche per la relazione dell’eurodeputata verde Sarah Wiener sulla proposta della Commissione in merito all’utilizzo sostenibile dei pesticidi, respinta con 299 contrari e 121 astenuti (207 i favorevoli). La norma mirava a una riduzione entro il 2030 del 50% dell’uso dei prodotti fitosanitari chimici e del 65% dei “prodotti più pericolosi” rispetto a quello che è stato l’utilizzo medio tra il 2013 e il 2017 (mentre la Commissione aveva proposto per entrambi una riduzione del 50% rispetto alla fase 2015-2017). Il Parlamento ha confermato – come da proposta dell’esecutivo Ue – il no all’uso di pesticidi chimici nelle “aree sensibili”, escludendo però quelli autorizzati per l’agricoltura biologica e il controllo biologico. Dopo averlo bocciato, il Parlamento Europeo ha anche respinto la richiesta di rimandare il testo di Wiener in commissione ambiente. In teoria, in seguito a un intervento del Consiglio, gli eurodeputati avrebbero una seconda occasione di voto, ma non sembrano esserci i tempi per arrivare a un eventuale semaforo verde dell’aula prima della fine della legislatura. Ad occuparsene sarebbe, dunque, il Parlamento che si formerà dopo le elezioni.

Ancora una volta, l’Europa ha perso un’importante occasione per tracciare con i fatti un serio percorso in favore della cosiddetta transizione ecologica. Negli scorsi giorni, d’altronde, è emerso da questo punto di vista un altro indicatore estremamente eloquente: la decisione della Commissione di rinnovare l’utilizzo del glifosato – erbicida inquadrato alcuni anni fa dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’Oms come potenzialmente cancerogeno – per altri 10 anni, obiettivo di un gruppo di multinazionali europee della chimica, che avevano fortemente spinto per tale soluzione. Nel frattempo, negli Stati Uniti, si moltiplicano le sentenze che indirettamente confermano la pericolosità della sostanza. L’ultima, in ordine di tempo, è quella inflitta al colosso Bayer (che ha acquisito la Monsanto), che sarà chiamata a risarcire con oltre 1,5 miliardi di dollari alcuni agricoltori che le hanno intentato causa sostenendo di essersi ammalati di tumore a causa dell’esposizione a un prodotto a base di glifosato. [di Stefano Baudino]

Croce e delizia. Il regolamento Ue sugli imballaggi che piace al governo Meloni e non agli ambientalisti. Giunio Panarelli Roberto Demaio

La posizione dell’Europarlamento è un assist importante per i Paesi più virtuosi nel riciclo, nonostante il riuso – per quanto più costoso – sia più vantaggioso in termini climatici e ambientali. Sorridono, dopo le modifiche approvate il 22 novembre, anche le multinazionali del fast-food

Il governo italiano festeggia, gli ambientalisti meno. È questo, a grandi linee, il risultato delle modifiche approvate mercoledì 22 novembre – lo stesso giorno in cui è stata bocciata la proposta per dimezzare l’uso dei pesticidi entro il 2030 – dal Parlamento europeo al regolamento presentato dalla Commissione per limitare i rifiuti da imballaggi. Il testo originario proposto dall’istituzione guidata da Ursula von der Leyen era molto più audace e puntava, di fatto, a obbligare le aziende a ridurre o riutilizzare le confezioni o scatole dei loro prodotti, ma il Pe lo ha molto mitigato (per certi versi snaturato), venendo incontro alle richieste delle industrie e dei governi in capo ai Paesi più virtuosi nel campo del riciclo, a partire da quello italiano. 

Il percorso di questo provvedimento era iniziato il 30 novembre 2022, quando la Commissione europea aveva presentato la sua proposta di regolamento per provare a ridurre gli imballaggi in Europa. Un regolamento, ricordiamo, è un insieme di misure che tutti gli Stati membri sono tenuti a rispettare in tutti i suoi punti.

Il testo puntava prima di tutto a «prevenire la produzione di rifiuti di imballaggio, riducendone la quantità, imponendo restrizioni agli imballaggi inutili e promuovendo soluzioni di imballaggio riutilizzabili e ricaricabili». Inoltre, obbligava i Paesi membri a «rendere tutti gli imballaggi presenti sul mercato dell’Ue riciclabili in modo economicamente sostenibile entro il 2030».

Queste misure nascevano da una situazione a dir poco complicata: negli ultimi dieci anni i rifiuti di imballaggio sono aumentati di oltre il venti per cento nel territorio comunitario. In caso di inazione, si stimava un ulteriore aumento del diciannove per cento entro il 2030. Nel 2021 ogni europeo aveva generato 188,7 chilogrammi di rifiuti di imballaggio, una cifra che si prevedeva sarebbe aumentata a duecentonove chilogrammi nel 2030 in assenza di interventi efficaci. 

Il regolamento approvato dalla Commissione puntava a ridurre entro il 2040 i rifiuti di imballaggio pro capite per Stato membro del quindici per cento rispetto al 2018 (un obiettivo questo comunque confermato dall’Europarlamento). Secondo le stime, le nuove regole avrebbero portato a un taglio delle emissioni di gas serra derivanti dagli imballaggi pari a quarantatré milioni di tonnellate. Una forte riduzione rispetto alle sessantasei milioni di tonnellate previste senza un’azione: una cifra che equivaleva grossomodo alle emissioni annue della Croazia.

L’idea era quella di puntare quindi sulla messa al bando di alcuni imballaggi considerati inutili e sul riutilizzo (o riuso) degli imballaggi. Premiando quindi meno il riciclo, ossia l’azione che mira a rivalorizzare un prodotto che ha ormai esaurito la sua funzione. Una posizione del genere non poteva certo piacere alle aziende italiane, sempre più specializzate nel riciclo, ma poco aperte a introdurre il riutilizzo nei propri sistemi di produzione. 

Per quanto il riuso sia vantaggioso da un punto di vista climatico-ambientale – permette di non produrre nuovi imballaggi e di non “sprecare” energia nell’eventuale processo di riciclo – dall’altro può essere molto costoso per le aziende inserirlo nelle proprie filiere. 

Per questo motivo sin dal principio sia il governo, sia gli industriali del nostro Paese si erano dichiarati contrari alla proposta della Commissione Ue. Confindustria l’aveva giudicata «insostenibile», mentre la viceministra dell’Ambiente, Vannia Gava, aveva promesso, in un’intervista al Tempo, che l’esecutivo italiano avrebbe «dato battaglia» per convincere Bruxelles ad ammorbidire la sua proposta iniziale. Sul fronte opposto si erano schierate organizzazioni ambientaliste come Greenpeace, che avevano invece approvato il regolamento.

Negli ultimi mesi ad avere la meglio sono però state le cosiddette “lobby della plastica” e i governi a loro volta preoccupati dalle ricadute economiche di questa misura. Tra pressioni e alleanze, anche trasversali alle varie forze politiche, si è arrivati al voto del 22 novembre, quando l’Europarlamento ha definitivamente espresso una posizione che ha ridimensionato di molto il regolamento originariamente presentato dalla Commissione. 

Tra gli emendamenti approvati c’è «una deroga per tutti quei Paesi che, come l’Italia, negli ultimi anni hanno investito in un sistema di riciclo ad alta qualità, tra i più efficienti a livello europeo: chi raggiungerà l’ottantacinque di quota di riciclo degli imballaggi interessati sarà infatti esentato dall’obbligo di riuso». 

Anche i divieti sugli imballaggi monouso sono diventati molto meno stringenti. Non saranno più vietati piatti e tazze usa e getta dei ristoranti, imballaggi monouso per frutta e verdura fresca (sotto 1,5 chilogrammi in origine, sotto un chilogrammo nel testo della Commissione europea), salse, bustine di zucchero e altre bustine monouso. Una vittoria anche per le multinazionali del fast-food che non saranno più obbligate a dover riutilizzare le posate e i bicchieri forniti ai clienti.

Il governo italiano non ha nascosto la sua soddisfazione. In un comunicato, il ministro dell’Ambiente, Gilberto Pichetto Fratin, ha detto che «la posizione negoziale del Parlamento europeo sulla proposta di regolamento imballaggi fa vincere il buonsenso e la scienza».

Dal canto loro gli ambientalisti hanno criticato le modifiche apportate in plenaria dal Parlamento europeo. Sergio Baffoni, Senior Paper Packaging Campaigner dell’Environmental paper network, ha dichiarato che l’esito della votazione è «oltremodo scandaloso: tutte le restrizioni significative sono state eliminate». 

Ora la palla passa al Consiglio Ue, che si esprimerà il 18 dicembre, e a seguire inizieranno le discussioni tra Commissione, Europarlamento e Consiglio (il cosiddetto trilogo). L’approvazione definitiva del testo è prevista entro giugno, prima delle elezioni europee (dal 6 al 9 giugno 2024). I prossimi mesi ci diranno se la realpolitik europea vincerà definitivamente sulle spinte ambientaliste.

Imballaggi, sventato il golpe "green". Storia di Lodovica Bulian su Il Giornale giovedì 23 novembre 2023.

Passa con un testo più morbido rispetto alla proposta iniziale della Commissione Ue, il regolamento europeo sugli imballaggi per il riuso e il riciclo. Ieri la plenaria dell'Eurocamera ha approvato con 426 voti favorevoli, 125 contrari e 74 astenuti la posizione negoziale sulla proposta, e il 18 dicembre toccherà al Consiglio Ue. Diversi emendamenti dei gruppi di maggioranza sono stati approvati prima del voto finale sul pacchetto, combattuto in questi mesi dal centrodestra e dal governo italiano. Contrario per le potenziali ricadute sulla filiera e per l'introduzione del concetto del riuso al posto del riciclo, su cui Chigi ritiene di aver già superato gli obiettivi Ue. «Grande vittoria di Forza Italia e del Ppe con importanti modifiche al regolamento, bloccata la deriva populista sul riuso spinto che penalizza industria e agricoltura», scrive su X il vicepremier Antonio Tajani. Fratelli d'Italia, che con gli emendamenti ha contribuito a modificare il testo, pur votando contro quello finale, rivendica di aver «riportato sulla terra il regolamento Ue sugli imballaggi», spiega il capogruppo di Ecr Nicola Procaccini.

Restano gli obiettivi generali di riduzione degli imballaggi - il 5% entro il 2030, il 10% per il 2035 e il 15% entro il 2040 - ma anche quelli specifici di riduzione dei rifiuti per gli imballaggi in plastica - 10% entro il 2030, 15% entro il 2035 e 20% entro il 2040. Salta però il divieto di immissione sul mercato degli imballaggi monouso usati per i prodotti dal 2027, come ad esempio le buste di plastica per l'insalata. Non saranno banditi nemmeno quelli monouso per alimenti e bevande riempiti e destinati al consumo nei locali del settore alberghiero, della ristorazione e del catering, come conserve, salse, panna da caffè e zucchero, bustine di maionese o di ketchup.

«È una vittoria su tutta la linea, con gli emendamenti del Ppe sostenuti da tutto centrodestra, abbiamo distrutto la proposta della commissione - spiega il relatore del Ppe Massimiliano Salini - Siamo tornati all'obiettivo originario: non ridurre gli imballaggi ma diminuire i rifiuti. La gran parte degli imballaggi monouso a contatto con gli alimenti resterà sul mercato unico europeo. Per esempio, al fast-food non si dovrà quindi bere da bicchieri utilizzati da altri e lavati decine di volte, con enorme spreco di acqua e detergenti».

Procaccini precisa che «abbiamo fermato un testo talebano, ma non è passato un nostro emendamento per escludere del tutto le nazioni che superano l'85% di riciclo dall'obbligo di riuso, per questo motivo ci siamo opposti al testo finale». Rispetto al voto contrario, a differenza di Fi che invece ha votato a favore, fonti di Fdi confermano che ora la palla passerà al governo in fase di triloghi al Consiglio Ue. Di certo, viene spiegato, senza emendamenti «si sarebbe distrutta la filiera produttiva e reso vano lo sforzo fatto negli ultimi vent'anni dalle famiglie per la raccolta differenziata». Per il presidente di Federalimentare, Paolo Mascarino, è stato «trovato un punto di caduta equilibrato che non penalizzasse la nostra industria della raccolta in favore del riuso».

Usi e riusi. Report Rai. PUNTATA DEL 10/07/2023

di Chiara De Luca Collaborazione Marzia Amico 

Quanto si riusa in Italia?

Negli ultimi 10 anni la quantità di imballaggi è aumentata. In Italia è cresciuta di oltre il 20 per cento e così anche i relativi rifiuti. Parallelamente è cresciuto anche il tasso di avvio al riciclo per il quale l’Italia è uno dei paesi europei più virtuosi. Ma il riciclo da solo non basta a ridurre l’impatto dei consumi. L’economia italiana continua a dipendere per più dell’80% da materie prime vergini. A chiederci un cambiamento in questa direzione è l’Unione Europea. La Commissione, infatti, ha proposto un nuovo regolamento sugli imballaggi e i rifiuti da imballaggio che prevede, tra le varie misure, la riduzione degli imballaggi e il potenziamento del riuso accanto al riciclo. Come è stata accolta in Italia la proposta?

USI E RIUSI Di Chiara De Luca Collaborazione Marzia Amico Immagini Paco Sannino, Davide Fonda, Fabio Martinelli e Marco Ronca Montaggio e grafica Michele Ventrone

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il sistema di riciclo italiano è uno dei più virtuosi in Europa, visto il tasso di avvio al riciclo di tutti gli imballaggi pari al 73% e di avvio al riciclo di carta e cartone pari all’85%. Ma questo non basta a contenere la crescita di rifiuti tanto che quelli in cellulosa con 32,7 milioni di tonnellate, sono stati i principali contenuti di imballaggio prodotti in Europa, dal 2009 al 2020. Nel 2021 la Commissione europea nel tentativo di ridurre la produzione di plastica ha introdotto un contributo che gli Stati membri versano al bilancio dell’Unione calcolato in base alla quantità di rifiuti di imballaggio in plastica non riciclati.

GIUSEPPE UNGHERESE - RESPONSABILE DELLA CAMPAGNA INQUINAMENTO GREENPEACE ITALIA Il contributo del nostro Paese è più o meno pari a 800 milioni di euro. Se l'Italia fosse un Paese perfetto in termini di riciclo, il nostro contributo sarebbe pari a zero.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO E mentre i contribuenti italiani dovranno caricarsi i costi del contributo sulla plastica europeo, l’industria italiana si oppone alla tassa che i produttori dovrebbero pagare per ogni kg di plastica monouso immessa a consumo che doveva entrare in vigore nel 2020. Greenpeace ha calcolato quanto il sistema industriale italiano ha risparmiato in 3 anni non pagando la tassa sulla plastica.

GIUSEPPE UNGHERESE - RESPONSABILE DELLA CAMPAGNA INQUINAMENTO GREENPEACE ITALIA L'industria dal 2020 al 2023 risparmierà più o meno 1 miliardo e 200 milioni di euro. Avremmo potuto incentivare negozi che vendono prodotti sfusi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per incentivare i negozi che vendono prodotti sfusi, senza imballaggio, il governo italiano nel 2019 aveva stanziato 40 milioni di euro.

OTTAVIA BELLI - FONDATRICE STARTUP SFUSITALIA Di questi ne sono stati assegnati neanche 600 mila euro: quindi, sono avanzati 39 milioni e 400 mila euro.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO DODICI ENTRATA IMBALLAGGI Alla fine hanno partecipato solo in 200, anche perché gli incentivi riguardavano la copertura delle spese di chi aveva aperto le attività nel periodo del Covid tra il 2020 e il 2021 e alla fine i 39 milioni sono rientrati nelle casse del mef. L’ Ue da tempo cerca di ridurre l’impatto degli imballaggi, chiede di produrne meno a monte, spinge sul riuso anche perché il riciclo da solo non basta e comunque impatta anche sull’ambiente. Ha presentato una nuova proposta, vediamo come l’hanno accolta in Italia, la nostra Chiara De Luca.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La produzione di imballaggi e la gestione dei rifiuti generati è un business che in Europa vale 370 miliardi di euro.

PAOLO AZZURRO - CONSULENTE RIFIUTI ED ECONOMIA CIRCOLARE Chiunque immetta per primo l'imballaggio sul mercato italiano, è tenuto a pagare una cosa che si chiama contributo ambientale Conai.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Conai è il consorzio privato senza fini di lucro per il recupero e il riciclo degli imballaggi istituto nel 1997 dal decreto Ronchi, all’interno del consorzio ad occuparsi del recupero e del riciclo della carta è il COMIECO che riconosce ai Comuni per la raccolta differenziata un corrispettivo economico. I rifiuti poi arrivano nei centri di selezione come questo di Caivano.

RAFFAELLA MARCIANO - REFERENTE AREA CARTA DI GENNARO SPA – CAIVANO (NA) La selezione viene fatta manuale sui nastri o attraverso del personale che provvede a togliere la maggior quantità appunto di materiale non conforme. CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il consorzio Comieco dopo la selezione mette in vendita la carta. Una parte, il 40 per cento, attraverso aste trimestrali. Nel 2022 la vendita di carta da parte di COMIECO è stata pari a 214 milioni di euro. Il restante 60 per cento che non finisce all’asta viene venduto alle cartiere.

ROBERTO SCANTABURLO - AMMINISTRATORE DELEGATO CARTIERE DEL POLESINE – SMERGONCINO (RO) Questo è l’inizio di tutto praticante il nastro trasportatore alimenta con la carta riciclata il pulper con tanta acqua e inizia la fase di spappolamento.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Alle cartiere del Polesine, in provincia di Rovigo, la carta da macero garantita da COMIECO rappresenta il 20 per cento della lavorazione totale.

ROBERTO SCANTABURLO - AMMINISTRATORE DELEGATO CARTIERE DEL POLESINE – SMERGONCINO (RO) Noi siamo costretti a comprare il macero riciclato dai raccoglitori privati. I raccoglitori hanno grosse richieste di esportazione con prezzi molto più alti di quelli nazionali e ci vengono ovviamente a dire: volete la materia prima? Dovete pagarla il prezzo di esportazione. È qua che le associazioni di categoria come Assocarta, COMIECO stessa, dovrebbero tutelarci.

SERGIO BAFFONI - COORDINATORE CAMPAGNA ENVIRONMENTAL PAPER NETWORK il riciclo è limitato normalmente a 4 vite per così dire, poi le fibre diventano talmente piccole che diventano polveri.

CHIARA DE LUCA Ma è tutto riciclabile?

SERGIO BAFFONI - COORDINATORE CAMPAGNA ENVIRONMENTAL PAPER NETWORK Il riciclo ha un limite purtroppo, dovuto alla produzione di materiali il cui design non tiene conto dello smaltimento. Questi bicchieri per tenere un liquido con la carta o metti un film di plastica che allora aggiunge un elemento problematico nella separazione della plastica dalla carta oppure, come in questo caso, è carta cerata e di nuovo impregnazione di cera e rende la carta molto difficilmente riciclabile.

CHIARA DE LUCA Questo qui è il contenitore dove si mettono le patatine fritte.

SERGIO BAFFONI - COORDINATORE CAMPAGNA ENVIRONMENTAL PAPER NETWORK Che quindi hanno molto unto e che quindi contaminerà di olio la carta. L’unto rende irriciclabile il prodotto.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ma riciclare significa anche produrre rifiuti che finiscono in discarica o vengono inceneriti. Nella Cartiera del Polesine lo scarto rappresenta il 15 per cento della carta raccolta. Poi ci sono i costi del riciclo.

PAOLO AZZURRO - CONSULENTE RIFIUTI ED ECONOMIA CIRCOLARE Sono processi industriali che portano con sé consumi di acqua, consumi energia, consumo di materie prime, consumi di sostanze chimiche.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Da solo il riciclo non riesce a frenare l’aumento di consumo di materie prime vergini. In Italia il tasso di utilizzo circolare dei materiali rappresenta solo il 18 per cento.

SILVIA GRANDI - DIRETTORE GENERALE ECONOMICA CIRCOLARE - MINISTERO AMBIENTE E SICUREZZA ENERGETICA Questo è un tema che non è solo nostro, noi siamo comunque i più bravi.

CHIARA DE LUCA Non c’entra che noi siamo i più bravi degli altri, vuol dire che comunque l’80 per cento di quello che noi utilizziamo è composto da materie prime vergini.

SILVIA GRANDI - DIRETTORE GENERALE ECONOMICA CIRCOLARE - MINISTERO AMBIENTE E SICUREZZA ENERGETICA Abbiamo attivato un progetto con l’Ocse per cominciare ad affrontare i differenziali di prezzo perché se il prodotto riciclato è più costoso della materia vergine questo porta a utilizzare ancora la materia vergine.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ed anche per questo motivo che nei mesi scorsi la Commissione europea ha proposto un nuovo regolamento sugli imballaggi e rifiuti da imballaggio.

ADALBERT JAHNZ - PORTAVOCE COMMISSIONE EUROPEA PER L'AMBIENTE L'obiettivo principale di questa proposta è ridurre i rifiuti di imballaggio del 15 per cento per ogni persona residente in ogni stato membro entro il 2030.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Riduzione, riutilizzo e riciclo: sono queste le misure alla base della proposta della Commissione europea.

GILBERTO PICHETTO FRATIN - MINISTRO DELL’AMBIENTE E DELLA SICUREZZA ENERGETICA Comprendiamo la necessità di trovare un punto di equilibrio tra riuso e riciclo ma noi siamo la start up principale europea sul riciclo e dovremmo essere un esempio.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il timore è che le aziende che producono imballaggi saranno costrette a riconvertirsi per offrire una maggiore percentuale di prodotti riutilizzabili. Soluzione che all’industria italiana non piace.

KATIA DA ROS - VICEPRESIDENTE CONFINDUSTRIA - AMBIENTE, SOSTENIBILITÀ E CULTURA La scelta netta verso il riuso invece che il riciclo ovviamente va contro quella che è la nostra tradizione consolidata e quello che è un sistema che funziona bene quindi benissimo che ci sia il riuso però non a scapito del riciclo.

CHIARA DE LUCA Non è a costo zero il riciclo, è comunque un’attività molto energivora.

KATIA DA ROS - VICEPRESIDENTE CONFINDUSTRIA - AMBIENTE, SOSTENIBILITÀ E CULTURA Scusi.

CHIARA DE LUCA Può rispondermi a questa domanda? Mi lascia così, dottoressa De Ros mi lascia sul più bello? CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO La proposta di favorire il riuso insieme al riciclo, non piace neanche a Confartigianato che rappresenta circa 690 mila piccole e medie imprese.

DANIELE GIZZI - RESPONSABILE AMBIENTE ED ECONOMIA CIRCOLARE CONFARTIGIANATO Il sistema che propone la Commissione europea così come è scritto in tempi brevi farebbe salire i costi da 1,2 miliardi almeno a 4 miliardi; spalmiamoli su tempi più lunghi sediamoci a un tavolo e facciamolo diventare sostenibile anche economicamente

ADALBERT JAHNZ - PORTAVOCE DELLA COMMISSIONE EUROPEA PER L'AMBIENTE Le aziende che producono imballaggi monouso dovrebbero cambiare la produzione. Se sei una grande azienda, ti conviene pagare le persone per fare una campagna sui media dicendo che il regolamento ti costerebbe miliardi piuttosto che stravolgere la produzione perché in quel caso devi investire molto di più.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Per ridurre a monte la produzione di imballaggi usa e getta, la Commissione europea propone di eliminare il packaging per i prodotti ortofrutticoli freschi al di sotto di un chilo e mezzo come l’insalata in busta. Una misura che in Italia ha scatenato polemiche. L’europarlamentare della lega Ciocca a Bruxelles si è presentato così.

10/05/2023 ANGELO CIOCCA - EUROPARLAMENTARE LEGA NORD Come non è credibile, come non è rispettoso sostenere che si salva il pianeta togliendo la busta all’insalata.

CHIARA DE LUCA Nel reparto appunto ortofrutticolo ci sono le mele confezionate a 4 con la plastica, i kiwi, le banane... servono questi imballaggi?

DARIO GIARDI - RESPONSABILE SOSTENIBILITÀ ED ECONOMIA CIRCOLARE CONFAGRICOLTURA Ad oggi non abbiamo alternative percorribili.

CHIARA DE LUCA Lo sfuso.

DARIO GIARDI - RESPONSABILE SOSTENIBILITÀ ED ECONOMIA CIRCOLARE CONFAGRICOLTURA Lo sfuso non ci dà le stesse garanzie in termini di sicurezza alimentare di spreco alimentare.

CHIARA DE LUCA La frutta confezionata è più sicura di quella non confezionata, cioè comunque diamo questo messaggio qui?

DARIO GIARDI - RESPONSABILE SOSTENIBILITÀ ED ECONOMIA CIRCOLARE CONFAGRICOLTURA Sicuramente permette una vita sullo scaffale molto più lunga della frutta sfusa.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A essere critico verso il regolamento anche il Conai. Il consorzio con la pratica del riutilizzo degli imballaggi perderebbe il contributo per la raccolta e il riciclo.

CHIARA DE LUCA Ci sarebbe anche un problema economico quindi?

EDO RONCHI – PRESIDENTE FONDAZIONE SVILUPPO SOSTENIBILE Il sistema di riutilizzo va organizzato, eh! Se fai il riutilizzo evidentemente non hai il contributo ambientale del Conai.

CHIARA DE LUCA Dottor Facciotto Buonasera sono De Luca di Report.

WALTER FACCIOTTO - DIRETTORE GENERALE CONAI Buona sera.

CHIARA DE LUCA Sul regolamento, è sulla proposta di regolamento.

WALTER FACCIOTTO - DIRETTORE GENERALE CONAI Dovrebbe chiedere al nostro ufficio stampa, abbiamo un ufficio stampa apposta.

CHIARA DE LUCA Sì, sì però ci hanno detto che non sono disponibili. La aspetto magari perché volevo sapere come mai il Conai si oppone al regolamento.

WALTER FACCIOTTO - DIRETTORE GENERALE CONAI Deve parlare con l’ufficio stampa.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Il Conai con altri operatori della filiera è stato audito dalle commissioni parlamentari di Camera e Senato. Il risultato è stato che entrambe hanno prodotto un parere che mette in evidenza alcune criticità della proposta europea di incrementare il riuso degli imballaggi. Una di queste riguarda la valutazione di impatto ambientale che non sarebbe basata su dati scientifici.

SILVIA GRANDI - DIRETTORE GENERALE ECONOMICA CIRCOLARE - MINISTERO AMBIENTE E SICUREZZA ENERGETICA Gli studi che sono stati fatti dalla Commissione europea sono deboli da questo punto di vista su alcuni punti. Non sono convincenti, abbiamo chiesto un supplemento di analisi.

ADALBERT JAHNZ - PORTAVOCE DELLA COMMISSIONE EUROPEA PER L'AMBIENTE Siamo convinti della qualità della nostra proposta. Abbiamo un sistema molto solido per creare le nostre valutazioni d’impatto.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Dei benefici del riutilizzo degli imballaggi è convinto anche il Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente che ha comparato 89 studi sul ciclo di vita degli imballaggi.

CLAUDIA GIOCOVELLI - RESPONSABILE PROGRAMMA AMBIENTALE DELLE NAZIONI UNITE - UNEP Ci siamo focalizzati su nove prodotti: dalle buste della spesa, ai bicchieri di carta o i bicchieri di plastica, piattini, forchettine, coltelli, i contenitori take away per il cibo. Ovviamente non c'è una soluzione che funziona per tutto. Ciò che noi abbiamo trovato è che effettivamente i prodotti riutilizzabili hanno un impatto ambientale minore rispetto ai prodotti monouso.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Ci sono aziende che hanno introdotto un nuovo metodo per riutilizzare l’imballaggio attraverso il sistema postale.

TOMASO TORRIANI - AMMINISTRATORE DELEGATO MOVOPACK Il consumatore quindi apre il packaging, toglie i sigilli di garanzia monouso, tira fuori il proprio prodotto, ogni nostro prodotto è dotato di questa lettera di vettura prepagata che permette quindi al consumatore di consegnare questo packaging in qualsiasi cassetta postale oggi in Europa e tramite il sistema postale torna a noi.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO A Prato Rifò, la start up che valorizza vecchi indumenti e scarti per trasformarli in nuovi capi di abbigliamento, ha messo a punto un particolare tipo di packaging.

ELEONORA MARINI - RESPONSABILE MARKETING E COMUNICAZIONE RIFÒ LAB Ci siamo inventati fluffypack, ovvero un packaging riutilizzabile, ha la caratteristica di essere fatto attraverso materiale di scarto.

CHIARA DE LUCA FUORI CAMPO Non solo e-commerce: in provincia di Treviso Rent Solution ha messo a punto un impianto di lavaggio a energia solare e a basso consumo idrico per non utilizzare stoviglie monouso in grandi e piccoli eventi.

ROBERTO BASSO - PRESIDENTE RENT SOLUTION Noi noleggiamo concettualmente delle stoviglie pulite per poi lavarle e riconsegnarle pulite. Questo è l’impianto di lavaggio, è composto da 3 stadi di lavaggio a 3 temperature diverse, poi c’è la fase di risciacquo e di asciugatura finale

CHIARA DE LUCA Ma perchè è fondamentale intervenire in questo senso?

CLAUDIA GIOCOVELLI - RESPONSABILE PROGRAMMA AMBIENTALE DELLE NAZIONI UNITE - UNEP Non abbiamo due mondi, abbiamo solo un mondo. Al momento il 95% del valore degli imballaggi è perso dopo un singolo uso. Se continuiamo così entro il 2040 praticamente ci attendiamo che la produzione di plastica si raddoppi rispetto ai dati del 2016.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO TREDICI CHIARA IMBALLAGGI La Corte dei conti europea ha stigmatizzato il fatto che in questi anni poco si è fatto in tema di transizione verso l’economia circolare e infatti i 10 miliardi di euro che sono stati stanziati dall’Ue sono stati spesi dai paesi membri più che nella progettazione circolare ad impedire nuovi rifiuti per gestire quelli che si hanno. Insomma per il riuso bisogna avere delle logistiche dedicate, bisogna raccogliere il materiale a poca distanza, gli impianti del lavaggio e rilavaggio degli imballaggi devono avere dei macchinari efficientissimi dal punto di vista energetico. Insomma contro il riuso è anche il nostro paese, l’Italia, che teme soprattutto l’imposizione da parte dell’Europa di un sistema unico per tutti i paesi membri, non rispettando le singole peculiarità. La nostra è quella di essere virtuosi in tema di riciclo, è contraria anche Confindustria che teme la riconversione di molte delle proprie imprese. Ci sta pensando anche il Conai ma non piace tanto questa proposta, sta valutando l’impatto economico del riuso, lui, che sul riciclo, invece, ci campa. Insomma siamo ancora alle schermaglie iniziali tra paesi membri e Ue e insomma, mentre discutono il mondo continua a sporcarsi.

Perché non si riescono a riciclare tutti i rifiuti tessili. Marina Savarese su L'Indipendente il 27 maggio 2023.

La risposta è semplice e complessa allo stesso tempo. Semplice: si produce sempre di più e, di fatto, il volume del tessile prodotto è aumentato in maniera vertiginosa negli ultimi anni (solo nell’Unione Europea si producono circa 8 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno, tra cui indumenti usati, ma anche lenzuola, tappeti, copriletti, tappezzerie, ecc.). Complessa, perché ad un aumento così consistente non è corrisposto un adattamento delle pratiche di smaltimento onesto, responsabile e pensato in un’ottica circolare (quella tanto cara al Piano d’azione per l’economia circolare firmato nel 2019). Lo smaltimento, in un modo o nell’altro viene fatto, spesso spostando l’eccesso di rifiuti tessili nei paesi in via di sviluppo; in pratica prima li deprediamo delle risorse primarie, poi li ringraziamo inondandoli con la nostra spazzatura (di Waste Colonialism ne avevamo già parlato). Una pratica che non può avere lunga vita e alla quale bisogna trovare alternative valide, utili e concrete.

Rifiuti pre e post consumo

I rifiuti tessili non sono tutti uguali e si dividono prevalentemente in due categorie: pre e post consumo. I rifiuti pre-consumo sono gli scarti di produzione, derivati dalle varie fasi di lavorazione di tessuti e capi: tutto quello che “cade” dal tavolo del taglio o durante la confezione di abbigliamento o tessuti. Il materiale sprecato in questa fase si può aggirare tra il 10-15% fino al 25%. Nonostante i principi di zero-waste (zero rifiuti) ed eco-design (progettazione in ottica circolare) siano ormai entrati a far parte di qualunque conversazione in ambito moda, tra il dire ed il mettere in pratica in maniera concreta ed efficace, c’è sempre di mezzo la buona volontà e la voglia reale di rimettere in discussione tutto il sistema produttivo. In questa categoria rientrano anche i famosi “deadstock”, ovvero quei capi prodotti (con spreco di energia e materie prime) e mai venduti; rimanenze che vengono incenerite, quando va bene, in impianti di termovalorizzazione dove diventano energia (ma sempre in quantità minore rispetto a quanta ne viene usata per produrli).

Nei rifiuti post-consumo rientrano tutti i capi scartati dai consumatori, dopo il loro utilizzo. Il passaggio da abiti a rifiuti è sempre più rapido, alimentato da un sistema a rotazione veloce di capi di bassa qualità. I vestiti, negli armadi, durano sempre meno. L’incremento di questo tipo di rifiuti è aumentato del 40% e di questi, al momento, solo il 15% viene riciclato per rientrare nel circolo del tessile. Il resto è spesso destinato ad utilizzi di minor valore, come imbottiture  di materassi e materiale isolante (quando non finisce dall’altra parte del mondo). Con l’attuale modello produttivo, basato sulla rapidità, sulle quantità abnormi e su un consumo insostenibile, un cambiamento sistemico è necessario. L’impegno, però, deve essere da parte di tutti: dell’industria, che deve investire in innovazioni tecnologiche orientate alla circolarità; del sistema moda, che dovrebbe usare la creatività per costruire nuovi modelli di lavoro; della politica, per aggiornare leggi e regolamentazioni a tutela dell’ambiente e delle persone; dei clienti finali, che dovrebbero essere disposti a cambiare le loro abitudini di consumo. Rallentando. E allontanando il momento in cui i capi diventano rifiuti.

La gerarchia dei rifiuti 

Dallo scorso anno in Italia è diventata obbligatoria la raccolta differenziata del tessile ed entro il 2025 lo sarà in tutti i Paesi dell’Unione europea. Ma per pensare in un’ottica davvero circolare, l’idea è quella di “salvare” il rifiuto e usarlo come risorsa. In economia circolare, infatti, esiste una vera e propria gerarchia dei processi; un ordine di priorità da mettere in atto per gestire un bene prodotto rendendolo il più sostenibile possibile.  Sono le famose “R”, un tempo erano quattro, in questo caso arrivate a dieci, corrispondenti ad altrettante azioni concrete. Partendo da una base di buon senso quasi ovvia, la prima R consiste nel rifiutare, rifiutarsi di produrre più di quanto effettivamente richiesto, evitando le grandi quantità di invenduto. Ripensare (a un sacco di cose), ma soprattutto all’idea di possesso di un bene, sostituibile con servizi di noleggio e condivisione; ridurre il consumo di materie prime vergini (usando quel che già c’è in circolazione); riusare fino allo sfinimento (scegliendo capi di seconda mano); ri-contenere, riutilizzare non solo il capo, ma anche eventuale packaging, e la sana e vecchia abitudine di riparare, allungando la vita degli indumenti. 

Ricondizionare è il processo di upcycling, ovvero la trasformazione di capi dismessi/rovinati in qualcosa di nuovo che ne aumenta il valore grazie alla creatività e al design; ma il tessile si può anche riconvertire in qualcosa di più semplice (downcycling), sempre utile, ma non necessariamente da indossare (da maglione a cuccia del gatto è un attimo). Il riciclo vero è proprio, scomporre il capo, disassemblarlo e distruggerlo per ricreare la fibra tessile da trasformare poi in filati riciclati, è una delle ultime spiagge, proprio perché comporta ulteriore impiego di energie. Energie che si possono produrre dalla termovalorizzazione dei rifiuti tessili non recuperabili in altro modo, ultimo gradino di questa gerarchia circolare (quando non finiscono in discariche a cielo aperto, opzione meno auspicabile ma purtroppo più praticata).

La raccolta, se non gestita in maniera intelligente e responsabile, destinando i capi a vari usi a seconda delle caratteristiche e condizioni, è un’operazione inutile e potenzialmente dannosa. Fortunatamente in Italia ci sono imprese virtuose che si stanno impegnando proprio in questa direzione, tramite progetti tecnologicamente avanzati pensati per la gestione degli scarti tessili e la loro ottimizzazione. Noi, nel frattempo, possiamo rivalutare quel semplice gesto di buttare indumenti, facendolo un po’ meno a cuor leggero. [di Marina Savarese]

 Dove finisce un vestito dopo essere stato buttato nei rifiuti tessili? Marina Morgatta su L'Indipendente il 2 Marzo 2023.

Che fine fanno i capi dismessi una volta finiti nel bidone giusto (bianco, giallo, rosso, secondo le località), ovvero quello dedicato ai rifiuti tessili? Quella che molto spesso pensiamo sia beneficenza in realtà, una volta raggiunto il cestino, è a tutti i livelli spazzatura. E come spazzatura è trattata. L’obbligo per la raccolta differenziata nel tessile è attivo in Italia dal primo Gennaio 2022, su direttiva nazionale; ma sono i singoli Comuni che decidono come e a chi subappaltarne la gestione, tra cooperative, imprese sociali, consorzi, enti no profit. A differenza di altri materiali gettati, dove il Comune paga l’ente gestore perché se ne occupi, per gli abiti è l’azienda che si occupa di generare ricavi della vendita del materiale raccolto, diventando a tutti gli effetti un lavoro dal quale trarne dei profitti (e potendo decidere in libertà di cosa farne dei vestiti buttati).

Il viaggio dell’abbigliamento inizia con la raccolta, durante la quale i capi sono smistati direttamente dall’ente addetto: una cernita molto sommaria è volta a eliminare esclusivamente ciò che non è indumento (tovaglie, lenzuola, tende, ecc.) o scarpe spaiate. In seguito vengono confezionate le “balle”, che sono rivendute ad aziende specializzate nella selezione, le quali si occupano di fare una suddivisione dettagliata del materiale, in base alla qualità: tutto quello che è “di marca” e in ottimo stato di conservazione (ebbene sì, le persone si liberano anche di ciò che è nuovo, spesso anche capi cartellinati) finisce nella categoria “prima scelta”; i capi di fast-fashion tenuti bene finiscono in “terza/quarta scelta”, mentre i capi rovinati sono messi tra il “materiale non più riutilizzabile”. 

Questi ultimi, non più utili ai fini della rivendita al pubblico, sono destinati a realtà che realizzano pezzame, imbottiture, isolanti oppure smaltiti in discarica. La prima scelta è quella che viene ri-venduta a grossisti o negozi di seconda mano in tutto il mercato europeo (che poi ritroviamo tra i banchi dei mercati o in appositi punti vendita). Terza e quarta scelta viene direttamente esportata nei Paesi in via di sviluppo, per essere venduta nei mercati locali (con conseguente sofferenza della creatività e del saper fare del luogo) oppure finire nelle discariche a cielo aperto. 

Quest’ultima pratica è la base del “colonialismo dei rifiuti” (Waste Colonialism), l’ennesimo atto di supremazia degli stati occidentali travestito da beneficenza. Il termine è stato registrato per la prima volta nel 1989 alla Convenzione di Basilea del Programma ambientale delle Nazioni Unite, quando le nazioni africane hanno espresso preoccupazione per lo scarico di rifiuti pericolosi da parte di paesi ad alto PIL in paesi a basso PIL. È un atto di silenziosa dominazione, esercitato con tonnellate di rifiuti tessili che vanno a soffocare i terreni altrui, occupandoli, inquinandoli e togliendo ossigeno a chi ci vive. Di fatto, il sud del mondo si ritrova a essere la discarica a cielo aperto di un nord sempre più orientato al consumismo e alla sovrapproduzione.

Uno dei siti più rilevanti a questo proposito (ma non l’unico) è il Kantamanto Market di Accra, il più grande mercato dell’usato del mondo. Ogni settimana a Kantamanto vengono scaricati circa 15 milioni di articoli: 60 milioni di capi al mese, nella capitale di un paese che ha una popolazione che a stento raggiunge i 30 milioni di persone. I maggiori esportatori in Ghana sono il Regno Unito e il Canada, seguiti da Stati Uniti e Paesi Bassi, quindi Cina, Corea, Australia e altri paesi.

Qui arrivano le famose “balle”, che vengono acquistate a scatola chiusa (senza poter sapere cosa contengono), e ricomincia la cernita, alla ricerca di qualcosa che possa essere rivenduto per generare un minimo di profitto. A volte va bene, altre volte peggio. La verità è che ogni acquisto è una scommessa che va a influire, in primis, sulla precaria economia dei commercianti locali; in secondo luogo, quasi il 40% dell’abbigliamento che arriva a Kantamanto finisce in discarica immediatamente, andando a impattare negativamente sull’ambiente e sulla salute (le foto del deserto di Accra hanno fatto il giro del mondo). Di fatto l’Occidente sposta strategicamente i propri rifiuti il più lontano possibile, costringendo altri a farsi carico della sua spazzatura. Come dire, lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Peccato che questi occhi non siano in grado di vedere che non esiste nessun mercato capace di assorbire gli eccessi di questo stile di vita. E che, in fin dei conti, siamo tutti parte di un tutto: prima o poi pagheremo il conto delle nostre azioni. Anche se fatte a distanza…

EPR: che ognuno si prenda la propria responsabilità 

Di Responsabilità Estesa del Produttore (EPR) se ne parla già da un paio di anni: si tratta di una normativa europea che cercherà di attribuire, a chi immette i prodotti in commercio, i costi ambientali associati alla gestione del fine-vita del prodotto, quando diventa un rifiuto. In sostanza è il marchio che si dovrà fare carico delle operazioni di raccolta differenziata, cernita e smaltimento. In Francia questa normativa esiste dal 2007 e prevede che i produttori di moda dichiarino la quantità di prodotti messi sul mercato, pagando un contributo per la gestione del fine vita. Anche in Olanda esiste qualcosa di molto simile, al quale il governo ha aggiunto la volontà di trattenere almeno il 10% degli abiti usati su territorio nazionale, evitando l’esportazione in Asia e Africa. La Commissione Europea sta lavorando per unificare la proposta in tutti gli stati dell’EU, analizzando pro e contro dei modelli esistenti; per averla effettiva e funzionante sembra si dovrà aspettare la fine di quest’anno. Ma è indubbia e necessaria una presa di responsabilità, della quantità (spesso abnorme) e della qualità (capi difficilmente riciclabili o smaltibili) degli indumenti messi in circolazione dalle aziende. In questo modo si spera di incoraggiare i brand a progettare le proprie collezioni in ottica circolare e limitare il numero uscite annuali, salvandoci da trend e micro-trend dei quali se ne sente sempre meno il bisogno. [di Marina Morgatta]

Miniere Urbane. Report Rai. PUNTATA DEL 26/12/2022

di Michele Buono

Collaborazione di Edoardo Garibaldi

I prezzi delle materie prime aumentano e il cambio climatico è insostenibile.

Noi abbiamo delle miniere in casa: le città. Da dove possiamo estrarre e rimettere in circolo metalli preziosi e plastiche, dare valore ai rifiuti trasformandoli in metano, producendo un gas di origine rinnovabile. La dimensione urbana contiene la miniera della conoscenza che produce ricerca e trasferimento di tecnologie per ridurre Co2 e carburanti fossili. Osservazioni satellitari, estrazione di dati digitali, per misurare la febbre dei territori fino a creare gemelli digitali delle città per provare le strategie di intervento. La frontiera più avanzata dell’economia circolare e della conoscenza.​​​​​

MINIERE URBANE di Michele Buono collaborazione Edoardo Garibaldi immagini Tommaso Javidi, Dario D’India, Cristiano Forti montaggio Veronica Attanasio grafica Gabriele Di Giulio

MICHELE BUONO FUORICAMPO Le città? Ce le siamo inventate noi, non esistevano in natura. Eravamo nomadi, mangiavamo quello che cacciavamo e raccoglievamo quello che c’era e niente più. Poi abbiamo imparato a coltivare, allevare, produrre e conservare. Abbiamo smetto di essere branco, ci siamo aggregati e abbiamo creato ricchezza, conoscenza, diritti e mestieri nuovi. Le città prendono risorse dal pianeta - energia e cibo - e restituiscono scarti e inquinanti. Allora sono un problema le città. No, perché la soluzione è nella dimensione urbana. La città contiene due miniere che non si esauriscono: gli scarti che produce e il sapere per dargli valore e risolvere i problemi.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Conoscenza e scarti prodotti dall’altra. Se siamo consapevoli di questa connessione potremo trasformare quello che consideriamo un problema, cioè le nostre città, in risorsa. Ora siamo arrivati, l’umanità è arrivata a un bivio: continuiamo a fare i cowboy oppure ci trasformiamo in astronauti? Insomma, sembra un bivio bizzarro ma nasconde un’esigenza: la sostenibilità. Ecco, se vogliamo continuar a fare i cowboy dovremo spostare le nostre mandrie di pascolo in pascolo. Una volta esaurito e diventato arido si passa a conquistarne uno nuovo. Ma quanto potremo andare avanti, quanti nuovi pascoli potremmo conquistare? Perché prima o poi finiscono. Ecco, da lì l’esigenza di trasformarci in astronauti. Il problema se l’era posto per prima Kenneth Boulding, è un economista appartenente al movimento dell’economia evolutiva e a quello della teoria generale dei sistemi che ipotizzava la terra come una gigantesca astronave. Ora, è grazie a quella aggregazione dei saperi, che è tipica e che può nascere solamente nelle città, che gli astronauti hanno potuto maturare la cultura e la conoscenza per rigenerare gli scarti che loro stessi producevano. È una questione di sopravvivenza. La guerra, la pandemia, il cambiamento climatico ci hanno sbattuto in faccia le nostre fragilità dopo che ci aveva rassicurato la globalizzazione, una falsa rappresentazione di poter godere in eterno dei beni, delle materie prime. Insomma, è ora di cambiare paradigma e lo dobbiamo fare a cominciare da quelli che consideriamo un problema: cioè le nostre città. Per l’addensamento umano, perché sono energivore, perché producono une quantità enorme di scarti. Ecco, è il momento di diventare astronauti. E possiamo cominciare col sostituire le fonti fossili di energia con quelle rinnovabili. E grazie all’efficientamento potremo diventare quasi autonomi utilizzando i nostri scarti. Il nostro Michele Buono.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Strade dell’Umbria, Foligno. Non ci sono giacimenti di gas da queste parti eppure qui si produce metano.

DAVIDE MINISTRO - RESPONSABILE OPERATIVO IMPIANTO FOLIGNO (PG) La casalinga di Foligno che non si rende conto che cucina gli spaghetti di oggi con quelli che ha buttato via ieri

MICHELE BUONO FUORICAMPO Questa è la ricchezza e il cerchio si chiude qui, in uno stabilimento per la produzione di biometano.

DAVIDE MINISTRO - RESPONSABILE OPERATIVO IMPIANTO FOLIGNO (PG) Questo rifiuto proviene da 22 comuni del territorio… per via prevalente.

MICHELE BUONO Da quali comuni proviene?

DAVIDE MINISTRO - RESPONSABILE OPERATIVO IMPIANTO FOLIGNO (PG) Foligno, Spoleto, Assisi, Perugia, tutta la Valnerina.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Funziona così la miniera urbana: l’estrazione comincia da una raccolta di rifiuti differenziati che tutti i giorni arriva all’impianto di trattamento. La parte verde, che proviene dalle potature di giardini e parchi, diventa compost per l’agricoltura; la frazione organica e umida dei rifiuti è la materia prima per produrre gas attraverso un processo di digestione anaerobica.

DAVIDE MINISTRO - RESPONSABILE OPERATIVO IMPIANTO FOLIGNO (PG) In questo momento stiamo producendo 463 m3/h di biogas che poi viene filtrato convertendolo in metano, in biometano, presso il nostro impianto di upgrading.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Alla fine del processo il metano viene immesso nella rete di distribuzione della municipalizzata locale portando il gas direttamente nelle case dei cittadini.

TOMMASO CASSATA - AMMINISTRATORE DELEGATO ASJA AMBIENTE SPA Abbiamo spiegato che un impianto tecnologicamente avanzato poteva risolvere il loro fabbisogno di trattare i loro rifiuti, abbassare le tariffe che fino a quel punto avevano negli anni pagato, creando una soluzione sostenibile nel tempo.

MICHELE BUONO Quanto produce questo impianto?

TOMMASO CASSATA - AMMINISTRATORE DELEGATO ASJA AMBIENTE SPA Circa 4 milioni di m3 di biometano all’anno, il che vuol dire fare riscaldare fare cucinare circa 3mila famiglie o far muovere circa 600 automobili.

DAVIDE MINISTRO - RESPONSABILE OPERATIVO IMPIANTO FOLIGNO (PG) Questo rifiuto sarebbe andato in una discarica la quale avrebbe emesso metano allo stesso modo ma liberamente in atmosfera.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Il metano ha un impatto sul riscaldamento globale tra le 20 e le 30 volte superiore rispetto all’anidride carbonica. A oggi in Italia ci sono quindici impianti che producono poco più di 100 milioni di m3 di biometano all’anno. Meno di un impianto a regione. È evidente che si potrebbe fare di più, le miniere urbane sono più vaste. Intanto questo impianto è stato acquisito da una società del gruppo Snam.

MICHELE BUONO Fin dove è immaginabile poter alzare l’asticella della produzione?

MASSIMO CENTEMERO - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ITALIANO COMPOSTATORI Intorno a otto miliardi all’anno.

MICHELE BUONO Che cosa occorre per creare questo ecosistema che consenta di produrre otto miliardi di m3 l’anno di biometano?

MASSIMO CENTEMERO - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ITALIANO COMPOSTATORI Incentivi per consentire l’upgrading dell’azienda, il miglioramento, l’innovazione tecnologica.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Invece 8 miliardi di metri cubi di biometano da rifiuti converrebbe produrli perché sono più del doppio della produzione dei giacimenti nazionali, ma manca un coordinamento nazionale: un corpo intermedio tra governo e territorio - ragionerebbe: la maggior parte del gas serve per produrre elettricità e per riscaldare le abitazioni. Se riesco a fare insieme le due cose ho risparmiato quasi la metà del gas, come a Torino. Questa è una centrale elettrica e qui non si sprecano neppure gli scarti che genera.

GIUSEPPE BERGESIO - AMMINISTRATORE DELEGATO IREN ENERGIA SPA Genera degli scarti di calore che però noi invece non scartiamo in questa centrale di cogenerazione di Torino Nord, ma riutilizziamo per produrre del calore da immettere nella rete di teleriscaldamento e tele-riscaldare circa il 70 percento della città di Torino.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Una rete molto ramificata di 700 km di doppia tubazione che porta nelle abitazioni riscaldamento e acqua calda sanitaria.

ENRICO CLARA - DIRETTORE PRODUZIONE TERMOELETTRICA IREN ENERGIA SPA Questi serbatoi in acciaio che vedete alle mie spalle sono gli scambiatori di calore. Il vapore recuperato dai fumi caldi scaricati dalla turbina a gas viene utilizzato per riscaldare l’acqua che circola nella rete di teleriscaldamento.

MICHELE BUONO Altrimenti questo calore che fine farebbe?

GIUSEPPE BERGESIO - AMMINISTRATORE DELEGATO IREN ENERGIA Altrimenti sarebbe disperso nell’atmosfera mentre noi lo riutilizziamo e grazie a questo appunto andiamo a tele-riscaldare circa 700mila persone, togliendo dai condomini di queste persone le caldaie e quindi anche soprattutto i camini.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Grazie a questa centrale di cogenerazione capace di non sprecare gas neanche di notte, quando l’energia elettrica deve continuare a generarla, ma la richiesta del calore prodotta è scarsa. Anche in questo caso, non lo disperde ma lo accumula in questi serbatoi.

ENRICO BASSO - DIRETTORE TELERISCALDAMENTO IREN ENERGIA SPA Quando serve il calore, dalle sei alle otto del mattino che c’è il picco di richiesta da parte dell’utente, questi serbatoi possono scaricare all’interno della rete la loro energia all’interno della quale è stata accumulata

MICHELE BUONO FUORICAMPO A regime in tutto il paese questo sistema contribuirebbe ad abbattere notevolmente il fabbisogno di metano.

GIACOMO SALVATORI – DIRETTORE UNITÀ ECONOMIA CIRCOLARE SOCIETÀ DI RICERC AGICI FINANZA D’IMPRESA Raggiungendo i 38 Twh di calore fornito tramite il teleriscaldamento - questo che è il potenziale massimo che si stima sia raggiungibile in Italia - questo equivarrebbe a 5,7 milioni di tonnellate di Co2, ovvero pari allo spegnimento di quattro milioni di caldaie autonome.

MICHELE BUONO FUORICAMPO E se il teleriscaldamento non arriva, si potrebbe usare una centrale di cogenerazione a km zero, una per palazzo. È piccola ma il principio è uguale: un impianto a motore accoppiato a un generatore produce energia elettrica e contemporaneamente degli scambiatori di calore forniscono acqua calda e riscaldamento per tutti gli appartamenti del palazzo e pure aria fredda. E se si alimenta il motore con biometano da rifiuti, si tagliano le importazioni di fonti fossili perché estraiamo dalle miniere urbane che sono inesauribili.

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ASJA AMBIENTE ITALIA Effettivamente il Totem diventerebbe un generatore di energia termica ed elettrica rinnovabile.

MICHELE BUONO Quale sarebbe l’impatto a questo punto?

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ASJA AMBIENTE ITALIA L’impatto sarebbe fantastico perché avremmo emissioni di Co2 zero.

MICHELE BUONO FUORICAMPO REGISTRARE Quindi taglio delle bollette e aumento di efficienza perché con la stessa quantità di gas si possono fare più cose. Il problema è la burocrazia.

AGOSTINO RE REBAUDENGO - PRESIDENTE ASJA AMBIENTE ITALIA Oggi per installare un Totem abbiamo una quantità di carte quasi come se realizzassimo una centrale più grande per la produzione di energia elettrica, invece un Totem è esattamente come complessità come installare una caldaia.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Per tagliare le fonti fossili e farci bastare le rinnovabili bisogna pensare a un secchio bucato che vuoi riempire di acqua: non aumenti il getto dell’acqua, prima tappi i buchi, devi rendere il sistema efficiente per ridurre la domanda di elettricità. Sennò hai voglia a pompare rinnovabili e tutto il resto. Conoscenza e ricerca, anche questi prodotti delle miniere urbane, aiutano. Torino.

GIUSEPPE GIORDANO - AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE ENERBRAIN Siamo partiti dagli edifici perché gli edifici consumano circa il 40 percento dell’energia mondiale e nello specifico negli impianti di climatizzazione, perché il riscaldamento e il raffrescamento estivo sono responsabili di quasi metà di questi consumi.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Enerbrain, startup cresciuta nel Politecnico di Torino, è un’azienda presente in 13 paesi nel mondo. Ingegneri meccanici ed ingegneri energetici, tecnici, informatici e architetti, sono capaci di fare ragionare un edificio.

MICHELE BUONO Come praticamente?

GIUSEPPE GIORDANO - AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE ENERBRAIN Noi andiamo a installare dei sensori ambientali, sono alimentati a batteria, sono dotati di una connessione radio e misurano i principali parametri di comfort e qualità dell’aria, quindi stiamo parlando di temperatura, umidità e Co2.

MICHELE BUONO FUORICAMPO I sensori insieme a centraline e attuatori vengono installati negli edifici senza modificare gli impianti. I dati raccolti, poi, vengono inviati in cloud insieme alle informazioni sul consumo energetico, mentre un motore di intelligenza artificiale costruisce un modello per determinare la temperatura ottimale degli ambienti in rapporto al loro uso.

GIUSEPPE GIORDANO - AMMINISTRATORE DELEGATO E FONDATORE ENERBRAIN Quindi ad esempio risponde alla domanda “a che ora devo accendere la caldaia la mattina per avere 20 gradi alle 8?”

MICHELE BUONO FUORICAMPO Accensioni e spegnimenti sono comandati da algoritmi in grado di sviluppare strategie differenti in funzione degli edifici: un centro commerciale è differente da una fabbrica, da un ufficio pubblico o da una scuola. Quindi, i sensori rilevano quali sono gli ambienti più frequentati e in quali ore, e il sistema stabilisce zone termiche differenti; mentre l’intelligenza artificiale mette in relazione, di continuo, i dati dell’edificio con i dati meteo a breve termine.

JACOPO TONIOLO - DIRETTORE TECNICO ENERBRAIN Il sistema capisce quanto tempo impiega l’edificio a riscaldarsi e a raffrescarsi e quindi di conseguenza prende decisioni sull’accensione e lo spegnimento per esempio della caldaia o del gruppo frigo e migliora di volta in volta la sua performance diminuendo il tempo d’accensione e in generale l’energia erogata e quindi diminuendo il consumo.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Un cruscotto digitale centralizzato controlla tutte le operazioni, edificio per edificio, ambiente per ambiente e i comandi verso gli impianti partono in automatico.

MICHELE BUONO Il vostro mestiere è quello di fare diventare intelligente un edificio.

JACOPO TONIOLO - DIRETTORE TECNICO ENERBRAIN Esattamente. Soprattutto il nostro mestiere è farlo su edifici che non lo sono, perché far diventare intelligente un edificio da zero, un nuovo edificio del 2022, è un po’ più facile.

MICHELE BUONO Un edificio deficiente che fa?

JACOPO TONIOLO - DIRETTORE TECNICO ENERBRAIN Un edificio deficiente magari ha la caldaia accesa tutto l’inverno, dalle 5 del mattino alle 6 della sera, perché così si è sicuri che a un certo punto si scaldi.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Qual è il risparmio medio di energia che si ottiene?

JACOPO TONIOLO - DIRETTORE TECNICO ENERBRAIN Risparmi variegati: su alcuni edifici abbiamo fatto il 15 per cento di risparmio stagionale e su altri fino al 40.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Questo su 100 edifici, a oggi, nella città di Torino. Mettiamo un recupero di efficienza del 20 per cento degli edifici ….

DAVIDE CHIARONI - PROFESSORE DIPARTIMENTO INGEGNERIA GESTIONALE - POLITECNICO DI MILANO Se estendessimo questa percentuale all’intero parco edifici del nostro paese, quindi ai 12 milioni di edifici residenziali che abbiamo nel nostro paese, arriveremmo a un risparmio di 16 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio l’anno di fabbisogno energetico.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO È l’uovo di Colombo. Se c’è una cosa certa è che le città producono una quantità impressionante di rifiuti. Ora, se ogni città costruisse un suo impianto di biometano potrebbe dare energia ai propri cittadini, acqua calda per il riscaldamento e l’acqua calda sanitaria per uso domestico. Contemporaneamente abbasseresti la CO2, abbasseresti la bolletta dell’elettricità, quella del gas e anche quella dei rifiuti. Sarebbe un modello virtuoso da esportare in tutto il paese e invece che cosa è successo? Che nel Pnrr sono previsti gli spiccioli: circa 200 milioni di euro per finanziare solo 330 chilometri di tubature. Torino da sola ha fatto il doppio, 770 chilometri, e ha potuto fornire elettricità e riscaldamento all’80 per cento dei cittadini. Ora, in scala di potrebbe anche riproporre il modello del cogeneratore per ogni palazzina, alimentato anche questo dal biometano. Potrebbe, se portato a sistema in tutta Italia, spegnere quattro milioni di caldaie. Però, per fare tutto questo, bisognerebbe che governi e ministeri intanto facessero delle leggi che individuassero gli strumenti per attuarle e anche identificassero un soggetto competente terzo, che prenda per mano gli enti locali e cittadini per andare a meta. Ora, tra 30 secondi invece vedremo un meraviglioso esempio di cosa significhi diventare comunità.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Quello che mostreremo ora è un meraviglioso esempio di comunità. è successo in un quartiere problematico di Napoli dove l’ultimo dei problemi era quello di tagliare le fonti fossili di energia, di risparmiare sulla bolletta elettrica. E invece è successo perché ciascuno ha messo a disposizione la propria virtù, come accade per un singolo musicista in un'orchestra, per interpretare una meravigliosa sinfonia.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Napoli, periferia est, San Giovanni a Teduccio. Un tempo quartiere industriale, poi la de-industrializzazione, la disoccupazione, e il degrado che ha cominciato a erodere persone e cose.

MARIA TERESA IMPARATO – PRESIDENTE REGIONALE LEGAMBIENTE - CAMPANIA Parlare di lotta ai cambiamenti climatici a San Giovanni a Teduccio dove ci sono tantissime criticità ambientali non era proprio scontato immaginare di costruire un modello di transizione energetica con il protagonismo delle famiglie.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Legambiente lancia l’idea di una comunità energetica: un grande impianto di pannelli fotovoltaici per produrre energia elettrica rinnovabile e condividerla.

MARIA TERESA IMPARATO – PRESIDENTE REGIONALE LEGAMBIENTE - CAMPANIA Per partire abbiamo raccontato che risparmiamo chiaramente, un risparmio importante in bolletta di circa il 20 per cento.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Fondazione Famiglia di Maria, un’istituzione laica che costruisce progetti sociali con madri e bambini del quartiere, raccoglie e rilancia.

ANNA RICCARDI PRESIDENTE – PRESIDENTE FONDAZIONE FAMIGLIA DI MARIA E poi questa energia solare la trasformiamo, la vendiamo e insieme facciamo comunità e il ricavato lo diamo alle famiglie in difficoltà.

MICHELE BUONO E la loro risposta?

ANNA RICCARDI PRESIDENTE – PRESIDENTE FONDAZIONE FAMIGLIA DI MARIA Che bello! Però a noi piace soprattutto l’idea di partecipare al riscatto ambientale di questo quartiere, per i soldi c’è tempo.

MICHELE BUONO FUORICAMPO A queste famiglie i soldi servono eccome, ma decidono di guardare più lontano.

MICHELE BUONO È solo una storia di pannelli fotovoltaici messi su un tetto?

ANNA RICCARDI - PRESIDENTE FONDAZIONE FAMIGLIA DI MARIA L’idea di questa comunità è nell’aggettivo solidale, ed è qui la differenza: comunità energetica e solidale e poi, se posso dire una cosa, questa narrazione da questo quartiere col riscatto sociale, è la vera diciamo rivoluzione che abbiamo messo in campo.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Il progetto c’è, la comunità pure e con un obiettivo forte. A questo punto arrivano i finanziamenti.

MICHELE BUONO Quanto è costato?

MARIA TERESA IMPARATO - PRESIDENTE REGIONALE LEGAMBIENTE - CAMPANIA 100 mila euro.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Li investe Fondazione per il Sud

VALERIO CUTOLO - FONDAZIONE CON IL SUD Noi abbiamo visto la possibilità di dare un’opportunità alle famiglie del territorio. Questi processi che partono dal basso per noi sono quelli che poi generano impatto sociale e quindi generano sviluppo economico. MICHELE BUONO FUORICAMPO Sono 166 i pannelli fotovoltaici sul tetto della Fondazione, capaci di produrre 53 Kw da condividere tra 40 famiglie del quartiere.

NOEMI PROFENNA È una grande soddisfazione perché siamo riusciti a creare pur nonostante le difficoltà un progetto grande.

GIUSEPPE ESPOSITO - ITALIA SOLARE Parliamo di circa 28 tonnellate di Co2 equivalente che non vengono più emesse in atmosfera perché c’è più bisogno di produrle con fonte fossile, o in equivalenza di circa 40 barili di petrolio equivalente all’anno.

MICHELE BUONO FUORICAMPO In Fondazione sanno che i pannelli fotovoltaici da soli non bastano a fare comunità energetica. Va costruita prima una comunità dove si vince tutti insieme.

BAMBINA Se ci sta il sole, rimaniamo spente le luci.

BAMBINO Abbiamo imparato la plastica non si butta in giro, l’acqua non si spreca …

BAMBINO 2 Di riciclare i rifiuti, di non inquinare il mare

BAMBINO 3 Sto imparando a rispettare le regole.

MICHELE BUONO E stanno capendo che senza regole non si gioca nessuna partita. A San Giovanni a Teduccio in fondazione si apprende l’educazione ambientale. L’uso razionale dell’energia insieme alle lezioni di musica, classe di violoncello.

BAMBINA Abbiamo fatto il La, il Re, il Sol e il Do. Cioè sarebbero le note che stanno sopra al violoncello.

MICHELE BUONO FUORICAMPO L’obiettivo è costruire un’orchestra.

MONIA MASSA – INSEGNANTE DI VIOLONCELLO L’orchestra è la rappresentazione della società.

MICHELE BUONO La sinfonia quand’è che viene fuori.

BAMBINA 2 Quando si sta insieme e ci si aiuta.

MICHELE BUONO FUORICAMPO E solo quando nasce la sinfonia possono acquistare senso e valore anche questi concetti.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Se replicate su tutto il territorio le comunità energetiche possono incidere sulla decarbonizzazione per circa il 30 per cento. Serve una rete elettrica intelligente capace di aggregare le singole comunità e presentarle in rete come vere e proprie centrali virtuali capaci di produrre e distribuire energia rinnovabile, ma occorre la materia prima per produrre nuovi impianti. Dove la recuperiamo? Roma, Enea.

DANILO FONTANA - RICERCATORE LABORATRIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Sono i metalli che abbiamo recuperato e in particolare il rame, l’argento, lo stagno, l’oro e il palladio.

MICHELE BUONO Quindi possiamo dire che si tratta di materiali strategici?

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA - ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Sono materiali assolutamente strategici. Se noi vogliamo fare più turbine eoliche, più pannelli fotovoltaici, vogliamo fare più celle a combustibile, elettrolizzatori, abbiamo più bisogno di questi metalli.

MICHELE BUONO FUORICAMPO La materia prima proviene dalle miniere urbane: sono rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche trattati da un impianto prototipo progettato e costruito dall’Enea.

DANILO FONTANA - RICERCATORE LABORATRIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Una tonnellata di schede elettroniche contiene mediamente 200 grammi di oro, 350 grammi di argento, 130 -140 kg di rame e 40 kg di stagno.

FEDERICA FORTE - RICERCATRICE LABORATORIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Oppure possiamo andare a recuperare le terre rare, un gruppo di elementi definiti in questo modo non tanto perché sono rari in natura ma proprio perché i loro processi di estrazione sono estremamente complessi.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Oltre che costosi ed energivori se effettuati dalla crosta terrestre, con il paradosso di impiegare molta energia fossile per ottenere materia prima utile alla transizione energetica.

MICHELE BUONO Quali sono questi materiali?

FEDERICA FORTE - RICERCATRICE LABORATORIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Abbiamo ad esempio Ittrio ed Eropio che sono contenuti nelle lampade a fluorescenza oppure un’altra terra rara è il Neodimio che è contenuto negli hard disk dei nostri vecchi computer.

MICHELE BUONO È come se avessimo nel nostro paese delle miniere.

DANILO FONTANA – RICERCATORE LABORATORIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Ma in realtà molto più importanti della miniera reale, perché teniamo conto che ad esempio una sabbia aurifera contiene mediamente tre grammi di oro per tonnellata, qua stiamo parlando di duecento, duecentocinquanta grammi di oro per tonnellata.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Grazie a una tecnologia, brevetto Enea, che per valorizzare questi materiali non utilizza alte temperature ma processi idro - metallurgici a base di acqua. Quindi efficienza elevata e impatto ambientale vicino allo zero.

FEDERICA FORTE - RICERCATRICE LABORATORIO RIUSO RICICLO E VALORIZZAZIONE RIFIUTI ENEA - ROMA Attualmente ci stiamo occupando del recupero di Litio e Cobalto e i materiali vari contenuti nelle batterie.

MICHELE BUONO Quanti impianti tipo quello dell’Enea occorrerebbero in Italia per andare a regime?

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA - ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Con cinque impianti idro-metallurgici si dovrebbe riuscire a catturare una porzione interessante di materie prime critiche.

MICHELE BUONO Quanto?

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA - ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Circa cinque mila tonnellate l’anno.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Intanto non aumenta la raccolta e si perdono materiali preziosi. Enea ha lanciato anche un progetto pilota per dimostrare come si costruisce un sistema di raccolta efficiente. Cava de’ Tirreni. Innanzitutto, contenitori intelligenti distribuiti in modo da intercettare agevolmente i cittadini.

MARCO TAMMARO –LABORATORIO RIUSO E RICICLO RIFIUTI ENEA – PORTICI (NA) Qui abbiamo un frullatore, un telefono, un giocattolo cominciamo con la procedura ….

MICHELE BUONO FUORICAMPO Il contenitore è in grado di riconoscere il cittadino che consegna e le tipologie di rifiuti. Finita l’operazione emette uno scontrino con l’indicazione della Co2 risparmiata, grazie al riciclo, e di uno sconto presso una rete di negozi convenzionata, come premio. Metellia - la multiservizi del territorio - svuota, raccoglie e consegna a un deposito che a sua volta invia ai centri specializzati.

MARCO TAMMARO –LABORATORIO RIUSO E RICICLO RIFIUTI ENEA – PORTICI (NA) Nei primi sette-otto mesi del comune di Cava parlano di numeri importanti, oltre i quattro mila chili al mese.

TIZIANA DE SIO – RESPONSABILE AFFARI GENERALI METELLIA SERVIZI Il rischio che si corre nel momento in cui un rifiuto di apparecchiature elettriche ed elettroniche non venga conferito correttamente è che vengano dispersi nell’ambiente e poi rilascino delle sostanze nocive nel terreno e nelle falde acquifere.

MICHELE BUONO FUORICAMPO L’esperimento ha funzionato, ma è un esperimento ed è finito. Romeo, il prototipo dell’Enea, è rimasto un prototipo, non l’ha industrializzato nessuno.

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA - ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Una cosa che veramente manca è proprio l’investitore, un investitore …

MICHELE BUONO Ma l’investitore ti arriva se gli viene spianata la strada, l’investitore deve avere la sicurezza dei propri investimenti ….

MICHELE BUONO FUORICAMPO Per industrializzare il prototipo dell’Enea dovrebbe nascere un mercato grazie a un sistema di raccolta a regime dei materiali, quindi si potrebbero organizzare perlomeno cinque centri in tutta Italia per il trattamento delle apparecchiature e l’estrazione dei metalli.

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Centri di raccolta di rifiuti che potrebbero essere centri in cui ad esempio si fa la riparazione di dispositivi elettronici, che quella è l’altra cosa importante

MICHELE BUONO Meno importazioni?

PIERLUIGI FRANCESCHINI - DIRETTORE HUB SUD EUROPA ISTITUTO EUROPEO INNOVAZIONE E TECNOLOGIA MATERIE PRIME Meno importazioni quindi rischio geopolitico più basso.

MICHELE BUONO Solo che ce lo stiamo a raccontare.

MICHELE BUONO FUORICAMPO La plastica. È parte integrante della nostra vita la plastica. Costa di meno del legno e del ferro, si può modellare in qualsiasi modo ma ci mette più di cento anni a biodegradarsi. Bedizzole, Brescia. Stabilimento Myreplast per il riciclo della plastica.

MARCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO MYREPLAST INDUSTRIES Questi, per esempio, sono paraurti che arrivano direttamente da un’autodemolizione e qui abbiamo un altro esempio di materiale da casse o cassoni della frutta mescolato con cassonetti distrutti o bagni chimici dismessi.

MICHELE BUONO FUORICAMPO A questo punto inizia il processo per dare a questi rifiuti plastici una seconda vita.

MARCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO MYREPLAST INDUSTRIES Qui è dove fisicamente avviene la selezione dei polimeri e la separazione in quanto ci sono dei lettori ottici che riconoscono le varie tipologie di plastica e li separano.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Riciclo meccanico e trattamento chimico garantiscono alla fine del processo granuli di purezza e qualità elevata pronti a ritornare nuovi prodotti. E tutto questo, volendo, potrebbe diventare un ciclo infinito. La plastica vergine invece deriva dal petrolio raffinato.

MICHELE BUONO Quindi rigenerare all’infinito la plastica che cosa comporta?

MARCO RIZZO – AMMINISTRATORE DELEGATO MYREPLAST INDUSTRIES Evita di non consumare petrolio, di non estrarre fossile dal terreno e quindi di inquinare meno.

PIERPAOLO CRISTOFORI - PRESIDENTE MYREPLAST INDUSTRIES Da conti che noi abbiamo fatto risparmiamo l’anno circa 100 mila tonnellate di terreno per la discarica. Per ogni chilo che noi ricicliamo siamo in grado di far risparmiare al sistema circa un chilo e tre, un chilo e quattro di anidride carbonica.

MICHELE BUONO FUORICAMPO In Italia si producono ogni anno sei milioni e mezzo di tonnellate di plastica e ne viene riciclato solo un milione e mezzo. Questo stabilimento ne lavora quarantamila l’anno con un’efficienza del 95 percento. Si ricicla quasi tutto.

MICHELE BUONO Questo sistema si può estendere sul territorio nazionale?

PIERPAOLO CRISTOFORI - PRESIDENTE MYREPLAST INDUSTRIES Non solo costruendo più impianti ma creando i diversi ecosistemi che consentiranno a questo impianto di lavorare. Ha bisogno di tutta una catena di fornitura, autorizzata, certificata, qualificata, che poi possa produrre i materiali che poi noi o aziende come la nostra saranno in grado di riciclare.

MICHELE BUONO Il modello economico di questo tipo di impianto sta in piedi economicamente o ha bisogno di sovvenzioni pubbliche?

PIERPAOLO CRISTOFORI - PRESIDENTE MYREPLAST INDUSTRIES No, questo è un mondo che oggi sta in piedi noi stiamo in un’industria la cui domanda cresce dal cinque al dieci percento l’anno.

MICHELE BUONO FUORICAMPO C’è solo bisogno di certezze per investire: miniere urbane attive in tutto il Paese per estrarre la materia prima. Senza materia prima chi investirebbe in qualsiasi impianto di trasformazione?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nessuno, manca sempre qualcosa per chiudere il cerchio. In Italia produciamo 6 milioni e mezzo di tonnellate di rifiuti di plastica e ne recuperiamo solo un milione e mezzo. Che fine fanno gli altri cinque milioni? Ora, abbiamo visto l’esempio di quell’impianto, unico in Italia per caratteristiche, che è capace di riciclare all’infinito il 90 per cento di tipologie di plastica ma è un esempio unico perché manca la rete, cioè manca la garanzia di raccogliere e fornire la materia prima. Così come manca la rete nel progetto Romeo dell’Enea, cioè quello per raccogliere e rigenerare il materiale elettrico ed elettronico. Eppure, abbiamo visto quanto sarebbe importante perché si recuperano materiali preziosissimi, metalli preziosissimi. Addirittura, da una tonnellata di schede elettriche, elettroniche si recupera 250 grammi di oro. Tanto per farvi capire la potenzialità, dall’equivalente tonnellata di sabbia aurifera si recuperano tre grammi d’oro. Tre grammi contro 250. Insomma, ecco, sarebbe utile però manca la rete come manca la rete e un progetto politico anche per quello che riguarda la comunità energetica. Un esempio meraviglioso di comunità l’abbiamo visto nel caso di San Giovanni a Teduccio dove una fondazione ha deciso di installare dei pannelli fotovoltaici sui propri tetti ed è diventata hub di energia pulita. E con l’aiuto di una scuola è diventata anche hub di cultura ambientale, hub di integrazione sociale. Ecco, un esempio bellissimo. Perché tutte le scuole d’Italia non le trasformiamo, visto che sono l’ultimo baluardo della comunità, in hub di energia pulita? Potrebbero diventare poi a loro volta hub di cultura ambientale perché proprio nell’ambito della formazione del cittadino tu puoi avviare una seria rivoluzione ambientale. Ecco, però sono solo piccoli frammenti. Poi, per sfruttare a pieno le potenzialità delle miniere urbane bisognerebbe raccogliere i dati, elaborarli e metterli a disposizione di tutti, chiedere alle altre città: be’, tu cosa hai da mettere? Tu cosa vorresti? Solo se si porterà a termine, se si chiuderà questo cerchio allora si potrà dare vita a una gigantesca comunità. In Francia hanno addirittura creato il gemello della città, un gemello virtuale che ha anche un suo manager.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Alziamoci di scala e aggiungiamo, al sistema da costruire, l’osservazione della Terra per estrarre i dati prodotti dai territori e dalle città. Occorre un’infrastruttura tecnologica nazionale. Leonardo - azionista principale è il ministero del Tesoro - la possiede: dall’areo-spazio, alla sicurezza all’elaborazione dei dati. Simuliamo il ruolo di Leonardo nell’ecosistema. MICHELE BUONO Voi che cosa mettete a disposizione?

ALESSANDRO PROFUMO - AMMINISTRATORE DELEGATO LEONARDO Noi abbiamo una presenza forte nella geo osservazione della Terra, abbiamo grandi capacità nel monitoraggio di pezzi del territorio con altri tipi di sensori, dai radar ai droni all’infrarosso a quant’altro, abbiamo capacità di calcolo abbiamo intelligenza artificiale. Mettere insieme tutti questi fattori consente appunto di portare questa capacità alle città.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Agenzia Spaziale Italiana, osservatorio di Matera. Quando il satellite Prisma arriverà sullo zenith di questa antenna inizierà a scaricare dati.

FRANCESCO LONGO – CAPO DIVISIONE OSSERVAZIONE TERRESTRE AGENZIA SPAZIALE ITALIANA Si inizia a vedere eccolo qui...ok l’acquisizione è partita il satellite Prisma sta iniziando a scaricare i dati del sensore iper-spettrale.

MICHELE BUONO FUORICAMPO È uno strumento elettro-ottico - il più potente al mondo - realizzato da Leonardo. È costituito da sensori capaci di analizzare dettagliatamente ciò che lo strumento vede.

FRANCESCO LONGO – CAPO DIVISIONE OSSERVAZIONE TERRESTRE AGENZIA SPAZIALE ITALIANA Guardano ad esempio le discariche, guardano ad esempio lo stato del nostro ambiente

MICHELE BUONO Praticamente il satellite è capace di leggere la firma chimica di oggetti, di cose che ci sono sul suolo, per terra?

FRANCESCO LONGO – CAPO DIVISIONE OSSERVAZIONE TERRESTRE AGENZIA SPAZIALE ITALIANA Assolutamente sì. Ad esempio, nel caso di emissioni di un gas, riconoscere la firma del metano. Questo è importantissimo per capire, ad esempio sia per monitorare il metano in quali aree viene emesso, ma anche nell’ottica di un possibile sfruttamento del metano stesso.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Recuperando a colpo sicuro la frazione umida, da una discarica abusiva, per produrre biometano, per esempio. Roma, sala di controllo di Leonardo. Il satellite ha individuato materiali abbandonati in una zona molto ampia.

MICHELE BUONO È possibile prima di mettere sotto sequestro l’area capire che cosa può essere messo a valore?

MASSIMO TEDESCHI – DIVISIONE CYBER & SECURITY LEONARDO Nel caso di specie potremmo utilizzare un drone che può essere inviato direttamente dalla struttura operativa sul posto.

MICHELE BUONO FUORICAMPO E capire in tempo reale se ci sono metalli o rifiuti plastici o di apparecchiature elettriche ed elettroniche, anche queste, da trasformare in valore. Leonardo sede di Genova. C’è Da Vinci 1 nell’infrastruttura tecnologica, uno dei cento computer più potenti al mondo: cinque milioni di miliardi di operazioni al secondo, capacità di memorizzazione 20 milioni di gigabyte. Potrebbe gestire tutti i dati delle miniere urbane, processarli e creare scenari strategici rapidi con l’intelligenza artificiale.

ALESSANDRO PROFUMO - AMMINISTRATORE DELEGATO LEONARDO Un piccolo comune della Sicilia può utilizzare la capacità di calcolo del nostro super computer di Genova. Proprio perché essendo organizzato con la logica del cloud ha la capacità di portare i dati presso l’utente.

MICHELE BUONO FUORICAMPO In modo che tutti, nessun territorio escluso, possano usufruire del sistema per ottimizzare, per esempio, i consumi di energia e migliorare l’ambiente. Roma. EGeos. Gruppo Leonardo. Isole di calore della città metropolitana di Milano. Satelliti Sentinel Copernicus.

PAOLO MINCIACCHI - AMMINISTRATORE DELEGATO EGEOS - GRUPPO LEONARDO Allora i satelliti in questo caso specifico hanno dei sensori termici, quindi questi sensori consentono di rilevare quella che è la temperatura al suolo.

MICHELE BUONO Che differenza di gradi ci sono tra quelle zone colorate in rosso intenso e le altre?

PAOLO MINCIACCHI - AMMINISTRATORE DELEGATO EGEOS - GRUPPO LEONARDO Ci possono essere anche quattro, cinque, sei gradi di differenza.

MICHELE BUONO FUORICAMPO In che modo? Grazie all’integrazione dei dati: Sentinel percepisce il calore al suolo, Prisma vede - oltre alle emissioni - la tipologia del costruito, se ci sono coperture metalliche o in PVC; la piattaforma X ‘20 ‘30 di Leonardo mette in relazione tutti i dati con altre informazioni del territorio.

MASSIMO TEDESCHI – DIVISIONE CYBER & SECURITY LEONARDO Immagini che possono derivare da telecamere presenti sul territorio o dati che possono derivare da vari sensori disponibili.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Si ottengono così risposte mirate per curare la febbre del suolo. L’amministrazione di una città, quindi, potrebbe intervenire a colpo sicuro su una scala di quartiere: la temperatura è più alta per il traffico, per i consumi energetici degli edifici, magari le superfici dei tetti son troppo scure? E allora tetti verdi con piante e vernici riflettenti dove serve. Milano.

MARIA CHIARA PASTORE - DIRETTORICE SCIENTIFICA PROGETTO FORESTAMI - POLITECNICO DI MILANO Questa mappa ci indica lo stato di fatto della città metropolitana dal punto di vista delle temperature.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Parla chiaro la mappa: le temperature più alte si concentrano nella parte nord della metropoli. Quindi azioni mirate: Parco nord, forestazione urbana.

FABIO CAMPANA – RESPONSABILE SERVIZIO AMBIENTE PARCO NORD MILANO Questo è il biancospino abbiamo degli olmi, frassini, questa è una quercia

MICHELE BUONO Quanto tempo ci vuole perché diventino alberi?

FABIO CAMPANA – RESPONSABILE SERVIZIO AMBIENTE PARCO NORD MILANO I boschi piantati ex novo, nel giro di cinque-otto anni hanno l’aspetto da giovane bosco.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Si chiama Forestami il progetto della città metropolitana di Milano in collaborazione con il Politecnico.

MICHELE BUONO A oggi quanti alberi sono stati piantati?

RICCARDO GINI - DIRETTORE PARCO NORD MILANO 300mila MICHELE BUONO L’obiettivo qual è?

RICCARDO GINI - DIRETTORE PARCO NORD MILANO Innescare dei processi per cui Forestami porti la città metropolitana ad avere da qui al 2030, tre milioni di alberi in più.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Una foresta urbana che si costruisce grazie all’estrazione e all’elaborazione dei dati.

MARIA CHIARA PASTORE - DIRETTORICE SCIENTIFICA PROGETTO FORESTAMI - POLITECNICO DI MILANO Abbiamo intanto lavorato dal punto di vista dei satelliti e dei data base ci sono delle mappe interattive che ci permettono di capire effettivamente quanti alberi le zone della città metropolitana possono ospitare. MICHELE BUONO Che cosa è capace di fare un albero o un gruppo di alberi?

MARIA CHIARA PASTORE - DIRETTORICE SCIENTIFICA PROGETTO FORESTAMI - POLITECNICO DI MILANO Innanzitutto, permettono il raffrescamento dell’aria, della temperatura nell’ambiente circostante.

MICHELE BUONO Di quanto? Facciamo un esempio.

MARIA CHIARA PASTORE - DIRETTORICE SCIENTIFICA PROGETTO FORESTAMI - POLITECNICO DI MILANO Due gradi. Ogni albero circa assorbe 15 chili di Co2 all’anno.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Che per tre milioni di alberi fanno 45mila tonnellate di Co2 che si potranno eliminare ogni anno solo nella città di Milano. E abbassare la temperatura anche di due gradi significa abbattere i consumi energetici dell’aria condizionata.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Sono altri dati questi, utili ad elaborare strategie perché solo quando estrarremo sempre più dati digitali prodotti dalle città, e li incroceremo, ci potrà apparire una trama, un gemello virtuale della città: la nostra storia. Allora sarà tutto più chiaro per decidere che direzione farle prendere perché potremo scrivere i progetti; vedere subito gli effetti, e se non ci piacciono riscriverli nel mondo virtuale. Nel mondo virtuale si può ritornare indietro, nella realtà no. Parigi. Dassault Systèmes. Qui si realizzano copie virtuali, praticamente dei gemelli digitali di aeroplani, di automobili, di un corpo umano, per fare prove di interventi e passare al mondo reale solo dopo essere certi dei risultati nel mondo virtuale. Questo è il gemello digitale della città di Rennes.

SIMON HUFFETAU - VICEPRESIDENTE INFRASTRUTTURE E STRATEGIE URBANE DASSAULT SYSTÈMES 2019-2022 Possiamo immaginare scenari differenti nel mondo virtuale, misurare l’impatto di ognuno e scegliere in base ai risultati immediati, per esempio quello che produce meno Co2. MICHELE BUONO FUORICAMPO Si prova a intervenire sulla mobilità. Si costruiscono scenari incrociando dati del trasporto pubblico e privato con dati socioeconomici, in rapporto agli orari di lavoro e ai percorsi, e si provano fino a che non diminuisce la mobilità privata e non si fluidifica il traffico.

CLEMENT CHAUDAT - CONSULENTE TECNICO DASSAULT SYSTÈMES I dati prendono vita quando sono inseriti all’interno di un modello. Questo permette, nel caso di una rigenerazione di un quartiere di vedere immediatamente problemi e risultati.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Perché c’è tutto quello che c’è da sapere nel gemello di Rennes, strada per strada, edificio per edificio e pure su chi ci abita.

SIMON HUFFETAU - VICEPRESIDENTE INFRASTRUTTURE E STRATEGIE URBANE DASSAULT SYSTÈMES 2019-2022 Ogni colore indica il consumo energetico degli edifici

MICHELE BUONO Vedo colori diversi, rosso bianco verde giallo, che cosa indicano?

SIMON HUFFETAU - VICEPRESIDENTE INFRASTRUTTURE E STRATEGIE URBANE DASSAULT SYSTÈMES 2019-2022 Il colore blu indica gli edifici con riscaldamento elettrico e le sfumature di colore l’efficienza energetica di ogni edificio. Incrociando poi i dati tecnici con i dati socioeconomici è possibile capire che in questo quartiere in giallo ci sono molte abitazioni con una sola persona con un reddito medio basso, con riscaldamento elettrico e un cattivo isolamento dell’immobile. Il decisore politico può quindi sapere dove è più urgente intervenire anche con azioni di sostegno economico.

MICHELE BUONO FUORICAMPO Esiste la possibilità quindi di costruire piani senza disperdere risorse. Rennes amministrazione della città metropolitana. MICHELE BUONO Poter contare su un gemello digitale della città come ha modificato la vostra politica e le modalità d’intervento?

YANN HUAUMÉ - VICEPRESIDENTE TRANSIZIONE DIGITALE CITTÀ METROPOLITANA DI RENNES Ha cambiato la nostra visione e il rapporto con i cittadini, oggi sono maggiormente coinvolti perché è tutto molto più chiaro. Il gemello digitale ci permette di guardare ogni tema nella sua complessità in modo trasversale e sta facilitando il nostro lavoro.

MICHELE BUONO FUORICAMPO I temi sono complessi, i problemi trasversali, la dimensione globale. Il modello dovrebbe avanzare di città in città, come se fossero tanti quartieri di un’unica metropoli, il pianeta Terra.

MICHELE BUONO La tecnologia così com’è oggi permetterebbe di alzarsi su scala planetaria con un gemello virtuale che vede un’unica città globale?

SIMON HUFFETAU - VICEPRESIDENTE INFRASTRUTTURE E STRATEGIE URBANE DASSAULT SYSTÈMES 2019-2022 Oggi il freno non è la tecnologia. Il limite è nell’immaginazione di come si potrebbe usare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO In Francia una società privata, la Dassault Systemes, ha realizzato il gemello virtuale di una città, Rennes. E c’è anche un manager, il vicepresidente della città digitale. Che fa questo? Monitora i dati e in particolare i dati del traffico e può modularlo, può fare delle simulazioni sul gemello virtuale e modificarne i flussi in base agli orari o anche decidere su quali strade far passare il traffico. Monitora anche gli edifici, edificio per edificio, e vede quanto consuma, se è efficientato dal punto di vista energetico. E tutti questi dati possono essere uniti poi a quelli socioeconomici e magari scopri che in quegli appartamenti ci sono delle persone sole che hanno anche un basso reddito. Ecco, quando hai insieme tutti questi dati un decisore politico può decidere se intervenire con degli incentivi per rendere più efficiente quel tipo di appartamento per evitare le dispersioni di calore e aiutare anche il cittadino che è in difficoltà. Ecco, immaginate se questo modello fosse stato applicato nell’elargizione invece degli incentivi del superbonus, il 110. E non è un caso che Simon Huffeteau è stato praticamente arruolato come consulente del presidente Macron per gli investimenti sull’efficientamento energetico. Ecco, ma tutti questi esempi servono poco se non si elevano a scala mondiale. Le questioni energetiche, quelle del cambiamento climatico, non hanno confini. La soluzione è quella di ipotizzare il pianeta come una gigantesca comunità. Il progetto è ambizioso? Sì, sicuramente lo è però presto la realtà ci sbatterà in faccia una considerazione: siamo tutti sulla stessa astronave. E non possiamo dire di no perché le tecnologie ci sono, bisognerebbe cominciare a partire dalla cultura, a lavorare nelle scuole di tutto il mondo, trasformarle in hub, hub di energia pulita, di rivoluzione ambientale. Perché là si formano i cittadini del futuro e da quei cittadini nasceranno i politici del futuro, quelli che prenderanno la decisione più giusta per il nostro mondo. C’è un modo migliore per riempire di contenuti la parola comunità?

RICICLO E GUADAGNO. Redazione su L'Identità il 21 Dicembre 2022

di ANGELO VITOLO

Nel nostro Paese la quasi totalità delle lattine in alluminio delle bevande che arrivano sul mercato viene riciclata, il 90,4%. Un record che ha una spiegazione, illustrata dal recente Rapporto 2022 sul Riciclo della Fondazione per lo Sviluppo Sostenibile: “La produzione di 1 kg di alluminio di riciclo ha un fabbisogno energetico che equivale solo al 5% di quello di 1 kg di metallo prodotto a partire dal minerale: èsoprattutto per questo motivo che i rottami di alluminio hanno una valorizzazione economica”.

Il riciclo non è solo sostenibilità, ma un guadagno per l’industria. A ribadirlo è il Cial, il Consorzio Nazionale che da circa 25 anni promuove in Italia la raccolta, il riciclo e il recupero del packaging in alluminio. Un dato che conferma la validità e l’efficacia del modello nazionale di raccolta differenziata, che nel corso degi anni ha rappresentato in assoluto una buona pratica riuscendo a raggiungere risultati in linea o addirittura superiori a quelli dei Paesi che hanno adottato il sistema di deposito con cauzione, il pagamento da parte del consumatore di una piccola somma aggiuntiva al prezzo del prodotto, il suo rimborso al momento della restituzione dell’imballaggio.

Come spesso è ripetuto dal Cial, l’alluminio è un materiale permanente a tutti gli effetti e riciclabile all’infinito, poiché conserva in eterno le sue proprietà strutturali. Quindi, lungo lo Stivale, la lattina in alluminio è da sempre il contenitore per bevande più riciclato. Ora, il traguardo cui si lavora è il 100% di riciclo delle lattine per bevande entro il 2030. Cui il CIAL punta affiancando alla tradizionale raccolta differenziata svolta sui territori locali una serie di iniziative specifiche, come quella avviata fin dal 2007 a bordo delle più grandi navi da crociera che attraversano i mari italiani. Ciò, nel quadro del programma “Every Can Counts” al quale concorrono 19 Paesi dell’Unione europea più il Brasile e che da tempo mettono in campo raccolte “on the go” e negli spazi aperti, dai parchi alle spiagge, dai luoghi di lavoro a quelli di ritrovo di grandi eventi, innanzitutto musicali.

Grazie a questo impegno, la filiera italiana del packaging in alluminio è ai primi posti in Europa ove ha oltrepassato gli obiettivi di riciclo. Siamo i primi per i più alti tassi di riciclo ai minori costi possibili. E vantiamo il contributo ambientale pagato dalle imprese per favorire la raccolta e il riciclo del packaging in alluminio, con 7 Euro per tonnellata, che è il più basso del nostro continente.

Primi non solo per il riciclo delle lattine delle bevande ma anche per le altre frazioni di tutte le componenti del packaging in alluminio: bombolette, vaschette, scatolette, foglio sottile, tubetti, tappi e chiusure, che fanno forte una filiera che è completamente circular e sostenibile, se si considera che dal 2020 al 2022, grazie al riciclo di 151.700 tonnellate di imballaggi in alluminio, sono state evitate emissioni serra pari a 1.107mila tonnellate di CO2 e risparmiata energia per oltre 476mila tonnellate equivalenti di petrolio.

Sostenibilità che si accompagna alla ricerca, che ha sviluppato in un ventennio soluzioni per il risparmio produttivo ed energetico. Per esempio, il peso di una lattina per bevande da 33 centilitri è passato da 14 grammi del 2000 ai 12,2 grammi dei giorni nostri, con un calo del 12%. Per la tutela e la salvaguardia dell’ambiente, grammi che si evidenziano “pesantissimi” perché, moltiplicati per i milioni di lattine ogni anno prodotte, significano tonnellate di metallo risparmiate nell’industria.

L’oro dai rifiuti. Redazione L'Identità il 17 Dicembre 2022

Il riconoscimento del ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin (“Edo Ronchi è stato il padre di una legge importante”) al “padrone di casa” per il via della presentazione del Rapporto sul Riciclo 2022, in occasione della Conferenza nazionale promossa dalla Fondazione Sviluppo Sostenibile di cui l’ex ministro è presidente. Poi, numeri, dati e proposte, come da anni Ronchi ha fa con la Fondazione per guidare una possibile manovra sui rifiuti, nel corso dei decenni sempre più improntata al necessario collegamento tra imprese, territori, comunità e Consorzi di filiera.

I numeri sono più che soddisfacenti, a 25 anni da quel Decreto che proprio Ronchi volle. Dall’emergenza rifiuti che generò il caos in Italia si è arrivati all’eccellenza nel riciclo e oggi l’Italia è leader europeo del riciclo dei rifiuti, con la sua filiera che gode di una crescita costante quantitativa e qualitativa. Nel 1997 la raccolta differenziata dei rifiuti urbani era solo del 9,4 % , l’80% dei rifiuti finiva in discarica e soltanto il 21% dei rifiuti industriali veniva riciclato, con una quota superiore della metà, il 33% che andava ad aumentare i volumi delle discariche.

Solo 2 anni fa, invece, la raccolta differenziata dei rifiuti urbani è arrivata al 63% e lo smaltimento in discarica è sceso al 20%, mentre il riciclo dei rifiuti industriali ha superato il 70% e lo smaltimento in discarica è sceso al 6%.

La filiera è ormai industry, con 4.800 imprese, 236.365 occupati e un valore aggiunto di 10,5 miliardi aumentato del 31% in 10 anni – Ronchi commenta soddisfatto: “Averla, una crescita così oggi!” – e che produce 12milioni e 287mila tonnellate di metalli, in gran parte acciaio; 5 milioni e 213mila tonnellate di carta; 2 milioni 287mila tonnellate di legno truciolare; 2 milioni e 229mila tonnellate di vetro riciclato; 1milione e 734mila tonnellate di compost e 972mila tonnellate di plastica riciclata. Dal 2014 al 2020, la produzione è aumentata del 13,3%. E 2 anni fa il nostro Paese ha riciclato il 72% di tutti i rifiuti, urbani e industriali. Un record europeo, (il 53% la media Ue e il 55% quella della Germania), con un tasso di utilizzo di materiali riciclati sul totale dei materiali consumati al 21,6% (media Ue 12,8%, 13,4% in Germania).

Sugli imballaggi, poi, siamo al top con più di 10,5 milioni di tonnellate avviate a riciclo e un tasso pari al 73,3% nel 2021, superiore non solo al target europeo del 65% al 2025 ma, con 9 anni di anticipo, anche a quello europeo del 70% al 2030.

Ora “servono – afferma Ronchi – misure incisive per rafforzare la domanda di materie prime seconde prodotte col riciclo, oltre a interventi strutturali per affrontare il rincaro dei costi energetici, per l’industria del riciclo quota maggiore dei costi di produzione”.

