Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

 

  

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2023

L’AMBIENTE

PRIMA PARTE


 

DI ANTONIO GIANGRANDE


 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO


 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.


 

IL GOVERNO


 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.


 

L’AMMINISTRAZIONE


 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.


 

L’ACCOGLIENZA


 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.


 

GLI STATISTI


 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.


 

I PARTITI


 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.


 

LA GIUSTIZIA


 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.


 

LA MAFIOSITA’


 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.


 

LA CULTURA ED I MEDIA


 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.


 

LO SPETTACOLO E LO SPORT


 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.


 

LA SOCIETA’


 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?


 

L’AMBIENTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.


 

IL TERRITORIO


 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.


 

LE RELIGIONI


 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.


 

FEMMINE E LGBTI


 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.


 

L’AMBIENTE

INDICE PRIMA PARTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

A Tutela delle Piante.

La Pulizia.

La Conservazione.

La Ristorazione.

Il Pomodoro.

L’Origine Controllata.

Made in Italy.

I Cibi che fanno bene e fanno male.

Gli Alimenti Alternativi.

Il Biologico.

Vegani e Vegetariani.

La Verdura.

Latte e Formaggi.

Il Pesce.

La Carne.

I Legumi.

Grano e suoi derivati: Pane, Pasta, Dolci.

La Polenta.

Cacao e Cioccolato.

Il Torrone.

Il Sughero.

Il Vino.

I Distillati.

L’Olio.

L’Acqua.


 

INDICE SECONDA PARTE


 

SOLITO ANIMALOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le 9 scoperte più curiose del 2022.

A tutela degli animali. 

Il Patriarcato.

Il Matriarcato.

Le Razze Aliene.

Pesci e/o Mammiferi.

I Molluschi.

Polli e… Bio dei paesi tuoi.

Gli Uccelli.

I Primati.

I Lupi.

I Cani.

I Felini.

Le Mucche.

I Maiali.

Il Riccio.

I Topi.

Le Api.

I Cavalli.

Gli Orsi.


 

INDICE TERZA PARTE


 

IL SOLITO TERREMOTO E…(Ho scritto un saggio dedicato)

2022: eventi meteo estremi.

I Giorni della Merla.

La Siccità.

Le Valanghe.

Il Pantano delle Ricostruzioni interminabili.

Terremotati e… mazziati.

IL SOLITO AMBIENTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Buco nell’Ozono.

A tutela dell’ambiente.

Auto Elettriche.

Gli Inquinanti: i PFAS.

Gli Inquinatori.

Gli Inquinati.

L’Edilizia.

Non abbastanza verdi: il Greenwashing.

Le Vittime.

L’oro dai rifiuti.

Quelli che…i Pneumatici.

Quelli che…la Plastica.

Quelli che … il Fotovoltaico.

Quelli che …l’Eolico.

Quelli che…l’Idrogeno.

Quelli che …Il Nucleare.

Quelli che…il Petrolio.

Quelli che … il metanolo verde.

Quelli che …Il Gas.

Quelli che …Il BioGas.

Quelli che …Il Carbone.

Quelli che …l'estrazione mineraria.

Quelli che … l’Amianto.

Quelli che…l’Uranio.

Quelli che…le Terre Rare.

Gli Anti-gretini.

I Gretini.

I Nimbini. Quelli che…sempre no.

La Peronospora.

La Xylella.


 

PRIMA PARTE


 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

«Le piante urlano quando soffrono»: il video con il «pianto» di pomodori e tabacco pubblicato dall'Università di Tel Aviv. Alessio Lana su Il Corriere della Sera il 31 marzo 2023

La Tel-Aviv University ha pubblicato uno studio e un filmato in cui possiamo sentire i suoni emessi dai vegetali quando sono «assetati» o vengono potati

Le piante piangono se non vengono innaffiate e urlano quando vengono potate. Se non provenisse dalla Tel-Aviv University e non fosse apparso su Cell e poi su Nature, la notizia potrebbe essere relegata a fake news. Invece non è solo reale ma possiamo ascoltare la voce delle piante.

Armati di microfoni ultrasensibili, Lilach Hadany e altri ricercatori dell'università israeliana sono riusciti ad ascoltare la «voce» di una pianta di tabacco e di una di pomodoro e a registrarla nonostante sia inudibile agli umani. Quando potate o non innaffiate per lungo tempo, le due piantine hanno emesso dei suoni che, una volta velocizzati, sembrano «degli scoppi di popcorn», come nota Hadany. Insomma, non proprio come il canto delle balene ma dopotutto i vegetali non hanno corde vocali.

Stando ai ricercatori, non si conosce ancora con precisione il meccanismo dell'emissione sonora ma l'attenzione si concentra sullo xilema, il tessuto vegetale composto da una sorta di «tubicini» che trasportano acqua e sostanze nutritive dalle radici verso steli e foglie. Possiamo pensarlo come una serie di cannucce in cui possono formarsi delle bolle d'aria che quando scoppiano emettono uno schiocco. Uno sciocco inudibile. Si tratta infatti di ultrasuoni tra i 20 e i 100 kilohertz inavvertibili dal nostro orecchio (tranne rarissimi casi, l'umano si ferma a 16 kilohertz) ma che potrebbero essere sentiti da animali come topi, pipistrelli e falene.

Attraverso il machine learning, i ricercatori sono riusciti anche a interpretare quei suoni con un'accuratezza del 70%. Due volte su tre insomma, le macchine sono state in grado di riconoscere se le piante stessero comunicando il taglio di una loro sezione o la carenza d'acqua.  Non solo. Oltre a tabacco e pomodoro anche grano (Triticum aestivum), mais (Zea mays) e uva (Vitis vinifera) emettono rumori quando «hanno sete».

Questa nuova ricerca si innesta in una nuova frontiera della biologia che sta approcciando le piante in modo differente da quanto fatto in passato. Non più esseri verdi simili a minerali ma esseri viventi vicini agli animali. La squadra di Hadany per esempio ha già dimostrato che le piante posso anche ascoltare: da uno studio del 2019 emerge che alcune primule (Oenothera drummondii) rilasciano un nettare più dolce quando sono esposte al suono di un'ape in volo. I micologi invece hanno dimostrato che il micelio, la lunga rete sotterranea creata dai funghi, mette in comunicazione tra loro gli alberi permettendo anche il passaggio di sostanze nutritive da un esemplare sano verso un simile in difficoltà. 

Articolo del “New York Times” – dalla rassegna stampa estera di “Epr comunicazione” il 31 marzo 2023.

Gli scienziati hanno registrato i rumori che le piante emettono in risposta a stress come la disidratazione o un taglio. Scrive il NYT.

 Gli esseri umani hanno modi gloriosi di esprimere il proprio malcontento: Brontoliamo, brontoliamo, ci lamentiamo, gemiamo, ci lamentiamo. Si potrebbe pensare che per esternare le proprie lamentele sia necessaria, come minimo, una bocca. Ma recenti ricerche condotte nel regno vegetale dimostrano che la bocca non è essenziale.

 Le piante stressate emettono suoni udibili a molti metri di distanza e il tipo di suono corrisponde al tipo di giornata storta che stanno vivendo. I risultati sono stati pubblicati giovedì sulla rivista Cell.

 Per essere chiari, i suoni emessi dalle piante stressate non sono uguali al borbottio ansioso che potreste emettere quando avete una scadenza importante al lavoro. I ricercatori sospettano che il rumore nervoso e schioccante sia invece un sottoprodotto della cavitazione, quando piccole bolle scoppiano e producono mini-onde d'urto all'interno del sistema vascolare della pianta, in modo non dissimile da ciò che accade nelle articolazioni quando si scrocchiano le nocche.

"La cavitazione è la spiegazione più probabile, almeno per la maggior parte dei suoni", ha dichiarato Lilach Hadany, biologa dell'Università di Tel Aviv in Israele. Le piante interagiscono continuamente con organismi che producono suoni, come il ronzio delle api, e comunicano anche con altre forme di vita, comprese le altre piante, emettendo sostanze chimiche, chiamate volatili. Ma quando si trattava di ricerche sulle piante che rilevano - o producono - suoni udibili, la letteratura era muta.

 "Una questione aperta che mi preoccupava", ha detto la dottoressa Hadany, "era il problema delle piante e dei suoni".

 Dopo aver incontrato Yossi Yovel, che stava studiando i suoni dei pipistrelli a Tel Aviv, i due hanno deciso di collaborare per affrontare insieme la questione. Si sono concentrati sulle piante di pomodoro e di tabacco perché sono facili da coltivare e hanno una genetica ben conosciuta.

 Le piante sono state collocate in scatole di legno insonorizzate con due microfoni puntati sui loro steli, pronti a registrare qualsiasi cosa, da un sottile sussurro a un'esplosione di poesia slam. I ricercatori hanno scoperto che non solo le piante emettevano suoni, ma che facevano anche molto più rumore quando erano disidratate o venivano tagliate (simulando l'attacco di un erbivoro).

I ricercatori sono riusciti a captare gli stessi suoni anche dalle piante in serra. Hanno poi rilevato i suoni emessi da altre piante verdi, come la vite e il grano.

Gli ortaggi irritati non hanno espresso le loro rimostranze in modo casuale, ma hanno presentato lamentele specifiche che corrispondevano al tipo di stress a cui erano sottoposti. Un programma di apprendimento automatico è stato in grado di stabilire, con un'accuratezza del 70%, se la pianta brontolante aveva sete o rischiava di essere decapitata.

 "Il fatto che le piante emettano rumori diversi con qualche informazione sembra essere il principale contributo di questo studio", ha dichiarato Richard Karban, ecologo dell'Università della California, Davis, che non ha partecipato alla ricerca. "Penso che farà progredire il campo".

 Le piante irritate non emettono suoni udibili dall'uomo: sono troppo acuti e i ricercatori hanno dovuto elaborarli per trasformarli in suoni udibili. Ma i suoni rientrano nella gamma uditiva di altri animali, come topi e falene. Dato che i suoni schioccanti possono essere uditi fino a 15 metri di distanza, c'è anche da chiedersi se altre piante possano ascoltare i drammi dei loro vicini.

Il gruppo del dottor Hadany ha già dimostrato in un lavoro del 2019 che alcuni fiori rispondono al suono degli impollinatori in avvicinamento producendo più nettare. Scoprire se altri organismi rispondono ai rumori prodotti dalle piante stressate, e potenzialmente utilizzare le informazioni che tali rumori suggeriscono sulle condizioni delle piante, è un importante passo successivo.

 Il dott. Karban ha detto che altri biologi delle piante potrebbero sollevare dubbi sulle implicazioni dei risultati, ma ha aggiunto che questi evidenziano la sorprendente sofisticazione delle piante. In quanto organismi sedentari, le piante sono "squisitamente consapevoli del loro ambiente", ha detto.

 Dopo aver letto questo studio, potreste chiedervi se la pianta da appartamento sul davanzale della vostra finestra si stia lamentando delle condizioni in cui l'avete lasciata.

Il lisciante per capelli è cancerogeno: ondata di cause contro la multinazionale L’Oréal. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 7 Febbraio 2023.

I vostri prodotti per lisciare i capelli contengono sostanze chimiche che provocano il cancro e altri problemi di salute”. Recitano così le quasi 60 cause legali intentante in diversi Paesi degli Stati Uniti contro la multinazionale specializzata in prodotti di cosmetica e bellezza L’Oréal – e altre società simili – che nelle prossime settimane saranno giudicate tutte insieme in un tribunale federale di Chicago. L’accusa, tra l’altro, sostiene che le aziende erano a conoscenza della pericolosità dei prodotti, ma hanno comunque continuato a venderli.

Mentre L’Oréal ha scritto in un comunicato di essere “fiduciosa nella sicurezza dei nostri prodotti e di ritenere che le recenti azioni legali intentate contro di noi non abbiano valore legale”, dall’altra parte uno studio del National Institutes of Health – l’agenzia governativa USA responsabile della ricerca biomedica e della salute pubblica – pubblicato lo scorso ottobre ha evidenziato che le donne che hanno utilizzato ripetutamente i suoi prodotti – per più volte all’anno – hanno più del doppio delle probabilità di sviluppare il cancro uterino.

L’agenzia, che per il suo studio tra il 2003 e il 2009 ha esaminato quasi 34mila partecipanti di etnia diversa e con un’età compresa tra 35 e 74 anni, servendosi di questionari periodici sul loro uso di prodotti per capelli, dopo 11 anni di monitoraggio è arrivata alla conclusione che: l’utilizzo piuttosto costante di prodotti liscianti – contenenti sostanze chimiche come parabeni, bisfenolo A, metalli e formaldeide – è associato a tassi di cancro uterino più elevati (HR = 1,80, IC 95% = da 1,12 a 2,88) rispetto a chi non ne ha mai usufruito.

E pare che per le donne afroamericane – anche se non ci sono evidenze scientifiche su questo aspetto – il rischio sia ancora più elevato. Il Dottor Che-Jung Chang, uno degli autori dello studio, ha spiegato che tale tendenza potrebbe essere giustificata dal fatto che le ragazze nere utilizzerebbero più frequentemente i prodotti per lisciare i capelli e comincerebbero a farlo già in giovane età. Tra queste c’è anche Jennifer Mitchell, una delle donne che ha denunciato la multinazionale e a cui è stato diagnosticato un cancro uterino nel 2018, dopo aver utilizzato i prodotti L’Oreal per i 18 anni precedenti, da quando cioè aveva 10 anni. Diandra Debrosse Zimmermann, la sua avvocata ha tra l’altro dichiarato che il suo studio ha già altre clienti che lamentano circostanze simili. E probabilmente in futuro ce ne saranno molte altre: «Tante donne si faranno avanti nelle prossime settimane e mesi per cercare responsabilità», soprattutto perché la società ha tratto profitto, in modo significativo, da una condotta non etica e illegale che ha «indotto la querelante ad acquistare e utilizzare abitualmente un prodotto pericoloso e tossico».

Sebbene il cancro uterino sia meno diffuso rispetto ad altre forme tumorali, rimane uno dei più comuni nell’universo femminile: negli USA i casi sono stati 65mila solo nel 2022, con 12mila decessi – con tassi in aumento in particolare tra le donne nere. L’esposizione a un eccesso di estrogeni sintetici – come le sostanze chimiche – creerebbe uno squilibrio ormonale e altererebbe il sistema endocrino: elementi che costituirebbero un fattore di rischio chiave per il cancro uterino. [di Gloria Ferrari]

Sapone di Marsiglia: proprietà, usi e benefici. Dal bucato all'igiene personale, il sapone di Marsiglia è un prodotto assai versatile. "Figlio" del sapone di Aleppo, le sue proprietà sono apprezzate in tutto il mondo. Maria Girardi il 29 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Famoso in tutto il mondo ed estremamente versatile, il sapone di Marsiglia è un sapone solido originario della Francia e da molti considerato il diretto discendente del sapone di Aleppo. Si presenta come un panetto dalla consistenza alquanto dura e con una colorazione che varia dal verde se viene prodotto con olio di oliva, al giallo se per la sua produzione vengono impiegati gli oli di cocco e/o di palma. La caratteristica principale, tuttavia, è il profumo che ricorda quello dei panni appena lavati stesi ad asciugare al sole. All'odore di pulito, talvolta, si aggiungono le note agrumate dell'olio essenziale di citronella che può essere aggiunto durante la lavorazione. Il sapone di Marsiglia possiede svariate virtù e, come già detto, i suoi usi sono innumerevoli. Scopriamoli insieme.

La storia del sapone di Marsiglia

Il sapone di Marsiglia ha un "padre" molto famoso, il sapone di Aleppo. La tecnica di fabbricazione di quest'ultimo, a base di olio di oliva e di alloro, si diffuse in tutto il Mediterraneo in seguito alle crociate, dapprima in Italia e Spagna e poi in Francia. A Marsiglia nell'XI secolo venivano già prodotti saponi con olio di oliva e soda, questa ottenuta dalle ceneri della combustione della pianta salicornia. Nel XV secolo Crescas Davin divenne il primo saponaio ufficiale, mentre la prima fabbrica fu fondata nel 1593 da Georges Prunemoyr.

Sapone di Aleppo: proprietà e benefici

Nel XVII secolo la produzione marsigliese non era in grado di soddisfare la continua richiesta, pertanto nel porto sbarcavano quasi quotidianamente saponi proveniente da Alicante e da Genova. Un momento di svolta giunse in seguito ai conflitti con la Spagna che bloccò le importazioni dei saponi. I francesi, spinti dalle continue domande di mercato dei vicini olandesi, tedeschi e inglesi, si videro costretti ad aumentare la produzione. Se nel 1660 le fabbriche erano sette, 100 anni dopo il loro numero era salito a quarantotto. Da quel momento in poi la realizzazione del sapone di Marsiglia raggiunse il suo apice ed esso divenne a livello globale.

La produzione

La preparazione classica del sapone di Marsiglia prevede l'utilizzo di ingredienti tipici della Provenza: l'olio extravergine di oliva e la liscivia ottenuta dalle ceneri della pianta salicornia. Le sostanze alcaline presenti nella liscivia permettono la saponificazione, ovvero una reazione chimica consistente nell'idrolisi di uno o più esteri, dell'olio di oliva che tradizionalmente deve essere presente in una concentrazione pari al 72%.

Olio d'oliva, un aiuto per salute e beauty

Varie sono le fasi della fabbricazione. In un primo momento si pone l'olio di oliva in un calderone assieme alla liscivia e ad una determinata quantità di acqua del Mar Mediterraneo. La miscela così ottenuta viene riscaldata per diversi giorni. Questa è la saponificazione a caldo dalla quale si ottiene la pasta di sapone. Quest'ultima, versata in stampi appositi, va lasciata rassodare e poi va tagliata in blocchi e timbrata. L'ultimo passaggio consiste nella solidificazione e nella essiccazione completa del sapone.

Attualmente il sapone di Marsiglia, oltre che con l'olio di oliva, si può produrre anche con l'olio di cocco e/o con l'olio di palma. Nella maggior parte dei casi la liscivia è stata sostituita con una soluzione di soda caustica. Bisogna diffidare dai prodotti in commercio che recano in etichetta la dicitura "al sapone di Marsiglia" poiché sono semplici detergenti di natura sintetica arricchiti con profumi e additivi.

Proprietà, usi e controindicazioni del sapone di Marsiglia

Il sapone di Marsiglia è estremamente delicato e, oltre alle proprietà detergenti, possiede altresì virtù antibatteriche, lenitive, emollienti e purificanti. Pertanto si presta a svariati utilizzi:

Detersione del viso: è particolarmente indicato in caso di acne. La sua composizione ben bilanciata elimina l'eccesso di sebo, lenisce e previene la formazione di future imperfezioni, quali brufoli e punti neri. Alcuni specialisti lo consigliano anche in presenza di cute allergica, irritata e con affezioni come eczemi e psoriasi;

Detersione del cuoio capelluto: per le sue proprietà astringenti e purificanti è ideale per i capelli grassi. Un uso frequente rende la chioma luminosa e forte;

Detersione degli animali: si può utilizzare al posto dei saponi per la toelettatura dei cani sia puro che con qualche goccia di olio essenziale di lavanda;

Bucato: sgrassa ed elimina anche le macchie più ostinate. Al tempo stesso è delicato e preserva la bellezza dei tessuti. Si può strofinare direttamente sui capi inumiditi;

Pulizia della casa: è efficace per lavare i piatti e per pulire pavimenti, tappeti e divani. Il suo potere sgrassante è in grado di sciogliere anche lo sporco più intenso.

Data la minima aggressività, il sapone di Marsiglia viene scelto anche da chi ha una pelle estremamente sensibile. Tuttavia esistono soggetti che non tollerano il suo pH basico e che pertanto sviluppano sintomi irritativi in seguito all'utilizzo. La basicità del pH, inoltre, lo rende inadatto alla detersione delle zone intime che necessitano di prodotti specifici.

Data di scadenza degli alimenti, la Ue verso la modifica sull’etichetta. Massimiliano Jattoni Dall’Asén su Il Corriere della Sera l’8 marzo 2023.

La Commissione Ue ha presentato l’8 marzo agli esperti degli Stati membri una proposta di revisione delle norme sulla data di scadenza degli alimenti, con l’inserimento in etichetta della dicitura «spesso buono oltre» in aggiunta al consueto «da consumarsi preferibilmente entro». Gli alimenti scaduti finiscono spesso nella spazzatura perché la maggioranza delle persone crede che, superata la data di scadenza riportata sull’etichetta, potrebbero far male. Eppure, non sono pochi i cibi che possono essere consumati anche diversi giorni, settimane o addirittura mesi dopo la scadenza.

Un aiuto alla lotta allo spreco

E proprio per evitare sprechi inutili, Bruxelles è al lavoro sulla bozza dell’atto delegato in cui la modifica, con la nuova dicitura, è contenuta. Secondo l’Esecutivo Ue, infatti, l’aggiunta è un aiuto alla lotta allo spreco alimentare perché consente «una migliore comprensione della data di scadenza», influenzando «il processo decisionale dei consumatori in merito all’opportunità di consumare o eliminare un alimento». La richiesta di allungare la data di scadenza non è una novità. Per esempio, nel 2020, in piena emergenza pandemia, anche il gruppo Granarolo aveva chiesto di prolungare la scadenza del latte fresco.

I cibi che si possono consumare dopo la data di scadenza...

Prima di buttare del cibo ancora buono è opportuno fare sempre una distinzione tra i cibi che si possono mangiare dopo la scadenza e quelli che, invece, devono irrimediabilmente essere buttati perché pericolosi per la nostra salute. Ovviamente, è sempre bene tenere presente che anche la modalità di conservazione può influire sulla commestibilità o meno di un alimento dopo la scadenza. In linea di principio, i cibi a lunga conservazione e quelli secchi e senza acqua si conservano meglio, pertanto possono essere consumati tranquillamente anche dopo la data di scadenza (come il riso e la pasta). Le uova, invece, possono essere consumate anche entro 3 giorni dalla data di scadenza e gli yogurt fino a due settimane (l’unico problema è dal punto di vista nutritivo: dopo la scadenza aumenta l’acidità e diminuisce il numero di fermenti vivi). Per i legumi secchi e quelli in scatola i tempi si allungano, previa sempre una verifica visiva e olfattiva. Stessa cosa vale per la farina bianca, al contrario di quella integrale che può irrancidire a causa dell’elevato contenuto di fibre. Perderanno un po’ di croccantezza, ma i biscotti e i crackers possono essere mangiati molto tempo dopo la scadenza.

... E quelli che non si possono mangiare

I salumi e gli insaccati scaduti possono essere nocivi se mangiati dopo la scadenza, soprattutto se hanno un cattivo odore, poiché possono esporre al rischio di farci contrarre la listeria (in genere, però, il prosciutto conservato nelle buste in atmosfera protetta è commestibile anche oltre la data di scadenza). La carne fresca merita la giusta attenzione e, se consumata oltre la data di scadenza, rischia di causare effetti spiacevoli come la salmonella o l’escherichia coli. I latticini freschi si comportano diversamente dal yogurt: dopo la scadenza possono causare intossicazione alimentare, mentre i succhi di frutta scaduti possono contenere batteri e causare disturbi intestinali. Infine, i frutti di bosco, come fragole, lamponi e mirtilli, se consumati oltre la data di scadenza potrebbero sviluppare un parassita chiamato cyclospora e le verdure a foglia verde possono essere vettori di batteri come l’escherichia coli.

I cibi scaduti si possono mangiare? La differenza tra «da consumarsi entro» e «preferibilmente entro». FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera l’8 Febbraio 2023.