Una preoccupazione riflessa nella proposta declinata riguardo all’ipotesi di Regolamento Ue su rifiuti e imballaggi che tante polemiche sta generando. Si ritiene che il deposito cauzionale “rischia di penalizzare il sistema nazionale che opera con successo da 25 anni, basato sui Consorzi di filiera”. E si propone di “aumentare le quantità di imballaggi riutilizzate con sistemi decentrati e flessibili evitando la costosa rigidità della restituzione centralizzata con il deposito cauzionale, visto che in Italia si riutilizzano già 2 milioni e 340mila tonnellate di imballaggi, il 16% del totale”.

Infine, si suggeriscono azioni di sperimentazione. Come a dire il pericolo di disperdere tutti i risultati raggiunti in 25 anni.

Lo Stato grande ecologista solo quando c'è da incassare. I tributi verdi hanno generato entrate per 53 miliardi di euro nel 2021 ma solo l'1% è stato destinato a iniziative per ridurre l'impatto negativo delle emissioni. CLAUDIO MARINCOLA su Il Quotidiano del Sud il 15 Dicembre 2022

Tributi verdi, Stato grande ecologista solo quando c’è da incassare

Ecologisti? Sì, ma solo quando si tratta di incassare le tasse per i danni causati dalle attività inquinanti. Allora fissiamo le imposte, calcoliamo le aliquote per l’impatto negativo, quantifichiamo la fiscalità verde, che nel caso italiano è più alta in rapporto al Pil della media europea. In questa capacità di misurare la riduzione del danno siamo bravissimi.

Peccato che dei 53 miliardi di euro entrati nel 2021 nelle casse dell’erario a titolo di risarcimento solo l’1% sia vincolato alla tutela dell’ambiente. Lo danneggiamo, ne sfruttiamo le preziose risorse, chiediamo alle aziende energivore di ripagare i danni ma sono siamo tenuti a ripararli. Anzi. In teoria potremmo anche reinvestire quella montagna di soldi proveniente dai “ristori” per fare altri guai.

Ambientalisti un tanto al chilo, insomma. Liberi di tassare a piacimento ma senza vincoli di scopo. È una prerogativa che riguarda una ventina di tributi “verdi” applicati da Stato centrale, regioni e comuni. I dati statistici del Dipartimento del Mef calcolano il gettito espresso in milioni di euro. Dividono le imposte per categorie, energie, trasporti, inquinanti, tracciano il grafico delle risorse.

TRIBUTI VERDI DAL 6,7% AL 7,7%

Dal 2009 al 2019 le imposte ambientali sono cresciute, passate dal 6,70% al 7,76% ma i vincoli sono rimasti gli stessi, ovvero vicinissimo allo zero. Il Servizio studi della Corte costituzionale ha condotto un’analisi comparata confrontando le diverse normative seguite da Francia, Spagna, Germania e Stati Uniti. In generale vige il principio di “chi inquina paga”: il danno causato dalle emissioni di sostanze inquinanti deve essere ripagato sotto forma di tributi con vincoli di spesa stringenti. Si fa l’esempio concreto della carbon tax per i combustibili fossili piuttosto che le emissioni sonore degli aeroplani ma anche in ambito urbano degli accessi nella Ztl o per la stessa tassa di soggiorno.

L’elenco è lungo e l’entità varia a seconda che l’imposta sia stabilita dallo Stato o dalle amministrazioni locali. “Ma il vincolo assunto a paradigma europeo del chi inquina paga – spiega Massimiliano Atelli, presidente della Commissione Via e Vas del ministero della Transizione ecologica – è applicato in Italia essenzialmente al fine di individuare il contribuente, non allo scopo di funzionalizzare in tutto o in parte il corrispondente gettito”.

È un po’ come avviene per le contravvenzioni al codice della strada, In teoria i Comuni dovrebbero utilizzare gli introiti per la sicurezza stradale, più o meno una partita di giro. Non avviene quasi mai. I bilanci degli enti già dissestati colerebbero a picco. Ed ecco che i nostri tributi verdi si caratterizzano tutti allo stesso modo: totale assenza di destinazione.

Agitando il tema della salvaguardia ambientale – ha scritto su “fomiche.net” Atelli – si drenano dai contribuenti miliardi che tuttavia solo in minima parte vanno davvero a finanziare la transizione ecologica: in base a recenti ricerche, solo l’1% delle tasse ambientali è considerato classificabile in Italia come imposta di scopo, in quanto vincolato alla copertura di spesa di azioni a tutela dell’ambiente”. Il ministero dell’Ambiente, ricorda Atelli, nel Catalogo 2020, ultimo dato disponibile, elenca più di 60 sussidi dannosi per l’ambiente per complessivi 21,6 miliardi, stima che secondo Legambiente sarebbe salita a 40 miliardi nel 2021. È appena il caso di ricordare che il nostro Paese dovrebbe dimezzare entro il 2030 le emissioni che alterano il clima.

Nella comparazione tra Stati europei e Stati Uniti vi sono differenze sostanziali, Lì dove gli enti locali hanno potestà legislativa sono state introdotte regole molto diverse tra loro. La disciplina federale varia a seconda delle latitudini e del potere di fissare tassazioni locali. E in caso di conflitto prevale sulla legge statale. Un esempio su tutti riguarda gli Usa, dove prevale il modello command-and-control di stampo coercitivo.

La legge statale ha stabilito norme molto restrittive e penalizzanti per limitare la diffusione degli involucri di plastica non riutilizzabili senza configurare però una tassa vera e propria. A Chicago, 5 anni fa, è stata introdotta la checkout bag tax, 7 centesimi di dollaro per la vendita o l’utilizzo di sacchetti di plastica. La cifra pagata dal consumatore deve essere indicata separatamente sullo scontrino fiscale altrimenti diventa a carico dell’esercente, Nel Missouri l’House bill 722 va in senso contrario. Non si paga nessuna tassa, il sacchetto di plastica viene fornito dagli esercenti senza che venga addebitato all’acquirente. E allo Stato è fatto divieto di emettere eventuali imposte o tasse. Da noi si genera una sorta di deregulation in totale contrasto con gli obiettivi imposti dall’Ue.

Il pregiudizio inferto all’ecosistema dai comportamenti incisi dalla cosiddetta fiscalità ambientale – scrive Atelli – resta per il 99% non riparato, perché esigenze di finanza pubblica prendono nei fatti il sopravvento assorbendo il relativo gettito”.

Poi ci sono le tasse che non potrebbero comunque raggiungere il loro scopo, come l’ecotassa regionale sui rifiuti visto che il nostro Paese li smaltisce ancora per il 20% nelle discariche. Ma questo è un altro discorso. Nel breve periodo si calcola che gli introiti derivati da queste risorse ad hoc potrebbero toccare la considerevole cifra di 100 miliardi annui.

Probabilmente troppi – è la conclusione del presidente Atelli – per non avviare finalmente una riflessione di tipo sistemico che da un lato metta ordine e dall’altro lato funzionalizzi in misura almeno significativa queste ingenti risorse”.

A ruota libera. Report Rai. PUNTATA DEL 15/05/2023

di Antonella Cignarale

Collaborazione di Marzia Amico

Se il sistema di smaltimento degli pneumatici non funziona a regola chi paga?

Per ogni pneumatico immesso sul mercato va pagata la quota del contributo ambientale per lo smaltimento. Produttori e importatori sono responsabili del servizio di raccolta e smaltimento e il costo del servizio è a carico del consumatore finale. I dati dell’Osservatorio sui flussi illegali di pneumatici e PFU in Italia, però, registrano 12 milioni di euro di contributo ambientale evasi. Le soluzioni potrebbero essere a portata di legge: strumenti per garantire un’efficace tracciabilità delle gomme, incentivi all’uso di materiale prodotto con gomma riciclata, eppure non ci sono sanzioni neanche per i rivenditori di pneumatici che non applicano ed evadono, al momento della vendita, la quota del contributo ambientale.

A RUOTA LIBERA Di Antonella Cignarale Collaborazione Marzia Amico

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Invernale, estivo o quattro stagioni, quando compriamo uno pneumatico, paghiamo il contributo ambientale perché venga smaltito correttamente. Chi lo vende, è obbligato a riportare il contributo sulla ricevuta con un’apposita voce. Ma questa regola, che vale per gli pneumatici nuovi e per quelli usati importati, salta quando vengono immessi sul mercato illegalmente.

DANIELE MICHELINI – PRESIDENTE AUTORIPARATORI LAPAM CONFARTIGIANATO - MODENA Tir pieni di gomme anche usate, perché in altri paesi di Europa le gomme le cambiano molto prima, che da noi vanno ancora bene, vengono importate in Italia in modo non sempre trasparente, poi la gomma esausta rimane sul piazzale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E i costi per smaltirle tutte non sono coperti. Perché alle gomme vendute legalmente si mischiano quelle del mercato nero. In Italia il flusso degli pneumatici illegali è stimato tra le 30.000 e le 40.000 tonnellate annue.

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS Quasi 80 milioni di euro di Iva evasi e circa 12 milioni di euro di contributo ambientale non pagato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Occhio anche quando si compra uno pneumatico on line: nel preventivo di acquisto ci sono rivenditori che indicano chiaramente il costo del contributo ambientale. Questo riveditore, invece, riporta solo il prezzo totale.

GIULIA TAROZZI - AUTOFFICINA TAROZZI Qua quello che vedo è il costo della gomma per due, il totale che pagherò, 3,49 euro a pneumatico per avere la garanzia che loro me lo cambino entro un anno di tempo, ma il contributo ambientale qui non è indicato.

ANTONELLA CIGNARALE Quindi io automobilista, se compro queste ruote adesso, non lo so se sto effettivamente pagando il contributo ambientale

GIULIA TAROZZI - AUTOFFICINA TAROZZI In questo caso non è specificato.

ANTONELLA CIGNARALE Il rivenditore che non riporta in fattura o sulla ricevuta fiscale la quota in maniera chiara e distinta del contributo ambientale è sanzionabile?

CARLO ZAGHI – DIRIGENTE DIVISIONE ECONOMIA CIRCOLARE - MINISTERO DELL’AMBIENTE È sanzionabile, è applicata ovviamente a seguito dei controlli effettuati dalla Guardia di Finanza.

ANTONELLA CIGNARALE Ci siamo consultati con la Guardia di Finanza e quindi ci risulta che la mancata indicazione in maniera chiara e distinta del contributo ambientale non comporta di per sé una sanzione tributaria per il rivenditore.

CARLO ZAGHI – DIRIGENTE DIVISIONE ECONOMIA CIRCOLARE - MINISTERO DELL’AMBIENTE Questo aspetto non mi è stato segnalato e francamente mi sorprende.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La sanzione dei misteri, pare poi che c’è qualche, che ci sia qualche ente pubblico che è convinto di non doverla applicare. La domanda posta dalla nostra Antonella Cignarale ha fatto venire comunque i dubbi al ministero che si appresta a preparare una circolare. Ora, la storia è questa. Buonasera. Chi introduce sul mercato, perché lo produce oppure perché lo importa, uno pneumatico, insomma, deve anche provvedere al suo smaltimento o singolarmente oppure attraverso i consorzi. E la legge prevede che su 100 kg di pneumatici messi sul mercato, bisogna raccoglierne il 95 kg perché è prevista l’usura del 5%. Poi, quando l’acquisti, devi pagare anche un contributo per lo smaltimento. Però, se è tutto così lineare, perché quando entriamo nell’officina del nostro gommista di fiducia, lo troviamo sommerso dagli pneumatici usurati? Ecco, perché c’è qualche furbetto che intanto lo compra in nero, magari lo compra su internet dove non è previsto chiaramente il contributo. E poi, siamo certi che tutti quelli che dichiarano di introdurre sul mercato, produrre gli pneumatici dicano la verità? Per evitare tutto questo, basterebbe un registro, basterebbe tracciare. La nostra Antonella Cignarale.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Chi gestisce lo smaltimento degli pneumatici fuori uso deve raccogliere il 95% del peso degli pneumatici immessi sul mercato l’anno precedente.

ANTONELLA CIGNARALE Qual è la logica che sta dietro questo calcolo?

LUIGI DE ROCCHI - PRESIDENTE CONSORZIO COBAT TYRE Si tiene conto del fatto che l’usura dello pneumatico porti via una percentuale che è stata stabilita nell’ordine del 5% rispetto allo pneumatico nuovo

ANTONELLA CIGNARALE Tutto ruota attorno al peso di questi pneumatici che vengono immessi sul mercato italiano. Voi come fate a essere sicuri che il peso degli pneumatici che vengono immessi sul mercato italiano dai vostri soci sia effettivamente quello che loro vi indicano?

LUIGI DE ROCCHI - PRESIDENTE CONSORZIO COBAT TYRE È un’autodichiarazione quindi…

ANTONELLA CIGNARALE È un’autodichiarazione!

LUIGI DE ROCCHI - PRESIDENTE CONSORZIO COBAT TYRE Il controllo sarebbe molto più semplice in termini di tracciabilità se partisse, come previsto dalla norma, il registro nazionale dei produttori importatori.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il registro informatico, che servirebbe a verificare la regolare attività di chi immette sul mercato gli pneumatici, avrebbe dovuto essere istituito dal ministero dell’Ambiente entro l’aprile del 2021.

CARLO ZAGHI – DIRIGENTE DIVISIONE ECONOMIA CIRCOLARE - MINISTERO DELL’AMBIENTE Pensiamo di poterlo fare in tempi relativamente brevi. È importante perché permette di gestire un numero consistente di informazioni non in modo manuale come noi facciamo adesso

ANTONELLA CIGNARALE Adesso che non c’è il registro informatico come fate a verificare che le tonnellate autodichiarate da importatori e produttori sono effettivamente quelle che immettono sul mercato italiano?

CARLO ZAGHI – DIRIGENTE DIVISIONE ECONOMIA CIRCOLARE - MINISTERO DELL’AMBIENTE Grazie a questo accordo con la Guardia di Finanza forniamo questi dati in modo che possano effettuare controlli a campione.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Di fatto senza il registro informatico la vigilanza del ministero è fallace, visto che ogni anno gli pneumatici fuori uso da raccogliere sono molti più di quelli censiti, mandando in tilt il sistema di raccolta e le autofficine, dove le gomme esauste, invece di essere ritirate, si accumulano.

MAURIZIO TAROZZI - AUTOFFICINA TAROZZI Aspettiamo dei mesi prima che ci vengano a ritirare le gomme, certo, per cui questo comporta un problema di gestione dello pneumatico usato, che non sai dove metterlo, la sicurezza SIMONA REGGIANI - AUTOFFICINA REGGIANI Sì, ero piena, non c’era più posto, erano anche fuori dalla tettoia.

ANTONELLA CIGNARALE Sono venuti a ritirarle e non le hanno ritirate neanche tutte?

SIMONA REGGIANI - AUTOFFICINA REGGIANI No, perché non ci stavano nel camion

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quando le gomme non vengono ritirate, sono le autofficine a essere responsabili del rifiuto che si accumula sui loro piazzali. E c’è chi si è preso la multa.

MALAGUTI ANDREA - AUTOFFICINA MALAGUTI È un controsenso su un controsenso: se pago lo smaltimento all’inizio e poi non vengono a ritirarlo, io sono responsabile del rifiuto che è lì.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il punto è che chi gestisce la raccolta degli pneumatici, una volta raccolto il 95% delle tonnellate stabilite per legge, non è tenuto a ritirarne altre.

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS Corretto.

ANTONELLA CIGNARALE Questo è un problema cronico però?

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS Sì, è un problema cronico.

ANTONELLA CIGNARALE E quali soluzioni sono state proposte per risolvere questo problema?

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS Si stanno studiando delle formule di tracciamento del prodotto, o informatiche o di identificazione fisica proprio del prodotto.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il tracciamento permetterebbe non solo di distinguere le gomme su cui non è stato versato il contributo, ma anche di risalire alla radice dell’illecito quando non vengono regolarmente smaltite, come queste sequestrate dalla Guardia di Finanza di Arzignano.

ANTONELLA CIGNARALE Quando trovate stoccati tutti questi pneumatici fuori uso in realtà le cause quali potrebbero essere?

CATERINA VIOLANTE - COMANDANTE GUARDIA DI FINANZA ARZIGNANO - VICENZA Vi è una seconda finalità, ovvero quella di rivenderli in nero, rimettendoli quindi in circolazione quando invece dovrebbero essere smaltiti. Oppure, potrebbero essere esportati in paesi terzi in quanto fonte di un ricavo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Quindi, manca un meccanismo di tracciamento e il registro nazionale di produttori e importatori, ma visto l’esubero degli pneumatici fuori uso, la soluzione che ha trovato il ministero dell’Ambiente è stata di invitare i sistemi di gestione a raccogliere il 20% in più delle tonnellate annue prestabilite.

ANTONELLA CIGNARALE Questo 20% in più che il ministero vi ha chiesto di raccogliere chi lo paga?

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS Lo paghiamo tutti noi. Vi è la facoltà di chiedere un aumento del contributo.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Cioè, ogni consorzio può aumentare il prezzo in modo da coprire anche lo smaltimento degli pneumatici su cui il contributo è stato evaso, aumento che alla fine ricade sugli automobilisti.

LUIGI DE ROCCHI – PRESIDENTE CONSORZIO COBAT TYRE Tenga conto che i costi possono anche mutare a seconda di quelle che possono essere le politiche di gestione finale dello pneumatico che un sistema a esempio decide di dirottare al recupero energetico piuttosto che al recupero di materia

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Ovvero il contributo può essere più alto o più basso anche a seconda che il consorzio smaltisca le gomme come combustibile piuttosto che per creare materia riciclata. La gomma, ad esempio, può essere recuperata per realizzare pannelli fonoassorbenti e isolanti: a usarli per rivestire le proprie sale è stato l’auditorium di Parma.

DINO DALL’AGLIO - RESPONSABILE AFFARI GENERALI FONDAZIONE ARTURO TOSCANINI - PARMA Permettono di veicolare, di contenere e di mantenere il suono esattamente come esce dallo strumento del professore di orchestra e permette agli stessi professori d’orchestra di percepire esattamente gli strumenti altrui.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E con la gomma riciclata si realizzano anche scarpe per curare lo zoccolo della mucca.

ANTONELLA CIGNARALE Quella scarpetta ha un dislivello, no?

SAMUELE ALBRICI – ALLEVATORE Sì, esatto, con questa scarpetta, sollevando la parte malata, lei, non appoggiando, il male non lo sente più e la mucca cammina

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E proprio per la sua elasticità la gomma recuperata dallo pneumatico è destinata anche alla realizzazione di piste di atletica, di erba sintetica nei campetti da calcio e di pavimentazione anti-choc per i bambini. Dalla triturazione di granuli sottilissimi si ricava il polverino, riutilizzabile negli asfalti.

LIDIA DI VITA - RESPONSABILE AMMINISTRAZIONE TRITOGOM Il polverino, essendo gomma, rende gli asfalti meno rumorosi, c’è l’effetto aquaplaning che viene ridotto notevolmente. Avendo questa elasticità, gli asfalti diventano meno soggetti alle buche che vediamo oggi sulle nostre strade

LUIGI DE ROCCHI – PRESIDENTE CONSORZIO TYRE COBAT Però è necessaria un’azione centralizzata direi di governo che in qualche modo sostenga e incentivi l’utilizzo del polverino negli asfalti modificati che poi in altri paesi al di fuori dell’Italia diventa una delle strade più importanti di reimpiego di questi materiali.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Dallo pneumatico si ricava il 65% di gomma, poi c’è l’acciaio, che viene acquistato dalle acciaierie, mentre la fibra tessile viene utilizzata come combustibile.

DAVIDE STELLA - TITOLARE TRITOGOM Viene mandato in cementificio come recupero alternativo di energia, viene bruciato.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO E oltre alla frazione tessile vengono utilizzati come combustibile anche i residui degli pneumatici che non vengono assorbiti dal mercato della gomma riciclata

FEDERICO DOSSENA - DIRETTORE GENERALE CONSORZIO ECOPNEUS La legge indica la preferenza al recupero di materia piuttosto che al recupero energetico.

ANTONELLA CIGNARALE FUORICAMPO Il consorzio Ecopneus con 51 milioni di euro di contributo ambientale nel 2022 ha gestito 231mila tonnellate di pneumatici. Il 48% è stato riciclato come materia, mentre il 52% è stato bruciato per produrre energia ed è stato economicamente più conveniente perché riciclare la gomma dagli pneumatici è costato tra i 240 e i 260 euro a tonnellata mentre bruciarli è costato meno, tra i 200 e i 220 euro a tonnellata.

LUIGI DE ROCCHI – PRESIDENTE CONSORZIO TYRE COBAT È una soluzione che in termini di economia circolare ancora fa riferimento a una modalità di gestione, diciamo così, di vecchio stampo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Con il registro informatico dei produttori e degli importatori ci sarebbe la tracciabilità e si eviterebbe l’accumulo di tutti quegli pneumatici di cui non era prevista la raccolta. Sarebbe anche più complicato non pagare il contributo per lo smaltimento che invece è fondamentale perché va a finanziare la ricerca e anche la progettazione delle, di quelle nuove forme per il riutilizzo della gomma. E poi, insomma, invece, anche quest’anno il ministero ha chiesto di raccogliere il 15% in più di quello che era previsto. Si tratta di tutti quegli pneumatici che sono stati immessi sul mercato da quei furbetti senza pagare il contributo per lo smaltimento. Tanto paga poi la collettività. E a proposito di contributi…

Fiumi di plastica: viaggio sulle rive dell’inquinamento. Angelo Vitolo su L'Identità il 29 Settembre 2023 

Fiumi di plastica. Su 12 corsi d’acqua italiani, l’85% dei rifiuti che vi finiscono, facendoli diventare vittime ricorrenti dell’abbandono indiscriminato, è costituito da plastica e in questa frazione il 35% circa degli oggetti che galleggiano nei fiumi è rappresentato da plastica monouso, gli imballaggi che l’industry italiana del settore difende a spada tratta, affiancata dal governo che finora ha contrastato l’orientamento indirizzato al riuso e al riutilizzo, preferendone il riciclo.

La verità è che – lo ricordano ora i risultati di un’attività di monitoraggio di Ispra durata 12 mesi e svolta in collaborazione con la Fondazione Sviluppo Sostenibile e Nauta – i macro rifiuti galleggianti di grandezza maggiore di 2,5 cm su 12 fiumi in Italia (Adige, Agri, Magra, Misa, Neto, Ombrone, Pescara, Po, Reno, Sarno, Simeto e Tevere) parlano di un’economia circolare che, sulla plastica recupera e ricicla meno che per altri materiali, pur evidenziando una crescita del trend, che si mantiene però al penultimo posto, prima del vetro ma dopo legno, alluminio, carta e acciaio, secondo lo stesso Rapporto Isprea sui rifiuti urbani 2022.

Le città falliscono e plastica e imballaggi monouso finiscono anche nei corsi d’acqua, che diventano “fiumi di plastica”. I fattori che influenzano la presenza dei rifiuti negli ambienti fluviali derivano da insediamenti urbani, spiega Ispra che con i monitoraggi per la Direttiva Quadro sulla Strategia Marina intende moltiplicare le conoscenze su origine e modalità di arrivo dei rifiuti nelle nostre acque, e in 8 anni di monitoraggio lo ha già fatto alla foce del Tevere. Il fiume secondo solo al Po per bacino e terzo per lunghezza, attraversa Roma prima di sfociare nel mar Tirreno a Ostia. Alla sua foce Ispra ha riscontrato negli ultimi sette anni un aumento del trend dei rifiuti. Come densità estrapolata alla foce, circa 1.500 oggetti per chilometro quadrato sul Tevere, ove gli imballaggi monouso sono circa il 40%, in gran parte relativi al loro utilizzo per il cibo.

In tutti i fiumi, la maggioranza (l’85%) degli oggetti è costituita da materiali di plastica, seguiti da quelli di carta (5%) e di metallo (3%). Rifiuti, per Ispra, collegati a produzione e consumo di alimenti. Altro ancora racconta poi come l’avvelenamento, sia in realtà più strisciante: i tracciatori rilasciati nei fiumi hanno evidenziato come lo spostamento dei frammenti sia quasi sempre intermittente, con un forte effetto di intrappolamento lungo il corso del fiume. Poi nuovamente mossi da significative variazioni di portata ma compiendo percorsi brevi, spesso trattenuti in aree di accumulo prima di giungere a mare.

Come uscirne? Franco Borgogno da tempo ha dedicato parte della sua mission di studio e ricerca alla plastic pollution. “La chiave per affrontare la questione degli imballaggi monouso di plastica – dice – è puntare all’eliminazione del concetto stesso di questa produzione. Già compresa da esperti e scienziati, già nelle norme orientate alla sostenibilità, con molta immediatezza percepibile da tutti, quando guardiamo il 20% dei rifiuti di plastica sulle spiagge o nei mari. Qui c’è da aggiungere anche che il rimanente 80% è costituto da microplastiche, meno visibile ma altrettanto inquinante. Naturale quindi, che, lavorando innanzitutto su consapevolezza e conoscenza, è possibile incidere sulle piccole abitudini quotidiane di ciascuno, che producono numeri importanti, cui da qualche tempo è sensibile anche una parte del mondo dell’industria. Questa, la prima strada da percorrere”.

Estratto da wired.it domenica 10 settembre 2023.

Ogni anno il mondo consuma centinaia di miliardi di bicchieri da caffè monouso e la maggior parte non viene riciclata. Per questo il passaggio ai bicchieri di carta – soprattutto nelle grandi catene in paesi come gli Stati Uniti e il Regno Unito, dove la cultura del caffè al bancone è storicamente meno affermata – dovrebbe rappresentare un passo nella giusta direzione. Ma non è proprio così.

Uno studio pubblicato di recente dimostra che i bicchieri di carta possono essere tossici quanto quelli in plastica una volta che finiscono nell'ambiente. Questi contenitori apparentemente ecologici vengono infatti rivestiti da un sottile strato di plastica per evitare che il loro contenuto penetri nella carta, che può però liberare sostanze nocive: "Ci sono sostanze chimiche che fuoriescono da questi materiali", spiega Bethanie Carney Almroth, autrice principale dello studio e professoressa associata di scienze ambientali presso l'Università di Göteborg in Svezia. […] 

I bicchieri da caffè sono composti da una complessa miscela di materiali sintetici e sostanze chimiche. I produttori aggiungono coadiuvanti tecnologici, stabilizzatori termici e altre sostanze, molte delle quali sono notoriamente tossiche. Anche se vengono utilizzati materiali di origine vegetale – come l'acido polilattico, un materiale derivato dal mais, dalla manioca o dalla canna da zucchero usato per rivestire i bicchieri di carta – i produttori spesso aggiungono una serie di altre sostanze chimiche durante la lavorazione.

Anche se talvolta le analisi chimiche possono far luce sulla composizione delle sostanze presenti in un bicchiere di plastica o di carta, non sempre questi test sono in grado di identificare il contenuto, spiega Jane Muncke, tossicologa ambientale di formazione e ora direttrice del Food Packaging Forum, un'organizzazione che si occupa di comunicazione scientifica con sede in Svizzera. 

Le sostanze precise sono "sconosciute non solo agli scienziati che effettuano queste analisi, ma anche alle persone che producono e vendono gli imballaggi". Durante la fabbricazione di prodotti contenenti plastica, tra i materiali utilizzati per creare nuove sostanze possono verificarsi reazioni chimiche impreviste.

Le sostanze chimiche possono essere dannose anche a causa delle specifiche combinazioni in cui vengono utilizzate, la cosiddetta “mixture toxicity”, o “tossicità delle miscele”. Pertanto ha poco senso regolamentare le quantità di singole sostanze presenti nei bicchieri, perché non si può ancora essere sicuri dell'impatto che avranno. 

Migliorare le pratiche di riciclaggio sarebbe un passo logico per evitare che le sostanze chimiche nocive finiscano in natura, ma i ricercatori sostengono che la cosa migliore è abbandonare del tutto i bicchieri di carta usa e getta. Per la maggior parte dei centri di riciclaggio, separare il rivestimento in plastica dalla carta del bicchiere è difficile. Nel Regno Unito, per esempio, solo poche strutture accettano i bicchieri di carta. Molte caffetterie li raccolgono per riciclarli, ma il fatto di doverli consegnare elimina la comodità di un prodotto monouso. Oggi, nel Regno Unito, solo quattro bicchieri di carta su cento vengono riciclati. […]

I bicchieri "riutilizzabili" non sono necessariamente migliori per quanto riguarda la perdita di sostanze nocive, poiché sono spesso fatti di plastica; il calore e l'usura accelerano il processo e le bevande acide come il caffè assorbono più facilmente le sostanze chimiche. Anche l'impronta ecologica dei bicchieri di plastica riutilizzabili è discutibile: secondo alcune stime, un bicchiere riutilizzabile deve essere utilizzato dalle 20 alle 100 volte per compensare le emissioni di gas serra rispetto a un contenitore monouso. […]

Nel frattempo, c'è chi cerca soluzioni più sicure e sostenibili. Alcune aziende hanno realizzato tazze commestibili fatte di waffle o biscotti, oppure hanno utilizzato una tecnica simile agli origami per piegare la carta e creare tazze. Sia Carney Almroth che Muncke riconoscono le potenzialità di utilizzare materiali consolidati per dare vita a un'economia circolare. In questo modo bar e catene potrebbero sostituire più facilmente i bicchieri di plastica e di carta a basso costo.

Il vetro, ad esempio, mantiene le bevande calde più a lungo – la sua bassa conducibilità termica rallenta la dispersione del calore del liquido all'interno della tazza – ed è chimicamente inerte, quindi non perde sostanze (anche lo smalto di una tazza di ceramica è leggermente solubile e può lisciviare in qualche misura). […] 

L'acciaio inossidabile, un metallo comunemente usato per le borracce riutilizzabili, è un altro candidato. Tuttavia, nelle tazze d'acciaio il caffè si raffredda più rapidamente rispetto alle tazze di ceramica o di vetro, perché il calore viene trasferito al materiale e quindi al palmo della mano. Ma è anche più robusto, un aspetto che lo rende adatto a trasportare bevande. […]

Migliaia di microplastiche scoperte per la prima volta nel tessuto cardiaco umano. Gloria Ferrari su L'Indipendente giovedì 24 agosto 2023

Ogni anno produciamo più di 380 milioni di tonnellate di plastica. Può capitare che alcune piccolissime particelle di materiale si stacchino dall’oggetto madre e vaghino, inosservate, fuori e dentro di noi, finendo anche in posti inaspettati. È così che, per la prima volta, queste microplastiche, minuscoli pezzettini di materia, solitamente inferiori ai 5 millimetri, sono state individuate in campioni di tessuto cardiaco di 15 pazienti che hanno subito un intervento chirurgico al cuore. Gli scienziati dell’Environmental Science & Technology dell’American Chemical Society, che si sono serviti di strumenti a infrarossi, ne hanno scoperte migliaia, sebbene di qualità e quantità diverse a seconda dell’individuo preso in analisi.

Come hanno fatto i frammenti di plastica ad arrivare fino al tessuto cardiaco? La prima ipotesi è che le stesse procedure mediche invasive costituiscano una via d’accesso. Lo studio specifica infatti che una piccola parte dei ‘frammenti’ identificati è troppo ‘grande’ per pensare che sia entrata nel corpo per inalazione o ingestione. Invece è stato provato che “l’operazione al cuore stessa può consentire l’accesso diretto delle microplastiche al flusso sanguigno e ai tessuti”. Infatti, secondo precedenti indagini scientifiche, riportate dagli stessi ricercatori, alcune particelle sarebbero state rilevate persino nell’aria delle sale operatorie, e per questo non è escluso che siano in grado di entrare direttamente nel corpo del paziente sottoposto ad un intervento chirurgico.

Visto che la contaminazione da microplastiche è ormai così comune, come riferito da Timothy O’Toole, professore associato di medicina presso la University of Louisville School of Medicine nel Kentucky, queste infatti potrebbero entrare nel tessuto cardiaco direttamente dall’ambiente. Non è escluso, però, che le microplastiche di ‘grandi’ dimensioni possano anche provenire direttamente da attrezzature e materiali utilizzati in un’operazione al cuore – come tubi e siringhe.

«Il rilevamento di microplastiche nel corpo vivente è allarmante e sono necessari ulteriori studi per indagare su come le microparticelle entrano nei tessuti cardiaci e sui potenziali effetti delle microplastiche sulla prognosi a lungo termine dopo la cardiochirurgia», ha commentato Xiubin Yang, uno degli autori dello studio. Il team ha inoltre avanzato il timore che «le microplastiche siano presenti in vari organi in tutto il corpo».

Infatti, solo lo scorso anno, questi microscopici frammenti in plastica sono stati individuati nel sangue umano. Un gruppo di ricerca dei Paesi Bassi ha dimostrato per la prima volta la presenza di questi minuscoli polimeri industriali in campioni di sangue proveniente da 22 volontari adulti in salute. Nello specifico, il 77% (17 donatori) aveva nel proprio sangue una concentrazione quantificabile di frammenti in plastica di dimensioni superiori ai 700 nm e per le particelle plastiche rinvenute si è osservata una concentrazione media di 1,6 microgrammi su millilitro (µg/ml).

Alcune microplastiche sono finite anche nella placenta umana. Nel 2020 una ricerca condotta dall’Ospedale Fatebenefratelli di Roma e dal Politecnico delle Marche, pubblicata sulla rivista scientifica Environment International, ha individuato nelle placente di sei donne tra i 18 e i 40 anni, tutte in salute e con gravidanze normali, dodici frammenti di materiale artificiale delle dimensioni di un batterio (tra i 5 ed i 10 micron) – tre dei quali di polipropilene, elemento riscontrabile nelle bottiglie di plastica, e nove di materiale sintetico verniciato. Si tratta di frammenti microscopici di cosmetici, smalto per le unghie e creme per il viso, inglobati nell’organismo delle madri tramite alimentazione (si pensi al cibo confezionato) o per inalazione, e poi finiti nella parte di placenta integrante del feto, nella parte attaccata all’utero e nelle membrane in cui è avvolto il feto stesso.

Tutti ritrovamenti dopo i quali risulta più urgente che mai «comprendere meglio il grado di esposizione a queste sostanze nonché il pericolo ad esso associato». Al momento, secondo quanto riportate da una recente analisi che ha esaminato gli studi precedenti sull’impatto delle microplastiche sulle cellule umane, “non è noto se ciò comporti effetti negativi sulla salute e, in caso affermativo, a quali livelli di esposizione”, ma è probabile che l’ingestione di tali particelle possa contribuire al danneggiamento – e in alcuni casi alla morte – delle cellule. Quello del ciclo della plastica è un problema ambientale molto grave e – ormai lo sappiamo – con profili di rischio non trascurabili per la salute, eppure la politica non interviene se non molto timidamente. Un fattore ancor più vero in Italia, dove sia i partiti di governo che il PD si sono schierati contro la proposta di legge europea sul riuso e riciclo degli imballaggi, che mira proprio a ridurre l’impatto della plastica sull’ambiente. [di Gloria Ferrari]

Tutte le bufale sulla plastica degli ecologisti ideologizzati. Francesco Giubilei il 7 Giugno 2023 su Il Giornale.

Il Papa: "La questione ambientale è inscindibile da quella sociale"

La centralità assunta dai temi ambientali nel dibattito politico e mediatico negli ultimi anni ha fatto sì che la Giornata mondiale dell'Ambiente, celebrata il 5 giugno, abbia assunto una particolare rilevanza con un profluvio di dichiarazioni, annunci e buoni propositi.

A finire sul banco degli imputati (oltre agli immancabili combustibili fossili) è stata la plastica con il grido d'allarme lanciato dal Wwf nel report «Plastica dalla natura alle persone. È ora di agire». Ogni anno fino a 22 milioni di tonnellate di plastica entrano in mare e altrettanti sono abbandonati sulla terra e, dei 430 milioni di tonnellate di plastica prodotte dall'umanità, metà è progettata per essere utilizzata una sola volta e meno del 10% viene riciclato.

È indubbio che l'eccessivo consumo di plastica rappresenti un problema ma ci sono settori in cui la plastica è fondamentale come testimoniato dal periodo del Covid in cui il monouso anche in ambito sanitario è stato imprescindibile.

Il vero problema sono perciò le basse percentuali di riciclo a livello globale con l’inquinamento che si potrebbe ridurre dell'80% entro il 2040 adottando soluzioni basate sulle tre r: riuso, riciclo, riorientamento della produzione.

Se il consumo di plastica è stato l'argomento centrale della Giornata dell'Ambiente, ieri si è parlato anche di energia con le parole del ministro Gilberto Pichetto Fratin che ha annunciato: «l'intenzione è di arrivare ad abbandonare il carbone entro il 2025 o anche prima» aggiungendo che l'obiettivo per il 2023 «è ribaltare il rapporto di oggi dei due terzi di energia che vengono dal fossile e un terzo dalle rinnovabili».

Non è mancato un intervento di Papa Francesco che è tornato a proporre il modello di ecologia integrale: «l'Enciclica Laudato sì ha messo in luce il danno dovuto al paradigma tecnocratico dominante e ha proposto la logica dell'ecologia integrale, dove tutto è connesso, tutto è in relazione, e la questione ambientale è inscindibile dalla questione sociale». Parole che testimoniano l'esistenza di un ambientalismo (o, per meglio dire, ecologismo) di matrice cristiana alternativo a quello ideologico scardinando così la visione di un approccio a senso unico ai temi ambientali.

«Non demonizzate la plastica. La sostenibilità è solo un problema di coscienza». Nadia Afragola su Panorama il 06 Giugno 2023

Luca Mazza, direttore creativo di Slamp, si racconta a Panorama.it

«Perché demonizzare l’utilizzo della plastica? È solo un problema di coscienza!». Questo il punto di vista di Luca Mazza, direttore creativo dal 2016 di Slamp, azienda con sede a Pomezia che produce più che lampade, vere e proprie architetture luminose, firmate da architetti e designer di fama mondiale, a partire da Nigel Coates per proseguire con Daniel Libeskind, Doriana e Massimiliano Fuksas. Il più classico dei classici esempi di Nemo propheta in patria. L’azienda, infatti, con 30 anni di vita è nata con un oggetto cult, il tubo, nello stesso giorno e dallo stesso art director di Swatch, Alessandro Mendini, e mentre all’estero spopola, in Italia non ha ancora raccolto il consenso che meriterebbe. Luca Mazza dal canto suo è un giovane talento capace in pochi anni di scalare la piramide gerarchica andando a fare leva in un settore in cui l’azienda aveva ampio margine di espansione, quello della ricettività, degli spazi commerciali e del comparto business: «L’oggetto luminoso illumina e allo stesso tempo racchiude in sé qualcosa di clamorosamente importante. La scienza è andata a fondo sulle frequenze della luce, sulle temperature colore che fanno stare bene, male, che agitano, o tranquillizzano. Aspetti tecnici che si uniscono alla piacevolezza dell’oggetto e al suo carattere. Per noi le lampade devono avere un carattere forte: facciamo illuminazione decorativa di interni con degli oggetti che arredano, prima di tutto, oltre a soddisfare una funzione illuminotecnica che è parte integrante del nostro business».

Luca Mazza (Pedro Sadio) Innovazione dei materiali e sostenibilità. “Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”. La differenza la fa la coscienza dell’utilizzo di quel materiale che sia pietra, metallo, vetro, tecnopolimero. Mi piace pensare che la plastica abbia semplicemente un diverso grado di naturalezza ma che sia comunque un elemento naturale. Oggi si cavalcano dei trend, ci si riempie la bocca di paroloni, come ecosostenibilità, ma di fatto la sostenibilità è data dalla nostra coscienza. Tutto è sostenibile sulla Terra con il giusto equilibrio, non esiste un materiale più o meno ecologico, esiste l’utilizzo che si fa di quel materiale, ecco perché non approvo la demonizzazione della plastica. Non esiste bene o male ma adatto o non adatto. L’ecosostenibilità si dovrebbe trasformare in “ecocoscienza”. Sartorialità, tecnologia e artigianalità, come fanno a coesistere nello stesso prodotto? Il materiale che utilizziamo è stato brevettato nel ‘94. È lui che ci ha costretto a dare un imprinting sartoriale all’azienda. Parliamo di un foglio di tecnopolimero, plastico. Data la natura di questo materiale per applicarlo nelle tre dimensioni la tecnica da usare è quella dell’origami, che non può essere realizzata con nessuna macchina. L’unico modo per trasformare le due dimensioni in tre dimensioni prevede l’utilizzo delle mani dell’uomo, nel nostro caso parliamo di 50 sarte della luce che si occupano del montaggio, affiancate da altrettanti colleghi che seguono la parte del taglio, della trasformazione del materiale, della stampa. È la scoperta tecnologica iniziale che ci ha guidato e ci ha permesso di capire come la parte artigianale potesse unirsi ad un approccio semi industriale con delle regole, che arrivano da un’attenta osservazione del mercato giapponese. Si vede la differenza tra un file 3D e un progettista che si sporca le mani? La differenza si vede soprattutto nella nostra azienda dove non è possibile realizzare un 3D prima di costruire una lampada. Lavoriamo dei fogli, con diversi spessori, resistenze, densità… reagiscono in maniera non casuale ma diversa, sono legati alla forza di gravità. Ogni prodotto nasce da un prototipo, da tanto scotch, da forbici e mani che lavorano e si sporcano. Il nostro processo di lavorazione è simile a quello che si applica nella moda con il tessile. Il 3D lo facciamo a posteriori perché ce lo chiedono gli architetti.

Tra i modelli che avete lanciato ce n’è anche uno da tavolo, con batterie. Fino a 10 anni fa nessun brand che si rispetti avrebbe mai pensato di mettere in produzione quel tipo di luci, oggi tutti le hanno in catalogo. Ci siamo abituati a muoverci, a essere nomadi, a portarci dietro la bellezza. Abbiamo capito che la lampada non sta necessariamente accanto al divano per trent’anni ma addirittura possiamo ricreare la stessa bellezza sul tavolo della terrazza. Manca la forza lavoro un po’ in tutti i settori. Vale lo stesso anche per voi? Le nostre sarte della luce sono alla seconda generazione. La nostra fortuna è di essere a Roma, qui non ci sono tantissime aziende di illuminazione e chi ci ha scelto ha fatto gruppo, sistema. Sono 20 anni che lavoro in azienda, ho 38 anni, quando sono arrivato studiavo ancora, curavo il sito internet. Il fondatore Roberto Ziliani non ha mai cambiato il suo approccio, simile a quello che avrebbe un imprenditore americano, che sta lì e dà spazio e fiducia alle persone che sono al suo fianco, facendole esprimere, sbagliare e crescere. Insieme. Può sembrare solo una bella storiella romantica ma della quale sono testimone diretto. Se parliamo di produzione in che percentuale finisce all’estero? E verso quali mercati? La nostra produzione, 100% made in Italy, esce dallo stabilimento di Pomezia e per l’80% finisce all’estero. L’apprezzamento che abbiamo è pazzesco. Slamp ha 30 anni ed è nata con un oggetto cult, il tubo. Siamo nati con Swatch negli anni ’90, nello stesso giorno e dallo stesso art director: Alessandro Mendini. Nel ‘94 ci siamo palesati al Salone di Parigi. È lì che Mendini chiama i migliori designer a raccolta per lavorare su un prodotto, con la bandiera italiana sulla scatola e un’attenzione maniacale per il packaging. Sembrava un oggetto fashion, c’erano lanci semestrali primavera/estate, autunno/inverno. Sulla falsa riga delle logiche dell’Haute Couture, Roberto (Ziliani, ndr) ha basato la sua strategia marketing e mentre in Italia è un po’ rimasto il pregiudizio della giovane azienda partita dall’idea di un graphic designer, il Medio Oriente e il resto del mondo ha iniziato a riconoscerci come azienda di alto livello. E la pandemia, la crisi energetica, la guerra… che tracce hanno lasciato? Hanno ridisegnato i confini, alcune nazioni hanno perso l’80% delle vendite, e non parlo solo di Russia e Ucraina, parlo anche di Germania, Paesi Bassi, Francia. Se prima per vendere bastava prendere un treno e arrivare a Parigi, oggi devi fare sei ore di volo e arrivare a Dubai. Gli store mono marca funzionano ancora? Funzionano se c’è bisogno di avere un angolo di casa dove mostrare cosa siamo effettivamente. Il B2C ha senso dove ci sono delle persone che camminano, parliamo delle vie della moda, dello shopping. Abbiamo uno show-room a 100 metri da Harrods, ne stiamo aprendo uno a Parigi, uno a Miami, ma non ne apriremo a Dubai, perché lì non ci sono vie dello shopping ma architetti ed interior designer, che non frequentano i mono marca ma i retail che distribuiscono grandi marchi. Salone del Mobile e Fuorisalone. 1200 eventi. Quanto è glamour e quanto c’è di commerciale? Effettivamente, da diversi anni, c’è una abitudine: non fare ordini in fiera. I buyer, i retail, i negozianti si riempiono gli occhi, prendono tutte le informazioni e poi una volta tornati a casa, sbobinano foto e contatti e decidono la loro strategia. C’è più pensiero e meno istinto quando si fa un acquisto. Il Fuorisalone nato come cassa di risonanza del Salone oggi si è fatto competitor. Dipende dalla coscienza con cui viene affrontato il Fuori Salone. Inizia ad essere scomodo quando prendono spazio le auto produzioni e non parlo delle collezioni che troviamo nelle gallerie, da Rossana Orlandi o Nilufar, che seguono artisti e capsule con un lavoro certosino. I progetti li fanno gli architetti, sempre più persone si affidano a loro, o all’interior per innovare uno spazio, un appartamento, così facendo necessariamente serve affidarsi ad una azienda che ti dà delle sicurezze, più che all’artista che si improvvisa produttore.

Plastica, uno studio rivela i legami col cancro e i difetti alla nascita. Simone Valeri su L'Indipendente il 27 aprile 2023.

Secondo la prima analisi dei rischi per la salute derivanti dalla produzione e l’inquinamento da plastica, quest’ultima sarebbe responsabile di impatti sanitari di ampia portata, tra cui tumori, malattie polmonari e difetti alla nascita. L’analisi ha valutato gli effetti dei polimeri plastici nell’intero ciclo di vita: dall’estrazione alla produzione, fino allo smaltimento in discarica. La ricerca, che include anche una revisione dello stato delle conoscenze scientifiche sul tema, ha rilevato che “gli attuali modelli di produzione, uso e smaltimento della plastica non sono sostenibili e sono responsabili di danni significativi alla salute umana, nonché di profonde ingiustizie sociali”. Le fasce di popolazione più a rischio sono infatti i lavoratori impiegati nelle fasi iniziali di estrazione dei combustibili fossili e di produzione dei polimeri, così come chi vive in zone adiacenti a siti di produzione e di smaltimento della plastica.

Più nel dettaglio, chi lavora nelle industrie di produzione di plastica è a maggior rischio di leucemia, linfoma, cancro al cervello, cancro al seno, mesotelioma e diminuzione della fertilità. I lavoratori addetti al riciclaggio della plastica presentano invece i tassi più elevati di malattie cardiovascolari, avvelenamento da metalli tossici, neuropatia e cancro ai polmoni. I residenti delle comunità adiacenti ai siti di produzione della plastica e di smaltimento dei rifiuti sono poi esposti a maggiori rischi legati al nascituro, come parto prematuro, basso peso alla nascita, asma e leucemia infantile. Pertanto, gli autori dello studio raccomandando che si stipuli un trattato globale sulle materie plastiche per controllarne la produzione e l’uso e per ridurne tale enorme impatto sulla salute pubblica e l’ambiente. Tra l’altro – ha dichiarato Frank Seebacher, professore di biologia presso la scuola di scienze biologiche e ambientali dell’Università di Sydney – «le materie plastiche sono al pari del riscaldamento globale per quanto riguarda gli effetti nocivi a livello globale e, al contempo, sono il motore stesso dei cambiamenti climatici a causa del loro bisogno di combustibili fossili».

Lo studio, condotto dall’Osservatorio Globale sulla Salute Planetaria del Boston College, in collaborazione con la Fondazione australiana Minderoo e il Centro Scientifico di Monaco, è di particolare rilievo in quanto, come anticipato, ha per la prima volta evidenziato l’impatto della plastica sulla salute pubblica nel suo intero ciclo di vita. Inoltre, ha sottolineato quanto l’attuale modello sia del tutto insostenibile e deleterio, nonché ancora in via di peggioramento. Stiamo infatti assistendo ad una amplificazione progressiva dei danni da plastica, la cui causa principale sarebbe proprio riconducibile all’aumento, quasi esponenziale e tuttora in accelerazione, della produzione globale di polimeri industriali. Gli effetti negativi dei prodotti plastici sono inoltre ulteriormente esacerbati dai bassi tassi di recupero e riciclaggio e dalla lunga persistenza dei relativi rifiuti nell’ambiente. La ricerca, in definitiva, va quindi ad aumentare le evidenze relative alla necessità di cambiare l’odierno approccio produttivo e consumistico focalizzandosi però sugli impatti sanitari. D’altro canto, quelli sull’ambiente e, di conseguenza, sul benessere delle società, sono invece già da tempo stati messi sotto i riflettori: il ciclo di vita della plastica è insostenibile, ed ora sappiamo con certezza che danneggia  direttamente anche la nostra salute. [di Simone Valeri]

Articolo di “The Guardian”, dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 10 marzo 2023.

 La bonifica è inutile se la produzione continuerà al ritmo attuale – scrive The Guardian.

Un aumento senza precedenti dell'inquinamento da plastica è stato scoperto dagli scienziati, che hanno calcolato che più di 170 milioni di particelle di plastica galleggiano negli oceani.

Gli scienziati hanno chiesto una riduzione della produzione di plastica, avvertendo che "la rimozione è inutile" se si continua a riversarla nell'ambiente al ritmo attuale.

 La ricerca, condotta dal 5 Gyres Institute e pubblicata sulla rivista Plos One, valuta le tendenze della plastica negli oceani dal 1979 al 2019. Gli autori hanno rilevato un rapido aumento dell'inquinamento marino da plastica e hanno incolpato l'industria della plastica per non aver riciclato o progettato per la riciclabilità.

Il dottor Marcus Eriksen, cofondatore del 5 Gyres Institute, ha dichiarato: "L'aumento esponenziale delle microplastiche negli oceani del mondo è un forte avvertimento che ci impone di agire ora su scala globale, di smettere di concentrarci sulla pulizia e sul riciclaggio e di inaugurare un'era di responsabilità delle aziende per l'intera vita degli oggetti che producono".

 "La pulizia è inutile se continuiamo a produrre plastica al ritmo attuale, e abbiamo sentito parlare di riciclaggio per troppo tempo mentre l'industria della plastica rifiuta contemporaneamente qualsiasi impegno ad acquistare materiale riciclato o a progettare per la riciclabilità. È ora di affrontare il problema della plastica alla fonte".

I ricercatori hanno esaminato 11.777 campioni di plastica galleggiante nell'oceano per creare una serie temporale globale che stimasse il numero medio e la massa di microplastiche nello strato superficiale dell'oceano, mettendo in relazione i dati con le misure politiche internazionali volte a ridurre l'inquinamento da plastica per valutarne l'efficacia.

 Lo studio ha rilevato che a partire dal 2005 si è verificato un rapido aumento della massa e dell'abbondanza di plastica negli oceani. Ciò potrebbe riflettere un aumento esponenziale della produzione di plastica, la frammentazione dell'inquinamento plastico esistente o i cambiamenti nella produzione e nella gestione dei rifiuti terrestri.

Gli scienziati stimano che negli oceani siano presenti almeno 170 milioni di particelle di plastica, per un peso complessivo di circa 2 milioni di tonnellate.

 Se non si interviene immediatamente a livello globale sulla produzione di plastica, si prevede che il tasso di plastica che entra negli ambienti acquatici aumenterà di circa 2,6 volte dal 2016 al 2040.

Gli scienziati hanno chiesto ai governi di intervenire per arginare la marea di plastica. Il dottor Edward J. Carpenter, dell'Estuary and Ocean Science Center della San Francisco State University, ha dichiarato: "Sappiamo che l'oceano è un ecosistema vitale e abbiamo soluzioni per prevenire l'inquinamento da plastica. Ma l'inquinamento da plastica continua a crescere e ha un effetto tossico sulla vita marina. È necessaria una legislazione che limiti la produzione e la vendita di plastica monouso o la vita marina sarà ulteriormente degradata. Gli esseri umani hanno bisogno di oceani sani per un pianeta vivibile".

 Il documento arriva al momento giusto, visto che in primavera gli Stati membri delle Nazioni Unite si riuniranno per decidere le politiche sull'inquinamento da plastica.

I ricercatori hanno avvertito che le politiche internazionali sulla plastica sono frammentate, mancano di specificità e non includono obiettivi misurabili. Hanno chiesto che la responsabilità delle imprese per la produzione di plastica sia applicata a livello globale, con una legislazione giuridicamente vincolante che affronti l'intero ciclo di vita della plastica, dall'estrazione e dalla produzione alla fine del suo ciclo di vita.

Il reddito di cittadinanza finisce nella plastica: così buttiamo i soldi tolti ai poveri. L’Ue ha introdotto una norma che fa pagare 0,80 euro per ogni chilo di plastica finito in discarica. Una gabella che si mangia i 785 milioni risparmiati con il taglio del reddito di cittadinanza. Gloria Riva su L’Espresso il 9 Gennaio 2023.

Il taglio del reddito di cittadinanza al 40 per cento delle famiglie percettrici consentirà un risparmio per le casse pubbliche di 785 milioni di euro. La stangata arriverà a settembre, quando perderanno il diritto al contributo le famiglie che al proprio interno non hanno minori, non hanno anziani o disabili. L'obiettivo è quello di favorire l'attivazione al lavoro di queste persone, anche se dall'Istat, alla maggior parte degli economisti italiani, resta più d'una perplessità sulla capacità di attivare queste persone, che hanno mediamente un'età elevata, bassi livelli di istruzione, sono soli e vivono al Sud.

Gli affari del fotovoltaico e la regione siciliana che sembra un suq. ATTILIO BOLZONI su Il Domani l’08 aprile 2023

Contro i califfi di Palermo le opposizioni, i sindacati, i tecnici, gli ambientalisti e anche il ministro delle Imprese e del made in Italy Adolfo Urso di Fratelli d’Italia. Schifani & C. vogliono una fetta della torta anche se tutta la materia è regolata da leggi italiane e normative europee.

Lo scontro con l’ex presidente della commissione scientifica regionale per le autorizzazioni ambientali Aurelio Angelini: «Il rilascio delle autorizzazione non è la sua bottega personale, Schifani si fida di quattro monnezzari, cavaioli (proprietari di cave, ndr) e palazzinari».

Al fianco del governatore i suoi predecessori Lombardo e Cuffaro e gli esponenti di Sicindustria legati a Calogero Montante.

Detta un po' brutalmente, il governatore vuole una fetta di torta. Scriviamola così perché, in sostanza, è proprio il senso delle sue parole. Una provvigione - chiamiamola ancora così - magari del 3 per cento e non certo per lui ma per i siciliani. Quali siano poi questi siciliani, è tutto da vedere.

È probabile che il governatore abbia in mente la riduzione delle bollette ma, al momento, di sicuro sono pendenti in regione richieste di autorizzazioni per impianti fotovoltaici per una decina di miliardi di euro. L'affare fa gola, fiutato da Renato Schifani che non ha intenzione di fare solo il passacarte come vuole la legge. Cosa succederà in Sicilia sulle energie rinnovabili non lo sappiamo, intanto è già successo il finimondo. Fiammate, veti, messaggi trasversali, interviste a chi la spara più grossa con la regione che sembra un suq.

VETI E MESSAGGI

Ricapitoliamo. Qualche giorno fa il governatore, subito spalleggiato da due suoi predecessori che gli sono molto amici, Raffaele Lombardo e Totò Cuffaro, se n'è uscito allo scoperto come un funambolo dichiarando: «Ho deciso a breve di sospendere il rilascio delle autorizzazioni per il fotovoltaico, dobbiamo valutare l'utile d'impresa con l'utile sociale e con il danno ambientale.

La Sicilia paga un prezzo non dovuto per una risorsa che abbiamo, è il danno e la beffa». E poi arriva al punto che più gli interessa: «Mi chiedo perché non debba essere riconosciuta una quota anche alla regione siciliana». La fetta di torta.

La Sicilia è terra fortunatissima per sole e vento, prima e soltanto qualche volta seconda regione italiana con la più alta produttività del fotovoltaico. E, fino a qualche mese fa, era anche in vetta alle classifiche che misurano l'efficienza per il rilascio delle autorizzazioni ambientali nel settore delle rinnovabili. Per quasi 10 miliardi di euro, dalla metà del 2020 sino alla fine del 2022. Ma da quando c'è lui, Schifani, la musica è cambiata. Vuole la sua parte, vuole una sorta di accise, una tassa sull'energia. Obiettivo complicato da raggiungere: è tutta materia regolata da leggi nazionali e da direttive europee, la regione siciliana in teoria è fuori dai giochi ma in pratica i califfi di Palermo non vogliono restare a bocca asciutta. Ecco come si spiegano le parole del governatore Schifani che ha minacciato lo stop alle autorizzazioni.

Solo uno spot?

In realtà l'interesse dei nuovi vecchi padroni della Sicilia per una percentuale sul fotovoltaico c'è sempre stata (il primo e più accanito sostenitore Raffaele Lombardo), ma da quando Schifani ha aperto la sua campagna elettorale nel settembre scorso è diventata una sua fissazione.

Da una parte lui e i soliti noti, dall'altra le opposizioni, poi le critiche aspre dei sindacati, di ambientalisti e tecnici, poi ancora le perplessità del ministro delle Imprese e del made in Italy Aldolfo Urso di Fratelli d'Italia.

La mossa di Renato Schifani ha l'effetto di uno spot ma nasconde molto altro. E' una delle grandi partite siciliane di questi mesi. E invece di programmare e ordinare i mastodontici investimenti sul fotovoltaico (fra la piana di Catania e le prime colline della provincia di Enna è previsto il più grande impianto d'Europa), alla regione pensano all'antica e alzano la posta. Improvvisano, vogliono tutto e subito come volevano tutto e subito i loro antenati degli anni '50 e '60 quando ancora non si parlava di sole e di vento ma di miniere, di zolfo e di sale, e poi di idrocarburi e di raffinerie. Vittimismo e furbizie.

Sergio Lima, della direzione nazionale del Partito democratico e nella segretaria regionale siciliana, ha seguito le acrobazie di Renato Schifani sul fotovoltaico fin da principio: «Non si è mai preoccupato di fare una pianificazione, di fare una mappatura delle aree idonee e non idonee e adesso si tira fuori questa storia del blocco delle autorizzazioni che svela la mancanza totale di una visione strategica sul futuro della Sicilia».

LA PAROLINA MAGICA

In verità Schifani non si è mai preoccupato neanche di un altro aspetto e per nulla secondario del problema: quello della cosiddetta “compensazione” in favore dei comuni che ospitano le installazioni fotovoltaiche da parte delle grandi società che investono nell'isola.

Le società hanno l'obbligo di risarcire quei comuni, con il 3 per cento dei loro ricavi, appunto in opere compensative tipo strade, impianti di illuminazione, reti idriche e fognarie. Il governatore, che fa un po' di confusione, vorrebbe anche per la regione almeno quel 3 per cento per riempire le cassaforti. Non c'è legge che lo preveda.

Da lì sono cominciate le frizioni con Roma, il botta e risposta con il ministro Urso, le pacche sulle spalle ricevute subito da Raffaele Lombardo e con l'assessore all'Energia del governo Schifani Roberto Di Mauro che si è messo subito in riga. La parolina magica - royalties - però la pronunciata per primo Toto Cuffaro: «Credo che il governatore abbia voluto significare come la Sicilia non possa rimanere esclusa dalle royalties versate in produzione energetica anche come ristoro».

LA GUERRA CONTRO I TECNICI

Per capire meglio questa rocambolesca vicenda del fotovoltaico siciliano è necessario fare un passo indietro e tornare ala giunta precedente, governatore Nello Musumeci di Fratelli d'Italia.

A vigilare su tutta la questione c'era un pool di esperti e presidente della commissione tecnico scientifica per le autorizzazioni ambientali in Sicilia era Aurelio Angelini, storico esponente dei Verdi nell'isola e preside della facoltà di Scienze dell'Uomo dell'università Kore di Enna. Stava per cambiare il governo, stava per arrivare Schifani e, nonostante il record di concessioni autorizzate per il fotovoltaico, Angelini viene indicato da Schifani come l'ambientalista “che con il suo rigore blocca tutto”. Dice di più Schifani: «Il professore Angelini è come Dracula all'Avis, all'associazione volontari di sangue».

Ne nasce una polemica violentissima, poi Angelini si dimette. E il blocco lo va a minacciare proprio il governatore. «Quello che ha sostenuto Schifani è infondato e assolutamente falso, lui si fida di quattro monnezzari, cavaioli (proprietari di cave, ndr) e palazzinari, fin quando sono stato a capo di quella commissione abbiamo saputo dire di no quando andava detto, abbiamo portato scompiglio fra chi aveva interessi su discariche e cave e cemento, il rilascio delle autorizzazioni non è la sua bottega personale, è un'attività amministrativa che compete alla regione e che non si può bloccare e non può essere sottoposta a modifiche se non con leggi nazionali che dovrebbero discendere da direttive europee».

IL “RE DEL VENTO” E I LEGHISTI

Le procedure "ferme" in regione sul fotovoltaico oggi sono tra le 300 e le 400 e sono di fatto congelati investimenti per poco più di 10 miliardi di euro. Siccome la regione non può svolgere un ruolo di "mediazione” preferisce mandare tutto all'aria. Accusa Angelini: «Ma bloccare sarebbe un abuso perché lui non ha questo potere, o fa finta o non sa davvero come funziona..non esiste la possibilità di avere royalties, sarebbe quasi un'estorsione». L'ex presidente del comitato tecnico scientifico della regione annuncia un esposto alla procura della repubblica: «Lo stiamo preparando con alcuni colleghi della facoltà di Ingegneria».

In questa vicenda del fotovoltaico, almeno per ora, c'è poca mafia e c'è tanto business. Anche se nella postazione chiave regionale per le autorizzazioni Angelini si è insediato dopo l'azzeramento della struttura seguito allo scandalo del “re del vento” Vito Nicastri, sospettato di legami con il boss Matteo Messina Denaro (una condanna annullata per concorso esterno e un altro processo ancora  in corso) e che ha coinvolto nel 2019 l'ex sottosegretario leghista alle Infrastrutture Armando Siri e Paolo Arata, l'ex consulente per l'Energia di Matteo Salvini. Da quel momento tutto è filato liscio fino a quando è arrivato Schifani.

GLI EREDI DEL CAVALIERE MONTANTE

Sullo sfondo un ”sistema“ ereditato dai tempi del Cavaliere Calogero Antonello Montante, l'ex vicepresidente di Confindustria condannato per associazione a delinquere e dossieraggio che del governatore è amico oltre che coimputato in un processo a Caltanissetta. In quasi totale isolamento, Aurelio Angelini si è ritrovato addosso i potenti dell'isola. In testa anche i capi di Sicindustria, primo fra tutti Alessandro Albanese che dello spione Montante è sempre stato un fedelissimo. Albanese aveva parlato della pubblicazione di un volume per dimostrare le mancanze di Angelini in commissione, il professore ha replicato colpo su colpo “alla bugiarda campagna diffamatoria”. E ha fatto capire chi erano i suoi nemici: «Contro di me c'è una montante campagna». Giochi di parole, montante e Montante (inteso Calogero) con in mezzo sempre quelli di Sicindustria.

ATTILIO BOLZONI. Giornalista, scrive di mafie. Ha iniziato come cronista al giornale L'Ora di Palermo, poi a Repubblica per quarant'anni. Tra i suoi libri: Il capo dei capi e La Giustizia è Cosa Nostra firmati con Giuseppe D'Avanzo, Parole d'Onore, Uomini Soli, Faq Mafia e Il Padrino dell'Antimafia.

Transizione energetica. I pannelli solari ibridi convengono davvero? Ecco tutti i pro e i contro. Sono il futuro delle rinnovabili: producono energia nel pieno rispetto dell’ambiente. Ma la tecnologia è relativamente nuova e non sempre è vantaggiosa. Ecco cosa c'è da sapere. Giuditta Mosca il 2 Marzo 2023 su Il Giornale.

La dipendenza energetica dell’Italia si è palesata con la recente ascesa dei prezzi, spinti verso l’alto dal quadro congiunturale e da quello geopolitico. Cercare un’alternativa che possa ovviare a ogni problema futuro è tema di riflessione, anche se non è sempre facile districarsi nel panorama delle tante offerte proposte dal mercato. Tra queste alternative spiccano i pannelli solari ibridi che, pur rappresentando un investimento, garantiscono notevoli risparmi sul medio-lungo periodo. Ma sono davvero così vantaggiosi?

Pannelli solari ibridi, i pro e i contro

I pannelli solari ibridi uniscono le peculiarità di quelli termici e di quelli fotovoltaici per produrre energia elettrica, acqua calda e per alimentare il riscaldamento. Il vantaggio più evidente è la loro capacità di produrre contemporaneamente energia elettrica ed energia termica.

È una tecnologia innovativa che dispone di diverse caratteristiche e fornisce prestazioni di vario tipo:

i pannelli solari ibridi vetrati riducono la dispersione di energia ma, se esposti a temperature elevate (tipiche dei mesi caldi) riducono il rendimento elettrico

i pannelli solari ibridi non vetrati resistono meglio alle alte temperature ma hanno una resa elettrica minore

quelli ibridi ad acqua favoriscono la trasmissione del calore e si distinguono per capacità di resa

quelli ibridi ad aria, il cui costo è lievemente inferiore rispetto agli altri, presentano problemi nel recupero termico e quindi in generale nel rendimento delle celle solari

i pannelli solari ibridi a collettori piani sono i più validi dal punto di vista della restituzione di energia e calore.

La soluzione più adatta, che spesso va scelta partendo dalla geografia e quindi dall’esposizione al sole, riducono la necessità di approvvigionarsi di energie dai gestori tradizionali e, altro aspetto di cui tenere conto, non necessitano di spazi ingenti, di manutenzione eccessiva e hanno una lunga durata.

Il costo e altri inconvenienti

Il costo per l’acquisto e l’installazione supera abbondantemente quello dei pannelli solari termici o fotovoltaici. Il rapporto, a titolo puramente indicativo, prevede una spesa che può raggiungere più del doppio, parlando di un impianto da 3 kWp (potenza di picco). Quindi, supponendo che un impianto solare tradizionale possa costare 6.000 euro, per uno a pannelli ibridi occorre calcolare un costo di almeno 12mila euro.

La manutenzione, benché meno esosa in termini di costi, deve essere fatta con perfetta periodicità pena un calo più che sensibile delle prestazioni.

Non da ultimo, pensare di potere fare a meno di una caldaia è fuorviante: condizione questa che può essere vera, al limite, soltanto per il Sud del Paese e che non è comunque valida per le aree nelle quali gli inverni sono rigidi. I pannelli solari ibridi riducono i costi di riscaldamento ma non li annullano.

Va tenuto in considerazione che il comparto è in piena evoluzione e si tratta di una tecnologia in costante miglioramento che traccerà il futuro dei pannelli solari. Si tratta di un investimento che restituisce valore sul medio-lungo periodo.

CI RESTA IL SOLE. Angelo Vitolo su L’Identità il 4 Febbraio 2023

Cresce il fotovoltaico. Durante l’anno scorso, la potenza fotovoltaica connessa cumulata in Italia risultava pari a 25,05 GW. Gli impianti installati hanno superato il milione, sono oltre 1 milione e 220mila, con l’87% di questi che sono di taglia inferiore ai 12 kW tipica degli impianti di tipo residenziale, il segnale di una diffusione sempre più generalizzata. La potenza connessa nell’arco del 2022 ammonta a 2,48 GW, un aumento del 164% rispetto al 2021.

Le elaborazioni di Italia Solare sui dati Gaudì di Terna rivelano però che “siamo ancora molto al di sotto degli obiettivi al 2030 – dice il presidente Rocco Viscontini -. L’installato reale è molto inferiore a quello sbandierato dallo scorso governo e gli attuali provvedimenti non sono sufficienti. Servono urgenti interventi che consentano vere semplificazioni, specie per gli impianti di grande taglia. E servono aiuti finanziari alle imprese per un più agevole accesso al credito bancario. Al contempo, vanno emanati i decreti attuativi per le Cer, per le aree idonee e le nuove regole del mercato, che dovranno anche agevolare la diffusione dei sistemi di accumulo per una più efficace penetrazione delle rinnovabili. Queste le condizioni per poter raggiungere nel 2023 un obiettivo minimo di almeno 6 GW di nuovo installato, che non sarà ancora quel che serve, ma sicuramente un passo in avanti”.

Laddove gli impianti di grande taglia sono stati resi possibili, l’effetto è evidente. Mentre il residenziale, caratterizzato soprattutto dagli impianti di potenza inferiore ai 12 kW, ha coperto quasi la metà della potenza totale connessa nel 2022 (44%) con un valore pari a 1,1 GW che è frutto delle iniziative collegate al Superbonus, il settore Commerciale e Industriale ha pesato sui numeri per il 28% del totale con 678 MW e gli impianti utility scale con una potenza connessa pari a 571 MW (23%) e un +467% rispetto al 2021.

Un incremento registrato in gran parte – fa notare Italia Solare – proprio in virtù della connessione di 6 impianti con taglia superiore ai 10 MW (uno in Basilicata, uno nel Lazio, uno in Piemonte, uno in Sardegna e due in Sicilia). Invece nell’anno precedente, il 2021, non era stato connesso neanche un impianto di potenza maggiore di 10 MW. E ancora indietro, nel 2020 era stato collegato alla rete un solo impianto di grande taglia.

La lettura della marcia incerta del settore, fin qui troppo frettolosamente accreditato di una possibile rivoluzione a partire dalle favorevoli condizioni climatiche del Mezzogiorno e dalle opportunità che almeno a parole le regioni di quest’area sembravano garantire, è possibile nel dettaglio della diffusione regionale. I 950 MW dei 2,48 GW di potenza fotovoltaica connessa durante lo scorso anno sono da attribuire a tre regioni che non appartengono al Sud: Emilia-Romagna, Veneto e Lombardia. Con quest’ultima che registra 438 MW connessi e 3,15 GW di potenza cumulata e ha superato la Puglia, diventando la regione più solarizzata del nostro Paese, al primo posto tra le regioni italiane con 3.149 MW installati a livello cumulativo. La Puglia arretra al secondo posto (3.063 MW), la segue l’Emilia-Romagna (2.512 MW).

Una crescita da mettere a regime, insomma. Per non perdere punti rispetto agli altri Stati membri dell’Europa dove – come solo pochi giorni fa rilevava l’European Electricity Review del think tank Ember – l’energia eolica e quella solare hanno generato un quinto (22%) dell’elettricità, superando per la prima volta il gas fossile (20%).

L’energia rinnovabile corre in tutta Europa, ma l’Italia procede in retromarcia. Simone Valeri su L'Indipendente il 2 Febbraio 2023

Per la prima volta nella storia, nel 2022, l’energia eolica e quella solare hanno superato il gas in fatto di generazione di energia elettrica. Le fonti rinnovabili, congiuntamente, hanno infatti soddisfatto un quinto del fabbisogno energetico dell’Unione, pari al 22% del totale, contro il 20% da gas fossile. L’uso del carbone, con un incremento del +1,5%, si attesta al 16% pur rimanendo sotto ai livelli del 2018. Nel complesso, i dati resi noti con il rapporto European electricity review, redatto da Ember (un think tank britannico che produce analisi sull’energia), confermano il consolidamento di una tendenza ad una sempre maggiore produzione di energia pulita. Una crescita, nel 2022, guidata in gran parte dalla nuova generazione da fotovoltaico, la quale ha registrato l’aumento record di +24%, ma su cui ha influito la diminuzione della domanda UE di energia (-7,9% nell’ultimo trimestre del 2022 rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente).

Il documento poi, forse cosa ancor più importante, afferma che le fonti fossili, in sostanza, hanno i giorni contati. Secondo la valutazione, si è infatti stimato che la produzione di energia elettrica derivante dalle fonti energetiche climalteranti potrebbe crollare del 20% nel 2023, ovvero, di circa il doppio rispetto al precedente calo record del 2020. Questo vale, in primo luogo, per il carbone, il cui utilizzo è già diminuito negli ultimi quattro mesi del 2022 che, su base annua, si traduce in un calo del 6%. Inoltre, sebbene lo scorso anno l’UE abbia importato 22 milioni di tonnellate di carbone in più a causa dei timori legati alla crisi energetica, a conti fatti, ne ha sfruttato solo un terzo. Un crollo che – secondo i redattori del rapporto – interesserà però anche il petrolio e persino il gas, seppur in una traiettoria più lenta. Chiaro che la transizione alle rinnovabili non potrà essere netta e immediata, ma dovrebbe essere altrettanto evidente quanto sia azzardato investire in via prioritaria in delle risorse in perdita.

Eppure, in Italia, il governo Meloni pare sia focalizzato esclusivamente sul “trasformare la nostra Penisola nell’HUB gasiero d’Europa”. Lo confermano, ad esempio, i recenti viaggi e i successivi accordi della premier in Algeria e Libia giustificati dalla solita retorica: “il gas è l’unica fonte energetica in grado di garantire la sicurezza energetica del Paese”. Una possibilità venduta come certezza che però vacilla solo ragionando in termini di tempo. Ad esempio, basti pensare che i due giacimenti libici, su cui l’Italia ha puntato 8 miliardi di euro, saranno operativi non prima di tre anni e mezzo. È evidente che gli interessi in ballo siano anche e soprattutto altri, che nel nostro Paese possono essere trovati nel polo di potere dove si intrecciano esecutivo e ENI: con i programmi industriali della multinazionale compartecipata dallo Stato che spesso diventano priorità politiche, come testimoniato dal fatto che l’ultimo viaggio in Libia è stato compiuto in modo congiunto da Giorgia Meloni e dall’amministratore delegato di ENI, Claudio Descanzi. Ma, anche laddove questi fossero prettamente energetici, non sarebbe un reale problema se solo tale strategia di diversificazione energetica fosse effettivamente tale. In altre parole, non ci sarebbero particolari critiche da muovere se l’Italia, contestualmente, stesse dando la stessa spinta alle fonti energetiche pulite. Di fatto, invece, al citato balzo in avanti delle rinnovabili la Penisola ha contribuito poco o nulla. Nello stesso anno in cui l’UE ha registrato il primo sorpasso delle rinnovabili su tutte le altre fonti fossili, in Italia, per la prima volta dal 2014, la produzione da eolico e solare è scesa sotto la soglia dei 100 Terawattora (TWh). Un calo del 13% rispetto al 2021. In altre parole, mentre l’Europa corre a grande velocità verso nuove fonti di energia, l’Italia da alcuni anni sta invece correndo in un antistorico controsenso verso il potenziamento dell’energia fossile. [di Simone Valeri]

Pale eoliche: il potere (contestato) del vento. A cura di EDOARDO VIGNA e VALERIA SFORZINI su Il Corriere della Sera il 29 Dicembre 2022.

In Italia lo scontro è sul loro posizionamento, sulla terra come sul mare. Ma quant’è forte e diffusa questa fonte rinnovabile? Ecco il quadro in Europa e nella nostra penisolaL'energia eolica, o energia del vento, viene creata utilizzando una turbina eolica, un dispositivo che incanala la potenza del vento per generare elettricità

Una pala eolica (o aerogeneratore o turbina eolica) è una struttura costruita per trasformare l'energia cinetica del vento (energia eolica) in energia elettrica attraverso l'utilizzo di pale

Nella navicella si trovano i meccanismi per convertire il vento in elettricità. La velocità del vento cresce con la distanza dal suolo, per questo le pale sono così alte

La maggior parte delle risorse eoliche offshore degli Stati Uniti si trova in acque così profonde che le fondamenta tradizionali non sono sufficienti. Le aziende stanno sviluppando soluzioni adatte a ciascun sito

In Italia ora lo scontro è sul posizionamento delle pale eoliche, sia nelle campagne sia in mare aperto. Tutti vogliono la transizione energetica dalle fonti fossili a quelle rinnovabili, pochi però sono disposti ad accettare che gli impianti siano installati vicino alla propria casa. L’energia eolica, o energia del vento, viene creata utilizzando una turbina eolica, un dispositivo che incanala la potenza del vento per generare elettricità: l’altezza media delle turbine è di 146 metri, quelle impiantate in mare possono arrivare attualmente anche a 260. Fra i temi di dibattito c’è anche quello dell’invasività paesaggistica di queste strutture. E nel 2023 la questione dovrà essere affrontata e risolta. Ma quant’è forte e diffusa questa fonte rinnovabile? Ecco il quadro in Europa e in Italia.

L’eolico offshore nei mari italiani: energia a quale prezzo? Giovanni Brussato su Panorama il 30 Maggio 2023

L’aspetto più importante che la crisi energetica ci sta insegnando è la necessità che l’energia abbia dei costi sostenibili se non si vuole devastare il tessuto economico del paese. L’esplosione del prezzo del gas ci ha fatto capire la vulnerabilità del futuro della nostra industria manifatturiera e di conseguenza dell’intero sistema del paese. L’eolico offshore nei mari italiani: energia a quale prezzo?

E’ stata presentata qualche giorno fa, alla presenza del Ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, Aero, l’associazione delle energie rinnovabili offshore, la cui finalità, pare di intuire, è “mettere a terra”, o meglio in mare, gli 8,5 GW di impianti eolici offshore, necessari secondo le stime di Terna, entro il 2030 per raggiungere gli obbiettivi dello scenario Fit for 55, il piano di Bruxelles per ridurre le emissioni nette di gas a effetto serra del Vecchio Continente di almeno il 55% entro il 2030. La risorsa eolica dei mari italiani non va confusa con quella del Mare del Nord: basta consultare il Global Wind Atlas (Global Wind Atlas) per rendersi conto che, sulla base degli standard internazionali della Commissione elettrotecnica internazionale (IEC), la capacità di produzione di energia dei nostri mari è forse la metà di quella dei paesi del Nord Europa. Ma, l’aspetto più importante, quello che la crisi energetica ci sta insegnando, è la necessità che l’energia abbia dei costi sostenibili se non si vuole devastare il tessuto economico del paese. Dal grafico sottostante si può comprendere come il prezzo di riferimento dell’energia elettrica rilevato sulla borsa elettrica italiana, negli ultimi 18 mesi, non abbia precedenti nei 17 anni precedenti, in cui la media mensile del PUN è oscillata tra i 36 e i 100 € per megawattora, MWh, con un valore medio di circa 55 € per MWh. L’esplosione del prezzo del gas ci ha fatto capire la vulnerabilità del futuro della nostra industria manifatturiera e di conseguenza dell’intero sistema del paese: con il prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso costantemente al di sopra dei 200 euro al MWh il futuro più probabile è la deindustrializzazione. Andamento storico del PUN, prezzo unico nazionale. Il primo aspetto da comprendere quindi, è se l’energia prodotta dalle turbine eoliche offshore sia compatibile con il prezzo medio dell’energia che ha permesso lo sviluppo del nostro paese. Oggi l’unico dato di cui disponiamo è quello del parco eolico nella rada antistante il porto di Taranto, Beleolico, per la cui energia i contribuenti italiani pagheranno 201,7 € per MWh per i prossimi 20 anni. Oltre tre volte quello si può considerare un prezzo economicamente sostenibile dal Paese. L’obbiezione che ci viene solitamente posta è che la tecnologia è in evoluzione e che presto i costi di queste tecnologie crolleranno e l’energia prodotta diventerà estremamente economica. Sarà vero? Nemmeno per sogno. I produttori di turbine eoliche europei stanno lottando per sopravvivere. Si stima che il settore abbia perso oltre 3,7 miliardi di euro nei primi nove mesi del 2022 a causa di una miriade di fattori: dai tempi di evasione degli ordini, molto lunghi, che espongono i produttori alla volatilità dei prezzi delle materie prime, alla logistica, un settore di estrema specializzazione, i cui costi sono saliti alle stelle. Una tempesta perfetta che ha costretto queste aziende ad adottare misure drastiche per tornare a produrre utili, privilegiando solo progetti la cui redditività è certa, smettendo di inseguire i volumi e la crescita della quota di mercato. Nordex nel 2022 ha dichiarato un reddito netto negativo per 497,76 milioni di euro, peggio Vestas, le cui perdite hanno superato il miliardo e mezzo di euro. Obbligati ad una rigida disciplina dei costi i produttori sono dovuti intervenire riducendo gli organici, chiudendo siti produttivi e concentrandosi sul loro core business. Ma i costi sono destinati ad aumentare del 3-5% nei prossimi due anni per l'inflazione, che continua a colpire i costi delle materie prime e del lavoro, e del crescente reshoring delle catene di approvvigionamento, che si spostano verso mercati a costi più elevati. Si stima che la differenza degli investimenti in capitale fisso (capex) tra eolico onshore e offshore sarà di circa 2,5 milioni di dollari per MW di capacità. A queste considerazioni sono pervenuti anche gli esperti di Bruxelles, resisi anch’essi conto di come gli aumenti dei prezzi di alluminio, nichel e terre rare hanno fatto lievitare il costo di una turbina eolica del 38% negli ultimi due anni. Questo a causa dell’ormai nota dipendenza dell’Europa dalle materie prime critiche la cui estrazione e lavorazione è nelle mani di pochi paesi. Situazione che, nelle intenzioni di Bruxelles, verrà risolta dall’adozione del Criticals raw materials act (Riflessioni critiche sulle materie prime critiche - Panorama). Oggi le materie prime necessarie per l'energia eolica europea vengono estratte ed elaborate rispettivamente per il 77% e per il 54% al di fuori dall’Unione: pensare di competere a livello globale con le misure previste nella nuova legge sulle materie prime critiche è una pia illusione. E di questo non ce ne siamo accorti solo noi ma anche l’industria eolica cinese (La Cina pronta a mangiarsi anche l’industria eolica europea - Panorama) che vede enormi opportunità per la sua espansione all'estero: le turbine di Beleolico sono della cinese MingYang.

Dei primi 10 produttori di turbine eoliche a livello globale nel 2022 la metà sono aziende cinesi. Si consideri che proprio le turbine eoliche offshore sono quelle più frequentemente dotate di magneti permanenti per consentire una minore manutenzione, viste le condizioni operative, che rendono più complesso e costoso qualsiasi intervento rispetto a quelle onshore. L’industria dei magneti permanenti, prodotti mediante l’utilizzo di alcuni elementi delle terre rare, oggi è controllata da Pechino e la dipendenza dei produttori europei dalle forniture cinesi è totale. Non è un caso che nel 2022 la cinese Goldwind abbia conquistato la prima posizione come quota di mercato globale a scapito di Vestas, sul trono dal 2015. Per quanto la rimozione del sussidio in Cina alla fine del 2021 abbia causato un calo sostanziale di 8 GW pari ad un -77% rispetto all’anno precedente sul segmento eolico offshore globale. Ma il robusto mercato interno ha protetto la maggior parte dei produttori cinesi dai venti contrari delle supply chain globali che hanno gravemente influenzato la redditività delle industrie occidentali. Consentendo loro di ridurre i prezzi sulla prossima generazione di turbine eoliche che eclissano i prodotti proposti dagli occidentali. Oggi, nel decreto Fer 2 all'esame di Bruxelles, il costo dell’energia previsto per l’eolico offshore è di 185 € per MWh. Un prezzo esorbitante a cui vanno aggiunti i costi di collegamento che, presumibilmente, verranno accollati a TERNA, cioè sulle tariffe di trasmissione, per un’energia intermittente, non programmabile. Un’energia, il cui costo, per essere concretamente al servizio del paese, va aumentato per gli opportuni dispositivi di storage, come le batterie, o delle centrali turbogas, pronte ad intervenire per sostenere la rete quando il vento smette di soffiare. Come frequentemente accade quando “ce lo chiede l’Europa”, a pagare sono i contribuenti italiani e probabilmente a guadagnare sarà Pechino.

Auto a idrogeno, pro e contro. Tutti i modelli in commercio. Le auto a idrogeno sono un'alternativa per chi cerca una vettura dall'impatto ambientale pressoché nullo. Pro e contro di un'alimentazione in evoluzione. Tommaso Giacomelli il 23 Aprile 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 Il loro funzionamento

 Pro e Contro delle auto a idrogeno

 Pro

 Modelli in commercio

La mobilità odierna, per quanto riguarda le quattro ruote, non vive più sul dualismo tra benzina e gasolio, ma si esprime su più campi che, nel tempo, hanno raggiunto sempre maggiore spazio e fiducia negli automobilisti. Basti pensare all'ascesa dell'ibrido e alla rincorsa costante dell'elettrico. Più in sordina, ma non meno importante, bussa alla porta con cortesia anche l'idrogeno che, per alcuni, resta qualcosa di misterioso. Dunque, vediamo quali sono le specifiche, i pro e i contro, delle auto a idrogeno.

Il loro funzionamento

Le auto a idrogeno hanno un funzionamento avvicinabile, in un certo senso, a quello delle elettriche vere e proprie. La differenza più incisiva risiede nella fonte di energia che mette in movimento le ruote. Le auto Fuel Cell (quelle a idrogeno) producono in autonomia l’energia elettrica, senza ottenerla da un pacco batterie integrato, come accade nelle BEV e ibride plug-in, che sfruttano la carica di una presa elettrica esterna.

All’interno delle celle a combustibile si realizza il processo di elettrolisi inversa, durante il quale l’idrogeno reagisce con l’ossigeno. L’idrogeno, poi, viene stipato in uno o più serbatoi collocati nell’auto, mentre l’ossigeno viene aspirato dall’aria circostante. La reazione tra questi diversi elementi produce energia elettrica, calore e acqua, che fuoriesce dallo scarico sotto forma di vapore acqueo, non provocando nessun impatto negativo per l'ambiente.

La corrente generata nella cella a combustibile viene, successivamente, mandata tanto al motore elettrico quanto a una batteria che la accumula per poi trasferirla alla trazione quando è necessario. Questa batteria è di dimensioni più compatte rispetto a quelle di un’auto esclusivamente elettrica. Infine, anche le auto a idrogeno sono in grado di recuperare l’energia in frenata, per immagazzinarla nella batteria.

Pro e Contro delle auto a idrogeno

Pro

Il tempo di rifornimento breve: a differenza delle auto elettriche, il serbatoio dell’idrogeno di una vettura con celle a combustibile può essere riempito in meno di cinque minuti, come avviene con una vettura "tradizionale" a benzina o gasolio;

Buona autonomia: un serbatoio carico di idrogeno basta per coprire una distanza minimale di 500 chilometri, ma ci sono esempi di percorrenze ancora più lunghe. La tecnologia fa passi da gigante, anche in questo campo. L’autonomia di un’auto a idrogeno, poi, non è influenzata in modo negativo dal freddo o dal caldo eccessivo, oltre a sapere rendere al meglio anche alle alte velocità;

Amica dell'ambiente: anche nel caso di questi veicoli si parla di un impatto ambientale pari a zero, grazie a nessun tipo di emissione nociva nell'aria.

Contro

Infrastrutture scarse: almeno in Italia, per il momento, si può contare su pochissimi punti di rifornimento, dislocati soprattutto nel Nord del Paese.

Il prezzo d’acquisto poco economico: la tecnologia Fuel Cell, in continua evoluzione, non permette ancora di ridurre i costi finali per gli utenti. Per questo motivo, il loro prezzo d'acquisto è alto e non per tutte le tasche.

Modelli in commercio

Il ventaglio di proposte a idrogeno per gli automobilisti italiani è ridotto all'osso, con due sole soluzioni provenienti da Oriente: Hyundai Nexo e Toyota Mirai. La prima è un SUV dai tratti carismatici, dalle ottime caratteristiche, che è dotato di 3 serbatoi, ognuno da 52,2 litri, che permettono un'autonomia complessiva dichiarata di oltre 650 km WLTP. Nonostante un peso di oltre 2 tonnellate, con i suoi 120 kW è in grado di scattare da 0 a 100 km/h in 10 secondi. Il prezzo si aggira sui 77.000 euro. 

La seconda è una berlina più convenzionale ed elegante, giunta alla sua seconda generazione. La Mirai è una macchina di rappresentanza, con oltre 5 metri di lunghezza, dotata di 330 celle e di un sistema di bombole dalla capienza ampia che permette un'autonomia di 650 km, con un motore posteriore dalla potenza di 128 kW. Prezzo di 66.000 euro.

L’Ue ha stabilito i criteri per la corsa all’idrogeno verde. Giorgia Audiello su L'Indipendente il 19 febbraio 2023.

Dopo un lungo periodo di discussioni e incertezze, l’Unione europea ha pubblicato la proposta di criteri tecnici che consentono di stabilire quando la produzione di idrogeno si può considerare “verde” e rinnovabile nell’Ue in vista della transizione ecologica. L’idrogeno verde, infatti, servirà a sostituire i combustibili fossili nei processi industriali e nella produzione di energia, ma mentre ora è ancora prodotto utilizzando la rottura delle molecole di gas naturale, l’obiettivo è quello di produrlo scindendo molecole d’acqua aperta attraverso i cosiddetti elettrolizzatori. L’idrogeno si ottiene attraverso il fenomeno dell’elettrolisi per cui il passaggio di corrente elettrica causa la scomposizione dell’acqua in ossigeno e idrogeno. Il punto è quanto dell’elettricità impiegata per la scissione debba provenire da fonti rinnovabili perché l’idrogeno possa essere considerato “pulito”: secondo i criteri stabiliti dalla Commissione Ue, può essere considerato “verde” quando prodotto con elettricità rinnovabile, ma anche con elettricità a bassissima intensità di emissioni, ossia con mix energetici con una forte incidenza del nucleare.

La Commissione europea ha impiegato più di sette mesi per trovare un compromesso tra quei Paesi, come la Francia, che chiedevano di riconoscere anche l’idrogeno da nucleare e Paesi, invece, come la Germania, che erano contrari, optando infine per una soluzione intermedia: le regole, infatti, non consentono ai produttori di idrogeno di beneficiare dell’etichetta rinnovabile firmando contratti diretti con centrali nucleari, ma consentono un mix energetico con una spiccata componente di energia nucleare. L’obiettivo è quello di raggiungere 10 milioni di tonnellate di produzione interna di idrogeno rinnovabile e 10 milioni di tonnellate di idrogeno rinnovabile importato entro il 2030, come stabilito con il piano REPowerEu. La proposta della Commissione sarà trasmessa al Parlamento europeo e al Consiglio che hanno due mesi di tempo per esaminarli e accettarli o respingerli con possibilità di prorogare il periodo d’esame di due mesi, senza modificare gli atti loro sottoposti. L’intento è quello di fornire agli investitori certezza normativa. Si prevede che la domanda di energia elettrica per la produzione di energia aumenterà verso il 2030 con la diffusione di elettrizzatori su larga scala.

La proposta della Commissione prevede diversi modi con cui i produttori possono dimostrare che l’energia impiegata per la produzione di idrogeno proviene da fonti rinnovabili: firmare contratti di fornitura di energia con progetti di energia rinnovabile relativamente nuovi – non più vecchi di tre anni – situati nella stessa regione o in una regione adiacente del mercato elettrico europeo, dimostrando inoltre che la quantità totale di idrogeno rinnovabile prodotto e di elettricità pulita consumata saranno allineate su un periodo di 30 giorni, anche se le quantità di energia eolica e solare variano di giorno in giorno. Operare in un’area con un’elevata capacità di energia rinnovabile: le fabbriche di idrogeno verde situate in aree della rete europea in cui oltre il 90% dell’energia è rinnovabile possono semplicemente acquistare dalla rete senza firmare contratti con progetti di energia rinnovabile. Infine, gli impianti possono ottenere la designazione di verde anche qualora riescano a dimostrare che la produzione di idrogeno avviene quando i prezzi dell’energia elettrica sono così bassi che i generatori di combustibili fossili non possono funzionare in modo redditizio.

La strategia Ue per l’idrogeno mira a ottenere 6000 MW di elettrolizzatori alimentati da energia elettrica rinnovabile entro il 2025. Quanto all’idrogeno ottenuto da energia nucleare, Bruxelles ha spiegato che gli atti adottati derivano dalla direttiva sull’energia da fonti rinnovabili che non annovera il nucleare tra le fonti  di energia “pulita”. Di conseguenza, la Commissione ha proposto di definire l’idrogeno a basse emissioni di carbonio come «idrogeno ricavato da fonti non rinnovabili che durante l’intero ciclo di vita produce emissioni di gas a effetto serra inferiori di almeno il 70% a quelle del gas naturale fossile». Inoltre, la Commissione chiede che entro il 31 dicembre 2024 vengano adottati degli atti delegati che specifichino la metodologia per valutare le riduzioni delle emissioni di anidride carbonica ottenuta grazie ai combustibili a basse emissioni di carbonio. [di Giorgia Audiello]

IDROGENO AL PALO. Angelo Vitolo su L’Identità l’11 Gennaio 2023

La prima fotografia dello stato dell’innovazione in tutte le tecnologie dell’idrogeno racconta che lo sviluppo avanza verso soluzioni a basse emissioni come l’elettrolisi. Il dato emerge da uno studio, il primo di questo tipo, realizzato dall’Ufficio europeo dei brevetti (Epo) e dall’Agenzia internazionale dell’energia (Iea) che ha svolto un’analisi completa e aggiornata approfondendo l’intera gamma di tecnologie, dalla fornitura di idrogeno allo stoccaggio, dalla distribuzione alla trasformazione, fino alle applicazioni finali.

Un report che evidenzia per l’idrogeno, ancora una volta, opportunità ed esigenze, per fare chiarezza sul suo reale valore nel quadro di una più radicale trasformazione dei fabbisogni energetici. Lo ribadisce il direttore Iea, Fatih Birol: “L’idrogeno da fonti a basse emissioni può svolgere un ruolo importante nella transizione verso l’energia pulita, con il potenziale di sostituire i combustibili fossili in settori in cui esistono poche alternative pulite, come il trasporto a lungo raggio e la produzione di fertilizzanti. Questo studio dimostra che gli innovatori stanno rispondendo alla necessità di catene di approvvigionamento dell’idrogeno competitive, ma identifica anche le aree – in particolare tra gli utenti finali – in cui sono necessari ulteriori sforzi”. Mentre il presidente Epo, António Campinos, sottolinea la funzione svolta dall’idrogeno nel quadro regolatorio e di target che l’Europa vuole darsi: ”

Sfruttare il potenziale dell’idrogeno è una parte fondamentale della strategia europea per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050. Ma se si vuole che l’idrogeno svolga un ruolo importante nella riduzione delle emissioni di CO2, è urgente l’innovazione in una serie di tecnologie”.

 Il rapporto, infatti, pone risalto al grande contributo dell’Europa all’emergere di nuove tecnologie dell’idrogeno ed evidenzia il contributo delle startup all’innovazione nell’idrogeno e la loro dipendenza dai brevetti per portare le loro invenzioni sul mercato. Ma quale è, oggi, il posizionamento dei vari Paesi riguardo all’idrogeno e alla ricerca indispensabile e costante di tecnologia che necessita? La brevettazione globale nel settore dell’idrogeno è guidata proprio dall’Unione Europea e dal Giappone, che rappresentano rispettivamente il 28% e il 24% di tutti brevetti internazionali depositati in questo periodo, con una crescita significativa nell’ultimo decennio. I Paesi leader in Europa sono la Germania (11% del totale globale), la Francia (6%) e i Paesi Bassi (3%). Mentre gli Stati Uniti, pur registrando il 20% di tutti i brevetti, negli ultimi dieci anni hanno di fatto visto diminuire le richieste di brevetti internazionali sull’idrogeno. Anche se modesta, risulta essere in crescita l’attività brevettuale di Corea del Sud e Cina.

E l’Italia? Assente dai primi posti dei Paesi Ue, lo è significativamente anche nella sezione del rapporto dedicata all’automotive ove la parte del leone la fanno due società giapponesi (Toyota e Honda) e due società coreane (Hyundai e Kia). La sigla It ricompare laddove è letto il profilo dell’industria siderurgica, con il Gruppo Danieli. Il cui presidente, Gianpietro Benedetti, nel maggio scorso, a proposito di una possibile Hydrogen Valley tra Friuli-Venezia Giulia, Slovenia e Croazia aveva detto: “Ma per fare l’idrogeno ci vuole energia. In Slovenia c’è il nucleare, in Croazia il gas, e allora si può fare l’idrogeno. Ma non si può parlare di idrogeno senza aver deciso come si fa l’energia”.

Il tumore, poi il suicidio: addio a Viktor Smagin, uno degli ultimi eroi di Chernobyl. Storia di Federico Garau su Il Giornale sabato 28 ottobre 2023.