L’etichetta fornisce indicazioni preziose, fondamentali anche per non buttare via cibo e evitare inutili e costosi sprechi. Ecco cosa sapere

Guida alle «scadenze» alimentari

Se in Italia buttiamo via 30 chili di cibo l'anno a testa, che complessivamente fanno 7 miliardi di euro (senza contare il costo ambientale), è anche perché facciamo confusione con le date di scadenza e di «consumo preferibile» riportate sulle etichette. Nel dubbio, tendiamo a buttare via. Lo dimostrano varie ricerche sugli sprechi alimentari. La differenza è questa: «consumare entro» indica una data perentoria, perché quel determinato giorno l'alimento comincia a degradarsi per via della proliferazione di batteri. Al contrario, come suggerisce la dicitura, «consumare preferibilmente entro» indica il termine minimo di conservazione: i cibi consumati oltre la data «preferibile» cambiano infatti solo dal punto di vista organolettico. Semplificando, è anche una questione di gusti, perché semplicemente potrebbe mutare il sapore.

Cioccolato

Via libera al cioccolato, che si può consumare anche dopo la data di consumo preferibile, e anche se presenta la patina bianca: si conserva grazie allo zucchero. Una regola che vale in particolare per il fondente perché per quello al latte il rischio di contaminazioni microbiologiche è più alto.

Pasta e riso

La pasta e il riso si possono mangiare anche fino a un anno dopo la data di consumo preferibile, perché non contengono acqua e quindi non possono svilupparsi microbi o batteri. Sempre che vengano conservati ermeticamente chiusi, al fresco, in un luogo asciutto e pulito: lo sporco può favorire anche il proliferare delle tipiche «farfalline».

Surgelati

Se tenuti chiusi a una temperatura di -18 gradi centigradi, e se non sono stati anche solo parzialmente scongelati, anche i surgelati sono tra i cibi che si possono consumare oltre la data preferibile.

Patatine confezionate

Il junk food per eccellenza, che però ogni tanto tutti amiamo concederci, le patatine si possono mangiare anche oltre la data preferibile perché contengono sale, un conservante. Il gusto, però, più passa il tempo e meno è gradevole. «Colpa» in questo caso della massiccia quantità di olio usata per prepararle.

Biscotti

Stesso discorso per i biscotti: per via dei conservanti possono essere consumati anche dopo la data di consumo preferibile.

Legumi secchi e in scatola

Sono buoni, sani e fedeli alleati in dispensa perché i legumi secchi durano moltissimo dato che sono privi di acqua e quindi inattaccabili. Se tenuti in un luogo fresco e asciutto, si possono consumare anche fino a un anno dopo la data di consumo preferibile.

Idem i legumi in vetro o in scatola, perché sono in una confezione sterile che inibisce il possibile rischio microbiologico.

Tonno in scatola

Se conservato correttamente - luogo fresco, pulito e asciutto - il tonno dura in media 5 anni dal momento dell’inscatolamento e si può mangiare fino a un anno dopo la data di consumo preferibile. Il motivo è che la scatoletta, o il vasetto, sono privi di ossigeno e quindi non c’è rischio microbiologico. Quindi, a meno che non ci siano rigonfiamenti sul tappo, che potrebbero essere indice di una contaminazione da salmonella, non ci sono problemi.

Conserve in vetro e lattina

Stesso discorso del tonno vale per le conserve in vetro e lattina: non c’è ossigeno, quindi il rischio di contaminazione è azzerato, anche per la presenza - ove ci sono - di conservanti.

Miele

Non c’è problema a consumare oltre la data preferibile anche il miele, più o meno un anno, sempre che sia chiuso ermeticamente e tenuto in un luogo fresco e asciutto. Il motivo è che si conserva naturalmente grazie agli zuccheri e gli antibatterici naturali che contiene.

Sale e zucchero

Se tenuti ermeticamente chiusi, in un luogo fresco e asciutto, anche sale e zucchero si possono consumare oltre la data di consumo preferibile. Merito della loro capacità igroscopica: eliminano l'acqua dagli alimenti e quindi inibiscono la proliferazione di muffe e batteri.

Ketchup

Si conserva anche qualche mese dopo la data di consumo preferibile anche il ketchup, se tenuto chiuso ermeticamente. Il «merito» è dei conservanti.

Latte a lunga conservazione

A parte il fresco, il latte a lunga conservazione si può consumare anche fino a un paio di giorni dopo la data sempre che, ovviamente, non abbia un cattivo odore.

Pane

Si può consumare oltre anche il pane confezionato. La prova del nove è visiva: se ci sono muffe va buttato via. L’alternativa è congelarlo e scongelarlo al bisogno.

Farina

La farina si può mangiare anche fino a sei mesi dopo la data di consumo preferibile. La regola è sempre la stessa: conservarla ermeticamente chiusa, in un luogo fresco e asciutto, e fare un approfondito esame visivo prima di usarla per verificare che non ci siano insetti.

Caffè

Il caffè scade mediamente in due anni, e si può consumare anche fino a un anno dopo il termine minimo di conservazione. A patto che sia tenuto in confezioni integre in modo che non passi aria.

Aceto

Potrebbe perdere il suo profumo, ma essendo di per sé un conservante, anche l’aceto - bianco, rosso o balsamico - si può consumare oltre la data di consumo preferibile.


 

Estratto dell'articolo di Valeria Arnaldi per “il Messaggero” il 23 gennaio 2023.

Frutta e verdura nei cassetti. Formaggi sul ripiano. Cioccolata al livello più alto, anche per evitare la tentazione. Ordinare la spesa in frigorifero è un'operazione che si fa quasi meccanicamente, […] Eppure, avvertono i nutrizionisti decisi a sfatare questo mito, il più delle volte si tratta di stereotipi e, soprattutto, di convinzioni errate. E così, quando si chiude lo sportello, si perdono sapori, profumi, principi nutritivi.

Per sfatare i falsi miti della conservazione in frigo, abbiamo chiesto consigli e regole allo chef Domenico Stile di Enoteca La Torre Villa Laetitia, due stelle Michelin, a Roma. «Nel nostro Paese c'è l'abitudine a mettere tutto in frigo, in parte figlia delle alte temperature estive - spiega lo chef - ma quando la stagione lo consente, come in questo periodo, molti alimenti dovrebbero essere tenuti fuori, in dispensa».

Si comincia dalle uova. «[…]Andrebbero in dispensa, a temperature controllate, che non superino i 15 o 16 gradi. In tal modo si possono conservare tranquillamente tre o quattro giorni». Fuori, in massima parte, anche frutta e verdura.

 […] La regola vale, in particolare, per i pomodori. «Il freddo del frigorifero altera la loro struttura. Il pomodoro ha bisogno di essere mantenuto a temperatura ambiente, altrimenti cambiano la consistenza e il sapore[…]». No alle patate, per non farle germogliare.

 Banditi aglio e cipolla per svariati motivi. «Molti conservano in frigo la cipolla tagliata a metà, ma il suo odore poi si diffonde sugli altri alimenti, mutando il loro gusto. […]». E i cosiddetti odori? «Il basilico può essere conservato in frigo ma non a diretto contatto con il freddo. […]».

La cioccolata si custodisce in un luogo fresco, non freddo. Maionese e confetture vanno in frigo solo quando sono aperte. Prima restano in dispensa, badando alle temperature. «La soglia di tollerabilità è tra 16 e 21 gradi - sottolinea lo chef - se fa più caldo, il rischio è che i prodotti inizino a fermentare».

[…] «In frigorifero - afferma Domenico Stile - va solo ciò che è deperibile, come il latte, ma quello a lunga conservazione soltanto quando è aperto, e i formaggi a pasta semimorbida. Poi salumi, carne e pesce. E, in generale sarebbe opportuno riporre gli alimenti in contenitori a chiusura ermetica per evitare rischi di contaminazione». Le conseguenze di una errata conservazione si avvertono, soprattutto nei sapori. […] «Di taluni alimenti tanti non conoscono più il vero sapore, ne hanno solo un'idea relativa. […]»

Estratto dell’articolo di Andrea Cuomo per “il Giornale” il 20 marzo 2023.

Le stelle sono tante, milioni di milioni, ma solo quelle Michelin contano davvero. Il «macaron» elargito con parsimonia dalla mitologica guida rossa, nata agli albori della motorizzazione di massa per segnalare dove riparare l’auto (e cambiare le gomme) durante un viaggio e passata nel giro di decenni a segnare fortune e disgrazie dei ristoranti di mezzo mondo, è il sogno di ogni chef. Anche, credeteci, di quelli che dicono di non curarsene (bugiardi).

 Ma come vengono assegnate le stelle? Quali sono i criteri seguiti? Sono equi? Variano da Paese a Paese? Incominciamo col dire che gli ispettori della «rossa» sono coperti da un rigido anonimato. Si sa che sono dipendenti della stessa Michelin, che non guadagnano granché (ma sono spesati per i viaggi, i pasti e l’ospitalità), che sono meno di un centinaio e che dovendo alternarsi su 40mila ristoranti di 24 Paesi in tre continenti, devono visitare centinaia di ristoranti all’anno, una vita gastroinsostenibile e quindi solo apparentemente invidiabile.

«Ci sono due “prove tavola”, a pranzo e a cena - racconta uno di loro sul sito della Michelin - che si concludono sempre con un resoconto scritto. Facciamo anche molta ricerca sul territorio (...).

 Infine, quando siamo in ufficio, ci confrontiamo con gli altri ispettori e con le redazioni, per fare il punto sulle settimane trascorse sul campo, e prepariamo i viaggi futuri».

La solitudine dell’ispettore.

È vero che, come tengono a specificare da Clermont-Ferrand, la decisione sulle stelle è collegiale, ma il tapino viaggia di continuo, pranza e cena ogni giorno da solo, non si dichiara né si fa riconoscere (anche se alcuni ristoratori sono convinti di saperlo individuare infallibilmente), dà pochissima confidenza, paga il conto senza fiatare e, con la bocca ancora impastata di limoncello, trascrive le impressioni sulla sua esperienza perché dopo poche ore riapre un nuovo menu.

L’insegna viene valutata secondo una griglia rigida che prevede questi criteri: qualità dei prodotti, tecnica culinaria, equilibrio tra gli ingredienti, personalità dello chef, rapporto qualità/prezzo, costanza di rendimento.

 Ma lui, il (re)censore, come garantisce la sua competenza e indipendenza? Deve avere studi preferibilmente alberghieri, esperienza di almeno dieci anni nel settore, competenza culinaria e giornalistica, essere autorevole, affidabile, riservato, credibile, parlare bene inglese, e non soffrire la probabile mancanza di una famiglia. Praticamente un sociopatico. Ben nutrito ma pur sempre sociopatico.

[…] Ma entrare nel Gotha della ristorazione quanto vale? Guadagnare una stella vuol dire incrementare del 50 per cento il proprio fatturato. Bello, bellissimo. Ma da quel momento sei condannato all’ansia tragica di poterla perdere, perché se questo accade il.

Un, due, tre... stella! Report Rai. PUNTATA DEL 30/01/2023 di Luca Bertazzoni

Collaborazione di Marzia Amico

Milioni di follower sui social e star della tv: un tempo si chiamavano cuochi, oggi per tutti sono i grandi chef​​​​​.

Un business, quello degli stellati, che muove milioni di euro fra ristoranti, indotto e soprattutto comunicazione. Ma cosa c’è dietro a questo mondo? Secondo il famoso chef Alessandro Borghese, ai giovani manca la passione, lo spirito di sacrificio, la voglia di lavorare. È davvero così? Con un lungo viaggio dentro i ristoranti stellati, Report fa i conti in tasca agli chef più famosi d’Italia, indagando sul business delle loro attività commerciali, sia nel campo della ristorazione, sia in quello dei media. E poi un racconto delle condizioni di lavoro nel mondo della ristorazione.

Un, due, tre… Stella! Di Luca Bertazzoni Collaborazione Marzia Amico Ricerca immagini Paola Gottardi Immagini Giovanni De Faveri, Marco Ronca Montaggio Igor Ceselli

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A pochi chilometri dalla Svizzera c’è Como e qui, affacciato sulla riva del lago, è aperto il ristorante I tigli in Theoria, presente da anni nella guida della Michelin con una stella.

CAMERIERE RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA Un Ubimi preparato in tempura con una parte in carbone vegetale, alla base un miso al pomodoro e una bottarga di spigola. Prego.

LUCA BERTAZZONI Grazie. LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Fino a pochi a mesi fa il proprietario del ristorante era Giovanni Maspero, che in realtà inizia la sua attività in un centro di assistenza tecnica di apparecchiature elettroniche, poi, quando negli anni Novanta entrano in commercio i primi telefoni cellulari, apre una società nel settore delle telecomunicazioni. Ma ben prima del ristorante, la barca a vela era la sua grande passione: negli anni 2000 gira il mondo per l’America’s Cup con il team Azzurra, di cui è fondatore e responsabile sportivo.

GIOVANNI MASPERO - IMPRENDITORE - COPPA AMERICA 2009 I ragazzi, devo dire, mi hanno dato prova dell’affetto che ci lega chiedendomi di andare sia ieri che oggi, però con stasera io termino il mio operato da diciottesimo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per realizzare il suo sogno stellato, Giovanni Maspero non ha badato a spese. Nel 2000 compra il famoso Palazzetto del Vescovo, edificio storico della città di Como e lo paga quattro milioni di euro, poi ne spende altri quattro per allestire il ristorante. All’interno, in bella vista, ci sono i quadri della compagna Irina Katchanova, artista e pittrice russa.

VALENTINA GIAMBASTIANI - COMANDANTE GRUPPO TUTELA FINANZA GUARDIA DI FINANZA - COMO Abbiamo notato dei buchi veri e propri, dei debiti scaturiti dal fatto che l’imprenditore drenava liquidità dalla società da un lato per alimentare le proprie spese personali, il proprio elevato tenore di vita, dall’altro andava a finanziare la società che detiene il ristorante stellato di Como. L’imprenditore ha sostenuto che gran parte di queste spese fossero legate alla necessità di finanziare il ristorante per il raggiungimento della seconda stella, poi, diciamo, mai avvenuto.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ad aprile scorso, infatti, Giovanni Maspero con il suo ristorante finisce sotto la lente della Guardia di Finanza. Negli anni ha accumulato un debito con lo Stato per 107 milioni di euro. E di volta in volta, per pagare l’evasione scoperta, creava i presupposti per evadere di nuovo.

VALENTINA GIAMBASTIANI - COMANDANTE GRUPPO TUTELA FINANZA GUARDIA DI FINANZA - COMO Nel corso di circa un decennio chiedeva di rateizzare il proprio debito con l’Agenzia delle Entrate.

LUCA BERTAZZONI Quindi di anno in anno, una volta scoperto, lui rateizzava una piccola parte

VALENTINA GIAMBASTIANI - COMANDANTE GRUPPO TUTELA FINANZA GUARDIA DI FINANZA - COMO Esatto, pagava

LUCA BERTAZZONI E ricominciava.

VALENTINA GIAMBASTIANI - COMANDANTE GRUPPO TUTELA FINANZA GUARDIA DI FINANZA - COMO Nel corso di questi dieci anni ha accumulato 11 decreti penali di condanna per omesso versamento delle imposte.

LUCA BERTAZZONI Quali sono i reati ipotizzati?

VALENTINA GIAMBASTIANI - COMANDANTE GRUPPO TUTELA FINANZA GUARDIA DI FINANZA - COMO Bancarotta fraudolenta, sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte, autoriciclaggio.

LUCA BERTAZZONI Signor Maspero buonasera, sono Luca Bertazzoni salve, sono un giornalista di Report. Come sta? Ci stiamo occupando della vicenda che la riguarda, l’abbiamo aspettata l’altro giorno all’udienza preliminare. Volevamo solo capire la sua versione soltanto.

GIOVANNI MASPERO - IMPRENDITORE La prossima volta, grazie.

LUCA BERTAZZONI Un secondo solo, le accuse sono molto pesanti.

GIOVANNI MASPERO - IMPRENDITORE Lo so, lo so, grazie.

LUCA BERTAZZONI E quindi? Solo… Ci può dire la sua versione?

CAMERIERE RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO Iniziamo con la versione dell’uovo di selva, viene preparato con tre versioni di carciofo: trovate un suo cuore, una versione della spuma, un suo gel, polvere di cinarina e alla base troverete un crumble a base cacao.

LUCA BERTAZZONI Volevamo farle i complimenti, tutto molto buono. Io in realtà sono solo un giornalista.

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO Il mio compito in questo momento è…

LUCA BERTAZZONI …portare avanti la baracca.

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO Con questi ragazzi è stato quello di tenere vivo questo ristorante e preservare la stella Michelin perché…

LUCA BERTAZZONI Che l’avete rivinta, è vero, giusto?

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO È un valore aggiunto per una città turistica come Como

LUCA BERTAZZONI Lei aveva già una stella, giusto, per conto suo, nel suo ristorante. E poi Maspero le ha proposto questo.

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO C’è stato il trasferimento e c’è stata la continuità della stella.

LUCA BERTAZZONI Il fatto è che Maspero non era, come dire, un imprenditore del settore, faceva tutt’altro. Cioè, come mai ha deciso di aprire il ristorante?

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO La maggior parte degli chef che ci sono in Italia hanno alle spalle un imprenditore, un investitore. E lui è stato uno di questi.

LUCA BERTAZZONI Eravate in odore di seconda stella?

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO Ma questo non si sa perché la Michelin ha una propria politica, decidono loro.

LUCA BERTAZZONI Certo, no, no, però, siccome lo diceva Maspero, per questo dicevo, Maspero che puntava alla seconda stella: fra di voi ne parlavate, immagino.

FRANCO CAFFARA - CHEF RISTORANTE I TIGLI IN THEORIA – COMO Quando un cuoco riesce ad arrivare all’obiettivo di una stella c’è l’ambizione di vincere, di prendere la seconda.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Chi aveva ottenuto la seconda stella è stato Gianfranco Vissani, il primo ad apparire sul grande schermo tanti anni fa, quando gli chef si chiamavano ancora cuochi. Il figlio Luca ci accoglie nel lussuoso ristorante stellato che gestisce assieme al padre davanti al lago di Corbara, in Umbria.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Questa è la sala del benvenuto, quindi qua c’è lo stuzzichino. Menù oro con le tradizioni, menù verde dedicato, appunto, al vegetariano, menù black, invece, è tutto a sorpresa con degli inediti.

LUCA BERTAZZONI Il prezzo si può sapere?

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Come no. Partiamo da 145 questi due a persona, fuori i vini.

LUCA BERTAZZONI Esclusi i vini.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Sì, sono quattro salati, un dolce e la piccola pasticceria. 235 questo ma sono sette portate. Vedi, per esempio: noi abbiamo chiuso domenica… Due tavoli, questo è domenica, eh?

LUCA BERTAZZONI Ok. Solo due tavoli

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Che tiri aria di magra si evince dal fatto che Vissani è stato costretto a ridurre le giornate di lavoro per risparmiare.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Da luglio abbiamo iniziato un 50% di chiusura.

LUCA BERTAZZONI Dei frigoriferi? Delle celle frigorifere?

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Sì, di tutto. Sei celle: tre chiuse e tre aperte. Tre forni, uno acceso, massimo due all’occorrenza. Questa è la parte dove facciamo i forni, dove facciamo i pani con le camere di lievitazione. Questa invece è tutta quanta la cucina del salato, solo salato.

LUCA BERTAZZONI Ah, questo è solo salato…

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Zona degli antipasti, questa qui è tutta quanta per i primi piatti. Qui è il pesce.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Dobbiamo chiudere e non pagare le bollette. Staccassero la corrente, non me ne frega un cazzo. LUCA BERTAZZONI Lei è aperto 16 giorni al mese ho letto, giusto?

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Sì, perché, perché altri giorni non si può aprire per due persone. Noi questo mese siamo andati a pagare quasi 3mila euro di frutta e verdura, ma vi rendete conto? E non è che abbiamo lavorato come che si lavori...

LUCA BERTAZZONI Cioè, non si lavora troppo, insomma, mi pare di capire.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF No, no, no, ma 3mila euro di frutta e verdura è come se avessi preso tre chili d’oro. LUCA BERTAZZONI Aveva due stelle, no, poi nel 2020 una gliel’hanno tolta.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Sono contento, si vede che non siamo buoni per loro.

LUCA BERTAZZONI Quando un ristoratore prende una stella, no, cosa gli cambia concretamente per il ristorante, no?

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Beh, io con una stella ho pensato sempre che si lavorasse di più perché due stelle andavamo su con il prezzo.

LUCA BERTAZZONI Lei aprì diversi ristoranti soprattutto nel 2013, no, Capri, Cortina, Roma…

GIANFRANCO VISSANI - CHEF …Todi, Orvieto.

LUCA BERTAZZONI E poi dopo un paio di anni…

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Eh, vabè, perché poi non prendevamo tanto, insomma, 100mila euro all’anno sono pochi.

LUCA BERTAZZONI A proposito, appunto, del guadagnarci o meno, no, io ho visto i vostri utili, no.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Questo lo sa lui, io non lo so.

VERONICA - COLLABORATRICE RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Pronto?

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Veronica, puoi venire di qua per piacere? Luca dov’è?

VERONICA - COLLABORATRICE RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Sta qua.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Eh, se può venire qua un momento, magari!

VERONICA - COLLABORATRICE RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Amore, puoi andare un attimo da papà che ti vuole un attimo?

LUCA BERTAZZONI Nella partita Iva c’è scritto “Offre consulenza culinaria, corsi privati per attività”.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Sì, vabbè, insomma, quello se riescono a pagare. Sono tutti figli di una mignotta.

LUCA BERTAZZONI E allora chi ve lo fa fare? Io questo volevo capire.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Lo so, ha ragione. Dovremmo fare lì, aprire una pizzeria? Buttiamo via tutto.

LUCA BERTAZZONI Dico gli utili a suo papà, visto che non li sa, no. Nel 2019: 9.200 euro. Nel 2021: 1.700 euro. Nel 2018: 8.500 euro. 10.500 euro nel 2017.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Facciamo un po’ di difficoltà perché la tassazione in Italia, se non sbaglio, è fra le più alte d’Europa.

LUCA BERTAZZONI Facendo pochi utili, pagate poche tasse, questo è.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF Eh, beh, per forza.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Il dato di fatto su Vissani è che negli ultimi cinque anni ha dimezzato il fatturato e ha raddoppiato i debiti. Una volta fatturava nell’intorno di un milione e mezzo all’anno, adesso fattura nell’intorno di 750mila euro l’anno. I debiti erano un milione, adesso sono tre milioni. Lui da sempre dichiara utili di poche migliaia di euro all’anno. Cambia il fatturato.

LUCA BERTAZZONI Anche di modo considerevole, diciamo

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Dimezza o raddoppia il fatturato e il suo utile è sempre quello

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dopo un accertamento fiscale Gianfranco Vissani era stato condannato a pagare quattro milioni di euro per evasione. Lo chef ha poi provato a non pagare una parte della multa, intestando illecitamente i suoi beni al figlio Luca, motivo per cui sono stati entrambi condannati in via definitiva a sei mesi di reclusione, pena convertita in 45mila euro di multa ciascuno.

LUCA BERTAZZONI Voi avete avuto problemi con il fisco, no…

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Sì, in passato.

LUCA BERTAZZONI C’è questa condanna definitiva della Cassazione nel 2019.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) Veramente questa è stata una cosa poi pure archiviata, quindi, insomma, una cosa passata.

GIANFRANCO VISSANI - CHEF E poi la Cassazione ci ha dato ragione.

LUCA BERTAZZONI La Cassazione condanna lei e suo figlio a sei mesi convertiti in pena pecuniaria a 45 mila euro.

LUCA VISSANI - MAESTRO DI SALA RISTORANTE CASA VISSANI – BASCHI (TR) E poi dopo è stata convertita. Qua sembra che veramente siete venuti nella casa dell’evasore. Per carità, non sono un santo, questo capimose: devo trovare anche io il modo di vivere. Io li capisco molti imprenditori quando dicono: “Non bisogna chiamarla evasione, bisogna chiamarla sopravvivenza”.

SIGFRIDO RANUCCI INSTUDIO Sopravvivenza. In realtà le tasse servirebbero anche per quella degli altri, il diritto alla salute, all’istruzione, alla previdenza ma questo padre e figlio Vissani lo sanno bene. Buonasera. Allora, quello che però colpisce è che i bilanci di casa Vissani, nonostante registrino degli incassi anche milionari, insomma, alla fine gli utili sono una manciata di spicci. Questo significa che il contributo in tasse rispetto al fatturato è risibile. Ma questa è una condizione comune per molti ristoratori stellati. Lo vedremo. Anche se poi i Vissani, insomma, parlano di ristoranti stellati poco sostenibili, troppo costosi anche se applicano dei prezzi, 150 fino a 240 euro a persona bevande escluse, che appartengono a un target a due stelle quando invece a loro già gliene hanno tolta una. Però, il ragionamento sulla sostenibilità del ristorante stellato è serio. Soprattutto se si prende in considerazione il fatto che nel 2024 chiuderà il Noma di Copenaghen, premiato come il miglior ristorante al mondo. Lo chef René Redzepi ha annunciato che si prenderà due anni di pausa. Ha detto: “Il mondo della ristorazione stellata non è più sostenibile dal punto di vista economico ma anche dal punto di vista emotivo”. Ecco, è un paradosso se si prende in considerazione il fatto che invece per assaggiare le sue prelibate carni di renna e i gamberetti neri dei mari del Nord, bisogna aspettare ben sei mesi, tanto è lunga la lista d’attesa. Tornando, invece, agli chef nostrani è indubbio che esaltano le eccellenze alimentari del nostro paese, esaltano anche le caratteristiche di un territorio. Allora, bisogna decidere se aiutarli, sovvenzionarli magari anche condizionarli a dei controlli più severi se non si vuole che un’eccellenza alimentare italiana si trasformi in un baraccone vuoto e virtuale dietro il quale si nascondono evasione e soprusi e sfruttamento. Il nostro Luca Bertazzoni con la collaborazione della nostra Marzia Amico.

ANTONELLO COLONNA - CHEF Questo lo scrisse tanti anni fa un certo Pablo Picasso: “I grandi artisti copiano, i geni rubano”. Di artisti adesso ne abbiamo tanti, basta mettersi una giacca bianca a tracollo…

LUCA BERTAZZONI E so tutti chef!

ANTONELLO COLONNA - CHEF E sono tutti chef. E poi cominciamo a usare un nome che ci appartiene: so tutti cuochi. Questa porta ha 37 anni, io avevo 28 anni, tempo un anno è arrivata la stellina, la prima stellina Michelin. Una volta la stella generava veramente tanto reddito: se fatturavi 100mila lire l’anno con la stella ne fatturavi 200. Oggi, è inutile nasconderlo, non ha più quell’importanza. Adesso ci sono i social, quindi ti devi…

LUCA BERTAZZONI Devi diversificare, devi articolare…

ANTONELLO COLONNA - CHEF Devi diversificare. Fare solo il cacio e pepe non basta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO A Labico, un piccolo paese a pochi chilometri da Roma, lo chef stellato Antonello Colonna ha ampliato l’offerta per i suoi clienti, costruendo un resort di lusso.

ANTONELLO COLONNA - CHEF Qui ci troviamo in quella che per me è la sala museo, stiamo ospitando delle opere fiamminghe. Ci troviamo davanti a un’opera di Bruegel, non rappresenta il business: la mia attività è il cibo. Però ho voluto…

LUCA BERTAZZONI Dare una cornice, diciamo…

ANTONELLO COLONNA - CHEF Dare una cornice e far ruotare intorno al cibo tante belle cose. Qui abbiamo le stanze, sono 12. Tutte affacciano sul parco, qui tra un po' arriverà il tramonto e quindi provi ad immaginare come si sta bene. Qui invece del menù dei piatti ho messo il menù dei cuscini.

LUCA BERTAZZONI Uno esce dalle stanze...

ANTONELLO COLONNA - CHEF Esce dalle stanze in accappatoio e si rifugia in quest’altra piscina: è un’acqua oligominerale di sorgente a 34 gradi con un idromassaggio. Qui abbiamo le docce emozionali, un bagno turco molto grande e qui abbiamo il nostro fiore all’occhiello: è un hammam massage, l’ospite viene avvolto da schiume di sapone di Aleppo. Gli stellati hanno capito che non bastano venti coperti al giorno. Ogni tanto un catering, ogni tanto una cena privata…

LUCA BERTAZZONI Per campare, per tenere in piedi perché è costoso, questo voglio capire

ANTONELLO COLONNA - CHEF È molto costoso, sono i costi nascosti: gli arredi, la pulizia, l’ordine, i dettagli, i tovaglioli che si cambiano in continuazione. Sono tutti prezzi, sono costi nascosti.

LUCA BERTAZZONI Che però incidono molto.

ANTONELLO COLONNA - CHEF Che incidono molto. Qui solo in cucina sono otto, alla fine servono più di 30 persone. Un locale che ha 20 coperti e apre solo la sera, anche se ti metti sulla media di 150 euro a persona sono 3000, in 26 giorni sono 70mila euro: non ci fai niente.

CRISTIANO TOMEI - CHEF - FESTIVAL DEL GUSTO 2022 – 5/11/2022 Il cibo è cultura, basta! Questo palazzo è un monumento, i tortellini sono un monumento e le lasagne pure. Invece in Italia ci si fa gli applausi e poi ce ne sbattiamo.

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA Nessuno va da Bottura, da Cracco, solo pochi eletti perché sono ristoranti da elite. Quindi loro sono famosissimi quanto quegli altri, ma non per quello che fanno, ma per altre attività.

LUCA BERTAZZONI Quello che lei definisce “la droga degli chef”, le stelle Michelin.

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA Eh, lo chef vive per la stella Michelin.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Quest’uomo mascherato si chiama Valerio Visintin ed è il critico gastronomico del Corriere della Sera. Nasconde il suo volto per poter assaggiare in incognito le creazioni dei migliori ristoranti d’Italia, stiamo parlando di quelli stellati. Da anni mangia piatti come agnello sambucato arrosto, formaggio di capra e camomilla. O il famoso Umami, ovvero triglia ligure caramellata, teryaki, zenzero, lemongrass, peperoncino, pak choi e carota gialla.

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA Molte di queste creazioni sono immaginifiche, cose che non c’entrano niente con la cucina ma che giustificano questa allure di artista che hanno gli chef più quotati, perché se uno facesse della pastasciutta non potrebbe essere considerato un’artista, invece se ti inventi la pastasciutta - non pastasciutta che sta in un barattolo, che ha una fiammella sotto con del fumo, eh, questa roba passa per opera d’arte.

GIORGIO BARCHIESI - CHEF Prima cosa: olio buono, in dosi assolutamente generose. La pasta deve tirarsi il suo grasso, altrimenti non sa di niente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Giorgio Barchiesi, meglio noto come Giorgione, è invece un volto della televisione del Gambero Rosso. Nella sua trasmissione racconta una cucina genuina, golosa e rigorosamente tradizionale.

GIORGIO BARCHIESI - CHEF Cotica di guanciale, pezzo di reale di manzo, uno stinchetto di maiale che andremo poi a spolpare suadentemente. Non è che faccio la cipolla julienne finissima, la faccio così, “alla come viene”. Carota anche questa grossolana. Un lardo alto è di una bella maialona un po’ pesantona, di queste che hanno un po’ di anni, che hanno la carne sapida. Io do da mangiare nel senso che comunque preparo delle cose che non sono così complicate perché come vedete che stiamo facendo? Stiamo mettendo aromi e ciccia dentro una pentola. Sono stato anche in posti dove le cucine sono state gourmet: all’interno di queste stelle ci sono i bravi e i non bravi, ci sono i figli di un mercato e i figli della passione. Uno si deve divertire, cioè, se abbiamo l’ansia da prestazione pure in cucina diventa una tragedia: ma che stai a fa, la Rivoluzione francese? Stiamo a cucinà!

PETRA LOREGGIAN - CONDUTTRICE TELEVISIVA - PRESENTAZIONE GUIDA MICHELIN 2023 – 8/11/2023 Buonasera a tutti, buonasera! Benvenuti alla presentazione della Guida Michelin 2023.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Come ogni anno la Guida Michelin Italia ha organizzato la cerimonia per l’importantissima assegnazione delle stelle: il sogno di ogni chef.

PETRA LOREGGIAN - CONDUTTRICE TELEVISIVA - PRESENTAZIONE GUIDA MICHELIN 2023 – 8/11/2023 E allora partiamo subito, chiamando qui sul palco Andrea Aprea del ristorante Andrea Aprea di Milano.

LUCA BERTAZZONI Lei è molto critico sul meccanismo di assegnazione delle stelle, perché?

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA Perché non sappiamo qual è. La Michelin non ce lo dice, ci dice che ci sono 90 ispettori per tutta Europa. Facendo un rapido calcolo, 90 non bastano assolutamente, alla fine di ogni anno sarebbero più di 400 visite a testa per ogni ispettore, ecco.

LUCA BERTAZZONI Impossibile. Lei dice: “ogni anno la guida focalizza poi l’attenzione solo su un gruppetto santificato”. Lei usa questo termine, perché?

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA La guida contiene 3000 segnalazioni e 300 stellati, grosso modo le cifre sono queste. Quindi è una percentuale molto bassa, si parla solo di quelli perché non è una guida: è un gran giurì, è come fosse l’oscar della cucina.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Dietro le stelle c’è in realtà un mercato di nicchia: gli stellati rappresentano infatti lo 0,2% dei ristoranti italiani e hanno un fatturato che non raggiunge lo 0,4 del totale.

MASSIMO FERUZZI - AMMINISTRATORE UNICO JFC – CONSULENZA TURISTICA E TERRITORIALE Fatturato totale: 327 milioni di euro contro i 259 milioni del 2019. Questo incremento di fatturato si ha soprattutto per l’incremento dei prezzi dei ristoranti stessi.

LUCA BERTAZZONI Qual è la media, diciamo, di prezzo di un ristorante con una stella?

MASSIMO FERUZZI - AMMINISTRATORE UNICO JFC – CONSULENZA TURISTICA E TERRITORIALE Il prezzo medio con una stella oggi è 130 euro contro i 112 del periodo pre-pandemia.

LUCA BERTAZZONI Se saliamo di una stella, invece?

MASSIMO FERUZZI - AMMINISTRATORE UNICO JFC – CONSULENZA TURISTICA E TERRITORIALE Il prezzo arriva attorno ai 200 euro, 198 euro per la precisione. Maggiore ovviamente il prezzo per i tre stelle perché tocchiamo i 260 euro, anche qualcosa in più.

LUCA BERTAZZONI Se noi saliamo di stella in stella aumentano i prezzi, ma aumentano anche i costi per i ristoratori.

MASSIMO FERUZZI - AMMINISTRATORE UNICO JFC – CONSULENZA TURISTICA E TERRITORIALE Assolutamente sì, pensate che in un ristorante a tre stelle spesso il rapporto personale e cliente arriva anche ad essere di uno a uno, quindi un cliente un dipendente.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Personale qualificato, location alla moda e ambiente di lusso: tutto va a finire nel conto salato del cliente del ristorante stellato. GIORGIO BARCHIESI - CHEF Tu vieni da me e hai un grande antipasto al buffet, ti mangi quello che ti pare e quante volte ti pare. Quando ti sei stufato io ti porto due primi, due secondi, due contorni e un tris di dolci, dove non comandi più niente. Quello che arriva ti mangi, zitto e buono: 36 euro, bevande escluse. Se io ti faccio un menù come pare a me, io vado a comprare quello che in quel momento può costare il giusto perché ci sta e posso scegliere, non sono legato a una carta.

LUCA BERTAZZONI Cioè lei sceglie in base a quello che trova e che le piace?

GIORGIO BARCHIESI - CHEF In quel momento io vado in giro e trovo. Ho quello che mi telefona, l’allevatore qui vicino dice: “ho 20 agnelli, li vuoi”? Certo che li voglio. “Ho i capretti”, mandami i capretti. Se c’è questo tipo di libertà, posso proporti il prezzo giusto, altrimenti necessariamente devo alzare i prezzi, perché sennò non ce la fai.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con il suo menù a prezzi abbordabili per andare a mangiare nel weekend nel ristorante di Giorgione bisogna aspettare quattro mesi e mezzo. I ristoranti stellati in Italia hanno invece una media di 6.400 clienti all’anno, ovvero circa 22 al giorno.

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA Sono quasi tutti ristoranti che sono insostenibili dal punto di vista economico: consumano come una Ferrari, ma vanno come una Cinquecento.

LUCA BERTAZZONI Perché li tengono aperti questi ristoranti se le cifre sono queste?

VALERIO VISINTIN - CRITICO GASTRONOMICO CORRIERE DELLA SERA C’è un sacco di gente che crede che quella sia la strada giusta per svoltare, in realtà poi si ritrovano nei guai e difatti non capita raramente che gli chef anche stellati gettino la spugna.

LUCA BERTAZZONI Il personaggio dello chef stellato riesce a guadagnare paradossalmente di più fuori dal ristorante che nel ristorante?

MASSIMO FERUZZI – AMMINISTRATORE UNICO JFC – CONSULENZA TURISTICA E TERRITORIALE Assolutamente sì, nel ristorante spesso va in perdita. Genera però notorietà, genera immagine che si riverbera in un elemento positivo per lo chef stellato, che è appunto la possibilità di essere pagato per fare anche semplici comparsate televisive.

CONDUTTORE - PRESENTAZIONE GUIDA MICHELIN 2023 – 8/11/2022 Tre stelle al Villa Crespi, Antonino Cannavacciuolo, Orta San Giulio.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Per la prima volta lo chef Antonino Cannavacciuolo ha ottenuto il massimo riconoscimento della Guida Michelin.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Con i suoi ristoranti sparsi in tutta Italia e i programmi tv Masterchef, Cucine da incubo, Antonino Chef Academy e O’ mare mio, Cannavacciuolo ha saputo sfruttare al meglio il connubio fra ristorazione e televisione.

ANTONINO CANNAVACCIUOLO - CHEF - PRESENTAZIONE GUIDA MICHELIN 2023 – 8/11/2022 È un’emozione unica e un po’ la benzina per andare avanti. Grazie.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Cannavacciuolo è uno fortissimo. Realizza ricavi per 14 milioni di euro all’anno, è una media azienda: 11/12 milioni facendo il ristorante, il resto facendo la televisione.

LUCA BERTAZZONI Una cifra considerevole.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Eh, sì, 2 milioni e 700mila euro per andare in televisione non è proprio poco. Guadagna 1 milione e 300mila euro aggregato di tutte queste società ogni anno, che non è proprio…

LUCA BERTAZZONI Perché sono 100mila al mese.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO 100mila euro al mese con la tredicesima, pagate le imposte.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Guadagna più con la televisione che con la ristorazione: due milioni e 700mila euro solo dalla televisione ma a Cannavacciuolo vanno i nostri complimenti perché è un esempio virtuoso come imprenditore, la sua ristorazione va a gonfie vele. Quella degli altri? Insomma, cominciamo dal numero uno. Massimo Bottura, tre stelle Michelin, con la sua Francescana, che è stata premiata come il miglior ristorante del mondo più volte, nel 2017 aveva un giro d’affari di oltre 6,9 milioni di euro, oggi è salito a 11 milioni di euro, utile dell'esercizio: 2,7 milioni. Ha pure la Franceschetta, che distribuisce prodotti surgelati e precotti. Giro d’affari: 827mila euro, l’utile è solo però di 16mila euro. Poi c’è Bastianich: cinque anni fa aveva un giro di affari di due milioni di euro, oggi con la sua Orsone, che gestisce ristorante e b&b a Cividale del Friuli, è sceso a poco più di 500mila euro. Da fonti stampa sappiamo che il suo esercizio è stato chiuso per tre anni e gli utili sono appena 3600 euro. In Italia Bastianich guadagna anche grazie a una partecipazione in un’azienda che lavora prosciutti, il giro d’affari è di circa due milioni di euro, gli utili poco più di 44mila euro. Aveva un ristorante con Belen chiuso nel 2017, ha dei ristoranti invece America, a New York e Los Angeles. Carlo Cracco cinque anni fa aveva un giro di consulenze per un milione e due e un giro di affari per oltre sei milioni e due con la ristorazione. Oggi molti di quei ristoranti non ci sono più, la società che si occupa della sua immagine è scesa a circa 700mila euro, con un utile di oltre 250mila euro. Ha aperto nel 2017 il ristorante nella Galleria a Milano che ha un giro d’affari, fattura 3.300.000 euro, ma è in perdita per oltre mezzo milione di euro con la stessa società con cui gestisce il ristorante ha debiti invece per otto milioni di euro. Complessivamente, le sue società hanno accumulato debiti per 16 milioni di euro. Heinz Beck con la sua società di consulenze ha un giro d'affari di oltre 1,1 milione di euro per un utile pari a oltre 990 mila euro. Gestisce ristoranti a Roma, a San Casciano, a Pescara, in Portogallo, a Dubai. Bruno Barbieri con le sue consulenze, ha un giro d'affari di oltre 550mila euro e registra un utile di oltre 400mila euro. Ecco, il fatturato dei ristoranti stellati dopo la pandemia è salito, è passato dai 284 milioni del 2019 ai 327 milioni di oggi. Sono saliti anche come numero i ristoranti stellati. Prima della pandemia erano 334 oggi 378. Però, insomma, tranne Cannavacciuolo e Bottura, come abbiamo visto la maggior parte degli chef stellati guadagna più utili se fa televisione o se utilizza le consulenze perché non hanno costi di gestione. Però, insomma, poi devi arrivare però per andare in televisione ad avere la stella. Come si fa per ottenerla? L’abbiamo chiesto alla Guida Michelin che però con noi non ha voluto avere un confronto, ha detto: andate a vedere sul sito. Bene, noi siamo andati a vedere e c’è scritto che una stella viene assegnata ai ristoranti che utilizzano ingredienti di prima qualità, dove i piatti sono preparati secondo uno standard costantemente elevato. Per le due stelle, invece, serve la personalità e il talento dello chef che devono trasparire chiaramente dai suoi piatti. Le tre stelle, invece, si ottengono quando lo chef trasforma la cui cucina in forma d’arte. Ecco, noi invece cinque anni fa avevamo visto con il nostro Bernardo Iovene che dietro i riconoscimenti nella ristorazione, nel campo della ristorazione contavano anche i rapporti promiscui tra cuochi, fornitori e anche qualche critico amico. Poi, invece, basta che c’è uno che si inventa un gesto, diventa virale e anche se non ha un background va alla Coppa del Mondo.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Nusret Gokce lavorava in una macelleria di Istanbul, finché nel 2017 pubblica un video su Twitter mentre taglia la carne e la cosparge di sale. In due giorni quei 30 secondi di filmato vengono visti da due milioni e mezzo di persone. Questo gesto diventa il suo marchio di fabbrica che gli vale il soprannome di Salt Bae.

LUCA BERTAZZONI Lo conosce Salt Bae che fa il gesto famoso del sale?

ANTONELLO COLONNA - CHEF Me ne hanno parlato. Io manco so dove sta questo scienziato, se è a Dubai… Uno che parte e va a Dubai va lì perché questo fa così con il sale ed è diventato famoso sui social. Eh, cioè, posso dire che mi passa la voglia di fare questo? Però noi siamo cuochi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il successo è enorme e in un anno apre 13 ristoranti in giro per il mondo, da Abu Dabi a Miami. Solo a Londra ha fatturato otto milioni di euro nei primi quattro mesi del 2022. Lo andiamo a cercare lì, accanto a Buckingham Palace, ma scopriamo che in quei giorni è in Qatar, in campo accanto agli argentini neo campioni del mondo. A breve aprirà anche in Italia, a Milano, ma il ristorante non sarà per le tasche di tutti: hamburger e una bibita costano 120 euro, fino ad arrivare alla famosa bistecca extralarge, ricoperta da una foglia d’oro, che si potrà gustare alla modica cifra di 1600 euro.

ANTONELLO COLONNA - CHEF Ma qui il problema è chi ci va a mangiare in questi posti, no…

LUCA BERTAZZONI Lei è stato il primo ad andare in televisione. Uno dei primi quanto meno

ANTONELLO COLONNA - CHEF Sì, uno dei primi.

LUCA BERTAZZONI Anni?

ANTONELLO COLONNA - CHEF Novanta. Ogni sabato stavo in televisione con una mia rubrica di cucina. E ho detto: Signori… LUCA BERTAZZONI E si è fermato.

ANTONELLO COLONNA - CHEF Sono felice, mi sono fermato. Io faccio il cuoco nella vita, sono cinque generazioni, io voglio impresa, io sono un artigiano. E quanto può durare lo spettacolo?

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO L’estremo è stato toccato Gordon Ramsay in Cucine dell’inferno. Ha accumulato fino a 17 stelle Michelin. È l’icona del cuoco cattivo, semina terrore dentro e fuori le cucine. Alla sua scuola è cresciuto Joe Bastianich, che ha applicato i suoi insegnamenti nelle prime edizioni di Masterchef. Ramsay ha descritto la cucina come un luogo di grande stress, orari e fatiche disumani, luogo di abusi rapporti e rapporti tossici. Ha ammesso anche l’uso di cocaina. Ramsay ha un impero da 200 milioni di dollari. Dopo la guerra in Ucraina e lo scoppio della pandemia, lo chef avrebbe un buco da 60 milioni di dollari e ha licenziato 300 persone.

GIORGIO BARCHIESI - CHEF Vedi come si accartoccia il guanciale? Vedi questi bei pezzetti di lardo come stanno vetrificando? La cucina della televisione nel 90% dei casi è cucina spettacolo.

LUCA BERTAZZONI Però quanto aiuta poi, no, la televisione una volta che uno…

GIORGIO BARCHIESI - CHEF Beh, è visibilità, non c’è dubbio. Cioè, per quanto mi riguarda io avevo il ristorante che già viaggiava molto bene, ma adesso hai dei tempi molto più lunghi di prenotazione perché comunque sei Giorgione. La televisione te lo dà un valore aggiunto, ma tu devi sapere che non ce l’hai, se no vai in alto e fai rumore quando cadi.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Uno dei volti più noti dello show cooking televisivo è stato senza dubbio Carlo Cracco, che oggi, però, critica quel mondo che ha contribuito al suo successo professionale.

CARLO CRACCO – CHEF – FESTIVAL DEL GUSTO – 5/11/2022 Lo show va bene, ci sta, ma la cucina è tutto fuorché show, ecco. Poi è molto bello vedere e divertirsi davanti a due che, no, tirano i piatti e fanno delle cose che tutti vorremmo fare, ma nessuno può fare.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Lui aveva iniziato con la televisione e guadagnava molto bene: negli anni passati 1 milione, 1 milione e mezzo, 1 milione. Però nel 2021 è a 250mila euro di utile.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Diminuiti gli impegni con la televisione e di conseguenza il considerevole fatturato che ne derivava, Carlo Cracco è tornato a occuparsi a tempo pieno dei suoi ristoranti.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Cracco non so perché ha questo vizio di aprire ristoranti dove paga degli affitti mostruosi. Pagare 1 milione e 200mila euro per avere un ristorante in Galleria a Milano, adesso voglio dire…

LUCA BERTAZZONI 1 milione e 200mila euro di affitto?