Viktor Smagin, uno degli ultimi eroi di Chernobyl in vita, ha deciso di porre fine alle sue sofferenze suicidandosi all'età di 75 anni.

Un gesto eroico, il suo, quello compiuto dopo la tremenda esplosione del 26 aprile 1986: l'ingegnere fu tra i primi ad accorrere sul posto e a intervenire in prima persona per limitare i danni e tentare, per quanto possibile, di porre rimedio alle conseguenze del disastro. Quella decisione comportò delle inevitabili ripercussioni sulla sua salute, dato che per quasi 40 anni Smagin ha dovuto affrontare numerose diagnosi di tumore: all'ultima ricevuta, tuttavia, l'ex ingegnere non ha retto e si è tolto la vita, lanciandosi nel vuoto da una finestra del palazzo in cui viveva a Mosca.

Il 26 aprile del 1986 Viktor Smagin sarebbe dovuto entrare in servizio alle 8.00 del mattino, ma fu risvegliato dalla terribile esplosione del reattore numero quattro. Quelle immagini che l'ingegnere vide dal 14esimo piano del suo appartamento lo spinsero a precipitarsi alla centrale di Chernobyl per dare il suo contributo. La prolungata esposizione ebbe delle pesanti conseguenze, dato che l'ingegnere fu colpito da cancro da radiazioni: dopo la tremenda diagnosi, nel corso degli anni l'uomo ha dovuto affrontare sette interventi chirurgici. Nonostante i ricoveri e le visite in vari centri specializzati, tuttavia, Smagin non riuscì mai ad avere la meglio sulla malattia.

Smagin ha raccolto le sue memorie per raccontare quei tragici momenti che hanno cambiato per sempre la vita sua e quella degli altri "liquidatori" che quel giorno si prodigarono per dare il proprio contributo dopo l'incidente di Chernobyl. "Dentro gli edifici la gente combatteva il fuoco. Non c'era panico, ognuno stava semplicemente facendo il proprio lavoro", scrive l'ingegnere. "Il personale ha spento l'incendio e ha drenato l'olio in contenitori sotterranei; gli elettricisti hanno scaricato l'idrogeno. Molti di coloro che hanno salvato la stazione hanno ricevuto dosi letali di radiazioni e poi sono morti in ospedale".

La popolazione di Pripyat fu evacuata il giorno successivo, ma il personale non poteva lasciare la città, dato che c'era ancora del lavoro da fare sulla centrale. "Quasi nessuno si è arreso, anche se è stato spaventoso", ricorda l'ingegnere. "Su 5mila solo sei o sette persone fuggirono, e questo nonostante che tutti fossero professionisti e sapessero perfettamente cosa fossero le radiazioni". Tanti di quei liquidatori sono morti per compiere il proprio dovere: anche Smagin ha ricevuto un'onorificenza per il suo prezioso contributo, ma la sua esistenza, così come quella degli altri colleghi sopravvissuti, non è stata più la stessa.

L'ultima diagnosi è stata devastante, e l'ex ingegnere ha deciso di togliersi la vita dopo aver lasciato una lettera ai suoi familiari. "Miei cari: Larisa, Dima e Sveta! Ora è il momento di salutarci. Grazie mille per gli anni che abbiamo vissuto insieme. È stata felicità. Mi dispiace!", ha scritto l'uomo prima di lanciarsi nel vuoto.

Chi vuole il nucleare in Italia: la corsa tra lobby, pressioni e false promesse. L'Europa spinge per le nuove centrali, il governo è favorevole, il ministro Pichetto Fratin promette di studiare un piano (con scarsa trasparenza). Come dice all'Espresso il presidente di Legambiente, tutti sono consapevoli che l'energia atomica non tornerà in Italia, ma nel frattempo si possono spendere soldi con la gioia delle società del settore. E intanto nessuno sa dove stoccare le vecchie scorie. Carlo Tecce e Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 05 ottobre 2023 

Crisi petrolifera più nuove tecnologie uguale pazza idea di riprovarci con il nucleare. Ce lo chiede l’Europa? Non proprio, almeno non tutta. Ma il taglio dei barili manovrato da Vladimir Putin e dal reggente saudita Mohammed bin Salman si sposa a meraviglia con l’inserimento della fissione di nuova generazione nella tassonomia delle fonti energetiche pulite previste dall’Ue. «La prima centrale la voglio a Milano, nel mio quartiere», si esalta il vicepremier Matteo Salvini mentre si unisce all’appello di un nuovo referendum. 

In un Paese che fa enorme fatica a mantenere in piedi ponti, viadotti e gallerie, cioè manufatti con migliaia di anni di elaborazione tecnica, confidare nei nuovi piccoli reattori Smr o Amr, più sicuri e meno impattanti in termini di scorie, appare comunque un azzardo. Ma le imprese sono già in pista. Ansaldo, Cecom, Ags sono nel progetto Iter, finanziato dai francesi con 20 miliardi di euro e dedicato alla terra promessa, la fusione, attesa dopo il 2050. Sulla fusione a sconfinamento magnetico del reattore sperimentale Sparc lavora l’Eni guidata da Claudio Descalzi con la Cfs, uno spinoff del Massachusetts Institute of Technology. L’Enel è nel nucleare spagnolo e sloveno. 

Il governo sta a guardare. I traguardi del nuovo atomo sono tutti a lungo termine, oltre i dieci anni, e la legge di bilancio in arrivo basta a soddisfare tutti gli incubi del centrodestra per i prossimi mesi. Intanto l’Europa si muove. 

La presidente della Commissione Ursula von der Leyen finora ha mostrato una capacità acrobatica ammirevole. È partita nel 2021 per dire che «serve una fonte stabile, il nucleare». A gennaio 2022 ha ribadito: «Ok al nucleare. Solo, sicuro e moderno». Lo scorso marzo ha scoperto: «Il nucleare non è strategico all’interno della transizione energetica». 

Ursula si barcamena fra un fronte Ue contrario all’energia da fissione, con la Germania che in aprile ha chiuso gli ultimi tre impianti, e una platea sempre più ampia che difende i reattori moderni. Nell’Alleanza nucleare varata due anni fa ci sono sette Paesi (Polonia, Ungheria, Slovenia, Slovacchia, Cechia, Romania) sotto la guida della Francia, superpotenza atomica dotata di una sessantina di reattori vecchi e a rischio crescente. Oggi l’Alleanza ha raddoppiato a quattordici con Bulgaria, Croazia, Olanda, Belgio, Estonia, Svezia, che in agosto ha annunciato la costruzione di dieci nuovi reattori in vent’anni, e Finlandia, dove in aprile è stato avviato Olkiluoto 3, il più grande reattore continentale di nuova generazione, una formula rassicurante contro un passato di incubi che torna. 

Il 24 agosto 2023 è esplosa la crisi internazionale fra Giappone e Cina dopo che il governo di Fumio Kishida ha dato via libera allo sversamento in mare delle acque di raffreddamento della centrale di Fukushima Dai-ichi dove l’11 marzo 2011 un terremoto e lo tsunami successivo provocarono una fuoruscita di radioattività di livello 7, la quota più alta della scala di misurazione Ines che corrisponde a “incidente catastrofico”. L’altro caso marcato 7 è datato 26 aprile 1986 quando esplose il reattore 4 a Černobyl, al tempo territorio della Repubblica Sovietica dell’Ucraina e oggi in pieno teatro di guerra. Un anno e mezzo dopo Černobyl (novembre 1987) e tre mesi dopo Fukushima (giugno 2011) l’Italia andò a votare i referendum sul nucleare con bocciature nette. Per dismettere le sue centrali (decommissioning) nel 1999 lo Stato ha fondato la Sogin. L’obiettivo della società era chiudere la partita del deposito unico dei rifiuti radioattivi entro il 2019. Oggi si parla del 2036. La spesa finora è stata di 3,8 miliardi di euro. Ci vorranno altri 250 milioni all’anno per una spesa finale di 8 miliardi. Le 67 aree individuate come possibili sedi del deposito sono scese a 63 e il ministro dell’Energia si sta muovendo con una leggina per consentire ai Comuni di candidarsi, a dimostrazione che il deposito non lo vuole nessuno nonostante la promessa di un parco tecnologico dedicato al nuovo nucleare. Tanti soldi sul territorio per studiare le nuove tecnologie energetiche. 

Il 4 agosto, dopo una serie di scontri interni al management, licenziamenti rientrati e il commissariamento per ordine del ministro Roberto Cingolani, il suo successore Gilberto Pichetto Fratin ha nominato il nuovo cda di Sogin. L’ad è Gianluca Artizzu, che esercitava la funzione di capo del personale. Presidente è Carlo Massagli, già consigliere militare di Giuseppe Conte. Nemmeno il tempo di sedersi per i nuovi amministratori che altri militari, i carabinieri del Noe di Napoli, il 10 agosto hanno sequestrato le due condotte dell’Itrec-Sogin a Trisaia di Rotondella, nel Materano. 

I reflui delle condotte, che scaricano una nel fiume Sinni e l’altra direttamente nello Jonio fra Policoro e Rocca Imperiale, avrebbero mostrato valori troppo alti. Si parla di trielina e cromo esavalente dalle acque meteoriche ma si cercano tracce di torio e uranio, le materie prime delle barre importate dalla centrale di Elk River (Minnesota) ben sessant’anni fa. 

Il Noe era già stato chiamato in causa l’anno scorso da Cingolani per ispezioni sia a Trisaia sia nell’impianto Sogin di Saluggia (Vercelli). Sono notizie poco rassicuranti. Infatti non sono state diffuse. Invece le notizie esaltanti non soltanto vengono diffuse, ma soprattutto amplificate. Come la mozione proveniente dalla blanda opposizione di Carlo Calenda e Matteo Renzi approvata a larga maggioranza alla Camera lo scorso 9 maggio dopo tre mesi di gestazione. Il documento finale, presentato da Daniela Ruffino (Azione), corretto e accolto dalla viceministra leghista Vannia Gava, ha impegnato il governo a spendere più denaro per la debole ipotesi di un ritorno al nucleare. «Adottare iniziative per sostenere», si legge nel testo, «la ricerca tecnologica sui reattori a fissione nucleare innovativi e sulla fusione nucleare, ampliando l’offerta formativa nelle università italiane e incrementandone l’attrattività anche per ricercatori e docenti stranieri. Partecipare attivamente, in sede europea e internazionale, a ogni opportuna iniziativa, sia di carattere scientifico sia promossa da organismi di natura politica, volta a incentivare lo sviluppo delle nuove tecnologie nucleari destinate alla produzione di energia per scopi civili».  

Questo passaggio parlamentare in apparenza marginale ha rimosso ogni tipo di ritrosia e, per esempio, ha permesso al governo di modificare il Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec) inviato all’Ue. Il forzista Pichetto Fratin ha definito il tema nucleare un tabù ormai caduto e l’ha fatto a Montecitorio, a luglio, durante l’intervento conclusivo al convegno “Nucleare in Italia: scenari e prospettive” organizzato dal suo partito e da una rivista specializzata. Era un evento solenne di tre ore per riallineare le posizioni e gli interessi di politica, scienziati, imprese. C’erano Gilberto Dialuce, presidente dell’Agenzia Nazionale per le Nuove Tecnologie (Enea), Massimo Garribba, vicedirettore generale Energia per la Commissione Europea con delega al coordinamento Euratom, Antonio Zoccoli, presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare. E c’era una schiera di ad: Descalzi per Eni, Cingolani per Leonardo, Nicola Monti per Edison, Riccardo Casale, ex Sogin, per Ansaldo Energia, Federico Gianni per Campoverde Perma-Fix. È stato anche il debutto di Stefano Monti da presidente dell’Associazione Nazionale Nucleare. A questa platea il ministro Pichetto ha spiegato l’utilità strategica della mozione e ha promesso più soldi: «Grazie alla mozione non abbiamo più tabù. Noi seguiamo le indicazioni del Parlamento che ha votato per andare avanti a passo spedito su ricerca e sperimentazioni senza più vincoli. Siamo abbastanza avanti in cinque collaborazioni a livello nazionale e internazionale. Ci siamo già dentro in pieno, ma non potevamo dirlo prima, mettiamola così. Io ritengo, a nome del governo, che il futuro è nucleare perché nessuno è in grado di dimostrare come, fra 30 o 40 anni, si possano soddisfare le esigenze di consumo senza il nucleare. Questa è la soluzione e ciò significa che dobbiamo creare la filiera». E i referendum del 1987 e del 2011 con i quali i cittadini hanno affondato il nucleare? Pichetto non se ne cura perché si riferivano a tecnologie superate. 

Così a metà settembre il ministero ha lanciato la Piattaforma Nazionale per il Nucleare Sostenibile con il contributo di Enea e Rse. Entro la prossima estate il governo dovrebbe presentare le linee guida per il nucleare. Al momento sono ignote le menti e le aziende coinvolte. Però il ministero garantisce che terrà informati gli italiani. 

L’ingegnere Stefano Ciafani, presidente di Legambiente, spiega come andrà a finire: «È una perdita di tempo e di soldi. Non ci sarà mai più una centrale nucleare in Italia, e lo sanno tutti. Non siamo capaci neppure di installare una pala eolica, figurarsi il resto. È solo un diversivo. che serve a far girare il denaro, ad aumentare i finanziamenti per le aziende italiane del settore che già sono attive all’estero. La politica si fa trascinare da questa lobby senza avere una direzione chiara. Piuttosto il governo si preoccupi di individuare i siti di stoccaggio per il vecchio materiale radioattivo di media e bassa attività: questa è una emergenza». I tifosi del nucleare potrebbero ribattere che i contestatori sanno smontare una proposta, ma non sanno montare un’alternativa: «Falso. Il nostro modello deve essere la Germania. Dopo Fukushima, nonostante le pressioni lobbistiche, Angela Merkel ha ordinato la chiusura delle centrali. Fra qualche decennio, il più grande Paese manufatturiero d’Europa userà energia prodotta unicamente da fonti rinnovabili».

Fukushima e gli effetti dello sversamento radioattivo nell’Oceano. Giada Balloch su L'Identità il 27 Agosto 2023

Le acque radioattive di Fukushima rappresentano un liquido enigma, di cui i componenti radioattivi mescolano le tracce del passato e le ombre del futuro. Urgente il richiamo di decisioni sagge e consapevoli per preservare la vita marina e la nostra stessa esistenza. La Centrale Nucleare di Fukushima, in Giappone, già nota per il catastrofico disastro nucleare avvenuto nel 2011, è nuovamente al centro dell’attenzione mondiale. La nazione ha iniziato il rilascio di acque reflue radioattive nell’oceano. Numerose le preoccupazioni. Questa decisione ha suscitato apprensioni crescenti in tutto il mondo e ha portato a richiami internazionali per affrontare l’urgente problema ambientale. L’impatto del nucleare sugli oceani è sempre stato profondo e duraturo. Lo scarico di rifiuti radioattivi minaccia l’ecosistema marino, con effetti che si propagano lungo la catena alimentare.

Gli atomi isotopi come il cesio e lo iodio possono persistere per anni, alterandone la biodiversità e minando la sicurezza alimentare. Inoltre, la contaminazione radioattiva delle acque può avere effetti a cascata sulla salute umana. Le specie marine possono entrare nella nostra catena alimentare, portando a un’ingestione indesiderata di sostanze radioattive. Organismi come pesci, crostacei e molluschi possono esserne vittime, subendo alterazioni biologiche a vari livelli. Ciò potrebbe innescare mutazioni genetiche, danneggiare gli organi interni e alterare la fertilità degli animali. Gli esseri viventi che migrano attraverso le zone contaminate potrebbero contribuire a diffondere su larga scala la radioattività, amplificando ulteriormente l’impatto negativo. Questo può aumentare il rischio di malattie legate all’esposizione alla radiazione poiché le risorse ittiche possono accumulare radionuclidi, considerati una delle sei sostanze più pericolose al mondo. Un esempio ne è il cancro: l’assorbimento di elementi nucleari può danneggiare le cellule e alterare il DNA. Le conseguenze possono variare in base alla quantità di nuclidi instabili ingeriti e alla loro emivita, (il periodo richiesto per ridurre a metà la concentrazione o l’attività iniziale di una sostanza), tuttavia il loro esito disastroso rimane lo stesso.

Un operatore di Fukushima ha avviato il processo di sversamento delle acque contaminate nel mare. Questa mossa è stata giustificata dalle autorità giapponesi come una misura necessaria per far fronte all’accumulo di acqua contaminata nella centrale nucleare. Il rilascio di acque reflue radioattive solleva questioni complesse e dibattute. Da una parte, la nazione afferma che le acque trattate saranno diluite e monitorate attentamente per garantire che i livelli di radioattività siano al di sotto delle soglie di sicurezza stabilite. Dall’altra, ambientalisti e organizzazioni internazionali sollevano dubbi sulla validità di questa soluzione e sottolineano le inevitabili ripercussioni negative. L’incidente di ‘meltdown’ del 2011, scaturito da un maremoto, ha già inflitto danni irreversibili all’ambiente circostante e ha generato conseguenze durature sia per la popolazione che per l’industria della regione. Pertanto, la decisione di rilasciare acque contaminate solleva timori legittimi riguardo al suo potenziale impatto sul mondo intero relative alla sicurezza e responsabilità. Molti trattati internazionali vietano lo scarico diretto di materiali radioattivi nelle acque, e ci potrebbero essere varie ripercussioni diplomatiche e legali per il Giappone. In molti hanno chiesto di sospendere immediatamente l’attività della centrale e di collaborare con la comunità internazionale per cercare alternative sicure e sostenibili. Emerge un ulteriore ma non nuovo problema richiedente un’attenzione globale e una soluzione concertata. L’equilibrio tra le esigenze della sicurezza nucleare, la tutela dell’ambiente marino e la salute umana è complesso e delicato. Solo attraverso la cooperazione e l’approccio basato sulla scienza possiamo sperare di affrontare questa sfida e di proteggere il nostro pianeta per le generazioni future.

Fukushima, acqua radioattiva in mare: c’è un retroscena cinese dietro le proteste. Storia di Federico Rampini su Il Corriere della Sera domenica 27 agosto 2023.

C’è un versante cinese nella vicenda del rilascio di acque radioattive dalla centrale nucleare di Fukushima. A creare un’ondata di indignazione mondiale contro quel rilascio ha contribuito in modo determinante il governo di Pechino. Le autorità della Repubblica Popolare si sono scatenate contro quella decisione del Giappone, minacciando sanzioni che ora sono divenute operative. Piccolo problema: il livello di radioattività delle acque della “maledetta” Fukushima è inferiore a quello delle acque che normalmente vengono rilasciate nei fiumi o in mare dalle numerose centrali nucleari della Repubblica Popolare cinese.

Questi dati sono di dominio pubblico, tant’è che l’obiezione è stata sollevata perfino da alcuni cittadini cinesi sui social media. Dunque: la limitata radioattività delle acque è un crimine contro l’ambiente e contro l’umanità se fuoriesce da una centrale giapponese, ma non conta se proviene (in misura superiore) da svariate centrali cinesi. A parte la tradizionale disinvoltura con cui il regime comunista di Pechino manovra le menzogne a scopo propagandistico, è opportuno chiedersi che cosa pensi di ottenere Xi Jinping con questa forsennata campagna anti-nipponica. Se lo chiede con il consueto acume uno dei miei osservatori preferiti sulla Cina, Bill Bishop, autore della newsletter Sinocism.

Bishop parte dal fatto che le autorità cinesi stanno applicando – come promesso – delle sanzioni economiche molto dure dopo il rilascio delle acque di Fukushima: l’embargo totale di tutte le importazioni di pesce e frutti di mare dal Giappone. Queste voci costituiscono una percentuale importante delle importazioni cinesi dal Sol Levante, inoltre servono ad approvvigionare una miriade di ristoranti nipponici sul territorio della Repubblica Popolare. Ma visto che il Giappone non ha nessuna intenzione e nessun motivo per capovolgere una decisione che ha preso dopo molti anni di valutazioni e studi scientifici, dove andrà a parare l’offensiva di Pechino e quali sono i suoi veri obiettivi? Tra l’altro, a rigore, se le autorità cinesi vogliono essere coerenti con le descrizioni apocalittiche che hanno fatto sugli effetti di quelle acque, via via che da Fukushima si diffondono nell’oceano e bagnano zone circostanti, la messa al bando di pesci e frutti di mare “per ragioni di sicurezza sanitaria” andrebbe estesa via via ad altri paesi inclusa le stesse zone costiere della Cina. E’ improbabile che questo accada.

Siamo agli albori – si chiede Bishop – di un’altra ondata di odio contro il Giappone fomentata dal partito comunista, come quella che accadde l’ultima volta nel settembre 2012 cioè all’inizio del “regno di Xi”? (Ma di manifestazioni del genere ce ne furono anche all’epoca del suo predecessore Hu Jintao, le osservai da testimone in prima linea quando abitavo a Pechino, ne trovate tracce nei miei libri “Il secolo cinese” e “L’impero di Cindia”).

Video correlato: A Seul la protesta contro lo sversamento d'acqua a Fukushima (Dailymotion)

Bisogna aspettarsi che le prossime vittime siano le numerose multinazionali nipponiche che hanno fabbriche e reti commerciali sul territorio della Repubblica Popolare? Cominceranno, come negli episodi precedenti, proteste di massa accompagnate da episodi di vandalismo e aggressioni contro i simboli della presenza giapponese in Cina? La mia interpretazione – non particolarmente originale – è che il vero obiettivo è un altro. Xi vuole colpire l’avvicinamento strategico in corso fra Giappone, Stati Uniti, Corea del Sud sancito dal summit di Camp David. Quel “triangolo” si aggiunge ad altre iniziative (Aukus e Quad) con cui gli Stati Uniti cercano di rafforzare la rete di alleanze e il dispositivo di contenimento dell’espansionismo cinese in Asia.

Di tutti gli alleati dell’Occidente in Asia il più ricco, tecnologicamente avanzato e anche militarmente più significativo è il Giappone. Lo sottolineo trovandomi a Taiwan, un’isola che in caso d’invasione conta sull’aiuto nipponico oltre che americano. Resta che la diplomazia delle sanzioni economiche, manovrata da Pechino da molti anni e contro molti bersagli (le vittime includono Norvegia e Lituania in Europa; Filippine e Australia nell’Indo-Pacifico; Canada in Nordamerica), non sembra aver ottenuto i risultati voluti.

Torno però su Fukushima per ricordare che non sono soltanto i cinesi a fare di quella centrale un simbolo apocalittico. L’originalità dell’allarme cinese è che viene dal paese con la più vasta capacità nucleare del pianeta (la Repubblica Popolare ha molte più centrali atomiche dell’America o della Francia). Però attorno a Fukushima ci sono allarmi di altra natura e origine. Voglio ricordare quindi una sintesi dei dati su quell’incidente e delle sue conseguenze, che potete trovare nel mio libro più recente, “Il lungo inverno”. Quel che segue ne è un estratto. Lo shock di Fukushima portò alla chiusura di tutti i 54 reattori del paese. Anche se va ricordato che il bilancio certo di quell’incidente è limitato: un morto e 16 feriti, cioè meno vittime rispetto a tanti tragici ma “banali” incidenti sul lavoro che affliggono i cantieri italiani. Solo una valutazione estremamente larga e prudenziale delle vittime indirette – una stima controversa, che non raccoglie un consenso unanime nella comunità scientifica, per l’attribuzione a Fukushima di malattie non necessariamente collegate (inclusi traumi psichici, depressioni e suicidi) – è arrivata ad alzare il bilancio fino a quota 570.

In ogni caso l’effetto immediato dell’incidente di Fukushima spostò l’opinione pubblica: all’epoca il 70% dei giapponesi volevano l’addio al nucleare. Oggi la situazione si è esattamente capovolta: il 70% sono d’accordo per tornare a dipendere dall’energia atomica. Questo rovesciamento del sentimento pubblico consente al premier Kishida Fumio di passare all’azione: il 24 agosto 2022 ha annunciato la riapertura delle centrali inattive ed anche la costruzione di una nuova generazione di reattori. Al momento sono tornati in attività 10 reattori, sui 17 che hanno già superato tutti i test di sicurezza resi più rigorosi dopo Fukushima. Sono in tutto 33 i reattori destinati a tornare a generare elettricità; in attesa che vengano costruiti quelli di nuova generazione. …

Gli argomenti anti-nucleari sono cambiati nel tempo. Oggi il fronte contrario parla soprattutto dei costi eccessivi, che sono una realtà. Un esempio classico è quello della centrale Hinkley Point C la cui costruzione è quasi ultimata sulla costa di Bristol, nella parte occidentale del Regno Unito. Quando nel 2013 il governo di Londra firmò il contratto con la utility francese Edf per questa centrale, il megawatt-ora prodotto con i reattori di Hinkley Point doveva costare 92 sterline. E a quel tempo un megawatt-ora prodotto da pale eoliche costava 125 sterline. Oggi, fra ritardi di costruzione e aumenti di costi, l’elettricità nucleare di Hinkley costerà sicuramente di più di quanto preventivato nove anni fa; intanto quella eolica è scesa a 50 sterline. Gli avversari del nucleare che in passato prevedevano un’Apocalisse in caso di incidente, oggi parlano il linguaggio delle convenienza economica: sole e vento costano meno. Non è un caso se l’argomento della sicurezza è scivolato nelle retrovie: quell’argomento non regge. Includendo i due più gravi incidenti nucleari della storia – i quattromila morti di Cernobyl e le 570 vittime “indirette” che vengono attribuite a Fukushima – l’energia atomica resta tra le più sicure che abbiamo, è alla pari con vento e sole. La mortalità misurata in proporzione all’energia generata, vede in testa il carbone con 24,6 decessi per terawatt-ora (soprattutto malattie da inquinamento), seguito da petrolio, biomasse, gas naturale, idroelettrico. Il numero di vittime del nucleare per terawatt-ora è 0,03 cioè paragonabile a eolico e solare i quali hanno anche loro una mortalità, sia pure bassa (da incidenti, o da inquinamento perché il loro ciclo di produzione non è “pulito” al 100% come si crede). Tutti questi dati sono controllabili, una loro sintesi si può trovare qui.

Come si arriva a questa conclusione? Ogni forma di generazione di energia elettrica – come ogni attività umana, purtroppo – ha un bilancio di vittime. Ci sono gli incidenti di lavoro, che accadono nei vari passaggi: dalla fabbricazione dei macchinari e delle infrastrutture fino al funzionamento delle centrali stesse. Ci sono le malattie – soprattutto cardiache e respiratorie – provocate dall’inquinamento. Non esistono fonti veramente “pulite”, questo è il piccolo, sporco segreto che molti ambientalisti preferiscono ignorare. Per fabbricare un pannello fotovoltaico si estraggono silicio e altri minerali, in miniere dove accadono incidenti, e dove si generano emissioni carboniche, particelle tossiche, ecc. Per trasportare una pala eolica si usano camion che vanno ancora a diesel. Chi calcola la mortalità associata ad una particolare fonte di energia, quindi, fa una stima di tutte le vittime dirette e indirette. E’ così che si arriva a questa conclusione che appare contro-intuitiva a molti, non necessariamente militanti dell’anti-nucleare, ma preoccupati per la sua presunta pericolosità. L’insicurezza del nucleare fa presa sull’immaginario collettivo ma non è fondata sui fatti. Forse anche per questo i suoi nemici hanno cambiato argomenti. L’obiezione nuova, quella sui costi, è contestabile. Il nucleare costa troppo perché abbiamo smesso di investire, quindi sono venute meno le economie di scala (i guadagni di produttività e di efficienza derivanti dall’aumento di costruzioni di nuovi reattori) ed è stato rallentato il progresso tecnologico. Non a caso sono diventati più competitivi i reattori nucleari fabbricati dalla Cina, che ha continuato a scommettere su questa energia.

Nucleare: i 4,3 miliardi di euro «rubati» sulla bolletta elettrica in oltre 20 anni. Milena Gabanelli su Il Corriere della Sera il 3 Luglio 2023

Un poltronificio seduto su tonnellate di rifiuti radioattivi e vecchi impianti da smantellare finora costato a tutti noi 4,3 miliardi di euro. Ma è tutto ancora ancora lì. La storia è nota: nel 1987 con un referendum gli italiani decidono per la chiusura delle centrali nucleari. Nel 1999 nasce la Sogin, società pubblica incaricata di smantellarle, mettere in sicurezza i rifiuti radioattivi e trovare un sito nazionale dove stoccare tutto. Fine lavori prevista per il 2019, costo 3,7 miliardi finanziati con la bolletta elettrica. Siamo arrivati al 2023 e la messa in sicurezza dei rifiuti liquidi radioattivi più pericolosi prodotti nell’impianto Eurex di Saluggia a partire dal 1977, quelli di Trisaia e le resine di Trino non è nemmeno iniziata. Non ancora partito lo smantellamento delle strutture radioattive dei reattori, cioè il vero e proprio «decommissioning» nucleare.

Costo del ritardo: 120 milioni l’anno

La previsione della società è di completare tutto entro il 2036 con una spesa vicina agli 8 miliardi. Per come sono andate le cose fin qui, la fine dei lavori e il costo totale non sono realisticamente stimabili. L’unico dato misurabile sono i costi fissi di Sogin: 120 milioni l’anno. Riguardano la gestione degli impianti, in attesa che vengano chissà quando smantellati, e degli stipendi del personale (passati da 600 a 1.050 unità, e ora a circa 900) che la collettività paga per ogni anno di ritardo, sperando che nel frattempo non si verifichino calamità più onerose. Ma perché succede questo? 

Dove si annidano le responsabilità

I soggetti vigilanti sono tre: 1) il ministero delle Finanze è l’azionista e, di fatto, si preoccupa delle nomine; 2) il controllore è transitato nel corso degli anni dal ministero dell’Industria a quello dello Sviluppo economico e, infine, della Transizione energetica che oggi si chiama ministero dell’Ambiente e Sicurezza energetica; 3) l’Autorità per l’Energia (Arera) finanzia Sogin sulla base del piano di attività che Sogin stessa gli presenta. Ogni tre anni il governo di turno nomina un nuovo Cda e nessun governo ha mai riconfermato quello in carica. Erano tutti pessimi? Il primo amministratore delegato è Raffello De Felice seguono Giancarlo Bolognini, Giuseppe Nucci, Massimo Romano. Nel 2009 il governo Berlusconi manda il primo commissario, Francesco Mazzucca. Nel 2010 si riparte con un nuovo Cda a guida Giuseppe Nucci, poi Riccardo Casale, Luca Desiata e infine Emanuele Fontani. Le loro capacità manageriali erano presumibilmente scarse, visto l’andamento delle attività in questi 20 anni. 

Analizzando le delibere di Arera si scopre che la regola è sempre la stessa: ogni Cda propone piani a vita intera (le attività che intende svolgere per arrivare a fine lavori) con obiettivi facili per i tre anni di mandato e rinviando a chi viene dopo i volumi di lavoro più complessi. E così, di rinvio in rinvio, si arriva al disastro di oggi. Complice l’indulgenza di Arera che non applica le penalità previste dalle regole in caso di ritardi. Almeno fino a oggi. 

Attività facili e premi di risultato

Come si mette sul tavolo il procedere delle attività si può capire con qualche esempio. 3 settembre 2009 contratto identificato dalla sigla «NAM81074», relativo all’ordine di acquisto per fornitura di «Materiali relativi ad un Impianto di Trattamento Resine», per un importo iniziale pari a 10.550.000 euro. Questi materiali sono ancora nelle casse sigillate in cui sono stati ricevuti, stivate presso la centrale di Trino e nessuno le ha mai aperte (come dimostrano le foto qui sotto). Ora andranno pure smaltiti. 

Nel 2017 assegnato un nuovo contratto di appalto, «C0426L15 Realizzazione di un Impianto di condizionamento di rifiuti radioattivi, denominato Si.Co.Mo.R.», sempre per il trattamento delle resine, per un importo iniziale di 9.501.000 euro. Impianto non consegnato perché a Trino non sanno dove metterlo. Nel 2021 contratto «C0230L21 - Demolizione parziale edificio turbina Trino» per un importo iniziale pari a 2.948.508 euro (qui il documento). Il progetto prevede l’abbassamento di circa 10 metri dell’edificio Turbina, alto 50 metri (nella foto qui sotto). 

Si tratta di una struttura non contaminata e svuotata di tutti gli impianti che può essere utilizzata come deposito per l’immagazzinamento dei fusti che contengono il materiale a bassa intensità della fase di smantellamento della centrale. Ma perché abbassarla di 10 metri? Perché modificando lo skyline si dà l’impressione che i lavori procedano. Lavori non partiti a causa di criticità della società che li deve eseguire. Le operazioni di demolizione e costruzione dei depositi esistenti si stanno replicando su tutti i siti Sogin, a volte con la scusa che non rispondono più alle normative in vigore. Contratto «C0179L22 – Progettazione esecutiva e realizzazione dei lavori di demolizione e ricostruzione del deposito D2 preso la centrale di Trino Vercellese» per un importo iniziale pari a 4.904.336 euro. Ma il Deposito D2 di Trino è di recente costruzione e perfettamente a norma. Sempre a Trino esiste anche il Deposito D1, struttura vetusta, dove i fusti immagazzinati emettono dosi di radioattività importanti. Si vedono chiaramente addossati perimetralmente ai muri dei blocchi di cemento come barriera alle radiazioni per i materiali stoccati all’interno; ma questa operazione risulterebbe più complessa perché richiede un’azione di bonifica, non possibile in tempi stretti. Un modus operandi spiegabile solo in due modi (secondo ben informate fonti interne): la prima è dovuta alla incapacità di organizzare bandi di gara adeguati, la seconda è quella di «fare budget» cioè fare attività facili, pagandole senza risparmio, per garantire ricchi Mbo (premi di risultato) ai numerosi dirigenti. 

Il caso più pericoloso

A Saluggia sono stoccati 270 metri cubi di rifiuti liquidi, acidi e radioattivi a media ed elevata attività dalla fine degli anni ‘70. Su questa questione Carlo Rubbia, da commissario Enea, nel 2001 scrisse una lettera ai ministri dell’Industria, dell’Interno e dell’Ambiente: «L’impianto è a 60 metri dalla Dora Baltea, una fuoruscita di quei liquidi comporta l’evacuazione delle sponde del Po fino all’Adriatico e i terreni non coltivabili per decenni». Per cementare quei liquidi nel 2012 viene assegnato a Saipem per 97 milioni l’appalto «Cemex». Si apre un contenzioso: serve un carroponte di grado nucleare che Saipem propone di acquistare da uno dei pochi fornitori al mondo, mentre Sogin pretende che Saipem lo costruisca «in proprio». Nel 2017 Emanuele Fontani, all’epoca responsabile della disattivazione dell’impianto di Saluggia, istruisce la pratica e convince l’ad Desiata a risolvere il contratto. 

Dal consorzio alla consorteria

Nel 2020 Fontani diventa amministratore delegato e affida per 107 milioni il «Cemex» a un consorzio di aziende campane (Teorema) esperte in manutenzione e pulizie, nonostante la relazione tecnica presentata risultasse in larga parte copiata da quella di Saipem. Dopo un anno da Saluggia arrivano precise e ignorate segnalazioni di enormi ritardi. Il ministro Cingolani a inizio 2022 invia un’ispezione dei carabinieri del Nucleo Operativo Ecologico che certificano: lavori avanzati per meno del 2%. Eppure per l’ad Fontani andava tutto bene. Andava tutto bene anche per il responsabile dell’ufficio acquisti e appalti Luigi Cerciello Renna. Chi è Luigi Cerciello? Si congeda il 19 ottobre 2020 dalla Guardia di finanza con il grado di maresciallo aiutante per entrare in Sogin, assunto da Fontani e subito promosso dirigente, e dal 19 luglio 2022 anche responsabile dell’ufficio legale (a ridosso del commissariamento). Nel lungo curriculum vanta un dottorato in Scienze agrarie, importanti incarichi in Anac (in realtà mai stato dipendente Anac, ma solo distaccato dalla Gdf presso la segreteria di un consigliere). Dal 2021 figura fra i trainer del Master in «Manager ambientale per la gestione del decommissioning» presso l’Università del Piemonte Orientale. L’obiettivo del master è formare una figura in grado di affrontare la gestione dei rifiuti radioattivi in ambito sia medico sia industriale, anche sotto un profilo manageriale. No comment. 

Arriva il commissariamento

A luglio 2022 il governo Draghi commissaria la Sogin. Incarico affidato a Fiamma Spena, ex prefetto in pensione, vicecommissari il dirigente del Mef Giuseppe Margiotta e Angela Bracco, professore ordinario di Fisica. Lo scopo è risanare la società. Fra un paio di settimane scade il mandato: qual è il bilancio? Le informazioni ufficiali sono poche ma interessanti: il primo atto della commissaria Spena è quello di riconfermare tutti i dirigenti da Ivo Velletrani, responsabile relazioni esterne incluse quelle con Arera, a Luigi Cerciello e persino l’amministratore delegato commissariato Fontani che, a settembre 2022, viene nominato «coordinatore della task force per l’accelerazione del decommissioning». Secondo atto: risoluzione dell’appalto «Cemex» con il consorzio campano per inadempienza e lancio di una nuova gara, con lo stesso progetto esecutivo di prima, ma con un importo notevolmente superiore, 151 milioni. Appena assegnato anche l’appalto per la messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi all’impianto di Trisaia ad Ansaldo Nucleare, ora amministrata da Riccardo Casale (dopo la l’esperienza fallimentare come ad in Sogin). È il caso di precisare che uno dei concorrenti, Tecnomec, ha chiesto l’accesso agli atti di Ansaldo, Sogin l’ha negato e ora in ballo c’è il ricorso la Tar. Terzo atto: il mese scorso la commissaria Spena ha riconosciuto a tutti i dirigenti importi tra i 30 e i 40 mila euro che si aggiungono ai lauti stipendi e al trattamento accessorio, come premio di risultato per il 2022 anno in cui la Sogin è andata così male da essere commissariata.

E adesso?

Ora la palla passa al ministro vigilante: Gilberto Pichetto Fratin. La prima questione riguarda Saluggia, dove è stoccata il 75% di tutta la radioattività nazionale e su cui pende una prescrizione per la messa in sicurezza dei rifiuti che scade a fine 2023: la legge prevede che per il mancato rispetto di una prescrizione i responsabili siano puniti con la reclusione (con il nucleare non si scherza). Sarà inevitabile quindi un decreto di proroga. La seconda è quella di nominare un nuovo vertice. Coraggio ministro!

"Non hanno aderito M5S e sinistra estrema". Nasce l’intergruppo sull’energia nucleare, Fregolent: “E’ ancora un tabù ma è soluzione all’autonomia energetica”. Redazione su Il Riformista il 21 Giugno 2023

MARCO OSNATO – PRESIDENTE VI COMMISSIONE FINANZE , SILVIA FREGOLENT – SENATRICE , SANDRO SISLER – SENATORE , ROBERTO BAGNASCO – DEPUTATO

“Ci è venuta questa idea perché dopo tutto questo parlare di energia, di come rendere il nostro Paese più autosufficiente, il nucleare è ancora uno dei tabù del nostro Paese insieme al trivellare il gas”. Spiega così la nascita dell’intergruppo sull’energia nucleare, presentato presso la sala Nassirya di Palazzo Madama, la senatrice di Italia Viva Silvia Fregolent, che ne è promotrice. “Ho avuto un’adesione importante dai partiti di maggioranza e di opposizione – ha spiegato – mancano solo M5s e la sinistra estrema, però il numero di partecipanti è veramente alto e oggi alla presentazione c’erano tutti gli stakeholder che si occupano di energia”.

Presenti all’incontro anche i deputati Marco Osnato (Fdi) e Roberto Bagnasco (Fi) e il senatore Sandro Sisler (Fdi) oltre a Christian Di Sanzo del Pd, Giulia Pastorella di Azione e Raffaella Paita, Daniela Sbrollini e Ivan Scalfarotto di Italia Viva. “Abbiamo l’opportunità di riparlare di nucleare senza ideologie del sì o del no, ed è questo che intergruppo vorrebbe fare – spiega Fregolent – dare la parola a chi, non in Italia ma all’estero, sta facendo ricerca, ad esempio sulla fusione o sull’utilizzo di scorie radioattive per creare nuova energia. Molto spesso si tratta di eccellenze italiane”.

Il nucleare “è una materia che sembrava sepolta dopo due referendum, ma poi la crisi energetica e la guerra” hanno riacceso il dibattito. Tra l’altro, sottolinea la senatrice del Terzo Polo, i rincari sono arrivati ben prima del conflitto, “per motivi banalmente legati al calo della domanda per l’interessamento di colossi come India e Cina alla materia gas”, semmai l’invasione russa in Ucraina “ha dato un’accelerata e dimostrato che o estrai gas – e l’Italia ce l’ha ma non lo fa – o vai a prenderlo da altri Paesi, facendoti la croce”.

“Il nuovo nucleare non ha nulla a che vedere con il vecchio, sono reattori molto più piccoli, sulla sicurezza sono stati fatti già dei lavori importanti dato che già oggi alcune tecnologie innovative sul nucleare esistono nei sottomarini nucleari di mezzo mondo e soprattutto sulla fusione non c’è quel rischio che ha visto protagoniste Fukushima e Chernobyl”, ha concluso.

 Il nucleare è un’energia costosa e poco sicura: rispettiamo i referendum del passato. Katiuscia Eroe su Il Riformista il 21 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sul nucleare: è una risposta alla crisi energetica? Favorevole David Vannier, Chief Government Affairs Officer Newcleo S.r.L, secondo cui “è un’energia affidabile, non inquinante e di lunga durata“. Contraria Katiuscia Eroe, responsabile energia Legambiente, che sottolinea: “Il nucleare è un’energia costosa e poco sicura: rispettiamo i referendum del passato“.

Qui il commento di Katiuscia Eroe:

E così, dopo 36 anni dal primo referendum e 12 dal secondo – dove in entrambi si è sancita l’assoluta contrarietà, da parte della popolazione, alla produzione di energia tramite il nucleare – si torna a vecchi e obsoleti dibattiti in nome della neutralità climatica e della sicurezza energetica. Vecchi e obsoleti perché nonostante si continui a parlare di nuove generazioni di nucleare, con tanto di fusione praticamente in arrivo domani, la verità è che parliamo sempre del solito vecchio nucleare. La fisica del reattore non è cambiata, sicuramente è migliorato qualche livello di sicurezza, ma nei fatti il principio che regola tutte le centrali, anche quelle ancora da costruire, ma già decantate come la grande soluzione, è sempre lo stesso, con tutti i suoi limiti nella gestione e nel controllo: dai rifiuti, allo spegnimento come testimonia in questi giorni la centrale nucleare di Zaporizzja, in Ucraina.

Nucleare che diventa strumento di conflitto e ricatto. Parliamo di centrali costose. Non sono in termini di costruzione, gli 8 miliardi di euro di differenza tra quelli preventivati per la realizzazione della centrale di Olkiluoto in Finlandia e quelli serviti per la sua realizzazione sono un classico esempio di quello che potrebbe accadere anche nel nostro Paese. Senza considerare i dodici anni di tempo per la sua realizzazione. Una tecnologia che non produce neanche energia a basso costo, infatti, secondo il Word Nuclear Industry Status Report nel 2020, 1 kWh da solare fotovoltaico è costato 3,7 centesimi di dollari, 4 da eolico contro i 5,9 centesimi dollari del gas, 11,2 da carbone e ben 16,3 da nucleare.

Senza dimenticare che, nel nostro Paese, nonostante la scelta di uscire dal nucleare sia stata fatta ben 36 anni fa, ancora paghiamo in bolletta oneri legati allo smantellamento delle centrali sulle quali gravano enormi ritardi – la centrale di Latina, realizzata nel 1963, è ferma al 36% delle operazioni. Quella del Garigliano al 50%, al 32% la centrale di Trino Vercellese e al 38% quella di Caorso, anche per la complessità delle operazioni. Per evitare, infatti, che materiale radioattivo si disperda, le centrali vanno smontate pezzo per pezzo. E anche in questo caso i costi sono quasi raddoppiati. Infatti, i 4,128 miliardi di euro previsti inizialmente per queste operazioni sono già diventati 7,9, di cui 900 milioni di euro, almeno, da dedicare alla realizzazione del deposito nazionale per stoccare in modo definitivo i circa 30mila metri cubi di rifiuti radioattivi che oggi sono distribuiti in una trentina di depositi temporanei che soffrono di gravi carenze di sicurezza. Senza contare che il numero di reattori dismessi in questi anni e di gran lunga superiore a quelli realizzati ex novo.

Numeri che dimostrano come il nucleare è stato ed è senza futuro. Ed è stato proprio il libero mercato a sancirlo, infatti, negli ultimi anni, a causa dei costi, è stato surclassato dagli investimenti sulle rinnovabili. Altre due le ragioni che chiaramente indicano perché l’Italia, e non solo, possono fare a meno del nucleare. Da una parte la sicurezza. Il nucleare sicuro ad oggi non esiste. L’aumento e il miglioramento dei sistemi di controllo sicuramente rende più difficile l’errore umano, ma non l’eventuale incidente che può avvenire anche per cause più grandi di noi. Vedi Fukushima. Dove, come dice qualcuno, non ci è stata nessuna vittima diretta dovuta all’incidente. Ma certamente non si può dire che quei luoghi, come quelli di Chernobyl siano luoghi compatibili con la vita umana. Tema da tenere sotto controllo anche rispetto alla ormai consueta pratica di allungare la vita alle centrali nucleari già vecchie di 30/40 anni e progettate per questa vita utile e su cui invece vi è la tendenza a raddoppiare la vita di esercizio.

La seconda è legata ai tempi. Abbiamo obiettivi chiari, urgenti e a breve scadenza. Non abbiamo tempo per il nucleare. I dodici anni della centrale finlandese o i 10 di Flamamville sono tempistiche non compatibili con l’emergenza climatica e le sue conseguenze. E fortuna vuole che abbiamo tecnologie mature e diversamente programmabili come le fonti rinnovabili, competenze e conoscenze per arrivare al 2030 superando grandemente gli obiettivi oggi posti dal Repower EU. Ma stando alla capacità dimostrata dalle imprese per numeri di progetti presentati e richieste di connessioni a Terna (pari a 316 GW a fine marzo 2023), in grado anche di raggiungere e superare gli obiettivi di copertura del settore elettrico da rinnovabili al 2035. Che ce ne facciamo del nucleare? Katiuscia Eroe Responsabile energia Legambiente

Il nucleare è un’energia affidabile, non inquinante e di lunga durata. David Vannier su Il Riformista il 21 Giugno 2023 

Nel “Si&No” del Riformista spazio al dibattito sul nucleare: è una risposta alla crisi energetica? Favorevole David Vannier, Chief Government Affairs Officer Newcleo S.r.L, secondo cui “è un’energia affidabile, non inquinante e di lunga durata“. Contraria Katiuscia Eroe, responsabile energia Legambiente, che sottolinea: “Il nucleare è un’energia costosa e poco sicura: rispettiamo i referendum del passato“.

Qui il commento di David Vannier:

Con la rivoluzione industriale, l’umanità ha scoperto i suoi bisogni energetici. Senza un modo di generare energia, la produzione su larga scala, e in modo sostenibile, non sarebbe possibile. Inoltre, una maggiore disponibilità di energia ha storicamente permesso alla nostra società d’identificare miglioramenti e innovazioni. Perciò, la sicurezza energetica è una pietra angolare del mondo moderno permettendo una crescita economica sia accessibile che innovativa.

All’inizio della rivoluzione industriale è apparso il bisogno di sorgenti energetiche ad alto potenziale. La combustione di fonti fossili, come legna e poi carbone, è stata a lungo fondamentale, ma l’umanità ne ha presto capito i danni ecologici e sociologici. Perciò, c’è stata una costante ricerca di fonti energetiche a minor impatto: ad esempio la prima centrale idroelettrica in Nuova Zelanda viene aperta nel 1892 a Mokopeka; nel 1906 Aubrey Eneas crea un motore solare per irrigare una fattoria; e nel 1942 Enrico Fermi realizza il primo reattore nucleare artificiale, Chicago Pile-1.

Quest’ultimo fu naturalmente uno di quegli eventi che hanno cambiato il corso della storia, proiettando la società verso il potenziale di un’energia infinita. Perché, ed è fondamentale dirlo, il nucleare assicura all’umanità una fonte energetica pulita, sicura e praticamente inesauribile. In un reattore nucleare a fissione gli atomi vengono scissi e rilasciano così energia. Questa energia alimenta una turbina che produce elettricità decarbonizzata e pulita. Questa elettricità serve poi a portare luce nelle case, accendere il forno del panificio, costruire macchine in fabbrica o accendere i computer nelle scuole.

Il nucleare offre tanti vantaggi. Uno, è indipendente dagli eventi climatici, ed è quindi una fonte estremamente affidabile. Senza sole, il fotovoltaico non funziona. Senza vento, le pale eoliche non girano. Una fonte energetica che può affiancare le rinnovabili assicurando così il carico di base per far funzionare le luce in una sala operatoria, o i lampioni che illuminano le strade sotto le nostre case è quindi essenziale.

Due, il nucleare non inquina. La fissione non emette direttamente CO2 o altri inquinanti, e le emissioni indirette a parità di kilowattora prodotto sono uguali all’eolico, un terzo del fotovoltaico, e quasi settanta volte minori di quelle del carbone. Inoltre, le centrali nucleari possono operare anche oltre 80 anni, minimizzando ancora di più l’impronta carbonica dell’energia nucleare. Tre, il nucleare è una fonte molto densa, risultando in volumi di rifiuti radioattivi molto inferiori a quanto si pensa. Inoltre, è possibile anche chiudere il ciclo del combustibile. Si può infatti utilizzare ciò che oggi è considerato uno scarto per produrre energia, grazie al riprocessamento e combustibile come il MOX (Mixed OXide) e l’utilizzo di reattori veloci, riducendo anche la radiotossicità dei rifiuti da centinaia di migliaia di anni a circa 250 anni. Si può arrivare anche ad utilizzare soli 35 grammi di MOX per produrre l’elettricità che un individuo utilizza nel corso della sua vita, rispetto a circa 65.5 tonnellate di petrolio. Il MOX ha anche il vantaggio di aumentare il livello di indipendenza energetica dei Paesi che hanno già materiale nucleare sul loro territorio.

Quattro, il nucleare è sicuro. Già oggi i dati ci dicono che è tra le fonti più sicure, comparabili alle fonti rinnovabili. Inoltre, la nuova generazione di reattori nucleari, Gen-IV, punta a sfruttare le leggi fisiche per assicurare la sicurezza passiva in qualunque condizione.

Ma i vantaggi del nucleare vanno anche oltre questi elementi. Gli impianti creano una significativa ricaduta occupazionale, e innumerevoli opportunità di sviluppo industriale. E soprattutto, offrono una fonte di energia che quindi riduce i costi indiretti della produzione energetica da idrocarburi, come le innumerevoli patologie causate dall’inquinamento. Il nucleare di oggi si basa sulla scienza, su decenni di ricerca e sviluppo e un track-record operativo dove la sicurezza prevale. Non si tratta di un nuovo capitolo del nucleare, ma di un nuovo libro dell’umanità. David Vannier Chief Government Affairs Officer Newcleo S.r.L

La politica energetica più stupida del mondo. Giovanni Brussato su Panorama il 23 Maggio 2023

Dalla Germania a New York, la follia green sta portando a scelte energetiche a dir poco dannose

Così alcuni anni fa il Wall Street Journal (World’s Dumbest Energy Policy - WSJ) definiva la decisione della Germania di abbandonare la produzione di energia a carbone entro il 2038 perché Frau Merkel, impegnata a chiudere anche le centrali nucleari tedesche, minacciava di lasciare le famiglie tedesche, già gravate dai prezzi dell'energia più alti d'Europa per gli innumerevoli miliardi di euro sperperati in energie rinnovabili, senza l'unica fonte affidabile di elettricità rimasta in Germania. Come abbiamo visto le cose sono andate diversamente per il carbone (Quest’anno la befana porterà a Greta Thunberg del carbone - Panorama) mentre è diventata realtà la chiusura delle ultime tre centrali nucleari rimaste, per quanto molti esperti – ed anche alcuni ambientalisti – sostenessero che la Germania stava eliminando una fonte di energia sicura e priva di carbonio a favore di alternative ambientalmente più dannose come il carbone. Quello che non emergeva con chiarezza dall’articolo però, era che, quanto a politiche energetiche stupide, anche gli Stati Uniti, e più precisamente lo stato di New York, non erano secondi a nessuno. Anzi, ben prima della Germania, il 30 aprile del 2021, l'ultimo reattore della centrale nucleare di Indian Point a New York è stato arrestato. Ad intestarsene il merito fu l’allora governatore di New York, Andrew Cuomo, in nome della sicurezza dei cittadini della Grande Mela, poiché Indian Point, situato a 50 miglia da New York City, non sarebbe stato in grado di resistere ai terremoti. Naturalmente gran parte del movimento ambientalista ha sostenuto Cuomo ipotizzando rischi connessi agli isotopi radioattivi emessi dalla centrale, aggravati dalle tracce di stronzio trovato nei pesci, uccisi ogni anno, a milioni, dal sistema di raffreddamento della centrale. Le indagini effettuate negli anni successivi hanno dimostrato l’infondatezza di tutte le accuse. Il rapporto ambientale del 2021 (Annual Radiological Environmental Operating Report (nrc.gov)), redatto da Holtec per Indian Point Energy Center (IPEC) mostra che lo stronzio-90 "non è stato rilevato" in nessun pesce campionato. Certo molti pesci sono stati risucchiati nel sistema di aspirazione dell'acqua o uccisi dall’inquinamento termico ma non nelle entità descritte dagli ambientalisti che pure sembrano non scandalizzarsi altrettanto per gli uccelli uccisi, a migliaia, dalle turbine eoliche.. Il medesimo rapporto spiegava che lo standard NRC (U.S. Nuclear Regulatory Commission), che disciplinava le radiazioni di Indian Point, garantiva come non siano mai state pericolose. Proprio come le centinaia di scarichi radiologici detenuti da ospedali, siti industriali e impianti municipali per le acque reflue che a loro volta scaricano effluenti radioattivi nei corpi idrici esattamente come la centrale. Oggi, invece, a due anni dalla chiusura, ci sono evidenze che dimostrano come la chiusura di Indian Point sia stata un grave errore. A differenza di quanto promesso da legislatori e gruppi anti-nucleari, e com’era facilmente prevedibile, le emissioni di carbonio della rete elettrica di New York sono aumentate del 29%. I numeri smentiscono le tesi “ambientaliste”: il nucleare, nel mix energetico complessivo, è sceso dal 40,2% del 2019 all'8,7% del 2021. Di pari passo il gas naturale è aumentato dal 58,3% de 2019 al 90,1% del 2021. Di fatto si è riscontrata una riduzione del 31,5% della generazione nucleare, interamente compensata dall'aumento del 31,8% di quella prodotta con gas naturale. Anche i "nuovi posti di lavoro ben pagati” promessi con l’introduzione delle energie rinnovabili e dell'efficienza energetica non si sono visti. In compenso si sono persi i mille impieghi diretti di Indian Point a conferma che le centrali nucleari forniscono più posti di lavoro per unità di energia generata rispetto a qualsiasi altra fonte di energia e pagano salari superiori rispetto alla media locale. Tuttavia l’esempio di New York non è servito a Berlino che ha proseguito imperterrita (c’era da dubitarlo?) per la sua strada per quanto la decisione potesse essere in contrasto con l'impegno del governo dei Verdi di ridurre le emissioni di carbonio. Le contraddizioni di questa scelta, oltre che ambientali, sono soprattutto di ordine pratico vista la situazione europea alle prese con i prezzi dell'energia causati dalla guerra della Russia in Ucraina. Ulteriore contraddizione l’ha evidenziata il professor Thess, dell'Università di Stoccarda, che ritiene che esista una chiara correlazione tra la chiusura delle centrali nucleari e le improvvise importazioni di elettricità tedesche. Durante i primi tre mesi del 2023, la Germania ha esportato quasi 9,4 terawattora (TWh), ma nelle tre settimane successive alla chiusura delle centrali nucleari le importazioni di elettricità tedesche sono salite a più di un terawattora. Questa quantità corrisponde a circa il 4% della domanda di elettricità tedesca nelle ultime settimane ed è circa la stessa percentuale che l'energia nucleare aveva precedentemente soddisfatto. Ma il vero problema è che questo smentisce l’affermazione dei Verdi "da oggi, niente più energia nucleare in Germania". Già, perchè la Germania importa energia nucleare dall'estero e dovrà continuare a farlo per garantire l'approvvigionamento energetico. Solo l’entità è difficile da determinare, perché l'Agenzia federale delle reti, Bundesnetzagentur, conosce i paesi da cui importa elettricità, ma non il dettaglio delle fonti da cui viene generata. Ma la vera sfida, potenzialmente esistenziale, per il governo dei Verdi, è quella di garantire all'industria ad alta intensità energetica tedesca, a partire da quella siderurgica di Thyssenkrupp o Salzgitter, energia a costi tali da consentirgli di rimanere competitivi nel mercato internazionale, pena la delocalizzazione. E così, mentre con l'avvio della centrale nucleare Olkiluoto3 in Finlandia, i prezzi dell'elettricità in quel paese diminuiscono del 75%, il ministro Habeck sta pensando una “soluzione rivoluzionaria”, nel senso statalista del termine: un prezzo dell'elettricità industriale agevolato, sostenuto dallo Stato, con buona pace della legge sugli aiuti di Stato dell'UE. L’idea di Habek sembra un altro passo verso un'economia verde pianificata, l’ennesimo atto burocratico foriero di ingiustizie ed abusi. Se da un lato costerà miliardi, che alla fine dovranno essere pagati dal consumatore o dal contribuente, dall’altro sarà necessario discriminare quali industrie debbano essere sostenute dallo Stato e quali no. Se la Germania ha i prezzi dell'elettricità più alti nel contesto internazionale e, di conseguenza, si avvia verso una progressiva deindustrializzazione, la ragione va ricercata, in effetti, in una politica energetica completamente sbagliata.

Il disastro di Chernobyl e il grande terrore nucleare. «Tragedia nucleare in Urss»: è il 29 aprile 1986 e tutti i giornali, compresa «La Gazzetta del Mezzogiorno», riportano in prima pagina una notizia agghiacciante. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno  il 29 aprile 2023

«Tragedia nucleare in Urss»: è il 29 aprile 1986 e tutti i giornali, compresa «La Gazzetta del Mezzogiorno», riportano in prima pagina una notizia agghiacciante.

Le informazioni sono ancora poche e piuttosto vaghe: l’agenzia di stampa sovietica, la Tass, ha annunciato che nella centrale atomica di Chernobyl, in Ucraina, si è verificata un’esplosione in seguito al danneggiamento di un reattore.

«Sono state prese le misure per eliminare le conseguenze dell’incidente», si precisa nell’informativa, «si sta dando soccorso a coloro che sono stati colpiti». La centrale nucleare è situata a circa 130 km da Kiev, che trentasette anni fa è ancora capitale della Repubblica socialista sovietica dell’Ucraina e ha un milione e mezzo di abitanti.

Ci sarebbero già alcuni morti e l’aumento di radioattività nell’atmosfera è stato rilevato in tutta la Scandinavia. Non si conoscono ulteriori dettagli, se non che la centrale è composta da quattro reattori nucleari di circa 1000 megawatt ciascuno e che prima dell’incidente erano in corso lavori per metterne in funzione un quinto.

Un’insolita temperatura si registra in quei giorni in Unione Sovietica: a Mosca si sono sfiorati i 25 gradi e questo ha provocato variazioni di pressione con conseguenti forti venti in direzione della Scandinavia.

La nube radioattiva si è, quindi, diretta in direzione opposta a Kiev. «Fonti diplomatiche della Scandinavia non escludono che possa trattarsi del più grave incidente avvenuto in una centrale nucleare», si annuncia sul quotidiano. Il giorno dopo, i contorni della tragedia si fanno più chiari: è ormai «paura nucleare sull’Europa».

 La vignetta di Pillinini in prima pagina ritrae Gorbaciov, nelle vesti di un Indiano d’America, mentre manda richieste d’aiuto attraverso segnali di fumo: sotto il tappeto, però, c’è un fungo atomico. Ormai è chiaro: «Mosca sapeva e non ha dato l’allarme», si legge sulle colonne della «Gazzetta».

«Sembra ormai certo che la notizia del gravissimo incidente è stata annunciata dalla televisione sovietica e quasi contemporaneamente dall’agenzia Tass con 48 ore di ritardo e forse più». L’esplosione è infatti avvenuta all’una e ventitré minuti del 26 aprile: Pripjat, la città più vicina alla centrale, viene evacuata dalle autorità sovietiche solo 36 ore dopo.

L’incidente, come si scoprirà molto più tardi, è avvenuto durante una prova di sicurezza, ma esistono diverse ipotesi sulle cause scatenanti dell’esplosione. Con certezza si sa, tuttavia, che gli operatori hanno commesso in quegli istanti diverse violazioni delle procedure.

L’allarme scatta anche in Italia: nei giorni successivi si diffonderà il timore di «piogge radioattive» che possano contaminare i suoli e le autorità vieteranno perciò il consumo degli alimenti freschi più a rischio, come latte e insalata.

«È ancora presto per dire quanti morti ci sono stati vicino al reattore, quanta parte dell’Urss è stata contaminata, quanta radioattività ricadrà a terra sull’intero pianeta e dove ricadrà e con quali effetti biologici» – si legge sulla «Gazzetta» del 30 aprile 1986 – «È certo però che l’incidente sovietico ripropone il problema del futuro dell’energia nucleare».

Il presidente dell’Enea, Umberto Colombo, sottolinea che nulla di simile potrebbe accadere in una centrale occidentale: tuttavia «è tempo di rimettere in discussione il programma nucleare italiano e intanto va detto un chiaro no alla centrale che vorrebbero imporre alla Puglia», conclude Giorgio Nebbia.

Il referendum abrogativo dell’anno successivo metterà, infatti, definitivamente fine alle aspirazioni italiane di produrre energia atomica. «Cosa accade alla vittima nucleare?», a questa domanda cerca di rispondere con cautela Nicola Simonetti: «Un gruppo di scienziati ha recentemente annunciato che, tra gli altri effetti, una perdita nucleare causerebbe nei sopravvissuti danni del sistema immunitario non molto dissimili da quelli dell’Aids. Il venti per cento almeno dei nati dai sopravvissuti sarà affetto, prima o poi, da una qualsiasi malattia genetica».

Ancora oggi, trentasette anni dopo, non c’è alcun dato definitivo sul numero di morti, diretti e indiretti, per il disastro di Chernobyl.

L'ipocrisia della «Verde» Germania che spegne il nucleare ed abbraccia il carbone. Sergio Barlocchetti su Panorama il 14 Aprile 2023.

La “verde” Germania stacca le centrali nucleari dalla rete, ma il suo atomo ormai fornisce soltanto il 5% dell'energia nazionale. Il carbone, almeno fino a fine decennio, o si dovrà comprare energia da Belgio e Francia

Sabato 15 aprile i tedeschi staccheranno dalla rete di distribuzione dell'energia elettrica l'ultima delle loro centrali nucleari. In tempi incerti come questi si potrebbe pensare a una cecità idealista, ma è bene ricordare che in Germania il nucleare ormai costituisce meno del 5% delle fonti energetiche, e dunque almeno per il momento neppure se ne accorgeranno. Durante il fine settimana avverrà quindi quanto deciso dal governo di Angela Merkel nel 2011 dopo l'incidente di Fukushima. Una decisione certamente di pancia come fu quella sciagurata dell'Italia nel 1986 all'indomani della tragedia di Chernobyl, ma si sa che certe decisioni sono figlie di sentimenti e opportunità più che del raziocinio, e questo ultimamente vale per l'atomo quanto per i motori endotermici e per gli orsi. La scadenza fissata dalla Merkel era quella del 31 dicembre 2022 e dopo il rinvio ottenuto lo scorso anno a causa dello scoppio della guerra in Ucraina, nei giorni scorsi il governo di Olaf Scholz aveva negato un ulteriore allungamento del servizio e così i reattori Isar II di Essenbach, Emsland e Neckarwestheim verranno disconnessi dalla rete. Rimangono invece attivi i generatori che funzionano a carbone, e questo dimostra che il Paese che ci ha costretti a rinunciare ai motori diesel, che ora spinge per i carburanti sintetici, che rinuncia al nucleare ma annerisce di fuliggine l'Europa ha un po' le idee confuse. Vero è che alle fonti rinnovabili in Germania si pensa da decenni, ma è anche vero che è impossibile fare paragoni con l'Italia, stante che il loro mare non è certo quello della Sardegna né hanno le Alpi a fermare i venti atlantici, oltre che essere posizionati qualche decina di gradi di latitudine più a nord di noi (Berlino è poco oltre 52° Nord mentre Milano poco oltre i 45°, praticamente a metà strada tra l'equatore, 0°, e il polo Nord, 84°). Tutte cose che i nostrani paladini dei generatori eolici guarda caso dimenticano. Certo, dalle loro parti intendono usare più l'idrogeno, cosa che in parte possiamo fare anche noi, che però non stiamo ampliando la rete autostradale e le linee ferroviarie al ritmo deciso da Berlino, insieme con il traguardo di alimentare ogni impianti di riscaldamento con almeno il 65% di energia ricavata da fonti pulite entro il prossimo anno. Ma i tedeschi hanno molta fiducia nei risultati dello stress test che il loro governo aveva commissionato ai gestori energetici nell'estate 2022, che aveva mostrato una buona tenuta della rete nazionale anche senza quel 5% di gigawattora che proveniva dall'atomo. Così il ministero dell'ambiente germanico (Bmuv), responsabile anche della sicurezza nucleare, ha confermato a fine marzo che “la produzione di energia nucleare sarebbe terminata alla data prevista, garantendo che ciò non influirà sulla sicurezza dell'approvvigionamento energetico del Paese anche nell'inverno 2023/2024. Tuttavia, ha aggiunto che lo smantellamento dei reattori e la decisione su un deposito finale per i rifiuti radioattivi sono compiti impegnativi che probabilmente richiederanno diversi decenni per essere completati, mentre i numerosi reattori obsoleti in funzione nei paesi vicini continuano a rappresentare un grave rischio per la sicurezza della Germania e per l'Europa nel suo insieme.” Come al solito mostrando che a comandare in Europa devono essere loro, a quale titolo ovviamente ci sfugge, ma basti dire che in Germania il movimento antinucleare non ha portato alla costruzione di nuovi reattori commerciali dopo il 1989. Ovvero, la Germania chiude i suoi impianti perché oggettivamente sono vecchi, mentre riguardo al carbone, dalla decisione del 2000 di eliminare gradualmente il nucleare, la quota di energia elettrica prodotta con il fossile è scesa dal 43% nel 2011, quando 7 centrali nucleari sono state disattivate, fino al 23,4%. E dal 2007 in poi non sono state pianificate né costruiti nuove centrali a carbone. Ma resta l'unico modo non dipendente dalle rinnovabili che consente a Berlino una minima autonomia energetica, e il governo vuole porre fine al carbone entro il 2030 vincendo un radicato sistema culturale che vede la sua estrazione presente sul territorio da oltre duecento anni. Ora Scholz riconosce che saranno necessarie diverse centrali a gas naturale definite “flessibili” e predisposte per l'idrogeno per far funzionare un sistema energetico stabile, poiché entro il 2030 perderà 21 gigawatt dalla lignite e altri 25 dal carbon fossile, come ha calcolato l'istituto di ricerca Ewi. La Germania dovrà quindi essere più interconnessa con i paesi vicini per rifornirsi di energia in tempi di bonaccia o meteo nuvoloso, comprando da fonti nucleari in Francia e Belgio. E bisognerà vedere se sulle bollette tedesca non finiscano i 2,2 miliardi di euro previsti per i costi di smantellamento dei reattori e delle infrastrutture che domani saranno messe su “Off”.

Estratto dell'articolo di Marcello Astorri per “il Giornale” il 10 marzo 2023.

L’obiettivo è realizzare la prima centrale elettrica da fusione nei primi anni del 2030. Un traguardo ambizioso. Ma è con questo spirito che ieri, vicino a Boston, Eni ha firmato un accordo di partenariato strategico con Commonwealth Fusion Systems (Cfs), spin out del Massachussets Institute of Technology che si occupa della ricerca sull’energia nucleare da confinamento magnetico.

 Questa tecnologia, attraverso la fusione di due isotopi di idrogeno a oltre 100 milioni di gradi, mira a replicare in una centrale ciò che avviene nel nucleo del Sole e delle stelle e ottenere così enormi quantità di energia. La società guidata da Claudio Descalzi investe sul progetto dal 2018, ma questo nuovo tassello promuove il gruppo italiano da investitore e socio a un ruolo di maggiore coinvolgimento operativo e tecnologico.

[…] La fusione avrebbe impatti geopolitici «perché mentre oggi alcuni paesi hanno il petrolio, il gas o il carbone, e altri no, in futuro tutti potranno accedere a questa tecnologia che produce energia a basso costo, così nessun Paese potrà più ricattare gli altri».

 L’Eni è stata la prima compagnia energetica a credere nella fusione. Ora però anche il governo Usa ci investe e, per il budget 2024, ha stanziato 1 miliardo di dollari.

 «Vedremo realizzata la prima centrale elettrica di Cfs basata sulla fusione a confinamento magnetico all’inizio del prossimo decennio», è sicuro Descalzi.  «Questo vorrà dire disporre a livello industriale di una tecnologia in grado di fornire grandi quantità di energia senza alcuna emissione di gas serra, prodotta in modo sicuro, pulito e virtualmente inesauribile». Tra i vantaggi anche la mancanza di scorie di processo, ma solo componenti debolmente attivati.

 […] Ci hanno puntato anche miliardari come Bill Gates e Jeff Bezos. Il round più significativo, da 1,8 miliardi, è arrivato dopo che nel settembre del 2021 il Cfs è riuscito a testare con successo un magnete superconduttivo chiamato Hts, il più potente del suo genere al mondo. I magneti, infatti, giocano un ruolo fondamentale per gestire e confinare nel reattore il plasma, ovvero una miscela di deuterio (ricavato dall’acqua del mare) e trizio (prodotto da una reazione fisica con il litio).

Ora, a più di 50 chilometri da Boston, è in atto la fase due. Di fianco alla sede del Cfs, dove lavorano 450 persone, c’è il cantiere per costruire il primo impianto pilota: lo Sparc, per un investimento da 800 milioni di dollari. Tra circa sei mesi, un reattore di circa 6 metri di diametro e 6 in altezza per la fusione a confinamento magnetico, detto Tokamak, sarà posizionato al centro della struttura. Dal 2025 inizieranno i test.

 La sfida è riuscire a dimostrare che dalla fusione è possibile ottenere più energia di quanta è necessaria per innescarla. In caso di successo, si passerà alla realizzazione entro un decennio di Arc, la prima centrale industriale da fusione che potrebbe avere una capacità elettrica di 400-500 megawatt.  […]

Ritorno al nucleare «pulito e sicuro». Cosa vuol dire? Milena Gabanelli e Massimo Sideri su Il Corriere della Sera il 22 Febbraio 2023.

Ritorno al nucleare? In Italia l’ipotesi è presente nel programma della coalizione di centrodestra salita nel frattempo al governo («ricorso alla produzione energetica attraverso la creazione di impianti di ultima generazione senza veti e preconcetti, valutando anche il ricorso al nucleare pulito e sicuro»). In altri Paesi, come il Giappone, la svolta è già in fase operativa. La Cina è il Paese che ha costruito di più: attivati 40 nuovi reattori negli ultimi 20 anni. Allora cerchiamo di capire cosa significa «produzione di energia da fissione nucleare di ultima generazione».

Quarta generazione, pulita e sicura. Cosa vuol dire?

Vediamo innanzitutto cosa si intende per centrali pulite: in effetti il processo di fissione non crea emissioni di CO2, il nemico pubblico numero uno per il riscaldamento globale. Per questo anche l’Europa ha cambiato la tassonomia considerandole green. Sono anche sicure? Come sempre fino a quando non accade un incidente. Cosa cambierà allora con le centrali di quarta generazione? Si tratta di una famiglia di tecnologie più avanzate studiate già da decenni (reattori veloci refrigerati al piombo) che permette di usare con standard di sicurezza più elevati rispetto a quelli attuali anche l’uranio così come viene isolato dagli altri minerali, senza il costoso processo di arricchimento. Questo dovrebbe ridurre anche la quantità di scorie radioattive. Il problema è che nonostante la quarta generazione sia molto citata siamo ancora nella fase di studio e sperimentazione, e non ne esiste nessuna operativa nel mondo. Inoltre molti sono gli ostacoli tecnologici alla effettiva realizzazione di queste centrali.

Quanto costa una centrale

Poniamo comunque che si voglia iniziare ora a costruire. Quanto costa? Difficile dare una stima univoca. Ma per esempio la centrale di Flamanville 3 Epr di Edf in fase finale di costruzione in Francia sta costando una cifra monstre: 12,7 miliardi (la stima era di 3,3) e bisogna considerare che la Francia è uno dei Paesi con il maggiore know-how tecnologico in materia di nucleare con una produzione di energia atomica che copre circa il 70% del fabbisogno del Paese. I lavori sono iniziati nel 2007. Sarà uno degli impianti più moderni e potrà rifornire di energia una città come Parigi, un bel salto in avanti dalla prima centrale della storia, quella costruita in Russia a Obninsk nel 1954. I costi di costruzione sono una delle spine nel fianco del nucleare. Perché una volta in funzione i costi sono ridotti, ma bisogna ammortizzare tutto ciò che c’è stato prima. Ancora oggi il nucleare, a conti fatti, è più costoso dell’energia da fonti fossili. Nel nucleare l’ingresso nel mercato è molto lento e costoso. L’uscita ancora di più, come sappiamo bene in Italia.

Le materie prime e il mercato dell’uranio

C’è un altro tema cruciale: per costruire delle centrali nucleari a scopo civile servono tante materie prime rare, come lo xenon, un gas usato come «veleno nucleare» per ridurre le scorie della fissione e stabilizzare il processo (per inciso il primo fornitore al mondo è l’Ucraina). Il plutonio è un altro materiale radioattivo spesso citato. Ma non c’è dubbio che la materia prima imprescindibile in ogni caso sia l’uranio, anche se parliamo di centrali cosiddette di quarta generazione. In ogni caso anche in queste nuove centrali, una volta risolti i problemi tecnologici, si potrà usare il prodotto della concentrazione dei minerali che contengono l’uranio (generalmente lo yellowcake, che si vende sul mercato, U3O8) al posto dell’uranio arricchito che usiamo ora (U235 che nell’uranio naturale rappresenta solo lo 0,72% e che con il processo di arricchimento deve essere portato al 3-5%). L’uranio in poche parole resterà la chiave di volta del nucleare. Premesso che la transazione è possibile solo con i Paesi che hanno aderito al trattato di non proliferazione del nucleare, quali sono i Paesi che possiedono e vendono l’uranio? I maggiori produttori sono il Kazakistan (che con 21 mila tonnellate fornisce il 45% dell’uranio mondiale), seguito dall’Australia (8%), Namibia (12%), Canada (10%). Tra i grandi produttori ci sono anche il Niger e la Russia (circa il 5% a testa). In seguito a processi di concentrazione di mercato degli anni Novanta l’uranio è ormai in mano a pochissime società come la Kazatomprom (da sola gestisce miniere pari a un quarto dell’uranio in circolazione, anche se la miniera più grande al mondo è quella canadese di Cigar Lake), la Orano, la Uranium One e la Cameco.

L’uranio può finire?

Già oggi i 450 reattori presenti in tutto il mondo e collegati alla rete consumano tutta la produzione annuale di uranio (48 mila tonnellate) per produrre 396 GWe (gigawatt equivalenti). Si tratta di circa il 10% del fabbisogno di energia del mondo. Ma cosa accadrebbe se la corsa al nucleare civile dovesse sul serio ripartire, considerando che anche sul fronte militare la produzione di armi nucleari è aumentata? Secondo la bibbia dell’argomento (il rapporto Uranium 2020 dell’Iaea, la International Atomic Energy Agency) nel migliore dei casi da qui al 2040 la produzione potrebbe salire a un massimo di 626 GWe. Questo richiederebbe un maggior sfruttamento delle risorse totali di uranio sulla Terra che non sono poi molte: i principali giacimenti sono in Australia che detiene il 28% dell’uranio nella classe sotto 130 dollari per chilo, mentre il Kazakistan ha quasi il 50% dell’uranio sotto gli 80 dollari per chilo. Ottanta dollari è considerato attualmente il costo di produzione per chilo dell’uranio, il che vuole dire che vale la pena estrarlo quando il prezzo sale. Cosa che non sta accadendo: negli ultimi 20 anni l’uranio ha avuto un picco a circa 350 dollari per chilo, ma oggi viaggia sotto i 100 dollari. Peraltro l’uranio è spesso in coppia con le terre rare, fondamentali per la tecnologia, e il processo di estrazione dell’uranio dagli altri minerali le distrugge. In tutto il mondo esistono poco più di 6 milioni di tonnellate di uranio da estrarre (fonte Iaea). Visto che a questo ritmo consumiamo già un milione di tonnellate ogni venti anni, già sappiamo che abbiamo risorse per 120 anni al massimo. Molto meno se dovessimo aumentare il numero di centrali. Insomma chi dovesse entrare oggi nel mercato si troverebbe in fondo alla fila, con altissimi costi e prospettive di dover buttare tutto tra un secolo. Si aggiunga che ora sta emergendo il rischio tangibile legato alla cybersecurity: secondo un rapporto datato settembre 2022 dell’Us Government Accountability Office la maggior parte delle centrali atomiche americane non rispettano gli standard di sicurezza informatica, usando spesso come software quello della Microsoft, come in un ufficio qualunque.

Il caso Italia

Prima di progettare nuove centrali bisogna smantellare quelle vecchie: Trino (VC), Caorso (PC), Latina e Garigliano (CE) e alla messa in sicurezza del materiale radioattivo presente negli impianti legati al ciclo del combustibile nucleare: Eurex di Saluggia (VC), ITREC di Rotondella (MT), Ipu e Opec a Casaccia (RM) e FN di Bosco Marengo (AL). L’incarico è stato affidato alla Sogin nel 2001, prevista la fine lavori nel 2019 e i costi con un prelievo in bolletta (3,5 miliardi) a carico dei contribuenti. Ebbene, a fine 2021 la Sogin ha completato solo il 30% del lavoro. Secondo il rapporto del 2021 della Commissione parlamentare sulle ecomafie l’uscita dal nucleare slitta al 2035 (dovremmo fare in 12 anni il 70% del lavoro, dopo averne impiegati il triplo per farne il 30%) e costerà 7,9 miliardi. È il caso di ricordare che l’impianto di Saluggia è considerato una bomba ecologica e già dal ‘77 la prescrizione prevede la solidificazione dei rifiuti liquidi entro 5 anni. Sono ancora lì. Caso unico al mondo.

Nel 2022 la società statale è finita in commissariamento e a coordinare i lavori di accelerazione è stato designato il dirigente che al momento del commissariamento era l’amministratore delegato di Sogin. Ogni commento è superfluo. Inoltre, dopo tanti anni, il deposito dove custodire i rifiuti radioattivi non è ancora operativo. Di fronte a questa totale incapacità di gestione è complicato far digerire una nuova eventuale stagione nucleare. Promettente invece la sperimentazione della fusione nucleare (che non c’entra nulla con la fissione), di cui si parla molto, e che è attesa se va bene entro una trentina d’anni. Il dato certo è che comunque non potrà coprire il fabbisogno energetico globale ed è pensata come uno stabilizzatore delle risorse rinnovabili, ma non costanti (sole, vento, acqua). Ha senso dunque spingere sulle politiche di risparmio energetico, su maggiori investimenti nelle rinnovabili e sulla ricerca, proprio perché il progresso tecnologico può rendere possibile quello che oggi ancora non lo è.

Prudenza necessaria. Potenzialità, dubbi e rischi del nucleare di quarta generazione. Riccardo Piccolo su L’Inkiesta il 31 Gennaio 2023

Prima del 2030 non avremo risposte adeguate da parte dei reattori dimostrativi, dunque oggi è impossibile avere gli strumenti per fare delle valutazioni concrete. Ma il margine di miglioramento e sviluppo è ampio, e il tema è destinato a tornare ciclicamente all’interno del dibattito pubblico

«Dobbiamo ripensare il referendum e prendere in considerazione fin da ora il nucleare di quarta generazione: dà margini di sicurezza decisamente maggiori e può essere il futuro di questo Paese, fino a quando arriverà la fusione». Sono le dichiarazioni di Gilberto Pichetto Fratin, ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica di un esecutivo che si è sempre schierato dalla parte dell’atomo. 

Il nucleare di quarta generazione non esiste ancora. O meglio, dipende da che cosa si intende designare con questa etichetta, data l’ampia galassia di tecnologie che vi rientrano. E neanche è la panacea a tutte le carenze delle precedenti generazioni di nucleare. Le tipologie di reattori che fisici e ingegneri hanno concepito e che, nel corso degli anni, continuano a realizzare sono moltissime, e indubbiamente si sono evolute tanto dagli anni Cinquanta, ma come per ogni progetto dell’umano ingegno possiedono punti di forza e di debolezza, comprese le centrali più recenti e innovative.

Quando si parla di “contributo nucleare” ci si riferisce, in gran parte, all’utilizzo delle centrali già esistenti – che al momento producono, a livello globale, trecentonovantanove gigawatt di potenza. Capacità che proviene per la maggior parte da reattori appartenenti alla “seconda generazione”, che si basa su tecnologie sviluppate verso la fine degli anni Settanta. Perciò il margine di miglioramento e sviluppo è ampio, come in ogni cosa quello che conta è saper fare una corretta analisi costi-benefici per poter capire su quali tecnologie conviene investire.

Questo perché, di fatto, per la “quarta generazione” non esistono ancora reattori commerciali: siamo ancora in piena fase sperimentale. La previsione quanto più verosimile stima che entro il 2030 i reattori dimostrativi, alcuni dei quali sono già esistenti in Cina e in Russia, ci avranno dato le risposte necessarie e potremo quindi partire con i reattori commerciali. 

Il cosiddetto nucleare di quarta generazione – “cosiddetto” perché, come vedremo più avanti, è una definizione piuttosto generica e volutamente approssimativa – ha il potenziale di apportare sostanziali miglioramenti alle tecnologie che lo hanno preceduto. Ma la vera questione su cui vale la pena discutere non è se un giorno riscalderemo le nostre case con il nucleare, ma con quale tipo di generatore lo faremo. 

Dalla prima alla “quarta generazione”

Non c’è un confine netto tra le varie generazioni di reattori nucleari. Da quelli di prima apparsi in Usa, Gran Bretagna e Russia intorno agli anni Cinquanta (anni in cui anche l’italia era all’avanguardia sull’atomo), fino ai più nuovi di terza e terza+, come quelli da poco costruiti in Finlandia e Francia ad acqua pressurizzata, o i “mini-reattori”, l’evoluzione tecnologica è stata costante negli anni. In questo modo, ad ogni generazione successiva si sono aggiunti miglioramenti in termini di sicurezza, rendimento e smaltimento dei rifiuti. 

Ciò non toglie che per ogni tipo di tecnologie vale un discorso diverso in termini di vantaggi e svantaggi: la proverbiale coperta che è sempre troppo corta. L’adozione di numerose nuove misure di sicurezza nei reattori di più recente costruzione, ad esempio, ha portato ad un incremento dei costi – il russo BN-800 attivato nel 2016 è costato oltre 1,6 miliardi di euro – e in alcuni casi anche ad un prolungamento delle tempistiche di edificazione, ma in compenso si è spinta verso l’alto la potenza elettrica netta prodotta da ciascuna unità, arrivando fino a 1600 MW di potenza. Il discorso inverso lo si potrebbe fare per gli small modular reactor – a cavallo con la nuova generazione – in grado di sprigionare meno energia, ma al netto di un costo ridotto e maggiore flessibilità.  

Veniamo alla tanto discussa quarta generazione. L’etichetta è nata nel 2001 negli Stati Uniti e viene dal Generation IV international forum. L’obiettivo di questo programma di ricerca, a cui al momento partecipano tredici Paesi e la Comunità europea dell’energia atomica (Euratom), è quello di studiare e progettare sistemi innovativi per la generazione di energia nucleare. 

Come spiega a Linkiesta Flavio Parozzi, presidente di Cise2007 e consulente dell’Unione europea in materia di energia nucleare, «tutto è cominciato alla fine degli anni Novanta, quando i principali consorzi di costruttori e laboratori di ricerca universitari – principalmente guidati da Stati Uniti ed Europa – si sono domandati su quali progetti convogliare le ricerche di sviluppo al fine di far convergere lo sforzo di ricerca. In questo contesto furono selezionate le sei tipologie di reattori più promettenti per il futuro e che oggi chiamiamo nucleare di quarta generazione. L’obiettivo scientifico comune era quello di produrre meno scorie o addirittura bruciarle al loro interno, un altro desiderata era quello di minimizzare l’uso di combustibile, ossia l’uranio». 

Si tratta di un elemento che in natura non è raro, ma che – guardando al mercato del futuro – potrebbe essere comodo consumarne meno, anche perché in una reazione a fissione se ne utilizza solamente l’un per cento mentre il resto diventa combustibile esausto, ossia scorie radioattive. 

In questo senso parliamo di quarta generazione innanzitutto per connotare l’avvicendamento cronologico, poi per indicare il “salto” qualitativo sotto l’aspetto tecnico rispetto al passato, fermo restando che si tratta pur sempre del medesimo sistema tecnico a turbina e alternatore e la stessa reazione fisica: quella della fissione. Per intenderci, la fusione nucleare è tutt’altra storia – è il futuro del futuro – dato che sfrutta una reazione nucleare totalmente differente che sono ancora in una fase di collaudo. 

Lo stato dell’arte della nuova generazione 

Ma se la fusione è ancora materia per futurologi, lo stato dell’arte dei più nuovi reattori promette meglio. «Le idee sono tante, ma, appunto, sono ancora idee. Siamo in una fase di studio – dice Parozzi – per verificare che quello che si è auspicato in fase di ricerca sperimentale stia in piedi. Da qui fino a costruire un impianto o una centrale, c’è un passo molto grosso da fare. Si sospetta che nel giro di una decina d’anni sia pronto un primo prototipo di reattore da attaccare alla rete». 

Questa è la prassi scientifica: una procedura per fasi che necessita dei suoi tempi. Prima si fanno gli studi, poi si costruiscono i prototipi, successivamente i reattori dimostrativi e solo infine si passa alla produzione commerciale. C’è anche da dire che alcune delle tecnologie di quarta generazione sono già disponibili: «I reattori a neutroni veloci, ad esempio, che sono in grado di trasformare parte dell’uranio naturale in plutonio 239 massimizzando la resa dei combustibili – ricorda Parozzi – erano già disponibili anni fa, ma la commercializzazione fu interrotta per motivi di costo e rischi connessi con la proliferazione di armi atomiche». 

Come si può notare il discorso è complesso, perché per valutare la convenienza dell’edificazione di una centrale le motivazioni scientifiche si intrecciano a quelle politiche, economiche, ambientali, ingegneristiche e burocratiche. E in certi casi persino culturali, come per quanto riguarda l’impatto che ebbe nell’immaginario comune il disastro di Chernobyl, che raffreddò irrimediabilmente il giudizio sul nucleare da parte dell’opinione pubblica. 

Ad ogni modo, oggi, il principale ostacolo alla costruzione di centrali nucleari rimangono gli ingenti investimenti finanziari richiesti nelle fasi iniziali e nella messa in esercizio degli impianti, oltre che all’adeguamento della rete elettrica nazionale. Un esborso notevole, considerata la relativa inferiorità dei costi di altri tipi di centrali elettriche (come quelle a gas o a carbone) e che ripaga solo nel lungo periodo. Una volta passata la fase iniziale, le spese potranno essere recuperate dopo dieci-quindici anni di esercizio, quando i costi principali saranno quelli per il combustibile e la manutenzione. 

Un’altra difficoltà riguarda le tempistiche di costruzione degli impianti, che secondo alcuni risulta eccessiva rispetto alle urgenze imposte dalla crisi energetica e ambientale. Per intenderci, si parla, in media, di una decina d’anni da quando si ottiene il via libera e tutti i permessi burocratici necessari, ma la cifra cambia di Paese in Paese (ovviamente in Cina ci mettono molto meno).

«In realtà è un problema più di programmazione che di capacità», spiega a Linkiesta Marco Enrico Ricotti, membro designato dell’Agenzia per la sicurezza nucleare e presidente del “Working party on atomic questions” del Consiglio europeo. «Se si cambia l’impostazione progettuale puntando sulle costruzioni a moduli o tornando a pianificare la costruzione di reattori, allora l’industria nucleare rimane “allenata” ed efficiente e i tempi e i costi si riducono decisamente”. D’altronde, ricorda il professore, «non possiamo pretendere di avere un’industria efficiente, qualunque essa sia, se la mettiamo in freezer per venti anni. Nessuno può correre la maratona se sta sdraiato sul divano per sei mesi, figuriamoci per due decenni».

Anche se la costruzione di una centrale «oggi non è più un’avventura come fare una spedizione su Marte – dice Parozzi – perché si conoscono perfettamente le tempistiche e i materiali necessari alla realizzazione». Quello che rallenta il processo, in realtà, sono la politica e il costo del denaro: dato che l’investimento è molto cospicuo, sono in pochi a voler prendersi un rischio così grande. 

«Per aggirare il problema di dover investire tutti i soldi in una volta sola, alcune aziende tecnologiche americane hanno pensato di puntare sull’economia di scala, costruendo batterie dai dodici-ventiquattro reattori alla volta», spiega l’ingegnere. Infatti, così l’investimento viene diluito nel tempo, perché si pagherebbe l’allestimento delle nuove centrali con i ricavi ottenuti dal funzionamento delle prime.

Secondo Ricotti invece, il metodo più promettente è quello di puntare su due famiglie imparentate di reattori: «Gli Small modular reactors (Smr) e gli Advanced modular reactors (Amr) hanno in comune la taglia ridotta e la costruzione modulare», quindi sono più veloci e facili da assemblare. «Queste caratteristiche – continua l’esperto – dovrebbero garantire minori tempi e minori rischi finanziari di costruzione». 

A livello di tempistiche, poi, «gli Smr ad acqua dovrebbero costare di meno ed essere disponibili sul mercato entro il 2030, gli Amr a piombo o a sale fuso – in grado di bruciare i rifiuti radioattivi – sarebbero disponibili verso il 2040». Dal punto di vista della sicurezza, il passo in avanti è notevole. I reattori modulari, infatti, non avranno necessità di energia elettrica o di intervento umano, in questo modo si potranno evitare direttamente da progetto il verificarsi di scenari tipo Fukushima. Inoltre, i reattori piccoli e modulari «riducono i costi e la complessità dello sviluppo della rete elettrica, aspetto indispensabile e troppo spesso trascurato della transizione energetica», ricorda il professore.

L’avanguardia ingegneristica

Sul fronte dello sviluppo, la Cina è tra i Paesi in fase di maggiore avanzamento. Il 20 dicembre 2021, dopo dieci anni di lavori, è stato collegato alla rete elettrica il primo reattore dimostrativo di “quarta generazione”. Pechino, inoltre, ha già pronto il progetto per un reattore più grande, non dimostrativo. Anche la Russia ha avviato la costruzione di un reattore dimostrativo di “quarta generazione”, che dovrebbe essere pronto entro il 2035. 

In Europa, paradossalmente è l’Italia ad essere leader indiscussa di una di queste tecnologie, quella dei reattori raffreddati a piombo liquido. Come spiega Ricotti, «al progetto di Ansaldo Nucleare (Alfred), sviluppato con Enea e appoggiato dal Consorzio interuniversitario per la ricerca tecnologica nucleare, si è affiancata di recente quello di una startup nucleare, NewCleo, una novità assoluta per l’Italia, che realizzerà un primo prototipo a piccola scala di reattore a piombo liquido (ma senza combustibile nucleare) nei laboratori Enea del Brasimone». 

«Nessuno è capace di fare una previsione sui costi dell’energia adesso, con una proiezione di trenta o quarant’anni», conclude l’ingegnere Parozzi. Il futuro della nostra presenza sul pianeta rimane infatti una scommessa, perché è impossibile prevedere con precisione tutte le variabili in gioco; fare una valutazione sui costi e la convenienza economica è di fatto speculazione sul futuro. L’unica cosa seria da fare, in un contesto di incertezza come questo, è diversificare le fonti di energia, in modo da poter fronteggiare le azioni imprevedibili del mercato, della politica e della tecnologia.

Torna il colpevole silenzio sul nucleare, che ci servirebbe tanto. Sergio Barlocchetti su Panorama il 19 Gennaio 2023.

Il possibile ritorno all’energia nucleare dell'Italia è stato un tema molto dibattuto in campagna elettorale. Poi il silenzio o quasi. Con Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare facciamo il punto sulle azioni necessarie per rimettere il nostro Paese sulla strada giusta ,

Scoprendo che sarà giocoforza un percorso lungo decenni, ma necessario e inevitabile Perché ci serve

Torna il colpevole silenzio sul nucleare, che ci servirebbe tanto - Panorama https://www.panorama.it/Tecnologia/nucleare-italia-progresso-politica-energia 3/8 Il possibile ritorno all’energia nucleare dell'Italia è stato un tema molto dibattuto in campagna elettorale. Poi il silenzio o quasi. Per fare il punto sulle azioni necessarie per rimettere il nostro Paese sulla strada giusta per tornare, in futuro, a produrre energia dall’atomo, abbiamo intervistato Umberto Minopoli, presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. Scoprendo che sarà giocoforza un percorso lungo decenni, ma necessario e inevitabile Presidente Minopoli, qual è il punto di partenza dell’Italia? Stiamo vivendo un’emergenza innescata dalla più grave crisi energetica della storia moderna che ha il suo epicentro in Europa, con il Vecchio continente impegnato in una doppia impresa: liberarsi dalle importazioni russe e realizzare obiettivi ambiziosi in fatto di decarbonizzazione. L’obiettivo strutturale di tutta l’Unione europea è ora quello di cambiare il mix energetico diminuendo la quota di combustibili importati dall’esterno dell’Ue e aumentare la produzione interna, che se deve ridurre o eliminare le fonti carboniche deve passare per il nucleare. Parliamo agli scettici: per quali ragioni pensare all'atomo? Per diversi motivi. Oggi il nucleare è la prima fonte non carbonica del sistema energetico europeo, con il 13% del totale prodotto da 122 centrali operative. Molti dimenticano che senza la CO2 evitata grazie alle centrali nucleari (miliardi di tonnellate negli ultimi decenni), l’Europa non potrebbe vantare il record del minimo di emissioni nel bilancio carbonico mondiale. Ci sono fonti naturali intermittenti e non prevedibili perché dipendono dagli andamenti meteorologici, che forniscono una quantità limitata di terawattora. E ci sono invece fonti continue che forniscono energia per tutto l’anno sulle quali facciamo conto. La funzione di fonte continua nel mix energetico dei paesi avanzati, sinora assolta dalle fonti fossili, dovrà essere garantita da fonti energetiche differenti (idroelettrico, biomasse e nucleare), ma con le stesse caratteristiche di continuità delle prime, e queste devono affiancare e integrare le fonti rinnovabili in espansione. Saremo sempre più “elettrici” in tutto?

L’elettrificazione sarà la dominante della transizione energetica e del resto del secolo, sia per la domanda inarrestabile dai paesi poveri, sia per la rivoluzione della microelettronica e del digitale, e ancora per la necessità crescente di energia pulita negli usi finali ma anche all’atto della generazione. L’energia nucleare ha il più alto fattore di capacità (ore di funzionamento annuo al massimo regime richiesto), la più bassa volatilità e più alta costanza nei costi operativi e di gestione. La transizione energetica, se deve sostituire le quantità di combustibili fossili che generano, ancora, la gran parte dell’energia elettrica che consumiamo (oltre il 50% in Italia), non potrà fare a meno di questa fonte. Infine, il nucleare è la tecnologia non carbonica e subito disponibile caratterizzata dalla più massiccia articolazione di tipologie di impianti ad alta tecnologia e con la maggiore sicurezza, efficienza e innovatività tra tutti gli impianti energetici. Gli impianti nucleari attuali- centrali di larga potenza, di terza generazione (le 54 centrali che si stanno attualmente costruendo nel mondo) sono impianti progettati sul finire degli anni 90 e avviati ai primi degli anni 2000 evoluti su fattori come la sicurezza, l’efficienza e l’economicità, che non hanno paragoni con alcun’altra tecnologia energetica.

ENI senza ritegno: la multinazionale chiede i danni ai movimenti ecologisti. Simone Valeri su L'Indipendente giovedì 27 luglio 2023.  