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Di affitto, di puro affitto. È chiaro che perde, lui in Galleria a Milano da quando ha aperto ha sempre perso. Anche nel 2021, che è tornato a fatturare 3 milioni e mezzo, la perdita è di 500mila euro.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, i prezzi che troviamo nel bistrot di Cracco in Galleria sono molto alti: una bottiglia d’acqua costa otto euro e alla fine ne spendiamo 72 per un uovo e un tagliolino al ragù. Nel suo ristorante al primo piano propone, invece, il menù degustazione a 200 euro, bevande escluse.

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Andando avanti a perdere, la società che gestisce il ristorante in Galleria ha debiti per otto milioni di euro. Diciamo che, aggregate, le società di Cracco hanno debiti per oltre 16 milioni di euro.

LUCA BERTAZZONI 16 milioni

GIANGAETANO BELLAVIA – ESPERTO DI RICICLAGGIO Fa ricavi per dieci milioni in tutti questi ristoranti, ma perde. Però dicono che la pizza è buona.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ma una margherita costa anche 22 euro. Insomma, avremmo voluto chiedere a Cracco perché sceglie locali che hanno un affitto tale da impattare poi sui suoi affari, soprattutto sui debiti. Però, lo staff chi ha detto che non c’è, è impegnato nella realizzazione di un nuovo programma televisivo. Ecco, Cracco figliuol prodigo ha capito che non conviene stare lontano dalla tv, perché ti dà un valore aggiunto anche se, come dice Giorgione, non ce l’hai. Così come ti dà un valore aggiunto anche l’utilizzo dei social. È stato sufficiente che un ex macellaio, un turco, facesse scivolare del sale lungo il braccio, lungo il gomito da ipnotizzare oltre 50 milioni di follower. Si tratta di Salt Bae. Insomma, poi c’è Gordon Ramsay che ha sette stelle Michelin, è arrivato anche a 17, un patrimonio da 200 milioni di dollari, 50 ristoranti nel mondo, chef cattivissimo e violento in tv, quanto invece è un genio nel food: 14 milioni di follower. Più distaccati invece i nostri. Cannavacciuolo: 3 milioni; Borghese: 1,9 milioni; Bottura: 1,5 milioni; Barbieri: 1,3; Carrara, che è un pasticciere, 1,3; 1,3 anche Bastianich; Iginio Massari, altro pasticciere, 993.000 follower; Cracco 848.000 follower. Ecco, Alessandro Borghese è il famoso chef che qualche tempo fa ha sollevato un polverone con le sue dichiarazioni. Ha detto: “Oggi chi si affaccia a questa professione vuole garanzie, stipendi più alti, turni regolamentati, percorsi di crescita”. Ecco, “Non trovo personale”, sono pochi quelli che vogliono veramente realizzare il loro sogno di diventare degli chef. Ecco, quanto è coerente Borghese con le sue dichiarazioni? Lo vedremo. E quanto invece è per i giovani veramente conveniente e attraente lavorare nei ristoranti o c’è qualcosa di perverso, che non funziona nel mondo della ristorazione?

LUCA BERTAZZONI Qual è il menù che lei propone?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Gli aperitivi con doppie portate all’italiana di mare, i doppi primi piatti, una bella frittura di calamari, la carne, di tutto e di più.

LUCA BERTAZZONI Quanto costa a persona, più o meno?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Un menù fatto bene intorno ai 40/50 euro

LUCA BERTAZZONI A persona?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Fatto bene, bene

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO I cantanti neomelodici accompagnano con la loro musica le cerimonie che si svolgono a Villa Andrea, un locale di successo che ha reso famoso Frignano, un piccolo paese di 8mila abitanti alle porte di Caserta.

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Abbiamo eventi tutti i giorni, oggi ne abbiamo cinque: due 18 anni, un compleanno di 50 anni, un battesimo e una laurea; quindi, accontentiamo un po’ tutti i tipi di eventi.

LUCA BERTAZZONI E tutti i giorni è così, più o meno?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Il lunedì è uguale alla domenica, la domenica è uguale al lunedì: è tutti i giorni domenica.

LUCA BERTAZZONI E quanta gente c’era stasera più o meno stasera, più o meno, eh?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Mah, un 380, 410

LUCA BERTAZZONI Ci ha guadagnato stasera.

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Non c’è male, non c’è male

LUCA BERTAZZONI Come sempre, come dice lei?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Come tutti i giorni.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO La pasta con cozze e vongole trasportata in sala su una barca con fuochi d’artificio è il momento clou della serata e viene servita agli ospiti da tutto lo staff di Villa Andrea.

LUCA BERTAZZONI Quante persone lavorano qui per lei?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Più o meno 15, una quindicina.

LUCA BERTAZZONI No di più ne ho visti, dai, saranno almeno 30.

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Eh, vabè, poi ci stanno quelli a chiamata, quindi dipende dall’evento al momento.

LUCA BERTAZZONI Eh, però mi ha detto che più o meno tutti i giorni è così, no

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Sì, noi facciamo delle chiamate al momento.

LUCA BERTAZZONI Al momento. Però io ho visto nel suo bilancio che ha solo cinque dipendenti, no

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Più o meno.

LUCA BERTAZZONI Però cinque son pochi di dipendenti per tutto questo.

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Mah, una decina, dieci, dodici.

LUCA BERTAZZONI No, no, a bilancio sono cinque.

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Eh, eh…

LUCA BERTAZZONI Ma li paga bene, sì?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Non c’è male, perché sennò non vengono. Sempre più di 50 euro.

LUCA BERTAZZONI Sempre più di 50 euro. Tutto regolare comunque, no?

ANDREA PEZONE - PROPRIETARIO VILLA ANDREA – FRIGNANO (CE) Tutto regolare.

CORO MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Lavoro, salario, dignità!

LAVORATORE 1 MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Ci ripetono che è normale non avere il giorno libero, che è normale che non ci venga pagato tutto in busta paga: questa normalità ci ha rotto i coglioni!

CORO MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Nei luoghi del lusso e del divertimento vogliamo diritti e non sfruttamento!

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ad agosto scorso centinaia di persone hanno bloccato il traffico di Forte dei Marmi per denunciare le condizioni di lavoro nel mondo della ristorazione.

LAVORATORE 4 MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Ho lavorato a 2 euro e 50 l’ora, ho lavorato a 5 euro l’ora, ho lavorato dieci ore al giorno.

LAVORATORE 4 MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Questo è il locale di Flavio Briatore, un uomo che vende pizze che valgono come dieci ore del nostro lavoro.

CORO MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Salario, diritti, dignità!

LAVORATORE 1 MANIFESTAZIONE FORTE DEI MARMI Siamo i camerieri in giacca e cravatta nei ristoranti di lusso. Siamo anche quelli che hanno un contratto farlocco.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Il mondo della ristorazione è fatto di tanti giovani che hanno intrapreso un impegnativo ciclo scolastico con il sogno di diventare grandi chef.

ENRICO CAMELIO - DOCENTE ISTITUTO ALBERGHIERO PELLEGRINO ARTUSI - ROMA Qui c’è il Pellegrino Artusi, una delle scuole più importanti di Roma. Abbiamo tantissime richieste di ristoranti che vogliono i nostri ragazzi.

LUCA BERTAZZONI Voi preparate questi ragazzi, no, vanno a fare uno stage fuori e che situazione trovano?

ENRICO CAMELIO - DOCENTE ISTITUTO ALBERGHIERO PELLEGRINO ARTUSI - ROMA Questi ristoranti stellati, i ristoranti gourmet di altissimo livello hanno approfittato di questa cosa del nome, “se fai qui c’è un percorso”.

LUCA BERTAZZONI I ragazzi cosa dicono, tornati dallo stage o quando stanno per entrare nel mondo del lavoro?

ENRICO CAMELIO - DOCENTE ISTITUTO ALBERGHIERO PELLEGRINO ARTUSI - ROMA Ma spesso non lo finiscono. Almeno l’80% dei ragazzi mollano.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Secondo il famoso chef televisivo Alessandro Borghese, ai giovani manca lo spirito di sacrificio. In una recente intervista ha dichiarato: “Chi si affaccia a questa professione vuole garanzie, stipendi più alti, turni regolamentati. Non trovo personale, oggi pochi vogliono veramente fare gli chef”. Lo andiamo a cercare nel suo ristorante milanese accanto a City Life, ma di lui non c’è traccia.

LUCA BERTAZZONI Buongiorno chef, abbiamo provato a cercarla ieri al ristorante ma non l’abbiamo trovata.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF No, ieri non ero di turno.

LUCA BERTAZZONI Eh, mi dicono che non frequenta molto.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF No, frequento parecchio però stavo all’altro ristorante, io stavo a Venezia.

LUCA BERTAZZONI “I giovani non hanno voglia di lavorare, nessuno vuole fare più questo mestiere”.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF No, è stata male interpretata. Non ho mai detto che i giovani non hanno voglia di lavorare.

LUCA BERTAZZONI Non hanno spirito di sacrificio, questo, però, era virgolettato, eh.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF Sacrificio: questo è un lavoro in cui c’è bisogno di sacrificio, c’è poco da fare. Ti devi svegliare presto la mattina e devi lavorare durante i giorni della settimana, feste comandate quando gli altri stanno in vacanza, sennò non fai il cuoco e non fai il ristoratore. Lavorare fisicamente in cucina è un lavoro faticoso.

LUCA BERTAZZONI Anche perché poi sono molti giovani, appunto, sono pagati poco.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF I giovani vanno retribuiti, però devi essere pure capace a fare qualche cosa. Cioè richiedere senza avere delle basi, cosa che tante volte può accadere, è sbagliato. Una volta pagavi tu per andare a imparare un mestiere, no, io ho fatto tanti lavori alla pari dove venivo pagato vitto e alloggio per imparare il mestiere e poi venivo anche stipendiato nella maniera adeguata a quelle che erano le mie capacità dell’epoca. C’è da faticare, ragazzi.

LUCA BERTAZZONI Eh! Però, lei lo sa che la normalità

ALESSANDRO BORGHESE – CHEF È un lavoro che bisogna fare…

LUCA BERTAZZONI La normalità, insomma, è ben lontana da quello che lei dice.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF In questo ambiente come in tanti ambienti c’è chi ne approfitta, assolutamente sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Che il mondo della ristorazione sia difficile lo si capisce leggendo i bilanci del ristorante che Alessandro Borghese ha aperto a Milano. Nel 2021 ha perso 74.000 euro, mentre nello stesso anno la società AB Normal, che si occupa principalmente del business televisivo dello chef, fattura quasi 1 milione e 800mila euro.

ALESSANDRO BORGHESE - TV TALK – 15/01/2022 Mi hanno fatto quest’offerta di condurre un programma puro, un game show puro che non ha niente a che vedere con la cucina, ci ho messo un po’ di cucina dentro pure io, però lo rifarei, lo rifarei, mi sono molto divertito.

LUCA BERTAZZONI Mi dicono che fa più tv che ristorazione ormai, no…

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF Difficile fare più tv che ristorazione, diciamo che stiamo sul 60 - 40.

LUCA BERTAZZONI Però io ho visto i suoi bilanci, no, ho visto che lei nel ristorante non va troppo bene: nell’ultimo anno ha perso 74mila euro qui a Milano dico. Mentre la tv la sua società ha fatturato 1 milione e 800mila euro.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF Attenzione, aspettiamo che ci spostiamo.

LUCA BERTAZZONI Sì. Ha fatturato 1 milione e 800mila.

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF Sono business floridi che funzionano, su questo te lo posso assicurare.

LUCA BERTAZZONI Io l’ho visto però il bilancio, è un po’ in perdita, però vabè…

ALESSANDRO BORGHESE - CHEF Diciamo che tra i catering, i banchetti, tra i ristoranti e tutto quello che è il mondo della ristorazione che gira intorno, non mi posso assolutamente lamentare.

LUCA BERTAZZONI Cioè, il business vero è la tv.

GIANGAETANO BELLAVIA - ESPERTO DI RICICLAGGIO Ma sì, il business vero è quello. Non compra la carne, non paga la luce, non paga l’affitto. Quelli che fanno televisione guadagnano tutti molto bene, chi cucina fa fatica.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Eppure, la voglia di lavorare dietro i fornelli c’è, lo dimostrano i tanti ragazzi che pur di entrare nel mondo del lavoro si iscrivono anche nelle costosissime scuole di cucina conosciute in tutto il mondo.

STUDENTESSA SCUOLA ALBERGHIERA Il corso base 5mila e il corso superiore siamo sui 13mila.

LUCA BERTAZZONI Però ti ha dato questa scuola l’opportunità di fare degli stage.

STUDENTESSA SCUOLA ALBERGHIERA Ho trovato condizioni allucinanti, orari dalle 16-17 ore quindi si inizia alle 8 e finisce se tutto va bene a mezzanotte.

LUCA BERTAZZONI Anche per gli stagisti valgono le 40 ore settimanali.

STUDENTESSA SCUOLA ALBERGHIERA La scuola ci ha detto che anche se facciamo 11 o 12, sempre 8 ore dobbiamo scriverci. Mi assentavo un attimo per andare in bagno e sentivi lo chef che urlava il tuo nome, mi metteva angoscia. A scuola ti fanno il brain washing, ti dicono che questo è normale quando tu devi iniziare questo percorso per poter far carriera nella tua vita.

ENRICO CAMELIO - DOCENTE ISTITUTO ALBERGHIERO PELLEGRINO ARTUSI - ROMA Tanti chef stellati, che io ho fatto collaborazioni importanti, non mi va di fare i nomi. Soprattutto quelli giovani non hanno capito che invece bisognava investire sui ragazzi e non farli soffrire.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma il problema non è solo la gavetta, perché anche chi prova a tornare in Italia dopo essersi specializzato e aver fatto lo chef ad alti livelli in giro per il mondo, trova una realtà fatta di doppi turni e paghe da fame.

CHEF All’estero fai un colloquio e ti chiedono: “Quanto vuoi? Quanto è il prezzo per il tuo lavoro?”. In Italia non si chiede quanto si prende, lo scopri al primo stipendio che ti arriva dopo il 15 del mese successivo.

LUCA BERTAZZONI E che scopri?

CHEF Uno stipendio che magari è mezzo in nero e mezzo in busta, magari stai lavorando a un full time e il contratto è part time. Con la scusa che stai lavorando per uno stellato allora è permesso tutto e tu devi sottostare a qualsiasi richiesta.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Ma quanto valgono oggi dieci anni da chef all’estero se provi a cercare un lavoro a Milano?

RISTORATORE 1 Se ti va bene facciamo 15 giorni senza contratto e ti do mille euro. Noi abbiamo uno staff completamente del Bangladesh. Loro non vanno mai a casa perché abitano lontano, quindi si riposano qui dentro sui divani, noi chiudiamo e poi riattaccano loro alle 5 e mezzo/6. Sono macchinette che camminano e lavorano molto bene.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Mille euro in nero per 15 giorni di prova: questa la prima offerta. Nel secondo colloquio almeno si parla di un contratto, ma il livello e lo stipendio sono adeguati alla posizione di chef?

CHEF Tu mi hai accennato al telefono di un quinto livello, ma il ruolo di responsabile di cucina è il primo o il secondo.

RISTORATORE 2 Il livello primo e secondo non possiamo permettercelo. È solo una questione di costi, quindi che mi stai chiedendo?

CHEF 2200 euro.

RISTORATORE 2 E se non è tutto dentro?

CHEF Tutto dentro è meglio, lo so benissimo che a te costa molto di più.

RISTORATORE 2 Il doppio! CHEF Però lì dentro ci sono anche i contributi che poi vanno nella mia pensione.

MANUEL CARUSI - ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO - ROMA Allora ragazzi, questa è la facciata principale, voi due andate su questo lato qui, voi due su quest’altro lato, io entro dall’ingresso principale e ci vediamo dentro, ok, così evitiamo fughe laterali.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Entriamo in un ristorante di lusso alle porte di Roma, dove ci sono cinque lavoratori fra cucina e sala.

ISPETTORE DEL LAVORO La necessità è quella di recuperare i documenti.

ISPETTRICE DEL LAVORO E soprattutto è quella di bloccare le due uscite.

LUCA BERTAZZONI Perché possono scappare?

ISPETTORE DEL LAVORO Chi non sta in regola, sì.

ISPETTRICE DEL LAVORO Lei ha firmato un contratto di lavoro?

LAVORATORE 1 RISTORANTE No.

ISPETTRICE DEL LAVORO Ha preso accordi sulla retribuzione che le verrà data?

LAVORATORE 1 RISTORANTE No, ancora no.

MANUEL CARUSI - ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO - ROMA Quando dicono che è in prova è un lavoratore irregolare.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Una normalità che si ripete anche con un altro lavoratore del ristorante.

ISPETTRICE DEL LAVORO Lei lavora per questa società, che ruolo ha?

LAVORATORE 2 RISTORANTE Eh, consulente.

ISPETTRICE DEL LAVORO Quindi ha una partita Iva?

LAVORATORE 2 RISTORANTE No, nel momento in cui serve qualche aiuto, qualche consulenza… Chiamiamola consulenza.

ISPETTRICE DEL LAVORO Senta, invece la divisa chi gliel’ha data?

LAVORATORE 2 RISTORANTE Sempre loro. Diciamo me la mettono loro, dice guarda: “Indossa così, vestiti così”.

ISPETTRICE DEL LAVORO Come viene retribuito?

LAVORATORE 2 RISTORANTE Ci mettiamo d’accordo, vengo magari a mangiare una cosa qui con loro.

ISPETTRICE DEL LAVORO Come viene pagato? Giornalmente?

LAVORATORE 2 RISTORANTE Sì.

ISPETTRICE DEL LAVORO 40/50 euro al giorno?

LAVORATORE 2 RISTORANTE Sì.

ISPETTRICE DEL LAVORO Possiamo dire che quindi il rapporto durante i fine settimana c’è stato sempre in tutto questo periodo? Marzo, aprile fino a dicembre.

LAVORATORE 2 RISTORANTE Sì.

LUCA BERTAZZONI FUORI CAMPO Alla fine del controllo arriva il conto salato per il titolare del ristorante.

ISPETTRICE DEL LAVORO Lei sta impiegando due lavoratori non regolari. 500 è la prima rata e la restante parte viene 2.100, quindi diventano 2.600. Se però entro domattina alle 12 non assume i lavoratori, deve chiudere il locale.

MANUEL CARUSI - ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO - ROMA Due lavoratori su cinque in nero.

LUCA BERTAZZONI È un dato impressionante, perché è quasi la metà, il 40%.

MANUEL CARUSI - ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO - ROMA Eh sì, è quasi la metà e diciamo che siamo andati anche bene, di solito raggiungiamo anche picchi del 90% di personale…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Sono così alte perché dall’altra parte gli ispettori sono pochi. Lo scorso anno hanno effettuato 8725 ispezioni e hanno accertato 10.350 violazioni sui lavoratori. Ecco, calcolando, insomma, che i locali di ristorazione sono 196mila nel nostro Paese, di questo passo impiegherebbero 22 anni per controllarli tutti. Poi, che il termometro della passione sia in calo lo dimostra anche il numero degli iscritti agli istituti professionali alberghieri: nel 2014 erano circa 64mila i ragazzi che li hanno frequentati, oggi, nel 2022, sono scesi a 34.000. Insomma, è finito l’effetto Masterchef, anche perché una cosa è quello che fanno vedere in tv, l’altra è la realtà che ti sbattono in faccia quando entri in un locale dove i ragazzi scoprono anche di non essere tutelati.

Il bisfenolo è presente in quasi tutti i pomodori pelati, come evitarlo. Roberto Demaio su L'Indipendente lunedì 3 luglio 2023.

Un nuovo test ha analizzato 20 confezioni di pomodori pelati, quasi tutti confezionati in lattina, scoprendo che il bisfenolo A è ancora un grosso problema. Il bisfenolo (BPA) è una sostanza impiegata nei recipienti per uso alimentare e può provocare gravi danni alla salute. È provata la sua correlazione con l’alterazione del sistema nervoso, riproduttivo ed immunitario e recentemente è stato collegato anche a problemi di obesità e al tumore mammario. Dalle analisi pubblicate sul mensile dei consumatori tedeschi Öko-Test, 18 lattine hanno superato il limite critico, superando addirittura di 28 volte il limite considerato innocuo dalle autorità europee. Solo una marca si è salvata ed è in vetro. Alcune tra le marche coinvolte sono italiane e, con pochissime eccezioni, tutti i barattoli contengono pomodori italiani. Tra i nomi anche Cirio, Mutti e i pelati prodotti da La Doria per Lidl.

L’indagine si è concentrata in particolare sul bisfenolo A. Lo scopo era capire se questo può migrare dai rivestimenti delle lattine al pomodoro. Si è voluto verificare anche se i prodotti fossero contaminati da residui di pesticidi o tossine delle muffe. Tutti i pomodori pelati in scatola del test hanno superato la dose giornaliera consentita. D’altra parte, solo i 2 prodotti in vetro sono puliti. Öko-Test, il mensile dei consumatori tedeschi che ha pubblicato le analisi, ha specificato che “con un cibo in scatola di un fornitore del nostro test, un adulto del peso di 60 kg assume 28 volte più bisfenolo A di quanto l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) consideri innocuo secondo le ultime stime”. Tuttavia, la dose giornaliera tollerabile non è vincolante. Non si tratta quindi di un limite legale. Quindi anche in questo caso i pomodori sono assolutamente a norma di legge. La cosa che stupisce maggiormente è che a superare questi limiti sono anche i pomodori confezionati in lattine “BPA free”, ovvero quelle per cui la sostanza non dovrebbe essere usata per il rivestimento interno.

Il Bisfenolo A (BPA) è prodotto sin dagli anni ’60 dello scorso secolo ed è una sostanza chimica molto utilizzata in tutti i paesi industrializzati. È impiegato principalmente nella produzione delle plastiche in policarbonato, utilizzate nei recipienti per uso alimentare, e nelle resine epossidiche che compongono il rivestimento protettivo interno presente nella maggior parte delle lattine per alimenti e bevande. Gli usi in campo non alimentare vanno dalla carta termica degli scontrini ai dispositivi odontoiatrici. Il BPA è considerato un interferente endocrino, ovvero una sostanza in grado di danneggiare la salute alterando l’equilibrio endocrino, soprattutto nella fase dello sviluppo all’interno dell’utero e nella prima infanzia. Gli studi sperimentali, ed anche un numero crescente di studi epidemiologici indicano che il BPA ha effetti estrogenici, che hanno una vasta influenza sulla funzione riproduttiva, ma anche su altre funzioni dell’organismo. Il BPA, pertanto, può alterare lo sviluppo del sistemi riproduttivo, di quello nervoso ed immunitario. Recentemente sono stati scoperti alcuni effetti particolarmente preoccupanti sull’aumento del rischio di obesità e di tumore mammario. Il Bisfenolo A può passare in piccole quantità dai recipienti che lo contengono ai cibi e alle bevande, soprattutto se i materiali non sono perfettamente integri e sono utilizzati ad alte temperature.

Sempre secondo il test, fortunatamente i pesticidi non sembrano essere un problema e neppure le tossine della muffa, le quali sono state trovate in un solo prodotto. Importante sapere che il Bisfenolo A è una molecola usata come additivo nella produzione di plastiche e lattine, quindi acquistare o conservare i pomodori pelati in bottiglie di vetro pone al riparo dalla sua assunzione. [di Roberto Demaio]

Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 9 maggio 2023. 

«Di Pachino, di Pachino: si dice di Pachino e non Pachino!», ripete come un mantra Sebastiano Fortunato, presidente del Consorzio di tutela del pomodoro di Pachino, un prodotto che è diventato nel tempo un vero e proprio simbolo della "pomodoritudine". Al punto che l'ortaggio ha quasi sostituito il villaggio nell'immaginario gourmet. […]

La produzione si trova nel "tallone" della Sicilia, un'estensione di dodici milioni e mezzo di ettari che va da Noto a Ispica, passando per Portopalo, Marzamemi e Pachino, con una produzione in continua crescita (circa 8 milioni e mezzo di kg i numeri del commercializzato).

[…] Paolo Campisi, un ristorante romantico, una struttura ricettiva sul mare di Marzememi, e una storica straordinaria azienda di famiglia dedicata alla bontà […] interviene con chiarezza:  «Quando si parla di pomodori di Pachino non si tratta solo di una tipologia. La più conosciuta è il ciliegino, rosso lucente, bacca piccola, versatilità assoluta. Poi c'è il tondo liscio che, verde scuro, è imbattibile in una insalata, il plum e il mini plum, quest'ultimo dolce come una caramella, e il costoluto, meravigliosa "bestia" da insalate».

Lontane ormai le illazioni su una derivazione dall'agricoltura genetica israeliana. Con tranquillità il presidente Fortunato ricorda: «Il primo seme del ciliegino era dell'azienda israeliana Hazera, poi riprodotto da altre aziende sementiere in tutto il mondo.  È solo nel nostro territorio, però, che ha trovato un habitat naturale grazie al microclima perfetto - sole, terra e acqua un po' salmastra - creando il miracolo di un prodotto che per le sue caratteristiche è senza paragoni».  […]

A mano. 3600 secondi per 100 chili di pomodori. La raccolta e in generale l’impiego della manodopera agricola rappresenta un tema ancora molto problematico. Non è più possibile ignorare quale forma di trattamento lavorativo si nasconde in un barattolo di passata a poco prezzo, e i cambiamenti climatici stanno peggiorando una situazione già difficile

3.600. Sono i secondi che servono per raccogliere un centinaio di chili di pomodori a mano. Un’ora per racchiudere il sole, se vogliamo mantenere un animo romantico e spiccatamente italiano. Un’ora faticosa e spesso condita, per rimanere in tema, di lati oscuri e poco edificanti, se andiamo a ragionare su quello che, ancora oggi, è il mercato del lavoro nel prodotto che, forse più di tutti, rappresenta il Bel Paese.

È di qualche mese fa, infatti, l’indagine condotta da una rivista tedesca che, ancora una volta, ha cercato di far luce sulle condizioni di lavoro di chi raccoglie i pomodori e l’ultimo studio del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, pubblicato qualche mese fa, ha voluto mettere l’accento sui tanti braccianti stranieri, inseriti in un disegno fatto di baraccopoli, senza corrente e senza acqua, con turni di lavoro che coprono una media di quattordici o sedici ore al giorno. Un mercato privo di sostenibilità umana, quindi, che ora sta cominciando a scontrarsi anche con tutta un’altra serie di problematiche sociali e ambientali.

Per farla breve, un piatto di spaghetti al pomodoro oggigiorno rappresenta più una sfida che un momento in un cui rifugiarsi nella rassicurazione di un gusto confortante.

Il mercato del pomodoro, infatti, è in crisi. I motivi sono pressoché scontati e si ripetono, più o meno identici, in buona parte del settore agricolo. Cambiamenti climatici, crisi economica, guerra. Il pomodoro, forse, soffre di più di altri. E questo vale un po’ dappertutto in Europa. Anche in Italia. Lo dimostra un’analisi elaborata dall’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare (Ismea) su dati Istat: il pomodoro nostrano continua ad avere una produzione in crescita, ma le prospettive non sono totalmente rosee. «Il pomodoro da mensa rappresenta il cardine del reparto ortofrutta nei punti vendita della Gdo» ha spiegato Fabio Dal Bravo, responsabile dei Servizi per lo sviluppo rurale di Ismea – «ed è il principale prodotto, tra gli ortaggi, presenti nel paniere d’acquisto delle famiglie in Italia. Si attende però un peggioramento per quanto riguarda l’approvvigionamento, in quanto l’Italia rimane dipendente per una quota di circa il 10% di prodotto estero».

Qui da noi, infatti, consumiamo circa 18 chilogrammi di pomodori a testa all’anno. Ma le colture cominciano a risentire sia dei costi di produzione (nelle serre sono il doppio rispetto alle coltivazioni da campo) sia del clima che non segue più l’andamento delle stagioni. Nell’ultimo anno, poi, sono scese sia le esportazioni, con evidente diminuzione degli introiti, sia le superfici coltivate. E scendono anche gli investimenti, non più convenienti come un tempo in questo settore. Il risultato è che il mercato italiano comincia a risentire della crisi di altri paesi esportatori.

Spagna, Marocco e Turchia, infatti, stanno iniziando a chiudere i rubinetti. La colpa è da attribuirsi al cambiamento climatico, con un inverno, questo, senza piogge e un freddo improvviso nelle ultime settimane, che ha confuso parecchio la terra e le sue colture. Il governo marocchino, ad esempio, ha limitato l’export, sia verso gli altri paesi africani, sia verso il Nord Europa. La Turchia, invece, per aiutare il mercato interno ed evitare aumenti dei prezzi, aveva applicato delle misure restrittive valide sino al 14 aprile, che poi però ha revocato.

«L’Italia ancora oggi resiste grazie ai pomodori che vengono dalla Sicilia, ma in alcune città come Napoli, Padova e Bergamo la presenza dei ciliegini ai banchi dell’ortofrutta comincia a scarseggiare. Anche a Roma si segnala un calo della disponibilità del prodotto, ma comunque la crisi sembra più contenuta. In tutto il Paese si registra un aumento dei prezzi di tutte le qualità dei pomodori di almeno il 30% rispetto alle medie del periodo». Sono le parole di Massimo Pallottini, presidente di Italmercati, l’ente che raggruppa i mercati italiani all’ingrosso, e che racconta un quadro che porterà, irrimediabilmente, il costo dei pomodori a salire.

Certo, qui, complici il sole e la tradizione agricola, siamo lontani dalla situazione in cui si trovano altri territori, che in questo periodo sono proprio a corto del frutto rosso e stanno cercando di correre ai ripari con il razionamento. Nel Regno Unito alcune aziende della grande distribuzione hanno deciso di limitare a un massimo di tre confezioni alcuni prodotti, come peperoni, cetrioli e, appunto, pomodori. Medesimo scenario anche in Irlanda, dove la dipendenza dalle importazioni dall’estero è massiccia e i costi energetici non permettono coltivazioni in serra adeguate al bisogno.

Scaffali vuoti che hanno necessità di nuove politiche e di nuovi investimenti. Per un’economia che, in qualche modo, deve ricercare una nuova scala. E nel frattempo c’è chi scomoda persino Maria Antonietta con la sua celebre frase «Se non hanno più pane, che mangino brioche». Therese Coffey, segretario di Stato per l’ambiente, l’alimentazione e gli affari rurali del governo britannico, ha infatti proposto ai cittadini di mangiare rape di produzione autoctona al posto di verdure importate come i pomodori. Provocazione o encomio di un’autosufficienza economica? Chissà! Vero è che con le rape gli spaghetti al sugo non si possono fare e il pomodoro rimane un alimento da proteggere, nel valore della sua universalità.

L’impero dell’oro rosso, il documentario che svela la filiera del pomodoro. Federico Mels Colloredo su L'Indipendente il 25 agosto 2022.

Un documentario d’inchiesta del 2017 della durata di 55 minuti, ispirato allo scomodo bestseller e caso editoriale “Rosso Marcio” di Jean-Baptiste Malet, (Piemme Editore), realizzato dallo stesso Malet giornalista investigativo e collaboratore per Le Monde Diplomatique e per Charlie Hebdo. “L’impero dell’oro rosso” svela i retroscena della commercializzazione del pomodoro e tutti i suoi derivati a livello mondiale e indaga sulle origini di un prodotto che è tra le materie prime più consumate al mondo ma la cui storia è per molti versi sconosciuta e forse mai raccontata. Originario del Sud America questo bellissimo frutto rosso, perché di un frutto si tratta e non di un ortaggio come tutti ormai siamo abituati a considerarlo, fu portato in Europa, alla Corte di Spagna, dai primi “conquistadores”. Inizialmente fu accolto come pianta decorativa e visto con sospetto perché considerato velenoso ma la sua coltivazione ebbe una grande diffusione, dalla Spagna all’Inghilterra, dalla Francia all’Italia dove, soltanto nel XIX Secolo alcuni industriali italiani cominciarono ad usarlo in diversi modi trasformandolo lentamente in un prodotto alimentare la cui diffusione è diventata, nel XX Secolo globale anzi realmente globalizzata.

Oggi il pomodoro è diventato una merce come il grano, il riso o il petrolio e alimenta una filiera dal fatturato annuo di 10 miliardi di dollari. La sua industrializzazione ha lasciato il segno nell’economia mondiale tanto da meritarsi l’appellativo di “oro rosso” al pari del petrolio, il così detto “oro nero”, e così come “l’oro nero”, anche “l’oro rosso” si diffonde, viene coltivato e commercializzato con modalità spesso sconosciute, viaggia da un continente all’altro spesso senza la possibilità di controlli sulla qualità e le modalità di coltivazione creando una spietata e brutale concorrenza tra multinazionali del settore agroalimentare, impegnate da un lato a conquistare e sfruttare nuovi mercati di grande potenziale, su tutti quello africano, dall’altro a ridurre i costi di produzione investendo sull’innovazione tecnologica a scapito della manodopera.

Il regista e autore Malet ha realizzato nell’arco di due anni una meticolosa ricerca sui retroscena della produzione, commercializzazione e consumo soprattutto del concentrato di pomodoro passando dalla Francia alla Cina, dagli Stati Uniti all’Africa fino ovviamente all’Italia. Offrendo una visione sorprendente sulla guerra per la supremazia commerciale che vede l’Italia attore principale sui mercati globali ma inesorabilmente incalzata dai sempre più potenti mercati asiatici. La forza di questo documentario, oltre che nell’approfondita ricerca, sta anche nell’uso di semplici ma efficaci animazioni per rivelare sia la vera storia di un prodotto di così largo consumo, che dei fatti e i retroscena, dove a livello mondiale si legano sempre di più sfrenato capitalismo, criminalità organizzata, sfruttamento e minaccia ambientale, di cui il pubblico e i consumatori spesso ignorano l’esistenza.

[di Federico Mels Colloredo]

Come le multinazionali hanno imposto l’estinzione del pomodoro San Marzano. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 6 Febbraio 2023.

Per fare l’albero ci vuole il seme”, recitava una filastrocca delle scuole elementari. Peccato che questo mondo bucolico e incantato sia stato stravolto e monopolizzato dalle cosiddette multinazionali dei semi brevettati e omologati, ovvero le 4 grandi aziende al mondo che hanno attuato negli ultimi sessant’anni un vero e proprio scippo del patrimonio agricolo di molti territori del mondo, Italia inclusa, e oggi detengono più del 70% del mercato globale delle sementi commerciali: Monsanto-Bayer, Dupont, Singenta e Kraft-Heinz. La prime tre dell’elenco producono anche i pesticidi, da usare poi nei campi dove vengono piantati i loro semi, che tutti i consorzi agrari al mondo acquistano ogni anno e rivendono agli agricoltori. Pacchetto completo insomma per un fatturato da capogiro. La Kraft-Heinz è l’unica delle 4 a limitare il proprio business, comunque miliardario, alla produzione e commercio dei semi ibridi. Ma comincerò il mio racconto proprio da questa multinazionale americana leader del settore nella produzione di pomodoro, salse e non solo (detiene infatti anche marchi come Plasmon, Philadelfia e altri). 

Il pomo d’oro: c’era una volta il San Marzano

In poche generazioni in Campania, in Italia e nel mondo abbiamo perso la tradizione e la memoria del sapore del pomodoro campano: il San Marzano. Era considerato il principe dei pomodori pelati da conserva, non solo in Italia. Un patrimonio italiano conosciuto e apprezzato nel mondo, che dava lavoro a migliaia di persone, soprattutto donne del sud Italia. Il San Marzano, quello originale, aveva una buccia sottile e soltanto le mani potevano eliminarla mantenendo integro tutto il frutto. Era un lavoro sicuramente duro e di precisione quello delle donne che pelavano a mano quei pomodori, perché dovevano togliere le bucce quando erano ancora bollenti. Ma era un lavoro che il piemontese Francesco Cirio garantì a molte donne campane agli inizi del Novecento, aprendo due stabilimenti per quelle conserve che facevano impazzire tutto il mondo. Nel giro di 30 anni gli impianti al Sud diventarono otto, gli addetti più di diecimila e l’azienda riuscì a ripopolare vaste zone abbandonate garantendo lavoro sia agli agricoltori che alle donne. Qualche decennio dopo si sono ritrovate da un giorno all’altro licenziate o a raccogliere foglie di tabacco, un impiego ancor più massacrante. Questo riferisce la giornalista Sabrina Giannini nel suo libro-inchiesta “La rivoluzione nel piatto”. 

Cosa era successo? Come mai alcuni agricoltori del sud Italia sono passati a coltivare tabacco, una pianta che causa il cancro, abbandonando i campi di pomodori?

Semplice: un bel giorno a Bruxelles i politici hanno deciso di non destinare più i contributi agricoli alla produzione del pomodoro italiano, bensì di sostenere il tabacco, favorendo così gli affari della Philip Morris, azienda leader di sigarette, e della Heinz, che ha sostituito (o meglio scippato) i semi del pomodoro San Marzano ibridandoli con altri semi e poi brevettandoli.

La Campania è ad oggi la regione italiana con la maggior produzione di tabacco, i poli produttivi di rilievo sono Caserta e Benevento, dove si realizza circa il 90% della produzione di tabacco regionale, proprio in virtù di un accordo dello Stato italiano con la Philip Morris risalente ai primi anni 2000, e che oggi gode addirittura del supporto di organizzazioni fintamente a tutela degli interessi di agricoltori e consumatori come la Coldiretti, il cui vide-presidente nazionale è anche presidente dell’Organizzazione Nazionale Tabacco Italia. Un accordo che l’Italia ha fatto – come al solito – perché la UE lo richiedeva, dopo la decisione di devolvere fondi europei a chi coltivava tabacco piuttosto che pomodori di qualità tradizionali come il San Marzano. Da allora i pomodori si coltivano ancora, ma con i semi brevettati dalle multinazionali suddette. E i fondi UE vanno a chi coltiva con questi semi. 

A partire dalla diffusione dei semi di varietà ibride il mondo dell’agricoltura è sostanzialmente cambiato lasciando ben poco spazio alla sovranità degli agricoltori nella scelta delle varietà da coltivare e nella conservazione dei semi. Il furto dell’eredità contadina viene legalizzato nel 2002 con la Direttiva UE numero 55. I ministri europei si riunirono per rendere illegale la semina libera, stilando l’unico catalogo ufficiale per entrare nel sistema commerciale e produttivo: per ogni ortaggio, frutto, cereale, definiscono migliaia di semi commerciabili mettendo fuori legge tutti gli altri. La quasi totalità dei semi legale inizia con la sigla F1, che sta a significare semi di prima generazione ottenuti tramite processo di ibridazione genetica. In quali laboratori sono stati ibridati questi semi? In quelli delle multinazionali del seme.

È banale sottolineare che questa Direttiva UE sopprime due valori fondamentali: la libertà e la concorrenza. Due valori di cui spesso le istituzioni europee si riempiono la bocca ma che di fatto in questo settore vengono sotterrati nei campi assieme ai semi F1. Campi dove oggi maturano bene gli interessi delle multinazionali. E così ai contadini non rimane che scambiarsi di nascosto i semi non ibridi, spedire semi di nascosto all’altra parte del mondo nelle scatole di fette biscottate per eludere i controlli alle frontiere, come fa l’associazione francese Kokopelli. Se gli agricoltori sono costretti a queste pratiche è perché da anni chi ha il monopolio dei semi ha bloccato gli scambi dall’Europa con l’India e l’America Latina, con il pretesto di difendere la biodiversità locale anche se in realtà hanno creato leggi che impediscono alle popolazioni locali di scambiarsi i semi locali tradizionali.

La fortuna commerciale di queste multinazionali è data dal fatto che con questo sistema legale la maggior parte degli agricoltori, se vogliono lavorare, sono costretti ad acquistare i semi ibridi e far crescere gli ortaggi con questi semi. Questi agricoltori non potranno poi raccogliere e utilizzare i semi dei frutti per interrarli l’anno successivo, ma saranno costretti a ricomprarli perché i semi F1 sono sostanzialmente sterili, nel senso che se riutilizzati non garantiscono più il raccolto abbondante e dalle stesse caratteristiche per cui quel seme è stato progettato. Questo viene garantito solo per una produzione, la prima. Qualora l’agricoltore riutilizzasse lo stesso seme, si ritroverebbe con un raccolto diversificato e imprevedibile, rischiando di essere estromesso dal circuito commerciale. Chi compra il raccolto sono infatti le aziende della grande distribuzione, che acquistano solo se il raccolto ha le caratteristiche desiderate dall’industria, e se il raccolto arriva a maturazione nei tempi richiesti dall’industria, non qualche settimana in anticipo o in ritardo. Tutto deve essere standardizzato. 

Pomodori maturi tutto l’anno: la soluzione è chimica

Torniamo alla buccia sottile del pomodoro San Marzano, che le donne campane pelavano a mano con tanta cura. Ad un certo punto l’industria delle conserve di pomodoro ha dettato le proprie regole e quella buccia sottile non piaceva più. I requisiti dell’industria per il pomodoro pelato sono: un colore sempre rosso vivo tutto l’anno, un elevato contenuto di zuccheri per ottenere una buona passata, una consistenza e una forma adatta ai macchinari che effettuano la pelatura. Oggi il pomodoro pelato ha una buccia dura in modo che si possa sbucciare a macchina. Nei laboratori chimici delle multinazionali del seme hanno preso dal San Marzano quello che serviva – la sua fragranza, i suoi profumi e la sua forma – ibridando poi queste caratteristiche con quelle del mercato. Al genoma del San Marzano hanno unito quello di altri pomodori per avere più colore, bucce più resistenti e facili da pelare con i macchinari industriali, più durata nello scaffale e più malleabilità ai trattamenti chimici in campo. I nomi dei pomodori oggi sono in codice: Heinz 1301 F1 è uno di quei pomodori che ha sostituito il San Marzano nelle conserve, e che infatti risulta la varietà più coltivata in Italia come dichiara la dicitura sulla confezione del produttore. E le varietà di pomodoro prodotte dalla stessa Heinz sono tantissime, oltre questa. Ogni varietà ha caratteristiche peculiari. Ma non potrebbe essere altrimenti, visto che ormai pretendiamo di mangiare pomodori, melanzane, zucchine tutto l’anno e che durino molti giorni nel nostro frigorifero, senza però chiederci mai come sia possibile che questi ortaggi estivi possano maturare ed essere disponibili tutto l’anno. In realtà c’è dietro il lavoro di esperti genetisti di laboratorio, appunto.  

I pomodori in campo vanno raccolti quando passa il camion di raccolta della Grande Distribuzione, perché le industrie di conserve trasformano soltanto alcuni giorni dell’anno e hanno un calendario definito. Gli agronomi passano nei campi in estate e controllano la maturazione dei pomodori, poi lasciano una ricetta all’agricoltore come fossero dei medici che devono sistemare lo stato dei pomodori: prescrivono sostanze maturanti (ormoni) se i pomodori sono ancora troppo verdi, oppure ormoni ritardanti se la colorazione è già troppo rossa e mancano alcuni giorno al passaggio del camion di raccolta. Con il maturante dopo appena 48 ore i pomodori sono già rossi. Queste sostanze vengono chiamate agrofarmaci ma il termine è fuorviante in quanto si tratta di ormoni della crescita a tutti gli effetti, fitormoni per la precisione, ormoni vegetali. Tra questi maturanti un nome molto diffuso è Etefon, a base di etilene. L’etilene sarebbe l’ormone naturale della pianta, ma quello di sintesi ha la caratteristica di ossidarsi molto facilmente, e l’ossido di etilene è un probabile cancerogeno, a detta di biologi esperti come la dottoressa Fiorella Belpoggi, direttrice dell’Istituto Ramazzini di Bologna, che si occupa di ricerca medica e biochimica indipendente. La dottoressa fa notare che la cancerogenicità di questa e altre sostanze ampiamente usate in agricoltura viene testata soltanto sugli animali da laboratorio, perché non c’è l’interesse a indagare la cancerogenicità nell’uomo e le autorità UE fanno finta che il problema non esista. È esattamente ciò che è accaduto con un diffuso fungicida, il Mancozeb, cancerogeno sui ratti grazie proprio ad uno studio fatto dall’Istituto Ramazzini, che ha scoperto per primo al mondo anche la cancerogenicità di sostanze come la formaldeide e del benzene. Ma la tossicità di tale prodotto nell’uomo non è mai stata testata, nonostante sia il fungicida più diffuso al mondo in agricoltura. Questo è il sistema di coltivazione, non solo del pomodoro ma di tanti altri cibi. Chi vuole inserirsi nel settore commerciale e coltivare pomodori deve sottostare a queste regole, altrimenti rimane fuori dal circuito dei grandi numeri e dovrà accontentarsi di essere un piccolissimo produttore che deve occuparsi di tutto dalla A alla Z: seminare, coltivare, raccogliere e poi vendere in proprio nei mercati o nel proprio punto vendita aziendale.

L’ibridazione dei semi crea un problema strutturale

Il punto non è che l’ibridazione sia negativa di per sé. Anche in natura esistono spontaneamente degli innesti e degli incroci genetici, basti pensare al lavoro continuativo delle api e della semplice azione del vento, che riesce a trasportare sostanze e polveri per parecchi chilometri. Anche l’uomo ha creato incroci fin dai tempi antichi, selezionando le varietà più produttive e sperimentando ibridi alla ricerca delle coltivazioni migliori. Ma c’è una sostanziale differenza: gli incroci che crea la natura e l’uomo non sono imposti a nessun agricoltore, ma sono a libera disposizione di chi li vuole o non vuole utilizzare. E soprattutto non danno semi sterili dopo il primo utilizzo, si possono ripiantare di anno in anno.

Gli aspetti negativi e di ordine pratico legati alle sementi F1, oltre a tutto il discorso della perdita di biodiversità e dei sapori tradizionali e regionali tipici di alimenti fortemente legati alla coltivazione in un dato specifico territorio, sono essenzialmente i seguenti:

Costano di più, visto che si paga tutto il lavoro di laboratorio necessario per ibridare le diverse varietà. Il prezzo è nettamente superiore rispetto ad altri tipi di semi tradizionali e locali.

Non si possono riprodurre e riutilizzare più di una annata (è vietato), costringendo così il produttore a comprare ogni anno semi ibridi nuovi. Usare sementi ibride significa essere sempre dipendenti dal venditore di semi. Niente auto produzione, niente scambio di sementi tra coltivatori. Questo consente la messa in piedi di un gigantesco business per le multinazionali nella vendita di semi. 

Non sempre portano frutti migliori. Le multinazionali selezionano caratteristiche utili all’agricoltura industriale. Poco importa che gli ortaggi siano buoni e saporiti, si cercano piuttosto il bell’aspetto, la forma regolare, la capacità di conservarsi, la maturazione omogenea. Le varietà F1 rispecchiano spesso i valori vacui della nostra società consumistica, basati sull’apparenza più che sulla sostanza.

Per chi vuole boicottare i semi ibridi F1 è consigliabile acquistare sementi tradizionali, locali, o anche solo moderne ma che non sono ibride. Esistono anche se ormai sono in minoranza. Ancora meglio poi riprodurre i propri semi, scambiarli con altri ortisti, sostenere le associazioni di seed savers. Un altro modo di evitare i semi ibridi è quello di comprare le piantine nei vivai piuttosto che i semi dal consorzio agrario. Ovviamente non comprate le piantine F1, perché non potrete trarne dei semi utili per l’anno successivo.