La multinazionale fossile italiana ENI ha fatto causa per diffamazione alle organizzazioni Greenpeace Italia e ReCommon. La denuncia fa seguito alla diffusione, da parte dei due movimenti ambientalisti, della campagna la “Giusta Causa”.  Lo scorso 9 maggio, insieme a 12 cittadini, le organizzazioni avevano infatti notificato a ENI un atto di citazione davanti al Tribunale di Roma per l’apertura di una causa civile per i danni subiti e futuri derivanti dai cambiamenti climatici. L’accusa avanzata ad ENI e sostenuta dalla scienza è che, negli ultimi decenni, l’azienda ha contribuito all’attuale crisi climatica continuando a investire nei combustibili fossili. La notizia della citazione in giudizio ha avuto un grande eco mediatico, il quale ha verosimilmente portato il Cane a Sei Zampe a chiedere un risarcimento danni alle organizzazioni. «È paradossale che, proprio mentre l’Italia è devastata dagli impatti dei cambiamenti climatici, la più importante multinazionale italiana, partecipata dallo Stato, chieda un risarcimento danni a chi ha non ha fatto altro che sollecitare un reale cambiamento nelle politiche energetiche di una grande società che, continuando a investire sul gas e sul petrolio, minaccia il pianeta e la sicurezza delle persone», hanno commentato le organizzazioni.

ENI non ha ancora quantificato le richieste economiche, ma certo è che – stando all’atto notificato ai due movimenti – saranno superiori a 50 mila euro ciascuna. Cause come quella che ENI sta muovendo contro Greenpeace e ReCommon vengono denominate SLAPP (Strategic Lawsuit Against Public Participation, o cause strategiche contro la pubblica partecipazione). Cause civili che, sebbene siano spesso basate su accuse infondate, sono intentate da grandi gruppi di potere per disincentivare la protesta pubblica, sottraendo risorse economiche alle parti chiamate in causa. “In altre parole – scrivono le organizzazioni in un comunicato stampa – si tratta di uno stratagemma ormai ben collaudato per soffocare sul nascere ogni critica e ogni forma di protesta”. La mossa di ENI rappresenterebbe quindi un mero tentativo di intimidire gli attivisti. Questi non hanno però intenzione di fermarsi e – fanno sapere – continueranno a denunciare le responsabilità dell’azienda in fatto di accelerazione del riscaldamento globale.

Greenpeace e ReCommon, attraverso la prima causa civile italiana del genere, hanno accusato la principale multinazionale fossile dello Stivale di danni ambientali e climatici passati, presenti e futuri. «ENI – hanno spiegato le organizzazioni lo scorso maggio – ha significativamente contribuito negli ultimi decenni a rendere l’Italia dipendente dal gas russo prima e da quello proveniente da altre aree del mondo poi», pertanto, «contestiamo a ENI la violazione dell’Accordo di Parigi e vogliamo ricordare che, come già sancito da diversi tribunali internazionali, continuare a contribuire al riscaldamento globale genera degli impatti associati a gravi violazioni dei diritti umani». Molti legali esperti di controversie sul clima, tra l’altro, hanno affermato che i documenti associati al caso ENI si aggiungono a un crescente numero di prove che dimostrano che le compagnie petrolifere avevano una chiara comprensione dei rischi posti dalla combustione dei loro prodotti più di mezzo secolo fa. Ciononostante hanno comunque scelto di minimizzare i pericoli e di aumentare la produzione di petrolio e gas. Come è ormai altrettanto appurato che le principali aziende del petrolio e del gas hanno pagato fior di quattrini per alimentare lo scetticismo sui cambiamenti climatici. Hanno finanziato, oltreché direttamente degli istituti di ricerca, delle vere e proprie campagne di disinformazione affinché la responsabilità delle loro attività nel cambio del clima venisse sminuita. [di Simone Valeri]

La "guerra del petrolio" tra Emirati e Arabia Saudita. Gli Emirati, in asse con Washington, rompono con Riad sull'Opec? Il dibattito è aperto. Andrea Muratore il 4 Marzo 2023 su Il Giornale.

Nella comunità internazionale si dibatte da diversi giorni sull'effettiva possibilità che gli Emirati Arabi Uniti possano lasciare l'Opec, il cartello mondiale del petrolio. Una mossa che rappresenterebbe uno schiaffo sonoro all'Arabia Saudita, Paese che dell'Opec è regista e principale influenzatrice, nonché fautrice dell'estensione nel dialogo alla Russia nel quadro Opec+.

Da un anno il presidente degli Emirati Arabi Uniti Sheikh Mohammed bin Zayed al Nahyan e il principe Mohammed bin Salman dell'Arabia Saudita sono in diverbio sul futuro della strategia energetica, della partita degli investimenti nel mondo arabo e non solo, del rapporto col resto del mondo.

In quest'ottica Abu Dhabi appare più vicina alla presidenza Usa di Joe Biden rispetto all'Arabia Saudita, che più volte ha deluso le speranze della Casa Bianca su diversi dossier. L'Arabia Sauidta prosegue la guerra in Yemen nonostante la volontà di Washington di iniziare a rendere meno vischioso il coinvolgimento dei suoi alleati nel Paese, condivisa dagli Emirati Arabi. Il piano Saudi Vision 2030 si scontra con i progetti dell'Emirato di attrarre strategie di investimento globali nelle tecnologie pulite, la transizione energetica, lo sviluppo di frontiera. E soprattutto Mosca e Riad sono allineate sulla posizione di tagliare la produzione per spingere verso l'alto i prezzi del petrolio. Al contrario di Abu Dhabi e Washington.

Gli Emirati, secondo gli accordi Opec, hanno l'impegno a mettere sul mercato 3 milioni di barili di petrolio al giorno, il 75% della capacità produttiva nazionale. Ma Abu Dhabi vuole investire per aumentare fino a 5 milioni di barili la sua produzione entro il 2027 e si sente minacciata dalla dominazione russo-saudita dell'Opec/Opec+.

Braccio di ferro nel mercato del greggio

La guerra in Ucraina ha accelerato questa crisi. Per molti commentatori la spaccatura in realtà risale al 2021, quando sui tagli alla produzione dell'Opec si consumo il primo braccio di ferro nel mercato del greggio. Altri fanno risalire alla minaccia percepita da Abu Dhabi per gli effetti della guerra dei prezzi del petrolio del 2020 l'inizio della diffidenza per Riad. "La decisione degli Emirati Arabi Uniti di lasciare il gruppo basato sul petrolio che rappresenta quasi il 38% della produzione totale mondiale di petrolio greggio diminuirebbe i poteri di fissazione del prezzo del petrolio del gruppo", scrive il portale Oil Price. E dopo l'uscita del Qatar l'Opec rischia una nuova botta che, se formalizzata, appiattirebbe sull'asse Riad-Mosca le discussioni e aprirebbe un nuovo fronte, spingendo Abu Dhabi a diventare il nuovo riferimento regionale per Washington. Ad oggi gli Emirati non confermano: ma il Wall Street Journal fa sapere che il dibattito negli Emirati sull'Opec è aperto e in pieno svolgimento. La guerra energetica rischia di intensificarsi: e chi sul petrolio è dipendente, come l'Europa, deve osservare con attenzione. Ogni colpo all'Opec può spingere al basso i prezzi: e per chi importa massicciamente, la notizia non è necessariamente negativa, come il calo del 3% dei prezzi del Brent venerdì, sulla scia dei rumors sull'uscita di Abu Dhabi dall'Opec, testimonia.

Il business senza freni del conflitto Shell +40 miliardi e la piazza freme. Adolfo Spezzaferro su L’Identità il 3 Febbraio 2023

La guerra è un business senza pari: Shell, gigante petrolifero britannico, ha dichiarato di aver registrato un nuovo record annuale di profitti, superando ogni aspettativa. In precedenza, anche i colossi americani Chevron ed Exxon Mobil avevano riportato cifre record. Mentre in Europa si moltiplicano gli scioperi per la crisi economica, il caro vita, il caro bollette, i colossi dell’energia fanno miliardi a palate. Una situazione che presto potrà diventare un’emergenza sociale, con la rabbia che sta salendo sempre più. A partire dall’ira dei cittadini del Regno Unito, inviperiti dalla pubblicazione dei dati di Shell. La multinazionale britannica ha fatto registrare nel 2022 un utile record di quasi 40 miliardi di dollari, il più alto nei 115 anni della sua storia. La guerra è insomma l’allineamento dei pianeti grazie al quale pochi si arricchiscono a dismisura e tanti, troppi soffrono invece la crisi economica. Sarà un concetto banale, ma è la verità. L’impennata dei prezzi dell’energia dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia e l’inasprimento delle sanzioni dell’Occidente contro Mosca ha permesso al colosso energetico di offrire agli azionisti una remunerazione senza precedenti, mentre milioni di famiglie (non solo britanniche) incontravano difficoltà sempre maggiori nel far fronte agli aumenti dei prezzi di gas e petrolio.

 I guadagni di Shell, più che raddoppiati rispetto al 2021, rispecchiano quelli annunciati dalle società concorrenti statunitensi e sicuramente intensificheranno la pressione sui governi affinché aumentino ulteriormente le tasse sul settore. “Intendiamo rimanere disciplinati e al tempo stesso offrire agli azionisti rendimenti attraenti”, ha dichiarato il Ceo Wael Sawan in un comunicato, il primo sui risultati trimestrali da quando ha assunto la guida dell’azienda il 1 gennaio. Shell ha anche registrato un utile record nel quarto trimestre di 9,8 miliardi di dollari grazie alla forte ripresa dei guadagni derivanti dal commercio di gas naturale liquefatto (Gnl), battendo le stime degli analisti di otto miliardi di dollari.

Paul Nowak, segretario generale del Trades Union Congress – confederazione che unisce i sindacati del Regno Unito – ha definito gli utili conseguiti da Shell “osceni”. “Mentre milioni di famiglie su e giù per la Gran Bretagna lottano per riuscire a pagare le bollette e sbarcare il lunario, Shell si sta godendo una fortuna in contanti. Il tempo delle scuse è finito. Il governo deve imporre una tassa sugli extraprofitti alle compagnie energetiche. Anziché trattenere le tasse dagli stipendi di paramedici, insegnanti, vigili del fuoco e milioni di altri dipendenti pubblici in difficoltà, i ministri dovrebbero far pagare la loro giusta quota alle grandi società energetiche”, ha dichiarato Nowak.

 Shell è stata duramente criticata lo scorso ottobre quando affermò di non aver pagato nessuna tassa sui guadagni nel Regno Unito fino a quel momento. Anche per questa ragione tre giorni fa nell’Oceano Atlantico quattro attivisti di Greenpeace International provenienti da diversi Paesi sono saliti a bordo della White Marlin, una nave da carico che trasporta una piattaforma di stoccaggio e scarico di Shell. La piattaforma fa parte dell’infrastruttura di produzione che dovrebbe permettere al colosso petrolifero di sbloccare otto nuovi pozzi nel giacimento di petrolio e gas Penguins North Sea. Gli attivisti hanno portato con sé rifornimenti sufficienti per occupare la piattaforma per alcuni giorni e hanno dispiegato uno striscione con il messaggio: “Basta trivellare. Iniziate a pagare”. In una nota di Greenpeace si legge: “L’azione nonviolenta, che si svolge a due giorni dalla pubblicazione degli utili di Shell, intende accendere i riflettori sulle responsabilità dell’industria dei combustibili fossili, che continua a distruggere il clima del Pianeta senza pagare un centesimo per risarcire le perdite e i danni causati”.

Martedì scorso era stata la statunitense Exxon ad annunciare risultati record. Anche in questo caso gli utili sono più che raddoppiati a 55 miliardi di dollari, il più alto guadagno di sempre. Lo scorso dicembre Exxon ha avviato una causa contro l’Unione europea per contestare la legittimità di una tassazione sugli extraprofitti che viene applicata sulla parte di utili generati dalle ricadute della guerra e delle sanzioni contro la Russia sui costi dell’energia. Anche l’altro colosso statunitense Chevron ha messo a segno profitti per 36,5 miliardi di dollari e annunciato un piano monstre di buy back da 75 miliardi che ha fatto arrabbiare la Casa Bianca. L’amministrazione Biden infatti aveva auspicato maggiori investimenti per aumentare la produzione e ridurre la pressione sui prezzi di carburanti e gas.

Ora occhi puntati sugli altri colossi energetici. British petroleum diffonderà i suoi risultati il prossimo 7 febbraio e il giorno seguente sarà la volta della francese Total. I dati di Eni verranno invece diffusi il prossimo 22 febbraio. Le compagnie petrolifere sono tra le poche aziende che hanno visto il loro valore di borsa aumentare nell’ultimo anno. La capitalizzazione di Exxon è salita del 42%, quella di Shell del 17%. Chevron registra un + 26%, Eni un più modesto + 2,9%.

L’antitesi tra i profitti record messi a segno dai giganti del gas e del petrolio e l’aumento del costo della vita sta scatenando attriti sempre più forti. La pubblicazione di questi profitti record, generati durante l’anno, ha acuito il dibattito sui limiti massimi di profitti che queste società possono effettivamente riportare. I democratici e la Casa Bianca hanno accusato le compagnie petrolifere di accumulare a nastro continuo nuovi ricavi dall’aumento dei prezzi dell’energia, invece di fare il possibile per abbassare i prezzi. Nel Regno Unito e nella Ue, i profitti energetici da record hanno dato il la a tasse straordinarie una tantum dirette alle aziende che beneficiano dell’aumento dei costi energetici. In molti, però, hanno criticato questo sistema di tassazione in quanto non risulta congruo con l’effettivo guadagno. Certo, guardando alle famiglie in ginocchio, che senza sgravi non potrebbero permettersi di pagare le attuali bollette, verrebbe da dire ai colossi energetici: “Avete pure da ridire?”

Quattordicimila nigeriani hanno fatto causa alla multinazionale Shell. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 4 Febbraio 2023

Circa 14.000 persone, appartenenti a due comunità nigeriane differenti, dopo anni di tentativi sono riuscite a rivolgersi all’Alta corte di Londra –  un tribunale che sorveglia l’operato di quelli inferiori – per chiedere giustizia contro il colosso dei combustibili fossili Shell, accusandolo di aver inquinato consapevolmente –ignorando le fuoriuscite sistemiche di petrolio dai suoi oleodotti – le loro fonti d’acqua e avergli per questo reso la sopravvivenza piuttosto complicata.

La lotta ha unito gli agricoltori della zona di Ogale (che conta 40mila abitanti), situata sul delta del Niger e della zona di Bille, abitata perlopiù da pescatori (per un totale di circa 13mila individui), accomunati da un’unica grande richiesta: che Shell ripulisca i territori dall’inquinamento e risarcisca i cittadini per avergli distrutto ogni mezzo di sussistenza. A causa delle continue fuoriuscite di petrolio, infatti, le comunità non possono più né coltivare né pescare. Il torrente che attraversa Ogale, la principale fonte di acqua per la comunità, utilizzata per l’agricoltura e l’acqua potabile, è stato contaminato dal petrolio – gli abitanti dicono che l’acqua che fuoriesce dai rubinetti è visibilmente marrone. L’inquinamento ha ucciso i pesci e rovinato i terreni agricoli. A Bille, le fuoriuscite di petrolio hanno contaminato tutti i fiumi attorno alla zona. Le persone dicono di sentirne l’odore del greggio persino nelle proprie case. I pescatori sono disperati: pesci e i molluschi sono morti, così come le mangrovie dentro alle quali si riparavano.

Evidenze per Shell non abbastanza forti: la multinazionale, che ha dichiarato profitti per oltre 30 miliardi di dollari per primi tre trimestri del 2022, sostiene che i cittadini non siano legalmente autorizzati a costringerla a ripulire, soprattutto per sversamenti avvenuti cinque anni prima. La società, tra l’altro, ha ribadito che la colpa delle fuoriuscite non è sua, ma delle bande criminali che hanno attaccato gli oleodotti. E che nel caso, le accuse andrebbero rivolte alla sua “sussidiaria nigeriana”, la Shell Petroleum Development Company of Nigeria (SPDC).

«In un momento in cui il mondo è concentrato sulla transizione green, ciò solleva profondi interrogativi sulla responsabilità delle aziende di combustibili fossili sull’inquinamento ambientale attuale e futuro», ha detto Daniel Leader, legale delle comunità. Infatti, anche se Shell sta per lasciare il delta del Niger dopo oltre 80 anni di operazioni sulle sue sponde, l’entità delle fuoriuscite è stata così imponente da avere una grossa influenza sulla salute e mortalità della popolazione locale. A tal proposito, un rapporto dell’Università San Gallo, in Svizzera, ha rilevato che i bambini nel delta del Niger hanno il doppio delle probabilità di morire durante il primo mese di vita se le madri hanno vissuto o vivono vicino a una fuoriuscita di petrolio – pare che ci siano circa 11.000 morti premature all’anno in zona.

D’altronde Shell opera in Nigeria da 86 anni, terreno da cui l’azienda ha ricavato la maggior parte dei suoi profitti. Periodo in cui la multinazionale è finita nei guai diverse volte, sempre per gli stessi motivi. Se ne parla praticamente dalle sue prime estrazioni di petrolio sul territorio, quando i problemi legati alla scarsa sicurezza degli oleodotti e ai mancati controlli periodici erano già piuttosto evidenti. Basti pensare che solo nel periodo compreso tra il 2020 e il 2021, la National Oil Spill Detection and Response Agency (NOSDRA) della Nigeria ha registrato sul suo territorio 822 fuoriuscite di petrolio, per un totale di 28.003 barili riversati nell’ambiente. Fra gli episodi più gravi che hanno visto protagonista Shell, se ne ricordano in particolare due: quello del febbraio 2003, quando ci fu un’esplosione nel giacimento petrolifero abbandonato a Yorla, che provocò una grave fuoriuscita di petrolio e quello dell’agosto del 2008, quando un guasto all’oleodotto Trans-Niger riversò sulla comunità di Bodo 4.000 barili di greggio. In realtà di incidenti di questo tipo, negli anni, ce ne sono stati moltissimi, ma l’espansione di Shell in Nigeria non si è mai realmente fermata: ad oggi, come riporta Altreconomia, la multinazionale conta 50 pozzi, più di seimila chilometri di oleodotti e gasdotti e ricavi totali derivati dall’estrazione (nel 2019) pari a circa 4,5 miliardi di dollari.

In merito alla questione più recente, Shell ha detto al Guardian di aver già svolto lavori di pulizia e bonifica delle aree colpite e che sta lavorando con le autorità nigeriane competenti per prevenire sabotaggi e furti di petrolio. Una cantilena che ascoltiamo da più di 80 anni. [di Gloria Ferrari]

Decarbonizzazione: «Auto e navi, la svolta è il metanolo verde». Massari: si ricava dai rifiuti e non richiede di stravolgere il mezzo. LEONARDO PETROCELLI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 febbraio 2023.

 «Decarbonizzare sembra facile ma è la cosa più difficile del mondo perché si tratta di cambiare l’economia e la società». Ma una soluzione c’è e anzi ce ne sono due, complementari e per nulla in conflitto fra loro: «Il metanolo e l’idrogeno».

Ecco l’alfa e l’omega della lunga analisi che Saverio Massari - ingegnere, tra i fondatori di Tecnopolis e consulente di numerose aziende della filiera delle rinnovabili e dell’idrogeno - offre alla «Gazzetta» ragionando sulla sfida dell’energia.

Massari, da dove cominciamo?

«Direi dall’idrogeno sul quale si pone una grande enfasi».

È mal riposta?

«Nel lungo periodo direi certamente di no. Il problema, però, è che si tratta di una strada poco agevole che contiene anche qualche rischio e potrebbe scoraggiare famiglie e imprese».

Facciamo un esempio pratico?

«Le auto. Per far funzionare un’auto a idrogeno serve una fuel cell, una cella combustibile, che trasformi l’idrogeno in elettricità. Quella delle astronavi per intenderci».

E qual è il problema?

«Il problema è che si tratta di un intervento notevole sulla vettura e ci vuole un comparto industriale che produca milione di celle. Si farà, ma non ora. L’idrogeno poi è comunque un gas, difficile da gestire, da conservare e da trasportare. Ci sono dei rischi e se parliamo dei motori delle navi, ad esempio, ecco che la difficoltà si moltiplica esponenzialmente».

Quindi? Rinunciamo?

«No, ma nel frattempo esiste una alternativa molto pratica: il metanolo verde».

Che vantaggio ha rispetto all’idrogeno?

«Il metanolo non è un gas, è liquido. E non ci sono problemi di trasporto e conservazione. Può viaggiare come la benzina ed essere erogato da una pompa. E soprattutto non serve la cell fuel. Le modifiche da apportare ai motori delle macchine sono assenti o davvero minime»...

«I RIGASSIFICATORI DEL SUD OSTEGGIATI DALLA SNAM». MICHELE INSERRA su Il Quotidiano del Sud il 10 Settembre 2023

La Snam osteggia i rigassificatori al Sud. Occhiuto: «Gioia Tauro va autorizzata con chiarezza nel piano per una capacità di 16 miliardi di metri cubi all’anno, e non solo per 4 miliardi. Intervenga la presidente Meloni anche per Porto Empedocle»

“Sembra che il rigassificatore di Gioia Tauro sia osteggiato da Snam per una strozzatura a Sulmona che il governo ha già risolto. È un ostruzionismo insensato. Di una opera così importante e strategica per il Mezzogiorno mi piacerebbe se ne occupasse direttamente il presidente del consiglio Giorgia Meloni”. La reazione del governatore della Calabria, Roberto Occhiuto, è ferma e decisa. Accoglie l’appello del direttore di questo giornale, Roberto Napoletano, a prendere “posizione con atti formali dei presidenti di Regione della Sicilia e della Calabria” e a intraprendere “un’azione risolutiva di chi guida il governo revocando mandato, deleghe e fiducia al ministro con effetto immediato”.

“In 424 pagine, come ci rivela da par suo Jacopo Giliberto, pubblicando in esclusiva ampi stralci del documento – ha scritto Napoletano nel suo editoriale – il piano colloca nel limbo dei mai nati i progetti già autorizzati e pronti a essere costruiti di San Ferdinando nel golfo di Gioia Tauro (Sorgenia con Iren) e di Porto Empedocle vicino ad Agrigento (Enel). Tutto questo avviene nonostante il ministro Fitto abbia dovuto letteralmente imporre alla Snam di costruire il gasdotto Sulmona-Nord che permette di collegare Gioia Tauro e Porto Empedocle con la dorsale produttiva del Nord italiano e, a seguire, della Baviera e del Nord produttivo europeo”. Pichetto, infatti, scrive testualmente che “si valuteranno ulteriori iniziative per la realizzazione di nuovi terminali di rigassificazione da localizzare nel sud Italia (tra cui Gioia Tauro e Porto Empedocle) e in Sardegna”.

Tutto ciò ha dell’incredibile, come rimarca lo stesso Occhiuto. “Nel piano di Pichetto, nella parte riguardante le opere nel Mezzogiorno, il ministro prevede solo la possibilità e non certo la necessità dell’investimento per Gioia Tauro. Questa cosa non va per niente bene. Così come anche per Porto Empedocle – ha sottolineato il governatore calabrese -. Il Mediterraneo sta diventando sempre più importante nell’economia europea. E il Sud gioca un ruolo fondamentale in questa partita”.

Tutto è pronto in Calabria, ma si percepisce una sorta di ostruzionismo che penalizza ancora il Sud. “Il rigassificatore va autorizzato chiaramente nel piano per una capacità di 16 miliardi di metri cubi all’anno. E non per come sento dire da diverse parti per 4 miliardi di metri cubi – spiega Occhiuto -. È una cosa ridicola per il più grande scalo italiano. Questo tipo di capacità è per rigassificatori di piccole dimensioni”.

Stando così le cose la grande occasione del piano Mattei rischia seriamente di essere sprecata. “Se come dice il premier Meloni il Sud deve essere l’hub energetico dell’Europa il Mezzogiorno non può essere escluso o ridimensionato rispetto a opere così rilevanti – rimarca Occhiuto -. Questo hub logistico rappresenta un punto di forza per chi vuole insediare delle attività. Perché siamo adiacenti ad un porto estremamente importante. Ma se poi questi punti di forza non li concretizziamo attraverso iniziative di attrazione di investimenti, il porto di Gioia Tauro continuerà ad essere il primo porto d’Italia, ma solo per il transhipment. Per Gioia Tauro ci sono tutte le autorizzazioni valide. E i contatti per la costruzione con Sorgenia, uno dei soci di Lng Medgas Terminal insieme a Iren”.

Non è di certo una questione di banale campanilismo. Con il Mezzogiorno spicca il volo un intero Paese. “Il rigassificatore di Gioia Tauro aumenterebbe enormemente il potere negoziale dell’Italia – spiega il governatore della Calabria -. Il Governo nazionale dovrebbe volere il rigassificatore anche perché potrebbe produrre la metà del gas che prima importavamo dalla Russia. E se noi avessimo questa grande infrastruttura, il tetto al prezzo del gas potremmo farlo noi trattando con i Paesi dai quali esportiamo questa preziosa materia prima. Per esempio potremmo pretendere dall’Algeria, nostro fornitore di gas, un prezzo inferiore, visto che nel giro di qualche anno potremmo avere una nostra autonomia energetica. Passa anche da qui lo sviluppo della Calabria e del Mezzogiorno”.

Le opportunità da cogliere al volo sarebbero davvero tante. “Connessa al processo di rigassificazione ci sarebbe un’enorme piastra del freddo nella quale si potrebbe creare un grande hub dell’agroindustria per congelare i prodotti alimentari della Calabria, della Sicilia e della Campania. Avremmo così anche il più importante distretto agroalimentare della macroregione del Mediterraneo” chiarisce il governatore. Il Sud chiama, Meloni rispondi?

Un rapporto demolisce il mito delle centrali a gas sicure per la salute e l’ambiente. Simone Valeri su L'Indipendente il 30 Gennaio 2023

A differenza di quanto una certa narrazione politica voglia far credere, anche le centrali a gas hanno un impatto sulla salute pubblica, e questo è tutt’altro che trascurabile. In particolare, a livello europeo, i costi sanitari legati alla produzione di energia da gas fossile sono stati, per il solo 2019, pari ad 8,7 miliardi di euro. L’Italia, per quanto riguarda gli effetti sulla salute delle centrali a gas, con costi sanitari che arrivano fino a 2,17 miliardi di euro, è prima in Europa. Seguono Germania (1,74 miliardi), Regno Unito (1,14), Francia (850mila euro), Paesi Bassi (430mila) e Spagna (410mila). Ad affermarlo, il rapporto “Una falsa soluzione: gli effetti nascosti sulla salute della dipendenza dai gas fossili in Europa” redatto da Fondazione Heal, Isde, l’Associazione medici per l’ambiente e ReCommon. Il documento, che analizza le conseguenze dirette sulla salute dell’inquinamento dell’aria per la combustione dei gas, ha evidenziato inoltre quanto i decessi prematuri da inquinamento correlato alla combustione di gas ammontino, in un solo anno, a oltre 2.800 nei 27 Paesi dell’Unione Europea.

Più nel dettaglio – secondo il rapporto – sono state 2.864 le vittime da inquinamento atmosferico da particolato ultra-fine (PM 2,5), biossido di azoto (NO2) e ozono, cui si sommano più di 15 mila casi di problemi respiratori, oltre 4.100 ricoveri ospedalieri e più di 5 milioni di giorni lavorativi persi per malattia. Ciononostante, nel 2021, il gas fossile ha rappresentato il 18% del mix energetico dell’UE, per un totale di ben 834 impianti.  Germania, Italia, Francia, Spagna e Paesi Bassi, sono i cinque paesi con il maggior numero di centrali a gas, i quali, insieme al Regno Unito, risultano responsabili del 75% di tutte le emissioni di polveri sottili derivanti dalla combustione di gas fossile in Europa. Questo vale anche per gli altri inquinanti atmosferici, con l’Italia, nello specifico, prima in Europa per tonnellate di anidride solforosa emesse da impianti a gas. Nel Vecchio Continente, il Belpaese è poi secondo per quantità rilasciate di ossidi di azoto, ammoniaca e composti organici volatili non metanici. Nel nostro Paese, il “responsabile” ha poi un nome: Enipower – del gruppo ENI, controllata per il 30% dallo Stato – il principale inquinatore che brucia gas fossile. Le centrali del Cane a Sei Zampe emettono, infatti, il 20% delle emissioni di ossidi di azoto di tutto il parco elettrico a gas italiano.

«Gli effetti sulla salute e i costi derivanti dalla combustione di gas fossili sono stati enormemente sottostimati nei dibattiti pubblici e politici, ma non possono più essere ignorati», ha commentato Vlatka Matkovic, responsabile della Fondazione Heal, sottolineando poi quanto le centrali elettriche si trovino spesso in aree densamente popolate, nelle quali una moltitudine di persone viene già minacciata dagli effetti dell’inquinamento dell’aria. Eppure, al fine di contrastare la crisi energetica in atto, la Commissione europea non si è fatta scrupoli a dare il via, con il pacchetto REPowerEU, a nuove e numerose infrastrutture per l’espansione del mercato del gas. Con lo Stivale, determinato a divenire l’HUB gasiero d’Europa, in prima linea in questa fase di crescita. In tutto ciò, va poi detto che la saluta pubblica non è l’unica ad essere stata ignorata: tale aumento senza precedenti nella produzione di gas allontana infatti l’Europa anche da tutti gli obiettivi climatici. Ma la politica continua a comportarsi come se tale fonte fosse sicura e pulita. Anzi, a dirla tutta il gas non andrebbe considerato nemmeno ‘fonte energetica di transizione’, dato che non rispetta nessuno dei requisiti previsti dalla stessa tassonomia verde in cui l’UE ha deciso di includerlo: non avere alternative fattibili dal punto di vista tecnologico o economico, non rallentare lo sviluppo di altre fonti pulite e non vincolare il sistema energetico a certi livelli di emissioni. [di Simone Valeri]

Oltre la CO2. Tecnologia e scienza al servizio dell’alimentazione globale. Chiara Buzzi su L’Inkiesta il 2 Marzo 2023

Anche le buone pratiche della filiera zootecnica contribuiscono alla riduzione delle emissioni e ci permettono di avere un domani migliore

Ogni gesto umano, dai comportamenti più semplici legati ai nostri stili di consumo fino alla produzione di beni e servizi, comporta l’emissione di CO2 o altri gas a effetto serra (GHG).

Anche l’attività primaria della produzione di alimenti implica evidentemente una quota di emissioni. Secondo la FAO, visto in traiettoria storica, il contributo alle emissioni globali di gas a effetto serra di origine antropica derivante dai sistemi agro-alimentari negli ultimi 20 anni è calato, passando dal 38% del 2000 al 31% del 2020. In realtà, a livello globale tutte le emissioni procapite legate ai sistemi alimentari sono diminuite di quasi un terzo rispetto ai livelli registrati nel 2000, fino a raggiungere il volume di 2 tonnellate di CO2 equivalente.

Si tratta di una diminuzione valida sia in termini assoluti, grazie allo sforzo dell’industria alimentare di ridurre a tutti i livelli i propri impatti e consumi, sia relativi, considerando il costante incremento della popolazione mondiale che è passata da 6,1 miliardi nel 2000 a 7,8 nel 2020: ciò significa che il comparto alimentare è riuscito a sfamare 1,7 miliardi di persone in più in 20 anni, riducendo allo stesso tempo gli impatti. Il settore agroalimentare, poi è l’unico che ha mostrato una costante riduzione delle emissioni pro-capite se confrontato con la crescita esponenziale delle emissioni GHG provenienti dalle altre principali attività antropiche dipendenti dai combustibili fossili, come l’industria manifatturiera – chimica in particolare -, il settore residenziale, la produzione di energia elettrica e i trasporti.

Rispetto al 31% sopracitato, le filiere zootecniche nel suo complesso (bovini, suini, avicoli e ovi-caprini) sono considerate responsabili del 14,5% delle emissioni globali di gas serra derivate da attività antropiche. Però, grazie alla particolare efficienza dei sistemi zootecnici adottati nell’Unione Europea, in quest’area geografica questa percentuale si dimezza rispetto alla media globale ed è pari a circa il 7%, ed è ancora più efficiente in Italia dove, secondo i più recenti dati Ispra, si attestano intorno al 5,6%.

Quasi la metà di queste emissioni è costituita da gas metano, derivato soprattutto dalla fermentazione enterica dei ruminanti. Impatti che possono essere mitigati dal miglioramento delle pratiche zootecniche e agricole. I sistemi zootecnici avanzati sono in grado di avere un ruolo attivo e positivo nella riduzione di CO2 in atmosfera, combinando efficienza produttiva e benessere animale. Le aree che presentano i più promettenti margini di miglioramento sono il sequestro di carbonio (il cosiddetto “carbon farming”), l’agricoltura rigenerativa, l’utilizzo, ad esempio per i ruminanti, di additivi alimentari come tannini, blioflovanoidi e alghe per ridurre le emissioni, la produzione di biogas e biometano da biomasse agricole e industriali.

L’efficienza produttiva è la principale leva disponibile per mitigare gli impatti. Lo dimostrano anche i risultati del progetto Life Beef Carbon, coordinato per l’Italia dal centro di Zootecnia e Acquacoltura dell’Istituto CREA. Un progetto finalizzato alla formulazione di azioni per la riduzione dell’impronta di carbonio degli allevamenti da carne in Francia, Irlanda, Italia e Spagna durato 6 anni (gennaio 2016-dicembre 2021), il quale ha registrato risultati significativi circa la riduzione della carbon footprint (impronta di carbonio) della carne prodotta evidenziando il ruolo chiave svolto dal miglioramento delle prestazioni produttive nel ridurre l’intensità di emissione.

Le misure rivelatesi più efficaci in ambito di mitigazione sono state ad esempio il miglioramento della razione alimentare dell’animale, l’uso delle deiezioni zootecniche per produrre energia rinnovabile, la gestione dei reflui zootecnici per la fertilizzazione di campi. In Italia, ad esempio, è stato possibile ridurre nei primi 3 anni le emissioni mediamente del 10%, con picchi del 15% quando più strategie di mitigazione sono state adottate simultaneamente.

La stravagante idea olandese per ridurre l'inquinamento dovuto alle mucche. Il Tempo l’01 marzo 2023

Nella lotta all’inquinamento arriva una nuova idea, visto che ogni strumento vale. Dai Paesi Bassi, primatista dell’Unione europea dell’agricoltura intensiva, arrivano i bagni per le mucche, utili a ridurre le emissioni di azoto che inquinano il suolo, i corsi d’acqua e l’aria. A documentare questa insolita invenzione, già definita da alcuni una rivoluzione, è un reportage del programma «Envoyè Spècial» di France Tèlèvisions, intitolato «Olanda, morte alle mucche?», che sarà diffuso domani. Dopo l’ordine arrivato dalla Corte Suprema di ridurre le emissioni di ossido di azoto del 50% entro il 2030, il governo ha annunciato l’intenzione di ridurre di un terzo il bestiame, tanto da modificare profondamente i paesaggi olandesi. 

Campione dell’allevamento intensivo, il Paese nordico è il principale esportatore di carne nell’Ue e un territorio grande come la Normandia concentra tanti animali da fattoria quanto l’intera Francia. I suoli e i corsi d’acqua sono pieni di azoto proveniente da fertilizzanti e rifiuti animali. Per alcuni operatori la soluzione potrebbe venire da un’importante innovazione tecnologica.

In «Envoyè Spècial», Willem, un agricoltore olandese, mostra un processo sorprendente, un sistema ancora sperimentale che gli ha permesso di dimezzare le sue emissioni di azoto. Nella sua stalla, che ospita una cinquantina di bovini, ci sono da un anno i bagni per le mucche. Il loro designer, Henk Hanskamp, effettua regolarmente visite per assicurarsi che la sua invenzione funzioni bene. La missione era ardua: come far andare una mucca in bagno? Attratto dai granuli, l’animale entra in un ingegnoso congegno che lo fa urinare in un recipiente, quindi aspira il liquido in un serbatoio. Anche se le mucche non le usano ogni volta, il 50% della loro urina verrebbe raccolto grazie a queste toilette. Impedendo che si mescoli con lo sterco e che evapori nell’aria, ridurrebbe della metà le emissioni di azoto. L’urina può inoltre essere riciclata per fungere da fertilizzante naturale: per evitare ogni rischio di evaporazione, il liquido viene iniettato nei campi profondi una decina di centimetri. Un'invenzione stravagante ma utile per l'ambiente.

L’Africa diffida dei nostri ambientalisti. Ecco perché. Storia di Federico Rampini su Il Corriere della Sera domenica 16 luglio 2023.

Diario di viaggio nell’epicentro mondiale dei blackout È sera. Sono arrivato da pochi minuti al ristorante di Città del Capo dove mi attende il primo degli interlocutori che devo intervistare. La luce si spegne, la sala piomba nell’oscurità. Più tardi, sono appena entrato nella mia camera d’albergo a Johannesburg e accade la stessa cosa: buio totale. Mi preoccupo di più quando a spegnersi di colpo sono i semafori e ogni illuminazione stradale, e un incrocio della maggiore metropoli si trasforma in un complicato balletto di auto in cerca di una via di fuga. Ma questi disagi sono davvero poca cosa, in confronto a quel che soffre la maggior parte della popolazione. In albergo o al ristorante, almeno nei luoghi che frequento io – perché li frequenta la nomenclatura Black che dirige il paese – di solito l’oscurità dura poco. Scatta il piano B, subentrano i generatori autonomi, i gruppi elettrogeni alimentati a diesel. La luce torna. Ad alto prezzo, sia chiaro. Per ogni operatore economico sudafricano che deve fornirsi di un generatore autonomo i costi salgono, far quadrare i conti diventa più difficile. Per non parlare della competitività nazionale: in un mondo dove altri Paesi hanno un’energia regolare e affidabile, chi non ce l’ha retrocede. In quanto alle conseguenze per l’ambiente: i motori diesel dei generatori privati che bruciano gasolio sono molto inquinanti.

La vita nelle baraccopoli quando va via la luce Sta ben peggio la maggioranza della popolazione, chi non ha i mezzi per pagarsi il piano B cioè i generatori privati di elettricità. La paura che ho avuto io quando il buio è piombato sull’ingorgo stradale notturno, immaginiamola moltiplicata per cento se abiti in una township dove spadroneggiano le gang. L’illuminazione pubblica funzionante è uno dei primi ingredienti per la prevenzione della violenza, o quantomeno per cercare di difendersi dalle aggressioni: in Sudafrica è un bene raro. Un altro danno quando manca la luce lo subiscono tutti i ragazzi e le ragazze: come li fai i compiti a casa, quando studi sui libri di testo, se dopo il tramonto ti trovi nell’oscurità? Le soluzioni fai-da-te nel mondo dei poveri non esistono. Nelle baraccopoli è normale “rubare” la corrente elettrica allacciandosi abusivamente alla rete, me se la utility nazionale si spegne, tutto si spegne. I pannelli solari – per chi ce li ha – danno un aiuto solo quando c’è il sole, dopo il tramonto sono inutili. Data la povertà del sistema sanitario pubblico, un blackout può spegnere le luci persino nelle sale operatorie di alcuni reparti ospedalieri, dove si combatte per salvare delle vite umane. Questa è la routine, la normalità quotidiana in Sudafrica.

Perché l’India è un caso diverso Conosco bene, per averlo frequentato a lungo, un altro paese dove i blackout elettrici colpiscono con spietata frequenza: è l’India. Anche in India esistono due nazioni. I ricchi abitano in un mondo protetto dai generatori autonomi, i gruppi elettrogeni che scattano appena manca la corrente dalla rete principale. Gli altri devono subire lunghe interruzioni dell’energia. C’è però una differenza fondamentale. L’India ha un sistema energetico che rincorre la crescita parallela della popolazione più numerosa del pianeta (nel 2023 ha sorpassato la Cina, sfiora il miliardo e mezzo di abitanti) e dell’economia (nel 2023 il Pil indiano è cresciuto più di quello cinese). Il boom dei consumi energetici indiani non è stato compensato, finora, da un adeguato potenziamento nella capacità di generare energia. E comunque l’India partiva con un settore energetico arretrato. La carenza di elettricità è un handicap anche per l’India, però ha delle spiegazioni almeno in parte rassicuranti, legate alla difficoltà di star dietro al pachiderma che corre. La crisi elettrica sudafricana non ha quelle attenuanti. Il Sudafrica trent’anni fa aveva un’industria energetica moderna, tanto da esportare corrente nei Paesi vicini. Ai tempi di Nelson Mandela (foto) la utility Eskom era un fiore all’occhiello. Dopo di allora il Sudafrica non ha avuto un boom economico neppure lontanamente paragonabile a quello indiano. Il collasso della utility non è causato da una forsennata crescita dei consumi; all’apparenza è inspiegabile. Appena scavi trovi delle cause turpi. E’ anche un’opportunità per esaminare delle sfide planetarie – cambiamento climatico, transizione energetica – nell’ottica di una nazione rappresentativa del Grande Sud globale.

Cosa significa load-shedding? Alle prese con gli oscuramenti quotidiani, durante il mio viaggio in Sudafrica, devo imparare ad aggiornare il mio linguaggio. Mi verrebbe spontaneo dire blackout, invece qui non si usa quel termine. Per pudore o per orgoglio è d’obbligo usare un neologismo locale, load-shedding. Letteralmente, “perdita di carico”. L’espressione load-shedding è familiare agli ingegneri, si può spiegare così: «È un modo per distribuire la domanda di corrente elettrica, per alleviare la pressione sulla fonte primaria dell’energia, quando la domanda è superiore all’offerta». In parole povere è un razionamento pianificato, gestito a livello centrale dalla stessa utility, onde evitare che i blackout siano improvvisi e selvaggi. Sempre blackout sono. Però programmati, previsti in anticipo, tant’è che la maggior parte dei sudafricani hanno sul proprio telefonino l’apposita app che gli annuncia per ogni giorno della settimana a che ora e per quanto tempo mancherà la corrente nel loro quartiere. Consolazioni della modernità: ti viene negato un servizio pubblico essenziale, però grazie al cellulare puoi a tua volta pianificare le tue giornate per ridurre i danni, concentrare le tue attività nei momenti del giorno in cui la corrente arriva.

Le cifre di un tracollo Il disastro di Eskom, quella utility che un tempo fu un’eccellenza dell’economia sudafricana, si può riassumere in qualche numero. Nel corso dell’intero 2022 le interruzioni di corrente hanno toccato delle punte di otto ore al giorno. La causa? Se fotografiamo la situazione nell’arco di un giorno, prendiamo per esempio la data del primo ottobre 2022, vediamo che nel corso di quelle 24 ore la nazione (famiglie, imprese, Stato) avrebbe avuto bisogno di consumare 30.000 megawatt di corrente; invece Eskom è stata in grado di erogarne solo 25.000 megawatt. Un deficit in apparenza incomprensibile, perché sulla carta la totalità delle centrali di Eskom possono generare 50.000 megawatt al giorno. Come si spiega che la produzione reale sia solo la metà di quella teorica? Con almeno tre fattori. Il primo fattore è un pessimo management dominato dai politici, che ha accumulato anni di incuria, in particolare carenze di manutenzione, per cui le centrali hanno una capacità teorica ma non la raggiungono più perché sono in pessimo stato. Il secondo fattore sono furti sistematici a danno di Esko, a tutti i livelli: dai grandissimi ladri a un esercito di piccoli abusivi. La terza causa è una montagna di debiti, pari a 22 miliardi di euro, che è il risultato dei due mali precedenti, e a sua volta impedisce di rilanciare gli investimenti.

La “mafia elettrica” e un caffè avvelenato per il chief executive Un economista esperto di questo settore, David Richard Walwyn, docente di Technology Management alla University of Pretoria, è ancora più duro nella sua diagnosi. Ascoltarlo fa venire i brividi:«Eskom ha perso il controllo delle sue centrali. Gli impianti sono finiti in mano a elementi criminali in cerca di rendite. Questi provocano guasti, compiono atti di sabotaggio, per lucrare sui lavori di manutenzione. Sono all’ordine del giorno i cavi tranciati, i furti di carbone e gasolio, le minacce di morte contro gli ingegneri che dirigono le centrali. La mafia dell’energia è impunita». Quando il governo di Cyril Ramaphosa nel gennaio 2020 incaricò un manager stimato di risanare l’azienda, André de Ruyter, questo dirigente si mise al lavoro. Dichiarò guerra alle varie mafie che avevano spolpato Eskom. Seguirono diversi attentati per eliminarlo fisicamente (incluso il classico caffè avvelenato). Alla vigilia del Natale 2022 il “risanatore” gettava la spugna. Preferendo salvare la pelle, si è dimesso. La sua faccia l’ho vista sulla copertina di un libro di memorie e di denuncia, best-seller immediato, in bella mostra nelle vetrine di tutte le librerie.

«L’Occidente vuole de-carbonizzarci... ma ci compra il nostro carbone!» «Il load-shedding è uno dei fallimenti dello Stato – mi dice David Makhura, l’ex governatore del Gauteng (la provincia di Johannesburg) che oggi dirige la scuola formazione quadri dell’Anc, ed è il tessitore delle future coalizioni di governo – perché trent’anni fa quando andammo al potere abbiamo lanciato l’elettrificazione di tutti i villaggi, ma non abbiamo investito nel futuro del paese, non abbiamo costruito nuova capacità di produzione. La crisi elettrica è uno dei macroscopici insuccessi del mio partito. Ci siamo preoccupati solo dell’equità, cioè di dare a tutti l’accesso alla rete, come se fosse irrilevante produrla a monte, l’elettricità. Non abbiamo visto arrivare la grande urbanizzazione che ha ingigantito i consumi nelle città e nelle loro periferie». Dopo questa sincera autocritica, il leader politico si lancia in un’arringa contro il nostro ambientalismo. «Non possiamo pensare il futuro solo in termini di fonti rinnovabili. Voi venite a dirci: puntate tutto sulle energie pulite. E’ impossibile. Significa andare al collasso finale del nostro sistema. L’Occidente non può metterci di fronte a questo tipo di diktat: elettricità pulita o niente». Molti dirigenti sudafricani che ascolto nel corso del mio viaggio sono esasperati dalle incoerenze di paesi molto più ricchi del loro, che predicano l’ambientalismo senza praticarlo. Qui ha fatto scalpore il dietrofront della Svezia nel 2023: il governo di Stoccolma ha dichiarato che un sistema energetico basato al 100% sulle rinnovabili non è realistico. La Germania, dove i Verdi sono al governo, quando è scoppiata la guerra in Ucraina e sono state varate le sanzioni contro la Russia, ha ricominciato a comprare carbone per le sue centrali… proprio qui in Sudafrica. Il capo del più grande fondo d’investimento americano (BlackRock), Larry Fink, dopo essere stato per anni il guru della “finanza sostenibile” Esg a Wall Street, di colpo ha ammesso: «Quello che avevo detto contro il carbone era sbagliato. Disinvestire dalle energie fossili è un errore». Però molti altri continuano a consigliare svolte radicali ai paesi emergenti, come se il solare e l’eolico potessero bastare… a loro.

In Africa piace il pragmatismo cinese sul clima «La Cina e la Russia fanno cose concrete per noi, sono pronte a costruirci centrali elettriche tradizionali o nucleari. L’America di Joe Biden ci sommerge delle sue prediche». Il leader nero Makhura parla a nome del suo paese e di molti altri Stati africani quando mi dice: «Noi non siamo negazionisti, né scettici, sul cambiamento climatico. E’ reale, i disastri li vediamo in casa nostra. Quando c’è un nubifragio a Johannesburg, i primi quartieri a essere sommersi sono le township dei poveri. Ma abbiamo un’abbondanza di carbone nelle nostre miniere e per un periodo di tempo consistente dovremo usarlo. E’ la risorsa più abbondante e meno cara. Se vogliamo uscire dal tunnel dei load-shedding, se vogliamo salvare il nostro popolo dalle interruzioni continue nella corrente, dobbiamo aumentare la nostra capacità il più presto possibile e usando le risorse disponibili. La transizione verso un’economia de-carbonizzata non può passare attraverso un lungo periodo di privazioni e di miseria ancora peggiori della nostra situazione attuale». Anche sul tema del cambiamento climatico, purtroppo, per il Sudafrica il modello non siamo noi, è Pechino. «I cinesi – dice Makhura – investono nelle energie rinnovabili in base ai loro tempi e alla loro agenda di priorità. I cinesi sono pragmatici. Non ci fanno discorsi stupidi sulla necessità di fare immediatamente scelte drastiche, non ci esortano a ripudiare di colpo l’energia meno costosa. I cinesi sono diventati leader mondiali nelle energie rinnovabili, ma continuano ad aprire anche nuove centrali a carbone, proprio ora, mentre noi due stiamo parlando. Le nostre luci devono essere accese. Non chiedete proprio a noi di incamminarci verso una transizione al buio, verso un vostro astratto ideale».

Il 2022 si chiude con un consumo globale di carbone da record. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 29 Dicembre 2022

Nel 2022 il consumo globale di carbone è aumentato dell’1,2%, superando per la prima volta – e in un anno solo – quota 8 miliardi di tonnellate, battendo così il precedente record del 2013. È quanto si legge fra le righe di “Coal 2022”, il nuovo rapporto dell’agenzia internazionale dell’energia (IEA), secondo cui tali ritmi rimarranno piuttosto invariati nei prossimi anni – almeno fino al 2025 – se non ci saranno maggiori sforzi per accelerare la transizione verso la produzione e l’utilizzo di energia pulita.

In effetti ad oggi, mentre là fuori si combatte una guerra che coinvolge anche il settore energetico, è difficile immaginare un futuro prossimo diverso da questo. Negli ultimi mesi è bastato l’aumento del prezzo del gas – oltre alle condizioni meteorologiche sfavorevoli e alla scarsa produzione di energia nucleare – per farci tornare piuttosto in fretta a considerare il carbone come punto di riferimento energetico (anche se il rallentamento della crescita economica ha contemporaneamente ridotto la domanda di elettricità). È successo nel Regno Unito, il cui Governo ha approvato il progetto di una nuova miniera di carbone a Whitehaven, nel nord est dell’Inghilterra, a trent’anni dall’ultima apertura registratasi nel Paese. L’impianto servirà a estrarre coke – un combustibile a base di carbone – per la produzione di ferro e acciaio. Guardando ai dati però al momento è la Cina il più grande consumatore di carbone al mondo: nel 2021 gli è appartenuto il 53% della domanda globale. All’India invece il 13%, mentre l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno rappresentato ciascuno circa il 6%.

Secondo Keisuke Sadamori, direttore dei mercati energetici e della sicurezza dell’AIE, «la domanda di carbone così alta farà schizzare alle stelle le emissioni globali». Tuttavia «ci sono molti segnali che la crisi odierna sta accelerando la diffusione delle energie rinnovabili e dell’efficienza energetica. Sarà questo che ci aiuterà a invertire la rotta nei prossimi anni», con l’aiuto, ovviamente, delle politiche governative dei singoli stati. Motivo per cui, dopo il 2025, la domanda europea di carbone dovrebbe scendere al di sotto dei livelli del 2020. Infatti, nonostante per i produttori di carbone si prospettino margini di guadagno più alti, l’agenzia internazionale non ha rilevato un aumento degli investimenti in progetti finalizzati all’aumento della sua messa in commercio. Gli “scommettitori”, guardando al medio e lungo termine e alle “tendenze future”, non credono più nel rendimento economico del combustibile fossile.

Le previsioni indicano infatti che la domanda di carbone, nei prossimi anni, subirà un declino nelle economie più avanzate, sostituita da quella per le energie rinnovabili. È anche vero che le economie emergenti e in via di sviluppo – come quelle asiatiche – sono invece destinate ad aumentare l’uso di carbone – la più grande fonte di emissioni di anidride carbonica del sistema energetico globale- per far fronte alla loro crescita economica.

Rimane comunque un grosso punto interrogativo, alimentato dal modo in cui si è da poco conclusa la Ventisettesima Conferenza delle Parti sul Clima (COP27) di Sharm el-Sheikh. L’accordo raggiunto ha lasciato a bocca asciutta chi nel vertice riponeva delle speranze in fatto di lotta alla crisi climatica. Nel documento finale è stato mantenuto l’obiettivo previsto dall’Accordo di Parigi relativo al contenere il riscaldamento globale entro gli 1,5°C, ma solo a parole. Nessuna “uscita graduale dalle fonti fossili”, ma solo una richiesta agli Stati Membri di “aumentare rapidamente la diffusione della produzione di energia pulita e delle misure di efficienza energetica e di accelerare gli sforzi per la riduzione graduale del carbone e l’eliminazione graduale degli inefficienti sussidi ai combustibili fossili”. D’altronde c’era da aspettarselo, vista la corposa e aumentata partecipazione al Summit di delegati dell’una o l’altra industria fossile. Alla COP27 – secondo un’analisi resa nota dalla BBC e realizzata dall’organizzazione Global Witness – il numero di profili legati al settore degli idrocarburi è infatti persino aumentato del 25% rispetto alla COP precedente, e oltre 600 persone presenti ai negoziati sul clima in Egitto erano in qualche modo legate all’industria del petrolio e del gas. [di Gloria Ferrari]

La matematica del carbone. Giovanni Brussato su Panorama il 24 Gennaio 2023

La Germania torna al carbone in piena crisi climatica. Lo fa per superare l'emergenza energetica ma il conto, come spesso accade, lo pagherà qualcun altro...

Come si fa ad riaprire delle centrali elettriche alimentate a carbone se la legge sulla protezione del clima (in Germania) stabilisce che le emissioni di CO devono essere costantemente ridotte entro il 2030? La soluzione di questa equazione, assegnata al ministro dell'economia tedesco Habeck, analiticamente parlando, è l’insieme vuoto. Eppure il Vice-Cancelliere Habeck sostiene di averla risolta: cerchiamo di capire come. Trattandosi di un’equazione complessa, matematicamente parlando, si potrebbe trattarla come i numeri complessi che la compongono, che sono costituiti dalla somma di una parte reale ed una parte immaginaria.

La parte reale della soluzione di Habeck considera che la lignite è l'unica fonte di energia significativamente disponibile in Germania per una produzione affidabile di elettricità. Può coprire almeno un terzo della domanda di elettricità ed in gran parte indipendentemente da forniture estere, con ovvie ricadute sulla sicurezza energetica del paese. Ed in questo senso si comprende l’autorizzazione per l'ampliamento di un'enorme miniera di lignite, una delle più grandi d'Europa, gestita dalla compagnia energetica tedesca RWE nel Nord Reno-Westfalia. La parte immaginaria della soluzione contempla che, nell’accordo raggiunto dallo Stato federale del Nord RenoWestfalia e dal governo federale con la compagnia RWE, è anche previsto che l'eliminazione del carbone nel Nord Reno-Westfalia verrà anticipata dal 2038 a marzo 2030. La chiusura anticipata delle tre centrali elettriche a carbone RWE consentirebbe il risparmio delle emissioni generate dalla mancata estrazione di 280 milioni di tonnellate di lignite. Quello che nessuno è in grado di immaginare è se, negli anni a venire, si verranno a creare le condizioni affinché le centrali a carbone vengano effettivamente dismesse. Ogni volta che la Bundesnetzagentur (la Federal Network Agency) toglie dalla rete una centrale elettrica a carbone, la trasferisce alla riserva per poter tornare in funzione in caso di necessità. Tuttavia, questa doppia infrastruttura aumenta enormemente i prezzi dell'elettricità, perché le centrali elettriche di riserva hanno tutti i costi operativi, ma ovviamente bassi ricavi. Questi costi pesano sul prezzo dell'elettricità e sono i consumatori a pagarli. E’ questa una delle ragioni che rende il prezzo dell'elettricità in Germania tra i più alti al mondo.

Questa è l’amara eredità dell’ingenua politica energetica di Frau Merkel: è sempre stato chiaro che l'eliminazione parallela del carbone e dell'energia nucleare non sarebbe stata pienamente compensata dal risparmio energetico o dalle energie rinnovabili. Il bilanciamento attraverso l'idrogeno verde e soluzioni di stoccaggio, oggi, è una “realtà di carta” la cui disponibilità, su una scala industriale economicamente competitiva, è nel grembo di Giove. E la tecnologia “ponte” che avrebbe dovuto consentire di gestire alla Germania un periodo, indefinito, di transizione, è stata abbattuta dalle bombe di Vladimir Putin. L’eredità della Signora Merkel sono distese di inutili pale eoliche e mani e piedi legati al Cremlino mentre la patria dei Verdi scopre, ogni giorno che passa, di essere uno dei peggiori inquinatori del Vecchio Continente. Anche se, a dire il vero, già nel 2021, la maggior parte dell'elettricità immessa nella rete in Germania proveniva da fonti energetiche convenzionali. Le condizioni meteorologiche sfavorevoli hanno fatto sì che il carbone sostituisse l'energia eolica come fonte energetica più importante, come spiegato dall'Ufficio federale di statistica di Wiesbaden. La quota di elettricità generata con il carbone era salita al 30% rispetto al 24,8% dell'anno precedente e circa il 60% di quell’elettricità è stata prodotta con la lignite. Le turbine eoliche hanno prodotto meno elettricità (-3,7%) perché nella primavera del 2021 c'era meno vento rispetto all'anno precedente, nonostante dal 2020 al 2021 la potenza eolica installata in Germania eolica sia aumentata di 1460 megawatt (MW) con buona pace di tutti coloro che sostengono che la soluzione dei nostri problemi energetici passa dall’installare più rinnovabili.. Esistono però problemi che non sono discretizzabili con un’equazione, per quanto complessa, e quello del Partito dei Verdi tedesco si chiama Lützerath: un villaggio nei pressi della miniera di cui sopra, dove gli abitanti sono stati espropriati, e che ora deve essere abbattuto per fare spazio ai colossali escavatori della RWE. Ora capite bene che un ministro dei Verdi che ha autorizzato lo smantellamento di un villaggio per fare posto ad una miniera di carbone può dare luogo a quelli che qualcuno ha voluto benevolmente definire “vivaci dibattiti interni”. Le manifestazioni che si sono svolte a "Lützi" , come lo chiamano gli attivisti guidati da Greta Thunberg, hanno causato incidenti tra i manifestanti e la polizia che avrebbe anche usato i cannoni ad acqua per disperdere i facinorosi. Ma in tutta la Germania, negli ultimi giorni, hanno avuto luogo varie azioni di disobbedienza civile a sostegno del movimento che, in alcuni casi, come a Berlino, si sono spinte oltre con l’incendio dei cassonetti della spazzatura e l’imbrattamento delle facciate degli uffici del partito dei Verdi. Quello che si teme, tra i politici dei Verdi, che Lützerath possa portare a una rottura definitiva tra gli attivisti climatici ed il Partito dei Verdi tedesco, a sua volta nato dalla lotta contro l'energia nucleare: lo sfratto di Lützerath potrebbe rivelarsi un punto di svolta nella storia del partito. Ma dovrebbe essere altrettanto allarmante, per i Verdi, che una parte della vita culturale tedesca si opponga apertamente a loro. Tuttavia, se una protesta pacifica è legittima è anche imperativo che uno Stato costituzionale applichi le sue leggi: se RWE ha tutti i permessi necessari, firmati da due governi democraticamente eletti, a livello statale e federale, entrambi con partecipazione verde, il villaggio va demolito. Pacta sunt servanda. La Germania sta cercando di eliminare gradualmente l’estrazione di carbone importandolo da altri paesi ma a questo si è sommata la necessità di colmare il vuoto energetico lasciato dalla Russia. Secondo l'Ufficio federale di statistica, le importazioni tedesche di carbone sono aumentate di oltre due volte e mezzo da gennaio a settembre 2022 rispetto allo stesso periodo del 2021 e ammontano a circa 4,8 milioni di tonnellate. Ma questo non risolverà il problema delle emissioni di CO , che, tuttavia, potrebbero essere evitate attraverso l'uso della tecnologia di cattura e stoccaggio del carbonio, la tecnologia CCS, possibile su scala industriale che consente il confinamento geologico dell’anidride carbonica utilizzando i giacimenti già sfruttati di petrolio e di gas, le falde acquifere saline profonde o i depositi di carbone non coltivabili. Il problema è che il governo ha vietato anche la tecnologia CCS in Germania mentre, ad esempio, nei paesi scandinavi si affidano già a questa tecnologia su larga scala: in Norvegia e Svezia la CO viene iniettata in strati profondi e geologicamente adatti sotto il Mar Baltico. Ma come per l'eliminazione ideologica del nucleare, la Germania sta perdendo le opportunità offerte da nuove tecnologie. Le azioni dei politici tedeschi inducono a credere in Germania le leggi della fisica si manifestino in forme diverse rispetto al resto del mondo condannando il paese ad una progressiva deindustrializzazione. Quello che risulta evidente è la necessità di politiche per contrastare la crisi energetica e i suoi effetti sul sistema industriale e sulle famiglie. E qui viene la parte che più ci preoccupa della soluzione: secondo Bloomberg quest’anno la Germania si appresta a emettere un numero record di nuovi titoli di debito pubblico e a fare il deficit più alto degli ultimi decenni. Nel contempo Ursula von der Leyen ha dichiarato che l’Ue adatterà le regole sugli aiuti di Stato, fino ad oggi un tabù assoluto, per renderli più semplici e veloci e includendo “aiuti mirati per impianti e catene del valore strategiche”. Da ultimo la Presidente della Commissione prevede la creazione di “un fondo sovrano europeo... per aumentare le risorse disponibili per la ricerca, l'innovazione e i progetti industriali fondamentali per abbattere i gas serra”. Se è vero che tre indizi fanno una prova, indovinate chi pagherà la crisi energetica tedesca…

In Germania si usa il carbone. A partire da questa settimana per cercare di neutralizzare il blocco del gas russo. In Italia non si aumenta l'estrazione del gas (che c'è). Paolo Annoni su Italia Oggi l’11 ottobre 2022.

La Germania ha proclamato lo stato di emergenza sul gas dopo il calo delle forniture russe. Il ministro dell'Economia tedesco, Habeck, ha dichiarato che «non dobbiamo prenderci in giro. Il taglio delle forniture di gas è un attacco economico contro di noi da parte di Putin».

L'allarme in Germania da ieri è al livello 2 su una scala di tre e significa che «l'offerta di gas è diminuita ma è assicurata»; il livello d'allarme «3» sarebbe proclamato se l'offerta non fosse in grado di soddisfare la domanda. L'altro ieri il responsabile dell'Agenzia internazionale dell'energia ha dichiarato al Financial Times che «l'Europa dovrebbe essere pronta nel caso il gas russo venisse completamente tagliato». L'«mministratore delegato di Volkswagen questa settimana ha dichiarato che le fabbriche sarebbero a rischio nel caso di interruzione del gas.

Le parole del capo dell'azienda automobilistica sono in linea con le dichiarazioni rese settimane fa dall'Amministratore delegato di Basf secondo cui staccare il gas russo metterebbe in dubbio la sopravvivenza delle società medio-piccole e probabilmente causerebbe in Germania la «peggiore crisi economica» dalla fine della Seconda guerra mondiale; una crisi che «distruggerebbe la nostra prosperità».

Lo scenario che potrebbe materializzarsi, si pensi all'ipotesi della chiusura delle fabbriche Volkswagen, non è coerente con una narrazione di «qualche sacrificio», più o meno grande, imposto ai cittadini per aiutare l'Ucraina. È uno scenario di impatti economici e sociali difficilmente calcolabili.

Fino a qualche settimana fa, ricordiamo, valeva l'assunto che era l'Europa a danneggiare la Russia con le sanzioni su gas e petrolio.

È un'interpretazione che può essere difesa fino a un secondo prima dell'interruzione. Fino a quel momento si può ancora sostenere che la Russia stia minacciando per ottenere prezzi più alti con cui compensare o più che compensare i minori volumi. Se i volumi andassero a zero la variabile prezzo diventerebbe ininfluente. La Russia avrebbe comunque le entrate dei Paesi verso cui ha dirottato le forniture; Germania e Italia dovrebbero chiudere le fabbriche.

A fronte di questa situazione offriamo un piccolo riassunto della politica energetica tedesca degli ultimi sei mesi. A gennaio del 2022 la Germania ha spento tre delle sue sei centrali nucleari con cui al momento si produce l'energia più economica del Paese. A fine febbraio ha dichiarato di voler raggiungere una produzione di energia da rinnovabili del 100% entro il 2035. A metà aprile è apparso chiaro che senza gas russo, si vedano le dichiarazioni di Basf, la Germania sarebbe entrata in una recessione profonda. Questa settimana è ripartita la produzione a carbone.

Ci sarà ancora un'industria tedesca quando il Paese avrà raggiunto i suoi obiettivi green? Oppure si festeggerà il risultato dopo aver ridotto la Germania a un'economia pre-industriale? L'Italia è in una situazione simile. Mentre si fanno i conti con le ipotesi di spegnimento dell'industria con ripercussioni occupazionali difficili da immaginare l'Europa continua nel suo sogno «green»; la riapertura delle centrali a carbone, che non arriva da Marte, è una misura non strutturale. L'Italia incentiva e sussidia di tutto e di più, costruisce nuove ferrovie, ma di costruire un impianto normativo e incentivi che spingano al massimo la produzione di gas nazionale non si parla.

Dove finisce la colpa di Putin, che è quello che è, e dove inizia la responsabilità dell'Europa, della Germania e dell'Italia?

Bulldozer al posto dei trattori. Le comunità agricole tedesche rase al suolo a causa del ritorno al carbone. Marco Dell’Aguzzo su L’Inkiesta il 19 Ottobre 2022

Il cancelliere Scholz chiede di prolungare la vita di tre centrali nucleari, ma nel frattempo continuano le estrazioni del combustibile fossile più emissivo. A farne le spese sono soprattutto gli abitanti dei piccoli villaggi, costretti a cambiare vita 

Una «cattiva idea». Secondo Greta Thunberg, il piano del governo tedesco per la dismissione delle centrali nucleari – che producono energia senza rilasciare gas serra, ma che vengono spesso contestate dagli attivisti climatici per via delle scorie radioattive – è «un errore», se si traduce in un maggiore utilizzo del carbone, il combustibile fossile più emissivo. Un’uscita che potrebbe rivelarsi la sliding door del movimento ambientalista dei Fridays for future. 

Qualcosa, ora, si sta muovendo: il 17 ottobre, il cancelliere Olaf Scholz ha chiesto a tre ministeri (Economia, Ambiente e Finanze) di creare le condizioni giuridiche per permettere alle tre centrali nucleari ancora operative di restare aperte almeno fino al 15 aprile 2023: «Come cancelliere, in base al paragrafo 1 dell’ordinamento del governo, ho preso la seguente decisione: si porranno le basi giuridiche affinché il funzionamento delle centrali Isar 2, Neckarwestheim 2 e Emsland possa continuare oltre il 31 dicembre del 2022 e non oltre il 15 aprile 2023», ha detto. 

Tornando alla dichiarazione (realista) dell’attivista svedese, possiamo definirla la conseguenza di un fatto ancora difficile da quantificare, ma probabilmente inevitabile: quest’inverno il consumo di carbone della Germania – la Nazione demograficamente ed economicamente più grande d’Europa – potrebbe aumentare. I volumi esatti saranno determinati dalla clemenza della stagione e dalla capacità della Francia di esportare elettricità.

La guerra in Ucraina, che ha ridotto la disponibilità di gas russo in un Paese fortemente dipendente come la Germania, ha già prodotto un aumento del 5 per cento di generazione elettrica proveniente da carbone. Oggi, la generazione di energia elettrica tramite carbon vale quasi un terzo del totale.

Nei mesi freddi l’affidamento alla lignite pare sarà ancora maggiore, perché la domanda energetica sale e la Germania ha necessità di risparmiare gas: non c’è solo l’inverno imminente da superare, infatti, ma anche quello successivo, considerato che nell’estate 2023 il riempimento degli stoccaggi potrebbe farsi difficile.

Bruciare carbone al posto del gas avrà delle conseguenze negative sul clima e renderà più complicato il rispetto degli obiettivi comunitari di riduzione delle emissioni entro il 2030. In quell’anno, peraltro, scadrà la promessa della Germania di eliminare l’uso del carbone. E a inizio ottobre la società elettrica tedesca Rwe ha fatto sapere che anticiperà il phase out della lignite proprio al 2030. 

Nel frattempo, Rwe continua ad andare alla ricerca di depositi di carbone. L’azienda e il governo ne hanno individuati nel sottosuolo di Lützerath, un piccolo villaggio agricolo – la cui popolazione era di appena novanta abitanti – nella Germania occidentale, al cui posto sorgerà una miniera a cielo aperto. L’impatto del carbone non sarà solamente atmosferico, dunque, ma anche paesaggistico e sociale.

Dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico, però, il prelievo del carbone dai giacimenti domestici è preferibile perché mette Berlino al riparo dagli eventuali intoppi logistici. La siccità di quest’estate, per esempio, ha fatto precipitare i livelli delle acque del Reno e ostacolato il trasporto del combustibile sbarcato nei porti di Rotterdam o Amsterdam.

La sorte di Lützerath è la stessa di tante altre comunità agricole tedesche sorte in località carbonifere: le fattorie vengono demolite per fare spazio ai siti estrattivi, i trattori vengono sostituiti dai bulldozer e i campi un tempo coltivati finiscono coperti dalla polvere.

Nello stato della Renania Settentrionale-Vestfalia – dove si trovano Lützerath e la miniera Garzweiler, che ha cancellato una ventina di villaggi e imposto il ricollocamento di cinquemila persone – sono stati scoperti circa 1,3 miliardi di tonnellate di economica lignite.

Il prezzo, per i fattori, è la perdita dell’identità e lo sfilacciamento dei legami comunitari. «La guerra di aggressione di Putin ci costringe temporaneamente a fare maggiore uso della lignite, in modo da risparmiare gas nella produzione di elettricità», ha spiegato il ministro dell’Economia e del Clima Robert Habeck, già leader dei Verdi. «È una scelta dolorosa ma necessaria, vista la carenza di gas».

«Ci troviamo in una situazione schizofrenica: puntiamo all’abbandono nel 2030, ma permettiamo comunque a Rwe di andare a cercare la lignite a Lützerath», ha dichiarato al New York Times Karsten Smid, attivista di Greenpeace. «Se lo state facendo per la crisi energetica», ha aggiunto, «non c’è bisogno del carbone di Lützerath». Alcuni esperti sostengono in effetti che non ci sia bisogno della lignite sotto il villaggio per coprire la domanda di carbone per questo inverno. Ma a Berlino potrebbero volersi già preparare alla stagione fredda 2023-2024.

L’opinione pubblica, intanto, non sembra interessarsi granché della sorte di Lützerath: manifestazioni di massa in difesa del villaggio non ce ne sono state, e quest’estate il 56 per cento dei cittadini tedeschi si è detto favorevole alla riattivazione delle centrali a carbone per compensare la scarsità di gas; solo il 36 per cento era contrario. Nel 2019 – prima che iniziasse la crisi energetica, degenerata con l’invasione russa dell’Ucraina – ben il 73 per cento della popolazione voleva eliminare il carbone dal mix energetico «il prima possibile». 

Germania, per la miniera di carbone protesta ambientalista con Greta Thunberg. Claudio Del Frate su Il Corriere della Sera il 13 gennaio 2023.

Berlino deve fare di necessità virtù e fare ricorso a fonti fossili. I manifestanti occupano le case per fermare le ruspe. Proteste anche nel resto del Paese. Il cancelliere Scholz: «È stato superato il limite»

Un piccolo villaggio nel nord della Germania - Luetzerath - dovrà essere interamente demolito per consentire l’ampliamento di una vicina miniera di carbone. La decisione è stata presa dal governo tedesco per fronteggiare la crisi energetica che ha costretto a fare maggiore ricorso a fonti fossili. L’arrivo delle ruspe a Luetzerath ha scatenato però la protesta degli ambientalisti che sono arrivati in massa sul posto e ha hanno finora impedito che venisse portata a termine la demolizione delle case. Venerdì è giunta sul posto anche Greta Thunberg che ha criticato sia il comportamento della polizia sia la decisione della Germania di fare ulteriore ricorso al carbone.

La giornata di oggi - sabato - potrebbe essere ulteriormente tesa: è in programma una manifestazione alla quale sono attesi 8.000 partecipanti, secondo gli organizzatori. Il governo di Berlino ha dovuto già correggere in corsa la sua politica energetica più volte. Alla fine del 2021 aveva deciso di spegnere i suoi sei reattori nucleari per accelerare la transizione green. L’attacco russo all’Ucraina e la conseguente crisi energetica ha costretto però a rivedere gli obiettivi: tre centrali atomiche sono rimaste in funzione e si è deciso di fare maggiore affidamento sul carbone per sostituire il gas russo.

Da qui è scaturita la decisione di potenziare il sito estrattivo di Luetzerath, nella regione carbonifera del Nord Reno-Westfalia , divenuto un simbolo delle contraddizioni tra l’ambizione verde dell’Europa e la dura realtà imposta dal conflitto ucraino. La «coltivazione» di un nuovo filone a cielo aperto è stata autorizzata fino al 2030 ma questo ha costretto alla demolizione i vecchi fabbricati dell’abitato (da tempo sgomberato).

«Questa è la più grande fonte di CO2 in Europa. Si tratta di emissioni che colpiscono le persone di tutto il mondo. Ciò significa che siamo qui anche per le persone che vogliono fare sentire la loro voce quando il governo non osa farlo» ha dichiarato Luisa Neubaue, leader tedesca di «Friday for future» e animatrice della protesta. Per fermare la demolizione gli attivisti hanno occupato le case e sono saliti su alcuni alberi. Questa ha contagiato negli ultime giorni anche altri punti della Germania: attivisti hanno occupato l’ufficio del ministro dell’economia Robert Habeck a Flensburg metrea Berlino atti vandalici sono stati messi a segno nel quartiere Mitte.

A dare man forte alla contestazione è arrivata venerdì a Luetzerath anche Greta Thunberg, divenuta icona planetaria delle battaglie a difesa del clima e dell’ambiente. Nel definite «violento» il comportamento della polizia e «assurda» la decisione di riattivare una miniera di carbone. Greta ha detto che «vogliamo mostrare come è il potere delle persone, come è la democrazia».

La «battaglia di Luetzerath è divenuta rilevante al punto da far prendere posizione anche al cancelliere Olaf Scholz: «C’è un confine che è stato superato laddove le proteste diventano violente», ha dichiarato al quotidiano. Scholz ha respinto le accuse secondo cui gli obiettivi climatici della Germania sono a rischio: «Questa accusa non è vera. È esattamente il contrario: stiamo agendo in modo da raggiungere i nostri obiettivi climatici», ha affermato. «Forse la protesta dovrebbe essere diretta contro il fatto che ci vogliono sei anni per ottenere l’approvazione di una turbina eolica. Se vogliamo raggiungere la transizione energetica, abbiamo bisogno di impiantare da tre a quattro grandi turbine eoliche in Germania ogni giorno».

Una miniera di carbone in Germania sta facendo litigare i Verdi con gli ambientalisti. Il partito ha negoziato un accordo per espandere le estrazioni nel paesino abbandonato di Lützerath, tra molte critiche. Il Post il 13 gennaio 2023.

Giovedì un migliaio di agenti della polizia tedesca ha sgomberato gran parte dei manifestanti ambientalisti che ormai da mesi avevano occupato il piccolo paese di Lützerath, nello stato tedesco del Nord Reno-Westfalia. Gli ambientalisti stavano protestando contro l’espansione della locale miniera di carbone di Garzweiler, che comporterà fra le altre cose la demolizione integrale del paese per fare posto alle cave dove estrarre carbone.

Per sgomberare del tutto Lützerath potrebbero volerci settimane. Gli ambientalisti hanno costruito decine di case sugli alberi, si sono nascosti nei lunghissimi tunnel sotterranei della miniera e imbozzolati in alcune amache costruite fra i pali della luce. Per sabato 14 gennaio a Lützerath è prevista inoltre una nuova manifestazione contro l’espansione della miniera a cui parteciperà anche la celebre attivista ambientalista Greta Thunberg.

La presenza di Thunberg darà verosimilmente ulteriore visibilità a una protesta che in Germania è finita su tutti i giornali e sta facendo litigare i Verdi, uno dei tre partiti che compongono la coalizione del governo nazionale e che sono in maggioranza anche nel Nord Reno-Westfalia, e i gruppi ambientalisti di base, cioè il loro elettorato storico.

La miniera di Garzweiler è attiva dal 1961 e si estende per circa 48 km², più della superficie della città di Bergamo. Negli ultimi sessant’anni per espanderla sono stati distrutti una ventina di paesi e sono state chiuse o deviate alcune autostrade. Qui si estrae soprattutto lignite, un carbone fossile molto inquinante di cui la Germania è particolarmente ricca. L’espansione della miniera nel terreno sotto al paese di Lützerath era prevista già dal 1995, tanto che nel 2017 tutti gli abitanti rimasti, un centinaio, avevano lasciato le loro case e si erano trasferiti altrove, molti dei quali in un altro paesino a qualche chilometro di distanza.

La Germania è uno dei paesi dell’Europa occidentale più dipendenti dal carbone per produrre energia, e nonostante vari governi nel tempo abbiano approvato piani per non aprire nuove miniere e azzerare l’estrazione nel medio termine – l’attuale obiettivo è stato fissato al 2030 – alcune miniere sono tuttora aperte e funzionanti per soddisfare la richiesta di energia del paese, il più ricco e industrializzato in Europa. Nel 2021 circa il 30 per cento dell’energia elettrica prodotta in Germania è stata realizzata bruciando carbone. La guerra in Ucraina e la progressiva riduzione delle importazioni di gas naturale russo ha inoltre comportato la riapertura di alcune centrali a carbone.

La nuova centralità del carbone ha messo in una posizione molto scomoda il partito dei Verdi, che dopo un buon risultato alle elezioni parlamentari del 2021 oggi esprime diversi ministri del governo guidato da Olaf Scholz, segretario dei Socialdemocratici. I Verdi e soprattutto il loro leader, il vice-cancelliere e ministro dell’Economia Robert Habeck, hanno dovuto trovare un fragile compromesso fra le decisioni da prendere nell’immediato per tenere in piedi l’economia del paese e le promesse fatte da anni per agevolare la transizione della Germania verso l’uso di fonti di energia più sostenibili.

A ottobre, nell’ambito di una di queste complicate decisioni da risolvere, Habeck e il governo statale del Nord Reno-Westfalia avevano trovato un accordo con la società energetica RWE: il governo avrebbe dato il permesso alla società di espandere la miniera di Garzweiler, e in cambio RWE avrebbe abbandonato i piani di demolizione di altri cinque paesi nella zona, che si trovano sopra ingenti giacimenti di lignite. Habeck e i Verdi da allora hanno difeso l’accordo sottolineando di avere salvato altri cinque paesi da un futuro simile a quello che aspetta Lützerath.

Diversi gruppi ambientalisti, fra cui quelli di Fridays For Future, che negli ultimi anni hanno organizzato alcune fra le manifestazioni ambientaliste più imponenti in giro per il mondo, ritengono invece che l’espansione della miniera di Garzweiler non sia strettamente necessaria e che comporterebbe l’immissione nell’atmosfera di 280 milioni di tonnellate di anidride carbonica, se tutto il carbone che ora si trova sotto terra fosse bruciato, oltre al taglio di moltissimi alberi (per avere un termine di paragone: in Italia nel 2019 sono stati prodotti 418 milioni di tonnellate di anidride carbonica).

Da mesi, per protestare contro l’espansione, diversi attivisti ambientalisti avevano occupato le case abbandonate di Lützerath e costruito ulteriori strutture, fra cui case sugli alberi e amache fra i pali dell’elettricità, per occupare fisicamente il paese e impedire la sua demolizione. Giovedì però buona parte di queste strutture è stata demolita e i manifestanti sono stati evacuati dopo un’operazione di polizia durata circa 10 ore.

Deutsche Welle ha scritto che gli ultimi attivisti rimasti sul posto si sono comportati in maniera prevalentemente pacifica: solo alcuni di loro hanno lanciato sassi, bottiglie e fuochi d’artificio contro la polizia.

Gli ambientalisti se la sono presa anche con i Verdi, sia a livello nazionale sia a livello locale: una trentina di loro ha occupato per protesta la sede del partito a Düsseldorf, e rotto le finestre delle sedi di Aquisgrana e Lipsia.

All’interno del partito si è molto discusso se stare dalla parte della dirigenza nazionale o da quella dei Fridays For Future. Luisa Neubauer, una delle leader più riconoscibili del movimento, è anche membro del partito e lo ha molto criticato per la sua decisione su Lützerath. L’ala giovanile dei Verdi è stata la più divisa sulla questione, e la Frankfurter Allgemeine Zeitung scrive che per poco non ha fatto collassare l’accordo fra governo e RWE sull’espansione della miniera.

Della protesta si continuerà a parlare anche nei prossimi mesi. Habeck ha condannato esplicitamente la posizione dei Fridays For Future, sostenendo che si stanno concentrando su «un simbolo sbagliato, dato che a Lützerath non vive più nessuno». Thunberg, annunciando la sua presenza alla manifestazione di sabato 14 gennaio, ha esortato le autorità tedesche a «proteggere la vita, e dare la priorità alle persone piuttosto che al profitto».

L'estrazione mineraria non è tutto, ma senza di essa tutto è nulla. Giovanni Brussato su Panorama il 21 Febbraio 2023

La corsa all'auto elettrica significa anche questo. Ma a Bruxelles se ne saranno accorti?

L'estrazione mineraria non è tutto, ma senza di essa tutto è nulla 21/02/23, 08:20 L'estrazione mineraria non è tutto, ma senza di essa tutto è nulla - https://www.panorama.it/economia/estrazione-mineraria-europa-auto-elettrica-batterie 2/9 Le parole del celebre fisico, Max Planck, non sono servite a far comprendere ai policymaker di Bruxelles che il bando alla produzione delle auto con motore endotermico, senza un’industria estrattiva in grado di fornire le materie prime alla nascente industria europea delle batterie agli ioni di litio, può provocare la fine di una delle più importanti industrie del Vecchio Continente. La Commissione europea non ha ancora pienamente compreso che, nonostante tutto il nostro sviluppo tecnologico, non siamo ancora andati oltre lo scavo di minerali dalla terra per soddisfare le nostre esigenze. L’industria contro cui ci apprestiamo a competere, quella cinese, ha, invece, un controllo completo sulla catena di approvvigionamento, realizzato in oltre vent’anni di preparazione, studi ed anche fallimenti, che sono serviti, nel 2015, a lanciare un piano ambizioso per dominare le tecnologie future, chiamato "Made in China 2025" , un significativo sforzo voluto dal Partito Comunista Cinese, per separare il paese dalle catene di approvvigionamento globali e sostenere l'innovazione locale. La Cina non è stata benedetta da grandi giacimenti di minerali per batterie: litio, cobalto, nichel, grafite e manganese. Ma ha fatto propria la fase di elaborazione, e pertanto, indipendentemente da dove venga estratto il minerale, deve andare in Cina per diventare un elemento costitutivo della batteria. Inoltre, come sottolineò Glasenberg, al tempo CEO di Glencore, al margine di un incontro per la fornitura di cobalto all’industria automobilistica europea: «I cinesi non venderanno le batterie al mondo, produrranno le batterie in Cina e venderanno i veicoli elettrici al mondo." Come per il cobalto anche per il litio Pechino ne ha estratto solo una frazione di quello globalmente disponibile, ma ne ha trasformato oltre l'ottanta per cento in batterie, rispetto all'uno per cento degli Stati Uniti. Questo è stato possibile grazie a un ecosistema di compagnie minerarie, statali e private, spesso dei veri e propri colossi come, ad esempio, Ganfeng Lithium, che insieme al suo rivale Tianqi Lithium, hanno contribuito a costruire il dominio della Cina nella catena di fornitura globale delle batterie.

Le strategie sono state molteplici: dall’acquisizione della proprietà di miniere in altri paesi, come quella di Greenbushes in Australia, la più grande miniera di litio del mondo, alle partecipazioni, come nella Sociedad Química y Minera de Chile, SQM, 4 miliardi di dollari per il 24%, agli accordi di offtake, come quelli con Glencore per il cobalto congolese. Ma anche attraverso una realpolitik nei rapporti internazionali, come nel 2020, quando, a seguito della richiesta di un'indagine sulle origini della pandemia di Covid-19 del primo ministro australiano Scott Morrison, Pechino, irritata, pur sospendendo le importazioni di molte materie prime australiane, continuò le importazioni di litio. Il Regno di Mezzo era conscio della dipendenza dell'economia cinese dal litio australiano per diventare un leader nella tecnologia dei veicoli elettrici e quindi mise da parte l’orgoglio nazionale per perseguire i suoi obbiettivi strategici. Un ulteriore tassello del complesso mosaico che ha portato la Cina a dominare il settore è stata la consapevole scelta, del Partito Comunista Cinese, di mettere in atto un vero e proprio dumping ambientale. A rendere l’Europa un luogo ostile dove aprire nuove miniere sono state le nostre scelte ambientali, spesso imposte proprio da quelle stesse associazioni ambientaliste che, oggi pretendono una transizione verde accelerata mentre, nel contempo, si oppongono fermamente a qualsiasi ipotesi che preveda l’apertura di una miniera "nel proprio giardino". La crescita dell’industria cinese e l’acquisizione di quelle tecnologie che oggi le consentono la posizione di dominio che ricopre hanno anche comportato che la produzione di litio in Cina sia stato il processo con le emissioni di anidride carbonica più intense al mondo. L’industria mineraria dello spodumene, il minerale di litio australiano, comporta che l'estrazione e la frantumazione venga realizzata utilizzando veicoli alimentati a combustibili fossili. Il minerale viene quindi caricato su una nave alimentata a diesel e inviato in Cina, spedito lungo il fiume Yangtze e poi trasportato su camion all'impianto. L'impianto utilizza energia prodotta mediante carbone: mediamente servono circa due tonnellate di carbone per produrre una tonnellata di litio. Riscaldato a 1.000°C in una caldaia, il minerale, che contiene circa il 6% di litio, viene quindi separato con acido solforico, essiccato, purificato e macinato in una polvere bianca fine, l’idrossido di litio, che miscelato con altri metalli viene utilizzato per produrre le celle delle batterie. Questo, sommariamente, il processo con cui il gigante Ganfeng Lithium realizza l’idrossido di litio, un prodotto ad alta purezza utilizzato nelle batterie più potenti di Tesla e di altri veicoli elettrici. Una crescita produttiva consentita anche da limitati standard ambientali e di tutela dei lavoratori se, come riporta chi visitava lo stabilimento nei primi anni 2000, vedeva lavoratori che indossavano scarpe senza calzini e guanti di gomma per maneggiare un calderone di cloruro di litio nei torridi mesi estivi. La medesima attività, nella Carolina del Nord, negli USA, veniva realizzata in un edificio climatizzato e l’operatore indossava una tuta protettiva che ricordava quelle spaziali. Aspetti, quelli sulle tutele del lavoro, che ritroviamo nelle pratiche, definite schiavistiche, di Zhejiang Huayou Cobalt, il gigante del cobalto cinese, accusato da Amnesty International di acquistare cobalto da minatori bambini pagati uno o due dollari al giorno. Perché, se il Congo fornisce da oltre cento anni le risorse di cui abbiamo bisogno, dalla gomma per l'avvento dell'automobile, al rame per i bossoli dei proiettili nella prima guerra mondiale, all'uranio per le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki, nel contempo l'ambientalismo non è riuscito a cambiare le modalità con cui la produzione e l'uso dei beni di consumo deviano i costi ecologici in luoghi come questo. Così ci hanno pensato la Cina ed il gigante minerario svizzero Glencore a prendere il controllo del cobalto che viene estratto per circa il 70% della produzione globale in Congo. L'intera industria delle auto elettriche dipende da dozzine di camion che ogni giorno partono dalle miniere congolesi e, attraverso un tragitto di oltre tremila chilometri nel cuore dell’Africa, arrivano sulle coste del Sud Africa nel porto di Durban dove il minerale, caricato sulle portarinfuse, prende il mare verso la Cina.

Il Dragone controlla anche il mercato del nichel grazie agli storici accordi commerciali tra il gigante dell’acciaio Tsingshan Holding Group ed il governo indonesiano. Accordi che hanno favorito la decisione dell’Indonesia di bandire l’esportazione del minerale di nichel arricchito per incentivare lo sviluppo locale delle gigafactory per l’industria delle batterie. Inoltre la vicinanza politica con Mosca permetterà alla Cina di accogliere il nichel degli impianti siberiani di Norilsk Nickel qualora le sanzioni europee colpissero anche le aziende dell’oligarca russo Vladimir Potanin. Ma anche quando un metallo è comune, come il manganese, il dodicesimo elemento più abbondante nella crosta terrestre, con una filiera di approvvigionamento che non presenta particolari rischi perché viene estratto in numerosi paesi tra cui Sud Africa, Brasile e Australia, scopriamo che il 90% della capacità globale di produzione di solfato di manganese ad alta purezza è concentrata in Cina. Il manganese è fondamentale nella produzione dei catodi delle batterie, e dozzine di produttori cinesi, che rappresentano la maggior parte della produzione globale, hanno aderito a una campagna sostenuta dal governo cinese per stabilire una "alleanza per l'innovazione del manganese" , pianificando la centralizzazione del controllo sulla fornitura dei prodotti chiave, il coordinamento dei prezzi, lo stoccaggio e le reti per l'assistenza finanziaria reciproca: obiettivi e mosse che di fatto costituiscono un cartello. Ma le batterie, oltre ai catodi hanno anche gli anodi, che vengono realizzati utilizzando la grafite. E oggi, da dovunque provenga la batteria, che sia prodotta in Cina piuttosto che in Giappone o Corea la grafite, naturale o sintetica, proviene solo dal Regno di Mezzo. A mettere tutto insieme ci pensano giganti come Contemporary Amperex Technology, CATL, che con le sue gigafactory fornisce anche le principali case automobilistiche tedesche come Mercedes e BMW. Le sue linee di produzione ronzano di efficienza, si muovono solo i robot Kuka, un’azienda tedesca acquisita dalla cinese Midea Group quasi a simboleggiare il passaggio di consegne della manifattura occidentale. Ma soprattutto serve a comprendere come le gigafactory siano l'opposto delle fabbriche ad alta intensità di manodopera immaginate in Cina. Un segnale inequivocabile del futuro occupazionale per chi teorizza che i posti di lavoro a rischio dell’industria europea dell’automotive potranno essere facilmente convertiti .

Cancro a causa dell’amianto: Stato italiano condannato a risarcire un ex militare. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 23 Febbraio 2023

Il Tribunale di Roma ha condannato il ministero della Difesa a risarcire, con 600mila euro, la famiglia del militare casertano Leopoldo Di Vico, deceduto nel marzo 2015, a soli 58 anni, dopo una lunga malattia contro il cancro sviluppatosi in seguito a esposizione ad amianto e altre sostanze cancerogene durante le missioni in Albania e in Kosovo. A renderlo noto è l’Osservatorio Nazionale Amianto (ONA). Da anni, l’associazione denuncia i rischi legati all’uranio impoverito, alle radiazioni e alle conseguenti nanoparticelle «che hanno provocato almeno 400 decessi solo per tumori emolinfopoietici tra tutti coloro che sono stati impiegati nelle missioni all’estero», come ricordato dal presidente ONA Ezio Bonanni.

«Una dura battaglia quella del luogotenente dell’Esercito Italiano, meccanico dei mezzi blindati e corazzati ed ennesima vittima dei proiettili all’uranio impoverito, dei metalli pesanti, e dell’amianto, che hanno provocato l’insorgenza del carcinoma uroteliale del bacinetto renale», ha dichiarato l’Osservatorio Nazionale Amianto, in prima linea nel caso Di Vico. Inizialmente, il ministero della Difesa aveva negato il riconoscimento della causa di servizio e dello status di vittima del dovere, salvo tornare sui propri passi in seguito alla morte del militare e al contenzioso giudiziario seguito proprio da Bonanni.

Leopoldo Di Vico è una delle tante vittime della “Sindrome dei Balcani”, ovvero quella lunga serie di malattie, per lo più linfomi di Hodgkin e altre forme di cancro, che hanno colpito i soldati italiani al ritorno dalle missioni di pace internazionale, con particolare riguardo per le operazioni in Bosnia Erzegovina e Kosovo. Nel 1995 e nel 1999 i due Paesi balcanici vennero infatti colpiti dalla NATO con proiettili all’uranio impoverito (DU). Una sentenza del 2013, emessa dalla Corte dei Conti della Regione Lazio, ha accolto il ricorso presentato da un militare ammalatosi di tumore, al quale il ministero della Difesa aveva rigettato la richiesta di pensione privilegiata. La sentenza ha sottolineato la correlazione tra la malattia e le condizioni ambientali in cui il militare aveva prestato servizio (Kosovo).

Diverse perizie medico legali nominate dalla Corte hanno confermato la presenza, nei tessuti neoplastici del soldato, svariate nano-particelle “estranee al tessuto biologico, che quindi testimoniano un’esposizione a contaminazione ambientale”. Dagli atti risulta, inoltre, che “tutti gli alimenti distribuiti alla mensa e allo spaccio della base ove prestava servizio il ricorrente, compresa l’acqua utilizzata sia per l’alimentazione sia per l’igiene personale, erano oggetto di approvvigionamento in loco” e quindi inquinati da DU e dalle sue micro polveri. Un’informazione che assume ancor più rilevanza se si considera che la zona del Kosovo posta sotto protezione del contingente italiano fu la più bombardata dalla NATO nel 1999: 50 siti per un totale di 17.237 proiettili. [di Salvatore Toscano]

La battaglia dei cittadini del Niger contro l’estrazione di Uranio. di Gloria Ferrari su L'Indipendente il 4 marzo 2023.

Quello di Dasa si prospetta sarà uno dei più grandi depositi di uranio – un metallo tossico e radioattivo – mai esistiti nello Stato del Niger. Almeno secondo i piani della Global Atomic, una corporazione canadese specializzata in materie prime per l’energia nucleare. Per raggiungere l’obiettivo, lo scorso 11 agosto è nata SOMIDA (Société des mines de Dasa), una società controllata per il 20% dal Governo del Niger e per il restante 80% dalla stessa Global Atomic, che già nel 2007 aveva iniziato la progettazione dello sfruttamento del deposito.

La multinazionale, però, nei suoi piani non ha tenuto conto di un aspetto fondamentale: la disobbedienza civile. Infatti lo scorso novembre, dopo l’avvio dei lavori presieduto persino dal primo ministro nigerino Ouhoumoudou Mahamadou, la popolazione è insorta, chiedendo verifiche, studi ambientali, garanzie, analisi radiologiche specifiche su acqua e suolo per evitare di esporre a gravi contaminazioni gli allevatori e i loro animali e soprattutto partecipazione. Molti di loro hanno infatti lamentato di non essere stati inclusi nella fase preliminare della progettazione, e di non aver per questo potuto discutere di temi importanti come quelle delle compensazioni economiche destinate alle popolazioni che subiranno un esproprio e dell’emarginazione delle comunità e dei leader che vivono nell’area.

Motivo per cui diverse ONG hanno portato il caso davanti alla giustizia, presentandolo il 13 febbraio 2023 al tribunale del comune di Agadez. Quest’ultimo, dopo aver raccolto le testimonianze dei presenti, ha confermato la fondatezza delle loro denunce e ha disposto «la sospensione delle operazioni operative della miniera di uranio di SOMIDA» e «la pubblicazione dello studio di impatto ambientale ed eventualmente la sua perizie e contro-perizie», a patto che ci sia «il monitoraggio e la valutazione da parte degli attori della società civile».

Una piccola vittoria durata però troppo poco. La Société des mines de Dasa ha infatti immediatamente presentato ricorso alla Corte d’Appello di Tahoua, sostenendo di «aver rispettato la normativa vigente». Una dichiarazione che è valsa alla società la caduta di tutte le accuse. La Corte si è infatti tirata fuori dalla questione dichiarandosi a quel punto “non competente”: una rinuncia che ha annullato la sentenza del tribunale di Agadez, che è sotto la sua responsabilità amministrativa. Le ONG nigerine hanno comunque promesso di portare avanti la battaglia, rivolgendosi questa volta alla Corte di Cassazione.