Insomma il San Marzano era un pomodoro “come Natura crea”, nato in una terra con caratteristiche climatiche e di terreno uniche (di natura vulcanica), mentre il pomodoro ibridato di Heinz è un pomodoro insapore come tanti al mondo, omologato, che sopprime la biodiversità e i sapori tradizionali dei territori. [di Gianpaolo Usai]

Italia, i grandi colossi alimentari importano tonnellate di pomodoro dallo Xinjiang. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 2 novembre 2021.

Tubetti o barattoli di preparato pronti da consumare. Assumono questa forma, alla fine, le decine di migliaia di tonnellate di concentrato di pomodoro che ogni mese approdano in Italia dalla lontana regione cinese dello Xinjiang. Grossi fusti destinati ad alcune delle più importanti aziende conserviere che alimentano, indirettamente, la repressione del governo cinese sulla minoranza etnica degli uiguri. Il consumatore non lo sa, e non può saperlo, dal momento che, una volta terminata la lavorazione in Italia, degli uiguri non rimane più traccia. I dati di cui siamo a conoscenza derivano da inchieste molto lunghe e approfondite, come quella di IrpiMedia che, in collaborazione con CBC Canada, ha ripercorso il viaggio del concentrato di pomodoro cinese: dallo sfruttamento ai colossi dell’industria italiana.

Gli uiguri appartengono ad una minoranza etnica di religione musulmana che abita nella regione dello Xinjiang. Secondo i dati delle Nazioni Unite, circa un milione di loro vivrebbe internato in “campi di rieducazione”, costretto a subire un indottrinamento forzato. Motivo per cui, qualche mese fa, alcune aziende d’abbigliamento, come Oviesse, hanno deciso di non importare più cotone proveniente dalla regione, nonostante ne sia una delle zone maggiormente produttrici al mondo. Lo stesso trattamento, però, non è stato riservato al pomodoro: le aziende italiane continuano a rendersi complici di quello che è stato definito un “Genocidio culturale”. Anzi. Negli anni ’90 fu proprio la spinta di alcuni industriali italiani ad avviare la filiera di produzione di pomodoro nello Xinjiang.

Ora, invece, l’iter è più o meno questo. Il pomodoro viene coltivato per migliaia di ettari. Una volta maturo, finisce nelle mani di una trentina di fabbriche della provincia cinese, che ne terminano la lavorazione. Poi, tutto è pronto per la spedizione. Il prodotto infatti non viene consumato dal mercato interno, ma circola per tutto il pianeta. Una delle sue mete preferite è il porto di Salerno.

Alcune aziende campane acquistano triplo concentrato proveniente dallo Xinjiang per aggiungerci acqua e sale e trasformarlo in doppio concentrato, prodotto in Italia. Al momento della riesportazione questo “nuovo” prodotto sarà etichettato come completamente made in Italy. In questo deteniamo un primato, aggiudicandoci la medaglia come primo mercato al mondo di destinazione del concentrato cinese: più di 97 mila tonnellate nel 2020, cioè circa l’11% delle esportazioni totali che partono dalla Cina. I numeri sono aumentati nel 2021, superando il raddoppio: ci sono navi che approdano nei porti di Salerno e Napoli praticamente ogni giorno.

In questo senso, è il gruppo Petti, impresa rinomata fra quelle delle conserve, a detenere il primato. Nei primi sei mesi del 2021 ha importato circa il 57% di tutto il concentrato di pomodoro cinese sbarcato in Italia. I dirigenti hanno confermato a IrpiMedia di importare concentrato di pomodoro dallo Xinjiang, ma “la società Petti è dotata di un codice etico ai principi del quale si sforza costantemente di adeguare i rapporti commerciali con i partner esteri per il rispetto dei diritti umani”. A loro dire, il concentrato di pomodoro dello Xinjiang sarebbe impiegato solo in prodotti destinati ai mercati africani. Per quelli italiani, invece, Petti userebbe pomodoro 100% toscano.

Così come Petti, tutti gli operatori del settore sostengono che il concentrato proveniente dalla Cina non viene utilizzato per il mercato italiano: è riservato a prodotti poi venduti all’estero. Su questo, però, nessuno può fornire prove certe.

Il processo di trasformazione, in sé, non è illegale. Ma se il concentrato cinese venisse veramente utilizzato in prodotti venduti in Italia, dovrebbe essere segnalato in modo chiaro ed evidente. Tuttavia risulta molto difficile sapere con certezza dove finisce, a meno che non siano le industrie stesse a dichiararlo. E questo non accade praticamente mai. L’Anicav (Associazione Nazionale Industriali Conserve Alimentari Vegetali) ribadisce che i prodotti contenenti pomodoro cinese finiscono principalmente in paesi extra Ue come Africa e Medio Oriente. Molta merce, infatti, entra in Italia con una dicitura di “temporanea importazione”. Pronta, cioè, a ripartire una volta terminata la lavorazione. Rimane però il fatto che i Paesi che ricevono più prodotti aventi a che fare con pomodoro lavorato in Italia sono Germania, Francia e Regno Unito e i loro grandi supermercati.

Una domanda sorge spontanea: perché compriamo dalla Cina pur essendo noi i primi produttori europei di pomodoro? La stessa spontaneità con cui recepiamo la risposta: il pomodoro concentrato cinese ha un prezzo molto più basso del nostro. Così come i costi di produzione, più che dimezzati “grazie” alla misera paga che spetta ai braccianti, spesso minori. Spesso uiguri. [di Gloria Ferrari]

Dal 1923. Ambrosoli, un viaggio nei cent’anni della fabbrica italiana del miele. Lidia Baratta su L'Inkiesta il 2 Dicembre 2023

A Ronago, paesino al confine tra Italia e Svizzera, è nato e si è sviluppato lo stabilimento intorno alla casa di famiglia. Oggi si producono circa 1,6 milioni di chili di miele e più di 400 milioni di caramelle. Seguendo il motto del fondatore Giovanni Battista: «Al miele non dovrete mai aggiungere nulla»

Ronago sta ad Ambrosoli come Monfalcone a Fincantieri o Mirafiori alla Fiat. Il paesino in provincia di Como, poco più di 1.600 abitanti al confine tra Italia e Svizzera, da cento anni è sede della fabbrica del miele italiano più noto al mondo. Messo prima in barattolo, poi nelle famose caramelle ripiene.

Oltrepassato il cancello dello stabilimento di via Ambrosoli, tutto ruota attorno al miele e alle api. L’odore dolce invade già il cortile. Ma una volta superate le porte dei reparti di produzione è come piombare nella versione nazionale della “Fabbrica di cioccolato”. Dal 1923, lo stabilimento si è allargato tutto intorno all’antica casa di famiglia, che presto potrebbe diventare un museo. «Qui una volta c’era il giardino pieno di fiori e alberi con le arnie per le api», ricorda il presidente Alessandro Ambrosoli, 90 anni, l’ultimo degli otto figli di Giovanni Battista Ambrosoli, fondatore della dinastia del miele. Una sorta di locale Willy Wonka che fa da cicerone tra le linee di produzione dei vasetti e i rulli che dalla melassa calda tirano fuori le piccole caramelle gialle.

L’inverno è alta stagione per la produzione a Ronago. Con le temperature rigide, la domanda di miele e caramelle per la gola aumenta. E la fabbrica è a pieno regime.

«Fino al 1932 si faceva tutto a mano, ora è quasi tutto automatizzato», spiega il signor Sandro. Il primo macchinario per il confezionamento automatico delle caramelle venne introdotto nel 1935. Si cominciò con una macchina che sputava fuori 80 caramelle al minuto arrotolate nella iconica velina gialla. Oggi si è arrivati a 1.600 al minuto.

All’ingresso del reparto miele, si sente una folata di vento. «È per tenere lontane le api», spiega un operaio. Anche i vasetti venivano tappati a mano. Quello era il lavoro delle donne, mentre i mariti erano occupati nelle mansioni più faticose. Le foto in bianco e nero che lo testimoniano sono appese negli uffici con gli oblò a forma di esagono degli alveari, e anche nel negozio all’ingresso pronto per le spedizioni natalizie.

Lungo un intero secolo, la fabbrica ha dato lavoro a gran parte del paese di Ronago. Maestranze che si tramandano da madre e padre in figlio e figlie. Poi sono arrivate le macchine e oggi nello stabilimento lavorano solo 70 dipendenti, tutti di Ronago e paesi limitrofi. Una sorta di famiglia nella famiglia. «Quando è esploso il Covid, ci siamo riuniti in cortile e abbiamo chiesto agli operai che volevano fare. Tutti hanno detto che volevano continuare la produzione. Siamo stati molto attenti, non abbiamo avuto neanche un positivo e non abbiamo chiesto un euro di cassa integrazione», dice il presidente.

La nascita del marchio Ambrosoli si deve a Giovanni Battista Ambrosoli, detto Battistino. Diplomato in chimica industriale, dopo aver lavorato in una fabbrica metallurgica nel canton Zurigo, eredita l’azienda di bachicoltura della nonna paterna. «Divenni apicoltore perché ero un consumatore appassionato di miele», ammise. Di tanto in tanto, Giovanni battista era solito andare in Svizzera per rifornirsi di miele dal suo apicoltore di fiducia a Stabio. Due latte duravano più o meno per un intero anno. Poi nel 1914 arriva la grande guerra. La Svizzera proclama la neutralità e serra le frontiere. A Stabio non si poteva andare più. Un apicoltore del lago di Como gli suggerisce allora di posizionare due famiglie di api nel giardino di casa. Giovanni Battista si carica le arnie in macchina, le porta a Ronago e comincia a prodursi il miele da sé.

Da un piccolo peccato di gola, comincia così la leggenda di Ambrosoli. Agli inizi il miele era autoprodotto. Appassionato di natura, Battistino iniziò a studiare le api, leggendo libri e riviste. Certo, quello era un mondo diverso, le api non erano ancora a rischio estinzione a causa dell’inquinamento e la produzione era fiorente. Il padre fondatore della dinastia Ambrosoli si era addirittura specializzato nell’apicoltura nomade, trasferendo gli alveari da un territorio all’altro. «Partiva di notte quando le api erano addormentate», racconta Alessandro. «Bruciavano uno straccio, di modo che l’odore del fumo le faceva assopire. Poi lasciava per un periodo le api a vagare tra i fiori, tornava per il raccolto ed era pronto a partire verso una nuova fioritura».

La produzione di miele comincia prima per uso familiare, poi per il vicinato. Fino a quando nel 1923 viene registrato in Camera di Commercio il nome “Ditta G.B. Ambrosoli”.

Negli anni Trenta, la famiglia cresce e nasce l’esigenza di allargare il mercato. Viene creata la cera d’ambra per pavimenti e mobili e nel 1936 inizia anche la produzione della paglietta d’acciaio per pulire i tegami anneriti. Poi si accende la lampadina: serve un prodotto tascabile per portarsi dietro il miele. Ovvero, le caramelle. Ma bisognava imparare a farlo. Viene mandato un operaio a studiare in una fabbrica svizzera. Sarà colui che diventerà il «capo caramelle» per quarant’anni.

Nel corso della seconda guerra mondiale, poi, tutte le arnie andranno distrutte. Terminato il conflitto, Giovanni Battista e i quattro figli si rimettono in moto e tornano a cercare apicoltori per formulare la loro miscela. Poi, con gli anni Cinquanta e Sessanta, arriva la vera e propria modernizzazione della ditta.

Le caramelle di Ronago diventano lo sponsor del Giro d’Italia e tutta l’Italia canticchia il motivetto «Bella, dolce, cara mammina dacci una caramellina» davanti a Carosello. «Sei trasmissioni costavano 43 milioni di lire, una cifra pazzesca», ricorda Alessandro.

Laureato in chimica industriale, come il fratello Alessandro viene mandato in America a imparare, a vedere le fabbriche di caramelle e le apicolture. Poi, rientra in Italia.

Dagli anni Trenta, la Ambrosoli aveva già cominciato a comprare il miele selezionando i migliori produttori in Italia e soprattutto all’estero, inaugurando così un modello di business applicato ancora oggi. Per replicare nel tempo la stessa miscela e mantenere intatto il sapore dei vasetti millefiori, Ambrosoli oggi compra il miele da Ungheria, Argentina, Moldavia e qualche piccola quantità anche dall’Ucraina. Per un totale 1 milione e 400mila chili di miele importato ogni anno. A cui si aggiunge una piccola quantità di miele d’arancia dalla Sicilia e dalla Calabria.

Nella fabbrica lavora oggi la quarta generazione di famiglia, seguendo ancora le parole d’ordine di Battistino: «Al miele non dovrete mai aggiungere nulla». Ogni anno vengono prodotti circa 1,6 milioni di chili di miele e più di 400 milioni di caramelle.

Per il centenario dell’azienda, il Mimit ha prodotto un francobollo ad hoc. E sono stati realizzati un docufilm – “Una passione dirompente”, con la direzione artistica di Silvio Soldini – e un libro – “Ambrosoli. Una storia di famiglia e di impresa” (Mondadori), scritto da Alessandro Ambrosoli e Silvia Cadrega – che raccontano la vicenda di questa famiglia. Una storia che da Ronago tocca l’Australia, il Cile, gli Stati Uniti e l’Africa, dove il fratello Giuseppe Ambrosoli, oggi beato, missionario in Uganda, ha creato un ospedale da cui poi ha preso forma anche la Fondazione Ambrosoli.

Ad oggi l’azienda fattura 30 milioni di euro. Il 20% è dato dall’export, di cui l’80% è rappresentato dalle caramelle, spedite soprattutto negli Stati Uniti, ma anche in Giappone e Corea del Sud. E solo per il mercato americano, nel piccolo stabilimento di Ronago si producono le caramelle Zotz frizzanti. «Nel 1968 mandammo un campione di due chili di queste caramelle a un amico americano per fargliele provare», racconta Alessandro Ambrosoli. «Lui ne assaggiò una e la sputò, buttando il sacchetto nell’immondizia. Ci disse che facevano schifo. Poi il figlio vide quel sacchetto, assaggiò le caramelle e con un amico le fece fuori tutte. Da lì cominciò la produzione. All’inizio la domanda era superiore a quanto riuscivamo a produrne. Ci supplicavano per produrne di più». Oggi di Zotz ce ne sono di otto gusti diversi, dall’anguria all’uva, e un intero settore della fabbrica è dedicato solo alla produzione americana.

Da Ronago, il confine svizzero è a poco più di mezzora di macchina, ma nessuno tra gli Ambrosoli è mai stato tentato di oltrepassarlo per pagare qualche tassa in meno o magari delocalizzare la produzione altrove per ingrandirsi e ridurre i costi. «Ambrosoli è e resta a Ronago», dice il presidente. Si dice che più di una volta investitori e fondi siano presentati alla porta dello stabilimento, ma la famiglia non ha mai ceduto ai richiami dell’alta finanza.

Nonostante i suoi novant’anni, Alessandro Ambrosoli continua a fare su e giù da Milano ogni giorno. Muovendosi tra le linee di produzione come un moderno alchimista per sperimentare nuovi abbinamenti di gusti col miele, dallo zenzero alla cannella, dalle bacche di goji al cardamomo. Creme, torroncini, caramelle al latte. E ora pure il pandoro. Li pensa, li fa, li assaggia. E se non lo soddisfano, li rifà fino a raggiungere ricetta giusta. «Ora devo andare», dice. «Mi aspettano a Milano per testare un agitatore per produrre una nuova crema». Per ora, resta un segreto. Ma la vedremo presto negli scaffali del supermercato.

Quasi la metà del miele importato in Europa è falso. Gloria Ferrari su L'Indipendente il 29 Marzo 2023

Il miele contiene naturalmente zuccheri e, secondo la legislazione dell’UE, deve rimanere puro, cioè non gli si devono aggiungere altri ingredienti. Invece l’indagine ‘From the hives’ (dagli alveari) condotta dalle autorità europee, ha verificato che in Europa l’adulterazione del prodotto, che si verifica quando ingredienti come acqua o sciroppi di zucchero poco costosi vengono aggiunti artificialmente per aumentare il volume del miele, è piuttosto diffusa. Tant’è che su 320 campioni di prodotto importato nel continente, ben il 46% è risultato ‘contraffatto’.

L’analisi, realizzata tra ottobre 2021 e febbraio 2022 e che ha visto il contributo della Direzione generale per la salute e la sicurezza alimentare (DG SANTE) della Commissione europea, delle autorità nazionali anti frode di 18 Paesi (tra cui l’Italia), dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (OLAF) e del Centro comune di ricerca (CCR) della Commissione europea, ha evidenziato che il numero assoluto più alto di partite sospette proveniva dalla Cina (88 lotti, pari al 74% di quelli testati), ma sono diversi i Paesi interessati dalla produzione di falso miele: 74 lotti contraffatti sono stati individuati tra i mieli prodotti in Ucraina, 34 in Argentina, 22 in Messico, 18 in Brasile ed infine 15 in Turchia. Seppur con il numero più basso in senso assoluto, tuttavia la Turchia è risultato il produttore percentualmente più coinvolto dal problema, con il 93% dei campioni risultati contraffatti.

Il numero dei campioni contraffatti complessivamente rinvenuti è stato del 14% più alto rispetto a quelli emersi dall’indagine condotta nel periodo 2015-2017. Tuttavia, come ha spiegato l’UE, negli anni i metodi di analisi utilizzati sono diventati più precisi e accurati, e per questo non è detto che ci sia stato effettivamente un peggioramento. Ciò non toglie la gravità di quanto riscontrato. È risultato infatti che il 57% degli operatori esportava miele miscelato con zuccheri estranei, soprattutto con quelli ricavati da riso e grano. In questo modo si allunga il prodotto e si abbassa il prezzo. Chiariamo: ingerire del miele contenente tali sostanze non è rischioso per la salute del consumatore.

Inoltre c’è un’altra questione altrettanto importante: mettere in commercio del miele più economico – in media, il miele importato in Europa nel 2021 costava 2,32 euro al chilo, con gli sciroppi di zucchero ricavati dal riso gli importatori spendono tra 40 e 60 centesimi di euro al chilo – danneggia i produttori onesti. Questi infatti vendono il loro miele al giusto prezzo, gli altri invece possono sbaragliare la concorrenza offrendo a meno, grazie all’utilizzo di ingredienti illeciti. Tra cui sono stati scoperti anche additivi e coloranti, utili a mascherare la vera origine geografica del prodotto.

Il risultato finale dell’indagine, oltre a quanto detto, è che 133 imprese, di cui 70 importatori e 63 esportatori sono risultati coinvolti nella vendita di miele adulterato, mentre altri 44 operatori sono sotto indagine. Inoltre 9 operatori europei sono stati sanzionati, e 340 tonnellate di miele dichiarate come alterate sono state ritirate o declassate a sciroppi di zucchero per uso industriale. [di Gloria Ferrari]

La guerra del DOP. Report Rai. PUNTATA DEL 30/01/2023 di Emanuele Bellano

di Emanuele Bellano

Collaborazione di Chiara D'Ambros

Un'inchiesta sui prodotti alimentari italiani fake nel mondo.

120 miliardi di euro: tanto vale secondo un rapporto diffuso da Coldiretti l'insieme dei prodotti alimentari italiani fake nel mondo. I più danneggiati sono i prodotti che in Italia e in Europa appartengono alle filiere Dop e Igp perché produrre un alimento di qualità costa di più. Se però finisce nello scaffale di un negozio americano o asiatico affianco a un altro con un nome simile ma prodotto non rispettando le regole o usando un metodo e un procedimento meno complessi, contadini, allevatori e distributori ci rimettono tanti soldi. Tra Stati Uniti ed Europa non è mai stato firmato un accordo per il rispetto e la protezione dei marchi Dop e Igp e così produttori italiani e americani hanno invaso il mercato mondiale prendendo in prestito nomi di prodotti alimentari famosi senza certificarli. Nello stato americano del Wisconsin producono Asiago, Gorgonzola, Fontina, Provolone o in California pomodori San Marzano Style. Siamo andati a vedere come vengono fatti, quali trucchi vengono usati per confondere il consumatore e quanto questi prodotti sono diversi dagli omonimi certificati Dop.

Le risposte di BioAgricert alla redazione di Report

Le risposte di Cento Fine Foods alla redazione di Report

Le ulteriori precisazioni di Cento Fine Foods e le nostre osservazioni

Le risposte di Gennaro Auricchio Spa

Le risposte di BioAgricert alla redazione di Report

From: Francesca Cozzo Sent: Wednesday, January 25, 2023 12:30:27 PM To: [CG]

Redazione Report Cc Alessandro Lombardi; Salvatore Sergi; Alessandro Pulga

Subject: R: Richiesta intervista - Report, Rai3

Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale

RAI Gentile Sig.ra D’Ambros, Molto volentieri rispondiamo ai quesiti da voi posti per quanto di nostra competenza, precisando che si tratta di una vicenda che abbiamo trattato nel lontano 2013, interloquendo e confrontandoci anche con il Consorzio del Pomodoro Pelato San Marzano dell'agro sarnese-nocerino Dop. Ci preme innanzitutto chiarire che l’azienda Cento Fine Food, West Deptford (NJ) Stati Uniti non è (e non è mai stata) operatore agroalimentare certificato da Bioagricert. Bioagricert non ha mai emesso certificati di alcun tipo a favore di tale azienda statunitense che, a maggior ragione, non è mai stata autorizzata ad utilizzare i riferimenti alla nostra certificazione per qualsivoglia prodotto sia nelle etichette che nel sito web. Bioagricert ha, invece, rilasciato ad un operatore campano - che è tra i fornitori di Cento Fine Food - un certificato di conformità alla norma ISO 22005:2008 “Sistema di Tracciabilità di filiera”. Si tratta di una certificazione che ha il semplice ma importante obiettivo di verificare e garantire la capacità dell’azienda di tracciare e documentare lungo il processo produttivo le informazioni più significative e critiche ai fini della qualità e sicurezza del prodotto finale. Nel caso in questione le informazioni tracciate dall’azienda sono i trattamenti fitosanitari e fertilizzanti, gli appezzamenti di origine, i lotti di coltivazione, le varietà coltivate Kiros e San Marzano, i lotti di trasformazione del pomodoro. Le informazioni tracciate (dette anche “elementi”) sono riportate trasparentemente nel certificato, così come lo stabilimento e la descrizione del prodotto cui fa riferimento il certificato che, in questo caso, sono i “pomodori pelati in banda stagnata”, descrizione che sottintende un prodotto venduto in contenitori non etichettati. Il prodotto viene poi etichettato direttamente dalla Cento Fine Food negli Stati Uniti. In ogni caso, a seguito delle segnalazioni che ci sono giunte già nel 2013, in più occasioni abbiamo diffidato Cento Fine Food affinché eliminasse qualsiasi riferimento ad Agri-Cert e alla nostra certificazione nelle etichette e nel sito web, fino a segnalarlo all’USDA, in quanto la stessa certificazione non ricomprende fasi successive a quelle specificate nel certificato stesso. Iniziative che, purtroppo, sono rimaste inascoltate. Abbiamo anche valutato eventuali azioni legali, che purtroppo ci richiedevano enormi risorse a fronte di esiti affatto scontati essendo la normativa americana differente da quella italiana ed europea. Tali azioni potevano, in ogni caso, riguardare solo l’uso non autorizzato del nostro nome e marchio e non certamente la tutela della denominazione “San Marzano” che spetta al Consorzio del Pomodoro Pelato San Marzano dell'agro Sarnese-Nocerino Dop. Segnaliamo tra l’altro che l’azienda fornitrice dei prodotti alla Cento Fine Food è essa stessa socia del Consorzio. Relativamente alle successive domande: Bioagricert non è l’organismo autorizzato dal MASAF a controllare e tutelare, insieme al Consorzio, il “Pomodoro San Marzano dell’Agro Sarnese-Nocerino", che è la Denominazione di Origine Protetta – DOP appunto - tutelata dal disciplinare di produzione, come indicato negli art. 1 e 2 dello stesso disciplinare. San Marzano è una varietà di pomodoro che per le sue caratteristiche è prevalentemente destinato all’industria per la pelatura e può essere coltivato e lavorato ovunque ed allo stesso modo certificato, quando questa certificazione è legata ad altri requisiti (biologico, tracciabilità, produzioni integrate, etc..). Quello che non può essere fatto è certificare il prodotto in conflitto con il disciplinare produttivo. In conclusione, consapevoli che l’argomento “tutela dell’origine” dei prodotti è argomento complicato, riteniamo utile segnalare in riferimento alla denominazione San Marzano, questi due articoli tratti da fonti autorevoli in campo agroalimentare dove si dà notizia del parere della Commissione europea che fa un distinguo tra la varietà di pomodoro e la sua origine geografica, specificando che non è in grado di decidere se un'etichetta recante la denominazione "San Marzano" costituisca, per questo solo elemento, una violazione della Dop. https://ilfattoalimentare.it/pomodoro-san-marzano.html https://www.freshplaza.it/article/4080047/secondo-la-ue-la-varieta-di-pomodoro-san-marzano-non-sarebbeappannaggio-dei-produttori-italiani/ Sperando di aver risposto in modo esaustivo ai vostri dubbi, porgo i miei più cordiali saluti. Francesca Cozzo Da:

CG] Redazione Report < > Inviato: lunedì 23 gennaio 2023 20:56 A: Francesca Cozzo < > Cc: D'Ambros Chiara < > Oggetto: Richiesta intervista - Report, Rai3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma

Gentili, a seguito della vostra riposta Vi sottoponiamo nello specifico un caso e una domanda su cui si è soffermata la nostra attenzione nell'ambito del servizio su cui stiamo lavorando menzionato nella precedente mail: L'azienda americana Cento Fine Food, con sede in Cento Boulevard, 100 - West Deptford (NJ) Stati Uniti, produce e commercializza nel mercato americano un pomodoro pelato in scatola con la seguente dicitura in confezione: "San Marzano Peeled Tomatoes Certified" come da foto in allegato. L'Azienda Cento Fine Food dichiara di essere certificata dal vostro ente di certificazione Bio-Agricert, e che in base a tale certificazione appone la scritta "Certified" sulla sua confezione. Vi chiediamo pertanto: 1) In cosa consiste la certificazione che rilasciate a Cento Fine Food per i "Pomodori pelati San Marzano Certified"? In altre parole, cosa viene da voi certificato? 2) Il vostro ente Bio-Agricert è deputato alla certificazione, insieme al Consorzio del Pomodoro Pelato San Marzano dell'agro sarnese-nocerino Dop, del pomodoro pelato San Marzano Dop? 3) Un pomodoro pelato San Marzano certificato direttamente da Bio-Agricert, senza il ruolo di garanzia svolto dal Consorzio del pomodoro pelato San Marzano Dop dell'agro sarnese-nocerino, può essere commercializzato in Italia e in Europa? Oppure senza il marchio del Consorzio San Marzano costituisce una violazione del Dop? In attesa di un vostro gentile riscontro vi inviamo un cordiale saluto. Chiara D’Ambros Redazione Report

Le risposte di Cento Fine Foods alla redazione di Report

Avv. Tommaso Troilo

Avv. Gianpiero Bianchi

Avv. Selene Lannutti

Spett.le Report Oggetto: Vs. richiesta di intervista del 20.1.2023 Cento Fine Foods Gentile Dottoressa D’Ambros, in relazione alla Sua gentile richiesta di intervista, in merito alla commercializzazione del pomodoro San Marzano negli Stati Uniti da parte della Società Cento Fine Foods, sono a premettere: - La Cento F.F., è stata fondata dal Signor Alfred Ciccotelli Sr., (di origini italiane Tollo Ch.) che, grazie alla propria visione pionieristica ed alla passione per il cibo italiano negli anni ‘’50 inizia a commercializzare prodotti alimentari Italiani di altissima qualità. Passione ed impegno tramandati e coltivati sino ad oggi tanto che Cento rappresenta uno dei maggiori distributori di prodotti alimentari italiani in tutti gli Stati Uniti. Basti pensare che, delle circa mille referenze presenti in catalogo, oltre la metà vengono prodotte ed importate direttamente dall’Italia. Per quanto fatto, ancora oggi, Mr. Ciccotelli è ricordato come un pioniere nel settore del commercio alimentare tanto da aver ricevuto numerosi riconoscimenti. - La Cento F.F., sin dalla sua nascita, ha creduto ed investito con forza sullo sviluppo della propria “linea rossa”. Ad oggi il marchio Cento è, su tutto il territorio Americano, riconosciuto come sinonimo di qualità tanto da essere uno dei maggiori distributori di pelati all’interno del territorio Statunitense. - La “linea rossa” della Cento F.F. è costituita da diverse referenze che vanno dalle passate ai sughi pronti, dal classico pomodoro pelato (c.d. pugliese) sino al pomodorino ed al Pomodoro San Marzano; - Cento F. F., oltre a garantire un livello qualitativo elevatissimo dei propri prodotti, è altresì particolarmente attenta nel fornire al cliente una chiara e veritiera descrizione di ciò che viene offerto nonchè l’origine dello stesso; - In merito più nello specifico al “Pomodoro San Marzano” che costituisce oggetto della Vostra intervista, la Cento Fine Foods commercializza tale varietà di Pelato da oltre 50 anni. Ovvero ben prima che tale prodotto costituisse anche oggetto di tutela come DOP (per Vostra conoscenza e completezza tengo a precisare che oggetto di tutela, a livello Comunitario, può essere solo la denominazione nella sua interezza “Pomodoro San Marzano Dell’Agro Sarnese Nocerino DOP”, e non il pomodoro di varietà “San Marzano”, varietà vegetale che di per sé non può trovare tutela (cfr. art. 13 comma 1 ultimo capoverso regolamento CE 2081/92) e che, seppur con risultati qualitativamente differenti, potrebbe essere prodotto ovunque. - La Cento Fine Foods quindi, prima ancora della costituzione del Consorzio San Marzano (1999), ha contribuito in maniera decisiva allo sviluppo ed alla valorizzazione di tale tipologia di pomodoro all’interno del mercato Statunitense tanto che, già dagli anni ’90 Cento F.F. è leader nella commercializzazione di tale pomodoro. - Come naturale conseguenza di quanto sopra la Cento F.F. ha contribuito direttamente ed in maniera importate nello sviluppo, anche economico, del territorio Sarnese – Nocerino, investendo direttamente sui coltivatori, sulle industrie conserviere e sulla ricerca. Difatti, pur avendo deciso di non aderire più, sin dal 2011 alla regolamentazione DOP (Cento conseguentemente non utilizza sulla propria etichetta la denominazione protetta né marchi o simboli che possano richiamare od evocare la DOP od il Consorzio), riconoscendo la straordinarietà del terreno vulcanico circostante il Vesuvio, pretende e garantisce, tramite un Ente Certificatore Indipendente, che i pomodori trasformati siano delle varietà vegetale San Marzano e che le aree di coltivazione siano quelle ricadenti nel territorio Sarnese Nocerino prossime al Vesuvio (tracciabilità). - Cento Fine Foods ha altresì elaborato (tramite propri consulenti) ed imposto all’azienda produttrice (con cui ha vige un contratto di esclusiva), dei propri standard di produzione, più stringenti rispetto a quelli previsti dal Disciplinare di produzione del Pomodoro San Marzano DOP. Il rispetto di tali standard viene assicurato tramite un controllo quotidiano nella fase di produzione ad opera dei consulenti direttamente incaricati dalla Cento. Quanto detto garantisce l’ottenimento un prodotto eccellente, che da anni viene apprezzato dai consumatori Americani, che riconoscono il marchio “CENTO” come garanzia di qualità. Premesso quanto sopra, qualora quanto riportato non fosse esaustivo e desideriate rivolgere ulteriori specifici quesiti, Vi invito ad anticipare gli stessi in maniera dettagliata e per iscritto affinchè possa verificare la volontà da parte della mia assistita di rispondere agli stessi ed acquisire la relativa autorizzazione al rilascio dell’intervista e/o di ulteriori informazioni.

Cordialità Avv. Gianpiero Bianchi

Le ulteriori precisazioni di Cento Fine Foods e le nostre osservazioni

Cento Fine Foods ci scrive nuovamente precisando quanto segue: - Cento Fine Foods non dichiara, neppure sul proprio sito internet, di essere Certificata dalla società Bioagricert. Basterebbe tradurre letteralmente quanto dichiarato “Our San Marzano tomatoes are certified…” per capire come oggetto della certificazione sia il prodotto Pomodoro San Marzano e non l’Azienda Cento; - Come da Voi stessi affermato il pomodoro varietà San Marzano commercializzato dalla Cento F.F. viene prodotto e fornito dall’azienda Solania srl (e negli ultimi anni anche Italorto srl). Ebbene, come riportato all’interno della risposta fornita da Bioagricert (da Voi tagliata ad arte), l’Ente ammette di certificare attraverso il sistema ISO 22005/2008 l’”azienda Campana” fornitrice della Cento Fine Food ammettendo che, oggetto della certificazione sono: “i trattamenti fitosanitarie e fertilizzanti, gli appezzamenti di origine, i lotti di coltivazione, le varietà coltivate Kiros e San Marzano2…”; - ebbene Bioagricert certifica, in favore di questa “azienda Campana”, dei lotti di produzione individuati da una sigla alfanumerica. La Cento F.F. non fa altro che commercializzare, acquistandoli dall’”azienda Campana” e rivendendo negli Stati Uniti questi prodotti, individuati con i relativi numeri di lotto. È pertanto evidente che la certificazione del prodotto rilasciata al Produttore (e da questi trasmessa alla Cento F. F.) continua ad avere la propria valenza, attestandone determinate caratteristiche, anche nei confronti della Cento F. F. e del consumatore finale. - Occorre altresì sottolineare, come la stessa Bioagricert, nella propria comunicazione, dichiari di certificare, tra le altre cose, le varietà vegetali coltivate Kiros e San Marzano 2. È pertanto estremamente logico che un pomodoro della varietà vegetale Kiros o San Marzano 2 non cessa di essere tale (e quindi non cessa di essere un Pomodoro San Marzano) solo perché non ha il marchio D.O.P.(idea che dal Vostro servizio sembrerebbe si voglia far passare) o solo perché non venga commercializzato al dettaglio direttamente dalla Solania.

Report a riguardo tiene a precisare che: A fronte di quanto da voi comunicatoci dobbiamo sottolineare che in realtà la dicitura presente sul sito alla pagina in questione www.cento.com/brands/cento/sanmarzano.php è: "Cento Certified San Marzano Tomatoes are certified by", espressione che corrisponde al nome del prodotto che si legge in etichetta del barattolo di pomodori pelati Cento, tanto che affianco alla scritta è presente la foto di un barattolo di pomodori pelati Cento sulla cui confezione l'etichetta è appunto "Cento San Marzano Certified Tomatoes". D'altra parte non Report, bensì lo stesso ente di certificazione Bio-Agricert afferma e sottolinea che: "L’azienda Cento Fine Food, West Deptford (NJ) Stati Uniti non è (e non è mai stata) operatore agroalimentare certificato da Bioagricert. Bioagricert non ha mai emesso certificati di alcun tipo a favore di tale azienda statunitense che, a maggior ragione, non è mai stata autorizzata ad utilizzare i riferimenti alla nostra certificazione per qualsivoglia prodotto sia nelle etichette che nel sito web". E sempre l'ente di certificazione Bio-Agricert aggiunge: "In ogni caso, a seguito delle segnalazioni che ci sono giunte già nel 2013, in più occasioni abbiamo diffidato Cento Fine Food affinché eliminasse qualsiasi riferimento ad Agri-Cert e alla nostra certificazione nelle etichette e nel sito web, fino a segnalarlo all’USDA, in quanto la stessa certificazione non ricomprende fasi successive a quelle specificate nel certificato stesso. Iniziative che, purtroppo, sono rimaste inascoltate". Affermando in maniera esplicita pertanto che la certificazione di tracciabilità che rilascia a uno dei produttori di Cento Fine Foods, non può per proprietà transitiva essere trasferita ("la stessa certificazione non ricomprende fasi successive a quelle specificate nel certificato stesso") a chi, Cento Fine Foods per l'appunto, afferma di utilizzare quei pomodori per i propri pelati in barattolo. Teniamo a precisare che come prassi deontologica e di metodo di lavoro Report ha interrogato su tale questione sia la Cento Fine Foods che il fornitore Solania/Italorto, e ha riportato nel servizio le parole del dott. Giuseppe Napoletano presidente di Solania Srl permettendogli di comunicare la versione sua e della sua azienda e cioè che si tratta "della stessa varietà [dei pomodori pelati usati da Solania nella filiera Dop] e lo stesso pomodoro che segue la stessa trafila, ma non quella della Dop". Infine, riguardo alla vostra affermazione "Occorre altresì sottolineare, come la stessa Bioagricert, nella propria comunicazione, dichiari di certificare, tra le altre cose, le varietà vegetali coltivate Kiros e San Marzano 2. È pertanto estremamente logico che un pomodoro della varietà vegetale Kiros o San Marzano 2 non cessa di essere tale (e quindi non cessa di essere un Pomodoro San Marzano) solo perché non ha il marchio D.O.P" dobbiamo sottolineare che la denominazione Dop non è relativa esclusivamente al tipo di pomooro coltivato, in quanto non si riferisce al prodotto pomodoro fresco. Si riferisce bensì al pomodoro pelato in scatola tanto è vero che il disciplinare che i produttori Dop devono osservare per fregiare le loro scatole del bollino di certificazione non si limita a definire la natura del pomodoro coltivato, né il luogo in cui tale pomodoro deve essere coltivato, ma codifica anche numerosi passaggi relativi al processo di produzione, cottura e inscatolamento.

Le risposte di Gennaro Auricchio Spa

Da: Enza Bassini Oggetto: Re: Richiesta di informazioni - Rai3, Report Data: 26 gennaio 2023, 16:52:24 CET A: "[CG] Redazione Report" Cc: D'Ambros Chiara

Buonasera. Faccio seguito alla vostra richiesta e confermo che non ci sono legami societari tra Errico Auricchio (e di conseguenza la Belgioioso Cheese Inc.) e la Gennaro Auricchio S.p.A. o nessuna delle aziende del Gruppo Auricchio. La corrispondenza del cognome è dovuta al fatto che Errico è cugino di secondo grado dei tre fratelli Antonio, Giandomenico e Alberto Auricchio che detengono il 100% della Gennaro Auricchio S.p.A. Teniamo a specificare che il nostro gruppo produce esclusivamente in Italia ed esportiamo orgogliosamente i nostri prodotti Made in Italy in 60 Paesi nel Mondo scontrandoci quotidianamente con chi sfrutta l’Italian Sounding . Resto a disposizione. Cordiali saluti. Bassini Enza Marketing Gennaro Auricchio S.p.A. Via Dante, 27 26100 Cremona - Italy

LA GUERRA DEL DOP Di Emanuele Bellano Collaborazione: Chiara D’Ambros

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Un supermercato nella Little Italy del Bronx, New York City. Un intero scaffale espone vari tipi di pasta italiana. Una parte è dedicata a pasta Barilla. Alcuni pacchi hanno la bandiera italiana.

EMANUELE BELLANO Allora questi sono linguine, “Italy’s First Brand Of Pasta”: Il primo marchio di pasta in Italia.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Altri pacchi hanno una differenza: manca la bandiera italiana e lo slogan.

EMANUELE BELLANO Scusi. Uno ha la bandiera italiana, l’altro no. È perché sono fatti uno in Italia e l’altro negli Stati Uniti?

COMMESSO SUPERMERCATO Questo è fatto negli Stati Uniti.

EMANUELE BELLANO E quest’altro?

COMMESSO SUPERMERCATO Anche questo è fatto negli Stati Uniti.

EMANUELE BELLANO Quindi c’è la bandiera italiana ma in realtà non c’è nessuna differenza.

GREG KLASS - PROFESSORE DI GIURISPRUDENZA E FILOSOFIA GEORGETOWN - WASHINGTON Una coppia di consumatori californiani ha fatto causa a Barilla perché hanno comprato questa pasta convinti che la pasta fosse fatta in Italia.

EMANUELE BELLANO Che cosa è successo?

GREG KLASS - PROFESSORE DI GIURISPRUDENZA E FILOSOFIA GEORGETOWN - WASHINGTON Sostengono che il pacco costituisca una forma di pubblicità ingannevole. Negli Stati Uniti due soli consumatori possono portare avanti una causa a nome di tutti i consumatori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Barilla sulla class action ci tiene a specificare che è " un procedimento in fase preliminare. Che le accuse sono prive di fondamento. Che lei vendono negli Stati Uniti pasta già da 25 anni e che sulle etichette è scritto il luogo di produzione e anche da dove importati gli ingredienti.” Ora il paradosso è che un’azienda italiana per il solo aver messo sulla propria confezione la bandiera del nostro paese rischia di risarcire dei clienti che credono che la pasta sia stata prodotta in Italia. Mentre invece è stata prodotta negli Usa. Qui almeno ad incassare sarebbe comunque un’azienda italiana. Mentre invece ci sono dei furbetti produttori americani che sfruttano l’appeal dei prodotti italiani dop e igp. E siccome nessuno gli dice niente poi si sono infilati sulla scia anche dei furbetti italiani. Le vere vittime di tutto questo sono i produttori delle nostre eccellenze alimentari e soprattutto chi importa il Dop e l’IGP in un mercato come quello americano che per esempio per il solo San Marzano vale l’80% di quello globale. Ora perché Stati Uniti e Italia non hanno raggiunto un accordo per tutelare i nostri prodotti Dop. Qui spunta un intrigo internazionale. Cosa c’entrano i boeing con il San Marzano e il nostro provolone? Il nostro Emanuele Bellano con la nostra Chiara D’Ambros.

EMANUELE BELLANO Questo è un Gorgonzola, Amish Gorgonzola. Fate anche formaggi italiani, come il Gorgonzola?

PRODUTTRICE DI FORMAGGIO Sì, facciamo un gorgonzola al curry.

EMANUELE BELLANO E poi vedo che vendete un Asiago anche.

PRODUTTRICE DI FORMAGGIO È una specialità che facciamo da queste parti.

EMANUELE BELLANO Secondo voi non c’è un prodotto originale e un prodotto falso.

JAIME CASTANEDA - DIRETTORE CONSORZIO NOMI ALIMENTARI GENERICI Io non credo che i nostri siano prodotti fake. Vede, gli italiani dovrebbero vendere i loro prodotti nel mondo e quindi chiamare per esempio l’Asiago: “Asiago italiano” così si distinguerebbe dall’Asiago americano. Fontina, Gorgonzola, Asiago per noi sono nomi generici.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Allora, quando il nostro olio è caldo, andiamo a mettere questo San Marzano che abbiamo) passato nella padella.

EMANUELE BELLANO Perché il pomodoro San Marzano?

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Il pomodoro San Marzano per me è molto importante perché ha anche quel tasso di dolcezza, quell’acidità che ci vuole il giusto in questo pomodoro che è adatto a fare diverse ricette. Potrei anche usare un pomodoro tipo San Marzano, prodotto qua in California o anche un finto San Marzano italiano non certificato San Marzano, però la qualità si risente.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Il mercato americano assorbe il più alto numero di prodotti di qualità alimentari italiani.

CLIENTE CAFFETTERIA 1 Per me i prodotti italiani sono i migliori. Tutto è fantastico, i DOP, gli IGP. E ora è possibile comprarli qui.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Insieme ai marchi Dop e Igp nel mercato americano ci sono tantissimi prodotti simili nel nome ma non certificati.

EMANUELE BELLANO Posso chiederle perché ha scelto proprio quello?

CLIENTE SUPERMERCATO Prendo questo per via del marchio Dop. È un pomodoro San Marzano certificato. Quest’altro invece non ha la certificazione.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Il marchio del consorzio San Marzano Dop dell’agro sarnese-nocerino individua un pomodoro pelato con delle caratteristiche molto particolari.

TOMMASO ROMANO - PRESIDENTE CONSORZIO DI TUTELA DEL POMODORO PELATO SAN MARZANO DOP DELL’AGRO SARNESENOCERINO Può essere o a due lobi, come nel caso di questo qui, in cui ci sono solo due lobi, ecco che si vedono chiaramente che sono uno e due lobi, mentre questo qua è addirittura a tre lobi, uno, due e tre. È un pomodoro molto morbido, molto particolare, qualche cosa di straordinario. Parlare possiamo parlare fino a domani, ma il problema è assaggiarlo per vedere la differenza.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Per rispettare il disciplinare Dop, i produttori di San Marzano devono osservare delle regole che definiscono come devono essere seminati, coltivati e inscatolati. Il disciplinare stabilisce il pH che i pomodori devono avere, la loro forma e per esempio che la coltivazione deve avvenire su paletti in verticale. Alla fine, il risultato è il bollino che il consorzio appone sulle scatole di San Marzano. Uno dei principali distributori Negli Stati Uniti di pomodori pelati San Marzano è Cento Fine Foods, colosso americano del cibo con sede in New Jersey.

RICK CICCOTELLI - CENTO FINE FOODS INC Cosa fate qui?

EMANUELE BELLANO Stiamo facendo delle riprese all’edificio. Vi abbiamo chiesto un’intervista ma non ci avete risposto.

RICK CICCOTELLI - CENTO FINE FOODS INC Non potete riprendere qui. Vi ho fermato perché potevate essere dei terroristi. Giuseppe loro sono della Rai stavano filmando ma questa è proprietà privata. Ora devo andare ma non devono fare riprese.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Cento Fine Foods chiama i suoi pomodori “San Marzano” pur non sottoponendosi al controllo e alla certificazione del consorzio San Marzano Dop. In Europa i suoi pomodori non possono essere venduti perché infrangono le regole di protezione del Dop. I pomodori definiti “San Marzano” della Cento Fine foods arrivano dalla ditta Solania, un membro storico del consorzio di tutela del pomodoro pelato San Marzano Dop.

EMANUELE BELLANO Lei produce i suoi pomodori San Marzano pelati, con il consorzio Dop e però poi ci sono questi pomodori che vengono venduti a Cento che non sono certificati dal consorzio.

GIUSEPPE NAPOLETANO – PRESIDENTE SOLANIA SRL E ITALORTO No, no,no,no. Le posso dire con la massima trasparenza e correttezza è la stessa varietà e lo stesso pomodoro che segue la stessa trafila, ma non quella della Dop.

EMANUELE BELLANO E perché non viene fatta la certificazione per quelli di Cento?

GIUSEPPE NAPOLETANO – PRESIDENTE SOLANIA SRL E ITALORTO È stata una scelta di strategia aziendale.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO La strategia aziendale di Cento ha previsto anche di apporre sulla scatola dei suoi pomodori la scritta Certified, cioè certificato da parte di un ente chiamato BioAgricert.

EMANUELE BELLANO La scritta “Certified” nel consumatore che va a comprare quel barattolo di pomodoro può sentirsi in qualche maniera un po’ confuso, perché c’è scritto “Certified” però non è la certificazione del consorzio.

GIUSEPPE NAPOLETANO – PRESIDENTE SOLANIA SRL E ITALORTO No, no, no, no, no, no, no, no, no. Ecco, ecco, lei è ben documentato. È una certificazione volontaria rispetto alla quale Cento si sottopone.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Un altro pomodoro pelato tra i più diffusi nei negozi americani è La Bella San Marzano.