Nonostante la ricchezza dei suoi territori, a causa di sfruttamento e inquinamento, il Niger rimane uno tra i Paesi più poveri del mondo. La sua economia si basa per l’80% sull’agricoltura di sussistenza e l’allevamento del bestiame, settori spesso messi in crisi da una serie di insidie tra cui siccità, inondazioni, e sostanze nocive che finiscono nei terreni e nelle acque. Il 60% della popolazione vive sotto la soglia della povertà, con l’approvvigionamento alimentare che rimane una delle più grosse piaghe del Paese. Tant’è che quasi la metà dei bambini soffre di malnutrizione. [di Gloria Ferrari]

Il triangolo del litio. La corsa alle materie prime rare favorisce l’ascesa di nuove e inaspettate potenze. Francesco Del Vecchio su L'Inkiesta il 29 Agosto 2023

Il passaggio da un sistema energetico basato sui combustibili fossili a uno alimentato dall'elettricità e dalle fonti rinnovabili sta rivoluzionando il panorama geopolitico ed economico globale, favorendo paesi come Cile, Congo, Bolivia e Argentina 

All’inizio di quest’anno il Cile ha annunciato un piano di semi-nazionalizzazione dell’estrazione di litio: il controllo di due gigantesche miniere nel deserto di Atacama andrà a una società mineraria statale quando gli attuali contratti termineranno nel 2030 e nel 2043, trasformando questi progetti e tutti quelli futuri in partnership pubblico-private. Il Cile è il secondo produttore di litio al mondo, il nuovo oro bianco, e il suo presidente Gabriel Boric ha dichiarato che il piano per aumentare il controllo statale è la migliore soluzione per diventare un’economia sviluppata e distribuire la ricchezza in modo più equo. «Basta con le “miniere per pochi”. Dobbiamo trovare un modo per condividere i benefici del nostro Paese con tutti i cileni», ha dichiarato il presidente. Oltre a questo disegno statalista, riflesso dell’ispirazione socialista di Boric, c’è da sottolineare l’approccio muscolare del suo governo sul tema, simile a quello di molti altri produttori di materie prime.

A più di diecimila chilometri dal Sudamerica si estende il paesaggio rossastro di Tenke-Fungurume, una delle più grandi miniere di rame e cobalto del mondo. Situata nella Repubblica Democratica del Congo (RDC), rappresenta una delle aree più ambite del globo. La RDC è il maggior produttore mondiale di cobalto e sta studiando come far pesare la propria rilevanza a livello internazionale. Ora il governo sta intraprendendo un’ampia revisione di tutte le sue joint venture minerarie con investitori stranieri: vorrebbe vedere più posti di lavoro, entrate e attività di maggior valore.

La RDC e il Cile non sono dei casi isolati e con il passaggio da un sistema energetico basato sui combustibili fossili a uno alimentato dall’elettrico e dalle fonti rinnovabili, la domanda globale di materiali come il rame, il cobalto, il nichel e il litio sta rivoluzionando i rapporti di forza a livello mondiale. C’è infatti un gruppo di Paesi che sta guidando l’estrazione mondiale di materiali critici per la transizione energetica, accreditandosi sul proscenio globale. La RDC rappresenta il settanta per cento dell’estrazione mondiale di cobalto; i primi tre produttori di nichel (Indonesia, Filippine e Russia) rappresentano i due terzi del mercato; per quanto riguarda il litio, i primi tre produttori (Australia, Cile e Cina) rappresentano oltre il novanta per cento. Oltre a paesi come Russia e Cina, si fanno strada nuove potenze del settore, come Indonesia, Australia e Filippine, oltre alle già citate Cile e Repubblica Democratica del Congo.

Questo cambiamento sta trasformando Paesi piccoli e storicamente sottosviluppati in giganti delle materie prime. L’Indonesia è già un case study: produce quasi la metà del nichel mondiale, ingrediente fondamentale per le batterie delle auto elettriche. Anni di controlli sulle esportazioni di nichel grezzo sono già serviti a costruire una vasta industria nazionale, oltre a impianti di batterie e diverse fabbriche di veicoli elettrici. Dopo aver vietato le esportazioni di nichel grezzo nel 2014, il Paese ha attirato oltre quindici miliardi di dollari di investimenti esteri nella lavorazione del materiale, soprattutto dalla Cina. Oggi l’Indonesia ha vietato quasi tutte le esportazioni di questo tipo, dal nichel alla bauxite, mentre il prossimo anno entrerà in vigore il divieto di esportazione del concentrato di rame.

Non tutti sono d’accordo con queste politiche: l’Unione europea le ha impugnate presso l’Organizzazione Mondiale del Commercio e ha vinto una prima udienza. Le autorità indonesiane però osservano che queste mosse sono direttamente ispirate a quelle adottate in passato dai Paesi occidentali. Il Regno Unito vietò le esportazioni di lana grezza nel XVI secolo, per stimolare l’industria tessile nazionale, e gli Stati Uniti nel XIX e XX secolo aumentarono le tasse sulle importazioni per incoraggiare la produzione interna. Nel Paese asiatico ora si prova a continuare su questa strada, creando un cartello in stile Opec per mantenere alti i prezzi del nichel e di altri materiali per batterie.

La strategia indonesiana sta dando frutti su ampia scala. All’inizio di quest’anno, Ford ha annunciato un investimento in un impianto di lavorazione del nichel da svariati miliardi di dollari. Quest’estate, Hyundai ha aperto i lavori per la costruzione di un impianto per la produzione di batterie, il suo secondo stabilimento in Indonesia. La politica sul nichel ha certamente conferito all’Indonesia un profilo più alto a livello internazionale, insieme alla sua posizione nel quadrante più delicato per la geopolitica mondiale, ovvero l’Indo-Pacifico. Quando il presidente Joko Widodo ha visitato gli Stati Uniti lo scorso anno, è stato accolto con calore dal presidente Joe Biden a Washington e ha poi fatto tappa a Boca Chica, in Texas, per incontrare il leader mondiale dell’auto elettrica, lo stesso Elon Musk che vuole combattere in una gabbia con Mark Zuckerberg.

Seguendo l’esempio di Giacarta, molti Paesi produttori stanno provando a risalire la corrente, per creare una crescita economica sostenibile costruendo infrastrutture e sviluppando le regioni in cui vengono estratti i minerali. Il Cile sta offrendo prezzi preferenziali sul carbonato di litio alle aziende che avviano progetti nel Paese. Il primo acquirente è la cinese BYD, uno dei maggiori produttori di veicoli elettrici al mondo, che ad aprile ha annunciato la costruzione di una fabbrica di catodi di litio nel Cile settentrionale, con cinquecento posti di lavoro previsti nella fase di investimento.

La transizione energetica inizia a ridisegnare i sistemi di potere e ricchezza che hanno dominato il XX secolo, e i nuovi produttori di metalli sperano che sia solo all’inizio. Secondo un nuovo rapporto dell’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili, però, la posizione delle neo-potenze potrebbe essere a rischio nel lungo termine: è improbabile che possano avere il potere geopolitico duraturo di cui hanno goduto i produttori di petrolio e gas.

Un esempio di come il settore minerario possa cambiare è proprio il Sudamerica. Alcuni politici del “triangolo del litio” sudamericano, che comprende Cile, Argentina e Bolivia, hanno ventilato l’idea di un cartello in stile Opec, ma l’Argentina non sembra entusiasta dell’idea. Lo scetticismo nei confronti di un possibile cartello non fa che indebolire il peso dei Paesi produttori. Nel corso del XX secolo, diversi prodotti sono stati controllati da cartelli: lo stagno è stato gestito da un Consiglio Internazionale dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta, mentre i produttori di caffè si sono riuniti in un cartello durante gli anni Sessanta e Settanta; le potenze della gomma naturale hanno agito insieme fino agli anni Novanta.

Per litio e cobalto, un’altra incognita riguarda l’evoluzione tecnologica: le batterie e i loro ingredienti cambiano; questo potrebbe compromettere l’efficacia di un eventuale cartello. I laboratori che sviluppano nuove soluzioni chimiche per le batterie modificano costantemente le loro formule per ridurre l’uso di metalli costosi o difficili da acquisire. Questo sta già iniziando ad accadere con il cobalto, che le case automobilistiche stanno cercando di limitare nelle loro batterie a causa del suo costo elevato. L’uso di batterie senza cobalto in Cina è passato dal diciotto per cento nel 2020 al sessanta per cento di quest’anno.

Le catene di approvvigionamento di alcuni di questi metalli sono infatti invischiate nelle crescenti tensioni tra l’Occidente e la Cina, che domina la capacità di lavorazione del litio, del cobalto e delle terre rare e sta valutando di limitare le esportazioni di alcuni materiali. I governi, da Washington a Bruxelles a Tokyo, stanno pensando dove possono rifornirsi in modo affidabile di minerali critici senza passare dall’orbita di Pechino. Se l’estrazione mineraria è guidata da Paesi come Indonesia, Cile e RDC, la Cina domina tutto il processo di raffinazione.

A maggio scorso il New York Times si domandava se il mondo possa produrre batterie per auto elettriche senza la Cina, e la risposta è no. Nonostante i miliardi di investimenti occidentali, la Cina è talmente avanti –  per estrazione, formazione di ingegneri e fabbriche – che il resto del mondo potrebbe impiegare decenni per mettersi al passo. Il dominio della Cina sul settore è arrivato al centro dell’attenzione anche dopo la limitazione alle esportazioni di germanio e gallio, materiali utilizzati nei chip dei computer e in altri componenti tech.

Anche la presenza di Pechino in Africa è un altro elemento di preoccupazione per le cancellerie occidentali: sfruttando il risentimento per il passato coloniale, la Cina si è presentata in modo sempre più forte come partner strategico dei Paesi africani, anche per quanto riguarda le materie prime. Foreign Policy ha recentemente raccontato i contatti cinesi in Zimbabwe, finalizzati a sfruttare le enormi riserve di litio di Harare.

L’Occidente però ha ancora varie carte da giocare: una di queste è il Giappone, che è riuscito a costruire catene di approvvigionamento alternative dopo l’aumento delle tensioni con la Cina. Allo stesso tempo, l’Unione Europea sta lavorando a un processo di riduzione della dipendenza dalle importazioni di minerali e metalli critici. La competizione è appena iniziata.

Il tesoro nascosto e la transizione fatta in casa. Angelo Vitolo su L'Identità il 30 Maggio 2023.

Il litio, e poi il silicio, il rame, il cobalto, il nichel, il manganese, la grafite, lo zinco. Materie rare ne consumiamo sempre di più. Lo stesso alluminio, che in Italia è riciclato da anni con risultati da record, viene sempre più utilizzato nell’automotive rispetto al passato. Rare, perché non sufficienti. Ognuno deve puntare a fare da solo, dice l’Europa. Ma poi? “Abbiamo 15 di quelle 34 materie indispensabili per la transizione”, dice il ministro delle Imprese e del Made in Italy, Adolfo Urso. Ma dove? “Le miniere sono in gran parte in Liguria, Toscana, Sardegna, Campania e nella catena alpina, nella quasi totalità in aree protette e in parchi naturali”. Aree protette, quindi. Quelle tutelate dalle leggi dello Stato e dalla stessa manovra normativa dell’Europa. Per svoltare verso l’elettrico, fa capire Urso, “bisogna scavare dal suolo per realizzare quello che serve, bisogna estrarre i minerali, le terre rare. Bisogna riaprire i giacimenti, poi costruire gli stabilimenti”. E quasi fuori dai denti aggiunge: “Meglio farlo qui che in Congo, dove non c’è rispetto per l’ambiente e per i lavoratori. Noi abbiamo qui uno dei più grandi giacimenti di cobalto in Europa”. E ancora: “L’Europa ci dice che dobbiamo fare in fretta per la transizione ecologica. Ci pone obiettivi ambiziosi, il 10% di estrazione di materie prime critiche da qui al 2030, del 40% di lavorazione e 15% di riciclo in appena sette anni, partendo praticamente da zero. Sul riciclo l’Italia invece sa fare meglio anche di altri paesi europei”. E poi spiega: “Abbiamo aggiornato le mappe. La gran parte di queste zone sono in aree protette. E allora l’Europa ci dica con chiarezza come dobbiamo raggiungere questo obiettivo e ci ponga nelle condizioni di farlo. A partire dalla semplificazione delle procedure per le autorizzazioni, che la Cina fa in tre mesi e l’Europa in quasi 10 anni”.

Ci vuole un Piano minerario nazionale, un’adeguata capacità di estrazione e raffinazione dei minerali. Lo spiega Gianclaudio Torlizzi, founder di T-Commodity: “Serve una mappatura geologica del Paese, non trascurando i fondali marini. L’individuazione dei giacimenti da sfruttare dovrà andare di pari passo con l’aggiornamento delle normative sull’attività mineraria, oggi ferme ad un Regio Decreto del 1927, poi modificato per includere, tra gli ‘8o e i ’90, le Regioni. Dopo i giacimenti, vanno individuati i siti per la raffinazione”. E qui ritornano in campo i localismi: “L’attività di raffinazione riveste un’importanza superiore a quella mineraria. Se è altamente probabile che dal processo di mappatura della crosta terreste nuovi giacimenti di minerali verranno individuati, importanti colli di bottiglia rimarranno sulla parte relativa alla raffinazione, attività particolarmente energivora e inquinante”.

Raffinare le maniere rare non sarà meno inquinante ed energivoro di quanto non lo sia in Africa e nei Paesi orientali. Da noi, alle direttive europee, si aggiungono i freni dei territori, quasi sempre dominati dalla sindrome di Nimby. Una strada che Torlizzi propone di affiancare a quella ove l’Italia va fortissimo, il circular: “L’Italia si faccia portavoce in Europa per l’adozione di un meccanismo che disincentivi l’export di una delle poche materie prime di cui dispone: il rottame, fondamentale per puntare alla decarbonizzazione nel siderurgico e dei metalli. Abbiamo fatto uscire, solo nel 2021, 191 mila tonnellate di rottame di alluminio, 178 mila di rame, 17 mila di zinco, 4 mila di piombo e 1.200 di nichel”.

Estratto dell'articolo di Federico Rampini per corriere.it il 28 maggio 2023.

La sfida coinvolge quattro continenti

È in corso una competizione globale per controllare il litio, il metallo essenziale per molte tecnologie, a cominciare dalle batterie elettriche (sia quelle che usiamo nelle auto elettriche, che nelle pale eoliche). In questa gara una tendenza che emerge al momento è la seguente: l’America stringe accordi con l’Australia, che a sua volta cerca di divincolarsi dall’abbraccio della Cina; mentre Pechino vuole rafforzarsi in Africa e in America latina. Forse mi sfugge qualcosa ma anche in questo settore l’Europa mi sembra in ritardo, quasi che non abbia capito l’importanza della posta in gioco. 

La Cina non lo possiede ma lo raffina a casa sua

Che il litio sia «il petrolio del futuro» lo hanno capito anche i sassi. Che la sua produzione sia dominata dalla Cina, pure. A volte però la percezione generale si ferma qui. E magari la posizione dominante della Cina viene scambiata come un fatto «naturale», simile alla dotazione petrolifera che l’Arabia saudita possiede nel suo sottosuolo. Invece non è affatto così.

Di litio nel sottosuolo cinese ce n’è poco, circa l’8% delle riserve mondiali. Il fatto è che la Repubblica Popolare – con una lungimiranza che è mancata dalle nostre parti – si è accaparrata i diritti di estrazione nei territori altrui, o contratti di fornitura a lungo termine da parte di miniere situate letteralmente agli antipodi. Inoltre la Cina stessa si è assunta il compito di lavorare, raffinare, il minerale grezzo che come tale è inutilizzabile. Questa lavorazione del terriccio contenente litio è un mestiere redditizio ma molto inquinante: ragion per cui gli occidentali in nome dell’ambientalismo hanno deciso che va fatta il più lontano possibile.

L’importanza dell’Australia

Nel nuovo contesto geopolitico dipendere dalla Cina per tutte le nostre tecnologie verdi è una follia. Perciò Australia e Stati Uniti stanno lavorando di concerto per riprendersi il controllo della «catena del litio». Nessun altro Paese al mondo ha un ruolo decisivo quanto l’Australia: attualmente dalle sue miniere si estrae il 53% del litio mondiale. Ma quasi tutto viene venduto alla Cina. Per la precisione, come ricostruisce un’inchiesta del New York Times, il principale estrattore di litio che è la società Pilbara Minerals, dalle sue miniere nell’Australia occidentale ricava un terriccio metallifero dal quale si ricava lo spodumene, un minerale che contiene alluminio e litio. Il contenuto di litio è il 6% del minerale grezzo. Lo spodumene viene venduto attualmente a 5.700 dollari per tonnellata. Ma la raffinazione finale, quella da cui si ottiene il litio da usare nelle batterie, avviene in impianti cinesi, dopo che la materia prima, cioè lo spodumene, è stato trasportato via mare nella Repubblica Popolare. 

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Pechino si rifà in Africa e America latina

Restando al litio, però, la Cina avverte il pericolo che il suo semi-monopolio attuale le stia scivolando dalle mani. Reagisce di conseguenza. Negli ultimi due anni le aziende cinesi del settore hanno investito 4,5 miliardi di dollari per comprare miniere di litio nel resto del mondo. Visto che l’Australia si chiude, ora l’appetito cinese si concentra in Africa e in America latina. Gli investimenti cinesi più importanti nelle miniere di litio sono avvenuti in tre paesi africani (Mali, Nigeria, Zimbabwe) e due paesi latinoamericani (Messico, Cile).

Non sono zone del tutto tranquille. In Mali e in Nigeria gli investitori cinesi devono affrontare problemi di sicurezza, di fronte alle minacce del terrorismo jihadista. In Messico e in Cile le incognite sono politiche: su tutta l’America latina soffia un vento di nazionalismo populista, con molti governi di sinistra che parlano di nazionalizzare il litio perché vogliono il controllo delle proprie risorse minerarie. E’ un remake di ciò che accadde nel mondo arabo con il petrolio negli anni Sessanta. Il Cile insieme a Bolivia e Argentina discute la creazione di una «Opec del litio», un cartello oligopolistico sul modello di quello petrolifero. La Cina dovrà imparare a navigare tra queste tendenze politiche locali, così come gli occidentali dovettero adeguarsi ai diktat dell’Opec a partire dal 1973. 

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TERRE RARE DAI RIFIUTI. Angelo Vitolo su L'Identità il 25 Aprile 2023.

Terre rare cercasi. Dalle batterie per le auto ibride alla fibra ottica, dai computer agli smartphone, i sistemi produttivi ruotano intorno all’impiego di metalli che rientrano tra le terre rare. Una classe di elementi chimici utilizzati nei dispositivi elettronici, veicoli elettrici, pale eoliche e molto altro ancora, la cui estrazione dai minerali richiede un processo costoso e inquinante. L’opportunità di reperirli a costi più bassi rispetto a quelli attuali, contenendo l’impatto sull’ambiente, è quindi una sfida decisiva per l’Europa, dipendente in gran parte dalle importazioni di queste materie. Ancor di più nell’ottica della transizione ecologica. Ora in Italia una sfida accolta da un team di giovani ricercatori dell’Università di Milano-Bicocca. Il sistema ideato è imperniato su due tipologie di rifiuto, trattate grazie alle nanotecnologie: le terre rare vengono estratte da apparecchi elettronici in disuso utilizzando un dispositivo realizzato con materiale poroso partendo dagli scarti dell’industria chimica e dell’acciaio.

E’ il progetto Rare, che ha partecipato alla quinta call Bicocca Università del Crowdfunding, il programma di finanza alternativa dell’ateneo che promuove lo sviluppo di progetti innovativi e idee imprenditoriali. Alla fine, ha incassato il sostegno di Eit RawMaterials, il consorzio europeo che lavora sulle materie prime non fossili a supporto della transizione energetica e che da quest’anno è partner di #BiUniCrowd. Al via, la raccolta fondi su Produzioni dal Basso, l’ormai storica piattaforma italiana di crowdfunding e social innovation, con la prima delle tre campagne previste per questa edizione di Bicocca Università del Crowdfunding. Rare avrà sessanta giorni di tempo per raccogliere cinquemila euro. Ma, già tagliato il traguardo del 50% dell’obiettivo, scatterà il contributo di un’azienda partner che coprirà la restante parte della somma.

Al team Rare prendono parte Lorenzo Viganò e Daniele Montini, dottorandi in Scienza e Nanotecnologia dei Materiali e Barbara Di Credico, professore associato di Fondamenti chimici delle tecnologie nel dipartimento di Scienza dei Materiali, con Jessica Bosisio, dottoranda in Economia e Management dell’Innovazione e della Sostenibilità presso l’Università di Parma, ad occuparsi della comunicazione dell’iniziativa. “Oggi – dicono i membri del team – i componenti dei dispositivi elettronici sono riutilizzati solo in minima parte. Si riciclano materiali come il rame, l’alluminio e il ferro, ma pochi riescono a riciclare le terre rare. Recuperare scarti industriali per creare le nuove materie prime adatte alla cattura di questi elementi permetterebbe di abbattere i costi che comportano gli altri metodi di recupero. In questo modo, inoltre, si promuove un’economia circolare ove i rifiuti non vengono eliminati ma si cerca di dar loro una seconda vita. Noi vogliamo sviluppare un dispositivo sostenibile in grado di recuperare le terre rare dei rifiuti elettronici. Così, gli ioni delle terre rare vengono trasferiti in acqua e successivamente catturati dal nostro dispositivo. Ulteriori trattamenti permetteranno di recuperare le terre rare e, idealmente, renderle riutilizzabili per la produzione di nuovi dispositivi elettronici e tecnologie innovative “.

Per Fabio Pegorin, di Eit RawMaterials vanno rafforzate “le filiere locali per un approvvigionamento stabile e sostenibile di questi materiali. Imperativo, sostenere progetti e incentivare nuovi approcci e tecnologie come quelli proposti da Rare”.

 Estratto dell'articolo di Elena Dusi per “la Repubblica” il 24 aprile 2023.

Ma la miniera di litio dov’è? «Mai vista, mi spiace» allarga le braccia un abitante di Cesano. Il benzinaio del borgo alla periferia nord-ovest di Roma ha un’illuminazione: «Ecco perché un cliente una volta mi ha detto: complimenti ora siete ricchi. Io non ne sapevo nulla». Poco più a nord, nel Comune di Campagnano, […] un uomo finalmente indica avanti a sé: «La miniera è qui, tutto intorno a noi». 

Ma di litio, detto oro bianco, metallo prezioso per le batterie usate, ad esempio, nelle auto, nei cellulari o integrate in impianti solari, passato nel corso del 2022 da 14 mila a 80 mila euro a tonnellata, non ne vediamo traccia. […] Andrea Dini, geologo del Cnr, autore con i suoi colleghi di una mappatura del litio in Italia uscita alcuni mesi fa sulla rivista Minerals , le definisce in effetti miniere atipiche. Il loro impatto, a giudicare dalla campagna intonsa intorno a noi, a prima vista è proprio basso.

«Il litio in queste zone di origine vulcanica è disciolto nell’acqua calda che si trova molto in profondità.L’estrazione consiste nel perforare il terreno e intercettare l’acqua. È un metodo pulito, ma è anche nuovo. In Australia il litio si estrae dalle rocce. In Sudamerica dai laghi salati[…]». La bucolica apparenza però non inganni. Gli 11,4 chilometri quadri nella valle del Baccano, una depressione rotonda che un tempo ospitava un lago vulcanico, sono oggetto di un permesso di ricerca di Enel Green Power e dell’azienda mineraria australiana Vulcan Energy. […]

Le mappe del Cnr indicano la presenza di litio geotermico — cioè disciolto nell’acqua sotterranea — dalla Toscana, all’altezza del monte Amiata, fino ai Campi Flegrei, in Campania. E il risiko delle richieste per l’estrazione è già iniziato. «Si prevede che la produzione di batterie che alimentano i nostri veicoli elettrici farà aumentare la domanda di litio di 17 volte entro il 2050» ha detto qualche giorno fa la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen […]

L’asso in mano, in questa situazione, se l’è ritrovato Enel, che tra gli anni ’70 e ’80 aveva perforato circa 15 pozzi esplorativi tra Cesano e Campagnano. […] Ma l’estrazione di tutto quel litio disciolto nell’acqua in profondità, in un’epoca in cui le pile servivano al massimo per il Walkman, fu ritenuta difficile. I pozzi, […] furono chiusi. […]Nel frattempo il mondo è cambiato e a luglio del 2022 Enel ha firmato un accordo con Vulcan Energy, l’azienda mineraria australiana che ha brevettato un metodo proprio per l’estrazione del litio geotermico, sfruttato attualmente in un altro sito in Germania, nella Valle del Reno.

Ma perché allora a Campagnano oggi sembra tutto immobile? Per quanto i prezzi del litio siano golosi, il calcolo di costi e benefici non è ancora terminato. La presenza di più aziende concorrenti fa assomigliare la caccia all’oro bianco a una partita a scacchi. «Siamo ancora nella fase di realizzazione dei rilievi e degli studi geologici preliminari per comprendere la natura del sottosuolo» spiega Niccolò Dainelli, geologo, rappresentante in Italia della Vulcan.

Tutte le prospezioni al momento avvengono in superficie. «Non ci sono autorizzazioni a scavare nuovi pozzi e trincee» conferma Alessio Nisi, sindaco di Campagnano, paese di quasi 13 mil a abitanti. «Le norme sulla geotermia non sono molto chiare nel Lazio e l’estrazione del litio non ha precedenti in Italia. Basti pensare che nella concessione a Vulcan Energy si fa rifermento al regio decreto del 1927, che riserva la competenza in materia di risorse minerarie allo Stato». […]

Estratto dell’articolo di Rosaria Amato per “la Repubblica” il 14 aprile 2023.

Ci vorrà molto tempo perché in Italia si arrivi a ottenere il 15% del fabbisogno di terre rare, litio, cobalto e altre materie prime critiche dal riciclo, come prevede il nuovo regolamento europeo. Perché il problema è che adesso partiamo da zero. […]

 Una frenata che gli addetti ai lavori attribuiscono alla crescita del “mercato parallelo”. Un mercato «spesso illecito», rileva Erion Weee, il consorzio che gestisce il 70% della raccolta dei Raee, e che, alla luce dei rincari delle materie prime, diventa sempre più remunerativo. […]

«Noi raccogliamo circa il 40% di Raee – spiega Danilo Bonato, direttore generale Erion Compliance Organization – che viene inviato agli impianti che fanno la prima fase della lavorazione, quella meccanica, durante la quale l’apparecchio viene ridotto in piccole parti.  

 Ma non siamo in grado di proseguire con la seconda parte della lavorazione, quella che prevede l’estrazione delle materie prime critiche. E quindi dobbiamo inviare questa massa di materiale raccolto all’estero, in Germania, Francia, Olanda, Belgio».

Recuperare le materie prime critiche, secondo le principali analisi di settore, permetterebbe di generare un valore economico di 60 milioni di euro: attualmente il 90% di queste frazioni è esportato, generando introiti pari a soli 10 milioni di euro.

Costruendo 5 impianti si arriverebbe a un riciclo del 98%. Ma le imprese sono scoraggiate dalla burocrazia:

 «Per costruire questi impianti servono autorizzazioni speciali, l’iter va dai 5 ai 7 anni», dice Bonato. […]

Terre rare, cosa sono e quali stati ne possiedono di più. Danilo Supino su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.

È stato scoperto in Svezia il primo giacimento di terre rare in Europa. Non è ancora nota la reale grandezza del sito, ma probabilmente non sarà grande quanto quelli di Cina, Russia e Vietnam

In Svezia è stato scoperto un giacimento di terre rare stimato come il più grande in Europa. Il luogo del sito è a Kiruna, nel Nord del paese, e la scoperta è stata resa nota dalla Lkab, la società mineraria di stato svedese. Nei comunicati dell’azienda non è ancora nota la reale grandezza del giacimento e la capacità estrattiva. Tuttavia, al momento si pensa che non rientrerebbe tra i dieci giacimenti di terre rare più grandi al mondo. Allora dove sono situate le terre rare più importanti per quantità di elementi contenuti?

Nel mondo i giacimenti di terre rare hanno una grandezza di 120 milioni di tonnellate, distribuiti (stando all’ultima scoperta in Svezia) in non più di 20 paesi. Osservando i gradienti di colore sulla mappa qui in basso, si nota come gli Stati che ospitano il maggior numero di terre rare sul proprio suolo possono essere ricondotti ai Brics, Brasile-Russia-India-Cina-Sudafrica, un gruppo di paesi che nelle analisi economiche vengono associati per il notevole aumento del Pil dal 1990 ad oggi e perché ricchi di materie prime.

Cliccando sullo stato, oltre la quantità in tonnellate, si può conoscere la quantità estratta nel 2020 e nel 2021

Tra i Brics, lo Stato con la maggiore quantità di terre rare è la Cina con 44 milioni di tonnellate, segue il Vietnam con 22 milioni, Russia e Brasile con 21 milioni, poi l’India e via di seguito. Nessuna delle prime dieci nazioni è europea e a dirla tutta neanche nelle successive posizioni. Insomma, la scoperta del sito in Svezia è senza dubbio una buona notizia a prescindere dalla quantità.

Dove sono le terre rare

Stando alle rilevazioni attuali e ai giacimenti attivi, la Cina non solo è la più ricca per quantità ma anche per numero di siti estrattivi. Infatti, Pechino ha ben nove tra i siti più attivi nell’estrazione dei minerali di bastnasite, laterite e xenotite.

I restanti sono in India a Manavalakurichi, in Russia a Revda, negli Usa a Mountain Pass in California e in Australia a Mount Weld Central Lanthanide. Ognuno di questi giacimenti (i più attivi sono tredici in tutto il mondo), non contiene la stessa quantità di elementi.

Cliccando sull’elemento in legenda si evidenzia nel grafico

Il grafico qui in alto mostra la percentuale stimata degli elementi contenuti per ogni giacimento presente sulla mappa. Ogni sito si caratterizza per la preminenza dell’elemento contenuto.

Cosa sono le terre rare

Sono questi gli elementi che svolgono il ruolo più importante per la crescita di alcuni Stati nel prossimo imminente futuro: lantanio (La), erio (Ce), praseodimio (Pr), neodimio (Nd), samario (Sm), europio (Eu), gadolinio (Gd), terbio (Tb), disprosio (Dy), olmio (Ho), erbio (Er), tulio (Tm), itterbio (Yb), lutezio (Lu), ittrio (Y); altri elementi non rivelati in mappa sono il promezio (Pm) lo scandio (Sc). Le terre rare sono relativamente abbondanti nella crosta terrestre, ma le concentrazioni estrattive sono inferiori rispetto agli altri minerali. Inoltre, i 17 elementi chimici delle terre rare sono parte fondamentale nella produzione di batterie, microprocessori e circuiti. In un periodo di forte transizione ecologica e di un percorso di transizione digitale ormai intrapreso da tutti i paesi occidentali e paesi in via di sviluppo, chi possiede terre rare è destinato a svolgere un ruolo egemone nei prossimi decenni. Fino ad esaurimento scorte.

Terre rare e luoghi comuni. Giovanni Brussato su Panorama il 17 Gennaio 2023.

Basterà a salvare l'Europa il maxi giacimento trovato in Svezia?

La notizia della scoperta di un enorme giacimento di terre rare in Svezia ha acceso le speranze di ridurre la cronica dipendenza dell’Europa nell’approvvigionamento di materie prime. L’annuncio, dato dalla compagnia mineraria statale svedese LKAB, riguarda il deposito di Per Geijer che si trova nella della contea di Norrbotten, nel nord della Svezia il cui cubaggio, ovvero l’effettiva quantità di minerale presente, non è ancora stato definito ma viene ipotizzato in un milione di tonnellate. I tempi di sviluppo, verrà chiesta quest'anno una concessione di esplorazione, potrebbero richiedere tra i dieci ed i quindici anni. Ma in realtà dietro l’annuncio del deposito c’è una realtà industriale che si sta componendo. E’ di qualche mese fa l’annuncio di LKAB dell’acquisizione della società norvegese REEtec AS che avrebbe sviluppato una tecnologia proprietaria per la produzione ecologica ed efficiente di neodimio e praseodimio, anche noti con la sigla NdPr: questi sono due elementi chiave per la produzione di magneti permanenti, fondamentali, tra l’altro, nell’industria eolica e, soprattutto, nel settore delle auto elettriche. REEtec ritiene di poter competere con la produzione dominante cinese di questi metalli. La fabbrica di REEtec sorgerà a Herøya, in Norvegia e sarà presumibilmente operativa verso la fine del 2027. Fornirà una produzione annua di 720 tonnellate di ossido di NdPr che rappresenta circa il 5% della domanda stimata nell'Unione Europea. Le terre rare che raffinerà sono contenute nei rifiuti minerari delle miniere di ferro della contea di Norrbotten, in prossimità dell’area dove è stato identificato il deposito di Per Geijer. Miniere che sono state coltivate negli ultimi 127 anni con una produzione di oltre due miliardi di tonnellate di minerale di ferro. Si tratta di depositi di un minerale, la magnetite-apatite, che è stata la principale fonte di ferro dell'Unione Europea, e sono sfruttati da LKAB in diverse miniere nell'area di Kiruna un'importante provincia mineraria dominata da depositi di ferro e rame. Le terre rare si estrarranno semplicemente riciclando e raffinando gli sterili minerari, cioè la porzione di roccia che non contiene il minerale di ferro e viene classificata come rifiuto. Contenuti elevati di elementi delle terre rare nei minerali di ferro della Svezia settentrionale sono stati notati e studiati sin dagli anni '60. Quello che si ripromette, lodevolmente, di fare oggi LKAB è di creare un parco industriale a Luleå, nel nord della Svezia, dove trattare gli sterili ed estrarre un concentrato di terre rare che andrà alla fabbrica di REEtec in Norvegia. Lo scarso contenuto di metalli delle terre rare a Kiruna non ne giustificherebbe l'estrazione primaria ma sfruttando l’economia circolare, una delle soluzioni indicate dalla Commissione Europea per superare la dipendenza da Pechino, si produrrà una materia prima di cui l’Europa oggi è priva. La recente scoperta del deposito di Per Geijer acquisisce pertanto ulteriore valore: sarà inserita in un ecosistema industriale già sviluppato. Anche perché gli elementi delle terre rare di Per Geijer si trovano nella magnetite-apatite, in quello che è principalmente un deposito di minerale di ferro e che quindi vedrà le terre rare estratte come sottoprodotto con le medesime tecniche. Le terre rare presenti a Kiruna sono cerio, lantanio, neodimio, praseodimio ed ittrio ed è facilmente ipotizzabile siano le stesse presenti nelle mineralizzazioni di Per Geijer. Sono contenute all’interno di un minerale noto come monazite, presente in piccolissime inclusioni di forma allungata, all'interno dei cristalli di apatite, la cui dimensione massima è pari a 0,08 millimetri. Secondo LKAB le risorse minerarie di metalli delle terre rare a Kiruna sono 1,4 miliardi di tonnellate con un contenuto medio di 163 grammi per tonnellata. Quindi la riserva in posto è di circa 228.000 tonnellate con grande prevalenza di cerio e lantanio il cui interesse commerciale non è particolarmente elevato. Quello che concretamente interessa è il contenuto di neodimio e praseodimio, stimabile in circa cinquantamila tonnellate. REEtec, quindi, produrrà ossido di neodimio e praseodimio, ma questo è solo uno stadio intermedio della catena del valore nella produzione di magneti: i maggiori incrementi di valore si verificano negli stadi successivi con la conversione degli ossidi in metalli e leghe e quindi con i magneti sinterizzati al neodimioferro-boro, in sigla NdFeB. E’ lecito chiedersi chi utilizzerà gli ossidi di NdPr prodotti da REEtec. Perché la domanda europea in questo momento è probabilmente una frazione di ciò che REEtec vuole ottenere. In Europa, di produttori di magneti, c’è solo la Vacuumschmelze, un’azienda tedesca di proprietà di una società di private equity statunitense, Apollo, che, insieme alla sua controllata finlandese Neorem, è l'unico produttore di magneti sinterizzati sopravvissuto in Europa. Si stima che la produzione effettiva di Vacuumschmelze sia solo di poche centinaia di tonnellate di magneti permanenti per l'ex proprietario, Siemens. Certamente non in grado di sostituire le importazioni cinesi di magneti permanenti nel Vecchio Continente che, nel 2021, sono state di 18.000 tonnellate. Un’altra domanda da porsi è se REEtec riuscirà a vincere la sfida dei prezzi. Analisi rivelano che è necessario un prezzo di circa $ 150 al chilogrammo per l’ossido di NdPr per giustificare l'ampiezza degli investimenti dal lato dell'offerta. Cifra sensibilmente superiore a quella attuale del mercato cinese, perché per quanto nel complesso parte del minor costo che la Cina è in grado di ottenere è il risultato di standard di salute e sicurezza ambientale meno rigorosi, è anche vero che oggi non è più il fattore prevalente: l'elaborazione cinese ha comunque un’efficienza superiore. Saranno quindi, necessarie scelte politiche per evitare approcci improntati al massimo ribasso, come talora accade da parte delle aziende automobilistiche, e sostenere lo sviluppo della filiera. E quello degli standard ambientali è un altro dei problemi con cui dovrnno confrontarsi LKAB e REEtec, perché nella monazite di Kiruna sono presenti torio e, in quantità minori, uranio. Un concentrato di terre rare elaborato eticamente in uno stabilimento dove il trattamento dell'acqua gestisce in forma sicura i nuclidi radioattivi comporterà un impatto sul prezzo finale. E’ noto come questi processi siano altamente inquinanti e dopo l’Occidente anche la Cina adesso sta esternalizzando i costi ambientali che ha dovuto sopportare per diventare la fabbrica del mondo. Nel 2015, oltre il 90% di tutti gli ossidi di terre rare leggere prodotti in Cina derivavano da materie prime estratte a livello nazionale: dal 2021 questa quota è scesa al 70% e questa tendenza è in aumento. Non a caso la Cina, nel 2015, ha introdotto normative ambientali che hanno reso meno redditizio estrarre questi minerali sul suolo cinese. In definitiva, come sottolinea la stessa LKAB, poiché l'Europa non estrae questi materiali e ha solo una capacità di lavorazione marginale, la collaborazione di LKAB e REEtec segna l'inizio di qualcosa di nuovo in Europa. Ma questo progetto è, per l’appunto, solo un inizio. Si consideri che, per quanto la questione sia controversa, la Cina rilascia ogni anno più brevetti di terre rare rispetto al resto del mondo e le domande di brevetto sono un indicatore della spesa in ricerca e sviluppo e possono prefigurare i progressi incrementali e di prossima generazione nei prodotti derivati dalle terre rare della Cina. Una supply chain europea dei magneti permanenti richiederà molto di più della scoperta del deposito di Per Geijer.

In Svezia scoperto il più grande giacimento di terre rare d'Europa: sono gli elementi chimici essenziali per produrre microprocessori e batterie. Michela Rovelli su Il Corriere della Sera il 12 Gennaio 2023.

Sono stati scoperti filoni minerari di più di un milione di tonnellate di ossidi di terre rare, gli elementi naturali cruciali per la fabbricazione della maggior parte delle componenti tecnologiche, come i microprocessori e le batterie

In Svezia è stato scoperto un nuovo giacimento di terre rare, quel gruppo di elementi chimici necessari per la produzione di tutti i dispositivi elettronici che usiamo quotidianamente, dallo smartphone in giù. Il giacimento si trova nella regione settentrionale di Kiruna e promette di essere il più grande mai rilevato in Europa. Per la precisione - rende noto la compagnia di stato Lkab - dai filoni minerari individuati si potrà ricavare più di un milione di tonnellate di ossidi di terre rare. «È una buona notizia, non solo per Lkab, la regione e per gli svedesi ma anche per l'Europa e per il clima», ha spiegato l'azienda in un comunicato. 

Perché è una buona notizia? Oltre al rame, all'oro e all'argento, nei nostri smartphone e in tutti gli altri dispositivi elettronici si trova un gruppo di 17 elementi chimici, noti come «Terre Rare». Si chiamano così, anche se in realtà sono elementi molto abbondanti nella crosta terrestre. Ma è molto raro, appunto, che si trovino in grandi depositi concentrati. In particolare sono: erio (Ce), disprosio (Dy), erbio (Er), europio (Eu), gadolinio (Gd), olmio (Ho), lantanio (La), lutezio (Lu), neodimio ( Nd), praseodimio (Pr), promezio (Pm), samario (Sm), scandio (Sc), terbio (Tb), tulio (Tm), itterbio (Yb) e ittrio (Y). Questi elementi sono essenziali per la produzione di microprocessori e batterie, ma anche ad esempio per i motori elettrici, per le loro proprietà magnetiche e di super conduttori. E anche perché hanno permesso di ridurre notevolmente le dimensioni dei dispositivi elettronici. Fondamentale è il riciclo da vecchi dispositivi dismessi - e su questo si stanno muovendo i principali colossi della tecnologia - ma anche la scoperta di nuovi giacimenti come quello svedese.

Le terre rare sulla tavola periodica

Si tratta di un grande giacimento? In realtà non si sa ancora con certezza, dato che gli scavi stanno continuando. «Abbiamo esaminato solo una piccola parte», ha dichiarato Jan Moström, Ceo di Lkab. Il giacimento più grande al mondo si trova in Cina, più precisamente a Baotou, in Mongolia. Da qui si ricavano milioni e milioni di tonnellate. Proprio la Cina è il Paese con la maggiore riserva mondiale: nel 2020 il 60 per cento circa della produzione globale veniva da qui. Secondo i dati del USGS (The United States Geological Survey, un'agenzia federale americana creata nel 1879), il Paese asiatico ha riserve per 44 milioni di tonnellate su un totale, a livello globale, di oltre 115 milioni di tonnellate. Seguono il Vietnam (22 milioni), il Brasile (21 milioni) e la Russia (12 milioni). La scoperta in Svezia rimane comunque un'ottima notizia per il nostro continente, povero di materie prime di questo tipo - soprattutto di terre rare - che possono dare una notevole spinta verso la sostenibilità. Le terre rare infatti vengono utilizzate anche per pannelli fotovoltaici e, come detto, per la produzione di batterie e motori elettrici. 

La Svezia è tra l'altro considerata la patria europea delle terre rare. Il primo giacimento è stato scoperto nel 1787, nei pressi del piccolo villaggio di Ytterby. E proprio quel piccolo insediamento ha dato il nome a quattro degli elementi chimici che fanno parte del gruppo terre rare: Ittrio, Itterbio, Erbio e Terbio. Mentre altre tre - Scandio, Olmio e Tulio - devono il loro nome alla Scandinavia. Dallo stesso giacimento arriva anche il Gadolinio.

Tornando al tema ecologico, non è così semplice estrarre le terre rare, soprattutto nelle fasi di estrazione e raffinamento, come spiega Erion, il consorzio che si occupa del recupero dei rifiuti elettronici. L'estrazione e il raffinamento sono le due fasi più delicate, perché generano diversi scarti tossici. Poi ci sono anche rischi come l'erosione del suolo, la perdita di biodiversità e l'inquinamento idrico. «È stato calcolato che la lavorazione di una tonnellata di metalli delle terre rare produce circa 2.000 tonnellate di rifiuti tossici», spiegano sul sito.

Terre rare, la scoperta che potrebbe staccarci dalla Cina. In Svezia è stato scoperto il più grande giacimento di terre rare in Europa. Redazione su nicolaporro.it il 13 Gennaio 2023.

Novità importanti, quelle che arrivano dalla Svezia, dove il governo di Stoccolma ha annunciato la scoperta del più importante giacimento di terre rare in Europa, rivenuto a 150 chilometri a Nord del circolo polare artico, in una regione svedese tradizionalmente mineraria. La scoperta pare essere una svolta per l’intero continente, e questo in particolare per il ruolo decisivo che le terre rare svolgono nella produzione di elementi altamente tecnologici, come le batterie.

Fino ad oggi, la Cina risulta essere stato il principale Paese esportatore di terre rare in Europa, fino a sfondare quota 91 per cento. Eppure, nonostante l’ultima scoperta, c’è il rischio che questa fortissima dipendenza possa ancora prolungarsi nel tempo. A causa dei numerosi iter autorizzativi per lo sfruttamento di queste risorse, c’è il serio pericolo che se ne possa parlare addirittura tra 10 o 15 anni, rischiando di ingrassare ulteriormente la casse e le esportazioni del regime di Pechino.

Lo ha specificato l’ad della società pubblica mineraria svedese, Jan Moström, al Sole 24 Ore, rimanendo però ottimista sulla possibilità di abbreviare radicalmente i tempi burocratici: “Gli iter sono stati messi a punto quando avevamo il lusso di poter aspettare. Oggi, c’è urgenza di sfruttare il giacimento e dobbiamo fare in modo che i tempi autorizzativi vengano diminuiti, sperabilmente del 50-60 per cento”.

Tra le terre rare potenzialmente a disposizione vi sono il litio, lo scandio ed il lantanio, anche se non si conoscono ancora i costi di sfruttamento e le effettive dimensioni delle riserve: “Potremo avere stime precise solo tra uno o due anni”, ha aggiunto l’amministratore delegato.

Nonostante tutto, il via libera per l’inizio dei lavori è già arrivato. Come specificato dal Sole 24 Ore: “La società sta già costruendo un tunnel sotterraneo per collegare le nuove riserve con il giacimento di ferro di Kiruna, che le autorità svedesi stanno sfruttando dall’inizio del Novecento e che ha portato alla nascita della città, oggi abitata da circa 20mila anime”. E ancora: “Sempre secondo le autorità svedesi, la nuova scoperta potrebbe essere sufficiente per rispondere alla domanda europea dei magneti permanenti, utilizzati nella produzione di motori elettrici”, un altro settore dove la Cina si sta rivelando – tanto per cambiare – il più grande produttore mondiale.

Terre rare in Svezia: un’opportunità per l’Europa? Andrea Muratore su Inside Over il 13 Gennaio 2023.

La compagnia di estrazione svedese Lkab ha annunciato nella giornata del 13 gennaio la scoperta del più grande deposito europee di terre rare nella regione di Kiruna, cittadina nel Nord del Paese vicino al confine con la Norvegia.

Il ministro dell’Industria del governo svedese di centrodestra Ebba Busch ha dichiarato che “l’elettrificazione, l’autosufficienza e l’indipendenza dell’Ue da Russia e Cina inizieranno nella miniera”. Propositi importanti per una nazione che vuole essere avanguardia comunitaria nella transizione energetica e che richiama al fatto che nella partita odierna per le tecnologie di frontiera la sfida del controllo dei giacimenti dei materiali critici è la vera sfida.

La scoperta del colosso di Stato svedese aggiunge prospettive all’autonomia di sistema europea e dà un indirizzo chiaro alla politica industriale del Vecchio Continente che ha la prima, credibile speranza di autonomia strategica sul fronte delle terre rare, decisive per la realizzazione di dispositivi come le batterie e gli accumulatori. Ma non sarà un processo breve. Lkab, nota Deutsche Welle, “prevede di presentare una domanda per una concessione di sfruttamento nel 2023, ma ha aggiunto che probabilmente ci vorranno almeno 10-15 anni prima di poter iniziare a estrarre il deposito e la spedizione al mercato”.

Il fatto sta nella necessità di dover approntare una logistica per lo sfruttamento a pieno titolo del giacimento, ricercare in profondità nel sottosuolo il materiale grezzo, estrarlo e distribuirlo al mercato. Le terre rare si trovano in depositi legati a formazioni rocciose sopraelevate o sottomarine che devono essere esplorate in forma invasiva per estrarre i preziosi elementi.

La “rarità” di questi elementi non sta infatti nella loro scarsità nella crosta terrestre, ma nella carenza di giacimenti sfruttabili in tempi brevi e ottimali. Ragion per cui la scoperta di Lkab appare capace di aprire a prospettive operative tutt’altro che secondarie. Anche se del giacimento, chiaramente, andranno valutate portata, prospettive estrattive e dinamiche di mercato.

Le prime stime parlano di un milione di tonnellate: bisognerà capire quante di queste terre rare saranno estraibili in forma non eccessivamente costosa in tempi ragionevoli e se effettivamente l’impianto avrà le dimensioni dei più grandi giacimenti che si trovano in Cina, Russia, Australia o si preferirà, per accelerare i tempi, operare su scala e matrice più ridotta.

In secondo luogo, va sottolineato il fatto che molto dipenderà dall’atteggiamento del governo di Stoccolma verso la sua politica industriale futura. La Svezia ha un colosso delle tlc attivo nel 5G e nelle reti di ultima generazione come Ericsson pronto a essere alimentato con i nuovi prodotti dell’estrazione nazionale, ma a sua volta è perfettamente inserita nel mercato mondiale e non è detto che voglia mettere, in futuro, al servizio dell’industria europea le sue terre rare. La geoeconomia insegna che chi ottiene un controllo strategico su una risorsa è preso da un comprensibile “sacro egoismo” che può uscire allo scoperto se, al momento dell’entrata in opera del giacimento, la percezione di una minaccia russa o cinese sarà meno cogente.

In terzo luogo, c’è il problema ambientale legato al processo industriale. La Svezia è una delle nazioni a più alta attenzione verso il tema della sostenibilità e l’enorme costo ecologico dell’estrazione di terre rare non potrà non suscitare polemiche nel contesto della civile nazione nordica. Inoltre, nessuno ha fatto i conti senza l’oste della collettività locale di Kiruna, città in passato al centro dell’industria del ferro svedese, le cui attività in passato hanno costretto a spostare di ben 3 km le case della città a causa degli effetti sul terreno dovuti all’attività mineraria. Dunque, parliamo di una grande opportunità strategica per l’Europa che sarà, però, in piena disponibilità svedese negli anni a venire. E prima di abbandonarsi a facili entusiasmi circa una presunta “indipendenza” bisognerà capire come Stoccolma vorrà sfruttare (e se vorrà farlo) questo giacimento. E soprattutto se al momento dell’entrata in operatività del giacimento l’Europa avrà le politiche industriali necessarie a sfruttarne il potenziale. Dieci-quindici anni, in questa fase, sono un orizzonte troppo lungo per provare a rispondere a tali domande.

Ambientalisti uccisi a sangue freddo: bloccavano la strada per protestare, finiti a colpi di pistola da un 77enne. La manifestazione contro una miniera di rame andavano avanti da tempo. "Oggi la finiamo con questa storia", avrebbe detto l'uomo accusato. È uscito dall'auto, ha tirato fuori la pistola e ha sparato. Due morti. Le immagini sconvolgenti. Redazione Web su L'Unità il 10 Novembre 2023

È uscito dalla macchina, ha provato a convincere i manifestanti a spostarsi, forse li ha minacciati, avrebbe tirato fuori una pistola e sparato. Due ambientalisti sono morti sulla Pan American Highway, nella città di Chame, nella provincia Panama Oeste, uccisi a colpi d’arma da fuoco. Accusato un uomo di  77 anni, Kenneth Darlington, che è stato subito arrestato dalla polizia. Da almeno due settimane sull’autostrada si tenevano manifestazioni di ambientalisti. Quella del blocco delle strade è una modalità di protesta diventata sempre più frequente negli ultimi anni da movimenti ambientalisti, contrari allo sfruttamento delle fonti fossili.

La CNN ha ricostruito come gli ambientalisti stessero protestando contro la firma di un contratto, da parte dell’amministrazione di Panama City, che permette alla società canadese First Quantum Minerals di far tornare operativa, almeno per i prossimi 20 anni, una miniera di rame a cielo aperto circondata dalla foresta pluviale, in cambio di un canone annuale di 375 milioni di dollari. Un accordo che per il governo porterebbe alla creazione di migliaia di posti di lavoro. Secondo i manifestanti la miniera potrebbe contaminare l’acqua potabile.

La protesta e gli omicidi

Kenneth Darlington, 77 anni di origini statunitensi ed ex professore della Florida State University, stava guidando sulla panamericana quando all’altezza di Quesos Mili si è dovuto fermare: il traffico era bloccato dalla protesta. La scena terribile e assurda è stata ripresa da un reporter dell’agenzia EFE. Le immagini mostrano l’uomo che scende dall’auto, parla con i manifestanti, rimuove alcuni oggetti che bloccavano la strada, tira fuori una pistola dalla tasca e spara davanti a tutti i presenti. Abediel Díaz, manifestante disarmato e a volto scoperto, è morto sul selciato. Iván Rodríguez Mendoza è morto nel viaggio verso l’ospedale policlinico Juan Vega Méndez di San Carlos.

Darlington è stato subito arrestato e portato alla stazione di Chame. L’uomo secondo il quotidiano panamense La Prensa era stato portavoce della società The Harris Organization, che si dedicava al mercato azionario negli anni ’90, nel 2005 era stato arrestato con un ex collaboratore in un appartamento a Paitilla dove furono sequestrati armi e fucili militari. Era stato condannato nel 2006 a 32 mesi di carcere per possesso illegale di armi prima che venisse assolto dalla Corte Suprema di Giustizia in quanto le armi facevano parte della collezione personale dell’imputato.

La ricostruzione

Secondo quanto ricostruito da La Estrella de Panama l’uomo avrebbe detto alla compagna e a un’altra donna che viaggiavano con lui: “Oggi la finiamo con questa storia”. Dopo aver esploso il primo colpo avrebbe continuato a liberare la strada prima di esplodere un altro colpo. La sua compagna avrebbe disobbedito al suo ordine di mettere in moto e ripartire dopo l’accaduto e avrebbe chiamato la polizia. È destinatario di una misura di carcerazione preventiva valida per tutta la durata delle indagini. Ha detto di essere depresso perché aveva appena portato il suo cane da un veterinario per l’abbattimento. La difesa ha fatto ricorso contro la decisione adducendo motivazioni come l’età avanzata dell’uomo e il suo stato mentale. La famiglia di Mendoza ha denunciato Darlington. Redazione Web 10 Novembre 2023

"Crollano i morti per il clima", lo scienziato anti-Greta che smonta gli estremisti green. Storia di Roberto Vivaldelli su Il Giornale il 3 Gennaio 2023.

Bjorn Lomborg è tutto fuorché un pericoloso "sovranista" o "negazionista" del clima. Ambientalista, verde, omosessuale, progressista, vegetariano, lo scienziato danese ha smontato, in un recente thread pubblicato su Twitter, la narrazione catastrofista del climaticamente corretto che ha prodotto il fenomeno Greta Thunberg, oltre alle sigle radicali come Extinction Rebellion e Ultima Generazione. Come spiega lo studio di Lomborg, infatti, contrariamente alla tendenza allarmistica prevalente nel mondo della scienza e dei media, il bilancio delle vittime dei disastri climatici è in calo precipitoso dal 1920. "I disastri legati al clima hanno ucciso sempre meno persone nel 2022, il 97,6% in meno rispetto a un secolo fa. Società più ricche e più resilienti riducono le morti in caso di calamità", ha scritto Lomborg. “Perché questo non viene segnalato? osserva. Al contrario, i media continuano a parlare dl catastrofismo climatico, mentre assistiamo a "una spettacolare riduzione del 99,4% delle vittime legate al clima dagli anni '20 al 2022", ha rimarcato lo scienziato. Già, perché questo "dettaglio" non viene mai menzionato e ci viene detto che il pianeta collasserà a causa dei cambiamenti climatici?

Con il bombardamento mediatico a cui assistiamo, da anni, rispetto al catastofismo climatico è difficile credere alle parole di Lomborg. Eppure i dati sono chiari."Negli anni '20, il numero di morti per disastri legati al clima era in media di 485.000 ogni anno. Nell'ultimo decennio, (2010-2019), la media è stata di 18.362 morti all'anno, ovvero il 96,2% in meno", ha osservato lo studioso. Il trend è in costante calo, dunque. Nel 2021, infatti, i decessi sono scesi legati al clima ancora fino a raggiungerequota 7.705, ovvero il 98,4% in meno rispetto al 1920. "Per il 2022, ormai concluso, assistiamo al proseguimento di questo bassissimo numero di decessi: 11.873 pari al 97,6% di decessi in meno rispetto alla media degli anni '20 ”, ha sottolineato il ricercatore. È vero che alcune delle principali calamità climatiche si sono verificate nel 2022, da qui il leggero aumento rispetto al 2021.

Tuttavia, nota Lomborg, delle prime due, quelle più mortali, molto probabilmente in pochi ne hanno sentito parlare sulla stampa: parliamo di una carestia che ha ucciso 2.465 persone in Uganda, lo scorso luglio, e successivamente, le forti piogge che hanno provocato la morte di 2.035 persone in India durante l'estate. "L'elenco totale dei disastri mortali [nel 2022] ha altre 219 voci, tutte catastrofi, tutte terribili. Eppure, in sintesi, molto, molto inferiore a quello che era una volta", ha scritto il ricercatore.

Lo studio

Secondo quanto riferito dal ricercatore danese, i dati provengono "dal database globale più autorevole, l'International Disaster Database". Che si tratti di inondazioni, siccità, tempeste, incendi o temperature estreme, "circa il 98% in meno di persone sono morte nel 2022 rispetto a cento anni fa", ha continuato il ricercatore in un post su Facebook. "È risaputo che le morti legate al clima stanno diminuendo per quasi tutte le categorie, sia per i paesi ricchi che per quelli poveri". C'è solo una categoria di morti legate al clima che è aumentata in questi anni ed è quella legata alle ondate di calore. "Ci viene costantemente detto che l'umanità si stia dirigendo verso il collasso climatico come dimostrato dal Pakistan e da altre catastrofi - senza dircelo: morti in calo del 99% +", ha scritto Lombrog. "Si spaventano bambini e adulti. No, non è un buon modo per informarci".

Lomborg non è certo il primo scienziato a opporsi alla narrazione del catastrofismo climatico, diventata una vera e propria religione incontestabile, un dogma indiscutibile sull'altare della "verità scientifica". Tra gli scienziati di fama internazionale che hanno messo in discussione il pensiero unico sul clima ci sono Franco Prodi, fratello dell'ex premier Romano Prodi, nonché fisico, metereologo docente presso l'Università degli Studi di Ferrara ed ex direttore dell'Istituto di Scienze dell'Atmosfera e del Clima del Cnr, il docente di Chimica Fisica presso l'Università di Modena Franco Battaglia e il fisico Antonino Zichichi. Ciò che si contesta, è bene sottolinearlo, non sono tanto i cambiamentli climatici in sé, ma la loro causa, poiché l’origine antropica del riscaldamento globale è dedotta solo da alcuni modelli climatici che sono tutto tranne che una verità certa e incontestabile. E poi sarebbe davvero il caso di finirla una volta per tutte con il catastrofismo, che come spiega Lomborg, non rappresenta un'informazione corretta ma solo un allarmismo deleterio.

Greta Thunberg.

I Deliri.

I Martiri.

Gli Ecosessuali.

Gli Ecovandali.

Greta Thunberg.

Greta schierata contro Israele spacca i verdi tedeschi. Bufera a Berlino dopo le dichiarazioni della Thunberg. E gli attivisti di Friday for future si dissociano dalla pasionaria. Francesco De Felice il 28 Ottobre 2023 su Il Giornale.

I razzi lanciati da Hamas contro Israele hanno colpito anche «Fridays for Future», aprendo una spaccatura tra l'Internazionale per il clima e la sua sezione in Germania. Nel Paese dove i Verdi sono al governo con la SPD e la FDP e dove il sostegno a Israele è «ragion di Stato» per il cancelliere Olaf Scholz, il messaggio su X con cui Greta Thunberg (nella foto) solidarizza esclusivamente con la causa palestinese ha provocato indignazione generale. Altrettanto criticato è stato il comunicato con cui gli ecoattivisti accusano Israele di colonialismo e di genocidio dei palestinesi. La risposta del presidente del Consiglio centrale degli ebrei in Germania (ZdJ), Josef Schuster, è stata perentoria: Fridays for Future Deutschland deve dissociarsi «veramente», cambiare nome, «rompere ogni contatto» con Thunberg e Fridays for Future International. Per il presidente dello ZdJ, il movimento di Thunberg è responsabile di «una grossolana distorsione della storia», della «demonizzazione di Israele» ed è imbevuto della «ideologia del complotto» ebraico. Contro Greta e i suoi si sono scatenate le critiche al Bundestag, dall'intero emiciclo. Deputata della SPD, Katja Mast ha dichiarato che, non per la prima volta, Fridays for Future International «richiama l'attenzione con dichiarazioni anti-israeliane». Ora, «devono esserci conseguenze chiare in Germania e nessuna alzata di spalle», con «una presa di distanze e un rimprovero inequivocabile» da parte di Fridays For Future Deutschland. A sua volta, il vicecapogruppo della FDP Lukas Köhler ha affermato che gli ecoattivisti tedeschi devono «prendere completamente le distanze» da Greta e i suoi. Critiche anche dal deputato dei Verdi Marcel Emmerich. Secondo l'esponente degli ecologisti, Fridays for Future Deutschland ha «ripetutamente condannato l'antisemitismo» e si è distanziato dal movimento internazionale anche nelle sue dichiarazioni di solidarietà unilaterale alla causa palestinese. Tuttavia, Fridays for Future International diffonde «le peggiori teorie del complotto antisemita». Dall'opposizione, la vicecapogruppo dei nazionalconservatori di AfD Beatrix von Storch ha dichiarato che, fin quando Fridays for Future Deutschland «non romperà apertamente e definitivamente con Greta Thunberg e la sezione internazionale», la sua presa di distanze dall'antisemitismo «non è credibile». Guidati da Luisa Neubauer, gli attivisti per il clima tedeschi si sono ufficialmente dissociati da Fridays for Future International.

Greta Thunberg è stata arrestata a Londra durante una manifestazione. Il Domani il 17 ottobre 2023

Gli attivisti protestavano contro l’Energy Intelligence forum, un convegno a porte chiuse che unisce decisori e lobbisti del settore energetico. Nei mesi scorsi l’attivista era stata fermata anche in Svezia, Norvegia e Germania

L’attivista Greta Thunberg è stata fermata dalla polizia britannica a Londra, durante una protesta di ambientalisti contro l’Energy Intelligence forum, un convegno che unisce decisori e lobbisti del settore energetico. Alcune centinaia di manifestanti hanno bloccato tutti gli ingressi dell'hotel vicino ad Hyde Park che ospita la conferenza. Thunberg è stata caricata su un furgone delle forze dell’ordine.

Non è la prima volta che viene arrestata, negli ultimi mesi era già successo in Svezia, Norvegia e Germania. A inizio anno, ad esempio Thunberg era stata fermata nel paesino tedesco di Lützerath, dove stava partecipando a una manifestazione contro l’espansione di una miniera di carbone. Dopo che era stata arrestata, aveva scritto su Twitter: «La protezione del clima non è un crimine».

Copione molto simile ad Oslo, a marzo, quando gli attivisti stavano protestando per chiedere la rimozione delle turbine eoliche dai pascoli delle renne in Norvegia, bloccando l’accesso a diversi edifici governativi. In estate a Malmö, in Svezia, aveva bloccato le petroliere nel porto.

Renne e mulini a vento. In Norvegia Greta Thunberg protesta contro le pale eoliche. Enrico Varrecchione su L'Inkiesta il 18 Ottobre 2023

L’attivista svedese e i giovani ecologisti locali sono al fianco degli allevatori Sámi dopo una sentenza della Corte Costituzionale in loro favore. La demolizione del parco eolico di Fosen, però, costerebbe uno sproposito ed è avversata dall’establishment politico

Di fronte al Parlamento norvegese, ormai da mesi, stazionano tende tipiche del popolo Sámi e, attorno a loro, sciamano giovani vestiti con il kofte, un vestito blu con ricami gialli e rossi, emblema della loro identità. Assieme a loro si è spesso vista Greta Thunberg. Anche la scorsa settimana, l’attivista svedese per la lotta al cambiamento climatico ha partecipato a Oslo a una protesta contro la presenza delle pale eoliche a Fosen, nella regione del Trøndelag.

Lo avessero detto quattro anni fa, nel mezzo del suo sciopero per il clima, non ci si sarebbe creduto: Greta Thunberg contro una fonte di energia rinnovabile. Tra l’altro, proprio ieri Thunberg è stata fermata a Londra durante un picchetto contro i colossi petroliferi.

Ovviamente, la questione è molto meno semplice di così e riguarda una serie di elementi legati allo stato di diritto e al rispetto dell’autodeterminazione del popolo Sámi, ma il risultato paradossale è che la paladina della lotta al cambiamento climatico si sia idealmente schierata contro una forma di energia rinnovabile e a favore dell’allevamento di renne, una pratica che comporta la macellazione di oltre settantamila esemplari all’anno, secondo l’organizzazione norvegese Matprat.

Pesa sulla sostenibilità anche l’utilizzo di motoslitte e talvolta di elicotteri da parte degli allevatori per gli spostamenti su lunghe distanze. A dispetto dei numeri e della sostenibilità, la macellazione di renne equivale a meno dell’uno per cento della produzione nazionale di carne.

A questo, si aggiunge un elemento legato alla narrazione della stessa Thunberg, che ha posto gli interessi dei popoli indigeni in cima alle sue prerogative. 

Breve storia del popolo Sámi

Per raccontare l’intera vicenda, bisogna andare con ordine e partire da un periodo molto lontano: l’allevamento e la pastorizia delle renne sono una delle attività che contraddistinguono l’identità dei Sámi, una popolazione indigena che abita le aree più settentrionali di Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, storicamente discriminata e soggetta a politiche di assimilazione che sono perdurate nel corso del tempo.

In Norvegia, i Sámi iscritti al registro della popolazione (e che quindi hanno diritto di voto negli organi di autogoverno) sono circa ventimila, ma alcune stime indicano che le persone con antenati Sámi potrebbero essere almeno il doppio. I Sámi sono la maggioranza della popolazione in cinque dei diciotto comuni che compongono la regione settentrionale del Finnmark.

Solo negli anni Sessanta le autorità norvegesi hanno concesso l’insegnamento della lingua Sámi nelle scuole e nel 1997 Re Harald ha riconosciuto la loro identità come componente della nazione norvegese in un celebre discorso, scusandosi per le pratiche di assimilazione.

Nel 2016 è stata avviata la costruzione di un parco eolico a Fosen, trenta chilometri in linea d’aria da Trondheim: il parco eolico di Fosen è il più grande d’Europa fra quelli situati sulla terraferma, produce 2,6 terawattora all’anno, che equivalgonoa circa il dieci per cento della produzione eolica italiana, ed è regolarmente in funzione dal 2021.

Renne e pale eoliche

L’area di Fosen è parte integrante del territorio di pascolo delle renne, un’area che corrisponde a circa il quaranta per cento di tutta la Norvegia. Per questo motivo, gli allevatori di renne si sono rivolti a un tribunale che nel 2020 ha riconosciuto un indennizzo di ottantanove milioni di corone (quasi otto milioni di euro) ai proprietari danneggiati dalla costruzione del parco eolico.

Pur trattandosi di una somma record, i proprietari di renne (e, per ragioni opposte, l’azienda statale Statkraft che gestisce il parco eolico) hanno presentato ricorso alla Corte costituzionale che ha riconosciuto una violazione della Convenzione Onu per i diritti civili e politici, dichiarando illegali gli espropri.

Il ministro per l’Energia Terje Aasland (dei Laburisti), subentrato pochi giorni dopo la sentenza dopo la vittoria del suo partito alle elezioni di due anni fa, ha assunto il ruolo di mediatore con l’obiettivo di trovare un accordo sulla compensazione da parte dello Stato per i proprietari di renne, ribadendo la propria posizione durante un’interpellanza della parlamentare socialista Kathy Lie la settimana scorsa. Sulla stessa linea d’onda è la leader dell’opposizione ed ex premier conservatrice Erna Solberg, sotto il cui governo erano state rilasciate le concessioni e avviati i lavori.

Re Harald riceve gli attivisti

«A Fosen è in corso una mediazione fra le parti e il dipartimento per il Petrolio e l’Energia ha preso iniziativa con un gruppo di lavoro guidato dal mediatore di Stato Mats Ruland. Sono felice che gli allevatori di renne abbiano deciso di partecipare. Credo che una soluzione mediata sia la via più rapida verso l’obiettivo di garantire il pascolo nell’area di Fosen e un futuro per i giovani allevatori. Per raggiungere una decisione definitiva è importante utilizzare una prospettiva generazionale», ha riferito il ministro Aasland in Parlamento.

A partire dal cinquecentesimo giorno dalla sentenza della Corte Costituzionale, gli attivisti Sámi hanno protestato duramente, arrivando ad occupare numerose sedi ministeriali nel mese di febbraio e la settimana scorsa il Parlamento.

Durante le precedenti occupazioni Greta Thunberg era stata allontanata dalla polizia, ma l’attivista svedese non ha desistito e ha partecipato anche alle più recenti iniziative, tornando a Oslo giovedì scorso. Lunedì si è tenuta un’udienza dei manifestanti con Re Harald, un incontro simbolicamente rilevante, ma che potrebbe avere una valenza politica nel caso il sovrano dovesse porre la questione durante uno di suoi incontri con il governo, programmati ogni venerdì.

Conflitto di interessi

A fianco dei Sámi si schiera l’organizzazione Natur og Ungdom (Natura e Giovani), di cui è coordinatrice Gina Gylver: «La mediazione in generale può essere una buona soluzione, ma in questo processo è basata su premesse errate», spiega la giovane attivista. «Lo Stato ha ignorato per oltre cinquecento giorni una sentenza della Corte Costituzionale e gli allevatori di renne sostengono di trovarsi di fronte a un muro, di non essere presi sul serio. Che lo Stato si sia inserito in questa trattativa crea uno squilibrio, specialmente quando sono coinvolti gli interessi economici delle aziende energetiche». La soluzione? «Noi siamo al fianco degli allevatori di renne e la loro volontà è la demolizione del parco eolico. Cambieremo la nostra posizione solo se la cambieranno loro».

C’è, tuttavia, il paradosso di un’organizzazione ecologista che protesta contro l’installazione di una fonte di energia rinnovabile: «La nostra società sta attraversando un enorme cambiamento, ma dobbiamo essere chiari sulle premesse: non è accettabile che la società del futuro sia costruita sulla violazione dei diritti umani», continua la coordinatrice.

«Il movimento ecologista spesso ha avuto difficoltà a difendere gli interessi dei popoli nativi e abbiamo cambiato il nostro atteggiamento perché essi sono doppiamente colpiti dai cambiamenti climatici, prima dai suoi effetti e poi dal fatto che devono farsi loro carico delle azioni da intraprendere per fermarlo», conclude Gylver.

L’impatto economico di un’eventuale demolizione è stato calcolato dal quotidiano Nettavisen, che ha stimato un costo di circa tre milioni di corone (circa duecentosessanta mila euro) per ogni esemplare di renna presente nell’area di Fosen in rapporto alle centocinquantuno turbine che andrebbero rimosse. 

"Resistenza all'arresto": c'è la data per il processo a Greta Thunberg. Accusata di resistenza all'arresto, l'attivista svedese è attesa in tribunale il prossimo 27 settembre. Federico Garau il 15 Settembre 2023 su Il Giornale.

Greta Thunberg sul banco degli imputati il prossimo 27 settembre. Accusata del reato di resistenza all'arresto, la giovane attivista svedese famosa in tutto il mondo è attesa in un'aula del tribunale di Malmö (Svezia), dove dovrà difendersi dalle accuse mosse contro di lei relativamente ai fatti avvenuti lo scorso 24 luglio.

La protesta e il blocco del traffico

A luglio scorso Greta Thunberg e alcuni altri attivisti pro-clima del movimento Reclaim the Future avevano messo in scena una protesta nella città portuale di Malmö. Nel portare avanti la loro manifestazione, fra l'altro non autorizzata, i ragazzi crearono non pochi problemi al traffico verso il porto della cittadina svedese.

Gli agenti della polizia si videro costretti a intervenire, spostando i giovani dalla strada così da permettere nuovamente la circolazione dei veicoli. Una scena già rivista nel mese di giugno, per la precisione il 19, quando la Thunberg venne addirittura portata via di peso dalla strada e le sue foto fecero il giro del web.

"È vero che ero in quel posto quel giorno, ed è vero che ho ricevuto un ordine che non ho ascoltato, ma voglio negare il crimine, perché le mie azioni sono giustificabili", era stata la spiegazione della 20enne davanti al giudice di Malmö, all'udienza del 24 luglio. "Credo che ci troviamo in un'emergenza che minaccia la vita, la salute e le proprietà. Innumerevoli persone e comunità sono a rischio sia a breve sia a lungo termine", aveva aggiunto, come riportato dal quotidiano Sydsvenskan.

"Non ascoltò gli agenti", Greta Thunberg condannata per la protesta a Malmö

A luglio la Thunberg riuscì a evitare il carcere per i fatti del 19 giugno, ma venne condannata a pagare una multa di 2.500 corone svedesi (circa 216 euro). Indifferente al provvedimento, inscenò un'altra protesta, per la quale ora affronterà delle conseguenze.

Il nuovo processo

I guai giudiziari per la ragazzina svedese, dunque, non sono finiti. È infatti scattata nei suoi confronti anche l'accusa di resistenza all'arresto, reato sempre connesso al blocco del traffico. Il procuratore Isabel Ekberg ha ribadito che la manifestazione non era autorizzata, specificando, come riportato da Skytg24, che "la ragazza si è rifiutata di obbedire all'ordine della polizia di lasciare il posto".

Greta Thunberg è dunque attesa il prossimo 27 settembre per l'avvio del nuovo processo che la vede imputata.

"Non ascoltò gli agenti", Greta Thunberg condannata per la protesta a Malmö. Storia di Federico Garau Il Giornale il 25 luglio 2023.

L'attivista svedese Greta Thunberg condannata a pagare una sanzione di 2.500 corone svedesi (circa 216 euro) per non aver dato ascolto agli agenti delle forze dell'ordine durante una delle sue manifestazioni pro-clima. La sentenza è arrivata oggi, e ad emetterla è stato il tribunale di Malmö, in Svezia, luogo in cui si è verificato l'episodio che ha portato la giovane davanti al giudice.

La protesta al porto

Lo scorso 19 giugno, Greta Thunberg e altri eco-attivisti del movimento Reclaim the Future avevano deciso di mettere in scena una protesta presso un impianto petrolifero a Malmö. La manifestazione non era però autorizzata, motivo per cui gli agenti di polizia avevano cercato di far allontanare i ragazzi, che stavano bloccando la strada e dunque il traffico diretto al porto.

Lo scopo dei manifestanti, del resto, era proprio quello: creare dei disagi alla circolazione per portare l'attenzione sul problema dell'inquinamento da fonti di energia non rinnovabili, proprio come il petrolio. Da qui la decisione di impedire lo spostamento dei camion di petrolio. Decisa a non spostarsi, Greta Thunberg era stata presa dagli agenti e portata via di peso. Le immagini di quel momento, immortalato in numerose foto, hanno fatto il giro del web.

"Non ho commesso alcun crimine"

Subito dopo il fermo degli attivisti è cominciato il processo. Quest'oggi si è tenuta l'udienza presso il tribunale di Malmö e, interrogata sui fatti, Greta Thunberg ha ammesso di essersi trovata fra coloro che bloccavano la strada verso il porto, ma ha negato di aver commesso alcun reato.

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"È vero che ero in quel posto quel giorno, ed è vero che ho ricevuto un ordine che non ho ascoltato, ma voglio negare il crimine, perché le mie azioni sono giustificabili", ha dichiarato la 20enne davanti al giudice. La Thunberg ha usato come giustificazione il suo cavallo di battaglia: il cambiamento climatico. "Credo che ci troviamo in un'emergenza che minaccia la vita, la salute e le proprietà. Innumerevoli persone e comunità sono a rischio sia a breve sia a lungo termine", ha infatti spiegato, come riportato dal quotidiano Sydsvenskan.

Greta Thunberg dovrà pertanto pagare una multa di 2.500 corone svedesi, ossia circa 216 euro. Una condanna che non ha minimamente scalfito lo spirito degli eco-attivisti. "Il tribunale può condannare la nostra azione come un crimine ma sappiamo di avere il diritto di vivere e l'industria dei combustibili fossili si frappone a questo", ha infatti dichiarato a AFP la portavoce del gruppo Irma Kjellstrom.

Daniele Dell’Orco per "Libero quotidiano" venerdì 7 luglio 2023.

Greta Thunberg è stata iscritta nel registro degli indagati in Svezia insieme ad altri manifestanti del gruppo ambientalista “Riprendiamoci il nostro futuro”. Qualche settimana fa, l’attivista aveva partecipato ad un’azione di protesta nei pressi del porto petrolifero di Malmö, nel sud della Svezia. 

Stando a quanto dichiarando sul proprio sito dall'organizzazione «il blocco fa parte di una resistenza pacifica all'industria dei combustibili fossili, che minaccia il futuro dei giovani». 

Greta invece, dal canto suo, in merito all'iniziativa twittò: «La crisi climatica è una questione di vita odi morte per innumerevoli persone. Scegliamo di fermare fisicamente le infrastrutture per i combustibili fossili. Rivendichiamo il futuro». 

Fu una scena che piacque molto soprattutto ai poveri camionisti svedesi che si ritrovarono la loro giornata di lavoro rovinata dal nuovo, salvifico gesto di giovani borghesi e annoiati che anziché distruggere le periferie delle città francesi come i coetanei molto meno privilegiati si dannano l'anima per far salire i cinque minuti a chi deve mettere insieme il pranzo con la cena.

LE SANZIONI Il procuratore Charlotte Ottesen, intervistato dall'emittente di servizio pubblico svedese Svt, ha chiarito brevemente: «Thunberg e altre persone sono state coinvolte in una manifestazione a Malmö e hanno interrotto il traffico. La polizia ha chiesto loro di spostarsi e si sono rifiutati». Per questo, la ventenne svedese e gli altri attivisti potrebbero essere condannati ad un risarcimento economico o (caso molto remoto) rimediare fino a sei mesi di reclusione. Cose che oggettivamente non accadono agli ecologisti militanti quando bloccano il raccordo anulare di Roma. 

Non è la prima volta che Greta finisce nei guai per il suo attivismo. Le è già capitato in Germania, ad esempio, lo scoro gennaio, quando a Lützerath venne fermata pervia delle proteste contro l'allargamento di una miniera di carbone. A marzo, invece, venne arrestata due volte a Oslo durante una manifestazione per la rimozione di 151 turbine eoliche dai pascoli di renne utilizzati dai pastori Sami nella Norvegia centrale.

Quest’ultimo fu un fatto curioso, visto che gli ambientalisti protestavano di fatto contro le rinnovabili, perché «la transizione verso l'energia verde non dovrebbe avvenire a spese dei diritti degli indigeni».

Sebbene si sia rifiutata di commentare la notizia della sua incriminazione, ha rilasciato una dichiarazione alla BBC una delle sue adepte, Irma Kjellström, anche lei ventenne, che il 24 luglio comparirà insieme a Greta in Tribunale per rispondere delle medesime accuse: «La polizia mi ha chiesto di lasciare il porto, ma mi sono rifiutata e sono portata via dagli agenti. Abbiamo bloccato il porto per fermare l'uso di combustibili fossili che uccidono persone innocenti ha detto -. I veri crimini continuano all'interno del porto.

Non resteremo seduti ad aspettare che l'industria dei combustibili fossili ci porti via i nostri sogni». 

Alla domanda se fosse preoccupata per le conseguenze del processo, ha risposto: «Personalmente sono più preoccupata per l'orribile danno che l'industria dei combustibili fossili sta facendo al mondo. Non ho intenzione di fermarmi mentre minacciano il pianeta». 

(...)

Il nuovo idolo dei teologi. Greta sacerdotessa cum laude: il green è ufficialmente religione. L’Università di Helsinki ha conferito una laurea teologica honoris causa a Greta Thunberg. Max Del Papa su Nocolaporro.it il 23 Marzo 2023

Uno legge delle cose e assume improvvise mutazioni genetiche. Dr Jeckyll e mr Hyde, Marnie Bannister e Satanik, Tananai e Ozzy Osbourne, il dottor Osbourne e Goblin, il mite cronista e Alberto Sordi: a scemo! A ‘mbecille! Eh, debbono essercene non pochi all’università di Helsinki, e pure questo Tuomas Heikkilä, definito da la Stampa “il maggiordomo del papa”, dev’essere un tipo notevole, a quanto pare un teologo, uno storico finnico, uno capace di simili esplorazioni del cialtronesco: “La Facoltà di Teologia studia le questioni centrali dell’umanità. Le più grandi speranze e paure. Le maggiori minacce odierne, come il cambiamento climatico, la perdita della natura e le guerre, sono problemi causati dall’uomo”. Che uno più che altro pensa al dottor Tomas di Lino Banfi, quello “la vostra soddisfazione è il nostro miglior premio, piripiripì”.

La nostra soddisfazione sarebbe che il nordico ateneo ha conferito una laurea teologica honoris causa a Greta Thunberg, l’attivista che vede la CO2 sui muri (parole sue) e da sei anni annuncia la fine del mondo, rimuovendo poi i twittini apocalittici perché non si verifica mai. Una che, ormai fuori dal tunnel dell’adolescenza, non è più appetibile per il mercato pubblicitario vagamente lolitesco e puntualmente è uscita dal radar: ogni tanto, in chiara astinenza da spot, si riduce ad inscenare qualche azione di disturbo, nel senso mentale, alla presenza dei media, con la polizia che la prende, la porta via, le chiede il selfie e la rimanda a casa nell’imbarazzato compatimento che si deve agli squilibrati. E le danno la laurea. “Ma come” dicono quelli che ancora ragionano, ovviamente in fama di conservatori che è sinonimo di fascisti “ma se si vanta di non aver finito neanche le scuole dell’obbligo!”.

Ma fosse solo questo: con la sua strampalata campagna ego-logica, sul delirante, questa marionetta dei Soros, dei Gates e di tutti quelli che nel latte dell’allarmismo ci intingono il gran biscotto ha scatenato danni da laurea all’università dell’inferno. Difatti siamo al pandemonio, il rovesciamento, il regno infernale del frastuono e della perdita della logica: sentite il teologo Martti Nissinen professore di studi dell’Antico Testamento presso la Facoltà di Teologia della stessa Università di Helsinki, come spiega la patafisica laurea: “Scegliendo Greta come accademica onoraria, esprimiamo il nostro desiderio di essere coraggiosi e di impatto come lei“. Ora, lasciamo perdere il coraggio, che è sempre spazzatura retorica: ma può un teologo, un docente, esprimersi e pensare così? Essere “di impatto”? Come Greta? “Disgraziéto maledétto, non sembra neanche un professore”.

E invece. E invece ha ragione il teologo, il maggiordomo, hanno ragione loro, tutti quanti in blocco. Perché Greta è la sacerdotessa che si fa idolo, il feticcio uscito dal fango e plasmato apposta per una religione senza Dio, dove Dio sono io. Inafferrabile credo di Greta dove tutto è nuvola: l’ambiente, il pianeta, il caldo, il freddo, il sesso, l’utero postal market, la crisi climatica, idrica, virale, mentale. Non avrai niente e sarai felice, non avrai che te stesso e sarai felice, non avrai più un Dio, una coscienza, un’anima, solo un codice a barre, un QR, una app tracciante, e sarai felice. Felice come Greta che vede la CO2 sui palazzi. Felice di sentirti sempre a un passo dall’estinzione, col senso di colpa incorporato, con la vergogna della tua pelle bianca, del tuo maledetto cazzo di uomo fallico e patriarcale, anche se non comandi neppure sui tuoi gatti e del resto non ci hai mai tenuto.

Sì, hanno ragione questi e in fondo noi che abbiamo da parlare? Noi teniamo atenei che cercano di spaccare la testa ai giornalisti e vietano l’ingresso a un papa teologo però in compenso tiran le lauree dietro alle influencer, le chiamano a tenere prolusioni che quelle cominciano così: “In vita mia non ho mai letto un libro ma ne ho scritti tre”. Oppure ai Rossi, il Valentino motociclista, “geeee, bbzzz, ‘tenti che faccio la pennaaa!”, il Vasco rockista tortellini panna prosciutto e mascherina, “eeeh! Oooh! Capittoo!”, abbiamo un papa che accoglie “come un fratello” il Casarini casinista di cielo, di terra e di mare, abbiamo una segretaria della sinistra che strilla alla crisi idrica e difende i teppisti, detti attivisti climatici, che lordano Palazzo Vecchio e ci vogliono 5 tonnellate d’acqua a ripulirlo, abbiamo un sindaco fiorentino che prima li placca e poi subito si pente “perché ho anch’io tre figli e bisogna lasciargli il pianeta”, abbiamo intrattenitori in fama di opinionisti come Scanzi e Parenzo, abbiamo il festival di Sanremo e un presidente che ci va, abbiamo avuto un regime concentrazionario e lo hanno chiamato libertà, abbiamo una Unione che è la nave dei folli (e dei ladri), abbiamo una sinistra comunista ginnasiale che ha accentuato la sua inclinazione all’illegalità goliardica ma violenta Toni Negri style, al garantismo per i criminali, alla comprensione verso i balordi si parli di bombaroli, ladri di case, rom rapinatrici, spacciatori, scafisti, stragisti.

Dunque chi siamo noi, evangelianamente parlando, per giudicare un ateneo di lunatici? Noi siamo un manicomio dalle Alpi al Lilibeo, il nostro patrimonio è un pandemonio da saccheggiare, siamo assuefatti al brutto e al peggio, che aspettiamo anche noi a conferire una laurea a Greta in qualsiasi cosa, astrologia, stregoneria, commercio di alghe, antifà, quello che volete, capitto, eeeh, oooh. Max Del Papa, 23 marzo 2023

Greta si fa arrestare (anche) in Norvegia. Stavolta per difendere i pascoli delle renne. Storia di Valeria Braghieri su Il Giornale il 28 febbraio 2023.

Si è fatta spostare anche dai poliziotti norvegesi. Segnalata, rimossa, fermata ufficialmente e rilasciata dopo poche ore. Come in Germania. Ormai abbiamo imparato a conoscerla: Greta Thunberg si «fionda» ovunque un ideale la chiami. D'altra parte ha vent'anni: l'età in cui l'impossibile è ancora una sfida. Stavolta la causa «collaterale» era anche accattivante perché andava in difesa dei pascoli delle renne. E chi non sta dalla parte delle renne, da Babbo Natale in giù?

La motivazione «primaria», invece, era il parco eolico di Fosen, nel Nord-Ovest della Norvegia. Domenica notte Greta si è unita alla protesta (pare anche sacrosanta) degli indigeni Sami che su quelle terre erano abituati, appunto, a pascolare il loro bestiame. Un rapporto storicamente simbiotico quello tra gli indigeni e l'animale (sin dalla notte dei tempi ci ricavavano pelli per le tende in cui abitavano e per gli abiti, carne, bevande, ossa e corna da trasformare in attrezzi). Beh, tornando ai giorni nostri: protesta sacrosanta si diceva, perché per impedire l'installazione di queste pale eoliche i Sami hanno ingaggiato una lunga battaglia legale contro lo stato norvegese che si è conclusa nel 2021 con la loro vittoria, ma ancora adesso le turbine rimangono in piedi. Per questo Greta è corsa lì, a dar man forte ai tredici attivisti che occupavano il ministero delle politiche energetiche a Oslo da giovedì scorso. E come arriva lei arrivano i fotografi, le telecamere, l'attenzione mediatica. È la Ferragni delle cause ambientaliste. Il richiamo per giovani più efficace che esista. Sciarpa, guanti, cappello e megafono. Il «mestiere» da impegnata le danza ormai sulle labbra: «Ci si potrebbe chiedere chi stia commettendo il vero crimine. La colpevolezza della Norvegia in relazione alla crisi climatica e alle violazioni dei diritti umani dei Sami non può essere sottovalutata» ha dichiarato l'attivista all'emittente televisiva Nrk accorsa davanti al capannello di dimostranti. Greta non era l'unico volto noto, a sostenere il gruppo anche l'attrice indigena Ella Marie Hætta Isaksen, protagonista del film Let the river flow che racconta di una protesta dei Sami contro lo stato norvegese degli anni '70. L'attrice ha postato molti video durante l'occupazione tra cui quello dell'intervento della polizia in cui insieme agli altri attivisti è stata portata in caserma per diverse ore, per poi essere rilasciata (infatti le proteste dei Sami sono riprese già ieri mattina). Un fermo come una medaglia quello di Greta (e presumibilmente anche quello dell'attrice norvegese), che l'ultima volta aveva impegnato la polizia tedesca. Allora, era stata portata via per braccia e gambe da tre agenti in tenuta antisommossa: lì si trattava di difendere il paesino tedesco di Lützerath contro l'espansione della miniera di carbone di Garzweiler, nello stato tedesco del Nord Reno-Westfalia. Anche quella volta Greta si era precipitata, malgrado nei mesi precedenti avesse promesso di ritirarsi, di appendere il megafono al chiodo e di passare agli altri l'onere della «causa». Il doloroso annuncio aveva seguito le sorti di tutto ciò che Greta tocca: era diventato globale. Gran clamore da parte dell'opinione pubblica, grandi ipotesi sul futuro della ventenne che aveva deciso di cambiare modo e posa. E invece... Capannelli, megafono e strali a secchiate. Tremino i cattivi della Terra perché Greta, evidentemente, è tornata. Anzi, non se n'è mai andata.

Berlino è stufa di Greta. Arrestata per gli scontri alla miniera di carbone. Storia di Daniel Mosseri su Il Giornale il 16 Gennaio 2023.

Sorridente e forse perfino soddisfatta. L'attivista svedese per il clima, la ventenne Greta Thunberg, non appare troppo contrariata nelle foto diffuse dai fotoreporter tedeschi. Le immagini la ritraggono mentre due membri della Polizei la portano via a braccia da Lützerath domenica pomeriggio.

Da giorni il piccolo borgo renano ai margini di una delle più grandi miniere di lignite a cielo aperto d'Europa è il teatro di tensioni crescenti fra la forze dell'ordine e attivisti del clima. Un accordo fra l'esecutivo e l'azienda energetica Rwe prevede che Lützerath sia spianata dalle ruspe per permettere l'estrazione del carbone dal sottosuolo. La decisione ha scatenato le proteste degli attivisti del clima tedeschi ai quali Greta si è unita sabato scorso invocando la resistenza contro il grande «tradimento» del ritorno al carbone. Sabato la polizia ha affrontato il corteo più corposo di dimostranti tedeschi e stranieri fra le 8 mila e le 35 mila persone a seconda delle fonti ma domenica il lavoro è ricominciato. Perché, come spiega la Bild, anche ieri piccoli gruppi di manifestanti hanno cercato di avvicinarsi ai margini del grande giacimento di Garzweiler II, una manovra che ha obbligato la polizia a intervenire per evitare che qualcuno precipitasse sul fondo della cava. Un po' a sorpresa, domenica è riapparsa Greta che, scrive ancora la Bild, si è unita ad altri militanti ballando e cantando. A seguire, la giovane si sarebbe seduta su un muretto che dà sulla miniera provocando la reazione degli agenti che le avrebbero intimato di allontanarsi. Al suo rifiuto, la leader del movimento Fridays for Future è stata portata via di peso.

In un filmato pubblicato su Twitter si vede anche un gruppetto di circa 10-12 persone circondate dalla polizia che le allontana dall'area a rischio. Niente di simile agli scontri del giorno prima con la polizia che ha fatto ricorso agli idranti e ai manganelli ma nel video non manca un po' di concitazione: una quindicina di poliziotti spinge da dietro i manifestanti con forza; questi, dal canto loro, si tengono stretti cercando di opporre resistenza; un quadro complicato dalla presenza di reporter che riprendono la scena da vicino. In mezzo al gruppo sballottato a destra e a manca c'è Greta con il suo piumino blu e i guanti bianchi.

Il cielo su Lützerath è nero e la giornata molto ventosa, ma non abbastanza da dissipare le incitazioni dei poliziotti ai manifestanti affinché si allontanino. La rete in Germania si infiamma: fra i sostenitori della giovane c'è chi scrive: «Immaginate Greta Thunberg, l'attivista per il clima più famosa del mondo, che se ne sta pacificamente in un prato, senza alcun pericolo, e la polizia tedesca arriva e la spinge senza motivo. Adesso non immaginatelo più: c'è un filmato». Online c'è anche chi si chiede perché «una giovane milionaria svedese sia giunta in Germania a istigare alla violenza» ma il rischio di immagine per il governo di Olaf Scholz e soprattutto per i suoi alleati Verdi resta. La polizia ha fatto sapere che Thunberg - che oggi è attesa al forum economico di Davos - si è poi allontanata spontaneamente dal luogo dello scontro. Nel pomeriggio tutti gli attivisti che erano saliti sui tetti o sugli alberi di Lützerath erano stati fatti scendere, è stato anche reso noto. Gli ultimi due «giapponesi» della lotta contro il carbone resisterebbero asserragliati in un tunnel del borgo.

Greta Thunberg sgomberata dalla polizia in Germania. GIULIA MERLO su Il Domani il 15 gennaio 2023

L’attivista per il clima guidava i 35mila manifestanti per il clima nella protesta contro l'allargamento della miniera di carbone, distruggendo il borgo abbandonato di Luezerath

In Germania è andato in scena un duro scontro tra la polizia e i manifestanti per il clima, che protestavano contro l'allargamento della miniera di lignite a Luezerath.

Anche Greta Thunberg è stata sgomberata dalla polizia tedesca durante la manifestazione, ha riferito la Bild. Thunberg è stata portata via da due agenti, senza che venisse ammanettata. La polizia ha dichiarato che la giovane attivista si è seduta brevemente su un terrapieno ai margini della miniera e gli agenti l'hanno portata a pochi passi di distanza dopo che non ha risposto agli inviti a spostarsi, ma poi è stata lasciata libera.

Da giovedì gli attivisti climatici occupavano il borgo abbandonato per impedire l’estrazione del carbone da parte dell’azienda energetica Rwe. La cittadina di Luetzerath infatti sta per essere demolita per far posto all'ampliamento dell'adiacente miniera di carbone, che è una delle più grandi d’Europa.

Nella giornata di sabato c’è stata una grande manifestazione con oltre 35 mila partecipanti, dove è comparsa a sorpresa anche Greta Thunberg, che ha detto  che «la Germania si sta mettendo in imbarazzo» e «Penso che sia assolutamente assurdo che questo stia succedendo nel 2023».

Il governo tedesco ha giustificato l’espansione della miniera di carbone con la crisi energetica, causata dalla guerra in Ucraina.

LO SGOMBERO

Gli scontri sono stati violenti, con manganellate «senza ritegno» secondo gli attivisti e lanci di «pietre, fango, fuochi d'artificio» secondo il portavoce della polizia Andreas Mueller. Diversi veicoli della polizia sono stati danneggiati, con lancio di pietre e il taglio degli pneumatici.

Gli organizzatori hanno parlato di «incredibile uso della violenza» e che «è un miracolo che non ci siano stati morti», il bilancio è di 70 agenti feriti e 150 denunce per resistenza a pubblico ufficiale per i manifestanti dall'inizio dello sgombero, che è proseguito oggi.  Imprecisato, invece, il numero di attivisti feriti, ma almeno 20 sono stati portati in ospedale.

La polizia ha incontrato molta difficoltà a sgomberare l’area, perchè molti attivisti si sono nascosti sugli alberi e sui tetti delle case per rendere più complicate le operazioni. GIULIA MERLO

Le strane immagini dell’arresto di Greta Thunberg. Enrica Perucchietti su L'Indipendente il 19 gennaio 2023.

L’attivista svedese per il clima Greta Thunberg è tornata a mostrarsi in pubblico, dopo l’arresto da parte della polizia tedesca durante lo sgombero a Luetzerath, il villaggio spopolato che dovrà essere raso al suolo per allargare una miniera di carbone del colosso energetico RWE. Durante un evento parallelo al World Economic Forum, la fondatrice del movimento Fridays For Future ha accusato il Forum di Davos di riunire «le persone che più stanno alimentando la distruzione del pianeta», definendo “assurdo” ascoltarle. 

Il 17 gennaio scorso, Greta era stata fermata e in seguito portata via di peso da agenti di polizia in tenuta antisommossa, mentre partecipava alle proteste che da giorni coinvolgono Luetzerath. Le fotografie e il video dello sgombero avevano fatto il giro del mondo, incassando il plauso dell’opinione pubblica che aveva giudicato l’impresa di Greta come forte e coraggiosa. 

Numerosi media americani, come la BBC, inizialmente avevano riferito che Greta era stata addirittura “detenuta” dalla polizia, per essere rilasciata dopo la verifica dei suoi documenti di identità. Solo poche ore dopo la diffusione delle immagini del suo arresto, però, sono divenute virali le riprese antecedenti al fermo, ovvero il “fuori onda”, dove si vede chiaramente la Thunberg ridere e scherzare con i cameraman e diversi fotografi che si muovono attorno a lei per scattarle delle fotografie. Nelle immagini si nota anche la collaborazione di due agenti che, al suo fianco, posano tranquillamente per le foto prima di portarla via “di peso”.

Il primo video virale, su cui si basavano tutti i resoconti della stampa, mostra Greta trascinata via dalla polizia a circa 50 metri fuori dal luogo della protesta. Dal secondo video emerge, invece, una dinamica completamente diversa. 

Quello che sembrava essere un arresto avvenuto “con la forza” si è dimostrato, tutt’altro e, a detta di molti, si sarebbe trattato di una messinscena a favore dei riflettori. I social sono esplosi contro Greta: molti utenti su Twitter hanno accusato la fondatrice del movimento Fridays For Future di aver inscenato un “falso arresto”. 

La polizia tedesca è intervenuta, negando di aver partecipato, come “comparse”, a quella che è stata giudicata da molti una sceneggiata. Un portavoce della polizia locale, interpellato dalla BBC, ha spiegato che «non ci presteremmo mai a tali finzioni». A cercare di rasserenare gli animi, è intervenuto anche il ministero dell’Interno dello Stato occidentale del Nord Reno-Westfalia per spiegare alla BBC che gli agenti stavano semplicemente aspettando di portare via l’attivista per “motivi logistici”, in attesa di una macchina della polizia locale. 

Il dubbio che l’arresto di Greta sia stato però strumentalizzato se non addirittura inscenato a fini propagandistici rimane: è innegabile la modalità rilassata e persino conviviale che trapela dal secondo video, se messo a confronto con le immagini divulgate dai media in precedenza, in cui si vede la polizia portare via di peso la giovane.

Non è la prima volta che Greta “utilizza” le immagini a fini di propaganda. Il 14 dicembre 2019, reduce dalla Cop25 a Madrid, aveva postato sul suo profilo Twitter una sua foto seduta sul pavimento di una carrozza ferroviaria circondata da valigie, lamentando i disservizi del viaggio di ritorno da Francoforte ad Amburgo, lasciando quasi intendere di essere stata costretta a viaggiare in condizioni proibitive. Deutsche Bahn, la società responsabile del trasporto ferroviario, aveva replicato, smentendo il tweet della Thunberg e sottolineando il fatto che la sedicenne avesse invece un posto riservato in prima classe.

Per quanto riguarda, invece, la presunta connivenza dei media con questo “strano” arresto, dobbiamo ricordare che la forza evocativa delle immagini e il ricorso alla tecnica dell’empatia possono influenzare l’opinione pubblica molto più di mille parole. Utilizzando fotografie o video, si riesce a ottenere una maggiore vicinanza col pubblico e a far leva sulle emozioni. La stampa ha inoltre il potere di demonizzare una protesta o di esaltarla, schierandosi dalla parte, o all’opposto, contro, i manifestanti. I mezzi di informazione possono arrivare a inscenare manifestazioni (è successo con una troupe della CNN a Londra, scoperta a impartire ordini ai manifestanti), distorcere le notizie o le immagini riguardanti una contestazione o, nel caso in cui questa sia “scomoda” per il Sistema, denigrarla o addirittura censurarla.  [di Enrica Perucchietti]

I Deliri.

Stasera Italia, Cruciani demolisce gli ambientalisti: idolatria che ha sostituito il comunismo. Il Tempo il 24 novembre 2023

Ambientalismo e green. E’ su questo tema che si apre la puntata del 24 novembre di Stasera Italia, il talk show pre-serale di Rete4. Ad aprire la trasmissione è Nicola Porro, con il suo consueto editoriale, che prende di mira Franz Timmermans, uscito sconfitto dalle elezioni in Olanda dopo essersi dimesso dalla Commissione europea: “Non abbiamo raccontato bene la batosta elettorale del talebano verde, Timmermans. Non è un signore qualsiasi, è il vicepresidente della Commissione Ue. Se dovete mettere un cappotto termico, se le vostre auto sono considerate inquinanti, se dovrete cambiare i vostri condizionatori, insomma se la vostra vita cambierà, persino il packaging, cioè le vaschette di plastica erano a rischio nonostante il grande riciclo, questo tutto si deve alla barbetta di Timmermans. Che si era candidato il premier olandese, non ci è riuscito. Il suo risultato è pessimo. C’è stata la vittoria del sovranista Wilders, che viene considerato la bestia nera di tutta l’intellighenzia e di tutti i commenti italiani”. 

Prende poi la parola Giuseppe Cruciani, conduttore radiofonico de La Zanzara: “Negli ultimi 10-15 anni l'ambientalismo green, quello più estremo, incarnato da Timmermans che ha perso, ha sostituito l'ideologia comunista. Prima c’era l’idolatria per il rosso ora c’è quella per tutto ciò che è verde e sostenibile. Come ogni religione quella green ha bisogno dei suoi capi, dei suoi Papi, e Timmermans era considerato uno dei Papi dell’ideologia verde”. “Se non sei d’accordo con loro sei uno sporco inquinatore, sei uno che non vuole il progresso dell’umanità, come una volta era per il comunismo”, la dura considerazione con cui Cruciani conclude il ragionamento sugli estremisti green.

Mario Tozzi e la neve a Cervinia? Anche sciare è diventato un crimine. Maurizio Zottarelli su Libero Quotidiano il 14 novembre 2023

Non nevica: governo, anzi homo sapiens ladro. Nevica: governo, anzi homo sapiens ladro. Ormai sembra assodato, aldilà di ogni prova scientifica, che qualsiasi condizione metereologica ci si presenti aprendo la finestra al mattino sia da imputare alle malefatte umane. Così, dagli stessi pulpiti dai quali nel febbraio scorso si tuonava contro i disastri ambientali causa della drammatica siccità che – ricordate? – ci avrebbe condannato a una estate di razionamenti idrici, alla desertificazione della pianura padana, fino al rischio di carestie se non di sete, ora si lanciano allarmi per l’emergenza maltempo. Ora che, a quanto pare, il pericolo siccità sembra scongiurato e che, almeno per il momento, il meteo sembra tornato a una qualche normalità, le instancabili vedette del cambiamento climatico scoprono l’emergenza neve a 3mila metri.

Già, perché nel week end, dopo giorni di maltempo e una fittissima nevicata, è stata cancellata la discesa libera maschile di Coppa del mondo di sci in programma a Zermatt-Cervinia, al confine tra Italia e Svizzera. Un fatto che, come spiegato dagli esperti, dovrebbe far riflettere sull’opportunità di calendarizzare una gara su un ghiacciaio a novembre, periodo tradizionalmente bagnato, per cui se in Pianura Padana piove, è prevedibile che a 3mila metri nevichi. Ma invece di celebrare questo ritorno alla normalità, i sacerdoti del cambiamento climatico hanno raccontato della «vendetta della montagna», suscitando, c’è da immaginare, il più genuino stupore nelle decine di migliaia di abitanti delle nostre Alpi che in queste ore hanno accolto la neve con entusiasmo, pregustando un inizio di stagione invernale sotto i migliori auspici.

Il punto, secondo gli ambientalisti, sarebbero gli sfregi sacrileghi inferti ai ghiacciai dagli sciatori. Su Repubblica, il geologo Mario Tozzi ci spiega che «un ghiacciaio toccato si deteriora prima e più a fondo di uno lasciato in pace. E dei ghiacciai intatti ha bisogno tutta l’umanità». In effetti, i ghiacciai sono uno splendore e che Dio ce li preservi. Il fatto è che tutti gli scienziati che ora lanciano allarmi sulla fine dei ghiacciai non ci spiegano che questi non sono sempre esistiti, né che nei quattro miliardi e mezzo di anni della sua storia la terra ha subito migliaia di cambiamenti climatici, attestati da evidenze storiche, geologiche e scientifiche in generale.

Per limitarci alle Alpi, sappiamo che proprio i continui arretramenti e avanzamenti dei ghiacciai hanno scolpito la magnificenza delle vette e delle valli che ora ammiriamo. Inoltre, innumerevoli studi, l’ultimo dei quali pubblicato nel dicembre 2020 su Scientific Reports a firma di diversi ricercatori (Bohleber, Schwikowski, Fischer...) hanno dimostrato, a partire dal ritrovamento di Otzi, l’uomo del Similaun, rinvenuto ai piedi dell’omonimo ghiacciaio (3213 metri) che almeno fino a 4mila anni a.C (Otzi visse tra il 3300 e il 3100 a.C.), sotto i 4mila metri di altitudine sulle Alpi non c’erano ghiacciai (oggi ne abbiamo sotto i 3mila metri) i quali si sono formati successivamente, fino alla fine della cosiddetta Piccola Era Glaciale (ovvero fino a metà del 1800). Cambiamenti climatici anche più robusti e repentini di quelli che osserviamo ora, avvenuti ben prima che qualsiasi umano decidesse di infilare un paio di sci o che qualsiasi motore a scoppio si avviasse.

SALVATE LE PIANTE

Ma tutto questo ai nostri ecoscienziati non interessa. L’unica verità che a loro sembra incontestabile è la colpa dell’uomo. In questo caso, nella versione sciatore. E nemmeno questa è una novità. Da più parti, negli ultimi mesi, si sono alzate grida contro lo sfruttamento sciistico delle montagne. Buon ultimo, qualche settimane fa, lo scrittore Paolo Cognetti si è scagliato contro le piste da discesa, per realizzare le quali si devono abbattere gli alberi: «Bisogna levarne di mezzo addirittura 5mila per un solo impianto di risalita nel bosco», ha dichiarato. Sarà vero, ma anche qui, i dati dicono che dal 1984 a oggi (cioè nel periodo in cui lo sci si è più diffuso) le aree boschive sulle Alpi sono aumentate del 77%. Certo, in parte per l’innalzamento delle temperature che ha elevato la linea dei boschi, ma anche perla riduzione delle aree coltivate e a pascolo, dato che preoccupa molte amministrazioni locali perché una montagna più selvaggia e meno antropizzata è sppiù fragile, con boschi e torrenti meno curati, e, alla lunga, foriera di guai. 

L’uomo colpevole di ogni mutazione climatica è la grande ideologia di questi tempi. E Tozzi la porta alle estreme conseguenze. «C’è una sola differenza tra noi e il resto dei viventi non umani, e non è certamente l’intelligenza, la comunicazione o l’uso di strumenti», scrive su Repubblica mandando in soffitta secoli di evoluzionismo e di teorie sul pollice sovrapponibile che avrebbe consentito all’uomo di dotarsi di strumenti con cui intervenire sull’ambiente e difendersi dalle fiere. No, la differenza è «l’accumulo, l’avidità», il capitale economico. Poi il geologo indica l’orizzonte cui l’umanità deve tendere: il leone. «Nessun vivente accumula al di là di quanto occorre nell’immediato, e rimarremo sorpresi nel vedere un leone catturare diverse gazzelle per poi venderne una al mercato, conservarne un’altra sotto sale...». Ecco, il radioso futuro ecologista: il ritorno all’uomo raccoglitore e cacciatore. Prima, però, sarebbe il caso di ricordare agli illuminati ambientalisti che la civiltà si è sviluppata a partire dal neolitico, quando l’uomo, grazie all’agricoltura e all’allevamento, ha potuto accumulare risorse emancipandosi dalla necessità quotidiana di cercare il necessario per alimentarsi. Il che ha permesso all’umanità di progredire, commerciare, scrivere, pensare. Fino a permettersi persino i geologi che scrivono sui giornali. 

Ambientalismo, se ora c'è anche l'eco-ansia dei giovani da curare. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 31 maggio 2023

Non sono ancora stati assorbiti i traumi per la pandemia con distanziamento sociale, mascherine, scuola a distanza che i ragazzi devono affrontare una nuova emergenza. Parliamo dell’ansia innescata dalle preoccupazioni per le sorti del pianeta. Una vera e propria sindrome che viene studiata e curata anche a livello clinico. La protesta ecologica, tanto sostenuta e finanziata a livello globale, ha partorito una nuova forma di scontento con un relativo mercato. In inglese è stata ribattezzata eco-anxiety e parte dal presupposto che «le basi ecologiche dell’esistenza siano in procinto di crollare». Quando questi stati di ansia diventano molto forti è necessario un supporto per la salute mentale con medici e farmaci. Per gli esperti c’è il rischio di una nuova ospedalizzazione globale. Secondo il centro di “Medicina sui disturbi di ansia e panico” dell’ospedale Humanitas di Milano alcuni fattori sembrano predisporre maggiormente ai sintomi dell’eco-ansia: giovane età, esposizione mediatica, impegno attivo nei confronti della crisi ambientale. Tra i sintomi comuni: nervosismo e inquietudine legati all’impatto dei propri comportamenti sull’ambiente circostante, crisi d’ansia quando si affrontano tematiche sull’ambiente, decisioni radicali sulla propria vita (ad esempio non avere figli perché potrebbe non essere etico o sostenibile per le risorse del pianeta), solastalgia. Quest’ultima patologia è uno stato caratterizzato da emozioni di nostalgia, senso di perdita, disturbi del sonno, stress, dolore, depressione, aggressività, istinti suicidi.

CHE SPAVENTO! - Secondo un’indagine pubblicata dalla rivista The Lancet. Planetary Health e riferita a diecimila giovani europei, ben tre quarti degli intervistati di età compresa tra i sedici e i venticinque anni considerano il futuro «spaventoso». La metà di dichiara ansiosa, scontenta, triste, arrabbiata e si sente in colpa per la crisi climatica. L’elenco delle patologie denunciate è vario: attacchi di panico, traumi, depressioni, abuso di sostanze, aggressività, ridotte capacità di autonomia e di controllo, sentimenti di impotenza, fatalismo e paura. Ad aggravare la situazione l’impressione perversa indotta dai media che gli eco-ansiosi, siano dei malati virtuosi e i loro disturbi sono considerati lodevoli perché denotano sensibilità ai temi dell’ambiente. Si innesca, così, un perverso cortocircuito perché questi giovani scaricano sugli adulti un enorme “senso di colpa” per come hanno ridotto il pianeta. Una colpa generazionale. Spiega Marcello Veneziani nel suo ultimo saggio Scontenti (Marsilio Editore): «L’umanità viene nuovamente divisa in buoni e cattivi, e dopo i no-vax, i no-war ecco i no-eco: da una parte le vittime, indicate come eco-ansiose, dall’altra i negazionisti o “ecomostri” che rifiutano i sensi di colpa. La follia di questa drammaturgia ambientale è che non produce alcun effetto concreto sull’ambiente: una volta dichiarata mezza umanità malata di eco-ansia e l’altra metà colpevole dei danni ambientali non ne consegue alcun cambiamento nel clima e nell’ambiente». Per ogni emergenza che si rispetti c’è, poi, una ricaduta economica. Sull’eco-ansia sta fiorendo un fruttuoso business perché una nuova patologia di massa crea un nuovo mercato. I malati ecologici devono essere supportati dal punto di vista, medico, farmacologico e psicoterapico. Per non parlare della costosissima e poco ecologica riconversione verde dell’industria, dei trasporti e dell’energia. Un business enorme, alla faccia di Greta e dei gretini.

Quei falsi miti della religione ambientalista. Nicola Porro il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Quello di Francesco Vecchi, Non dobbiamo salvare il Mondo(Piemme), è un libro davvero interessante. Premettiamo: non soddisfa tanti di noi che vorrebbero anche mettere in discussione le ragioni antropormofiche (è colpa dell'uomo) del cambiamento climatico. Ci definisce negazionisti. Ma non importa. Il libro è da leggere e da far leggere. Perché è un testo pragmatico e laico. Anche Vecchi ritiene che l'ambientalismo sia diventato una religione millenarista. «Il tentativo di contrapporre noi cattivi e dannosi esseri umani al povero pianeta messo a rischio serve solo a dare un indirizzo morale e religioso al problema. Invece la strada da intraprendere dev'essere quella razionale: qual è il modello di sviluppo economico che ci consente di avere le migliori relazioni possibili tra di noi (prosperità) e con l'ambiente (tutela)?». Il covid e le chiusure hanno dimostrato come la decrescita economica abbia inciso poco sulle emissioni di CO2 che sono scese solo di un misero 4 per cento.

Vecchi si pone delle domande retoriche e vi risponde con l'evidenza dei fatti e del buon senso. Si chiede: «Chi sostiene che possiamo vivere solo con il fotovoltaico, lo sa quanto consuma in un anno un paese come l'Italia? Chi dice che tre giorni di pioggia non sarebbero un problema, lo sa quanto tempo ci metterebbero a esaurirsi tutte le batterie presenti nel paese? Chi pensa che dobbiamo passare subito all'auto elettrica, lo sa almeno come viene prodotta in Italia l'energia elettrica? Chi combatte per il biologico, si è chiesto quanti pianeti ci vorrebbero per sfamare l'umanità con quel metodo? Chi ha combattuto contro l'estrazione di gas nel mar Adriatico, si è reso conto che il risultato pratico di quella battaglia è stato semplicemente quello di acquistare più gas dalla Russia, di renderci più dipendenti, di alzare le nostre bollette e di non ridurre di un grammo le emissioni di CO2 nell'aria? E chi ha votato contro il nucleare in Italia, lo sa che il 10% dell'energia consumata oggi viene da centrali nucleari finanziate da aziende italiane e poste in Francia sul nostro confine?».

Vecchi è un nuclearista convinto, non perché detesti le energie rinnovabili, ma perché fa due conti. Nel capitolo dedicato all'auto elettrica fa un ragionamento, corredato da numeri e dati, semplicissimo. L'Europa ci inganna con il mito dell'auto elettrica, prende a riferimento dati di consumo vecchi e percorrenze inesistenti, e per di più non si considera il modo in cui l'elettricità è prodotta. L'auto elettrica in Germania, in realtà sarebbe più giusto definirla a carbone; in Francia è invece un auto nucleare. Ma nel libro c'è molto di più, dall'agricoltura tecnologica che sfama il mondo, alle bollette del fotovoltaico con la scambio sul posto incomprensibili a un laureato della Bocconi.

Ecologisti, l'ultimo delirio: "Accoppiarsi con i bassi per salvare il pianeta". Claudio Osmetti su Libero Quotidiano l’8 gennaio 2023.

Un po' come in quel film con Matt Damon, Downsizing. Solo che quella era fantascienza distopica, qui c'è un lungo articolo del New York Times (mica hai detto niente) che teorizza come «accoppiarsi con persone più basse» possa salvare il pianeta. E sì, è proprio scritto così. Lo dice Mara Altman (da noi lo riprende La Stampa che ci fa pure un podcast di dieci minuti al riguardo): «Quando ci si accoppia con persone più basse potenzialmente si salva il pianeta riducendo le esigenze delle generazioni successive». Insomma, alto è bello ma basso è meglio (perché è ecologico). «Se mantenessimo le stesse proporzioni ma fossimo solo del 10% più bassi, in America risparmieremo 87 milioni di tonnellate di cibo all'anno, per non parlare di trilioni di galloni d'acqua e di quadrilioni di energia e di milioni di tonnellate di spazzatura».

Chiaro. A questo punto sorge solo un dubbio: ma quanto è alta Greta Thumberg? No, perché: hai visto mai. Potrebbe fare la differenza. Signori, siamo seri: è anche una questione di evoluzione. Tra l'altro l'altezza mondiale media è di 165 centimetri, non è che siamo un pianeta di spilungoni. Ci sono pure loro, per carità: ma cosa dovremmo fare? No-ci-scusi-lei-è-quasi-due-mentri-inquina-troppo. Ma per favore. Eppure Altman tira dritto: «Abbassare l'altezza minima per i potenziali partner sul proprio profilo è un passo verso un pianeta più verde». Siamo tanti (otto miliardi di persone), se solo ci rimpicciolissimo... «Le persone corte non si limitano a risparmiare risorse, ma potrebbero anche essere più adatte per la sopravvivenza a lungo termine». Benissimo, lo scopriremo col tempo. Dopotutto lo diceva anche Darwin.

Negli Usa c'è addirittura chi «ha persino limitato i latticini nella dieta dei suoi figli e concede loro solo una minima quantità di zucchero nel tentativo di limitarne la crescita, salvandoli dai mali dell'altezza». Pensa un po'. Adesso, va bene tutto. Le battaglie green, la corsa all'ecologismo: d'accordo. Chi è che vorrebbe vivere in un mondo fatto di smog e di immondizia? Nessuno. Però così è farla diventare una malattia. Ci sono persone alte, ci sono persone basse: cribbio, lo è da secoli. Non che tocca "colpevolizzare" i lungagnoni (immaginiamo che i liberals del New York Times preferiscano la dizione più politically correct di "diversamente basso": sic) perché il riscaldamento globale è colpa della loro maxi statura. Dài, la questione ci sta sfuggendo di mano. 

Estratto dell'articolo di Lorenzo De Cicco per la Repubblica l’8 gennaio 2023.

Francesco Rutelli fa battaglie ambientaliste dagli anni '70. Nell'81 è anche finito agli arresti. «Grazie a un volantino contro la centrale nucleare di Latina. Tre giorni di carcere, utilizzando una vecchia legge ereditata dal fascismo», ricorda l'ex ministro, vice-premier, sindaco di Roma, oggi presidente dell'Anica (la "Confindustria del cinema") e promotore del Soft Power Club, il cui prossimo appuntamento, a Venezia, sarà incentrato proprio su acqua ed emergenza climatica.

 Come vede le proteste dei ragazzi di Ultima generazione?

«È magnifico che cresca la sensibilità ambientalista fra i più giovani. Il cambiamento climatico oggi è il tema numero uno. Stiamo andando rapidamente verso un aumento di 2 gradi di temperatura media, forse addirittura di 3, e questo produrrà conseguenze colossali, in assenza di contromisure.

 Nel 2022 l'uso del carbone nel mondo ha battuto ogni record. Ma i modi scelti, un po' da congiurati, un po' da guerriglia non violenta, non avvicinano questi temi alle persone comuni. E c'è bisogno proprio di questo: di un'alleanza col popolo per una rivoluzione green. Altrimenti il rischio è un remake dei gilet gialli, nati da una micro tassa di Macron sui carburanti. Si mette il paese profondo contro i cittadini con pose da illuminati. Le prediche col ditino alzato, "voi siete complici", non funzionano».

Ce l'ha con i blocchi sul Raccordo anulare di Roma o con la vernice lavabile gettata sul Senato?

«Senza criminalizzare nessuno, bisogna insistere nel dialogo. Più che blitz, aiutare le persone a formarsi una coscienza e partecipare. Qualcuno pensa davvero di far sentire in colpa un automobilista che sta accompagnando la madre a fare la chemio o la gente che sta andando al lavoro? Non vanno colpevolizzati i passanti. Vanno coinvolti e motivati». (...)

È stato il primo sindaco verde di una Capitale dell'Occidente. I Verdi, quella volta, superarono il 10%, più seggi della Dc. Ma i Verdi in Italia non sono mai esplosi, mentre in Germania alle scorse Europee hanno superato il 20%. Perché?

«I Verdi tedeschi hanno scelto una linea di coesistenza tra le istanze radicali e quelle pragmatiche. E oggi si affermano come forza di governo. Amministrano 14 lander su 15, a volte con i socialisti, a volte con i democristiani o i liberali. Parlano direttamente con le grandi industrie e con i sindacati. Concordano compromessi che portano lavoro. Hanno deciso che in Germania vanno installate 500mila pompe di calore all'anno. Quanti posti di lavoro porta una misura del genere? La gente lo capisce».

 E i Verdi italiani?

«Si schierano in una posizione decisamente più a sinistra, anziché avere una posizione trasversale. La rispetto, ma i risultati di questa scelta sono sotto gli occhi di tutti. In Germania invece sono al 20%, i leader sono popolarissimi, c'è un ricambio della classe dirigente, ci sono sempre un uomo e una donna al vertice».

 Da ex sindaco, come giudica il termovalorizzatore di Roma? Il M5S si oppone proprio nel nome della transizione ecologica.

«Bisogna farlo, presto, in un ciclo moderno e sicuro. La prima volta che andai a trovare i Verdi tedeschi, estate '93, a Francoforte, fui accolto da Daniel Cohn-Bendit dentro il termovalorizzatore. Parliamo di trent' anni fa. Nel frattempo i cicli dello smaltimento hanno avuto progressi enormi. È ovvio che servono tecnologie moderne, a impatti bassissimi di emissione, a riutilizzo di energia. Ideologizzare un impianto è assurdo, a fronte del pellegrinaggio di migliaia di camion che portano altrove i rifiuti dei romani».

 Nascerà mai un partito verde, veramente popolare, in Italia?

«Non tocca a me dire cosa si debba fare, non sono più in politica da 10 anni. Ma un partito verde e popolare si può fare. Rivolgendosi a tutti i cittadini, però, non solo a una porzione di società. Il primo che ci riesce, avrà grandi consensi».

I Martiri.

Nel 2022 è stato ucciso un attivista ambientale ogni due giorni, la metà in Amazzonia.  Stefano Baudino su L'Indipendente domenica 24 settembre 2023.

Lo scorso anno, almeno 177 persone sono state assassinate per aver difeso l’ambiente e un quinto di queste uccisioni è avvenuto nella foresta amazzonica. A svelarlo è il nuovo rapporto dell’organizzazione non governativa Global Witness, in cui si attesta come i difensori dell’ambiente, nell’anno 2022, siano stati uccisi al ritmo di uno ogni due giorni, quasi sempre da gruppi legati alla criminalità organizzata. A detenere il primato di Paese più letale per gli attivisti è la Colombia, dove sono avvenuti ben 60 omicidi. Dai dati diramati dall’organizzazione emerge che, delle vittime totali, il 34% è rappresentato da indigeni, nonostante questi rappresentino appena il 5% della popolazione mondiale. Nel complesso, tra il 2012 e il 2022, sono stati ammazzati almeno 1.910 difensori dell’ambiente, ma l’Ong denuncia che la maggior parte delle uccisioni è rimasta, di fatto, impunita. Dopo la Colombia, i Paesi in cui sono stati consumati il maggior numero di omicidi nell’arco dello scorso anno sono stati, nell’ordine, Brasile, Messico, Honduras e Filippine. Quasi l’88% di tutti gli attacchi letali sono stati registrati in America Latina.

“Tra le persone uccise nel 2022 – spiega l’organizzazione – ci sono anche funzionari statali, manifestanti, guardie del parco, avvocati e giornalisti” che “condividevano l’impegno a difendere i propri diritti e a mantenere il pianeta in salute”. La ricerca evidenzia che a subire l’11% del numero totale di attacchi letali sono stati individui di sesso femminile. “Una percentuale relativamente bassa a prima vista”, scrivono i membri della Ong, “ma che nasconde una realtà molto più complessa”. Infatti, alle donne vengono inflitte “molte forme di violenza specifiche per il genere, dalla violenza sessuale al rifiuto da parte delle famiglie e delle comunità”, e sono dunque chiamate a difendersi da attacchi che vanno in scena su due fronti, poiché “oltre a essere prese di mira per il loro attivismo, subiscono anche violazioni dei diritti specifici di genere”. A dare riprova del grande impatto prodotto dagli attacchi sulle famiglie e comunità, vi è anche il fatto che alcune delle persone uccise non fossero nemmeno l’obiettivo dei killer, ma semplicemente si trovassero insieme agli attivisti al momento dell’omicidio.

La questione è molto calda anche nel continente asiatico e in quello africano, dove secondo l’organizzazione vi sarebbe una sottostima degli attacchi. In Asia, dal 2012, Global Witness ha documentato 443 uccisioni di difensori della terra e dell’ambiente, per un totale di 18 Paesi. Dei 16 casi registrati nel continente nel 2022, 11 si sono verificati nelle Filippine (che contano dal 2012 ben 281 persone uccise), tre in Indonesia e due in India. In Africa, nel 2022, sono state certificate 5 uccisioni di attivisti ambientali. Di questi, quattro erano guardaparco, due nella Repubblica Democratica del Congo, uno in Malawi e uno in Sudafrica. Gli appartenenti a questa categoria, infatti, sono stati il principale bersaglio degli attacchi nel corso degli anni: il Parco nazionale di Virunga, l’area protetta più ricca di biodiversità dell’Africa, ha visto almeno 200 ranger uccisi in servizio.

Lo scorso anno, la Colombia – che ha totalizzato quasi il doppio degli omicidi avvenuti in Brasile e in Messico – ha vissuto un intensa fase di transizione politica, essendo passata in estate dal governo guidato da Iván Duque, tacciato di “immobilismo”, all’Esecutivo guidato da Gustavo Petro. Global Witness ha salutato con favore la novità, dal momento che l’agenda politica del nuovo governo è la prima nella storia del Paese a “includere specificamente la necessità di proteggere i difensori dell’ambiente e di affrontare le cause degli attacchi contro di loro”. Eppure, anche l’anno corrente in Colombia è stato segnato da spietati omicidi. Solo nell’ultima settimana di luglio, infatti, sono stati assassinati quattro leader sociali in diverse zone del Paese. E, soltanto quest’anno, si contano complessivamente ben 98 omicidi di attivisti in prima linea nella difesa dei diritti umani e del territorio. Segno che l’escalation di violenza è ben lontana dall’essere domata. [di Stefano Baudino]

Gli Ecosessuali.

GLI “ECOSESSUALI”? Estratto dell’articolo di Elisabetta Ambrosi per “il Fatto quotidiano”

Un jet privato inquina. Una bistecca di vitello pure. Ma fare sesso produce emissioni? O, detto altrimenti, qual è l’impronta carbonica della nostra libido e come i nostri desideri accelerano la crisi climatica? Se lo è chiesto, nel libro Ecologia erotica. Sesso, libido e collasso del desiderio (in libreria da oggi con Tlon), Dominic Pettman, professore alla New School di New York.

 La risposta immediata è positiva: basti pensare alla pubblicità che ci spinge ad acquistare vibratori e lingerie, al turismo sessuale e a tutto ciò che è connesso alla seduzione, in una lista potenzialmente infinita. […]

 Così amore, desideri, passione si esauriscono e si intossicano e, più il clima si surriscalda, più la nostra libido si raffredda, e diventa tossica, pericolosa. Un’immagine chiara di questo modello è, secondo Pettman, l’uomo arancione, ovvero Trump, “sgradevole icona di questa vecchia epoca di avidità famelica”.

L’uomo arancione si è ubriacato, e noi con lui, di un “cocktail tossico di narcisismo, aggressività, ignoranza armata, privilegio, sadismo e arrapamento adolescenziale fallocentrico”. Contro questa visione, contro questa “economia libidinale”, Pettman rilancia e propone una “ecologia libidinale”, un vero e proprio Green Deal erotico. In cui la Natura – intesa a volte come simbolo della nostra esistenza animale, a volte invece come espressione severa della legge contro perversione e adulteri, oggi invece come immensa risorsa sfruttabile – torni a essere fusa con Eros, come lo era in Lucrezio.

 Si tratta insomma di avere un rapporto organico con il nostro ambiente e di diventare un po’ tutti “ecosessuali”, coloro che promuovono il sesso nella natura e con gli elementi della natura: “Abbracciamo gli alberi senza vergogna, godiamo delle cascate, facciamo l’amore con la terra, celebriamo il nostro punto E, siamo polimorfi e poli/polline amorosi”, è il loro Manifesto.  […]

Per ricreare una libido ecologica ci servono pratiche ecologiche anti-individualiste e in questo senso tutto, per così dire, fa libido, “dai legami queer alle comunità intenzionali, dagli esperimenti di poliamore alle associazioni, dalle scuole alle parrocchie agli, incontri informali”. Ma in conclusione, dovremmo desiderare meno o di più? “Entrambe le cose”, perché il punto è superare l’alternativa tra essere asceti frustrati o libertini disincantati, cercando invece di coltivare desideri organici e sostenibili che rendano omaggio alla matrice ambientale che li ha generati.

 E questo si fa, ad esempio, “contrastando i piaceri corrotti con bombe di gioia compassionevole, mettendo al bando i bunga bunga, intrufolandoci nell’orgia di Eyes wide shut per sabotarla e improvvisare forme di socialità sensuale meno esclusive e più insolite”. È vero, ammette Pettman, siamo fottuti, avvelenati anche dai gas serra, prodotti persino dalla nostra industria culturale.

Ma un’ecologia libidinale si “rifiuta di utilizzare questo stato di abiezione condiviso per la rassegnazione e la sconfitta”, si rifiuta di pensare “solo a un imminente pianeta morto, abbandonato, radioattivo, senza sogni”. E punta invece a reimparare a fare l’amore, a un sesso “slow” che ci faccia ritornare letteralmente selvatici. Riducendo, ma piacevolmente le emissioni e sconfiggendo l’ecoansia. “La libido è morta, lunga vita

Gli Ecovandali.  

Ultimo sfregio: interrompono la messa in Duomo. Attivisti di "Extinction Rebellion" fanno irruzione durante l'omelia dell'arcivescovo Repole per il loro comizio. Pier Francesco Borgia il 4 Dicembre 2023 su Il Giornale.

Il sacro rito della messa domenicale interrotto a scopi politici. È successo ieri mattina nel duomo di Torino, nel corso della messa celebrata dall'arcivescovo Roberto Repole. Nel breve momento di riflessione e silenzio che precede l'omelia un gruppo di attivisti di Extinction Rebellion si è alzato in piedi. Un'attivista ha quindi iniziato a leggere a voce alta alcuni passaggi dell'enciclica Laudato si' a turni gli altri attivisti hanno letto passaggi della stessa enciclica e dell'esortazione apostolica Laudate Deum di papa Francesco per portare l'attenzione dei fedeli - spiegano dal movimento - sulle parole del Pontefice sulla crisi climatica. Alla fine gli attivisti hanno letto il messaggio che papa Francesco ha inviato tramite il cardinale Parolin alla Cop28 di Dubai. Messaggio in cui il pontefice invita i governi a smettere di finanziare guerre e devastazioni ambientali e prendere accordi «efficienti, vincolanti e facilmente monitorabili».

«Ho grande stima per chi si mobilita per la difesa del Creato e accoglie gli appelli di Papa Francesco, apprezzo l'impegno in questo senso delle attiviste di Extinction Rebellion - commenta l'arcivescovo - ma mi è dispiaciuto che abbiano ritenuto di prendere la parola in Duomo senza prima volermene parlare e chiedere se potevano intervenire. Avrei risposto che a Messa si prega spesso per la pace e per la salvaguardia del Creato, ma la celebrazione eucaristica non è un momento idoneo a ospitare interventi pubblici». Il cardinale ha dapprima lasciato che le attiviste parlassero poi ha chiesto loro di lasciargli terminare di celebrare la messa perché è un «momento di preghiera e in quanto tale deve essere rispettato soprattutto da chi fa professione di voler operare nel rispetto di tutti».

Critiche all'indirizzo dei militanti ambientalisti anche da Paola Ambrogio, senatrice torinese di FdI. «La spudoratezza ideologica degli attivisti di Extinction Rebellion ha oltrepassato ogni limite della convivenza democratica - commenta la senatrice -. Siamo, purtroppo, dinnanzi ad azioni estemporanee e inutili, oltre che aggressive, condotte da chi è alla ricerca di visibilità personale e non lotta certo per un ideale». Pier Francesco Borgia

Londra, due attivisti prendono a martellate la Venere di Velazquez. Martina Melli su L'Identità il 6 Novembre 2023

Gli attivisti di Just Stop Oil hanno colpito un dipinto di Velazquez conservato nella National Gallery di Londra. I due studenti e attivisti, Hanan, 22 anni e Harrison, 20, hanno preso a martellate il vetro protettivo del quadro. Il gesto, come hanno spiegato i due attivisti, vuole essere la reazione ai recenti piani del Governo di concedere ulteriori licenze petrolifere.

La Venere Rokeby del maestro spagnolo, dipinta nel 1600, era stata precedentemente attaccata dalla suffragetta Mary Richardson con una mannaia nel marzo 1914 durante una protesta contro l’arresto di Emmeline Pankhurst.

I due attivisti si sono rivolti alla galleria dicendo: “Le donne non hanno ottenuto il voto votando; è tempo di fatti, non di parole. È ora di fermare il petrolio”. E ancora: “La politica ci sta deludendo. Ha deluso le donne nel 1914 e sta deludendo anche noi adesso. Il nuovo petrolio e il gas uccideranno milioni di persone. Se amiamo l’arte, se amiamo la vita, se amiamo le nostre famiglie, dobbiamo semplicemente fermare il petrolio”.

“Emmeline Pankhurst diceva: devi fare più rumore di chiunque altro, devi renderti più invadente di chiunque altro, devi riempire tutte le carte più di chiunque altro” ha dichiarato Harrison. “Le suffragette sono la prova che questi metodi funzionano per ottenere un cambiamento sociale. Ecco perché oggi abbiamo intrapreso questa azione. Il nuovo petrolio distruggerà tutto ciò che amiamo. Non voglio essere qui, ma non posso continuare a vedere questo governo deludere tutti noi”.

Questo attacco è l’ultimo di una lunga serie di azioni provocatorie e disturbanti ai danni di opere d’arte. I manifestanti hanno lanciato zuppa contro i Girasoli di Van Gogh e si sono incollati alle cornici di altri capolavori. I due ragazzi responsabili sono ora accusati di danneggiamento criminale e non sono ancora state chiarite le condizioni della tela in seguito alla rottura del vetro di protezione.

RESISTENTI. «Il termine attivista di per sé non vuol dire nulla. È l'azione concreta a riempirlo di significato». La definizione è ormai inflazionata e, spesso, priva di senso. Per incidere davvero nelle lotte di liberazione contro le classi di oppressori sono richiesti ascolto, rinuncia ai privilegi e, soprattutto, la disponibilità ad agire. In altre parole, complicità e non mera adesione a una causa. Diletta Bellotti su L'Espresso giovedì 19 ottobre 2023

Non c’è nulla di naturale o inevitabile nel denaro, nel debito, nei diritti di proprietà o nei mercati; sono sistemi simbolici che traggono la loro efficacia dalla convinzione collettiva che debbano esistere per forza. Questo non significa necessariamente invocare il primitivismo o essere contro la civilizzazione, ma significa aspirare a un sistema di pensiero che non associ ciò che è storicamente radicato con qualcosa di necessariamente futuribile. 

Il ruolo degli attivisti è quello di ispirare la speranza radicale esponendo la mutevolezza delle relazioni sociali, come per esempio la possibilità, per ognuno, di vivere meglio, oltre sistemi che minacciano la sopravvivenza sulla Terra. È sotto gli occhi di tutti quanto «attivismo» sia un termine inflazionato: è quasi un significante flottante, cioè vuoto, un contenuto linguistico che non ha più un preciso contesto di riferimento. Nel dibattito pubblico italiano si ha molta esperienza di significati flottanti: si pensi a termini come «sviluppo» o «resilienza». 

Nonostante l’avanzare di un significato di fare attivismo sempre più vuoto, non dobbiamo perdere la creatività, anche semplicemente trovando sinonimi ancora intatti. In quanto attivisti, in quanto cittadini, in quanto esseri senzienti, bisogna trovare nuovi modi per armare il proprio privilegio, cioè per utilizzarlo in senso offensivo verso i sistemi di oppressione, iniziando con il comprendere e rinnegare la propria ricompensa nell’essere parte della classe dell’oppressore. Come beneficio, per esempio, dei legami coloniali dei Paesi europei anche se non sono stato io stesso a creare questi sistemi? Che vantaggi traggo dal sistema patriarcale anche se, apparentemente, non faccio nulla per rafforzarlo? Come beneficio della propaganda anti-migrante anche se non ho nulla a che spartire con coloro che la portano avanti? 
Non tutti, per fortuna, ricoprono il ruolo di oppressore in ogni aspetto della propria identità: ciò che di noi è più marginale e bistrattato forse è anche molto nascosto. Può darsi che non sia ancora stato dichiarato perché abbiamo paura che poi anche noi ne rimarremmo schiacciati. C’è un sistema preciso che beneficia dall’isolare e reprimere gli attivisti e i militanti, questo è ancora vero in Occidente ed è molto vero nel Sud del mondo. 

Da un decennio, invece, ci sta un sistema economico che usufruisce di un certo modo di fare attivismo e che rientra perfettamente nel cosiddetto complesso industriale. In inglese “industrial complex” è un concetto socioeconomico per cui le aziende si intrecciano alle istituzioni sociali e politiche, creando o sostenendo un’economia di profitto da queste. Un esempio classico è il “military-industrial complex” ovvero il modo in cui l’industria bellica trae profitto dal perpetuarsi delle guerre e ha un ruolo, sociale e politico, nell’ostacolare la pace. Similmente, il complesso-industriale dell’attivista rischia di mercificare termini e modalità di lotta così da impedire ogni reale e profonda possibilità di cambiamento. 
Oggi, quindi, allearsi con una causa può non essere abbastanza. Che siano i lavoratori in sciopero o chi, oltre i nostri confini, vive in guerra, ci richiede qualcosa di più di essere alleati e attivi: ci chiede complicità. Si parte dall’ascolto, certo, si procede rinunciando a dei privilegi, ma poi si passa all’azione, chiedendosi intanto: in che modo io posso contribuire ai processi di liberazione?

Dare la colpa agli ecologisti: la nuova frontiera del negazionismo climatico. L'ultima accusa arriva dal Canada, dove si insinua che gli incendi siano stati appiccati dagli attivisti per richiamare l'attenzione. Ma non è l'unico caso ed è un segnale del livello del dibattito. Diletta Bellotti su L'Espresso il 6 Settembre 2023  

Ecco che la maggior parte di noi è tornata a lavoro, alcuni con un certo amaro in bocca. È un peccato che ci sia stato un ciclone proprio là dove avevi prenotato le vacanze, è anche un peccato pensare a quante persone in Italia non  possano permettersi le ferie, ma questa è un’altra storia. O forse no. Ci ripetiamo spesso che non si affronterà l’apocalisse climatica accumulando bottiglie d’acqua e cibo in scatola in cantina. Tuttavia alcuni di noi lo faranno comunque. Altri dicono che quest’apocalisse è troppo lenta, soprattutto è troppo costosa: hanno voglia di assistere alla fine per poi poter ricostruire da capo. O, quantomeno, non hanno voglia di lavorare fino all’ultimo giorno della loro vita. 

Il fatto che ci sia un incendio incastrato nel panorama da cartolina adesso è semplicemente un dettaglio trascurabile, qualcosa che risveglia solo l’istinto di riprendere con il cellulare: non smuove nessuno spirito di sopravvivenza, né immediato, né lungimirante. 

Qualche giorno fa in treno una persona seduta accanto a me raccontava di come la tromba d’aria che ha colpito Milano per lei sia stata un grande fortuna perché le ha distrutto la macchina e ora l’ufficio gliene ha data una nuova e più bella. Un bel colpo di fortuna, senza dubbio. 

Nel frattempo i negazionisti climatici online insinuano il dolo per gli incendi in Canada di agosto, accesi, secondo la loro tesi, dagli ecologisti per sensibilizzare su i cambiamenti climatici. Si pone dunque una nuova interessante frontiera del negazionismo climatico, particolarmente fantasioso e illogico: gli attivisti climatici sono vigilantes, giustizieri di un mondo in fiamme in cui il diritto ambientale arriva troppo lento e dove il fine giustifica i mezzi. Alludono che è legittimo incendiare il Pianeta pur di farci prestare attenzione, che poi, nell’economia dell'attenzione, quanto vale davvero? In un mondo di content creators, chi lo assorbe poi questo contenuto? Chi, e con che strumenti, lo elabora? E, in fondo, come biasimare il web se pullula di negazionisti quando ne invitiamo ancora a bizzeffe alla tv nazionale? Sono oggettivamente più rappresentati loro che il 99% della comunità scientifica. Dunque è tutto in linea, sensato. 

Su questo tema ricordo una discussione abbastanza accesa con un illustre giornalista italiano il quale, infuriato, equiparava la proposta di non invitare negazionisti in Tv alla censura. Oltre alla posizione, sicuramente discutibile, ho trovato molto interessante come una persona che occupa una posizione di potere all’interno della trasmissione di saperi non sappia definire cosa sia la censura. Pericoloso oltre che imbarazzante. Forse è ignaro della strutturale piramidale della nostra società e dei meccanismi che portano una persona, anziché un’altra, a parlare pubblicamente? Ignora chi effettivamente è nella posizione di mentire, liberamente e con una certa arroganza, in tv? Dall’altra parte varie testate nazionali sono passate dal negare apertamente la crisi climatica e sbeffeggiare goliardicamente chi lotta per contrastarla, ad un nuova ossessione-clickbait-bollettino-di-collasso. Che l’informazione ritrovi il suo impegno civico non è più una questione meramente democratica, ma vitale. Anche se, di questi tempi soprattutto, sono quasi sinonimi. 

Arresto in flagranza per chi blocca il traffico: la legge della Lega contro gli ecoattivisti: «Ci usano come capro espiatorio». Il partito di Matteo Salvini ha depositato una proposta di legge per inasprire le pene contro chi interrompe la circolazione, con l'obiettivo di colpire chi manifesta per il clima. Proprio mentre un altro evento estremo colpisce l’Italia. «Ma abbiamo il diritto alla protesta». Chiara Sgreccia su L'espresso il 6 Novembre 2023

Giovedì 2 novembre Ettore, Midia e Silvia sono stati portati via dalla polizia dopo un blocco stradale lungo la tangenziale di Bologna. Il giorno dopo è stato convalidato il loro arresto per violenza privata aggravata e danneggiamento. È finita con il divieto di dimora per due dei manifestanti. Per il terzo l’obbligo di firma.  

«Come mai per un blocco stradale viene contestato il reato di violenza privata aggravata?» si chiedono gli attivisti di Ultima Generazione, il movimento di disobbedienza civile contro il collasso ecoclimatico, che della non violenza ha fatto una scelta costitutiva. Visto che di solito «chiunque impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, è punito con la sanzione amministrativa». Così, almeno fino ad oggi, direbbe la legge. Che però la Lega sta provando a cambiare: lo scorso 31 ottobre il partito di Matteo Salvini ha presentato alla Camera una proposta per inasprire le pene per chi blocca la libera circolazione sulle strade.  

Il testo è suddiviso in tre articoli e punta a:

1) inasprire le sanzioni, sostituendo la multa con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. 

2) estendere il Daspo - cioè la misura a tutela del decoro che può prevedere il divieto di accedere ad alcune aree della città - anche nei confronti dei manifestanti che bloccano le strade.

3) introdurre una nuova fattispecie di delitto all’articolo 380 del Codice di procedura penale, prevedendo per chi attua i blocchi l’arresto obbligatorio in flagranza. 

«La proposta per contrastare i fanatici green che bloccano le strade va nella direzione giusta. Estende la fattispecie di illecito penale, già individuata dal codice, anche a chi ostacola i trasporti senza l'uso di strumenti, ma semplicemente con il proprio corpo. Esattamente come fanno alcuni prepotenti, che credono di cambiare il mondo, impedendo alle persone di raggiungere scuole, luoghi di lavori e ospedali. Bene anche l'introduzione dell'arresto in flagranza e del Daspo, che potrà essere emesso direttamente dal Questore. L'ambiente e la salute si difendono con buonsenso e responsabilità, non bloccando il Paese», spiega Andrea Ostellari, il Sottosegretario di Stato alla Giustizia. 

«È una proposta paradossale», risponde Laura Paracini, attivista di Ultima Generazione. Che invita Salvini a occuparsi di emergenze più serie, come quella climatica. «Abbiamo bloccato il traffico esibendo dei cartelli con scritti i nomi di alcuni delle vittime dell'alluvione in Emilia Romagna di pochi mesi fa. Speravamo di mandare un messaggio e invece... se a Salvini interessa così tanto la sicurezza dell'ordine pubblico perché non denuncia le inadempienze che ci sono state in Emilia Romagna in merito ai fondi? Soldi che non sono arrivati o, al massimo, sono arrivati in minima parte. Invece, si prendono come capri espiatori dei ragazzi che stanno esercitando il loro diritto alla protesta. Non possiamo che condannare questa classe politica e quella che l’ha preceduta, perché non hanno fatto nulla per rispondere al collasso climatico. Per quanto riguarda la proposta di legge non si può non definirla una repressione, l'ennesima, messa in moto contro di noi», conclude Paracini proprio nei giorni in cui l’ennesimo evento climatico estremo, la tempesta Ciaran, colpisce anche l’Italia.

Per il giudice bloccare il traffico è violenza privata: tre ecoattivisti a processo. Stefano Baudino su L'Indipendente il 4 Novembre 2023

Tre esponenti di Ultima Generazione ieri sono stati arrestati dalla polizia e spediti a processo per direttissima per aver effettuato un blocco stradale nella tangenziale di Bologna giovedì scorso. Gli attivisti sono accusati dei reati di violenza privata aggravata e danneggiamento, ma non di interruzione di pubblico servizio, come pure chiesto dai pm. Per due di loro la misura cautelare disposta dal giudice è il divieto di dimora nel capoluogo emiliano, mentre la terza è stata sottoposta all’obbligo di firma. Per i tre dimostranti, che per aver messo in atto una protesta pacifica rischiano ora parecchi anni di carcere, il processo si aprirà il prossimo 30 novembre.

Gli attivisti che hanno partecipato al blocco stradale del 2 novembre erano in tutto dieci. Indossando pettorine e alzando cartelli, hanno bloccato il transito dei mezzi tra le uscite 8 via Michelino e 7bis Porrettana in direzione Casalecchio di Reno. Due di loro, utilizzando malta a presa rapida, hanno cementato le loro mani a terra, chiedono a gran voce un fondo da 20 miliardi «preventivo, permanente e partecipato, per riparare i danni subiti dai cittadini a causa degli eventi meteorologici estremi». In tangenziale si è formata una lunga coda di automobili e la situazione è stata sbloccata all’arrivo delle forze dell’ordine, che hanno trascinato ai bordi della carreggiata 8 dimostranti, mentre per portare via le due attiviste che avevano fissato le mani all’asfalto si è aspettato l’intervento dei vigili del fuoco e dei sanitari del 118. Dopo l’arresto e una notte passata ai domiciliari, tre indagati sono stati portati davanti al giudice, che ha stabilito le misure cautelari in vista dell’apertura del processo. Chiusa l’udienza in direttissima, che si è protratta per circa 3 ore, ad accogliere i giovani fuori dal tribunale c’era un presidio formato da una quarantina di attivisti di Ultima Generazione.

“Nelle ultime dodici ore sono morte cinque persone in Toscana, portando il governatore Eugenio Giani a dichiarare lo stato d’emergenza regionale. É proprio il concetto di emergenza che Ultima Generazione prova da più d’un anno a fare emergere nel discorso pubblico e nella consapevolezza comune. Riteniamo che ci sia un terreno comune nel quale dialogare e per questo chiediamo che vengano tempestivamente instaurate misure di prevenzione e che non si agisca esclusivamente a disastro già accaduto”, hanno dichiarato in una nota gli esponenti di Ultima Generazione, facendo valere le ragioni della propria battaglia. Nello specifico, poi, gli attivisti si chiedono come sia possibile che per un blocco stradale, “normalmente punibile con una sanzione amministrativa”, ai tre dimostranti venga “contestato il reato di violenza privata aggravata”. Un reato che, secondo il dettato dell’art. 610 del codice penale, si integra quando “chiunque, con violenza o minaccia, costringe altri a fare, tollerare od omettere qualche cosa”.

Ed effettivamente, a prescindere da ciò che si pensi dei metodi di protesta adottati dai membri del movimento ambientalista, merita perlomeno di aprire una riflessione il fatto che, per ragioni di natura politica, cittadini che manifestano il loro pensiero senza aver minacciato o esercitato violenza su cose o persone vengano mandati a processo con queste accuse. “I tre manifestanti – hanno ricordato gli attivisti – con la nonviolenza che contraddistingue Ultima Generazione, hanno bloccato una strada utilizzando i loro corpi con il solo scopo di chiedere al governo di proteggere i propri cittadini”. L’associazione ha dato il via sui propri portali a una campagna di crowdfunding per riuscire a coprire le spese processuali. [di Stefano Baudino]

Il Bestiario, l'Ambientaligno. Giovanni Zola il 25 Maggio 2023 su Il Giornale.

L’Ambientaligno è un animale leggendario di “ultima generazione” imparentato con le specie delle Gretigne, delle Sardigne e delle Tendigne.

L’Ambientaligno è un animale leggendario di “ultima generazione” imparentato con le specie delle Gretigne, delle Sardigne e delle Tendigne.

L’Ambientaligno è un essere mitologico che non esiste in natura, in quanto solo un Dio crudele e beffardo avrebbe potuto crearlo. Esso è infatti il prodotto di una serie di innesti genetici di laboratorio. Gli scienziati si sono resi conto che incrociando un radical chic isterico, con un ambientalista dal quoziente intellettivo basso, si otteneva una creatura più fastidiosa e inutile della zanzara tigre in una notte umida d’agosto senza aria condizionata. Un ottimo risultato dal punto di vista militare, tanto che la Nato pensò di inviare l’Ambientaligno in Ucraina come arma letale di difesa, ma dato il pericolo di una escalation apocalittica, il progetto venne in seguito abbandonato optando invece per l’invio di sottomarini atomici.

L’Ambientaligno è un animale disarmante e contraddittorio, tanto che diversi etologi ne abbandonarono lo studio dopo essere stati colti da attacchi di panico. Per fare un esempio, per attirare l’attenzione sulle problematiche dell’inquinamento, l’Ambientaligno non si prodiga per ripulire parchi, spiagge e quant’altro, ma, contraddicendo se stesso, sporca, imbratta e inquina monumenti, opere d’arte, palazzi e fontane, rendendosi ridicolo e antipatico a chi assiste alle sue sozze dimostrazioni. Il massimo dell’insopportabilità, l’Ambientaligno lo raggiunge quando, muovendosi in branco, occupa nelle ore di punta le corsie di strade e tangenziali bloccando il traffico già difficile. E’ in questa circostanza che l’Ambientaligno mette a dura prova la pazienza degli italiani che dimostrano un alto senso di responsabilità trattenendosi dall’utilizzare il crick per liberare il passaggio per recarsi al lavoro.

L’Ambientaligno è un animale leggendario sempre in evoluzione. Le sue tecniche di disobbedienza sociale si vanno raffinando rapidamente in una sorta di evoluzione darwiniana della specie. Negli ultimi avvistamenti, l’Ambientaligno femmina, utilizza la nudità come gesto di ribellione passivo aggressivo talvolta ricoprendo i propri corpi di fango dimenandosi come in una lotta erotica. È per questo motivo che un gran numero di adolescenti si sta iscrivendo tra le file dei volontari con la mansione di spostare le ragazze nude sollevandole di peso.

L’Ambientaligno in se stesso è un essere insignificante. Ciò che preoccupa sono i suoi sostenitori politici che lo fomentano abbassandosi al suo stesso livello, ma grazie a Dio, senza spogliarsi in piazza.

Dagospia 3 Luglio 2023. Dall’account Instagram di Marino Bartoletti

Non c'è nulla di più stupido, di più volgare, di più irrispettoso, di più "ignorante" e di più osceno - per "proteggere" l'ambiente - che interrompe una manifestazione di sport (nel totale, folle disprezzo dei sacrifici di chi si prepara a una gara). 

Oltretutto di uno sport purissimo e "fragile" come l'atletica leggera. È accaduto alla "Diamonds League" di Stoccolma durante la prova dei 400 ostacoli. Cosa vogliono dimostrare questi infelici vigliacchi? È questa la strada per risvegliare le coscienze?

Francia, la suora è furiosa con l'eco-attivista: inseguimento e placcaggio. Gabriele Imperiale su Il tempo il 19 ottobre 2023

Una suora che placca un ambientalista. No, non è un film di cattivo gusto o l’inizio di un racconto di un pazzo. È la curiosa scena ripresa da un operatore a Saint-Pierre-de-Colombier, un comune di appena 451 abitanti nel sud della Francia. L’uomo riprendeva la protesta del gruppo “Les Amis de la Bourges” - letteralmente “Gli amici del villaggio” - organizzata contro la costruzione di un nuovo complesso religioso. Un gruppo di suore, tutt’altro che intimorite, ha deciso di sfidare i manifestanti e formare una catena umana per fermare gli attivisti che volevano forzare il blocco. Ad un tratto, dopo una mattinata di “scontri”, uno degli ambientalisti tenta la sortita. Non passa inosservato però a una delle sorelle che reagisce fulminea – è questa la scena che tanto sta facendo il giro del web – e con tempismo perfetto atterra l’uomo,

schienandolo nel fango.  

A nulla è valso lo scatto dell’ambientalista, troppo poco reattivo rispetto alla giovane suora. Un attimo dopo le sorelle sono però tornate a più miti e pacifici atteggiamenti, cantando cori mentre cercavano di bloccare – stavolta senza uso della forza – gli attivisti furibondi per quanto accaduto. “Non me l’aspettavo” ha detto Sylvain Herenguel, co-presidente dell’associazione per il futuro della valle di Bourges alla tv di stato francese “mi aspettavo che le suore fossero un po’ più ragionevoli nei confronti dell’ordine pubblico. Il problema è che i religiosi hanno deciso di ricorrere alla violenza. Hanno deciso di proteggere il sito con le loro azioni e i loro corpi”. 

La questione, nonostante la tensione e il video che sta letteralmente spopolando, continua a tenere banco. Da un lato le suore vogliono costruire una cappella da oltre 3mila posti, dall’altro gli ambientalisti più agguerriti che mai e che non vogliono proprio mollare. Anzi, secondo le ultime notizie, gli attivisti avrebbero chiesto alle autorità la sospensione del cantiere, fino a quando – almeno – non saranno ottenute tutte le autorizzazioni ambientali.

Da eurosport.it 3 Luglio 2023 

Tre manifestanti falsano il finale della 400 ostacoli maschile nella tappa della Diamond League di Stoccolma: a tagliare il traguardo per primo è primatista mondiale, il norvegese Karsten Warholm, seguito da Kyron McMaster (British Virgin Islands) e Rasmus Magi (Estonia); un po' di delusione per Alessandro Sibilio, quarto. 

Finale assurdo nella finale dei 400 ostacoli maschili durante la tappa di Stoccolma di Diamond League: a circa 10 metri dall'arrivo tre manifestanti con tanto di striscione hanno impedito che la gara si potesse concludere in maniera normale. 

A tagliare il traguardo per primo è primatista mondiale, il norvegese Karsten Warholm, seguito da Kyron McMaster (British Virgin Islands) e Rasmus Magi (Estonia); un po' di delusione per Alessandro Sibilio, che stava per concludere la sua gara nei primi posti ma poi si deve accontentare del quarto posto finale. E' lui stesso a provare a descrivere l'accaduto ai microfoni della Rai: "A 10 metri dal traguardo è apparso questo striscione: per quando riguarda la mia gara, non è andata bene poi verso il finale mi sono quasi fermato perché mi sono fatto male".

La gara - seppur deturpata da questo arrivo atipico - non viene ripetuta: certamente non uno spot per gli addetti alla sicurezza di questa tappa della Diamond League.

Nuovo blitz a Firenze di Ultima Generazione: preso di mira il Battistero. Per fortuna la Porta del Paradiso non ha subito danni: la salsa di pomodoro è stata lavata via dal selciato antistante il celebre monumento. Federico Garau il 3 Luglio 2023 su Il Giornale.

Si sono messi a petto nudo dinanzi al Battistero di Firenze, ricoprendo il proprio corpo con salsa di pomodoro ed esponendo uno striscione con su scritto "Non paghiamo il fossile": i cinque attivisti di Ultima Generazione che stamani, lunedì 3 luglio, hanno preso di mira Piazza del Duomo sono stati tutti denunciati. Pur non avendo colpito direttamente il celebre monumento, i rimostranti hanno comunque imbrattato la pavimentazione esterna.

"Non paghiamo il fossile"

Il nuovo blitz a Firenze del gruppo di attivisti fa seguito a quello dello scorso marzo, divenuto oramai celebre, oltre che virale sul web, per la cinematografica corsa con cui il primo cittadino Dario Nardella bloccò i rimostranti che avevano sporcato con della vernice un muro di Palazzo Vecchio.

"Che c... fate?". Nardella difende Palazzo Vecchio dagli eco-vandali

Quattro dei protagonisti del gesto odierno sono stati condotti immediatamente presso il comando della polizia municipale di via delle Terme, mentre il quinto ha tenuto la propria posizione, sedendosi a gambe incrociate e quindi distendendosi dinanzi al Battistero: anche quest'ultimo, il quale, come riferito da Ultima Generazione,"effettuava resistenza passiva non violenta", è stato infine allontanato dai vigili.

Sul posto è intervenuta prontamente una squadra di tecnici restauratori dell'Opera del Duomo: per fortuna nessun danno alla meravigliosa Porta del Paradiso, originariamente realizzata dallo scultore e orefice Lorenzo Ghiberti tra il 1425 e il 1452. Gli esperti hanno rilevato che la sostanza utilizzata dagli attivisti doveva essere della semplice salsa di pomodoro, poi rimossa dalla pavimentazione antistante il monumento. Il blitz è avvenuto dinanzi a numerosi turisti che già affollavano la Piazza del Duomo, uno dei luoghi più celebri e ammirati del capoluogo toscano.

La rivendicazione

Ultima Generazione ha rivendicato il blitz attraverso i suoi canali social: "Oggi versiamo sui nostri corpi questa vernice rossa, metafora del sangue del martirio, perché davanti alla crisi climatica scegliamo la vita", hanno scritto gli attivisti.

Dopo l'intervento della polizia municipale di Firenze, i cinque protagonisti sono stati tutti denunciati per manifestazione non autorizzata. Uno di essi, tuttavia, è stato segnalato anche per il mancato rispetto del daspo urbano: si trattava, infatti, di uno di coloro che avevano preso di mira Palazzo Vecchio lo scorso marzo. Pur avendo ricevuto un foglio di via, che gli impediva di tornare in città, l'uomo ha preso parte anche a questo secondo blitz contravvenendo alla limitazione impostagli dalle autorità. Le operazioni di pulizia, effettuate con acqua e sapone, sono state effettuate dal personale di Alia.

Il commento del sindaco

"Credo che la battaglia sull'emergenza ambientale sia una battaglia da fare tutti insieme, cittadini istituzioni e società civile", commenta il primo cittadino del capoluogo toscano, come riportato da La Nazione. "Tuttavia credo che attaccare anche solo simbolicamente, senza danni materiali a differenza di quanto accadde con Palazzo Vecchio, il patrimonio culturale sia un messaggio sbagliato", aggiuinge.

"La natura e la cultura sono due sorelle", prosegue Nardella, "mettere in discussione una per proteggere l'altra è un messaggio che secondo me non porta consenso dei cittadini e dell'opinione pubblica". "Rilancio l'appello ai dimostranti di Ultima generazione: mettete da parte queste forme di protesta e sicuramente ci saranno le condizioni per un dialogo costruttivo e per lavorare tutti insieme", precisa in conclusione il sindaco, "però non si può offendere, anche solo simbolicamente, il patrimonio culturale per mettere in luce un problema vero che è quello dell'emergenza climatica".

 La rete di eco-delinquenti è radicata in tutta Europa. Ultima generazione è solo la punta dell'iceberg. Queste associazioni sono ovunque e hanno una gerarchia. Francesco Giubilei su Il Giornale il 17 Aprile 2023

L'indagine della Digos di Padova che ha portato all'accusa di associazione a delinquere per i militanti di Ultima Generazione, si è basata sulla motivazione che le loro attività sono state «blitz organizzati», discussi e vagliati da una gerarchia interna. Perciò non si è trattato di azioni casuali o di iniziative di singoli attivisti ma di una vera e propria organizzazione che opera su tutto il territorio nazionale. Eppure, la rete degli ambientalisti (e animalisti) radicali, non si limita all'Italia ma opera in tutti i paesi europei e occidentali.

Ultima Generazione fa infatti parte di un network internazionale chiamato «rete A22» che si definisce «un gruppo di progetti interconnessi impegnati in una folle corsa: provare a salvare l'umanità». Se l'obiettivo è ambizioso, lo sono meno le modalità con cui vengono condotte le loro azioni tra monumenti imbrattati, strade bloccate ed edifici vandalizzati. Non a caso, già dalla loro descrizione, emerge una finalità messianica tipica delle religioni a cui l'ambientalismo ideologico ambisce a sostituirsi.

Oltre al gruppo italiano, fanno parte di A22 numerose organizzazioni, da Declare Emergency negli Stati Uniti a Restore Passenger Rail in Nuova Zelanda, fino a Stop Fossil Fuel Subsidies in Australia. La maggior parte dei gruppi si trova in Europa come Dernière Rénovation in Francia, Aterstal Vatmarker in Svezia, Just Stop Oil in Gran Bretagna, Lezte Generation in Germania e Austria, Renovate in Svizzera e Stopp Oljeletinga in Norvegia. Nel manifesto di A22 si legge infatti «ci stiamo mobilitando nelle nostre molte nazioni e culture» per poi aggiungere «ci stiamo mobilitando nelle nostre molte nazioni e culture».

Rispetto a questi movimenti, Fridays for Future si è progressivamente spostato su posizioni più concilianti e, pochi giorni fa, il gruppo italiano si è espresso contro la scelta del governo tedesco di chiudere le centrali nucleari.

La realtà più strutturata degli ambientalisti radicali a livello internazionale, rimane Extinction Rebellion che si definisce un movimento nato «dal basso» e «nonviolento». Extinction Rebellion è stato «fondato in Inghilterra in risposta alla devastazione ecologica causata dalle attività umane, basato sui risultati scientifici. Il movimento chiama alla disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai governi di invertire la rotta che ci sta portando verso il disastro climatico e ecologico». Attivo anche in Italia, da Extinction Rebellion è nata una costola animalista chiamata «Animal Rebellion». Anche nel caso dell'animalismo radicale, le associazioni italiane Lega Anti Vivisezione e l'associazione Lega per l'Abolizione della Caccia non sono sole ma l'internazionale animalista è ben nutrita.

Proprio ieri la polizia britannica ha arrestato 118 animalisti all'ippodromo di Aintree a Liverpool che hanno manifestato per i diritti degli animali ritardando l'inizio di un'importante corsa di cavalli, il percorso a ostacoli del Grand National. Si trattava di militanti del gruppo Animal Rising, una delle tante sigle animaliste come l'Animal Liberation Front e il 269 Liberation animale che ha realizzato occupazioni anche in Italia come al mattatoio di Torino.

Negli ultimi anni è avvenuta una radicalizzazione ed estremizzazione delle battaglie ambientali e animaliste al punto che nel 2019 l'unità antiterrorismo della polizia del sud est dell'Inghilterra ha inserito Extinction Rebellion tra le organizzazioni estremiste. La scelta è stata poi revocata dopo le polemiche scaturite ma è sintomatica della crescente attenzione che questi gruppi suscitano anche tra le forze dell'ordine a causa dell'illegalità delle loro azioni. Gli ambientalisti e gli animalisti radicali sono l'emblema di come rendere tematiche nobili come la tutela dell'ambiente e la difesa degli animali, asservite a un'ideologia dogmatica.

Vittorio Feltri e gli eco-vandali: "Greta sparita, chi resta ora". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 24 maggio 2023

Che fine ha fatto Greta Thunberg? A soli 20 anni è uscita di scena, scomparsa come la luna a mezzogiorno. Per un paio d’anni era riuscita a imporsi sui media di mezzo mondo e all’improvviso è stata dimenticata anche da chi l’aveva esaltata quasi fosse una profetessa sia pure di sventura. Parlava lei e tutti la ascoltavano come se le sue previsioni sui destini del globo fossero verità rivelate. Diceva che il pianeta stesse per arrostirsi, ucciso dall’inquinamento. Lei che poverina litigava con gli studi al punto di avere interrotto pure la frequentazione del liceo. Aveva ragione chi la considerava una povera ignorante presuntuosa, ma questo concetto era contraddetto da una folla che la lodava invitando il popolo a seguirne gli insegnamenti.

Questa ragazza un po’ infantile era diventata addirittura un simbolo adorato dagli ecologisti, poi all’improvviso è stata avvolta dall’ombra, oscurata, ignorata. Era ora. Rimane da capire come mai fosse riuscita a salire per un certo tempo alla ribalta, ascoltata e perfino coccolata. E come mai si sia eclissata all’improvviso. La spiegazione di questo fenomeno, abbastanza strano per non dire ridicolo, consiste nella caducità delle mode. Per un certo periodo la fanciulla è stata sponsorizzata alla grande dagli ecologisti da strapazzo, che poi hanno trovato in fretta altri idoli da portare in palmo di mano.

Mi riferisco in particolare a quei dementi che deturpano i monumenti e vìolano le fontane storiche nonché palazzi antichi i quali godono della simpatia della sinistra più sgangherata, quella che rompe l’anima con la siccità e il cambiamento climatico. Tutta roba ispirata da scienziati digiuni di scienza e cavalcata da politici incapaci di inventarsi modelli di opposizione più consistenti. La povera Meloni è così costretta a combattere anche contro gli studenti cretini oltre che con i progressisti più avventati.

A Giorgia mancava solo l’alluvione in Romagna per complicarle la vita. Ora deve trovare i fondi per aiutare i poveracci che stanno a bagnomaria, come fosse facile recuperare miliardi da un bilancio pubblico già disastrato. Speriamo almeno che avendo l’Italia con l’acqua alla gola i soliti saccenti la smettano di rompere le scatole con la siccità che contraddice la realtà. Purtroppo non abbiamo speranza che i predicatori del surriscaldamento del pianeta la smettano di frignare. Portiamo pazienza.

Il mood online degli ambientalisti. Attivisti Ultima generazione amplificati dai media: iniziative non conquistano social e 90% reazioni sono negative. Redazione su Il Riformista il 22 Maggio 2023 

Gli attivisti a difesa dell’ambiente di Ultima generazione generano quasi il 90% di reazioni negative sul web e sono principalmente amplificati dai media che piuttosto che dal mondo dei social. network. E’ quanto emerge dai dati raccolti da Domenico Giordano, spin doctor per l’agenzia di comunicazione Arcadiacom.it.

Sulla polemica che ha coinvolto la ministra Roccella, il dato del parlato della rete aveva evidenziato subito come non siano più le keyword fascista o fascismo – per esempio – a coinvolgere gli utenti in rete. La tematica storico-politica alla fine sembra non interessare più a nessuno.

Il mood on-line

Negli ultimi dodici mesi, dal 15 maggio 2022 al 15 maggio 2023, la chiave di ricerca “Ultima Generazione AND attivisti” ha raccolto in Rete un totale 7.850 menzioni di cui 7.260 con un chiaro ed univoca indicazione di opinione qualitativa. L’88,34% degli utenti che online si sono relazionati con la keyword specifica di ascolto hanno manifesto un comportamento negativo, mentre appena il 6,33% di contro hanno rilasciato un atteggiamento positivo.

La linea temporale dell’engagement

In questo periodo sono state diverse le incursioni degli attivisti di “Ultima Generazione” che hanno generato in Rete un coinvolgimento, ma i picchi più significativi di coinvolgimento, che hanno superato abbondantemente il milione di interazioni, sono invece circoscritti a tre diversi periodi.

Il primo picco è del novembre 2022, quando si registrano ben quattro incursioni: gli otto kg di farina lanciati sulla Bmw dipinta da Andy Warhol ed esposta alla Fabbrica del Vapore di Milano, l’imbrattamento della sede della Cassa Depositi e Prestiti a Roma e quello vetro che protegge il dipinto di Van Gogh, “il Seminatore” sempre in mostra a Roma a Palazzo Bonaparte e, infine, l’incursione al Leopold Museum di Vienna per “sporcare “Morte e Vita di Gustav Klimt.

Il secondo picco è invece di gennaio di quest’anno e a trascinare l’engagement è l’azione di imbrattamento di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica, avvenuta la mattina del 2 gennaio.

Infine, il terzo picco si registra a cavallo tra il mese di marzo e quello di aprile. Si parte il 17 marzo con l’imbrattamento di Palazzo Vecchio a Firenze e quello dell’acqua della Fontana della Barcaccia a piazza di Spagna a Roma del 1° aprile.

Le fonti del parlato

La torta dei territori digitali che hanno ospitato il parlato sviluppato dalla keyword “Ultima generazione AND attivisti” ci mostra una prima significativa particolarità: il 40%

circa del dibattito online è stato prodotto dai siti di news e se a questa quota aggiungiamo quella dei blog, siamo complessivamente al 53,26%. Al contrario, invece, la

fetta di parlato che si è dipanata sui tre principali social network raggiunge “solo” il 44,24% (Facebook, Twitter e Instagram).

Ciò, mette in luce un aspetto non secondario, che più della metà del dibattito sulle incursioni degli attivisti ha ottenuto audience unicamente grazie ai legacy media che hanno ripreso e amplificato la cronaca delle iniziative. Al contrario, sui social le iniziative di “Ultima generazione” non ha poi coinvolto più di tanto gli utenti.

Gualtieri, non condivido la tua decisione di costituirti parte civile. Gli attivisti di Ultima Generazione non sono criminali: danno voce alle ragioni della Scienza. Angelo Bonelli su Il Riformista il 23 Maggio 2023

Sul recente blitz di Ultima Generazione avvenuto lo scorso weekend nella Fontana di Trevi a Roma, abbiamo chiesto nel nostro “Si&No” al sindaco di Roma Roberto Gualtieri e al leader dei Verdi Angelo Bonelli se gli attivisti di Ultima Generazione sono solo dei vandali?

Questa la visione del deputato di Europa Verde:

Caro sindaco Gualtieri, non condivido la tua decisione di costituirti parte civile contro i ragazzi di Ultima Generazione e ti spiego perché. Disapprovo alcuni metodi utilizzati dalle ragazze e dai ragazzi di Ultima generazione come ad esempio i blocchi stradali, perché dal mio punto di vista danneggiano i settori sociali più deboli e allontanano simpatie piuttosto che conquistarle. Alexander Langer diceva: “La transizione ecologica deve essere socialmente desiderabile”. Queste cose le ho dette e continuerò a dirle ai ragazzi e ragazze di Ug. Quello che manca alla politica tutta, è la volontà di ascoltare le loro ragioni, le loro preoccupazioni. In poche parole nessuno ha parlato con loro e ci si vuole confrontare, classificandoli incredibilmente come dei criminali, che per me non sono.

Ho incontrato i ragazzi di ultima generazione svariate volte e molto prima delle ultime elezioni politiche insieme alla mia collega co-portavoce di Europa Verde Eleonora Evi. Portavano e portano richieste che sono le stesse che provengono dalla comunità scientifica internazionale e nazionale, come passare alle energie rinnovabili per liberarci dalla dipendenza delle fonti fossili ed eliminare i sussidi ambientalmente dannosi che sottraggono 41 miliardi di euro di soldi pubblici. Quello che ho constatato è che tutti i partiti e rappresentanti delle istituzioni non li hanno mai ricevuti. I ragazzi e ragazze di Ug hanno fatto scioperi della fame, ricordo quello lungo e preoccupante di Alessandro, ma nessun partito li ha incontrati e voluti incontrare.

Hanno prodotto atti non violenti di disobbedienza civile e ora che colorano di carbone vegetale le fontane l’attenzione si è concentrata su di loro. Come possiamo trattare da criminali o addirittura definire eco-terroristi chi chiede di ascoltare le ragioni della scienza per salvare il pianeta, migliorare le condizioni di vita della popolazione e difendere una parola troppo abusata che si chiama “futuro”? L’Italia sa bene cos’è stato il terrorismo: bombe, morti e attentati. Non stiamo vivendo questo, eppure a questi ragazzi la procura di Padova ha contestato l’associazione delinquere che prevede una dura pena di carcere a sette anni.

Siamo in piena crisi climatica e le immagini che abbiamo visto dall’Emilia Romagna dimostrano la violenza di questi cambiamenti: 14 vittime e danni per circa cinque miliardi di euro secondo quanto denunciato dal presidente della Regione Bonaccini. Cos’è criminale i disastri climatici che dobbiamo commentare ogni volta o le azioni di questi ragazzi e ragazze? L’Italia è un paese in cui la desertificazione è aumentata considerevolmente secondo il Cnr e questo influirà sulla produzione di cibo, l’acqua potabile sarà sempre meno disponibile e l’inquinamento in Italia secondo l’agenzia europea per l’Ambiente provoca ogni anno in Italia oltre 52 mila decessi con costi economici e sociali elevati.

Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin invece di spiegare le ragioni per cui l’Italia non ha un piano di adattamento climatico ed un piano energia e clima come previsti dalla Ue, attacca gli ambientalisti ma non dice però che i danni solo da eventi metereologici estremi negli ultimi 40 anni in Italia ammontano a 100 miliardi euro. Intanto il negazionismo climatico condiziona le scelte politiche come dimostrano le irresponsabili dichiarazioni del presidente del gruppo di FdI al Senato Malan.

Caro sindaco Gualtieri, al tuo posto invece di costituirmi parte civile, io i ragazzi e le ragazze di Ug li avrei incontrati, ascoltato le loro ragioni e cercato di costruire un dialogo. Ma fare come ha fatto il presidente del Senato La Russa non mi piace, anche perché il governo deve spiegare a tutta Italia perché non si è costituito parte civile contri gli stragisti di piazza della Loggia a Brescia e invece lo fa con dei ragazzi e ragazze che usano carbone vegetale i cui effetti spariscono dopo poche ore. Angelo Bonelli

Il clima è cambiato (per gli estremisti). Il clima è cambiato, è vero. Ma, soprattutto, nei loro confronti. Ormai non li sopporta più nessuno e le loro pagliacciate sono divenute una vera e propria forma di inquinamento politico e sociale. Francesco Maria Del Vigo il 22 Maggio 2023 su Il Giornale.

Il clima è cambiato, è vero. Ma, soprattutto, nei loro confronti. Ormai non li sopporta più nessuno e le loro pagliacciate sono divenute una vera e propria forma di inquinamento politico e sociale. Ieri gli attivisti di Ultima generazione - a sorpresa! - hanno versato del liquido nero all'interno della Fontana di Trevi a Roma. L'ennesima, prevedibile, urticante e stanca provocazione che non provoca più nulla, se non una maiuscola irritazione tra gli italiani di ogni genere, compresi quelli che sono sensibili alle tematiche ambientali. Infatti la notizia non è più che abbiano, ancora una volta, danneggiato (seppure in modo non permanente) un monumento, ma è la rivolta scattata tra i presenti, che hanno fischiato i sedicenti contestatori e acclamato le Forze dell'ordine che li hanno sgombrati. Una maggioranza silenziosa che ieri ha deciso di fare un po' di chiasso e mettere al suo posto una minoranza facinorosa. La stessa minoranza che, sempre ieri, alla faccia dei gufi, non è riuscita a contestare la premier Giorgia Meloni in Emilia Romagna. Due buone notizie in un giorno solo che marcano la distanza siderale tra il Paese reale e certi estremismi e certa sinistra.

Perché questi eco-vandali non servono a nulla: danneggiano le opere d'arte, infastidiscono i cittadini, interrompono la viabilità - con il risultato paradossale che creando ingorghi aumentano lo smog - e, soprattutto, rendono invisa ai più una tematica importante come quella dell'ambiente. Insomma, danneggiano tutti senza favorire neppure la loro causa: rientrando perfettamente nella terza legge della stupidità umana di Carlo M. Cipolla.

Rimangono a reggergli bordone solo i vecchi arnesi della sinistra più radicale come Achille Occhetto che, sabato, a InOnda su La7 ha sostenuto che il Signore ha mandato un'alluvione sulla Romagna perché nessuno ascolta i ragazzi che gettano la vernice. Per fortuna nessuno ascolta lui. Forse solo Elly Schlein che, presente alla trasmissione, non ha trovato nemmeno una manciata di secondi per prendere le distanze da questo delirio ambientalista. Ma d'altronde è la stessa segretaria che ha giustificato le attiviste che volevano zittire il ministro Roccella al Salone del Libro di Torino. E le due cose vanno di pari passo, perché gli eco-gretini e le talebane del femminismo sono due facce della stessa medaglia: l'estremismo e lo squadrismo ideologico dei soliti gruppetti di prevaricatori che possono muoversi all'ombra di un Pd compiacente e di una folta schiera di finti intellettuali giustificazionisti alla Saviano. E meno male che il problema era il ritorno del fascismo...

Tagadà, Vittorio Sgarbi svela chi finanzia Ultima Generazione. Giada Oricchio su Il Tempo il 23 maggio 2023

Gli attivisti di Ultima Generazione si sono presentati davanti a Palazzo Madama, sede del Senato, hanno gettato acqua sulla facciata e si sono cosparsi di fango per protestare contro il presidente Ignazio La Russa che li aveva invitati ad andare a spalare il fango in Emilia Romagna anziché imbrattare opere d’arte e monumenti per richiamare l’attenzione sulla crisi climatica. E’ il secondo blitz dopo quello alla Fontana di Trevi. Il tema è stato dibattuto a “Tagadà”, talk pomeridiano su La7. Il critico d’arte Vittorio Sgarbi ha condannato questi gesti: “Sono vandalici e punibili. Chi li compie però si sta rendendo conto di non essere popolare. Non è certo buttando il nero (carbone vegetale, nda) nella fontana di Trevi che ottieni il consenso. Sono impopolari, non creano simpatia”. Poi il sottosegretario al ministero della Cultura ha rivelato chi c’è dietro Ultima Generazione: “I miliardari li finanziano e loro eseguono gli ordini come se fossero picciotti così da consentire alla grande industria delle rinnovabili di andare avanti”.

La conduttrice Tiziana Panella, con tono di voce sbalordito, lo ha incalzato: “Ma chi sono questi finanziatori miliardari?” e Sgarbi: “Uno è Getty, è accertato. I carabinieri devono risalire alla cupola che li comanda. Gli attivisti non sono lì in maniera spontanea, sono indirizzati da una strategia europea, se non mondiale, per colpire alcuni luoghi simbolo. Siamo davanti a un piano di una vera e propria cupola che ha in mente un’azione per favorire il business delle rinnovabili”.

Estratto da liberoquotidiano.it il 23 maggio 2023.

"Non ho parolacce a sufficienza per definire questi ecoteppisti": Vittorio Feltri lo ha detto a Stasera Italia su Rete 4 a proposito dell'ultimo blitz di Ultima generazione. Alcuni attivisti ieri hanno gettato del liquido nero nella Fontana di Trevi a Roma per richiamare ancora una volta l'attenzione delle persone sulla crisi climatica in corso. Parlando di questo tema, il fondatore di Libero ha fatto un appunto: "Il problema è che facendo questi atti, facendo queste aggressioni ai monumenti non si risolve assolutamente niente. Non è che a un certo punto tutti gli italiani diventano ecologisti scatenati".

Tornando alla protesta di Ultima generazione di ieri, domenica 21 maggio, gli attivisti avevano anche uno striscione per la campagna "non paghiamo il fossile" e hanno urlato: "Il nostro paese sta morendo", tra gli insulti dei passanti e dei turisti. Un rimprovero è arrivato anche dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri, il quale ha parlato di "un’assurda aggressione al patrimonio artistico. Invito gli attivisti a misurarsi su un terreno di confronto senza mettere a rischio i monumenti". 

"L'intervento costerà tempo, impegno e acqua, perché questa è una fontana a riciclo d’acqua. Ora noi la dovremo svuotare, si butteranno via 300 mila litri d’acqua, che è la capienza della fontana. Tante persone dovranno lavorare per rimuovere la vernice, appurarsi che non ci siano danni permanenti, come noi speriamo. È sempre un rischio che corrono i monumenti. Gli interventi di ripristino sono sempre costosi e hanno un impatto ambientale significativo", ha spiegato Gualtieri.

Da open.online il 23 maggio 2023.

Nuovo blitz degli ambientalisti di Ultima Generazione davanti al Senato: nove attivisti stanno manifestando davanti a Palazzo Madama e due di loro si sono cosparsi di fango. La polizia è intervenuta e li ha fermati.

«L’alluvione dell’Emilia-Romagna era un disastro annunciato. Portiamo il fango della politica nel palazzo della Politica», ha urlato una delle ragazze di Ultima generazione che ha dato vita all’azione a Palazzo Madama. L’attivista, a seno nudo e cosparsa di fango, è stata fermata dalle forze dell’ordine assieme agli altri attivisti. Gli attivisti hanno anche inviato alcune foto che li ritraggono a Palazzo Giustiniani.

Roma, nuovo blitz degli ambientalisti: liquido nero dentro la Fontana di Trevi. Giulio Pinco Caracciolo su Il Riformista il 21 Maggio 2023 

Nuova azione di protesta del gruppo ambientalista Ultima Generazione. Gli attivisti per l’ennesima volta hanno versato del liquido nero all’interno della Fontana di Trevi, nel centro di Roma. Il blitz e’ stato interrotto dagli agenti della polizia locale ma ci si chiede se siano sufficienti le forze dell’ordine a disposizione.

Un gruppo composto da una decina di militanti ha versato una sostanza scura, del carbone vegetale, nel bacino della Fontana di Trevi, situata nel cuore di Roma.

Con uno striscione per promuovere la campagna “Non paghiamo il fossile”, i giovani ambientalisti si sono posizionati all’interno della fontana, urlando e gridando frasi come “il nostro paese sta morendo”, malgrado le offese rivolte loro da passanti e turisti. Il riferimento era alle recenti vicende che hanno sconvolto la Romagna. 

Le reazioni  – “Gli attivisti di Ultima Generazione non si fermano. Per difendere l’ambiente continuano a organizzare forme di protesta discutibili oltre a imbrattare monumenti e sedi istituzionali. Ma davvero c’è qualcuno convinto che questi gesti servano a tutelare il pianeta?“ E’ quanto afferma Stefano Pedica, segretario regionale del Lazio di +Europa, in merito al blitz di alcuni attivisti di Ultima Generazione, che hanno gettato un liquido nero nella Fontana di Trevi, a Roma.

“Detto questo, alla luce dell’episodio di oggi – aggiunge Pedica – sarebbe il caso di aumentare i controlli in una città’ che ancora una volta si è presentata vulnerabile”. 

Giulio Pinco Caracciolo

(ANSA il 6 marzo 2023) - Alle 15 quattro persone legate alla campagna "non paghiamo il fossile", promossa da Ultima Generazione, hanno versato carbone vegetale diluito in acqua nella fontana dei Quattro fiumi a piazza Navona per lanciare l'allarme sul futuro nero che attende l'umanità e che si sta già manifestando con siccità e alluvioni sempre più frequenti. All'arrivo delle Forze dell'ordine gli attivisti hanno fatto resistenza passiva e sono stati allontanati e portati via dagli ufficiali di Polizia intervenuti. 

"Il nostro futuro è nero come quest'acqua: senza acqua non c'è vita e con l'aumento delle temperature siamo esposti alla siccità, da un lato, e alle alluvioni, dall'altro. Acqua che manca per coltivare il cibo, acqua che cade tutta insieme distruggendo le case. Ci aspettano anni difficili, ma se non azzeriamo le emissioni subito saranno terribili. Il collasso è già in atto e non possiamo più fermarlo: ne sono prova gli eventi estremi sempre più frequenti e devastanti, come l'alluvione in Emilia Romagna pochi giorni fa. 

Per questo chiediamo al governo di disinvestire immediatamente i miliardi che spende nei combustibili fossili, causa principale di queste tragedie, e utilizzarli per prendere misure urgenti per proteggere italiane e italiani dalle conseguenze di bombe d'acqua, siccità estrema, ondate di calore mortali", ha dichiarato Anna, una delle attiviste di Ultima Generazione.

Estratto da repubblica.it il 6 marzo 2023

Un altro blitz di Ultima Generazione nel cuore di Roma. Sono sei gli attivisti che questa mattina hanno bloccato via del Tritone. Legati assieme con delle catene, i giovani si sono seduti a terra semi nudi sulle strisce perdonali prima di Piazza Barberini, alla fine della via, con scritto sulla schiena 'stop fossile". Gli attivisti sono stati poi fermati dalla polizia arrivata sul posto.

A seno nudo le ambientaliste tornano a bloccare il cuore di Roma: "Diranno forse che siamo oscene. Ma io mi chiedo. Siamo oscene? Osceno è quello che è successo ieri in Emilia Romagna e il Governo, che sa che questi eventi estremi continueranno a succedere e nonostante ciò continua a investire nelle fonti fossili", dice Eos in merito al blitz. Legati assieme con delle catene, i giovani si sono seduti a terra semi nudi sulle strisce pedonali. […] 

Estratto dell’articolo di Viola Giannoli per “la Repubblica” il 6 marzo 2023

Via la maglietta, a seno nudo, in mezzo a via del Tritone, sulla schiena la scritta Stop fossile, una catena in vita per restare legata ai suoi compagni. Anna, 31 anni, Milano, due lavori, attivista di Ultima Generazione da un anno, è scesa giovedì a Roma per l’ultima protesta.

«Se serve questo per urlare più forte che la nostra casa sta bruciando, allora io lo faccio». 

Usare il corpo nudo come mezzo di protesta?

«Perché no? Non siamo i primi. Sono molto colpita nel vedere che quattro paia di tette abbiano scatenato un caos. C’è una sola cosa positiva: ci fa capire il potere che abbiamo. Anzi io vorrei dirlo a tutte le associazioni, i movimenti: osate di più».

[…] E invece?

«Invece ci s’indigna tanto per un corpo nudo in strada e non per i soldi spesi in combustibili fossili, non per la disperazione degli agricoltori senza acqua, non per le urla di dolore dei familiari che hanno perso i loro cari in eventi estremi, non per i processi e l’inasprimento delle leggi contro gli ambientalisti che hanno solo imbrattato un palazzo. Di quanti altri disastri c’è bisogno?». 

Perché spogliarsi stavolta?

«Per mostrarci vulnerabili. Vulnerabili davanti agli automobilisti arrabbiati, vulnerabili davanti al pericolo di essere investiti dalle macchine, davanti agli insulti e alle maldicenze. Esattamente come siamo nudi e vulnerabili davanti al collasso climatico». 

È preoccupata o arrabbiata?

«Entrambe. Preoccupata perché è terribile pensare che tra pochi anni saremo spacciati in modo irreversibile, ci saranno 50 gradi, ci saranno morti per i colpi di calore. Arrabbiata perché la politica non sta facendo nulla e continua a trattare la questione clima e quel che facciamo come un’opinione. […]». 

E per se stessa? È spaventata?

«Non è facile mettere in gioco la vita, la carriera, la sicurezza, ma qualcuno deve farlo. È una responsabilità, significa vedere il collasso eco-climatico, farsene carico, smettere di essere negazionisti come tutti, capendo che il disastro impatta sulle nostre vite. Lo vediamo nell’alluvione in Emilia Romagna, negli incendi, nella siccità, nei laghi e nei fiumi che scompaiono». 

[…]

Al governo cosa chiede? 

«L’ho scritto sul mio corpo: stop fossile. Non investire più un centesimo in gas, petrolio e carbone. E usare quei soldi in azioni urgenti per fermare il collasso».

Quanto (ci) costa ripulire la statua in piazza Duomo? 200 mila euro. Una ditta specializzata, selezionata appositamente con un bando dal Comune, dovrà scalare il monumento per ripulirlo dalla vernice, dietro un lauto compenso. Serena Coppetti su Il Giornale il 17 Aprile 2023

Di «lavabile» ormai non hanno più neanche la coscienza. Perché fatti due primi conti, anche un po’ sommari, pare che per rimediare alla «bravata» (se proprio la vogliamo trattare alla loro maniera) ci vorranno circa 200mila euro di soldi pubblici (quindi anche nostri). Tanto servirebbe infatti per ripulire la statua di Vittorio Emanuele II in piazza Duomo a Milano dalla vernice gialla utilizzata il 9 marzo scorso da Martina e Riccardo, una coppia di attivisti di «Ultima generazione» convinti che l’imbrattamento dei monumenti sia il modo migliore per ripulire il mondo. E già qui, qualcosa suona stonato.

Ma quel che è peggio è che mentre l’Ultima Generazione si dilunga anche attraverso comunicati stampa post imbrattamento con allegate foto e file di orgogliosi video, in appassionate disquisizioni sulla crisi climatica e sui combustibili fossili, pare che abbia banalmente frainteso la parola «lavabile». Insomma che la vernice non sia per niente cancellabile e sia necessario un discreto impegno, pure economico da sborsare dalle casse del Comune. Così dopo essersi arrampicati sul monumento di piazza Duomo fino ad arrivare (per fortuna) soltanto sotto alla coda del cavallo, ora si devono arrampicare sulla semantica per tentare di giustificarsi. «La vernice è identica a quella utilizzata per imbrattare la Scala e il Dito di Cattelan in piazza Affari», si sono affrettati a ricordare come fosse una giustificazione. «Non è di sicuro un imbrattamento permanente», hanno aggiunto tentando così di fare breccia nella comprensione di non si sa più bene a chi, a questo punto. Non è «permanente», come dicono loro, perché una ditta specializzata, selezionata appositamente con un bando dal Comune, dovrà scalare il monumento per ripulirlo dalla vernice, dietro un lauto compenso appunto di circa 200mila euro.

Tanto che anche il sindaco Sala che sicuramente strizza almeno un occhio all’ambientalismo si è affrettato a dire l’altro giorno che questo «è uno sfregio alla città». Intanto però si fa la gara (pubblica), per pagare (con i soldi pubblici) quello che non è né più né meno che un danneggiamento. Nel frattempo, il disegno di legge proposto dal ministro della cultura Gennaro Sangiuliano, che prevede da 10mila a 60mila euro di multa per chi vandalizza monumenti, è stato approvato dal consiglio dei ministri martedì. Ma gli attivisti pare che non rischierebbero le multe, ma potrebbero rispondere in Tribunale dei danni causati al monumento, soprattutto visto l'inevitabile lievitamento dei costi per la ripulitura. E il Comune di Milano potrebbe proporsi come parte civile per recuperare almeno in parte quanto speso. Ma il tempo è ancora al condizionale...

Estratto dell’articolo di Luca Sablone per ilgiornale.it il 14 aprile 2023.

Gli eco-vandali non solo si scagliano contro le sedi istituzionali e i monumenti italiani, ma tra di loro c'è anche chi rivendica di non avere intenzione di pagare le multe ricevute e di conseguenza di accumulare i debiti. […]

 Chloe Bertini, attivista di Ultima Generazione intervistata da Corrado Formigli a Piazzapulita su La7, non si è nascosta e ha confessato di essere finita recentemente al centro di una sanzione da 1.400 euro e di non voler provvedere al relativo pagamento.

Non solo: ha svelato anche altri precedenti, confermando sempre lo stesso modus operandi. "Non pagherò. Ho fatto dei blocchi, ho tante multe, ho dei debiti. Pagano i miei genitori? No, sono debiti che si accumulano", ha dichiarato con grande nonchalance.

 La ragazza ha riconosciuto che probabilmente il tutto avrà un impatto sul suo futuro, ma al tempo stesso ha sfoderato un ritornello per spostare l'attenzione su altro e ridimensionare il suo modo di agire: "C'è il rischio di non avere da mangiare. Ho sempre voluto avere figli ma non so se potrò averli, non so se ha senso averli. Un quinto dell'Italia è a rischio desertificazione".

[…] Chloe Bertini non ha dato segni di ripensamenti e ha rilanciato il tutto: "La protesta deve essere insopportabile, impossibile da ignorare. Penso di continuare a fare tutto quello che è necessario in maniera non violenta per ottenere un cambiamento".

Nei giorni scorsi il governo ha confermato il pugno duro contro gli ambientalisti d'assalto: è prevista una sanzione amministrativa compresa tra 20mila e 60mila euro per chi distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui. […]

Il governo Meloni inventa un nuovo reato per reprimere gli ambientalisti. Stefano Baudino su L'Indipendente il 5 Aprile 2023

La maggioranza lancia ufficialmente il guanto di sfida contro gli attivisti per il clima. Al Senato è infatti partito l’esame di un provvedimento, ideato dalla Lega di Matteo Salvini, che amplierebbe la possibilità di arresto in flagranza degli ambientalisti in caso di imbrattamento di beni culturali o paesaggistici. Dall’altra parte della barricata, l’organizzazione di disobbedienza civile nonviolenta contro la crisi climatica Ultima Generazione, che da due anni compie azioni dimostrative estremamente divisive (di recente, i suoi membri hanno imbrattato la Barcaccia di piazza di Spagna, palazzo Vecchio a Firenze e il Senato: abbiamo parlato direttamente con loro di tali pratiche in un’intervista) – manifesta sdegno per la nuova mossa della maggioranza e chiede un tavolo di confronto con il governo.

La proposta della Lega, giunta ieri in Commissione Giustizia al Senato, prevede nello specifico l’introduzione del reato di danneggiamento di beni culturali e artistici e l’inserimento dei reati di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni che appartengono al patrimonio artistico e culturale tra quelli che prevedono l’arresto facoltativo in flagranza.

Il testo, che ha visto la luce lo scorso novembre e porta la firma del senatore leghista Claudio Borghi, punta a intervenire sull’articolo 518 duodecies del codice penale, introducendo una nuova fattispecie di reato che punisca con la reclusione fino a un anno e una multa fino a 1.500 euro chi venisse colto ad imbrattare beni culturali, consentendo il suo arresto in flagranza. Oggi, infatti, l’arresto può scattare solo in caso di accusa di danneggiamento, mentre per l’imbrattamento – accusa che molto più frequentemente viene rivolta agli attivisti per il clima – ciò non è ancora previsto.

In Commissione, il disegno di legge è stato preso in carico dalla presidente ed ex ministro Giulia Bongiorno, che ne sarà relatrice. Allegata al testo vi è una relazione in cui si legge che, essendo necessario “prevenire il reiterarsi di nuovi atti di vandalismo nei confronti del patrimonio artistico culturale italiano”, si vuole “rispondere a una precisa scelta di politica criminale: rafforzare ulteriormente la tutela, anticipando la soglia di punibilità, del bene giuridico protetto dalla norma, ossia la conservazione del nostro inestimabile patrimonio culturale”.

Sentita dall‘Indipendente, Maria Letizia Ruello, attivista di Ultima Generazione e Ricercatrice in scienze e tecnologie dei materiali presso l’Università Politecnica delle Marche, ha detto: «Commento i fatti con una mitica frase di Ghandi, che da sempre ci guida: “prima ti ignorano, poi i deridono, poi ti reprimono, e poi vinci”. Questo passaggio segna l’inizio della repressione, mescolata a tanta derisione». Rispetto ai rapporti con il mondo partitico e istituzionale, Ruello tiene a sottolineare come Ultima Generazione «continuerà a rivolgersi ai decisori politici con richieste concrete e realizzabili, sulle quali il governo si è impegnato a mettere mano ma alla fine non ha fatto nulla. Chiediamo un incontro a Giorgia Meloni, un tavolo di trattativa finalizzato alla riduzione dei finanziamenti alle fonti fossili e al no a nuove centrali a carbone e a nuove trivellazioni».

Dunque, dopo il “decreto Rave” e il “decreto Cutro“, il centro-destra sembra voler perseguire su un binario ormai nitidamente tracciato: la costante creazione di nuove fattispecie di reato. Oltre al disegno di legge contro l’imbrattamento del patrimonio pubblico, infatti, la maggioranza ha intenzione di proseguire nel suo percorso con nuove proposte: da quella contro le occupazioni e l’omicidio nautico a quella contro l’istigazione all’anoressia, da quella contro la maternità surrogata all’estero a quella contro i cellulari in carcere.

Eppure, a stonare nella narrazione “legge e ordine” del governo, ci sono ad esempio la proposta per l’abolizione del reato di tortura – concepita al fine di andare incontro agli elementi delle forze di polizia che si trovano a ricorrere a mezzi di coazione fisica – e i 12 condoni entrati nella Legge di Bilancio 2023, che favoriranno invece gli evasori fiscali. Insomma, a prescindere da quel che si possa pensare sul merito delle condotte degli attivisti per il clima, non sempre foriere di giudizi positivi da parte dell’opinione pubblica, il governo pare sapersi scegliere bene le categorie contro cui utilizzare il suo pugno di ferro. [di Stefano Baudino]

Estratto dell’articolo di Enrico Tata per fanpage.it l’1 aprile 2023.

Blitz degli attivisti di Ultima Generazione, che nella mattinata di oggi, sabato 1 aprile, hanno versato della vernice nera nella fontana della Barcaccia a piazza di Spagna, nel cuore di Roma. L'acqua all'interno della fontana è attualmente colorata di nero. Gli attivisti spiegano che si tratta di liquido a base di carbone vegetale.

Se vedere quest’acqua nera vi sconvolge è perché, come noi, riconoscete quanto sia prezioso quello che stiamo perdendo. […]", si legge in una nota di Ultima Generazione.

"C’è un solo modo per frenare questa corsa verso il suicidio collettivo: interrompere le emissioni legate ai combustibili fossili. Con questa azione vogliamo chiedere al Governo di smettere di investire in sussidi dannosi per l’ambiente. Con questa azione vi invitiamo a non rassegnarvi a questa condanna a morte”, hanno dichiarato gli autori del blitz. […]

Per la Procura di Padova Ultima Generazione è un’associazione a delinquere. Salvatore Toscano su L'Indipendente il 16 aprile 2023.

La Procura di Padova ha deciso di iscrivere nel registro degli indagati per associazione a delinquere dodici attivisti di Ultima Generazione, al centro del dibattito pubblico per gli imbrattamenti a diversi edifici privati e storici con vernice lavabile. Il pubblico ministero Benedetto Roberti ha dato seguito a delle indagini svolte dalla Digos nel 2020, formalizzando una serie di accuse che spaziano dall’interruzione di pubblico servizio all’ostacolo della libera circolazione, passando per il deturpamento di beni culturali e l’imbrattamento di luoghi. Gli inquirenti hanno fatto leva sulla struttura gerarchica dell’associazione, ai cui vertici vengono «organizzati, discussi e vagliati» i blitz, per avanzare l’aggravante dell’associazione a delinquere, e gli ecovandali sono così diventati ecocriminali.

Come recita l’articolo 416 del Codice Penale, si parla di associazione a delinquere “quando tre o più persone si associano allo scopo di commettere più delitti”. Negli ultimi tre anni Ultima Generazione si è resa protagonista di azioni “che stanno antipatiche a tutti”, come recita il titolo dell’intervista de L’Indipendente a un’attivista dell’associazione. I cittadini e le istituzioni hanno spesso risposto con denunce e multe, ma nessuna procura si era spinta a ipotizzare Ultima Generazione nei termini di un’associazione a delinquere, mettendola di fatto sullo stesso piano della criminalità organizzata. Le accuse sono giunte a distanza di qualche giorno dall’approvazione, in Consiglio dei ministri, di un disegno di legge che sanziona con multe fino a 60mila euro chi imbratta o distrugge i beni culturali. Una sorta di potenziamento del reato di “danneggiamento al patrimonio archeologico, storico o artistico nazionale”, disciplinato ai sensi dell’articolo 733 del Codice penale. La norma in vigore prevede l’arresto fino a un anno o l’ammenda non inferiore a 2.065 euro. Se approvato dal Parlamento, il nuovo ddl proposto dal governo aumenterà la soglia minima delle sanzioni: chi imbratta i beni culturali rischierà una multa da 10 a 40mila euro, con il limite massimo portato a 60mila euro nei confronti di chi li distrugge. Una stretta che mette in chiaro le priorità dell’esecutivo, intenzionato a stroncare le azioni dimostrative di ragazzi che chiedono interventi urgenti alle istituzioni e – seppur utilizzando metodi discutibili – conducono le loro azioni usando vernice lavabile, senza aver quindi intenzione di danneggiare realmente nessun bene culturale.

Ultima Generazione ha commentato la decisione della Procura di Padova rilanciando prima una citazione del relatore speciale ONU sui difensori dei diritti umani Michel Forst («Le azioni illegali a volte sono legittime. E quelle degli attivisti climatici lo sono»), «per poi aggiungere che dei cittadini nonviolenti sono stati trattati come se fossero dei mafiosi». Non è la prima volta che dagli ambienti giudiziari rimbalza il collegamento tra associazione a delinquere e delitto politico, sintomo della virata verso una gestione sempre più restrittiva dei movimenti di protesta. Lo scorso luglio, ad esempio, la magistratura torinese è andata all’attacco del centro sociale Askatasuna, considerando i suoi esponenti come dei membri di un’associazione a delinquere. Un castello accusatorio smontato poi a dicembre dalla Cassazione, non ritenendo sufficienti le motivazioni fornite in sede di riesame dai pm per giustificare il reato. [di Salvatore Toscano]

"Associazione a delinquere". Inchiodati gli eco-vandali. Indagati per i blitz 12 attivisti veneti e milanesi. La Digos: sono azioni decise da gerarchie interne. Francesco Giubilei il 16 Aprile 2023 su Il Giornale

Dopo mesi di azioni vandaliche con monumenti imbrattati, opere d'arte prese di mira, strade bloccate e altre azioni illegali, finalmente è in atto una stretta contro gli eco-vandali di Ultima Generazione. Pochi giorni fa l'azione del governo con l'aumento delle sanzioni con maxi multe verso chi danneggia il patrimonio culturale, mentre ieri è arrivata la notizia che gli attivisti di Ultima Generazione sono indagati per associazione a delinquere. Si tratta di dodici attivisti tra i 21 e i 57 anni residenti a Padova, Treviso, Venezia, Vicenza, Verona e Milano. Il pm Benedetto Roberti ha accolto il canovaccio investigativo e inviato gli avvisi di garanzia con le accuse di interruzione di pubblico servizio, ostacolo della libera circolazione, deturpamento di beni culturali e imbrattamento di luoghi.

Secondo la Digos di Padova che ha condotto le indagini, le manifestazioni di disobbedienza civile erano «blitz organizzati», discussi e vagliati da una gerarchia interna e con questa motivazione è riuscita a chiedere l'aggravante dell'associazione a delinquere.

La Digos indaga già dal 2020 quando fu eseguita la prima perquisizione a casa di uno dei promotori del gruppo responsabile di varie azioni contro i monumenti della città euganea. Nonostante negli ultimi anni siano avvenuti blocchi stradali e imbrattamenti di edifici privati e storici, la Digos è riuscita a impedire a settembre 2022 l'imbrattamento con vernice spray della sede regionale della Lega. Le indagini sono iniziate quando comparvero nelle vetrine di alcuni negozi di grandi catene dell'abbigliamento nel centro di Padova manifesti firmati da Extinction Rebellion in cui si criticavano gli investimenti sui «grandi affari distruttivi».

Dopo la prima perquisizione a uno dei promotori ed organizzatori di Ultima Generazione, la Digos ha individuato, anche monitorando le riunioni avvenute in un parco pubblico di Padova, gli altri membri padovani del gruppo ambientalista.

Oltre a vari blocchi alla circolazione stradale, il 21 agosto dello scorso anno è avvenuto il gesto più eclatante con quattro militanti che si sono incatenati all'interno della Cappella degli Scrovegni dove si trova il delicato e prezioso ciclo di affreschi di Giotto. In quel caso la Polizia è intervenuta tagliando con cesoie le catene e trascinando a forza i manifestanti fuori dalla cappella. Ultima azione in ordine di tempo è stata quella di tre eco vandali aderenti alla campagna «Non paghiamo il fossile» che hanno bloccato una via vicino ai dipartimenti di Matematica ed Economica dell'Università.

Commentando la notizia dell'indagine, il vicepremier Matteo Salvini ha affermato: «Giusto così. Chi vandalizza opere e blocca strade commette reati e va perseguito con durezza».

Senza dubbio bisognerà attendere l'esito dell'indagine ma il fatto che le loro azioni nascano non su iniziativa di singole persone ma attraverso un coordinamento è evidente. In ogni caso l'indagine rappresenta un segnale importante per dimostrare che gli eco teppisti non sono al di sopra della legge. Troppo spesso le loro azioni hanno goduto di un clima di accondiscendenza, non certo da parte dei cittadini ma da alcuni ambienti politico-culturali che hanno cercato di renderli delle icone. Da troppo tempo però hanno superato il limite e, visto che loro stessi sostengono di volersi assumere la responsabilità delle proprie azioni, ora potranno farlo anche di fronte alla giustizia.

Simone Ficicchia, lo studente di Ultima Generazione: «Greta non mi bastava, pronto alla galera per il pianeta». Andrea Priante su Il Corriere della Sera il 18 Aprile 2023 

Attivista per l'ambiante, 21 anni, è tra gli indagati per i blitz contro l'arte a Padova: «Non vogliamo piacere alle persone, ci basta che riflettano»

Certo che mi preoccupa l’inchiesta della procura di Padova. Ho solo 21 anni e mi ritrovo indagato...». Appunto, ha 21 anni. Sapeva che si stava cacciando nei guai... «Non me ne pento. Se lo scotto da pagare per evitare un disastro planetario è di ritrovarmi con la fedina penale sporca, o perfino di finire in prigione, ne vale la pena». Simone Ficicchia, studente dell’Università di Padova, è uno dei dodici attivisti di Ultima Generazione indagati per reati che vanno dall’interruzione di pubblico servizio all’imbrattamento, compiuti nel corso delle proteste messe in atto nell’ultimo anno in provincia di Padova. Nel mirino degli investigatori finisce così la falange veneta del collettivo che da tempo si rende protagonista di blitz clamorosi, bloccando le strade, incatenandosi ai musei o sporcando le opere d’arte. Simone e gli altri undici indagati si sono rivolti all’avvocato Leonardo De Luca, che avrà il difficile compito di smontare le accuse della procura, a cominciare dalla più grave (che riguarda solo cinque di loro): l’associazione per delinquere. «Un gruppo di giovani che saltuariamente ha condotte di modesta gravità o inoffensive, non è automaticamente un sodalizio criminoso» ribatte il legale. «Ci paragonano ai mafiosi, ai terroristi. Francamente non mi sento un criminale», dice Simone, che era già finito nei guai lo scorso anno: la questura di Pavia aveva chiesto per lui la sorveglianza speciale per essersi incollato alla Primavera del Botticelli. «Il tribunale di Milano ha poi respinto la richiesta. Anche lì mi sono difeso spiegando che le ragioni per le quali protestiamo si fondano su studi scientifici. Farò lo stesso a Padova».

Andiamo con ordine. Come è diventato uno dei portavoce nazionali di Ultima Generazione?

«Mi interesso di tematiche ambientali fin da quando ho 14 anni. A 17 sono entrato nel movimento Fridays For Future, ma poi ho capito che limitarsi a fare dei cortei colorati non portava a nulla. Servono azioni più incisive. Così due anni fa ho aderito a Ultima Generazione: per dedicarmi completamente alla causa ho momentaneamente messo da parte gli esami alla facoltà di Storia e il mio sogno di diventare professore».

I suoi genitori che ne pensano?

«Dicono di condividere la mia preoccupazione ma non le modalità con cui portiamo avanti la battaglia. Temono che, a furia di denunce, finirò per rovinarmi il futuro».

E lei cosa risponde?

«Che se nessuno fa qualcosa, il futuro non esisterà».

Il futuro si cambia lanciando vernici colorate contro le opere d’arte? Il blitz a Palazzo Vecchio, a Firenze, ha causato 30mila euro di danni...

«Sono iniziative choc, che spingono giornali e tivù a parlarne. In questo modo vogliamo costringere i politici a riflettere sulle tematiche che portiamo avanti. In fondo anche l’arte rischia di soccombere a causa del cambiamento climatico: Venezia sta affondando, le piogge acide danneggiano i monumenti...».

Bloccare il traffico impedisce alle persone di andare al lavoro.

«Mi dispiace per gli automobilisti. Ma se non si interviene, molti di noi non avranno un lavoro».

Non è troppo giovane per essere così catastrofico?

«Lo dicono gli scienziati: mi rifaccio ai report diffusi dalle Nazioni Unite e accessibili su internet».

Gli scienziati sono preoccupati ma non dicono che il mondo è sull’orlo dell’estinzione. Piuttosto, le modalità delle vostre proteste vi stanno inimicando l’opinione pubblica...

«Non ci interessa piacere alle persone, ci basta che riflettano. Maggiore è la visibilità, più sono coloro che condividono i timori diffusi da Ultima Generazione».

Voi puntate ai politici. Perché invece non partire dal basso, spingendo le persone ad adottare comportamenti virtuosi, come fanno altre associazioni ambientaliste?

«Arrivati a questo punto i comportamenti dei singoli individui non bastano a limitare gli effetti della crisi climatica. Occorre che siano i potenti a intervenire».

Come finirà?

«Prima o poi i politici capiranno. Spero solo che non sia troppo tardi».

PiazzaPulita, Chloe Bertini: "La protesta deve essere insopportabile". Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 16 aprile 2023

«Il monumento apre le braccia e ti stringe contento/il monumento è la parola nel vento», cantava il talentoso Peppe Voltarelli. Il quale, sulla scia di Jacques Brel, si cullava in un’Italia gravida di 3.400 musei, 2.100 parchi archeologici e 43 siti Unesco. Ecco. Dovremmo chiedere a Corrado Formigli di far ascoltare Il monumento di Voltarelli, inno alla nostra bellezza, a tal Chloe Bertini. Ossia a quell’attivista giovane dalle sinapsi aggrovigliate quanto le trecce, dura e pura del collettivo anarcoide Ultima generazione, che in diretta a Piazza Pulita ha dichiarato guerra al patrimonio artistico italiano.

Bertini, ospite nel talk di La7, è una di quelle iene combattenti tinte di verde che, di mestiere, imbrattano a bella posta siti, statue, palazzi, quadri nei musei. Lo fanno per protestare contro i cambiamenti climatici, i governi inerti verso l’inquinamento ed altre amenità di cui mi sfiggono i dettagli ma saranno senz’altro importantissime. La ragazza, alla notizia delle super-multe fino a 60mila euro varate dal nuovo decreto governativo ha pensato bene, in diretta, di confessare di aver violato la legge e di voler continuare a farlo: «Ho preso una multa per le mie azioni a piazza di Spagna. Non ho pagato. Non pagheranno i miei genitori. So che questi debiti avranno un impatto sul mio futuro. Ma quale futuro avremo?». Alché il conduttore Formigli, preoccupandosi giustamente più del presente che del futuro, le ha fatto notare che esistono altri modi per protestare e raccontare le proprie posizioni. «D’altronde le persone si incazzano nel vedervi rovinare le nostre opere», ha commentato Corrado. Eccezione dalla logica inoppugnabile.

 PROTESTA INSOPPORTABILE

Ma Chloe s’è inalberata: «La protesta non deve essere sopportabile. Deve essere impossibile da ignorare. Chiedo alle persone di silenziare questa polemica sul metodo. Continuerò a fare tutto quello che è necessario per ottenere un cambiamento». E di solito qui, ogni militante green che si rispetti, per un riflesso pavloviano spacciato per libero pensiero, cita o Gandhi, o la lotta delle «suffragiste» (in era per-politically correct le chiamavamo «suffragette») ola sfida di Rosa Park sugli autobus dei bianchi in Alabama: ché non si capisce bene cosa c’azzecchino con lo sfregiare l’arte, ma detto così suona molto figo. Comunque la Chloe poi precisa a Formigli: «Farò tutto quello che è necessario in maniera non violenta per ottenere un cambiamento, ci stanno togliendo la cosa più preziosa che abbiamo, la vita».

Intanto però gli attivisti nelle ultime settimane hanno tolto vita, dignità e bellezza: alla Barcaccia e Palazzo Madama a Roma, al Palazzo Vecchio di Firenze, alla statua equestre di Vittorio Emanuele davanti al Duomo di Milano. Quest’ultima è stata striata di vernice indelebile. Per un danno da più di 50mila euro che ovviamente pagherà il Comune di Milano, cioè noi; a meno che il sindaco Beppe Sala, che so pure lui incazzatissimo, non sfidi la parte sinistra dei suoi elettori e non si costituisca parte civile.

Tutti questi monumenti, ma anche i precedenti e i prossimi, vengono imbrattati vergognosamente in atti teppistici che nulla hanno d’eroico e assomigliano più a quelle challenge via Internet in cui si lasciano cadere ragazzetti cretini spesso di buona famiglia.

Punire chi imbratta la cosa pubblica è un’azione che dovrebbe essere trasversale nella sua banalità. Eppure, oplà, ecco che l’ideologia è pronta a saltare in testa e imbrattare i pensieri. Il portavoce del collettivo Ultima generazione Simone Ficicchia afferma che tutti sono rimasti: «Molto sorpresi nel vedere una maggioranza che invece di occuparsi della crisi climatica è sempre più attiva nel promuovere leggi ad hoc per punire azioni non violente da persone preoccupate per il futuro di tutti». E afferma che continueranno ad imbrattare, finanche dal carcere.

Il Movimento 5 Stelle la giudica una mossa frutto della propaganda. Debora Serracchiani del Pd, invece di mazzuolare gli eco-vandali, parla di «grottesca» azione del governo: «Peccato che a inizio 2022 sia entrato in vigore il ddl Franceschini-Orlando che ha introdotto nuove fattispecie di reato contro il patrimonio culturale e che, in particolare, punisce la distruzione, la dispersione, il deterioramento, il deturpamento, l’imbrattamento e l’uso illecito di beni culturali o paesaggistici». Vero. Ma peccato che le nuove fattispecie non abbiano funzionato. Come non si applicano a dovere l’art 518 cp, e il 639 cp che prevede una multa fino a 100 euro per chi «deturpa o imbratta cose mobili o immobili altrui». Non hanno sortito grandi effetti. Quindi, forse, serviva un deterrente ulteriore e più veloce (e perché no? Più propagandistico: gesto contro gesto).

DASPO CULTURALE

Ora, il problema è di giustizia sociale oltre che di assolutezza giuridica. La suddetta Chloe afferma fieramente di voler violare la legge in una «protesta che dev’essere insopportabile»? Ok. Ma allora dev’essere insopportabile anche la pena. E, data l’incertezza – e l’inadeguatezza- dei soggiorni carcerari, quella pecuniaria resta la più insopportabile possibile: «Da 20 a 60 mila euro», più sanzioni penali, per quanti distruggano, disperdano, deteriorino o rendano «in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali». Come dice il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, «chi danneggia deve pagare in prima persona». Il Foglio, sottolinea che «il ddl, ove mai venisse convertito in legge, potrebbe istituire anche una specie di Daspo culturale, un distanziamento sociale per i molestatori seriali di monumenti». Il Foglio ironizza, ma è un’ottima idea. Gli idioti potrebbero assottigliarsi e non sarà il monumento «parola del vento»...

Pd in tilt sugli eco-vandali. Gualtieri condanna, Schlein li giustifica ancora. Pietro De Leo su Il Tempo il 02 aprile 2023

Di nuovo, il doppio binario. C’è la linea dei sindaci, che vivono il territorio, tutti i giorni hanno a che fare con il degrado (con alterne fortune) la cura dei monumenti, l’impatto di ogni gesto umano sulla città. E poi c’è lei, Elly Schlein, nella sua bambagia ideologica "inclusiva" fatta di buonismo e de-responsabilità. Ieri gli attivisti di Ultima Generazione si sono esibiti a Roma, in Piazza di Spagna, gettando nella fontana della Barcaccia un liquido a base di carbone vegetale. Un atto di vandalismo che costituisce l’ultimo capitolo di una serie ormai troppo affollata di casi. Il primo cittadino di Roma, Roberto Gualtieri, Pd, ha condannato il gesto con parole dure e inequivocabili. «Hanno compiuto un atto illegale, dannoso e sbagliatissimo. Bisogna essere severi – ha spiegato - non bisogna colpire il nostro patrimonio. Condividiamo i temi della sensibilizzazione dei cittadini sul rischio dei mutamenti climatici ma questo non è il metodo giusto. Non è rischiando di danneggiare il nostro patrimonio che si aiuta l’ambiente». E ancora, l’iniziativa contro la Barcaccia, secondo il sindaco «suscita una collera generale, il tema della difesa dell’ambiente è importante e non va perseguito con azioni stupide e per rimediare alle quali è richiesto uso di acqua, energia e quindi sono in contraddizione con la difesa dell’ambiente». Posizioni nette, da parte di chi ha il polso del territorio. Poi arriva lei, Elly Schlein, che invece lascia un margine di perdonismo. «Non sono metodi che condivido. Detto questo, però, ho visto da parte delle istituzioni dei toni che cercano di spostare l’attenzione dalla luna al dito: le mobilitazioni che abbiamo visto in queste anni, dal primo sciopero di Greta Thunberg, indicano una luna che dobbiamo guardare tutte e tutti». E ancora: «Quella rabbia si sta manifestando perché c’è una frustrazione per la mancanza di risposte dalla politica. Io sono lì per cercare queste risposte».

Insomma, vandalizzare un monumento, secondo la segretaria Pd, è del tutto secondario. Un doppio registro che si era già osservato in occasione dell’imbrattamento della facciata di Palazzo Vecchio, sempre da parte degli attivisti di Ultima Generazione. Il sindaco Dario Nardella (Pd anche lui) che, trovandosi sul luogo, si lancia per fermare uno dei due vandali, apostrofandolo in maniera comprensibilmente dura. E poi Schlein che «al di là del metodo scelto» sfoderava, anche lì, la storiella del dito e della luna. «Loro -disse degli attivisti - stanno solo chiedendo di ascoltare la scienza. Perché se non l’abbiamo fatto sulla pandemia non lo facciamo sul clima?». Insomma, quasi come se gli imbrattatori fossero i virologi dell’ambiente. In quella che è una presa di posizione inspiegabile se non con un buonismo equilibrista fino all’autolesionismo, in realtà c’è una chiave di lettura ben precisa. Identitaria, nello specifico. Elly Schlein appartiene a quel progressismo contemporaneo che ha il suo tratto distintivo nella liquidità assoluta, anche culturale. Nella demolizione delle differenze qualsiasi esse siano. Una sinistra autocensoria che fa dell’autoincolpazione il suo mantra, dell’ideologia woke lo stendardo da innalzare per la conquista del mondo. Una ideologia che si nutre di «qui ed ora», di «futuro» ma aborrisce il passato. Per questo, l’indignazione di fronte al monumento deturpato viene vista come un qualcosa da trogloditi, un «guardare al dito», un limite. Loro, di monumenti, non hanno bisogno. Anzi, dove possono, li buttano giù anche, perché costruiti in epoche senza democrazia, utilizzando il lavoro di schiavi o manovalanze senza diritti. Per questo, i vandali di Ultima Generazione sono costola, per nulla incrinata, di questa nuova sinistra.

(ANSA il 17 marzo 2023) - Imbrattamento a edifici di rilevanza culturali o paesaggistici, manifestazione non autorizzata e mancato rispetto del foglio di via emesso dal questore per tre anni: questi i reati per i quali sono stati denunciati i due attivisti di Ultima generazione, un 32enne e una 23enne, che stamani hanno imbrattato con vernice arancione la facciata in pietra di Palazzo Vecchio.

Lo rende noto Palazzo Vecchio: i due sono stati fermati dalla polizia municipale insieme al sindaco Dario Nardella. I due attivisti, secondo quanto appreso, a Firenze avevano già preso parte, il 12 febbraio scorso, all'azione contro il palazzo del Consiglio regionale toscano, in via Cavour, imbrattato con vernice giallo e rossa.

Estratto dell’articolo di Marco Leardi per ilgiornale.it il 17 marzo 2023.

Quando gli eco-vandali hanno iniziato a imbrattare la facciata di Palazzo Vecchio a Firenze, Dario Nardella ha avuto un sussulto. Non si è trattenuto. Il sindaco della città toscana, che fortuitamente si trovava poco distante per un sopralluogo ai restauri, si scagliato di peso contro uno di essi. "Ma che c... fai!", ha strillato. Poi gli spintoni, l'arrivo degli agenti della municipale e i fischi dei turisti, infuriati anch'essi per la follia dell'oltranzismo ambientalista che tutto danneggia in nome dell'ideologia.

"Quando ho visto i due agenti della polizia municipale correre in direzione dell'arengario, mi sono girato e mi sono lanciato anche io. Abbiamo visto questi due individui che stavamo praticamente devastando tutta la facciata del Palazzo con la vernice. D'istinto mi sono buttato su uno dei due per cercare di bloccarlo, loro non hanno opposto violenza", ha raccontato Nardella. Un filmato documenta l'assalto degli eco-vandali e la successiva reazione d'impeto del sindaco, accorso per fermare uno degli attivisti che stavano imbrattando Palazzo Vecchio.

"Siamo stati molto fortunati: eravamo con tutti i restauratori sui vari ponteggi quindi avevano spazzole e spugne, gli idranti, ci siamo messi tutti a lavorare subito perché la prima cosa da fare era bagnare immediatamente la facciata", ha aggiunto il primo cittadino, messosi poi ad aiutare gli inservienti nel lavaggio della facciata sfregiata dalla vernice. "Ci hanno spiegato che va subito tolta per evitare danni bisogna lavarla via subito: io mi sono messo e l'ho lavata"

[…]"Questi sono dei barbari, degli incivili, perché non è così che si manifestano le proprie idee, non è violentando il patrimonio culturale, la bellezza: loro dovrebbero proteggere la civiltà, la bellezza, non insultarla e deturparla. A Firenze non ci sarà mai spazio per l'inciviltà", ha tuonato il sindaco Nardella, ammettendo di aver insultato uno degli attivisti durante la sua reazione istintiva.

"Sono degli ignoranti e meschini che usano il patrimonio culturale e la bellezza della città per esibizionismo", ha continuato il sindaco. Poi ha concluso: "Per fortuna sono intervenuti tutti, anche dei comuni cittadini si sono messi con le spazzole, gli Angeli del bello, l'assessore Bettini, la polizia municipale e poi i vigili del fuoco e Alia: ci siamo tutti buttati per pulire immediatamente, è stato un miracolo perché avevamo già l'attrezzatura sul posto altrimenti tutto il mondo avrebbe visto per settimane una situazione devastante". […]

Ma cosa cazzo fai, cretinetti. Nardella e i coppini ai dementi in cerca di 15 secondi di celebrità. Guia Soncini su L’Inkiesta il 18 Marzo 2023

Il sindaco di Firenze ha reagito come un padre di una volta di fronte al ragazzino che imbrattava con «vernice lavabile» Palazzo Vecchio. Così è diventato eroe del mio cuore e salvatore dell’Italia

Scusami, Dario. Tu non mi conosci, e ti starai chiedendo perché mi scusi. Io neppure ti conosco, e fino a ieri non m’era parso un problema: ho idea dell’esistenza e del profilo Instagram di fin troppi sindaci, abbastanza da avere deciso che i sindaci di sinistra simboleggiano il disastro culturale in cui grufoliamo.

Sindaci che si mettono la mascherina rosa in pandemia così capiscono cosa significa essere donne, sindaci che suonano la chitarra in tv, sindaci che si fanno fotografare mentre leggono libri scritti da loro stessi. La cosa che dico più spesso è che sogno una città il cui sindaco non s’instagrammi e in cui venga raccolta la spazzatura: non ne ho ancora trovata una che unisca le due qualità, perlopiù i sindaci delle città italiane s’instagrammano moltissimo e puliscono pochissimo.

Non so come sia la situazione dell’immondizia a Firenze, e sul tuo Instagram sono stata per la prima volta ieri, quando avevo già deciso che sei l’unica speranza dell’Italia (mi perdonerai se ti do del tu ma, quando si decide che qualcuno è l’unica luce in fondo al disastro dell’infantilizzazione collettiva, non si può perdere tempo in formalità).

I fatti li conoscono tutti quelli che sono passati dai social ieri. Degli ordinari dementi ordinariamente determinati a finire dentro a un telegiornale si sono messi a imbrattare con lo spray Palazzo Vecchio. E qui, prima di proseguire nella cronaca, mi urge una divagazione che poi divagazione non è.

Vi vedo. Sono mesi che vi osservo. Intellettuali, artisti, gente di buoni studi, alcuni pure amici miei. Ogni volta che si dà notizia di qualche ragazzino imbecille che imbratta un quadro, voi – terrorizzati di sembrare gente che ha a cuore la legalità, e quindi di destra, giacché lasciare ordine e legge alla destra è il modo più sicuro per ottenere il risultato cui più tiene la sinistra: perdere le elezioni – ogni volta voi riportate la notizia usando due parole per le quali io vorrei prendervi a coppini.

Quelle due parole sono: vernice lavabile. Lo dite contando sull’ambiguità, sul lettore distratto che dirà «ah ma quindi si può lavare via, tanto rumore per nulla». Lo dite come non foste adulti normodotati che sanno che «lavabile» è quella vernice con cui si pittano i muri delle stanze dei bambini, così puoi pulirli senza che la vernice si scrosti.

«Lavabile» non significa «butta pure un po’ di colori sulla Gioconda, poi le diamo una passata di detersivo e torna nuova», e voi – con tutto quel che hanno speso per farvi studiare – lo sapete, ma avete deciso che tenete più a posizionarvi dalla parte dei giovani ribelli (altrimenti vi dicono «boomer» e ci rimanete male) che alla verità. Oppure non lo sapete, e allora dovete trovarvi un impiego meno di concetto di quanto lo sia commentare la cronaca. Fine della digressione, che poi digressione non è.

Insomma tu, Dario Nardella, sindaco di Firenze e del mio cuore e salvatore dell’Italia e probabilmente unico non imbecille della generazione più imbecille di tutti i tempi, cioè la mia, sei lì vicino che stai dicendo qualcosa a una telecamera, e ti segnalano che ci sono appunto i soliti dementi che come al solito imbrattano.

L’immagine fissa che hanno commentato tutti è il placcaggio dello spruzzatore di vernice. Sembra finta. Sembra un Caravaggio. L’hanno già notato tutti (storia dell’arte è nei programmi della scuola dell’obbligo), non sto dicendo niente di nuovo. Potrei giusto aggiungere che non sembra neanche giovanissimo, il cercatore di telecamere, ma ormai l’assemblea d’istituto dura ben oltre i quarant’anni e i gesti da liceali sono propri di quelli che una volta erano adulti.

L’immagine in movimento che hanno commentato tutti è quella di te che interrompi il tuo monologo, ti volti, vedi il malfattore, e felino scatti a placcarlo: il Tom Cruise che ci possiamo permettere, o forse il Bruce Willis dei tempi di Die Hard.

E poi ci sono le immagini del dopo, quando – un po’ presidente operaio – ti metti lì con spazzola e olio di gomito a sgurare (scusa il bolognesismo) il palazzo prima che la vernice si asciughi (ora si moltiplicheranno i «lavabile», già mi sembra di sentirli).

Ma io vorrei parlare dell’altro filmato, quello che mi ha acceso il cuore. Quello in cui tu, Dario, arrivi dal cretinetti, e gli dici quel che gli avrebbe detto una persona normale. Non un cinquantenne che voglia dire che è importante ascoltare le proteste non violente nell’illusione di sembrare più simpatico ai giovani. Non un giovane così fesso da credere davvero che non sia poi così grave imbrattare i monumenti. Una persona normale, di quelle che pensavo fossero sparite dalla sinistra italiana.

Tu, Dario, arrivi dal cretinetti e, spintonandolo come i padri di una volta facevano coi figli così coglioni da renderli increduli, gli dici «Ma che cazzo fai?». Quello si mette in posa da supereroe (essere privi di senso del ridicolo è riposantissimo, per forza poi non vogliono crescere) e parte col suo discorso da assemblea d’istituto permanente: abbiamo deciso di sanzionare un palazzo del potere.

E tu: «Ma cosa sanzioni?». Non l’hai preso a coppini perché poi ti toccava trovarti un avvocato, ma i coppini erano nel tono. Poi vabbè, i cretinetti si sono buttati per terra, acciocché i loro quindici secondi di celebrità durassero almeno mezzo minuto. (C’è da rivalutare chi, per essere al centro dell’attenzione, si cambia i pronomi: almeno non tocca pagare dei restauratori perché aggiustino il danno).

Insomma, Dario, io volevo dirti che se ti candidi a qualcosa ti voto. Per una sinistra che, di fronte alle demenze da gruppettari che parlano per slogan e cercano disperatamente d’attirare l’attenzione degli adulti, abbia una sola, programmatica risposta: ma cosa cazzo fai, cretinetti.

"Una regia internazionale dietro gli eco-vandali: usano le stesse tecniche del Kgb". Andrea Indini su Il Giornale l’11 Gennaio 2023

L'ex presidente Rai, Marcello Foa, svela in un libro Il sistema (in)visibile che governa nel mondo l'attivismo estremo, come quello degli ultrà ambientalisti

Attacchi alle opere d'arte, raid nei musei, vandalismo contro i Palazzi del potere. L'ultimo episodio, a Capodanno, ha colpito il Senato. È la violenza green. Eco-cretini che, dietro sigle per lo più sconosciute, danno sfogo alla propria intransigenza ideologica. «Questi movimenti non agiscono da soli, c'è una regia». Marcello Foa, ex presidente Rai e firma storica del Giornale, è recentemente tornato in libreria con Il sistema (in)visibile (Guerini e Associati). Nel libro svela le logiche e i metodi dell'attivismo estremo, come quello degli ultrà ambientalisti, metodi che corrispondono a quelli elaborati un tempo dal Kgb.

Foa, in Italia il movimento più attivo è Ultima Generazione. È legato alle sigle che operano negli altri Paesi?

«Assolutamente sì. Dietro di loro si muove un movimento internazionale, l'A22, che lavora per unire i manifestanti di molti Paesi».

E dietro ad A22 chi c'è?

«Per capirlo basta seguire i soldi. I finanziamenti arrivano dal Climate Emergency Fund, gruppo fondato nel 2019 da un ex collaboratore di Bill Gates, Trevor Neilson e Rory Kennedy,».

Con chi abbiamo a che fare?

«Tra gli sponsor ci sono gli eredi Getty e Disney. Dal 1999 a oggi il gruppo ha finanziato 94 organizzazioni, addestrato 22mila attivisti del clima e mobilitato oltre 1 milione di persone. Solo nel 2022 ha sostenuto 43 movimenti con 5,3 milioni di dollari».

Come si muovono?

«Nel 1984 fu un'ex spia, Yuri Bezmenov, a spiegare come si destabilizza una società: cambiando la percezione della realtà attraverso un mega lavaggio del cervello».

Come ci riescono?

«Agiscono sui giovani che reclamano un cambiamento. Li rieducano incolpando le istituzioni e generando una frattura generazionale. Il movimento è solo in apparenza spontaneo e produce effetti nell'arco di qualche anno».

Quindi l'ecologia è solo una scusa?

«In parte. I giovani sono gli agenti inconsapevoli di questo processo, credono davvero nella loro causa. Ma a spronarli è l'agente di influenza, che a sua volta agisce per conto di chi finanzia».

È paradossale: i manifestanti pensano di agire contro il potere ma finiscono per fare i comodi di un altro tipo di potere. Anche Greta Thunberg è un prodotto di questa pianificazione?

«Sia chiaro: non è un complotto ma un sistema, un metodo piuttosto efficace. I ragazzi pensano di agire contro i cattivi' ma non si rendono conto di essere pedine di un disegno più articolato. Anche Greta rientra in queste logiche, infatti è riverita all'Onu e al World Economic Forum».

La sinistra italiana si è schierata subito con loro...

«Dal crollo del muro di Berlino la sinistra mainstream ha perso la vocazione originaria - difendere il proletariato e le classi disagiate - ed è diventata l'alfiere della globalizzazione trovando una giustificazione morale in battaglie come l'immigrazione, i diritti Lgbtq e l'ecologismo».

Il fatto che questi movimenti si rafforzino proprio ora che c'è la destra al governo è pura casualità?

«A livello internazionale il movimento è in corso da tempo. In Italia è particolarmente forte anche perché traspare il desiderio di boicottare un governo non allineato su certe logiche. L'attivismo diventa uno strumento politico; infatti sono ricomparse pratiche che sembravano dimenticate, come l'occupazione dei licei, e slogan che ricordano la sinistra più estrema degli anni '60».

È un caso che queste sigle ambientaliste agiscano allo stesso modo delle Ong che operano in mare?

«Stesso sistema, stessi obiettivi. La destabilizzazione delle società tradizionali e dei poteri nazionali viene conseguita anche attraverso l'immigrazione incontrollata. Anziché avere una sola organizzazione-ariete, si mobilitano e si finanziano più soggetti. La somma di queste piccole associazioni, che hanno lo stesso fine, genera una grande forza d'urto, che risulta peraltro più difficile da contrastare. L'hanno studiata bene».

Da corriere.it il 20 febbraio 2023.

Nuova azione di protesta degli attivisti per il clima di Ultima generazione. Bloccata per quasi un'ora la strada con uno striscione contro l'utilizzo delle fonti fossili. La rabbia degli automobilisti costretti ad attendere l’arrivo della polizia.

 Gli attivisti sono stati portati via di peso e poi denunciati. I Carabinieri del Nucleo Informativo del Comando Provinciale di Milano hanno deferito in stato di libertà 5 giovani del movimento. I 5 manifestanti sono stati denunciati per manifestazione non autorizzata, resistenza a pubblico ufficiale, interruzione di pubblico servizio.

Perché facciamo cose che stanno antipatiche a tutti: intervista a Ultima Generazione. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 13 Febbraio 2023.

Dagli imbrattamenti delle opere d’arte ai blocchi stradali su importanti arterie del traffico automobilistico: le azioni messe in atto da Ultima Generazione, gruppo di attivisti per il clima nato da una costola di Extintion Rebellion, hanno rapidamente guadagnato visibilità per via del generale sentimento di spiazzamento (e anche antipatia) generato in una buona fetta dell’opinione pubblica. Ma qual è il senso delle loro iniziative e del loro modo di fare attivismo? Ne abbiamo parlato con Maria Letizia, attivista di Ultima Generazione impegnata nell’organizzazione dei gruppi di discussione e nella diretta preparazione di specifiche azioni di disobbedienza non violenta.

Per non dare per scontato cosa sia Ultima Generazione, vorrei chiederle di parlarmi del vostro movimento e del perché avete deciso di staccarvi da Extintion Rebellion.

Si tratta di due realtà fortemente collegate, alcune persone continuano a lavorare su gruppi di lavoro da una parte e dall’altra e in tante occasioni ci si trova a solidarizzare. Ultima Generazione (UG) è un progetto che nasce all’intero di Extintion Rebellion (XR) e si sviluppa autonomamente, ma non parlerei di scissione come quella che si intende solitamente in riferimento ai partiti. È un processo diverso: diciamo che è un progetto al quale hanno aderito molte persone di XR, anche perché è nato da loro, e ora in UG stanno confluendo persone che non sono mai transitate su XR. Quindi sì, UG è un progetto autonomo che fa parte di una rete internazionale, A22 – dalla data in cui è stato annunciato, ovvero lo scorso aprile 2022. Si tratta di una realtà che coinvolge anche Paesi extraeuropei, i cui gruppi hanno tutti le medesime modalità di azione. Lavoriamo con il metodo della disobbedienza civile non violenta e con richieste ai governi nazionali che ruotano tutte intorno alle fonti fossili e allo stravolgimento climatico anche se, poiché ogni governo ha delle sue responsabilità specifiche, le richieste possono differenziarsi.

Partiamo dalle vostre modalità di azione, perché si tratta forse dell’aspetto più controverso della vostra attività: non credete che iniziative quali bloccare il traffico e simili vi portino a infastidire le persone più che avvicinarle alla vostra causa?

Le nostre iniziative portano a polarizzare l’opinione pubblica, perché generano conflitto e disturbo. Chi si trova bloccato nel traffico o assiste all’imbrattamento, non sapendo che è temporaneo, rimane disturbato. Questo disturbo crea polarizzazione, non solo tra chi lo subisce ma anche tra chi lo vede narrato. Il conflitto produce questo. Se dobbiamo guardare i risultati di questi pochi mesi di azioni di questo genere, la risposta non può essere che positiva rispetto all’interesse che si è aperto sul problema e la discussione messa in atto e anche al numero di persone che stanno solidarizzando o entrando nel progetto attivamente, disposte anche loro a disobbedire. È cresciuto anche il numero di persone che collaborano dietro le quinte, nei tanti gruppi di lavoro che sono necessari per mantenere un’attività del genere. Lo vediamo anche nelle prese di posizione nei confronti di questa campagna. Il tutto come da previsione, in realtà, perché così ci dicevano gli studi di sociologia politica riferita agli eventi della storia del passato. Anche i processi in atto o addirittura le carcerazioni sono momenti in cui si cresce, perché le persone capiscono la sproporzione che c’è nel fatto che viene punito chi chiede giustizia e non chi effettivamente sta commettendo quell’ingiustizia, ovvero i governi che ci stanno condannando al genocidio o ad un futuro di fame, di immigrazioni, di povertà, di distruzioni, di morte. Nessuno riesce a negare il problema. E allora in occasione di questa repressione le persone comuni capiscono dov’è la vera ingiustizia.

Tra le modalità che si può scegliere di adottare, perché proprio quella di incollarsi alle opere d’arte o imbrattarle? 

Non ce lo siamo inventato noi. Già le suffragette, il cui movimento oggi è del tutto interiorizzato e dato per giusto, hanno squarciato col coltello le tele. Non è qualcosa di lavabile (come la vernice, la farina o la zuppa) o reversibile come incollarsi sul vetro di un’opera. Le motivazioni che di volta in volta cerchiamo per costruire una narrativa, le scegliamo per migliorare l’impatto di quell’azione. Le persone che le compiono subiscono multe, processi e così via: non ci succede certo quello che succede in altre parti del mondo, ma fanno comunque un piccolo sacrificio. Quindi è bene che almeno abbia impatto, no? L’imbrattamento del Dito in Piazza Affari ha avuto valore simbolico, come quella, alla quale ho partecipato, di lanciare la farina sull’auto dipinta da Andy Warhol ed esposta a Milano.

Ultimamente avete sempre più messo in campo obiettivi politici: penso all’imbrattamento al MEF, al Senato, al Dito in Piazza Affari. È in atto un cambiamento nella vostra strategia, volta a prendere obiettivi concreti tra i decisori? 

No, non c’è un cambio nelle modalità. Le nostre attività sono iniziate proprio con l’imbrattamento al ministero della Transizione ecologica, grazie al quale siamo riusciti ad ottenere l’incontro pubblico con Cingolani. Sono stati fatti incatenamenti alle sedi dei partiti mentre erano in campagna elettorale per chiedere che inserissero degli impegni nei loro programmi elettorali rispetto alle richieste del movimento. Non ci hanno ascoltati con una catena di scioperi della fame a Milano e quindi si finì per imbrattare la porta della sede del PD, a incatenarsi fuori dalla sede della Lega. Le istituzioni sono i principali interlocutori perché le richieste che si fanno sono richieste al governo italiano.

In quanti aderiscono al progetto e quanto è eterogenea la composizione? Sono per la maggior parte giovani o c’è anche varietà di età e di provenienza in questo senso? 

Diciamo che siamo al rovescio rispetto alla composizione demografica italiana. In Italia la maggior parte della popolazione è ultrasessantenne, mentre nel movimento gli ultrasessantenni ci sono ma non sono la maggioranza. Siamo una realtà ampiamente diversificata dal punto di vista demografico, di genere, di professione e di appartenenza geografica (sbilanciata rispetto al nord-est perché è lì che è nata, ma ormai ci sono gruppi locali in tutta Italia, compresi Meridione e Isole). Se uno guarda le scene degli imbrattamenti e dei blocchi stradali si vedono anche persone più in là con gli anni, anche se i giovani sono una percentuale più alta. Poi c’è tutto il dietro le quinte, ovvero i gruppi di lavoro di chi dedica un po’ del suo tempo a fare telefonate per chiedere raccolta fondi, per curare il sito internet eccetera.

Come funziona l’organizzazione? Chi decide qual è il target, come si indirizzeranno le prossime azioni? Avete, a livello regionale o provinciale, dei gruppi di lavoro separati?  

No, è tutto centrale. A livello locale dove esistono dei gruppi forti, come in Toscana, che ha messo in atto azioni proprie. Stiamo programmando azioni nelle Marche, alle quali io parteciperò. Però è sempre tutto coordinato a livello nazionale. I gruppi di lavoro hanno un una persona che li coordina e l’insieme di queste forma un gruppo di coordinamento generale che elabora le proposte. Quindi non c’è una strategia regionale, anche perché le richieste poi sono a livello nazionale. La strategia è quella e non cambia per gruppi di lavoro.

Voi pensate che in Italia ci sia sensibilità e margine di discussione riguardo il tema del cambiamento climatico o siete scettici? 

Se guardiamo alle politiche di questo governo, che ricalcano quelle del precedente, con sussidi ambientalmente dannosi (più di 20 miliardi all’anno), la vedo molto nera. Su questi sussidi non abbiamo informazioni: ne siamo tutti vittime, noi diamo i nostri soldi perché ci venga fatto del male e non ne abbiamo consapevolezza perché non ci viene detto come vengono distribuiti a livello regionale, nazionale ed europeo. Chi li studia ha difficoltà a tracciarli. Sono tutte stime, neanche il governo lo sa. La Exxon già negli anni ’70 aveva commissionato studi che avevano fornito un modello matematico sulle conseguenze delle attività dell’azienda e che descrivono molto bene quello che sta accadendo ora, e che avremmo potuto risparmiarci. Se Exxon non avesse tenuto nascosti quegli studi, come sarebbe diversa la nostra vita adesso? Quale prospettiva diversa avremmo davanti? Quante morti e migrazioni avremmo risparmiato? Quello che succede qui è nulla rispetto a quanto avviene in Africa, dove le guerre causate dallo stravolgimento climatico sono in atto da decenni. Sono ottimista perché vedo che le persone si stanno attivando, ma abbiamo pochissime chance di riuscire a non andare al genocidio. La sensibilità c’è ma tra questa e l’interiorizzazione del problema ce ne passa. Purtroppo (o per fortuna) la specie umana non si è evoluta per dover fronteggiare problemi globali, l’umanità si è evoluta per agire su una scala locale. Se anche capiamo a livello razionale un problema di tale portata, la nostra specie non ha gli strumenti per poterlo affrontare. La sfida grossa ora non è della climatologia, ma della psicologia, della sociologia, degli educatori, perché devono crescere persone in grado di reagire.

Lei crede quindi che a livello di società civile, al di là delle politiche, ci sia un po’ più di dibattito?

Sì, c’è, e secondo me il fatto di avere fatto azioni disturbanti aiuta, perché bisogna puntare molto sull’emotività per smuovere le persone. Perché sui convegni, sui paper, sui libri ci hanno già lavorato in tanti, tuttavia si assiste al convegno e si va a casa felici. Invece se guardi una scema che sta seduta per terra, un ragazzo prendersi gli sputi dai passanti ha più impatto, ti chiedi cosa sta succedendo.

Chi sono i finanziatori di UG? Sul sito ho letto che la maggior parte dei finanziamenti proviene dal Climate Energy Fund (CEF), che viene a sua volta fondato e finanziato dalla controversa figura di Aileen Getty, ereditiera del petrolio. Nonostante abbia dimostrato sensibilità per il tema della crisi climatica, non avete paura che finanziatori di questo tipo possano portare le persone a credere che dietro di voi vi sia un certo interesse finanziario? Tutti possono finanziare UG o esiste un filtro etico di qualche tipo?

Noi non conosciamo chi finanzia, perché i finanziamenti internazionali sono anonimi. I gruppi a cui arrivano parte di questi soldi, che vengono poi distribuiti tra i vari gruppi nazionali, non sanno chi li ha forniti. Quindi non possiamo essere influenzati e questa è la garanzia principale. Poi quello è solamente una parte del finanziamento. Molto viene dal crowdfunding nazionale. E poi raccolte fondi vengono fatte in occasioni delle presentazioni in presenza. Si tratta di tanti piccoli finanziamenti.

Altre organizzazioni del movimento ecologista e ambientalista italiano (come Fridays For Future) hanno dato vita negli ultimi tempi ad alleanze con movimenti che si battono per i diritti dei lavoratori (GKN e altre) e la giustizia sociale, sostenendo che senza di questa non vi è nemmeno giustizia climatica. Siete d’accordo con questa linea o ritenete che il focus sia sempre e solo la questione climatica? 

Non è possibile separare le due cose, vanno declinate in un’unica narrazione. Fridays For Future da un paio di anni ha molto rafforzato la narrazione rispetto gli aspetti di giustizia sociale. Adesso si vedrà anche l’evoluzione della crescita di UG, ma è chiaro che giustizia climatica e giustizia sociale non sono aspetti separabili. Non a caso hanno entrambe la parola giustizia.

Voi ponete la transizione ecologica come questione centrale per porre fine al cambiamento climatico, ma come vedete il fatto che questo porti a nuove pratiche di sfruttamento come l’estrazione del litio e delle terre rare, pratiche di neocolonialismo nei Paesi del sud del mondo? La transizione ecologica è la soluzione definitiva al cambiamento climatico o ci sono delle sfumature anche su questo?

È il ministero ad avere il nome “della Transizione ecologica”. Noi chiediamo giustizia. Non si può pensare che con le auto elettriche si risolva il problema. Ci sono interessi molto radicati nel nostro modello di sviluppo economico da dover intaccare e abbandonare per poter arrivare a una soluzione. Non se ne trova tanto traccia nella narrazione che c’è stata fin qui di UG, perché abbiamo deciso di concentrarci sulle richieste con una narrazione semplice ed impattante, ma con la campagna primaverile questa verrà arricchita.

Qual è la vostra strategia nel lungo periodo? Vi concentrerete solo sull’Italia o avete intenzione di espandervi? 

Abbiamo già messo in atto delle azioni coordinate: il blocco del Monte Bianco, per esempio, coordinato con il gruppo francese. Il giorno in cui abbiamo imbrattato l’opera di Andy Warhol a Milano era una giornata nella quale in tutti i Paesi della rete le opere d’arte sarebbero state un target. Per il resto, ci piacerebbe avere una strategia nel lungo periodo, ma il nostro successo deve essere ora. Le nostre campagne di aprile e maggio vedranno un’intensa mobilitazione a Roma e in altre parti d’Italia.

[di Valeria Casolaro]

Teppisti nel metodo. Ignoranti nel merito. Francesco Maria Del Vigo il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ci mancava solo quest'ultima cretinata di quei geni di Ultima Generazione: imbrattare la statua "LOVE" di Maurizio Cattelan in piazza Affari, più comunemente chiamato il "ditone"

Ci mancava solo quest'ultima cretinata di quei geni di Ultima Generazione: imbrattare la statua «LOVE» di Maurizio Cattelan in piazza Affari, più comunemente chiamato il «ditone». Che, per esser chiari non è un pollicione come quello dei like di Facebook, ma un gigantesco medio che manifesta tutto il suo disdegno nei confronti dell'edificio antistante, cioè Palazzo Mezzanotte, cioè la Borsa.

Ieri, questi sciamannati che per salvare il mondo dalla catastrofe ecologica nel frattempo lo imbrattano con le loro ecologicissime vernici, hanno pensato bene di dedicare le loro attenzioni all'opera di piazza Affari. Tra l'altro, in questo caso, hanno pure sbagliato bersaglio: hanno preso di mira un'opera d'arte che a sua volta prende di mira il sistema capitalistico, cioè, secondo gli eco-estremisti, uno delle principali cause scatenanti del climate change.

Gli attivisti sono stati prima bersagliati dai passanti, che li hanno apostrofati con parole consone, e poi accompagnati in questura. Il caso, ovviamente, non è solo penale. In un Paese nel quale si fa fatica a tenere dietro alle sbarre chi uccide, violenta o ruba, è improbabile mettere in gattabuia chiunque commetta questo tipo di reati. Però gli estremisti dell'ecologia sono dei fanatici che, in qualche modo, vanno fermati: con multe esemplari e, magari, costringendoli a ripulire ciò che hanno sporcato. Non si combattono le troppe emissioni, nè si frena il cambiamento climatico, lanciando vernice o passato di verdura contro i quadri di Klimt o di Van Gogh e men che meno bloccando le strade e i passanti autostradali, anzi si ottiene l'effetto opposto: si creano code di automobilisti - spesso pendolari che stanno andando al lavoro - che, fermi nel traffico, inquinano ancora di più; e in secondo luogo, con gesti così disturbanti, si allontana ancora di più l'opinione pubblica da tematiche serie e importanti. «Cui prodest?», si chiedevano i latini, «A chi giova?». A nessuno, come dicevamo prima neppure all'ambiente. Noi, più pedestremente, rispondiamo con le parole che l'acutissimo Carlo Maria Cipolla utilizza nella terza legge della stupidità: «Una persona stupida è una persona che arreca danno a un'altra persona o gruppo di persone senza ottenere, allo stesso tempo, un vantaggio per se stesso, o addirittura ottenere una perdita». Loro, nomen omen, sono convinti di essere l'ultima generazione che può intervenire sul clima prima dell'estinzione e della catastrofe. Noi siamo convinti del contrario, ma se la prossima generazione dovesse essere peggio di questa, beh, allora siamo sempre pronti a ricrederci.

I giudici assolvono l'attivista del 2018: "Azione motivata da alti valori morali". Per i magistrati ha risarcito le spese di pulizia del Comune e ha agito per sensibilizzare sulla violenza contro le donne. Manuela Messina il 16 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Non ce la fanno proprio a lasciare in pace il «Dito». Figuriamoci se a dare ragione agli imbrattatori si mettono di mezzo anche i giudici, che oltre a dettare sentenze si prendono la briga di stabilire il «valore morale» di questo o quell'intervento. Sì perché l'opera L.O.V.E. di Cattelan era già stata presa di mira due anni prima dell'ultima trovata degli eco-attivisti di Ultima Generazione, che ieri hanno gettato vernice arancione e verde sulla statua in piazza Affari. Quella volta da un altro artista, di minor fama - occorre dirlo - di Maurizio Cattelan. Era stato Ivan Tresoldi, street artist noto in città per le sue «poesie sui muri» e già condannato a una multa (la pena era stata sospesa) per imbrattamento nel 2018.

Il 5 marzo 2021 Tresoldi aveva dipinto di rosa l'unghia del dito medio della statua. Un gesto compiuto con un intento, per carità, ammirevole: sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della violenza sulle donne. «Perché ogni uomo si ricordi sempre che se è vivo, lo deve sempre e comunque a una donna. L.O.V.E. assai», le parole di Tresoldi, difeso nell'indagine dall'avvocata Angela Ferravante.

Ebbene, visto che al di là della nobiltà degli scopi, pur sempre il granito era stato imbrattato, il «buon» poeta di strada era stato denunciato. Dal comune, proprietario dell'opera, in primis. E poi anche dalla Lega, in particolare da Alessandro Morelli, già direttore di Radio Padania.

Passano quindi due anni, la vicenda ripiomba nel silenzio. E così, sorpresa, proprio pochi giorni prima che il «Dito» ritorni sulle prime pagine dei giornali grazie agli eco-attivisti, il gip decide di archiviare l'inchiesta per imbrattamento e accogliendo così la richiesta di archiviazione della Procura. Come mai? Scorrendo la richiesta della pm Pirotta al giudice, è stato preso in considerazione il risarcimento da 1.796 euro bonificati dallo stesso Tresoldi al comune di Milano che quindi - incamerati i denari per la riparazione del danno - ha deciso di rimettere la querela.

«La condotta riparatoria dell'indagato - scrive la Procura - non solo ha eliminato le conseguenze dannose del reato ma ha confermato l'intento soggettivo che lo aveva motivato, ossia l'effettiva sensibilizzazione sul tema dei diritti in genere per esprimere, con un messaggio effimero, solidarietà in occasione della ricorrenza dell'8 marzo Giornata internazionale dei diritti della donna». D'altronde era stato lo stesso Cattelan a commentare così la verniciatura rosa di Tresoldi: «Il vandalismo quando è gratuito è violenza, ma se posso dare un dito a qualcuno per sensibilizzare su un tema importante come il rispetto delle donne mi dispiace allora che manchino le altre quattro».

«Il fine dello street artist non era sicuramente quello di danneggiare, men che meno di imbrattare o deturpare l'opera di Cattelan - scrive ancora la Procura - ma solo quello di veicolare un messaggio di valore morale e di sensibilizzazione culturale e sociale attraverso il linguaggio artistico, concretizzandolo in una installazione temporanea, che non ha intaccato né deteriorato l'opera, né nella sua interezza né sulla porzione interessata dalla pittura». Insomma: imbrattatori, accomodatevi.

Il carabiniere impassibile davanti all'imbrattatore. Domenico Cacopardo su Italia Oggi il 3 gennaio 2023.

Certo, s'è trattato soltanto di vernice lavabile e quindi, dai danni limitatissimi. Ma, della bravata di qualche ambientalista (ma che ambientalista è colui che per essere ripreso e citato da giornali e televisioni, imbratta muri storici come quelli di Palazzo Madama?), rimane impressa una foto, soltanto una: quella del carabiniere di guardia al Senato nell'atto di camminare giù dal marciapiedi di corso Rinascimento mentre un giovanotto o una giovanotta stanno imbrattando le mura vicine dall'ingresso. Una foto che rappresenta un danno reputazionale all'istituzione Senato e agli stessi carabinieri.

M'ero domandato, infatti, come fosse stato possibile che questi ambientalisti danneggiassero sia pure lievemente Palazzo Madama, visto che la vigilanza esterna - di cui sono incaricati i carabinieri - è assidua e intensa, come avevo sperimentato ai tempi in cui lavoravo in questa prestigiosa istituzione. E il carabiniere solitario a passeggio di servizio davanti al Senato è stato a suo tempo istruito sul come comportarsi in situazioni del genere?

Nulla di grave, solo un buco nella vigilanza, una disattenzione o una sottovalutazione da parte dei militi dell'Arma. Ai tempi, il personale delle forze di polizia che operava per il Senato, riceveva dallo stesso una speciale indennità. Un riconoscimento. Si sappia. cacopardo.it

Palazzo Madama, imbrattato dagli attivisti di “Ultima Generazione”. La sede del Senato lasciata priva di alcuna difesa e controllo. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 2 Gennaio 2023

Vedendo il filmato e le foto in realtà si vede un solo Carabiniere presente sul posto che non poteva fare nulla per bloccare l'azione di protesta. (In verità dal filmato si vede il carabiniere, come nelle barzellette, che poteva fermare l’imbrattatore, ma non ha voluto o non è stato capace di farlo, cadendo nel ridicolo n.d.a.). Normale chiedersi: ma è così che si tutela la sede della seconda istituzione dello Stato ?

Questa mattina, lunedì 2 gennaio intorno alle 8, un gruppo di ambientalisti, appartenenti a “Ultima Generazione“, con fotografo al seguito, ha imbrattato la facciata di Palazzo Madama sede del Senato della Repubblica, a Roma, con della vernice di colore rosso utilizzando degli estintori. La vernice ha coperto alcune finestre del piano terra ed il portone centrale di accesso di Palazzo Madama. I cinque attivisti che hanno imbrattato palazzo Madama fermati dei Carabinieri con l’ausilio di appartenenti alle forze dell’ ordine in borghese che passavano per caso in motocicletta, sono stati poi identificati e condotti in questura negli uffici della Digos.

Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell’umanità”, si legge nel comunicato di Ultima generazione, pubblicato nel loro sito insieme ad alcune immagini della loro azione di protesta incivile.

In tre sono stati arrestati per danneggiamento aggravato, altri due sono stati denunciati per lo stesso reato. Si tratta di un’attività congiunta dei poliziotti della Digos della Questura di Roma e militari del Nucleo informativo dell’Arma dei Carabinieri del Comando Provinciale di Roma.  Per gli arrestati dovrà essere svolta l’udienza per direttissima davanti al giudice del tribunale di Roma.

Vedendo il filmato e le foto si vede un solo Carabiniere presente sul posto, il quale ha fatto il possibile, non potendo bloccare da solo l’azione di protesta effettuata da cinque attivisti di Ultima Generazione. Legittimo chiedersi: ma è con un solo (incolpevole) Carabiniere che si tutela la sede della seconda istituzione dello Stato ?

Il blitz ha preoccupato il ministro dell’ Interno Matteo Piantedosi che ha deciso di intensificare l’attività di prevenzione e di controllo del territorio. A tal proposito, fin da subito (anche se in ritardo !) è stato disposto un rafforzamento del dispositivo di sicurezza nell’area del Parlamento anche con agenti in borghese. È quanto si apprende da fonti del Viminale.

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha condannato il gesto “oltraggioso e incompatibile con qualsiasi civile protesta“. In mattinata c’è poi stato un colloquio telefonico tra il presidente del Senato Ignazio La Russa e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Dal titolare del Viminale solidarietà e massima disponibilità ad aumentare il livello di sicurezza di Palazzo Madama.

Il presidente del Senato Ignazio La Russa dopo l’ inaccettabile atto vandalico, è furente : “Nessun alibi, nessuna giustificazione per un atto che offende tutte le istituzioni e che solo grazie al sangue freddo dei Carabinieri non è trasceso in violenza. Il Senato è stato vigliaccamente scelto perché a differenza di Palazzo Chigi, della Camera dei deputati e di altre istituzioni, non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un area di sicurezza attorno all’edificio. Ho convocato immediatamente per domani alle ore 15 il Consiglio di presidenza del Senato per ogni opportuna decisione“. 

Per il capo gruppo di Fratelli d’Italia al Senato, Lucio Malan, “è grave quanto accaduto questa mattina, purtroppo con regolare puntualità si ripetono questi incivili atti vandalici nei confronti del patrimonio artistico, che evidenziano peraltro una ideologia malata per la quale è lodevole devastare inutilmente il patrimonio comune se si afferma di farlo per un confuso concetto di ambiente. Un approccio auto giustificativo tipico del pensiero totalitario dove il fine giustifica i mezzi. In questo senso va raccolta e rilanciata la proposta del ministro Sangiuliano per ripensare e rinforzare i livelli di protezione a presidio del nostro patrimonio artistico e culturale; così come va considerato un aumento delle pene per i devastatori ai quali va ovviamente addebitato il costo per riparare il danno consistente anche nel tempo per il quale l’opera resta deturpata. Peraltro, il gesto compiuto su Palazzo Madama è ancora più odioso perché non più di un anno fa era terminato il restauro della stessa facciata. Mi auguro che i responsabili siano giudicati con severità e rispondano del danno patrimoniale arrecato“. 

Immediatamente sono stati attivati dei restauratori che hanno rimosso la vernice, pulendo la facciata ed il protone d’ingresso di Palazzo Madama. “Chi vandalizza un palazzo delle istituzioni pensando di difendere l’ambiente capisce poco. Chi giustifica i vandali che imbrattano dimostra di capire ancora meno Senato”. Lo scrive sui social network Matteo Renzi a proposito dell’imbrattamento del Senato da parte degli ambientalisti di ‘Ultima Generazione‘.

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 4 gennaio 2023.

 […] Fermo restando che questi atti dimostrativi di Ultima Generazione sono, a nostro avviso, sacrosante nel merito ma controproducenti nel metodo […]

 Estratto dell’articolo di F. Malf. per “il Messaggero” il 4 gennaio 2023.

«Noi continueremo». Appena prima che il giudice per le direttissime del tribunale di Roma convalidasse gli arresti per i tre giovani eco-vandali (Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini) che hanno imbrattato la sede del Senato nei giorni scorsi - disponendone poi la scarcerazione - una delle portavoce di Ultima generazione (la sigla ambientalista responsabile dell'attacco) già prometteva nuove azioni: «Seguiamo una disciplina rigorosamente non violenta.

 Durante l'imbrattamento il Senato era vuoto, non volevamo colpire il Presidente come accusa Ignazio La Russa. Ennesima risposta grottesca della politica. Ma noi continueremo».

 Una linea d'azione che, non tenendo conto del reato di danneggiamento aggravato di cui dovranno rispondere […]  sembra piacere non poco ad alcuni politici italiani.

 È il caso ad esempio del co-portavoce dell'alleanza Sinistra-Verdi Andrea Bonelli che ieri, intervenendo in una trasmissione su La7, si è lanciato a difesa degli ambientalisti.

«Non sono assolutamente dei criminali. Sono azioni che non condividiamo, ma definirli criminali è un fatto che non sta né in cielo né in terra», ha commentato il deputato. Anzi, Bonelli è andato anche oltre e ha ammesso di aver in passato preso parte ad analoghe azioni di disobbedienza civile in nome dell'ambiente.

[…] Idem per l'altro portavoce di Avs Nicola Fratoianni che ritiene «sproporzionata» più che la protesta «che può non piacere» ma è stata compiuta con «vernice lavabile», la «violenza verbale e giustizialista con cui la politica sta rispondendo a queste forme di protesta, non pare proporzionata».

 […] Nonostante all'estero, dopo una lunga sequela di azioni che hanno ispirato gli attivisti italiani, anche Extinction rebellion stia cambiando direzione sostenendo l'inutilità di questo genere di azioni, non si fatica a trovare forme assolutorie nei confronti degli attivisti nostrani anche tra i cinquestelle.

 Pur parlando di un «atto da condannare», in una nota diffusa in serata a firma Mariolina Castellone, vicepresidente del Senato, Pietro Lorefice e Marco Croatti, viene infatti difeso il gesto in quanto tentativo di «mettere al centro dell'agenda politica il tema del cambiamento climatico», rivendicando di aver chiesto di «evitare controproducenti prove di forza che rischiano di strumentalizzare l'accaduto e di allontanare ancora di più le istituzioni dai cittadini».

D'altro canto ieri anche il sociologo Domenico De Masi, da sempre vicinissimo a Beppe Grillo, non ha lasciato tanto spazio a interpretazioni diverse: «Vanno elogiati. Chi non ha a disposizione i telegiornali e i grandi organi di stampa, che cosa può fare? Degli atti eclatanti che non fanno male a nessuno. Hanno usato della vernice lavabile, sono passato stamattina davanti al Senato e non c'era più nulla».

Ida Artiaco per fanpage.it il 4 gennaio 2023.

 Dopo Roma, Parigi: un gruppo di attivisti del clima, appartenenti al collettivo ecologista Dernière Rénovation, ha gettato oggi, mercoledì 4 gennaio, intorno a mezzogiorno della vernice arancione sulla facciata d'ingresso del palazzo Matignon, sede del governo francese. 

L'obiettivo della protesta è quello di mettere in guardia sulle conseguenze del riscaldamento globale e allertare il primo ministro francese Elisabeth Borne, denunciando "l'inerzia climatica del governo". Il tutto mentre il presidente Emmanuel Macron riuniva il primo Consiglio dei ministri del 2023. 

La polizia ha effettuato due arresti, ha spiegato il giornalista Rémy Buisine sul social network. Si tratterebbe di ragazzi tra i 20 e i 22 anni d'età, i quali indossavano una maglietta con la scritta: "Chi è colpevole?". 

Il gruppo ambientalista, pochi minuti dopo l'azione di protesta, ha pubblicato un tweet in cui ha confermato che "2 cittadini che sostengono Dernière Rénovation hanno gettato vernice spray contro Matignon. Sono entrati nella resistenza per costringere ad agire un governo doppiamente condannato dalla giustizia francese".

L'esecutivo aveva tempo fino al 31 dicembre 2022 per dimostrare il suo impegno a favore dell'ambiente, dopo che il tribunale amministrativo di Parigi aveva dichiarato colpevole lo Stato francese per aver derogato ai suoi obiettivi di lotta al riscaldamento globale.

 Una protesta simile si era verificata nei giorni scorsi anche in Italia, quando sempre attivisti del collettivo Ultima Generazione avevano lanciato della vernice sempre arancione conto Palazzo Madama, sede del Senato, a Roma, dando vita ad una serie di polemiche.

 Le azioni di questo genere si stanno moltiplicando negli ultimi mesi e in tutto il mondo: si tratta del tentativo di gruppi di attivisti di sensibilizzare sull’emergenza climatica. "Nel 2022, gli eventi climatici estremi sono aumentati del 55% provocando miliardi di danni e 29 morti. Nel 2021, il governo italiano ha destinato oltre 48 miliardi di investimenti pubblici ai combustibili fossili, molto più di quello che destinano alla transizioni verso fonti pulite e alla salute dei cittadini – avevano dichiarato gli attivisti italiani, chiedendosi cosa ci aspetta nel 2023 – Per questo oggi abbiamo sanzionato il Senato. La vernice arancione servirà a ricordare ai passanti che lì dentro vivono i colpevoli e i responsabili di molti morti e disgrazie".

Estratto dell’articolo di Antonello Guerrera per “la Repubblica” il 3 Gennaio 2023.

Frattura nell'ambientalismo radicale britannico. Extinction Rebellion, il movimento più famoso, ha annunciato di voler rinunciare alla lotta dura, ossia alla disobbedienza civile e ai blocchi cittadini che negli ultimi anni hanno esasperato centinaia di migliaia di londinesi. La missiva di inizio 2023 ai propri seguaci si intitola con l'eloquente " We quit ": usciamo di scena.

La rinuncia di Extinction Rebellion è eclatante, visto che le sue azioni radicali, per cui centinaia di membri sono stati arrestati negli anni, sono sempre state il fiore all'occhiello del movimento: metropolitane, strade, aeroporti, ponti di Londra occupati e bloccati da proteste senza preavviso; attivisti che si incollavano letteralmente ai cancelli dei ministeri e delle multinazionali dell'energia, o inondavano le loro facciate di vernice - come visto ieri anche al Senato a Roma - attirando così l'attenzione di media e pubblico.

Eppure, secondo i responsabili di Extinction Rebellion - struttura orizzontale, non c'è un vero e proprio capo - tutti gli sforzi del movimento sono serviti a poco o niente.

Perché «quasi nulla è cambiato», scrivono. «Nonostante il nostro attivismo, le emissioni nocive continuano a crescere e la Terra ha accelerato la sua corsa verso l'autodistruzione, a causa del sistema finanziario e dei politici che mettono i profitti davanti a tutto». […]

Mar.Ber. per “la Stampa” il 3 Gennaio 2023.

Come i tre dei cinque militanti che ieri hanno imbrattato la sede del Senato con vernice lavabile e sono stati arrestati, anche lui ha subito lo stesso trattamento per aver preso di mira edifici dell'Eni. «Ho avuto un processo per direttissima. Il pm chiese per me l'obbligo di firma tre volte al giorno, ma ho avuto modo di parlare per 12 minuti, davvero un onore la concessione del giudice. Per 12 minuti ho parlato con dati precisi di quanta gente sta morendo e di quanta ne morirà secondo le previsioni attuali. E il giudice ha deciso che potevo andare a casa».

Quindi è finita?

«No, ci sarà il processo e credo che patteggerò per una diminuzione della pena. Non è la prima volta che prendiamo di mira i palazzi del potere».

 Ma il Senato è un'altra cosa. Non correte il rischio di creare rigetto per la vostra battaglia nell'opinione pubblica?

«Conosce uno studio di sociologia che lo dimostra? Io conosco studi che dimostrano il contrario. Oggi su Twitter l'espressione "climate change" è tra le prime tre più cercate.

Non era mai successo in Italia. I motori di ricerca confermano quanto stia aumentando la ricerca sul cambiamento climatico.

 E l'altra cosa che sta aumentando è il numero di cittadini che sono preoccupati per la crisi climatica. Un recente sondaggio dice che oltre i 90% delle persone vorrebbe maggiori investimenti nelle rinnovabili. Il nostro obiettivo è far diventare una priorità le nostre richieste».

 Cosa chiedete?

«No gas e no carbone. Nell'Adriatico ce ne è pochissimo, se anche facciamo cento pozzi risolviamo il problema del nostro fabbisogno, forse, per un anno. Bisogna attivare il solare e l'eolico. Il governo si è impegnato ad attivare nove centrali nei prossimi mesi, datecene altre dieci e ci fermiamo immediatamente».

Il vostro gruppo è formato da ragazzi molto giovani?

«Ci sono anche anziani e persone in pensione».

 Avete intenzione di diventare un partito politico?

«Ultima generazione no. Se qualcuno vorrà farlo come un progetto autonomo potrà essere una buona idea, ma è troppo presto: ora l'obiettivo è mettere al centro l'ambiente e avere risposte concrete dalla politica. I movimenti ambientalisti crescono ovunque in Europa e credo che in parte dipenda anche dalle azioni di protesta. Noi siamo disperati».

Perché?

«L'Onu ha messo nero su bianco che un quarto dei bambini del pianeta sarà a rischio per le risorse idriche. E questo vuol dire che, da qui al 2040, un quarto dei bambini potrà morire di sete. E voi giornalisti dovreste ribellarvi perché anche per colpa vostra la gente morirà di fame e di sete.

 I suoi figli e i suoi nipoti creperanno di sete perché l'Italia sarà desertificata per più di un quinto entro 25 anni. Non ci sono scuse. Può scrivere questo nell'articolo? Non basta dire sono contrario al fossile bisogna impegnarsi sul serio. Coprite solo l'1,5 % delle notizie, secondo i dati Greenpeace».

Siete non violenti? Le vostre azioni lo sono?

«Noi abbiamo due chiari limiti: uno è che non faremo mai male fisicamente a nessuno, due non offenderemo mai nessuno. Le vernici sono lavabili. Poi qualcuno scrive che facciamo azioni terroristiche».

 Quello di ieri è stato un attacco alle istituzioni?

«Sì, abbiamo imbrattato la facciata del Senato con vernice lavabile. E abbiamo raggiunto almeno l'obiettivo che si parli della drammatica crisi ambientale in atto. La politica deve dare risposte ai cittadini preoccupati per quello che sarà il più grande genocidio della storia umana».

Avete una rete di avvocati?

«Sì. E negli ultimi mesi diversi avvocati si sono fatti avanti dicendo di condividere le nostre battaglie e volerci difendere. Sta crescendo intorno a noi un consenso passivo, gli intellettuali stanno cominciando a dare segnali di attenzione».

Ma cosa vogliono quelli di Ultima Generazione e perché imbrattano il Senato. «La vernice è il dito, il collasso eco-climatico è la luna. E tutti si concentrano sul dito. Abbiamo chiesto di parlare con le istituzioni, senza successo». Dialogo con gli attivisti protagonisti dell’ennesima azione dimostrativa. Simone Alliva su L’Espresso il 2 Gennaio 2023

«Le verniciate sui palazzi e sui vetri delle opere dei musei sono il dito che indica la luna. Il collasso eco-climatico è la luna. Ma la politica sceglie il dito che la indica». Ecco, questo in sintesi. Tommaso ha 29 anni, fa parte del collettivo di attivisti di Ultima generazione che qualche mese fa avevano ricoperto di vernice la teca dove è contenuto "Il seminatore" di Vincent Van Gogh in mostra temporanea a Roma.

Questa mattina hanno colpito con un getto di vernice arancione la facciata principale di Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Tutti e cinque gli autori del gesto sono stati fermati, identificati, trasferiti negli uffici della Questura e denunciati. Poco importa, dicono: il tempo per fermare il collasso eco-climatico è scaduto – o meglio manca poco - è l'inerzia di fine corsa. «Questo gesto indica la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità - spiega Laura, una delle protagoniste dell'azione - sono i governi e le istituzioni ad avere il potere decisionale per avviare una transizione energetica effettiva, per modificare e regolare le produzioni di energia e di beni e il sistema dei trasporti, per arginare concretamente le cause della crisi climatica».

Vernice contro il Senato: il blitz degli attivisti di Ultima generazione

«Dopo tanti mesi in cui gli automobilisti ci dicevano andate davanti ai Palazzi del potere, lo abbiamo fatto - racconta a L’Espresso Tommaso, portavoce di Ultima Generazione - Guardiamoci intorno, è primavera e siamo a gennaio. C’è qualcosa di profondamente sbagliato. Le conseguenze sono reali. Sono un operaio agricolo. Mi occupo di alberi di ulivo. Quest’anno i problemi del raccolto sono stati importanti, così come lo scorso anno. Vale per gli alberi da frutta e non solo. A catena la siccità provoca problemi spaventosi. In Francia spegnevano le centrali nucleari quest’estate perché non potevano raffreddarle. È un problema di sicurezza pubblica. Ma quando puntiamo il dito, guardano la vernice sotto l’unghia invece della luna».

Il mondo si sgretola, arde e si prosciuga. Lo scorso anno gli eventi meteo-idrogeologici sono aumentati del 55 per cento rispetto al 2021: 310 fenomeni meteorologici che hanno provocato danni e 29 morti. «Tutti abbiamo davanti agli occhi le drammatiche immagini della Marmolada, delle Marche e di Ischia». Le soluzioni ci sarebbero, bisognerebbe metterle in agenda: attuarle prima che sia troppo tardi. Le richieste di Ultima Generazione: interrompere immediatamente la riapertura delle centrali a carbone dismesse e cancellare il progetto di nuove trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas naturale; procedere a un incremento di energia solare ed eolica di almeno 20GW immediatamente e creare migliaia di nuovi posti di lavoro nell’energia rinnovabile, aiutando gli operai dell'industria fossile a trovare impiego in mansioni più sostenibili. Tutte politiche concrete e applicabili che non fermeranno i cambiamenti climatici, ma potrebbero limitarne gli effetti.

Per Ultima Generazione la politica ha deciso anche oggi di voltare le spalle alla sopravvivenza del pianeta. «Prendono le nostre azioni e le riempiono del loro vuoto. Le guardano in obliquo. Non ascoltano. Abbiamo chiesto un’infinità di incontri con le forze politiche. Questo autunno il nostro Alessandro ha fatto 26 giorni di sciopero della fame di fronte al Parlamento, soltanto per discuterne. Nessuno, a parte una parlamentare dei Verdi, è sceso per chiedere ma “perché non mangi da 26 giorni?”. Non c’è stata disponibilità all’ascolto e al dialogo. Il nostro gesto oggi smaschera un certo grado di ipocrisia della politica. Siamo costretti a fare quello che abbiamo fatto oggi, per decenni la politica non è stata in grado di fare nulla. Attaccano noi ma sono loro la vergogna delle istituzioni».

Arresti e processi: lo stato prova a fermare gli attivisti del clima. DAVIDE MARIA DE LUCA E LISA DI GIUSEPPE su Il Domani il 03 gennaio 2023

Arresti in flagranza, processi per direttissima, sorveglianza speciale e la possibilità di ricevere di anni di carcere: sono alcuni dei rischi che corrono gli attivisti per il clima.

Tre ragazzi che hanno partecipato all’azione in Senato sono stati arrestati in flagranza e già processati per direttissima. Dopo la prima udienza che ha convalidato l'arresto sono in libertà in attesa della prossima a maggio.

In tutta Italia magistratura e polizia hanno usato la mano pesante con gli attivisti, che ora rischiano multe da migliaia di euro, anni di carcare e di sorveglianza speciale.

Arresti in flagranza, processi per direttissima, sorveglianza speciale e la possibilità di ricevere di anni di carcere: sono alcuni dei rischi che corrono gli attivisti per il clima su cui in questi giorni si sta abbattendo la mano pesante della repressione statale. 

IL BLITZ AL SENATO

Si parte con i tre attivisti del movimento Ultima generazione, Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini, che lunedì hanno gettato vernice arancione contro la facciata del Senato. Arrestati in flagranza mentre attendevano l’arrivo della polizia, sono stati processati per direttissima martedì mattina e rimessi in libertà. Il tribunale ha convalidato l’arresto e il procedimento dei tre, accusati di danneggiamento aggravato, proseguirà il prossimo 12 maggio. Per ora non è stata prevista nessuna misura cautelare nei loro confronti.

Il gesto, che non ha prodotto danni permanenti alla facciata dell’edificio, ha ricevuto la condanna unanime da parte di tutte le forze politiche. «Sono vicina al presidente del Senato e a tutti i senatori e condanno il gesto oltraggioso, incompatibile con qualsiasi civile protesta», ha fatto sapere ieri la presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Il presidente del Senato, Ignazio La Russa, ha annunciato che la sua camera si costituirà parte civile nel processo contro i tre ragazzi. Il Movimento 5 stelle è stata l’unica forza politica a dichiararsi contraria alla decisione.

ALTRI FERMI

Per esprimere solidarietà agli attivisti arrestati, Ultima generazione aveva organizzato un presidio a piazzale Clodio, di fronte al tribunale di Roma, poi annullato. Gli ecologisti hanno fatto sapere di aver scelto di annullare l’evento dopo che uno di loro, Simone Ficicchia, già in attesa di un’udienza per l’imposizione della sorveglianza speciale fissata per il prossimo 10 gennaio, è stato fermato dalla polizia mentre si dirigeva a Saxa Rubra per partecipare alla trasmissione di Rai3 Agorà.

Durante la trasmissione, l’attivista che lo ha sostituito, Michele Giuli, ha spiegato la vicenda: «Non dovrei neanche essere qui. Doveva venire Simone Ficicchia, un altro ragazzo che sta venendo posto, probabilmente, sotto sorveglianza speciale, che è una misura che andrebbe applicata ai mafiosi e ai terroristi. Stamattina è stato portato via dall’hotel in cui stava dormendo perché doveva venire qua, in questo studio». Agorà ha anche mostrato l’immagine di Ficicchia che veniva portato via di peso da tre agenti della polizia.

In un video, gli ambientalisti spiegano che la protesta al Senato «è stata, come sempre, pacifica e non violenta, non avrebbe mai potuto né voluto portare il minimo danno alle persone. Il semplice imbrattamento è considerato punibile dal codice penale con un reato specifico».

LE ACCUSE

Per Ultima generazione, i dettami della legge sono stati disattesi: «Nonostante la previsione di legge e nonostante gli attivisti siano rimasti sul posto in attesa dell’intervento delle forze dell’ordine, nel pieno rispetto dei principi della non violenza, sono stati trattenuti e verranno processati per direttissima con l’accusa ben più grave di reato di danneggiamento».

L’accusa, in ogni caso, secondo Ultima generazione è fuorviante. «Il reato di danneggiamento, oltre a non essere stato commesso, trattandosi di semplice imbrattamento, comunque non prevede l’arresto in flagranza, ma la semplice denuncia a piede libero. Siamo quindi di fronte all’ennesimo abuso, a un’azione volta a intimorire e criminalizzare chi sta cercando di portando l’attenzione sul vero crimine che questo governo sta commettendo».

Gli attivisti rischiano multe da migliaia di euro e condanne alla reclusione che possono arrivare anche a cinque anni. Non è l’unico caso in cui magistratura e forze di polizia hanno adottato metodi duri contro gli attivisti climatici. Tre membri di Ultima generazione che avevano imbrattato la sede dell’Eni store di Roma sono in attesa della prima udienza del processo con l’accusa di violenza privata, danneggiamento e possesso di armi. Due attiviste che avevano lanciato della zuppa contro la copertura in vetro di un quadro di Van Gogh rischiano una condanna fino a cinque anni di carcere. Sei attivisti che avevano bloccato il ponte della Libertà a Venezia sono già stati condannati a pagare una multa da 1.333 euro e sono in attesa di processo. Anche loro, per via dell’inasprimento delle pene previsto dai decreti Sicurezza, rischiano anni di carcere.

Gretini.

Michel Dessì il 6 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Ecco chi difende gli eco-vandali in Parlamento

Cosa accade tra le stanze damascate dei palazzi della politica? Cosa si sussurrano i deputati tra un caffè e l'altro? A Roma non ci sono segreti, soprattutto a La Buvette. Un podcast settimanale per raccontare tutti i retroscena della politica. Gli accordi, i tradimenti e le giravolte dei leader fino ai più piccoli dei parlamentari pronti a tutto pur di non perdere il privilegio, la poltrona. Il potere. Ognuno gioca la propria partita, ma non tutti riescono a vincerla. A salvarsi saranno davvero in pochi, soprattutto dopo il taglio delle poltrone. Il gioco preferito? Fare fuori "l'altro". Il parlamento è il nuovo Squid Game.

Settimana movimentata tra i palazzi della politica, e non perché i deputati siano alacremente al lavoro. No, loro sono ancora in vacanza. Tanto è vero che tra i banchi dell’opposizione non si è visto nessuno durante la discussione sul “milleproroghe”, un provvedimento importante, dove si possono inserire norme rimaste fuori dalla finanziaria. Mica male. Eppure, non si è visto nessuno. Forse troppo occupati sulle piste da sci di Cortina. Ah, beati loro.

A movimentare i palazzi e a far lavorare i poveri colleghi giornalisti ci hanno pensato gli attivisti del clima. Si, i gretini che, muniti di estintore caricato a vernice arancione, hanno imbrattato tutta la facciata di Palazzo Madama. Del Senato della Repubblica per intenderci. Qualcuno di voi dirà: “Ma che sarà mai, una bravata”. Eh no, quel Palazzo è il Palazzo di tutti noi, è la nostra casa. Il tempio della democrazia. Magari ci può stare antipatico chi lo abita ma non certo quello che rappresenta. Per ognuno di noi. Per ogni italiano.

E mentre tutti erano intenti a condannare (soprattutto a destra) il gesto qualcuno li ha giustificati. Chi? I grillini ovviamente. Come la deputata Patty L'Abbate, vicepresidente della commissione Ambiente e Infrastrutture della Camera che, sui social scrive: "Il gesto di questi ragazzi che hanno lanciato vernice sulla facciata del Senato non è giusto, ma non li state ascoltando! Dobbiamo ascoltarli!". Noi l’abbiamo contattata e si è detta disponibile. Peccato, però, che non appena le abbiamo chiesto conto (via sms) delle sue dichiarazioni è sparita. Non ha mai più risposto al telefono. Che coraggio eh, dei conigli.

Ma la grillina, purtroppo, non è la sola a difenderli. Anche tra le fila del Partito democratico qualcuno ha avuto l’ardire di schierarsi dalla parte degli eco-vandali. Uno su tutti Matteo Orfini che su Twitter ha scritto: "Su questa storia della vernice (lavabile) tirata sul Senato mi pare si stia esagerando. Tre arresti e dichiarazioni che nemmeno di fronte ad atti terroristici". E ancora: "Le istituzioni, quando sono forti, rispondono col dialogo anche alle provocazioni e alle proteste più dure". "Le responsabilità di chi guarda passivamente all'evolversi dei mutamenti climatici sono note. Delle destre nel mondo. Atti di disubbidienza civile non devono pregiudicare le giuste battaglie. Ascoltare i giovani è però un dovere morale e civile", gli fa eco, sempre su Twitter, Stefano Vaccari, deputato del Pd.

Insomma, per alcuni democratici è giusto colpire uno dei simboli più importanti della nostra democrazia. Ma volete arrabbiarvi? I tre gretini arrestati sono stati subito rilasciati. Pronti a colpire ancora.

Senato imbrattato, la sinistra trasforma gli ecoimbecilli in eroi. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 06 gennaio 2023

Non si può certo dire che la sinistra non sia coerente. Siccome è da sempre intollerante nei confronti degli avversari politici che provvede a demonizzare elevandoli al rango di potenziali ergastolani ma a dir poco giustificazionista con la feccia rappresentata da vandali, black bloc, violenti dei centri sociali o scalmanati amanti dei rave, ha scelto di schierarsi in favore degli attivisti di Ultima generazione che lunedì hanno imbrattato il Senato con vernice rossa. Già il giorno dopo, i tre salvatori del pianeta Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini, erano stati scarcerati dal giudice per le direttissime del tribunale di Roma dopo la convalida dell'arresto in vista del processo stato fissato per il 12 maggio. Giusto il tempo per farli diventare degli eroi. Illoro "istinto creativo" è stato premiato da politici, giornalisti e pseudo-intellettuali che non vogliono perdere il supporto dei prodotti scemi del gretinismo (anche perché votano). La vicedirettrice della Stampa, Annalisa Cuzzocrea, ad esempio li difenisce in prima pagina «ecoguerrieri che lo Stato vuole in carcere», attirandosi molto sfottò in Rete. Tra i minimizzatori c'è anche il dem Matteo Orfini, che ha ricordato che i poveri attivisti abbiano avuto la decenza di utilizzare vernice lavabile. Lavabile da chi? Non certo da loro. E lavabile con cosa? Con la stessa acqua che già viene sprecata per mancanza di infrastrutture decenti alla faccia di chi vive nella siccità perenne.

DIFESA IMBARAZZANTE

Ancor più deciso Stefano Feltri, direttore di Domani: «Hanno ragione loro, quelli di Ultima generazione che hanno sporcato di vernice il Senato per chiedere meno energie fossili e più rinnovabili. Sotto sotto lo sanno anche quelli che si indignano. Lo sanno ma non lo possono ammettere». Quello che possono ammettere di sicuro è che Feltri sia a corto di idee. L'ex firma del Fatto ha infatti la stessa linea del foglio di Travaglio, che con una serie di approfondimenti riservati agli abbonati non solo difende gli attivisti ma accusa il "sistema" di trattarli «come i brigatisti» visto che il Tg1 ha scelto di non mostrare il video del loro rivoluzionario blitz vandalico al Senato per evitare il rischio emulazione: «All'epoca anche i comunicati delle Br "oscurati" dai tg pubblici», si legge.

BRAVI RAGAZZI

Almeno dai romani ci si sarebbe dovuta aspettare una critica unanime, e invece no. Persino dall'assemblea capitolina è arrivata una voce di sostegno e solidarietà agli ordo-ambientalisti: quella di Michela Cicculli, consigliere di Sinistra Civica Ecologista. Anche perché i supereroi in questione sono gli stessi che bloccano il Raccordo e imbrattano le sedi di partito in giro perla Capitale creando disagi a tutti. Ma Cicculli, ex assessore dell'VIII municipio e con l'elezione in aula Giulio Cesare diventata anche presidente della commissione pari opportunità, ha scelto di parlare da mamma chioccia: «Sono ragazzi che reclamano un futuro con gesti di protesta dimostrativi e non violenti e devono trovare ascolto». Condanna il gesto ma non le ragioni pure l'ex senatrice Pd Monica Cirinnà, una che, va ricordato, non è stata rieletta alle ultime politiche del 25 settembre perché candidata dai dem in un collegio «non in linea con le sue battaglie politiche». Quelle, cioè, lontanissime dai problemi reali dei cittadini esattamente come la difesa degli imbrattatori: «Le ragioni della disobbedienza civile di Ultima Generazione sono tutte condivisibili», ha commentato in un tweet, aggiungendo che se facesse ancora parte di Palazzo Madama avrebbe chiesto subito che l'associazione fosse ricevuta. Proprio il motivo per cui nonne fa più parte.

Elisabetta Pagani per lastampa.it il 5 gennaio 2023.

«Apri la tua bocca in favore del muto». Cita una frase del libro dei Proverbi contenuto nella Bibbia, Erri De Luca, per esprimere quello che sente essere il suo «compito civile». Scrittore, poeta e traduttore, per De Luca l’impegno politico e civile è da sempre centrale, dalla militanza in Lotta continua negli Anni Settanta alla battaglia contro la Tav, nell’ambito della quale è stato processato e assolto per le sue dichiarazioni a sostegno del sabotaggio dell’opera. 

Su vari fronti, dice, «oggi i muti sono quelli che gridano le loro ragioni» senza essere ascoltati. Dei blitz contro i palazzi del potere e contro l’arte che gruppi ambientalisti ripetono in questi mesi, e giorni, lo scrittore condivide «gli argomenti e la necessità di promuoverli».

 Dai quadri di Leonardo e Van Gogh, protetti dal vetro, imbrattati fino alla vernice lavabile lanciata su Palazzo Madama, la protesta ambientalista ha alzato il tiro. Manifestare in piazza non basta?

«Definirle forme di protesta è per me riduttivo. Sono ordini del giorno che riguardano la vita del mondo che ci ospita e l’epoca presente. Le manifestazioni in piazza sono forme consumate di testimonianza politica. Servono gesti espliciti, comunicativi e innocui. Ne stiamo discutendo perché riescono a richiamare l’attenzione della cronaca».

 Il bene di una causa giustifica qualsiasi forma di protesta, anche violenta, o ci sono limiti da non valicare?

«Non qualsiasi, ma quella adatta e calibrata. Sono stato incriminato e assolto dal reato di istigazione. Quella causa, la lotta della Val di Susa, andava difesa in quel modo. Oggi su queste forme di lotta politica di Ultima Generazione mi limito a constatare che sono ragionevoli e misurate sulla sensibilità attuale così attenta alle superfici. Schizzarle di vernice lavabile suona scandaloso alle epidermidi di chi non fa niente di niente per ridurre i danni ambientali».

La politica ha condannato il blitz al Senato e il vicepremier Salvini dice che «i vandali che lo hanno imbrattato rischiano una pena da 1 a 5 anni». Questi gesti ottengono l’obiettivo di risvegliare le coscienze sul tema climatico o sono controproducenti nell’opinione pubblica?

«I vandali fanno leggi che ostacolano i salvataggi di chi sta affogando in mare. C’è un vandalismo in corso sui rincari delle bollette energetiche. Invocare manette è una forma di impotenza. Ma gioca a favore delle ragioni dei gesti simbolici».

 «Gli intellettuali cominciano a dare segnali di attenzione», ha detto un attivista di Ultima Generazione. È così?

«Gli intellettuali andrebbero identificati, si tratta di singole persone e non di una categoria. Non sono ottimista guardando in giro. Ma gli italiani sono imprevedibili. Si sono astenuti in massa alle politiche di settembre, sta a vedere che sta covando uno schieramento ambientalista che farà saltare il banco del Casinò politico».

«Per me, da scrittore e da cittadino, la parola contraria è un dovere prima di essere un diritto» ha scritto in La parola contraria (Feltrinelli), uscito poco prima del processo Tav. Che ruolo hanno o devono avere gli intellettuali nelle proteste del nostro tempo? E cosa sente di dover fare lei?

«Uno scrittore ha l’ambito della parola e allora il suo compito è difenderla dalle contraffazioni, dalle falsificazioni di chi per esempio dice che gli emigranti sono invasori. Un verso del libro dei Proverbi ordina: “Apri la tua bocca per il muto”. Oggi i muti sono quelli che gridano le loro ragioni e nessuno li ascolta. Il mio compito civile è di amplificare il loro segnale, farmi strumento della circolazione delle loro parole, a Taranto per esempio dove una città subisce intossicazione volontaria e continuata. E poi c’è una guerra dentro questo piccolo continente europeo.

Allora con un furgone e un amico faccio viaggi di rifornimento di quanto ci viene richiesto da lì. Prima di Natale abbiamo portato due generatori a orfanotrofi che erano al buio. Non è un’attività che raccomando come linea di condotta. È solo quello che personalmente credo di dovere al mio tempo, alla fortuna di esistere».

 Paolo Cognetti, commentando il blitz al Senato, ha detto che «non riusciamo a vedere nella protesta un esercizio democratico: per noi la democrazia si esaurisce nell’urna. Invece prevede il diritto al dissenso e, per chi governa, il dovere di ascoltare».

«D’accordo con Cognetti, ma queste forme di pubblica testimonianza non le vedo rivolte alle autorità, che sono inerti, sorde, inattuali. Sono rivolte all’opinione pubblica degli italiani, servono a smuovere coscienze, non a contrattare una diminuzione di CO2».

 Lei è un amante della montagna, che effetto le fa vedere lì le conseguenze dei cambiamenti climatici?

«La montagna è un luogo dove la nostra pressione umana scarseggia, si dirada, resta in minoranza. È il posto che per ora sopporta meglio l’alterazione climatica. Ci vado per la sua bellezza e per dimenticare quello che lascio a valle».

 Pensa che i giovani stiano combattendo per i diritti e per il futuro?

«Sì, sono avanguardia di prossime generazioni che approfondiranno metodi e invenzioni per produrre economie di riparazione, stili di vita pubblica e privata».

In Iran i giovani che protestano mostrano un enorme coraggio, rischiando carcere e morte. Lasceranno un segno nelle nostre coscienze?

«Stanno lasciando testimonianza, stanno condannando all’infamia i teocrati loro aguzzini. Una generazione in Argentina negli Anni 80 fu sterminata dalla dittatura militare. Chiamata desaparecida, scomparsa, in verità ha fatto scomparire i suoi assassini. Succederà in Iran».

Pasquale Napolitano, Alberto Giannoni per “il Giornale” il 5 gennaio 2023.

Il Domani, giornale di Carlo De Benedetti, rottama Bonelli, Soumahoro e i Verdi italiani.

Da giorni, dopo il blitz di Capodanno del movimento Ultima generazione con cui è stata imbrattata la facciata d'ingresso del Senato, la testata diretta da Stefano Feltri «caldeggia», a suon di articoli ed editoriali, la nascita di un nuovo ambientalismo in Italia, che possa archiviare la stagione dell'ecologismo ideologico di Pecoraro Scanio, Grazia Francescato e dei vari Fratoianni. Il sogno è un partito dei Verdi con Chiara Ferragni al timone. La realtà è un po' più triste. Il salto di qualità si è celebrato ieri del giornale di De Benedetti in un commento a firma di Gianfranco Pellegrino: eccola la chiamata alle armi.

«La disobbedienza (imbrattare le mura di Palazzo Madama) non basta più», scrive Pellegrino nel suo commento. Il passo successivo (e decisivo) deve essere l'ingresso nelle Istituzioni attraverso la strutturazione di un vero e proprio partito politico. Parole che mandano in pensione i Verdi di Bonelli, già spazzati via dallo scandalo delle cooperative di Soumahoro.

 Per De Benedetti, che si candida ufficialmente a essere la tessera numero uno, i tempi per la nascita di un «nuovo» partito ambientalista ed ecologista in Italia, sono maturi. Il modello a cui si guarda è quello tedesco. Un partito ambientalista liberal, sganciato da vincoli ideologici che possa dialogare sia con la sinistra che con la destra. Per la leadership servirebbe una figura come Chiara Ferragni, molto quotata suoi social. Ci sarà tempo per individuarla.

Intanto l'intelligentia di sinistra «molla» Bonelli e il suo partitino ambientalista. La spedizione degli attivisti di Ultima Generazione contro la facciata del Senato è stato il punto di rottura. Ora però serve creare le condizioni per liquidare Bonelli e dare la spinta al nuovo partito ecologista. Il Pd fiuta i movimenti in corso e cerca di

non restarne escluso: «Detto che imbrattare l'ingresso delSenato è un atto sbagliato destinato a ottenere un effetto esattamente opposto a quello cercato, io penso che i ragazzi di Ultima Generazione sarebbe giusto incontrarli, ascoltarli,

parlarci.

 E penso che dovremmo farlo noi» - commenta Gianni Cuperlo deputato del

Partito democratico e candidato a guida della segreteria Pd. E anche il M5S cerca di stare sul pezzo: «Si può essere d'accordo o meno con i metodi usati Ultima Generazione. Si possono anche considerare criticabili, dannosi e controproducenti. Ma la democrazia, che tanto amiamo, ammette il dissenso non violento.

 E la politica, piuttosto che alzare le barricate, dovrebbe ascoltarne le ragioni e accoglierne le istanze. Gli attivisti e le attiviste di Ultima Generazione sollevano una questione fondamentale, la catastrofe climatica, completamente estromessa dall'agenda di Governo.

Lo fanno attraverso atti simbolici, non attentati terroristici, che per qualche giorno portano il tema del clima sulle prime pagine dei giornali. Eppure noto più indignazione e alzate di scudi per alcuni ventenni che imbrattano di vernice lavabile un muro di quante ce ne siano nei confronti di evasori, corruttori e mafiosi. Come al solito, forti con i deboli» - ribadisce la deputata grillina Stefania Ascari. 

Intanto Palazzo Madama è stato ripulito a tempo di record. Mentre il 10 gennaio è in programma un nuovo blitz del movimento Ultima Generazione davanti l’ingresso del Tribunale di Milano per protestare contro le decisioni assunte dai giudici nei confronti del militante Simone Ficicchia, sottoposto alla sorveglianza speciale dopo l’azione dimostrativa

L’armata di sinistra che difende gli ecovandali: da Capanna a Berizzi, da Orfini a Stefano Feltri. Redazione su Il Secolo d’Italia il 3 Gennaio 2023. 

Perdonismo e buonismo a valanga per gli attivisti di Ultima generazione che hanno imbrattato il Senato con vernice rossa. Era lavabile, dice il dem Matteo Orfini, non esageriamo. Arrestarli addirittura! Poi c’è Paolo Berizzi, che gronda disagio da quando la destra ha vinto le elezioni. E che tira le somme: insomma ci sono i vandali ma i fascisti sono peggio: tenete a mente la lezione. Ecco il suo tweet giustificazionista: “Quelli che si indignano per i muri del Senato sporcati di vernice lavabile sono gli stessi che non riconoscevano la matrice della devastazione alla sede della Cgil guidata da chi in Senato è stato pure ricevuto. Tanto del clima ce ne freghiamo, giusto?”. Un po’ contorto, sì, ma sempre ascrivibile al filone perdonista.

E poteva mancare Mario Capanna? Certo che no. Eccolo dunque spiegare all’Adnkronos che “si può discutere sulle forme ma non hanno rotto i vetri di Palazzo Madama, se avessero colpito un lampione non ne avrebbe parlato nessuno”.  “Bisogna guardare qual è il loro obiettivo – aggiunge –  perché fanno queste manifestazioni come imbrattare opere d’arte o edifici come il Senato. Loro sostengono sia fondamentale lottare per bloccare i mutamenti climatici – per i quali praticamente non viene fatto nulla se non chiacchiere, con le centrali a carbone riaperte in seguito alla crisi energetica – e realizzare quanto prima e nel modo più ampio possibile le energie alternative. L’obiettivo è quindi indubbiamente giusto, tutti i meccanismi mediatici e di potere inducono le persone a non pensare ai mutamenti climatici. Dopo di che si può discutere sulle forme… ma non hanno rotto i vetri del Senato, divelto porte, hanno semplicemente lanciato della vernice per richiamare l’attenzione”.

Poi c’è Stefano Feltri, direttore di “Domani“, alla disperata ricerca di una qualche categoria da rappresentare col suo non brillante quotidiano. Hai visto mai che gli estremisti verdi se lo comprano? Così ecco la difesa a spada tratta di quelli che Il Giornale ha ribattezzato “ecocretini”. “Hanno ragione loro, quelli di Ultima generazione che hanno sporcato di vernice il Senato per chiedere meno energie fossili e più rinnovabili – scrive Stefano Feltri – sotto sotto lo sanno anche quelli che si indignano. Lo sanno ma non lo possono ammettere”.

Il giudice libera gli ambientalisti che hanno assaltato il Senato. I tre attivisti di Ultima generazione sono accusati di danneggiamento aggravato, il giudice ha rimandato l’udienza al prossimo 12 maggio. Il pubblico ministero aveva chiesto l'obbligo di dimora. Massimo Balsamo il 3 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Convalidati gli arresti dei tre ambientalisti di Ultima generazione che hanno compiuto martedì il blitz a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Accusati di danneggiamento aggravato, Davide Nensi, Alessandro Sulis e Laura Paracini sono stati rimessi in libertà. Il giudice monocratico di Roma ha rimandato l’udienza al prossimo 12 maggio. Non è stata dunque accolta la richiesta del pubblico ministero, che aveva chiesto l’obbligo di dimora per tutti e tre i giovani coinvolti.

Gli ambientalisti tornano liberi

Nel corso dell’udienza di convalida di mercoledì mattina, i tre ambientalisti hanno ammesso i fatti rivendicandoli come un’azione dimostrativa. “Dopo aver visto il disastro della Marmolada ho paura per il nostro futuro”, la motivazione dell’eco-vandalo: “Ho aderito a Ultima Generazione perché propone un cambiamento, in particolare di fermare le emissioni di gas e puntare sulle energie rinnovabili”. Difesi dall’avvocato Ilaria Salamandra, i tre torneranno in aula tra quattro mesi e potranno valutare se ricorrere al rito ordinario o chiedere riti alternativi.

Adnkronos ricorda che i giovani coinvolti erano già stati denunciati: tutti e tre avevano partecipato ai blocchi stradali sul Grande Raccordo Anulare. Laura Paracini, inoltre, aveva preso anche parte al blitz contro il quadro di Vincent van Gogh esposto a Palazzo Bonaparte. Nonostante ciò, il giudice ha ritenuto opportuno rimettere in libertà, senza accogliere le richieste del pubblico ministero: niente misure cautelari personali e coercitive, neppure l’obbligo di dimora, previsto nei confronti degli imputati in attesa di giudizio quando c’è il rischio che possano scappare, inquinare le prove o commettere altri reati.

Ecocretini. "È un atto criminale"

Una decisione clemente nei confronti degli attivisti per l’ambiente, guidata come sempre dai principi di adeguatezza, proporzionalità e gradualità. Evidentemente, per il giudice non c’è il rischio di reiterazione del reato – nonostante non sia il primo atto vandalico firmato dai tre arrestati, anzi, il curriculum è piuttosto notevole nonostante la giovane età – oppure il rischio di fuga. Ciò che è certo è che il dibattito è destinato a riaprirsi a stretto giro di posta, considerando che i movimento radicali hanno intenzione di continuare a operare attraverso gesti plateali. “Noi continueremo”, è la promessa di Ultima generazione, che può contare sul sostegno e sulla difesa anche di parte della politica, Pd e M5s in testa.

Il Senato si costituirà parte civile

Nel corso della riunione del Consiglio di Presidenza, il presidente Ignazio La Russa ha reso noto che il Senato si costituirà parte civile nel procedimento contro i tre ambientalisti. La conferma è arrivata direttamente da dall’azzurro Maurizio Gasparri, vicepresidente di Palazzo Madama: “Spiace che, pur condannando tutti quanto accaduto, una forza politica non si è detta d'accordo con la proposta del presidente. Forse sono più interessati agli alberghi di Cortina...”, la stoccata nei confronti del leader grillino Giuseppe Conte.

"Un atto criminale da sanzionare: nessuna attenuante". Il sottosegretario all'interno Nicola Molteni: "Occorre la certezza della pena, chi sbaglia paga". Fabrizio De Feo su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Chi commette questi gesti non ama affatto l'ambiente: è soltanto un incivile A Milano Nessun alibi per chi ha dato alle fiamme il manichino di un poliziotto Gesto indegno L'oltraggio alle istituzioni da parte degli ecoattivisti di Ultima Generazione che hanno imbrattato con la vernice la facciata di Palazzo Madama suscita rabbia e indignazione nel mondo politico e non solo. Una azione di «protesta» dalle modalità estremamente discutibili, se non del tutto incomprensibili, che ha già fatto scattare la reazione del Viminale con il possibile aumento del dispositivo di sicurezza attorno ai palazzi del potere romano, come racconta il sottosegretario all'Interno, Nicola Molteni.

Sottosegretario Molteni, cosa pensa dell'atto vandalico ai danni del Senato?

«Si tratta di uno sfregio alle istituzioni becero e inaccettabile. Nessuna motivazione ambientalista o ecologista ma puramente ideologica e di vandalismo. Siamo di fronte a un atto criminale che va sanzionato senza se e senza ma».

Si può definire «protesta» una azione di questo tipo? Esistono delle attenuanti o bisogna agire con la massima severità?

«Nessuna attenuante, nessuna giustificazione, nessun alibi. Così come nessuna attenuante per chi a Milano ha dato alle fiamme il manichino di un poliziotto. Si tratta di un gesto indegno verso una istituzione orgoglio del Paese: la Polizia di Stato. In entrambi i casi si impone solo la condanna del gesto che spero sia unanime. Mi auguro che non ci siano le solite frange ideologiche che anche solo indirettamente legittimano gesti che denotano inciviltà».

I responsabili di questa azione di vandalismo che ha colpito il Senato pagheranno per le conseguenze del loro gesto? È necessario inasprire le sanzioni?

«Chi imbratta, deturpa e danneggia monumenti, opere d'arte, musei o dà alle fiamme manichini di poliziotti deve pagare, è il minimo, l'impunità sarebbe un messaggio sbagliato e inaccettabile. Ma soprattutto devono ripristinare e ripagare quanto danneggiato. Serve la certezza della pena, chi sbaglia paga e paga tutto».

L'area del Senato finora non è stata soggetta a limitazioni, come al contrario avviene per quella attorno alla Camera. Anche se si tratta di misure che inevitabilmente finiscono per penalizzare anche i comuni cittadini è ipotizzabile una chiusura o una recinzione dell'area?

«Il Presidente del Senato ha convocato per domani (oggi per chi legge, ndr) un consiglio di presidenza e si adotteranno le misure idonee. Nel frattempo il Viminale ha rafforzato la vigilanza sia al Senato che nella stazione Termini di Roma. Due fatti gravissimi rispetto ai quali i dispositivi di sicurezza sono stati immediatamente potenziati. Un ringraziamento a Carabinieri e Polizia di Stato per l'immediato intervento contro il blitz al Senato».

Chi deturpa monumenti e beni culturali può davvero definirsi ambientalista?

«No, bisogna dirlo con chiarezza, chi commette questi gesti non è un ambientalista ma un incivile. Sia ben chiaro, nessuno di loro possiede il monopolio della tutela ambientale. Il contrasto ai cambiamenti climatici non si fa con la violenza o con la vernice, al contrario si tratta di gesti che delegittimano invece ogni loro istanza».

Offendiamoci tutti. Dallo "strumento sbagliato" alla "politica che deve prestare ascolto", in una certa sinistra l'assalto ambientalista a Palazzo Madama suscita a malapena un bonario rimbrotto. Gabriele Barberis su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Dallo «strumento sbagliato» alla «politica che deve prestare ascolto», in una certa sinistra l'assalto ambientalista a Palazzo Madama suscita a malapena un bonario rimbrotto. Le dichiarazioni esprimono più imbarazzo che indignazione, più rammarico che rabbia. La vernice non ha mai ferito nessuno, ma sarebbe troppo assolutorio liquidare l'attacco al Senato come una bravata di «sciocchi irrispettosi» che rischiano di danneggiare la credibilità delle battaglie ecologiste.

Già in tutto il mondo sono state accolte con un misto di ironia e divertimento le imbrattature di opere d'arte nei grandi musei come forma di protesta creativa contro il degrado del clima. Arriva però anche il momento della fermezza quando queste performance mediatiche oltrepassano il confine del teppismo a bassa intensità. Non si passa per reazionari se si inquadrano questi episodi come frutto di una cretineria di tendenza, ammantata da battaglia sociale di valore elevato. Strana tutela dell'ambiente e della bellezza nazionale sporcare un palazzo storico del XV secolo e poi tacere su tante nefandezze, come le ottomila tonnellate di rifiuti tossici sotterrati sotto la strada regionale di Empoli nella Toscana rossa.

I fatti di Roma sono stati derubricati a un muro sporcato che in poche ore è stato ripristinato, quasi a cancellare con la rimozione della vernice anche il fatto stesso. Stupisce ancora una volta come la percezione dell'assalto sia differente a seconda dell'appartenenza politica, senza suscitare uno sdegno unanime. In molti casi è stata del tutto trascurata la valenza simbolica dell'offesa, portata al cuore della democrazia sotto forma della Camera Alta del Parlamento sovrano eletto a suffragio universale. La casa di tutti, l'epicentro della vita pubblica, non una caserma delle torture o un altro sinistro edificio di un regime dittatoriale. Non ci si può dividere quando per isterismo ecologista si decide di offendere l'intera Nazione.

Nell'opinione pubblica più indulgente, il blitz di Ultima Generazione viene giustificato con l'idealismo dei ragazzi che combattono per un mondo meno surriscaldato e più inclusivo. Ancora una volta, purtroppo, è la matrice politica dei dimostranti a creare una sorta di giustificazione, specialmente quando è riconducibile a un'ideologia progressista. Conoscendo le dinamiche del circuito mediatico di sinistra, diventa difficile immaginare condanne di circostanza se l'assalto al Senato della Repubblica fosse stato condotto da movimenti di estrema destra. Figurarsi i salotti radical chic che hanno evocato la marcia su Roma e il fascismo risorgente per la vittoria elettorale di Fratelli d'Italia...

Nel discorso di fine anno il presidente Mattarella ha elogiato l'Italia come «democrazia matura». Forse ci siamo, ma manca ancora qualcosina. Come sentirci tutti offesi allo stesso modo se qualche scellerato travestito da eroe si permette di vandalizzare Palazzo Madama.

La setta che vuole ritornare al Medioevo. I fanatici di Ultima Generazione dicono no a tutto, dal gas al nucleare. Francesco Giubilei su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Il confine tra eco-ribelli ed eco-teppisti è labile e gli attivisti del movimento Ultima Generazione lo hanno superato da tempo. Dopo gli atti vandalici contro quadri e opere d'arte, il lancio di vernice verso il Teatro della Scala a Milano e i numerosi blocchi stradali, ieri mattina gli pseudo ambientalisti hanno imbrattato la facciata del Senato della Repubblica con della vernice rossa. Un gesto molto grave tanto sul piano materiale quanto su quello simbolico. Da un punto di vista materiale perché hanno deturpato un palazzo con un importante valore storico e culturale (Palazzo Madama è stato costruito nel XV secolo), da quello simbolico perché hanno colpito un luogo che rappresenta le istituzioni superando un limite che non andrebbe mai varcato.

I fautori di questi gesti si definiscono attivisti ma, a giudicare dalle loro azioni, sono fanatici che utilizzano l'ambiente come scusa per protestare. Alla base del loro operato c'è una grande contraddizione: come si può avere a cuore la natura se non si rispetta il prossimo e non si ha senso civico?

Le loro azioni si basano su toni apocalittici e la nota diffusa dopo aver imbrattato il Senato è su questa falsariga: «Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità». Da qui la richiesta al governo italiano (definito «criminale» da uno dei ragazzi che ha partecipato al blitz) di «interrompere immediatamente la riapertura delle centrali a carbone dismesse e cancellare il progetto di nuove trivellazioni per la ricerca ed estrazione di gas naturale».

L'obiettivo di Ultima Generazione, come si legge dal loro sito, è tanto ambizioso quanto fallimentare nelle azioni con cui viene compiuto: «Fare qualcosa per determinare il futuro dell'umanità». Che il futuro dell'umanità passi dal blocco del Grande Raccordo Anulare è tutto da dimostrare, di sicuro però se i governi ascoltassero le loro richieste l'umanità piomberebbe in una condizione di povertà. Nel furore ideologico di Ultima Generazione non c'è spazio per proposte realistiche (salvo un generico aumento delle rinnovabili) ma solo per i no: no al gas, no al carbone, no al nucleare. Il movimento fa inoltre parte di una più ampia rete internazionale chiamata A22, «un network di campagne che usano la disobbedienza civile nonviolenta per chiedere ai rispettivi governi impegni concreti nel contrastare il collasso eco climatico a cui stiamo andando incontro».

Così come altre realtà che sostengono di «lottare per l'ambiente», anche Ultima Generazione ha un profilo ideologico ben definito testimoniato dal «linguaggio inclusivo» utilizzato per la loro comunicazione tra parole con l'asterisco al posto delle vocali finali e schwa.

Nonostante gli attivisti siano consapevoli che per i loro gesti «le conseguenze ci sono, e va bene così, le accettiamo», in realtà temono di incorrere nella legge come nel caso di un giovane che rischia la sorveglianza speciale per le sue azioni.

Il problema di fondo è che movimenti come Ultima Generazione da anni sono legittimati da una parte della politica che sposa una narrazione catastrofista sul clima facendo sentire questi ragazzi dei rivoluzionari senza comprendere che sono l'emblema del conformismo in un'epoca che non ama più la bellezza, disprezza le opere d'arte, i monumenti, la nostra storia e identità e confonde la lotta per l'ambiente con l'amore per la natura.

Assalto al Senato a colpi di vernice: arrestati 3 estremisti dell'ambientalismo. "Gesto oltraggioso". Tira una brutta aria per gli attivisti del clima. Ieri mattina, alle 7.45, cinque ragazzi di Ultima Generazione sono arrivati davanti alla sede del Senato, Palazzo Madama, imbrattandone la facciata con vernice color salmone. Massimo Malpica su Il Giornale il 3 Gennaio 2023

Tira una brutta aria per gli attivisti del clima. Ieri mattina, alle 7.45, cinque ragazzi di Ultima Generazione sono arrivati davanti alla sede del Senato, Palazzo Madama, imbrattandone la facciata con vernice color salmone. I carabinieri hanno fermato quasi subito gli attivisti - tre sono stati arrestati, due denunciati - che come di consueto non hanno opposto resistenza, spiegando semmai a favore di telecamere i motivi del gesto di protesta ossia, per restare alla nota della stessa organizzazione di attivisti climatici, «la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità».

Non è la prima volta che Ultima Generazione entra in azione in Italia e a Roma. Un mese fa i suoi militanti avevano «colpito» con un'azione simile alla Scala di Milano, imbrattandone l'ingresso la mattina del giorno della «prima». Il 4 novembre, a Roma, avevano lanciato della zuppa di verdura sul Seminatore di Van Gogh esposto, e protetto da un vetro, a Palazzo Bonaparte. Nella capitale, come pure a Milano, Ultima Generazione ha anche spesso organizzato blocchi improvvisati del traffico, pure sul Grande raccordo anulare, stendendosi per terra e impedendo fisicamente alle auto di proseguire.

La nobiltà del movente, però, non attenua l'impatto dei gesti messi in scena dagli eco-attivisti. Che, per restare a ieri, si sono ritrovati soli contro tutti, con le forze politiche unite nel condannare l'attacco mattutino alla sede del Senato. Insomma, la visibilità c'è, ma non sembra che gli obiettivi degli attacchi militanti giochino a favore della causa ambientale. E le reazioni di ieri sembrano dimostrarlo. Tra i primi ad alzare la voce, il «padrone di casa», Ignazio La Russa. Il presidente del Senato ha subito convocato, per oggi, il Consiglio di Presidenza del Senato, annunciando misure più stringenti a tutela della sicurezza del palazzo. Per poi scagliarsi contro il gesto di protesta. «Il Senato è stato vigliaccamente scelto ha spiegato la seconda carica dello Stato - perché a differenza di Palazzo Chigi, della Camera e di altre istituzioni, non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un'area di sicurezza attorno all'edificio». Insomma, «nessun alibi, nessuna giustificazione», conclude La Russa, «per un atto che offende tutte le istituzioni».

Anche dalla premier Giorgia Meloni nessuna indulgenza: «Gesto oltraggioso, incompatibile con qualsiasi civile protesta», commenta. Una «ferma condanna» arriva anche dal presidente della Camera, Lorenzo Fontana, mentre il ministro della Cultura, Gennaro Sangiuliano, che aveva già criticato il lancio della zuppa sul dipinto di Van Gogh, chiede sanzioni più severe per «chi danneggia il nostro patrimonio architettonico, artistico e culturale». C'è «ben poco di dimostrativo e molto di vandalico» nell'attacco al Senato secondo la ministra dell'Università Anna Maria Bernini. Pure secondo il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, «lanciare vernice contro il Senato non ha nulla a che vedere con la lotta al cambiamento climatico». Non va meglio nemmeno tra l'opposizione. Per Simona Malpezzi, capogruppo Pd a Palazzo Madama, quella di ieri mattina è solo una «azione stupida e incivile, contro il senso di appartenenza alla comunità». Duro anche il commento del Terzo polo, per bocca di Matteo Renzi, secondo il quale «chi vandalizza un palazzo delle istituzioni pensando di difendere l'ambiente capisce poco e chi giustifica i vandali che imbrattano il Senato dimostra di capire ancora meno». Anche i pentastellati prendono le distanze dall'attacco «ingiustificabile», con la capogruppo M5s in Senato, Barbara Floridia, che concede solo la necessità di prestare «maggiore attenzione» a un tema fondamentale.

Il blitz mette a nudo i limiti della sicurezza del centro storico della capitale. Anche il ministro dell'Interno Matteo Piantedosi si dice «preoccupato» nella telefonata con La Russa. E annuncia che a breve saranno intensificati i controlli nelle stazioni delle grandi città» e alle sedi istituzionali. Occorre, secondo Piantedosi, aumentare l'attività di prevenzione e di controllo del territorio. Massimo Malpica

Assalto al Senato: cosa c'è dietro il blitz dei "coraggiosi" ambientalisti. A differenza di Palazzo Chigi, Palazzo Montecitorio e altre istituzioni, Palazzo Madama non prevede un’area di sicurezza attorno all’edificio. Massimo Balsamo su Il Giornale il 2 Gennaio 2023

L’ultimo orripilante show degli ambientalisti di Ultima generazione è andato in scena a Palazzo Madama, sede del Senato della Repubblica. Quattro giovanotti non hanno trovato di meglio da fare che imbrattare una facciata dello storico edificio con un getto di vernice arancione, utilizzando degli estintori.“Alla base del gesto, la disperazione che deriva dal susseguirsi di statistiche e dati sempre più allarmanti sul collasso eco-climatico, ormai già iniziato, e il disinteresse del mondo politico di fronte a quello che si prospetta come il più grande genocidio della storia dell'umanità”, la scusante. Ma la scelta di Palazzo Madama come luogo della dimostrazione non è casuale. E non cela grandi virtù, anzi.

Le ragioni del blitz al Senato

Già protagonisti sul GRA e in diversi musei, gli ambientalisti hanno intrapreso il cammino delle proteste-show. Il mezzo ideale per rendere note le loro richieste e soprattutto per avere un minimo di visibilità. E la visibilità piace, tanto da alzare sempre l’asticella. I ragazzi di Ultima generazione hanno spostato il mirino su un simbolo della democrazia per il risalto mediatico, non vi sono dubbi. Ma perché il Senato della Repubblica? La risposta è arrivata direttamente dal suo presidente, Ignazio La Russa: “Il Senato è stato vigliaccamente scelto perché non ha mai ritenuto fino ad ora di dover creare un’area di sicurezza attorno all'edificio”.

Gli ambientalisti hanno avuto dunque la possibilità di agire pressoché indisturbati e di poter compiere il gesto simbolico. Ma si sono ben guardati dal tentare il blitz presso altre istituzioni, da Palazzo Chigi a Palazzo Montecitorio: in quel caso avrebbero dovuto fare i conti con un sistema di sicurezza difficile da scavalcare. Perché complicarsi la vita, dunque? Non un coraggio da leoni, insomma. L’importante era avere spazio e (discutibile) gloria sui media e sui social network, missione riuscita.

Il livello di sicurezza sarà aumentato

Immediatamente dopo il fattaccio, il presidente del Senato Ignazio La Russa ha avuto un dialogo telefonico con il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Il titolare del Viminale ha espresso solidarietà e vicinanza per l’accaduto, confermando la piena disponibilità ad aumentare il livello di sicurezza di Palazzo Madama. Una contromossa necessaria per evitare il ripetersi di gesti simili. E difficilmente i valorosi giovanotti di Ultima generazione si faranno rivedere da quelle parti.

Antonio Giangrande: Il popolo dei nimbini (mai da me) è sempre all’opera. Probabilmente non hanno niente da fare. Generalmente son comunisti di varie sigle. Aggiungiamoci tra di loro pure i pentastellati, bastian contrari alla riscossa. Ma che cazzo centrano quelli di Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia con il referendum di Domenica? Da quando in qua interessa a loro la lotta ambientalista? O comunque la lotta sociale e civile? Sono disabituati perchè, generalmente, i referendum sono previsti contro le loro leggi capitaliste. Il paradosso è che, questa volta, la sinistra nimbina scende in campo contro se stessa. Se i referendum, come gli scioperi, sono prettamente politici, perché ci fanno spendere un “mare” di soldi per un referendum per il quale nessuno va a votare? Tranquillamente possono far cadere i governi e cambiare le norme che non piacciono in Parlamento!!! D'altronde, quando mai hanno rispettato l’esito dei referendum? Specialmente quando il referendum era serio, come quello sulla responsabilità dei magistrati!!

IL NO IDEOLOGICO.

I NOTARTUFO.

Il M5S.

I NOTAV.

IL NO IDEOLOGICO.

 Antonio Giangrande: Il nuovo comunistambientalismo combatte una battaglia retrograda, coinvolgendo le menti vergini degli studenti che assimilano tutto quanto la scuola di regime gli propini.

L'intento è quello di far regredire una civiltà secolare, sviluppata con conquiste sociali ed economiche.

Il progresso tecnologico ed industriale irrinunciabile è basato sullo sfruttamento delle risorse. Le auto per spostarci, il benessere con gli elettrodomestici e le forme di comunicazione.

Il progresso tecnologico ed industriale ha prodotto benessere, con lavoro e sviluppo sociale, con parificazione dei censi.

Il Benessere ha fatto proliferare l’umanità.

L'uguaglianza sociale ha portato allo sviluppo sociale con svago e divertimento con il turismo e lo sfruttamento dell'ambiente.

Per gli ambiental-qualunquisti o populisti ambientali il progresso va cancellato. La popolazione mondiale ridimensionata.

Si torna alla demografia latente e gli spostamenti a piedi, nemmeno a cavallo, perchè gli animali producono biogas. Oltretutto, per questo motivo, non si possono allevare gli animali. La nuova religione è il veganismo.

Si comunicherà con le nuvole di fumo. E si torna nelle grotte dove fa fresco l'estate e ci si sta caldi e riparati d'inverno.

Inoltre bisogna che la foresta ed i boschi invadano la terra. Pari passo a pale eoliche e campi estesi di pannelli solari. La natura e l’energia alternativa al primo posto, agli animali (all'uomo per ultimo) quel che resta. Vuoi mettere la difesa di un nido di uccello palustre, rispetto alla creazione di posti di lavoro con un villaggio turistico eco-sostenibile sulla costa? E poi il business delle rinnovabili come si farà?

Come sempre i massimalisti dell'ecologia non mediano: o è bianco o è nero. Per loro è inconcepibile l'equilibrio tra progresso e rispetto della natura e degli affari.

Ecco le opere utili che non sono nate fermate dai veti del no ideologico. In tutta Italia dighe, argini, bacini bloccati dal furore degli ambientalisti. L'ultimo report parla di ben 317 progetti contestati. E le esondazioni intanto continuano. Francesco Giubilei il 28 Luglio 2023 su Il Giornale.

Gli eventi atmosferici di questi giorni tra alluvioni, grandinate e incendi rendono evidente non solo l'importanza di aumentare gli investimenti in prevenzione ma anche la necessità di opere e infrastrutture per contrastare il dissesto idrogeologico e mitigare le conseguenze dei fenomeni meteorologici avversi. Eppure negli ultimi anni la realizzazione di dighe, argini, bacini, vasche di laminazione (per non parlare di impianti in campo energetico), è stata bloccata dal furore ideologico dell'ambientalismo del no a tutto.

C'è un termine per definire chi si oppone alla costruzione delle opere necessarie in ambito ambientale ed è Nimby che si può tradurre con «non nel mio giardino». Per comprendere l'impatto del fenomeno basti pensare che nel 2004 è stato istituito in Italia il «Nimby Forum», un osservatorio permanente che gestisce l'unico database nazionale delle opere pubbliche contestate. L'ultimo rapporto disponibile è relativo al biennio 2017-2018 e quindi va aggiornato ma è utile per comprendere il contesto generale. Nel periodo preso in considerazione erano ben 317 le opere contestate in tutto il territorio nazionale di cui il 57% inerente al settore energetico, il 36% al trattamento dei rifiuti, il 6% alle infrastrutture e l'1% ad altre tipologie. Ma il dato che più sorprende è quello inerente ai soggetti che contestano la costruzione di opere e infrastrutture: se i cittadini sono coinvolti nel 35% dei casi, gli enti locali lo sono nel 26%, le rappresentanze politiche nel 25%, le associazioni ambientaliste nel 10% e le associazioni di categoria e i sindacati nel 4%.

Anche se dal 2017 è stata sbloccata la realizzazione di alcune opere, rimangono numerose infrastrutture in tutta Italia che, a causa dei preconcetti ideologici degli ambientalisti, non hanno ancora visto la luce nonostante la loro utilità con alcuni casi clamorosi. Uno di questi è la diga di Vetto in provincia di Reggio Emilia: proposta per la prima volta dall'allora ministro dell'Agricoltura Giovanni Marcora, nel 1988 incominciarono i primi lavori con l'obiettivo di trattenere l'acqua proveniente dai corsi d'acqua della zona formando una riserva idrica e proteggendo le località a valle dalle esondazioni. A trentacinque anni di distanza la diga non è ancora stata compiuta a causa di una serie di ricorsi, boicottaggi degli ambientalisti e interventi a difesa delle faine con un modus operandi tanto dannoso quanto diffuso. Gli esempi sono purtroppo numerosi come attesta il report «Manutenzione Italia: azioni per l'Italia sicura» realizzato dall'Anbi, l'associazione nazionale per la gestione dei bacini idrici. Si va dalle battaglie per il fiume Sacco nel Lazio alle proteste degli ambientalisti contro la Diga di Valsessera in Piemonte al centro di un contenzioso per la proposta di ampliamento, fino al caso del fiume Misa nelle Marche. Dal 1986 si discute di creare attorno al fiume quattro aree di laminazione mentre avvengono ciclicamente esondazioni che creano enormi danni.

Secondo l'Anbi solo al sud si contano almeno una trentina di opere idrauliche incompiute e, se alcuni progetti come l'invaso campano di Campolattaro o la diga di Pietrarossa in Sicilia sembrano essersi sbloccati, ci sono infrastrutture come la diga sul Melito in Calabria la cui realizzazione appare un'utopia. Oltre al danno della mancata costruzione di infrastrutture necessarie per il territorio, c'è anche la beffa di centinaia di milioni di euro spesi dai contribuenti per opere che non hanno mai visto la luce. È il costo dell'ambientalismo ideologico. Francesco Giubilei

I NOTARTUFO.

I dem polemizzano perfino sul premio del tartufo dato alla Figc. Dopo i No alla Tav, in Piemonte arrivano i No al Tartufo. Nadia Muratore il 4 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Dopo i No alla Tav, in Piemonte arrivano i No al Tartufo. In questo caso non hanno nulla a che vedere con i gruppi anarchici: sono i rappresentanti della sinistra che siedono nei banchi dell'opposizione ad Alba, che hanno fortemente manifestato il loro disappunto contro la decisione di consegnare il Tartufo dell'anno a Gabriele Gravina, presidente della Figc. Il motivo? Visti i risultati, la Nazionale di calcio non merita un premio prestigioso come il profumato tartufo bianco di Alba, tanto da aggiungere: «Ecco come svilire un riconoscimento».

Nonostante il parere negativo della sinistra, Gravina ha ricevuto il premio assegnato dalla Città di Alba, dalla Regione Piemonte e dalla Fiera internazionale del Tartufo Bianco d'Alba: un magnifico esemplare di 216 grammi. Il riconoscimento alla Figc vuole essere un ringraziamento per aver scelto le colline di Langhe, Roero e Monferrato per ambientare lo spot che racconta la passione dell'Italia verso la sua Nazionale di calcio, evocando una tradizione antica come la cerca del tartufo.

«La nazionale di calcio è un'eccellenza italiana come lo è il tartufo bianco d'Alba ed è per noi motivo di grande orgoglio che sia stato scelto dalla Figc e dallo sponsor tecnico Adidas per lo spot di presentazione della nuova maglia azzurra», hanno dichiarato il presidente della Regione Piemonte, Alberto Cirio, l'assessore al Turismo della Città di Alba, Emanuele Bolla, e la presidente della Fiera internazionale del Tartufo Bianco d'Alba, Liliana Allena.

«Vi ringrazio per questo premio ha dichiarato Gravina , che condividiamo con Adidas, con cui a gennaio abbiamo iniziato un percorso innovativo e importante volto a comunicare i valori del nostro calcio. Ed è la conferma che il calcio può valorizzare le straordinarie bellezze del nostro Paese».

E la sinistra albese se ne farà una ragione se, per ricambiare, il presidente porterà la nazionale italiana di calcio e la Figc nelle colline piemontesi per dare il simbolico calcio di inizio alla prossima stagione della cerca del Tartufo bianco d'Alba.

 Il M5S.

Grillo: «Energia nucleare? Roba già vecchia di 20 anni fa». Redazione Politica su Il Corriere della Sera il 20 Gennaio 2023.Il fondatore del M5s su Twitter condivide un’analisi ospitata sul suo blog: «Non serve parlare di Chernobyl o Fukushima per dire che sarebbe un errore introdurlo»

«Il nucleare era già roba vecchia venti anni fa. Come è possibile pensare che possa essere una soluzione per i prossimi venti anni?». La stroncatura arriva da Beppe Grillo che lancia così su Twitter l’analisi ospitata dal suo Blog nella quale si sottolinea tra l’altro che «non ci sono evidenze scientifiche che oggi un ritorno al nucleare sia `indispensabile´ o anche semplicemente conveniente per il nostro Paese» e che «nel futuro nuove scoperte potrebbero modificare l’analisi costi-benefici perché non è un dogma di fede, come qualcuno crede, ma una tecnologia come le altre. Non serve parlare di Chernobyl o Fukushima per dire che sarebbe un errore introdurlo».

M5s contro l'energia nucleare, il Movimento del no a tutto. Gaetano Mineo su Il Tempo il 21 gennaio 2023

Beppe Grillo torna in scena. D’altronde, per un comico non è un buon segnale avere i riflettori spenti. E così il Garante del M5S questa volta sceglie come bersaglio il nucleare, bocciandolo come fonte di energia. «Era già roba vecchia venti anni fa. Come è possibile pensare che possa essere una soluzione per i prossimi venti anni?». Come dire, il populismo pentastellato appare immortale: cambia pelle ma non l’anima. No a prescindere. No Tav, no Tap (Gasdotto trans-adriatico), No acciaierie Ilva, No rigassificatori, e via dicendo. Tutte cantilene sentite nell’ultimo decennio e che hanno finanche portato alla caduta del governo Draghi con l’ennesimo «no» al termovalorizzatore nei progetti del sindaco di Roma, Roberto Gualtieri.

Perché Grillo boccia il nucleare? «Non ci sono evidenze scientifiche che oggi un ritorno al nucleare sia "indispensabile" o anche semplicemente conveniente per il nostro Paese» dice, convinto che «nel futuro nuove scoperte potrebbero modificare l’analisi costi-benefici perché non è un dogma di fede, come qualcuno crede, ma una tecnologia come le altre». Il che vuol dire, per il comico genovese, bloccare il «mondo» in attesa di un domani migliore. Omettendo, però, che in Europa da decenni diversi paesi con il nucleare sono sempre più competitivi dell’Italia. Ma questa è un’altra storia. I maligni, intanto, pensano che l’intervento di Grillo non sia tanto politico, ma da comunicatore del partito, ruolo per cui intasca oltre 300mila euro l’anno. Contratto che sta per essere rinnovato, suscitando un certo malumore tra i parlamentari 5stelle. Infatti, se da un lato loro sono stati costretti a ridurre il loro budget a causa del taglio del numero dei parlamentari, gli eletti avrebbero puntato il dito contro la decisione di rinnovare il contratto al fondatore del partito alle stesse cifre del passato. Il mal di pancia, poi, viene amplificato dal fatto che Grillo, secondo le accuse, non avrebbe lavorato come dovuto alla comunicazione del partito, scomparendo di fatto dai radar nel corso dell’ultima campagna elettorale per le politiche. Di certo, il comico 75enne è scomparso dalla scena politica, defenestrato da un abile ex avvocato del popolo che in poche mosse ha smantellato quello che fu, una volta, il Movimento dei «cittadini». 

I NOTAV.

Oltre 200 mila uomini l’anno e 8 milioni, il conto dello Stato per proteggere i cantieri Tav. Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

Con una media alle soglie dell’incredibile: oltre 700 unità al giorno

Per proteggere i cantieri dell’Alta velocità in Val di Susa, dal 2011, sono stati impiegati (a rotazione) una media tra i 180 e i 200 mila agenti e militari l’anno, con una punta di oltre 260 mila uomini nel 2021, «periodo caratterizzato da diversi episodi», spiega a un certo punto un funzionario della Digos, ascoltato come testimone al maxiprocesso contro una trentina di militanti del centro sociale Askatasuna, accusati, tra l’altro, di associazione per delinquere. Per una spesa arrivati sugli «otto milioni di euro», almeno secondo i dati raccolti dall’avvocatura dello Stato, costituita parte civile per la presidenza del Consiglio e i ministeri dell’Interno e della Difesa. 

Numeri e stime contestati dai difensori — tra cui gli avvocati Claudio Novaro, Roberto Lamacchia e Valentina Colletta — pure perché contenuti anche in annotazioni di servizio, motivo per il quale si sono opposti all’acquisizione dei documenti da parte del tribunale (presidente Federica Bompieri). Se le cifre sono «di parte», rendono comunque l’idea dell’impegno statale, perché agli agenti del reparto mobile e ai carabinieri dei battaglioni, vanno aggiunti gli uomini di altri reparti, dalla scientifica alla Digos. In apertura di udienza, mercoledì mattina, Dana Lauriola, storica portavoce del movimento No Tav, aveva letto una dichiarazione spontanea condivisa da tutti gli imputati: dicendo che si tratta di un processo «contro Askatasuna, la sua attività politica e il movimento No Tav» e che «vuole reprimere il conflitto sociale per via giudiziaria». 

«Da subito — ha detto ancora, leggendo un lungo messaggio — respingiamo senza esitazione il quadro caricaturale che gli inquirenti hanno dipinto, quadro deformato e desolante». In particolare, gli imputati criticano l’utilizzo della intercettazioni ambientali: «Affermazioni fatte nel cuore della notte» con amici e famigliari, trasformate in «dichiarazioni di intenti» e in «teorema giudiziario». E ancora: un «teorema» che avrebbe fatto di «Askatasuna e del movimento No Tav un nemico pubblico». Solidarietà anche all’anarchico (detenuto) Alfredo Cospito e per la battaglia contro il 41 bis. L’accusa — rappresentata dal procuratore aggiunto Emilio Gatti e dal pm Manuela Pedrotta — contesta episodi di violenta protesta e diversi blitz in Val di Susa, nel corso degli anni, proprio contro i cantieri dell’Alta velocità presidiati dalle forze dell’ordine.

TAV, oltre 150 rappresentanti di istituzioni francesi chiedono stop ai lavori. Iris Paganessi su L'Indipendente il 23 Dicembre 2022.

I sindaci di Lione e Grenoble, insieme ad altre 150 personalità pubbliche francesi tra deputati europei e nazionali e sindacalisti del settore ferroviario, hanno firmato una lettera aperta, pubblicata sulla rivista ecologista francese Reporterre, per chiedere al governo l’immediato stop ai lavori preparatori per il raddoppio della linea di Torino-Lione e il reindirizzamento degli investimenti sul miglioramento dell’Alta Velocità esistente, per la quale nel 2011 sono già stati investiti 800 milioni di euro. “In un momento in cui tutto deve essere fatto per limitare il riscaldamento globale e rafforzare l’indipendenza del nostro paese – recita la lettera – in un momento di carenza di medicinali e prodotti alimentari importati dall’altra parte del mondo, in un momento in cui il governo afferma di non avere i soldi per la salute e per gli ospedali, in un momento in cui i treni giornalieri sono degradati e le infrastrutture ferroviarie non sono o non sono sufficientemente mantenute, chiediamo la fine del progetto Lione-Torino, la cui unica logica è quella di trasportare sempre più merci e di mantenere questo culto energivoro e distruttivo.”

L’illogico progetto Torino-Lione, si sostiene nella lettera, non ha obiettivi prefissati (come, ad esempio, togliere i camion dalla strada). Al contrario, implicherebbe il sacrificio di “falde acquifere”, “ettari di foresta” e “terreni agricoli”.

Per questo motivo i sindaci di Lione, Grenoble e gli altri 150 rappresentanti hanno avanzato diverse proposte: “Chiediamo, come scritto dalle amministrazioni centrali e dal Consiglio consultivo per le infrastrutture, che la ferrovia esistente sia utilizzata immediatamente al livello che era negli anni 2000. Ciò crea posti di lavoro e non solo migliora la sicurezza stradale, la qualità dell’aria nelle valli alpine e la salute pubblica, combattendo efficacemente il riscaldamento globale. Chiediamo che il denaro che verrebbe inghiottito nel progetto per la nuova linea Lione-Torino sia utilizzato ora per aprire una piattaforma di carico strada-rotaia nel settore di Ambérieu-en-Bugey e che navette ferroviarie per il trasporto merci siano offerte agli autotrasportatori a partire dal 2023. Chiediamo, come previsto dalla legge, che l’utile annuale del traforo del Monte Bianco sia destinato esclusivamente alla ferrovia e al finanziamento del trasferimento di merci e passeggeri dalla strada alla ferrovia e che i 200 milioni di euro versati al tunnel stradale del Fréjus negli ultimi 10 anni siano restituiti alla ferrovia. Chiediamo che la decisione di aprire alla circolazione la galleria di sicurezza del tunnel stradale del Fréjus sia annullata e che sia riservata esclusivamente ai veicoli di emergenza. Proponiamo di migliorare la capacità delle linee tra Aix-les-Bains e Annecy, La Roche-sur-Foron e Saint-Gervais, e tra Saint-André-le-Gaz e Chambéry per ridurre il traffico stradale e rafforzare il trasporto giornaliero di passeggeri. Gli investimenti per migliorare le infrastrutture (compresa la protezione dell’ambiente e dei residenti locali dal rumore) sull’asse Ambérieu-Modane devono essere attuati senza indugio al fine di ripristinare il tunnel esistente al suo pieno potenziale.”

[di Iris Paganessi]

TRENT’ANNI DI LOTTA. Il movimento No Tav è il più grande esempio di resistenza contro speculazione e devastazione ambientale. Sono passati 17 governi e sono stati spesi miliardi in studi e progetti, ma non è stato costruito un solo metro di ferrovia. Mentre i costi, anche ecologici lievitano, la Ue nicchia e i dissidenti finiscono in tribunale. Diletta Bellotti su L’Espresso il 19 Dicembre 2022.

Nel raccontare il movimento No Tav non si può tracciare né un punto né una linea, il movimento si può comprendere forse in uno snodo: nel 1995 si sono viste convergere, dopo anni di assemblee, persone che nella salvaguardia del proprio territorio hanno tracciato un destino comune. Dallo snodo del movimento passano, ogni giorno da trent’anni, comunità in lotta di tutta Italia e non solo. Comunque si voglia raccontare la storia, la Val di Susa rappresenta il più importante esempio di resistenza degli ultimi decenni contro l’esproprio, la speculazione e la devastazione ambientale. La Valle è stata attraversata da 17 governi (o forse da nessuno) che, ad oggi, non sono riusciti a costruire neanche un metro di binario, nonostante abbiano speso miliardi di euro; soprattutto non sono riusciti a fermare, anzi hanno forse alimentato, la resistenza del movimento contro la cosiddetta «grande opera inutile».

La linea ferroviaria Torino-Lione, contro cui il Movimento No Tav valsusino da trent’anni si oppone, prevede la costruzione di un Tunnel di Base che collega Susa a Saint-Jean-de-Maurienne, in Francia. Dal 2001 ad oggi sono stati realizzati solo studi, sondaggi geognostici e lavori preparatori per poco meno di 2 miliardi di euro spesi. L’estensione prevista è di 115 km, più precisamente due gallerie da 57,5 km. L’ultima stima del costo è di 9,63 miliardi di euro (2017, Cipess). Questo valore non tiene però conto dei rincari degli ultimi mesi, che ammontano ad almeno un 30 per cento in più sul costo totale. Bisogna notare che i quasi 10 miliardi di euro coprono solo il Tunnel di Base, tuttavia, affinché la tratta ferroviaria sia realizzata come da progetto, il tunnel deve essere collegato sia a Torino che a Lione con altre opere ferroviarie. In Italia, di queste opere non c’è ancora il progetto mentre in Francia, nel 2019, con un decreto ministeriale è stato deciso che non si costruiranno nuove linee ferroviarie e che verranno invece utilizzate le linee già esistenti per collegarsi al Tunnel, apportando, di conseguenza, minimi miglioramenti sulla tratta Torino-Lione già esistente. Infatti, anche se venisse costruito il Tunnel, senza le tratte di accesso, si risparmierebbero solo 30 minuti rispetto alla linea già in servizio. Mentre, se si dovesse realizzare la linea con il Tunnel, più le opere di collegamento necessarie, si arriverebbe ad un totale di quasi 30 miliardi di euro.

Ad oggi, i costi di costruzione sono integralmente sostenuti da Italia (57,8 per cento) e Francia (42,2 per cento). L’Unione Europea ha ipotizzato di rimborsare fino al 50 per cento del costo ma finora non ha preso alcuna decisione di finanziamento. È importante notare che la conferma del finanziamento è vincolata alla decisione da parte dei due Stati di realizzare anche le tratte di accesso. Al momento non vi è nulla di definito in merito a tale decisione. Entro il 31 dicembre 2022 Telt, la società partecipata italo-francese, avrebbe dovuto completare molti lavori preparatori, tra cui l’Autoporto di San Didero, lo svincolo di Chiomonte e parte del Tunnel di Base. Non essendo riuscita a realizzarli perderà varie centinaia di milioni di euro di contributi. Va sottolineato inoltre che l’Ue ha finanziato solo i lavori preparatori mentre per il resto dei finanziamenti, quelli per il Tunnel e le tratte di collegamento, non ha firmato nessun accordo vincolante. Dunque non è facile immaginare quando e se finiranno mai i lavori e soprattutto chi li pagherà.

Sicuramente basta guardare all’impatto ambientale stimato del progetto per capire che non è proprio in accordo con le politiche europee sul tema. Già a giugno 2020 infatti, la Corte dei conti europea ha dichiarato il progetto insostenibile a livello ambientale poiché si stima che la costruzione dell’opera provocherebbe emissioni di CO2 per 10 milioni di tonnellate le cui compensazioni avverrebbero dopo il 2050, anno in cui dovremmo raggiungere lo zero netto di emissioni. Per compensazioni si intende l’impatto positivo che il traffico di merci, ovvero il 90 per cento dei treni previsti per la tratta, ha rispetto a quello su strada, tuttavia per compensare davvero l’impatto ambientale della costruzione, il traffico di merci nei prossimi anni dovrebbe aumentare di dieci volte.

Nonostante la ferrovia non sia stata ancora costruita, i costi attualmente sostenuti per presidiare, da 11 anni, il cantiere del Tav, sono significativi. Per esempio, nell’ultimo anno e mezzo per il cantiere di San Didero si stima che siano stati utilizzati circa 50 mila euro al giorno, presidiando un’opera che ne costa 90 milioni, mentre per il cantiere di Chiomonte si è stimato un utilizzo di circa 90 mila euro al giorno. Va notato che gli ampliamenti dei cantieri hanno un impatto ambientale aggiuntivo che non viene preso in considerazione durante la valutazione generale. Questi ampliamenti non sono di per sé utili alla costruzione del tunnel ma alla «securitizzazione» della zona.

Negli anni sono stati quantomeno stridenti i tentativi del governo di mettere in piedi i processi democratici necessari per compiere un’opera pubblica degna di questo nome. Tra i più imbarazzanti troviamo, nel 2006, la formazione di un Osservatorio con la nomina di Mario Virano come presidente ovvero colui che che rivestirà poi il ruolo di dg nella società incaricata di realizzare il Tav; ma non solo: è stridente l’esclusione progressiva dei comitati No Tav dai tavoli e l’assenza assordante di un’opzione zero nella discussione ovvero quella di non fare l’opera e basta. Le grandi opere hanno un impatto inevitabile sui territori, i decenni passano e le analisi costi-benefici vanno adattate: le urgenze climatiche sono più pressanti e ignorare o provare a sopprimere trent’anni di resistenza generazionale è quantomeno sciocco. Quando le popolazioni locali, come è il caso del Tav, così come per il Muos e troppi altri casi in Italia, non sono parte dei processi democratici come le consultazioni o i negoziati, l’opposizione sembra essere naturale. Che lo Stato, in questi trent’anni abbia fallito la gestione del progetto Tav è un dato di fatto, ma soprattutto ha fallito nel suo sottrarsi al tribunale a cui deve sempre necessariamente rispondere: quello del popolo. Inconsapevole forse che la verità infastidisce ma poi radicalizza sempre e, come si dice da quelle parti, «No Tav si diventa».

I numeri di questa grande opera sono sicuramente impressionanti, lo sono anche quelli della risposta delle istituzioni all’opposizione: dall’inizio dei lavori più di 1.500 persone sono state indagate, ci sono stati 50 procedimenti penali, un maxi-processo con 53 imputati, carcerazioni preventive, accuse di terrorismo, di associazione sovversiva e a delinquere. Sono risposte istituzionali contro il movimento e le realtà che lo attraversano che sembrano voler solamente silenziare il dissenso, svuotandolo e provando a ridurlo a mera delinquenza. La criminalizzazione del movimento No Tav deve tenerci in allerta: a macchia d’olio tutto ciò che è anche solo geograficamente vicino a quelle realtà patisce un destino repressivo molto più aspro rispetto al resto della penisola. Basta osservare le recenti accuse agli attivisti di Extinction rebellion Torino: accuse impensabili per le modalità di disobbedienza civile che il movimento pratica. Il fatto che dei luoghi così fitti di resistenze suscitino reazioni del genere è un campanello dell’allarme di una «gestione penale del conflitto» da parte delle istituzioni (Chiaramonte, 2019).

Ad osservare questi movimenti che si muovono tra cantieri fantasmi e militarizzati ci si chiede dunque a chi appartiene la terra. A chi la abita? A chi la amministra? Viene spontaneo domandarsi se uno Stato possa mai ammettere di aver commesso un errore e se in democrazia ci sia lo spazio per fare un passo indietro, per ritrattare, per ammettere che forse i territori sono sempre più martoriati dai cambiamenti climatici, la gente dalla precarietà, e che forse nessuno ha davvero fretta di andare a Lione, soprattutto una scatola di ceci.

Vigneti distrutti. Disastro peronospora. Andrea Moser su L'Inkiesta il 15 Luglio 2023

Dopo una primavera come quella appena trascorsa, la peronospora imperversa, e per qualcuno è stato l’anno della resa dei conti rispetto a una scelta “naturale”, che negli anni più complessi rischia di essere un’arma a doppio taglio

Il grido d’allarme arriva dai social dell’azienda agricola La Distesa, che descrive in un post accorato la sua sconfitta per il raccolto di quest’anno, distrutto per la maggior parte dalla peronospora.

La situazione dei vigneti qui a La Distesa è piuttosto drammatica. In venticinque anni che facciamo questo lavoro non avevamo mai visto nulla di simile. Infezioni di peronospora in grado di distruggere, ad oggi, fra il 70 e l’80% della produzione in vigneti “vocati” sono una roba che non ci saremmo mai aspettati di vedere.

Abbiamo gestito annate molto problematiche da questo punto di vista come la 2010, la 2013, la 2014, la 2018, la 2019 e pensavo di poter affrontare anche questo andamento stagionale estremo… Questo maggio è stato il più piovoso dal 1961 ed ha continuato a piovere anche a giugno… Semplicemente non ce l’ho fatta. È un fallimento piuttosto totale.

La virulenza di questo attacco deve far riflettere. Dopo due anni estremamente siccitosi in cui il fungo patogeno non si era visto è come se ci sia stata una reazione esponenziale alle enormi piogge (cominciate già in aprile). Evidentemente il nostro modo di lavorare, il tipo di conduzione agronomica dei suoli, i livelli estremamente bassi di rame utilizzati, tutto ciò è incompatibile con andamenti stagionali di questo tipo. Con questo clima.”

Quando a fare questa dichiarazione, però, è uno dei più ferventi fautori del non interventismo in agricoltura, che scrive libri e divulga da 25 anni pratiche biologiche per la lavorazione della vigna, la polemica scatta immediata, forse anche per il luogo scelto per fare la dichiarazione di “resa” alla peronospora.

Che cos’è la peronospora?

Ma partiamo da qui, da questa malattia della vigna, un fungo patogeno che insieme all’oidio è il principale flagello della vite, e che procura ingenti danni vegetativi alle piante, rendendole poco efficienti in termini di fotosintesi quando attaccano le foglie e quindi “indeboliscono“ la pianta, ma anche poco produttive nel caso di attacco sull’uva. La peronospora prospera negli ambienti umidi, e dilaga proprio quest’anno, dopo gli ultimi mesi piovosissimi che hanno caratterizzato la primavera e l’inizio dell’estate. Tantissimi i vigneti compromessi, alcuni dei quali, come per esempio quello di Corrado Dottori, resi sostanzialmente inutili per la produzione di uva.

Ci si può difendere?

Ci si difende da questa malattia, in maniera convenzionale, con l’utilizzo del rame e dei prodotti sistemici, e in agricoltura biologica con l’utilizzo del rame e di alcuni estratti di essenze vegetali che fungono da corroboranti e coadiuvanti all’effetto del rame stesso. La grossa differenza fra biologici e convenzionali, che comunque quest’anno hanno avuto anch’essi dei bei grattacapi, sta proprio nell’impossibilità dei “biologici” di utilizzare prodotti sistemici.

Per il regime biologico, infatti, il rame risulta essere l’unico elemento concesso. Il rame, però, ha il difetto di lavorare solo sulla superficie fogliare: è infatti un cosiddetto prodotto fitosanitario di contatto, e di essere “lavato via” dalla foglia ogni qualvolta piove (in realtà va in “accumulo” sulle foglie e anche nell’ambiente, ne parleremo in dettaglio). Se piove spesso, quasi ogni giorno, il rame per essere davvero efficace deve essere irrorato dopo ogni pioggia importante, a seconda dei formulati infatti questo metallo ha diverse dilavabilità e inoltre la vite ha in queste fasi degli accrescimenti molto veloci ed è quindi fondamentale “coprire” con il prodotto anche le nuove foglie appena cresciute. Cosa comporta questa pratica? Significa usare molto rame, quindi tanto prodotto: ricordiamo che è un metallo pesante, che finisce necessariamente nel terreno e lì rimane. Ma significa anche utilizzare molto gasolio per movimentare i trattori e le macchine usate per distribuirlo sulle vigne. Il passaggio ripetuto delle gomme negli interfila compatta molto il terreno, eliminando o riducendo in maniera sostanziale l’aerazione e la struttura naturale dello stesso, andando ad indebolire o compromettere il microbiota del suolo, che rende vivi e pulsanti i primi strati del terreno, rendendolo vitale e capace di comunicare e sostenere la pianta, ma anche di favorire la percolazione, infiltrazione e immagazzinamento della pioggia nel terreno, evitando così lo scivolamento e ruscellamento superficiale che causa erosione e nei casi più gravi le alluvioni. Altro problema inoltre è dato dal fatto che in alcuni vigneti la possibilità di procedure ai trattamenti fitosanitari, siano essi biologici o no, soprattutto dopo numerosi giorni di pioggia risulta impossibile a causa della conformazione del terreno (forti o fortissime pendenze), della sua composizione, se pensiamo a terreni ricchissimi di argilla, o a suoli non drenanti e lavorati (non inerbiti), immaginiamo subito quanto sia impossibile percorrerli con mezzi a ruote ed in alcuni casi anche cingoli subito dopo la pioggia, che arriva ripetutamente con pochissime finestre di bel tempo così da non permetterne l’asciugatura anche parziale. Per questo la pratica di inerbimento, magari a filari alterni, in futuro andrà rivista anche nelle zone più siccitose, dove spesso non viene praticata per evitare competizione radicale e soprattuto idrica fra vite ed essenze erbacee. In realtà, un inerbimento accorto con le giuste essenze, nei tempi e gestioni corrette nel medio/lungo periodo, porta a grossi vantaggi sia di tipo idrogeologico che gestionale, a livello di meccanizzazione (ma questo rimane un argomento da trattare in dettaglio in un prossimo approfondimento, ndr).

Infine, se per gli agricoltori convenzionali sono vere molte delle problematiche di cui sopra, dobbiamo considerare che un aiuto arriva sicuramente dalla chimica, infatti i prodotti sistemici permettono a differenza del rame di allungare gli intervalli fra i trattamenti fitosanitari e di essere più flessibili e meno tempestivi. Alcuni di questi prodotti non agiscono solo per contatto/accumulo sugli organi vegetativi, ma agiscono dall’interno, hanno infatti la capacità di entrare all’interno della pianta ed essere traslocati dal flusso linfatico in ogni organo della vite stessa, diventando così non dilavabili sotto la pioggia, proteggendo e “coprendo” anche le nuove foglie e le parti appena cresciute e andando a perdere efficacia quando la molecola stessa si “decompone”, quasi sempre lasciando dei sottoprodotti già presenti in natura e quindi innocui per la pianta e per il consumatore stesso. Il rovescio della medaglia ovviamente c’é, infatti il meccanismo di azione di questi prodotti è talmente specifico a livello del patogeno che vanno a colpire da renderli piuttosto soggetti a fenomeni di resistenza. Se usati troppo spesso e in modalità scorrette, infatti, portano il patogeno ad adattarsi e sviluppare fenomeni di sopravvivenza al prodotto stesso, un po’ quello che sta succedendo agli antibiotici per uso umano nei confronti di molti patogeni!

E quindi?

Indipendentemente dalla conduzione agronomica scelta, sia essa biologica o convenzionale, se sei un accorto agricoltore e sai come muoverti, puoi riuscire anche in annate complicate a gestire situazioni molto complesse. Ovviamente l’errore o la semplice sfortuna possono sempre essere dietro l’angolo… Meglio quindi abbandonare questa scelta o insistere verso una direzione che – almeno idealmente – dovrebbe garantire una salvaguardia migliore per i terreni coltivati? Il dubbio viene, anche e soprattutto rispetto alla quantità di trattamenti necessari per mantenere le piante attive. Il mio credo rimane sempre lo stesso: conoscenza, professionalità, flessibilità e unione delle due e più “filosofie” saranno probabilmente la strada per il futuro.

Antonio Giangrande: Non voglio sembrare un complottista, ma ho notato che l’apparizione della Xylella e della sua prolificazione è avvenuta in concomitanza di questi elementi in un dato periodo storico:

Si minava il sostegno europeo di integrazione alle imprese olivicole meridionali;

Si promuoveva da parte dell’Europa l’importazione di olive ed olio nordafricano;

Si alimentava la piantagione nelle campagne di impianti fotovoltaici, finanziata con prelievi sulla bolletta Enel di tutti gli utenti italiani. Sistemi fotovoltaici importati da terre lontane. Pannelli divenuti probabilmente vettori dell’insetto batterio killer, “Cicalina Sputacchina – Philaenus spumarius”.

Si agevolava l’invasione del vettore in zone non attinti dalla malattia attraverso il trasporto in altri luoghi degli scarti di potatura, vietato bruciarli in loco da una legge infame, così come tradizione millenaria.

Non si estirpa il problema, nonostante si trovi sempre una profilassi ad ogni malattia, anche umana. Ci si limita, solo, alle semplici buone pratiche, già adottate anzitempo dal buon contadino.

A 10 anni dalla comparsa del killer degli ulivi, PresaDiretta ripercorre la storia della Xylella. Le immagini in esclusiva del servizio della salentina Eleonora Tundo in onda il 2 ottobre alle 21.20 su Rai 3. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 29 Settembre 2023   

A dieci anni dalla comparsa della xylella fastidiosa, il killer degli ulivi, PresaDiretta ripercorre la storia del patogeno che ha sterminato 20 milioni di piante in Puglia.

Un viaggio dalla provincia di Bari al Salento per raccontare come il batterio scoperto dai ricercatori del CNR di Bari nel 2013 - e fino a quel momento ufficialmente sconosciuto in Europa - in 10 anni abbia stravolto il tessuto economico, agricolo e paesaggistico del 40 per cento della regione. Otto mila chilometri quadrati di territorio, una superficie 100 volte più estesa rispetto alla zona infetta iniziale. Oggi le campagne del Salento sono desertificate e abbandonate e ovunque restano cimiteri di alberi che non valgono più nemmeno come legna da ardere.

I danni economici causati dal batterio sono stati stimati in 2 miliardi di euro. La produzione olivicola del Salento è crollata e si sono persi 5 mila posti di lavoro.

Ma come si è arrivati a tutto questo? L’infezione delle piante, seppur lentamente, avanza ancora. Nel reportage “Xylella, 10 anni dopo” di Daniela Cipolloni e Eleonora Tundo con la fotografia di Matteo Delbò – in onda lunedì alle 21.20 su Rai3 – Maria Saponari e Donato Boscia, gli scienziati protagonisti della scoperta del patogeno, Salvatore Infantino direttore dell’Osservatorio Fitosanitario della regione Puglia e gli agricoltori che hanno perso centinaia di piante, racconteranno questi lunghi dieci anni di contrasto all’infezione e il “Piano straordinario per la rigenerazione olivicola della Puglia.

Dieci anni di Xylella, il fuoco invisibile lasciato libero di uccidere gli ulivi. Daniele Rielli su La Repubblica il 22 Marzo 2023

"La storia" credo l'abbiate sentita tutti almeno una volta ed è questa: "L'ulivo è una pianta immortale sulla quale, in Puglia, è stato scoperto un batterio - in realtà del tutto innocuo - e l'Unione europea e le multinazionali voglio approfittarne per distruggere gli alberi più antichi del Mediterraneo. A difesa dei maestosi ulivi ci sono solo gli abitanti del posto che protestano e si oppongono al folle sterminio". Qualsiasi sceneggiatore vi direbbe che "La storia" funziona, non a caso è grossomodo la stessa trama di Avatar, il film che ha il record d'incassi di tutti i tempi, il tipo di primato che non si ottiene per caso, ma perché gli autori riescono a parlare alla psiche profonda delle persone. Personalmente incontro "La storia" nel 2015 quando, preoccupato per gli ulivi della mia famiglia, incomincio a studiare l'epidemia e a scriverne. Scopro così che "La storia" ha un problema non di poco conto: è falsa, completamente falsa.

Una storia falsa

Xylella in realtà è tutt'altro che innocua, è davvero un batterio mortale e non è stata diffusa da scienziati pazzi di Bari (un'ipotesi complottista che da mezzo leccese all'inizio avevo trovato anche io piuttosto plausibile), bensì è arrivata in Italia dal Costarica su di una piantina di caffè ed è passata indisturbata attraverso i porosi confini della comunità europea. L'unico modo per salvare gli alberi è abbattere gli esemplari infetti in modo che non possano essere la base di un'ulteriore diffusione della malattia. Scoprire tutto questo - anche se duole un po' alla mia autostima confessarlo - non è stato poi così difficile: era già allora nero su bianco nelle carte della comunità scientifica mondiale, chiunque poteva leggerlo e infatti non fui certo l'unico a scriverlo, per lungo tempo però rimase una consapevolezza condivisa da una minoranza piuttosto ristretta di persone. Il dominio de "La storia" era pressoché assoluto. Negli otto anni successivi, ogni volta che saltava fuori che avevo lavorato su Xylella mi sentivo invariabilmente dire: "Conosco la storia: in Puglia vogliono tagliare gli alberi anche se in realtà stanno benissimo!". Accadeva in qualsiasi parte d'Italia mi trovassi e nei contesti più disparati, nel frattempo però 21 milioni di ulivi stavano morendo davvero, e la loro larghissima maggioranza, se non fosse stato per "La storia", si sarebbe potuta salvare. Tra questi c'erano anche gli alberi della mia famiglia.

La diffusione dell'epidemia

Il fatto è che "La storia" era più affascinante della realtà: forniva false speranze, garantiva audience, prendeva like, vendeva copie, otteneva voti alle elezioni, faceva anche sentire moralmente superiori, il che non guasta mai. A favore de "La storia" intervennero scrittori, cantanti, comici e attori. In virtù de "La storia" per anni non si tagliarono gli alberi infetti o se ne tagliarono molto pochi e molto lentamente. Rovesciando il principio di precauzione si accettò il rischio molto alto - che dai primi mesi del 2016 diventò una certezza scientifica non più discutibile - che l'epidemia si diffondesse.

Per sei mesi gli alberi destinati al taglio vennero sequestrati dalla magistratura leccese e gli scienziati che avevano scoperto il batterio vennero accusati di averlo diffuso, venne messo sotto inchiesta anche il commissario speciale all'epidemia che, incredulo, si dimise. Per mesi non furono più effettuati neppure i monitoraggi e il fronte dell'epidemia avanzò rapidamente. Nei primi anni di Xylella in Puglia abbiamo avuto una dimostrazione vegetale di cosa sarebbe potuto accadere con gli esseri umani se la prima e più pericolosa ondata di Covid non fosse stata affrontata con decisione.

Oggi le misure di contenimento sono migliori ma ancora insufficienti e l'epidemia continua lentamente ad avanzare, nel silenzio generale e nella pressoché assoluta incredulità del prossimo territorio destinato ad essere colpito. Una caratteristica di questa vicenda è infatti che, grazie a "La storia" e alle sue varianti, la maggior parte delle persone non crede mai alla realtà della malattia fino a quando non è troppo tardi. Nella piana degli ulivi secolari fra Ostuni e Fasano gli olivicoltori che hanno fatto gli innesti per salvare gli alberi si contano sulle dita di una mano: hanno avuto anni di tempo per prepararsi e non l'hanno fatto. "La storia", ancora una volta, è stata più forte.

Ma cosa succede agli abitanti di un territorio travolto da una narrazione così potente e al tempo stesso fondamentalmente falsa? In un certo senso non esiste un incubo più contemporaneo di questo e Xylella è stata per me anche un'opportunità unica per entrare dentro un microcosmo che per un lungo periodo ha abdicato alla razionalità.

Il libro

Proprio per rispondere a questa domanda ho scritto Il fuoco invisibile - Storia umana di un disastro naturale, un libro che mi ha portato a raccontare i meccanismi di questa illusione collettiva e a conoscere i protagonisti ignorati di questa vicenda. Fra di loro Donato Boscia, lo scienziato del Cnr che per primo capì che qualcosa non tornava nei disseccamenti sugli ulivi di suo suocero e mise in moto la macchina che portò all'identificazione del batterio, prima di allora sconosciuto in Europa; nei laboratori ho incontrato anche Maria Saponari, detta dai colleghi Messi, la punta di diamante del Cnr di Bari, la prima scienziata che sia riuscita a isolare Xylella; sia Maria che Donato oggi sono a capo dei maggiori progetti di ricerca europei su Xylella e vengono premiati in tutto il mondo, in Italia invece sono stati dipinti per anni come degli untori. O ancora Francesco Curci, l'agronomo di Oria che denunciò il focolaio nel suo paese e diventò un paria, osteggiato da tutti perché si era permesso di rispettare la legge. Per non parlare di Francesco Castrignanò, un ottantenne di Torchiarolo che aveva comprato degli ulivi dopo anni di lavoro alla Volkswagen, in Germania: quando lo conobbi aveva appena ricevuto l'ordine di taglio - scritto in un'incomprensibile lingua burocratica - e scoppiò a piangere davanti ai miei occhi; eravamo sotto i suoi grandi ulivi, a quasi cento chilometri dal primo focolaio, il suo era un lutto che si sarebbe potuto evitare, come decine di migliaia di altri.

Lo smascheramento a caro prezzo

Negli anni ho parlato per ore con Ivano Gioffreda, uno degli esponenti di punta del movimento negazionista e autore del primo esposto alla procura di Lecce, così come sono diventato amico di Giovanni Melcarne, un olivicoltore visionario che le ha provate e le prova ancora oggi tutte per rendere l'ulivo di nuovo coltivabile nel Salento e ricominciare così a produrre il suo olio extravergine di straordinaria qualità. Tutte le vittime di questa storia hanno dimostrato una pazienza infinita e tipicamente meridiana, negli anni mi sono trovato ad ammirare la loro fiducia nel fatto che, prima o poi, giustizia sarebbe stata fatta. Nicolás Gómez Dávila ha scritto che il tempo è temibile non tanto perché uccide, quanto perché smaschera, e alla fine è proprio quello che è successo con Xylella: lo smascheramento è costato però la distruzione dell'ecosistema di intere province. Al cuore del libro c'è poi la storia per me più importante, quella di mio padre che ha cercato in tutti i modi di salvare gli ulivi di mio nonno e di suo nonno e ancora oggi, a quasi ottant'anni, attende con personale ossessione ai pochi esemplari sopravvissuti e ormai ridotti al lumicino. Per noi gli alberi non rappresentano più un lavoro, sono una questione di continuità familiare: ogni ulivo è la testimonianza di una lunga catena di esistenze umane, spezzarla è un delitto dei più atroci.

Il fuoco invisibile

Vent'anni fa, poco prima di morire, mio nonno sognò che un ulivo di una sua campagna, un grande albero che si affacciava verso la strada vicinale, era completamente bruciato. Disse che era bruciato senza fiamme, come consumato da un fuoco invisibile. Molte volte negli anni ho sentito raccontare quel sogno e oggi i rami di quell'albero sono davvero senza foglie, il legno è imbrunito, è uno scheletro che spunta come una cuspide nera sopra il muretto a secco che lo divide dalla strada. Non è stato un incendio a ridurlo così ma un fuoco invisibile. Scrivendo ho finalmente scoperto la natura di questo fuoco invisibile: è il potere arcaico e inarrestabile che le storie esercitano sugli esseri umani.

Xylella: maxi-innesto salva 100 ulivi monumentali in Puglia. L’operazione di rinascita è partita a Carovigno nel primo giorno di primavera, nel decennale dell’arrivo del batterio killer in Italia. REDAZIONE ONLINE su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 marzo 2023.

È scattato il maxi intervento di salvataggio degli ulivi secolari attaccati dal batterio della Xylella con l’innesto delle prime 100 piante nell’area infetta a Brindisi, dove la Piana degli Ulivi Monumentali ha già perso un terzo delle piante di inestimabile valore. L’operazione di rinascita è partita a Carovigno nel primo giorno di primavera, nel decennale dell’arrivo del batterio killer in Italia, grazie a un progetto promosso da Ikea Italia con Unaprol, Coldiretti, AzzeroCO2 nell’ambito della Campagna nazionale Mosaico Verde e a cui hanno partecipato Cnr e Legambiente Puglia. Un impegno concreto che cade nella Giornata internazionale delle Foreste istituita dall’Onu per accrescere la consapevolezza del valore inestimabile di tutti i tipi di piante minacciate da incendi, siccità e parassiti.

L’epidemia di Xylella dal 2013 ad oggi ha colpito 8mila chilometri quadrati, con un danno stimabile di 1,6 miliardi euro, secondo l’analisi di Coldiretti. Una vera e propria tempesta perfetta con gli agricoltori senza reddito da ormai 7 anni, milioni di ulivi secchi, frantoi svenduti a pezzi in Grecia, Marocco e Tunisia e 5mila posti di lavoro persi nella filiera dell’olio extravergine di oliva, denuncia Coldiretti, e un trend che rischia di diventare irreversibile se non si interviene con strumenti adeguati per affrontare dopo anni di tempo perduto inutilmente il 'disastro colposò nel Salento e rilanciare la più grande fabbrica green italiana.

La gestione di un ulivo monumentale è molto più complicata, con rese produttive notevolmente più basse rispetto a una normale pianta, ma anche la necessità di procedere a una raccolta esclusivamente manuale e maggiori difficoltà a livello di potatura e di trattamento. Peraltro, i problemi causati dalla Xylella si aggiungono quest’anno a quelli climatici che hanno causato un calo stimato del quantitativo di olio del 37% a livello nazionale che sale addirittura al 52% proprio in Puglia dove si produce circa la metà dell’extravergine Made in Italy».

«Se non esistono cure per salvare gli ulivi infetti da Xylella, unica strada - spiega Nicola Di Noia, direttore di Unaprol - è la convivenza con il batterio attraverso la pratica dell’innesto con varietà resistenti per salvaguardare almeno gli ulivi millenari. Si tratta di una speranza confortata da alcune evidenze empiriche rilevate dopo anni di sperimentazione che hanno consentito di individuare cultivar capaci di reggere gli attacchi della malattia.

La pratica di innesto e sovrainnesto, con varietà resistenti e tolleranti, a seguito di una potatura che elimini tutta la massa vegetale esposta all’inoculo, si è dimostrata una pratica veloce ed economica che consiste nell’unire due organismi vegetali viventi per mezzo di una saldatura biologica, di cui la nuova parte aerea fruttifera ne modifica così la varietà». Un percorso virtuoso di speranza da replicare, anche con il supporto dell’innovativo sistema Olivo.net progettato in collaborazione con Horta S.r.l., uno strumento informatico di ultima generazione che consente il monitoraggio in tempo reale dell’oliveto, controlla i dati inseriti e dà informazioni utili all’imprenditore per le scelte strategiche da prendere sulle attività di irrigazione, concimazione e coltivazione.

«In Ikea crediamo che essere parte integrante di un territorio voglia dire rispettarlo, e partecipare alla sua vita, valorizzando e tutelando il patrimonio naturale che lo rende unico. Gli ulivi monumentali di Puglia sono parte della ricchezza di questo splendido territorio, un’eredità naturale e culturale da preservare per l’intera comunità e le future generazioni. Con questo importante intervento di salvaguardia e prevenzione possiamo contribuire a proteggere 100 Ulivi secolari sani dal rischio di disseccamento derivante dal batterio X e restituirli al territorio.» dichiara Nicola Nicolai, Responsabile Negozio IKEA Bari «L'iniziativa nasce dalla storica campagna «Compostiamoci Bene» promossa da IKEA in collaborazione con AzzeroCO2 che dal 2016 ci vede impegnati in progetti di riforestazione e recupero ambientale».

Il progetto realizzato a Carovigno rientra in Mosaico Verde la grande campagna nazionale di forestazione di aree urbane ed extraurbane e tutela di boschi ideata e promossa da AzzeroCO2 e Legambiente. «Continua il nostro impegno al fianco di IKEA Italia nel realizzare progetti volti a tutelare il patrimonio naturale del Paese nell’ambito dell’iniziativa «Compostiamoci Bene» che rientra nella campagna nazionale Mosaico Verde. Il progetto posto in essere in Puglia grazie alla collaborazione di Unaprol e Coldiretti è per noi molto importante perché volto alla tutela di ulivi monumentali simbolo della nostra cultura mediterranea e risorsa preziosa dal punto di vista ambientale ed economico - ha dichiarato Sandro Scollato Amministratore delegato di AzzeroCO2. Siamo convinti che interventi di questo tipo siano una priorità assoluta per contrastare la Xylella e promuovere la conservazione di questa ricchezza naturale».

«Abbiamo depositato oggi una proposta di legge per accertare eventuali responsabilità politico-amministrative nel contenimento del batterio Xylella fastidiosa. La Puglia ha il diritto di sapere chi ha lavorato a favore, facendo di tutto per applicare le misure di contenimento, e chi ha remato contro rendendosi complice del negazionismo e quindi della strage degli ulivi. Ringraziamo i colleghi sottoscrittori Francesco Ventola (Fdi), Paolo Pagliaro (Puglia prima di tutto), Fabio Romito (Lega) e Gianfranco De Blasi (Lega), e invitiamo tutti i colleghi ad unirsi a noi, perché la verità è ciò che più avvicina alla soluzione dei problemi e alla libertà».

Lo annunciano il consigliere e commissario regionale di Azione, Fabiano Amati, promotore e primo firmatario della proposta di legge, e i consiglieri Sergio Clemente e Ruggiero Mennea (capogruppo di Azione).

«Con la proposta di legge - spiegano - si chiede l'istituzione di una commissione d’indagine per accertare eventuali responsabilità amministrative nell’ambito delle attività di contenimento della Xylella fastidiosa. È questo un argomento estremamente controverso, purtroppo foriero della distruzione di molta parte del paesaggio ulivetato pugliese, che sin dal 2013 ha contrapposto i sostenitori della prova scientifica ai negazionisti, con le motivazioni più varie. Tale contrapposizione ha purtroppo prodotto gravi ritardi nell’attività di contenimento del batterio e di distruzione della popolazione dell’insetto vettore».

Xylella, una «controprova» delle specie resistenti. L’assessore Pentassuglia anticipa le novità del percorso regionale. Mauro Ciardo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Gennaio 2023

L’area del leccese sarà il banco di “controprova” per la sperimentazione delle cultivar d’olivo resistenti a Xylella. È una delle novità che saranno discusse la settimana prossima in un tavolo che sarà convocato a Bari dall’assessore regionale all’agricoltura Donato Pentassuglia che, intervistato dalla “Gazzetta del Mezzogiorno”, ha voluto illustrare quali saranno i futuri scenari nella lotta contro il batterio che ha annientato gran parte del patrimonio olivicolo della Puglia meridionale. Da dieci anni, come è noto, il territorio salentino è colpito da una delle malattie delle piante più temute a livello mondiale, in grado di arrecare profonde ferite e devastazioni a interi paesaggi. La Regione Puglia ha messo in campo numerose risorse, sia economiche che scientifiche, per sostenere in primo luogo il comparto olivicolo che ha dovuto far fronte a una crisi senza precedenti. Uno degli impegni è la sperimentazione su campo di cultivar che, si spera, possano essere resistenti al batterio e quindi essere utilizzabili dagli agricoltori. Tra i passaggi basilari ci sarà l’impianto in un’area neutra, nel tarantino, seguito da un secondo step altrettanto fondamentale quale la sperimentazione in un’area infetta nel leccese.

«L’osservatorio fitosanitario regionale - spiega l’assessore Pentassuglia - sta verificando su campo, nel vivaio di Taranto che è ritenuto zona neutra, l’applicazione delle piante. Trascorso il periodo necessario alle valutazioni - anticipa - saranno uniti gli sforzi dei vivai di Brindisi e Lecce e proprio nel leccese, quindi in piena area infetta, saranno messe a dimora le piante ritenute resistenti, per avere una vera e propria controprova di quanto si sta sperimentando. L’area del leccese sarà fondamentale per capire la reale resistenza delle piante».

In questo sforzo sono impegnati anche altri enti pubblici, enti di ricerca, università e comitati scientifici. Specifici progetti sono affidati al Crea, il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. La riunione della prossima settimana servirà proprio a fare il punto della situazione e verrà annunciata pure una nuova periodizzazione del piano regionale.

«Passeremo da un piano biennale a uno triennale - annuncia l’assessore al ramo - la grande operazione messa in campo con tutti gli enti impegnati nella ricerca richiederà adesso un ulteriore sforzo da parte di ognuno, perché dobbiamo restituire il paesaggio perso guardando non solo all’ulivo e quindi al suo comparto, ma anche ad altri settori come le primizie, solo per citarne uno. L’obiettivo principale - conclude Pentassuglia - è il raggiungimento di quel “riequilibrio territoriale” che Xylella fastidiosa ha purtroppo fortemente danneggiato».

Gli occhi di migliaia di agricoltori, siano essi titolari di grandi aziende che piccoli produttori, sono dunque rivolti ai vivai per capire il comportamento delle cultivar e riprogrammare i prossimi interventi nei rispettivi appezzamenti di terreno.

Lecce, ecco come il Leccino «intrappola» la Xylella. Lo studio, targato Ipsp Cnr: in pratica membrane «isolanti» e maggiore resilienza allo stress idrico. Un articolo pubblicato su «PlantPathology» spiega le strategie con cui alcune varietà reagiscono al batterio al microscopio. Tonio Tondo su La Gazzetta del Mezzogiorno il 21 Gennaio 2023.

Nuovo e importante progresso nella conoscenza e nella comprensione dei meccanismi di malattia provocati dal batterio Xylella negli ulivi. Il Leccino, la cultivar di ulivo resistente al patogeno Xylella fastidiosa, sottospecie pauca, genotipo ST (Sequenza-Tipo) 53, ha evidenziato due linee di difesa significative: la produzione di una matrice simil callosio che intrappola il batterio e la resistenza operata dalle pitmembranes, strutture porose che mettono in comunicazione condotti dello xylema adiacenti, meno aggredibili da parte degli enzimi di degradazione del batterio. Linee di difesa che, purtroppo, non ha evidenziato e quindi non sono state osservate nella Cellina di Nardò. Sono alcuni dei rilevanti risultati della ricerca in laboratorio del gruppo del Cnr di Bari-Istituto per la Protezione Sostenibile delle piante. Risultati che consentono una lettura scientifica di quanto finora è stato osservato in campo, con i Leccini che resistono al processo di disseccamento e invece Celline e Ogliarole che non ce la fanno.

Dice Pasquale Saldarelli, biologo e coordinatore della ricerca che ha coinvolto sette studiosi: «Possiamo dirlo, è un progresso rilevante. E’ uno studio in microscopia elettronica, disciplina e tecnologia nelle quali l’Ipsp Cnr ha da sempre costituito un riferimento internazionale. Grazie al nostro Angelo De Stradis, abbiamo osservato, dapprima in microscopia ottica, la struttura dei condotti xilematici del Leccino, resistente, e Cellina di Nardò, suscettibile, in corrispondenza delle occlusioni presumibilmente indotte dagli aggregati del batterio; successivamente, le stesse aree le abbiamo osservate in microscopia elettronica a maggiore ingrandimento. Nelle immagini relative alla Cellina il batterio attraversa una pit membrane che connette due vasi adiacenti. In quelle del Leccino, al contrario, possiamo osservare la produzione di una matrice di tipo callosio che ha la funzione di intrappolare e limitare la diffusione del batterio».

Lo studio è stato pubblicato dalla Plant Pathology, la autorevole rivista scientifica della British Society of Plant Pathology, e quindi messo a disposizione della comunità scientifica internazionale. Con questo lavoro il gruppo di Bari, coordinato da Maria Saponari, si conferma un riferimento sicuro della ricerca sulla patogenesi di Xylella fastidiosa e nella descrizione delle alterazioni cellulari nelle piante. Gli altri ricercatori sono Vito Montilon e Raied Abou Kubaa, agronomi come De Stradis e la stessa Saponari, e le biologhe Annalisa Giampetruzzi e Giusy D’Attoma; biologo è anche Saldarelli. Il responsabile della Ipsp Cnr di Bari è Donato Boscia.

L’età media del gruppo è di 42 anni. Saldarelli, 61 anni, ha l’entusiasmo di un giovane ricercatore ed è profondamente legato allo spirito dei fondatori della scuola di Bari, del compianto Giovanni Martelli, il fitopatologo che nel 2013 individuò nel batterio Xylella fastidiosa la causa dei disseccamenti degli ulivi nella campagna di Gallipoli. Individuazione, identificazione, caratterizzazione del batterio, studi sul genoma, dinamiche di diffusione della malattia, ruolo e ricerca sull’insetto vettore, Philenus spumarius (la cosiddetta «sputacchina») con le sue fasi evolutive: tutto quello che si conosce sulla malattia degli ulivi e di altre 35 specie lo si deve al gruppo di Bari.

Adesso è la volta di quello che accade «dentro» le piante. Sottolinea con fervore Saldarelli: «Xylella fastidiosa vive e si replica nello xylema, una rete di canalicoli, comunicanti tra di loro, che conducono acqua e sali minerali, assorbiti dalle radici, alle foglie. L’affascinante meccanismo con cui avviene questo assorbimento, assolutamente non dipendente da impieghi energetici e fondato su leggi idrauliche, è noto come “coesione-tensione”. L’assorbimento si genera per una pressione negativa, all’interno dello xylema, determinata dall’evaporazione dell’acqua a livello fogliare. Evaporazione che avviene attraverso gli stomi, piccoli pori presenti sulla pagina inferiore delle foglie, in connessione con il sistema di canalicoli dello xylema. Se la pianta soffre di una carenza di acqua chiude gli stomi per evitare di disidratarsi. Immaginiamo Xylella che occupa alcuni di questi canalicoli, e lo fa con una comunità di cellule immersi in un “biofilm” di diversi composti, queste aggregazioni provocano l’ostruzione dei canalicoli xilematici, interferendo così il trasporto dell’acqua nello xylema. Ecco il danno, e questo è solo uno dei meccanismi».

Al centro di un altro studio è proprio l’analisi dei meccanismi di apertura/chiusura degli stomi, in relazione alla misurazione del “potenziale idrico”. La Cellina di Nardò chiude gli stomi per difendersi ed entra in stress idrico, cosa che invece avviene in modo più lieve nel Leccino e nella Fs17, la Favolosa.

Questo però riguarda solo parte del meccanismo che provoca il danno indotto dal batterio, l’interazione di Xylella con i tessuti della pianta è dal punto di vista fisiologico e molecolare molto più complessa e variegata. Molte indicazioni riportano al patrimonio genetico delle cultivar. I ricercatori di Bari sono pronti ad affrontare un’altra sfida, forse quella decisiva per arrivare alla selezione di una decina di cultivar resistenti. L’obiettivo è identificare marcatori, cioè sequenze del Dna, nelle cultivar resistenti, utilizzabili nella selezione delle cultivar tra gli oltre mille incroci in coltura in una serra specializzata nella campagna di Gagliano del Capo, nell’azienda ForestaForte di Giovanni Melcarne, sulla collinetta ai margini estremi della Puglia, proprio di fronte a Santa Maria di Leuca.

Xylella e ulivi, gli errori di Presa Diretta. Una presa di posizione, quella della trasmissione di Riccardo Iacona, con diverse imprecisioni sul batterio che ha attaccato gli olivi pugliesi. Lisa Signorile su Wired.it il 18.01.2016

L’inchiesta di Presa Diretta su xylella, trasmessa nella sera di domenica 17 gennaio, aveva generato molto rumore già prima di andare in onda: gli schieramenti contrapposti, ovvero coloro che pensano che gli abbattimenti degli ulivi per fermare xylella siano inutili a prescindere contro chi pensa che siano al momento l’unica carta che abbiamo in mano, in attesa di avere più risposte dalla scienza, avevano già cominciato ad affilare le armi sui social network da diversi giorni. Molto rumore per nulla. L’inchiesta di Presa Diretta si è rivelata in realtà un pezzo di giornalismo tiepido e piuttosto di parte.

L’apertura con le lacrime della signora Pezzuto, a cui hanno abbattuto degli olivi lo scorso aprile, rientra nello schema a cui ci ha abituato un certo giornalismo che punta verso l’emotività del pubblico, piuttosto che verso la valutazione dei fatti. “Secondo lei un albero di 3-400 anni può valere 150 euro?”, chiede la signora tra le lacrime a Peppe Laganà. Non è chiaro se un **indennizzo superiore **avrebbe compensato meglio l’età dell’albero e prevenuto l’emozione. 

Il servizio in apertura ci da altre due informazioni: che la Puglia è la regione con più ulivi al mondo (60 milioni, di cui 11 milioni nel Salento) e che, per via del batterio Xylella fastidiosa, il piano di emergenza del commissario straordinario Giuseppe Silletti pianificava di abbattere 3.103 alberi di olivo. Non ci viene detto che questo ammonta allo 0,03% degli olivi salentini, una goccia in una monocoltura di dimensioni oceaniche. Certo, non è un bello spettacolo vedere un campo dove decine o centinaia di alberi sono da poco stati tagliati. Ma, visti i rischi posti da xylella e da tutti gli altri patogeni dell’olivo che infestano il territorio, differenziare e spezzare il regime di monocoltura e abbandono potrebbe essere un’idea da prendere al volo, specie se ci fossero fondi per promuovere la diversificazione e la biodiversità.

Ci viene invece mostrata una croce dove prima c’era un olivo, e la rabbia degli agricoltori che, nonostante i loro alberi siano risultati infetti al test per xylella, insistono che non ci sono evidenze che questo batterio faccia seccare gli olivi. Dicono, però, che i loro alberi sono poco accuditi, non potati, compromessi da altre patologie e sottoposti a stress ambientali. Poco di cui essere orgogliosi, a dire la verità, per gente che ama così tanto I propri alberi da vegliarli. Perché non accudirli meglio?

Quello che risulta poco chiaro dall’inchiesta, non evidenziato neanche dalle interviste a Silletti o ai ricercatori di Bari è che Xylella fastidiosa è un patogeno a largo spettro, attacca numerosi ospiti, non solo gli ulivi. Fermarlo, oltre che un dovere legale, perché è un microrganismo da quarantena, è necessario anche per proteggere eventuali altre colture come mandorli e ciliegi.

Si tratta dell’applicazione di un principio di precauzione, lo stesso che ci fa diffidare degli ogm, o che ci impone di vaccinarci anche per malattie oggi rare come la poliomielite. Certo, non c’è nulla che garantisca il blocco dell’espansione dell’areale del patogeno, come sottolinea il professor Boscia, come non c’è garanzia che un chemioterapico funzionerà, ma rallentare la diffusione in attesa di trovare un rimedio, o di imparare a convivere con una ennesima malattia dell’olivo, e neanche la peggiore, è tutto quello che al momento avremmo potuto fare, e che si fa per altre specie alloctone che invadono un nuovo territorio. Ma Boscia dice anche una cosa importante, che probabilmente pochi hanno notato: ci sono varietà resistenti, come il Leccino, e tutta una serie di altre colture. Forse una convivenza, tutto sommato, è possibile, se si spezza il regime di monocoltura che facilita il contagio.

Ma l’ordinanza di sequestro da parte della Procura di Lecce ha cambiato improvvisamente lo scenario, bloccando i tagli. Nell’ordinanza pero’ c’è dell’altro, ci sarebbero nuove evidenze scientifiche, secondo cui, come ribadisce il procuratore Cataldo Motta nell’inchiesta di Presa Diretta, il batterio è presente da molto tempo, tanto da mutare, e ci sarebbero indizi di ben nove ceppi, tutti frutto di mutazioni locali.

Un tasso di mutazione degno di Chernobyl, calcolando una generazione al giorno del batterio, per tutto l’anno, anche nei periodi invernali. Se la magistratura ha in mano evidenze scientifiche in tal senso, altre voci autorevoli chiedono che siano messe a disposizione della comunità scientifica. E magari anche della Comunità europea, che Motta ritiene sia stata tratta in errore: “I dati in possesso dell’Europa non sono quelli che noi abbiamo riavato coi consulenti”. Nello stesso tempo, secondo Motta gli scienziati indagati dalla procura avrebbero “mancato di umiltà, non c’è stato confronto di idee o sul piano scientifico”. Speriamo che prima o poi questo confronto scientifico inizi, e che parta dalla Procura. 

Quel che è certo è che non ci sono cure per xylella: nonostante siano in corso sperimentazioni, e che la comunità europea stia stanziando fondi, purtroppo non c’è per ora nulla da offrire agli olivicoltori. Tutto quello che si può fare è ridurre lo stress ambientale cercando di rendere il suolo più ricco di sostanza organica (al momento il Salento è in condizioni quasi desertiche, dal punto di vista della fertilita). Pochi del resto sanno che nel piano detto “Silletti bis” erano sconsigliati gli erbicidi perché non garantiscono l'uccisione delle forme giovanili del vettore, la cicalina, mentre sono altamente consigliate arature ed erpicature, che fanno anche bene al suolo. Peccato non averlo lasciato dire a Silletti stesso nel corso dell’intervista, di solito accusato di voler promuovere l’uso di fitofarmaci.

La seconda, più breve, parte dell’inchiesta è dedicata alla difesa degli scienziati, come in un processo. Giampaolo Accotto, direttore dell’Istituto per la produzione sostenibile delle piante, sottolinea che il blocco dei tagli da parte della procura di Lecce ha fatto un favore a xylella, come il nuovo, probabile focolaio di Avetrana, in provincia di Taranto, sembrerebbe dimostrare. È possibile, dice anche Accotto, che xylella non sia l’unica causa del disseccamento degli olivi, così come non si muore direttamente di Aids ma di infezioni secondarie. Ricorda, inoltre, che le decisioni per la gestione di xylella sono politiche, e che quella di tagliare non è stata una decisione degli scienziati.

Ma la comunità scientifica deve sapere. In chiusura, Riccardo Iacona ricorda l'appello di chi, come Wired, sta cercando di portare avanti chiarezza sulla vicenda xylella. Si tratta della lettera aperta del direttore de Le Scienze Marco Cattaneo e di Beatrice Mautino, co-autrice di Contro Natura, che chiedono che sia reso pubblico il contenuto scientifico delle indagini dei periti e che i ricercatori possano avere accesso alle piante infette sequestrate dalla magistratura, perché c'è in gioco l’olivicoltura del Mediterraneo. Una conclusione sicuramente sensata.