EMANUELE BELLANO Questi sono pomodori San Marzano? NEGOZIANTE Sì, guarda “San Marzano”. C’è scritto.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO In realtà è falso. Sono semplici pomodori oblunghi, ma la ditta che li produce ha scelto questo nome e così chi li compra può essere indotto a credere che si tratti proprio di San Marzano. Con una ripercussione sul prezzo.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Qua abbiamo un’etichetta a 4,49 per un finto, non certificato San Marzano, dopo per un San Marzano certificato abbiamo 4,99. Dunque, qui si guadagna di più con un non certificato perché è quasi lo stesso prezzo del certificato.

EMANUELE BELLANO Loro usano la parola San Marzano, in Italia questo non lo possono fare, non lo possono vendere giusto?

TOMMASO ROMANO - PRESIDENTE CONSORZIO DI TUTELA POMODORO PELATO SAN MARZANO DOP Dobbiamo indagare su questo giustamente.

EMANUELE BELLANO Questo voi lo sapevate che esiste questo tipo di marchio per esempio?

TOMMASO ROMANO - PRESIDENTE CONSORZIO DI TUTELA POMODORO PELATO SAN MARZANO DOP Io personalmente no.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO La Bella San Marzano ha sede a Scafati in provincia di Salerno. Come lei vende i suoi pelati anche un’altra ditta che usa lo stesso meccanismo.

EMANUELE BELLANO “La San Marzano”. Qui la parola San Marzano è nel nome e i pomodori però sono pomodori oblunghi normali, non San Marzano e infatti non c’è il bollino del Dop.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Sempre più consumatori americani sono sensibili alla differenza tra un pomodoro qualsiasi e un San Marzano. Così nel business si sono tuffati anche i produttori locali. Qui siamo in California, dove i marchi della distribuzione americana hanno creato un nuovo nome: “San Marzano Style

BEATRICE UGHI – AMMINISTRATRICE DELEGATA GUSTIAMO INC Il San Marzano style è… è il San Marzano style, non so che dirti. Qui è il far west totale delle denominazioni, dei nomi e in particolare, siccome appunto l’Italia tira moltissimo, è tutto italiano. Vai a spiegare la differenza fra il San Marzano Dop con l’etichetta quello che deve andare nel registro, quello che deve essere coltivato in quel modo.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO La sua società importa in America solo prodotti italiani di alta qualità, quasi tutti certificati da Dop e Igp.

BEATRICE UGHI - AMMINISTRATRICE DELEGATA GUSTIAMO INC Abbiamo difficoltà a crescere perché siamo invasi dal italian sounding o italian fake.

EMANUELE BELLANO Come è possibile che negli Stati Uniti italiani che producono in Italia o ditte che producono qui possano vendere qui questi prodotti che sarebbero protetti, dal marchio Dop?

ANTONINO LASPINA - DIRETTORE ISTITUTO ITALIANO COMMERCIO ESTERO - NEW YORK Questo dipende dall’adozione di normative che dovevano essere diciamo regolamentate da accordi intergovernativi. Questi accordi non ci sono stati.

EMANUELE BELLANO Cioè mi faccia capire, manca un accordo tra l’Unione Europea, l’Italia e l’Unione Europea e gli Stati Uniti su questo, sulla protezione dei marchi Dop?

ANTONINO LASPINA - DIRETTORE ISTITUTO ITALIANO COMMERCIO ESTERO - NEW YORK Sulla protezione dei marchi Dop, esatto e quindi questo è uno degli aspetti che consente in questo vuoto ad alcuni operatori di operare.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Nel vuoto sguazzano. Ecco, Solania vende i pelati i San Marzano certificati dop dal consorzio in Europa e in Italia, mentre quando li vende negli Stati Uniti li vende senza il marchio Dop attraverso la Cento Fine Foods. Questo però di fatto danneggia chi vende i pomodori negli Stati Uniti a marchio Dop. Ora, la Cento Fine Foods si avvale anche di un’altra certificazione "Bioagricert". Ma sarebbe un abuso perché la BIOAGRICERT, ci scrive che non ha mai certificato la Cento, né ha autorizzato a utilizzare la sua certificazione Sarebbe anche un vizietto perché già nel 2013, l’aveva diffidata dall’utilizzare la sua certificazione sull’etichetta e anche sul Web. Aveva segnalato l’abuso al Dipartimento dell’Agricoltura degli Stati Uniti. Ora Cento che colui che non ci ha fatto entrare nei suoi stabilimenti mentre invece se fosse vero quello che ci scrive doveva essere entusiasta perché lui dice che: “commercializza il San Marzano da oltre 50 anni, prima ancora del consorzio. che ha contribuito allo sviluppo del pomodoro negli Stati Uniti, che ha investito direttamente sui produttori e coltivatori del territorio Sarno Nocerino sulle industrie conserviere e sulla ricerca”. Stessa storia per La San Marzano e La Bella San Marzano. Sono produttori campani che utilizzano la parolina magica per veicolare il prodotto perché la parola San Marzano ha un valore. Tutto questo impedisce di crescere a chi invece importa il San Marzano Dop sul territorio statunitense. Il perché ce l’ha spiegato il ‘è stata una guerra. C’è stato un vuoto normativo, è tutta colpa del conflitto tra Boeing e Airbus. Ma che c’entra con il provolone?

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Campi coltivati a frumento e allevamenti di mucche. Il Wisconsin è lo stato da dove provengono quasi tutti i formaggi d’America. Anche le targhe delle macchine ricordano che il Wisconsin è la terra dei latticini.

EMANUELE BELLANO “The World’s Best Provolone”, il provolone migliore del mondo. Allora, qua invece abbiamo un Asiago. “Rosemary And Olive Oil Asiago”, cioè Asiago all’olio d’oliva e al rosmarino che secondo quanto dicono ha vinto il primo premio nel campionato di formaggio mondiale. Una mozzarella che però ha molto poco a che vedere con la mozzarella che conosciamo noi perché è dura, un po’ quadrata, gialla insomma come colore, sembra più un formaggio semi stagionato che una mozzarella fresca. EMANUELE BELLANO FUORICAMPO In ogni angolo dello stato ci sono fattorie, produttori e rivenditori. E ovunque si trovano formaggi dai nomi italiani.

EMANUELE BELLANO Come mai avete iniziato a produrre formaggi italiani qui in Wisconsin?

COMMESSA NEGOZIO DI FORMAGGI - WISCONSIN È iniziato tutto con Belgioioso una quarantina di anni fa. Sono arrivati dall’Italia e hanno iniziato a costruire fabbriche di formaggio qui in Wisconsin. Enormi. Facevano formaggi italiani e il mercato ne andava pazzo e così hanno iniziato a farli anche gli altri produttori.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Nel 1979 Errico Auricchio, appartenente alla famosa famiglia di produttori di formaggio italiani, sbarca in Winsconsin e fonda la Belgioioso Cheese che oggi è un colosso con 14 centri di produzione e circa 300 milioni di fatturato. Produce Asiago, Fontina, Grana, Gorgonzola, Pecorino Romano, venduti negli Stati Uniti e all’estero, ma non in Europa dove la vendita è vietata perché questi marchi violano le leggi del Dop. Ma quali sono le differenze tra i prodotti che portano i nomi italiani e i corrispettivi fatti in Italia?

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Allora qua abbiamo questo Asiago prodotto qua in America. Dunque, andiamo ad aprire questo. Ok e andiamo a prendere il nostro Dop, Asiago Dop, andiamo assaggiare. Io andrei prima con il Dop. Vuoi assaggiare?

EMANUELE BELLANO Sì, assaggio pure io.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO È molto buono.

EMANUELE BELLANO Che trovi nel sapore, cosa contraddistingue questo formaggio?

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Allora, non è salatissimo come altri formaggi. Abbastanza delicato, abbastanza cremoso perché anche molto giovane come formaggio, ha questa delicatezza che troviamo naturalmente nei formaggi nostri naturalmente con un saper fare da secoli.

FUORI CAMPO NUOVO BELLANO Mentre l’ Asiago prodotto in America ha un sapere nettamente diverso.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Questo già ha un odore più forte, diverso. Per me non riflette realmente il prodotto originale, è molto più granuloso, molto più salato anche e questo è un qualcosa che mi dà un po' fastidio ancora adesso in bocca.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Altro formaggio italiano Dop il cui nome è usato dai produttori americani è la Fontina.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Andiamo a prendere una fetta. Si vede che è molto molto fresco come formaggio.

EMANUELE BELLANO È molto diversa anche proprio la fattezza e la consistenza sembrerebbe

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO La consistenza, il colore.

EMANUELE BELLANO Questo qui che è quello Dop rimane praticamente in piedi dritto è più consistente.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Questo sai assomiglia a queste sottilette che si trovano al supermercato.

EMANUELE BELLANO Questa differenza per cui qui la fetta la vediamo che è liscia, in questo caso invece ci sono dei buchi, c’è una texture con dei buchi, da cosa può derivare, dal procedimento di produzione?

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Sì, non andrei a dire che è stato fatto proprio con il metodo tradizionale della Fontina, un altro metodo adattato penso.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Differente consistenza anche per il Grana.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Questo American Grana, allora andiamo a fare così. Vedi qua è già un prodotto molto più flessibile. Abbiamo una textura molto più elastica. Qua, se voglio fare la stessa cosa.

EMANUELE BELLANO Vengono le scaglie.

FABRIZIO FACCHINI - CHEF E AMBASCIATORE DEL GUSTO Le scaglie di Parmigiano come noi le conosciamo bene.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Negli Stati Uniti, la guerra ai Dop è arrivata fino a Washington e al Congresso.

EMANUELE BELLANO FUORICAMPO Nel 2019 Errico Auricchio, in quanto presidente del Consortium for Common Food Names, ha firmato una lettera indirizzata all’allora presidente Donald Trump. “I produttori americani che fanno asiago, fontina, gorgonzola, grana, parmigiano e romano, scrive Auricchio non possono vendere questi prodotti in Europa. La esorto pertanto a imporre la stessa restrizione: impedire loro di vendere formaggi con quei nomi nel nostro paese finché loro non ci permetteranno di vendere i nostri formaggi in Europa”.

EMANUELE BELLANO Avete ricevuto una risposta dalla presidenza?

JAIME CASTANEDA - DIRETTORE CONSORZIO NOMI ALIMENTARI GENERICI Sì, e aveva a che fare con la controversia nata tra gli Stati Uniti e l’Europa sulle sovvenzioni ad Airbus. Una delle aree in cui all’epoca il presidente impose la più grande minaccia di ritorsione all’Europa fu proprio il formaggio e nello specifico i formaggi italiani.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Negli Stati Uniti ci sono 70 senatori su 100 che non impediranno mai la libera circolazione e la commercializzazione di prodotti che evocano nomi italiani. Ora perché una forma di tutela dei prodotti italiani dop negli Stati Uniti? Tutto nasce dalla guerra tra consorzi che producono aerei l’americana Boeing e l’europeo Airbus. Nel 2005 le due società si accusano, reciprocamente, di aver falsato la concorrenza utilizzando dei finanziamenti impropri. Nel 2018 il WTO si esprime e condanna l’ Europa colpevole di aver sovvenzionato impropriamente Airbus. In questo contesto dice Jaime Castaneda che è il direttore della lobby dei produttori alimentari americani,in questo contesto Trump, per risarcimento, per compensazione ha minacciato di sanzionare quei paesi, ha minacciato di sanzionare l’Europa se avesse impedito l’accesso a quei prodotti americano che non osservano il regolamento Dop. Poi è arrivato Biden, c’è stata una sorta di tregua. Ma nel paese, negli Stati Uniti è rimasto il libera tutti. A rimetterci sono ovviamente quegli imprenditori che credono nel Dop italiano e nell’ eccellenza e la importano. Ora raccogliere quelle eccellenze ci sono i braccianti anche loro senza tutela. Anche perché finisco per vivere in condizioni disumane in mano ai caporali. Ora per difenderli si è presentato un giorno Soumahoro, l’onorevole con gli stivali, eletto in Alleanza Verdi e Sinistra, e in novembre si è autosospeso è passato al gruppo misto su un’indagine che coinvolge la suocera e moglie e le cooperative che gestiscono i migranti ora ci sarebbe il nostro Bernardo Iovane ha raccolto una testimonianza, fino a oggi inedita, che lo coinvolgerebbe. Riguarda una raccolta fondi di 225 mila euro sulla quale bisognerebbe che l’onorevole Soumahoro facesse chiarezza. Perché si gioca sulla pelle di quei braccianti che ha sempre proclamato di difendere.

Estratto dell'articolo di Marco Molino per il “Corriere del Mezzogiorno” domenica 24 settembre 2023.  

Nel misero piatto dipinto in un affresco pompeiano, insieme a pochi datteri e fichi secchi, scorgiamo anche alcune monete. L'insolito accostamento aveva una funzione propiziatoria per i giorni di festa [...] 

Sono davvero tanti i reperti [...] che [...] rivelano le sorprendenti affinità che abbiamo con gli antichi, soprattutto per certe ritualità in campo alimentare. 

«In fondo è come se mangiassimo ogni giorno un pezzetto di storia», ha confermato il direttore del Mann - Museo Archeologico di Napoli, Paolo Giulierini [...]

Le arcaiche abitudini alimentari di Grecia, Spagna e Italia meridionale hanno acquisito autorevolezza negli ultimi tempi grazie alla genuinità dei prodotti tradizionali che consentono [...] di riconquistare quella semplicità gastronomica necessaria al benessere psico-fisico. [...] Ma non è stato sempre così. 

«Quella che comunemente definiamo dieta mediterranea - ha spiegato Giulierini - privilegiava in passato come oggi il consumo di cereali, frutta, verdura e olio di oliva. È bene ricordare però che era una dieta obbligata, fatta di privazioni scandite dal calendario agricolo. Era difficile procurarsi le carni rosse, che si consumavano solo durante le festività».  

[...] pure il pescato non era mai una certezza, per questo anche le popolazioni rivierasche erano dedite principalmente all'agricoltura. Negli affreschi talvolta così ricchi di pietanze raffigurate, dobbiamo cogliere piuttosto l'aspirazione delle classi subalterne ad un miglioramento del loro regime alimentare. Nella realtà il cibo bisognava conquistarselo con il lavoro duro e magari qualche rito propiziatorio non guastava.

[...] 

Estratto dell'articolo di Andrea Cuomo per “il Giornale” il 18 aprile 2023.  

[…]

Strana storia quella che coinvolge il Pastificio Rana Spa, una delle aziende alimentari italiane più note al grande pubblico […]. La Pastifici Rana ha da qualche anno aperto un sito produttivo anche negli States, precisamente a Bartlett, nei sobborghi di Chicago, Illinois, dove la Rana Meal Solutions realizza, si legge nel sito dell’azienda, «prodotti innovativi e pensati appositamente per i palati d’oltreoceano».

Non soltanto, se è vero che, come ha raccontato ieri il sito di Repubblica, gli ispettori di frontiera del ministero della Salute hanno bloccato nel porto di Genova un carico di 7,2 tonnellate di pesto americano made in Rana destinate a rifornire con il marchio Kirkland gli scaffali delle filiali francesi e spagnole della Costco, un colosso americano dell’hard disconut che in Italia non è (ancora) arrivato […]. 

Contro lo stop dei finanzieri gli avvocati dell’azienda veronese Tito Zilioli e Riccardo Ruffo hanno presentato ricorso al Tar: e ora sarà il tribunale amministrativo di Genova a dover stabilire se quel pesto può circolare o se si tratta di una truffa alimentare.

[…]  la questione è se sia corretto che l’azienda definisca in etichetta quel pesto «100% imported italian basil Dop - genovese basil». Certo, il know how è italianissimo. E gli ingredienti sciorinati in etichetta sono piuttosto fedeli alla tradizione ligure, a parte la presenza dell’olio di girasole accanto a quello extravergine d’oliva. 

Ma la legge italiana dispone chiaramente il divieto di utilizzare in etichetta il richiamo a denominazioni geografiche o di origine qualora si tratti di prodotti industriali. E in questo caso comunque il pesto non è prodotto in Italia anche se è prodotto da un’azienda italiana. […]

La Rana ha spiegato che il basilico contenuto in quei barattoloni è davvero genovese dop, l’azienda ne acquisterebbe ogni anno 2.500 tonnellate in forma di semilavorato con olio e sale che viene stoccato e utilizzato tutto l’anno e quello di Chicago fa parte di questo «tesoretto». Rana è il primo esportatore al mondo di basilico dop. 

Che poi sia ritornato in Europa dipende dal fatto che la Costco abbia chiesto anche per alcuni store francesi e spagnoli quel prodotto. E anche il consorzio di tutela della verde erba aromatica difende i Rana come di «una delle poche aziende che contribuisce attivamente da oltre un decennio a promuovere e valorizzare il nostro basilico in tutto il mondo[…]

Vedremo che cosa decideranno i giudici genovesi e se quelle sette tonnellate di pesto giramondo finiranno nei piatti dei parigini e dei madrileni. Di certo è buffo che questo caso segua di qualche settimana lo scalpore creato dall’intervista rilasciata da Alberto Grandi al Financial Time per smontare i miti della tradizione gastronomica italiana: per Grandi la carbonara è nata in America, le pizzerie anche e pure il Parmigiano in fondo è del Wisconsin. […]

Tartine immaginarie. Il giorno in cui Cesare inventò pane, burro e acciughe. Daniela Guaiti su Linkiesta il 12 Aprile 2023

Il comandante più potente dell’Antica Roma non si tira indietro di fronte a un cibo mai visto prima, e insegna ai suoi generali come il rispetto si dimostri anche con la buona creanza a tavola

Incontrare il nuovo è parte del lavoro di ogni condottiero. Nuove terre, nuovi popoli, nuovi volti, nuove usanze. Persino nuovi gusti.

E di novità doveva già averne incontrate tante Giulio Cesare il giorno in cui si recò a pranzo a casa del suo amico Valerio Leone, a Milano. Milano stessa era, per certi versi, una novità, così distante da Roma e dalle sue comodità. Agli occhi dei suoi compagni appariva rozza, scomoda, barbara. Gli stessi generali che lo accompagnavano faticavano a nascondere di non avere nessuna voglia di partecipare a quel banchetto, anche se nessuno osava dirlo apertamente. Ma il brusio a tavola si faceva sentire: risatine, battute sussurrate a fior di labbra, piccoli ammiccamenti che volevano sottolineare l’inadeguatezza del loro ospite rispetto alle aspettative.

Cesare li guardava, un po’ come una maestra guarda dei bambini non troppo educati, con un misto di irritazione e pazienza, ma poi si dimenticò quasi di loro, preso dalle chiacchiere con il suo amico e dal susseguirsi dei piatti in tavola.

Valerio Leone, da parte sua, teneva moltissimo a quel convito, e voleva far provare ai suoi ospiti le specialità locali. Così fece servire un piatto di asparagi conditi, invece che con l’olio cui i Romani erano abituati, con quello che sembrava uno strano, bizzarro condimento aromatico. Era semplicemente burro, fuso, ma loro non lo avevano mai assaggiato. Immangiabile, a detta dei suoi compagni, disgustoso, quasi un affronto: le critiche e i lamenti, fino a quel momento quasi silenziosi, esplosero travalicando le buone maniere.

Cesare mangiò tutto quello che aveva nel piatto, pulì l’ultima goccia di burro con un pezzetto di pane. Poi parlò. «Se non vi piaceva, potevate limitarvi a non mangiarlo. Voi, che parlate tanto di raffinatezza e buon gusto, avete dato prova di una rozzezza al di là di ogni limite. Maleducato e zotico è chi accusa di scarsa educazione un ospite tanto premuroso». Silenzio. Poi qualche debole parola di scusa. Poi una ripresa delle chiacchiere, non senza imbarazzo. Sembrava che i suoi avessero capito, ma a Cesare non bastava. Il nuovo era parte del suo lavoro.

Andò a letto, e mentre cercava di addormentarsi ripensava all’accaduto. Ai commenti dei suoi generali, alle sue stesse parole. Ma soprattutto al sapore di quel “burro”. Insolito, sicuramente, ma con qualcosa che lo affascinava. Dormì. E la mattina dopo, fresco e riposato, cercò Valerio Leone. Si fece raccontare tutto di quel burro, di come non ci fosse la possibilità di coltivare olivi lì in giro e di come far arrivare l’olio da Roma fosse terribilmente costoso; di come i contadini locali producessero quel condimento a partire dal latte delle mucche, che invece abbondava, e di come lo usassero in mille modi, persino spalmato sul pane.

A pranzo Cesare chiese di avere dell’altro burro. Come aveva detto Valerio Leone, provò a spalmarlo sul pane. Poi, pensando a quello che mangiava sempre a casa, si fece passare il vasetto con il garum, la saporitissima salsa a base di pesce che dava gusto a quasi tutti i piatti della cucina di Roma. Un velo di garum sul burro, un morso ed ecco il miracolo: un equilibrio perfetto di dolce e salato, di pungente e di morbido. Roma e Milano tra due fette di pane.

Ovviamente Valerio Leone diede subito ordine in cucina di riprodurre la leccornia appena creata dal condottiero. E ovviamente piacque a tutti. Non solo perché il creatore della ricetta era Cesare, e nessuno avrebbe osato contraddirlo. Ma anche perché era buona, tanto che ancora oggi, passati secoli e cambiati completamente i gusti, pane, burro e acciughe rimane una prelibatezza apprezzata da tutti.

Estratto dell'articolo di Luca Cesari e Jacopo Fontaneto per lastampa.it il 6 aprile 2023.

Altro che invenzione americana. Per trovare la “nonna della pasta alla carbonara” non bisogna nemmeno allontanarsi troppo dalla Capitale: è anzi sufficiente portarsi sul confine umbro-laziale […] per sbrogliare la matassa delle fonti, tra storia e leggenda, occorre andare nei dintorni di Cascia […] Si tratta della prima pasta preparata con un procedimento che ha molti punti in contatto con la moderna carbonara, ed è la prima accertata che indichi, appunto, una compresenza delle “uova frullate” e del “grasso e magro di maiale” […]

Vacilla, quindi, la teoria degli americani che impongono uova e bacon sulla pasta durante la seconda guerra mondiale: la congiunzione tra uova, pasta e carne di maiale l'abbiamo rintracciata in una “ricetta certa”, pubblicata già nel 1931 (con un ventennio di anticipo sulla prima ricetta della Carbonara) sulla prima edizione della Guida Gastronomica d'Italia edita dal Touring Club Italiana e curata da Arturo Marescalchi.

In realtà la paternità […] è contesa tra Cascia e Monteleone di Spoleto, distante una quindicina di chilometri: già, perché se la guida del Touring li descrive nel 1931 richiamando la città di Santa Rita, i monteleonesi rivendicano a loro volta una più antica primogenitura, addirittura con un'origine medievale […]

Queste sono le indicazioni certe che troviamo nella Guida del Touring del 1931: «…gli strascinati, di pasta all'uovo sottile che si avvolge su dei ferri da calza, risultandone così delle specie di maccheroncini forati; si fanno lessare e poi cuocere ancora con uova frullate, formaggio, soffritto di salsiccia, grasso e magro di maiale e pepe; si servono caldi appena le uova si sono rapprese».

La presenza della salsiccia non deve far gridare allo scandalo, perché anche per la carbonara, per tutti gli anni ‘50 vigeva l’indeterminatezza assoluta sul tipo di salume da utilizzare. Solo per citare alcune ricette, nella prima in assoluto (1952) era pancetta stesa, come anche nella prima ricetta italiana del 1954[…]

 Anche le uova rapprese segnalate nella ricetta degli strascinati del 1931 non sono una novità, anzi fanno parte delle indicazioni di molte ricette della carbonara in cui la cremosità dell’uovo si imporrà solo a partire dagli anni ‘60. Il formaggio? La ricetta originale del 1931 non lo specifica: forse si utilizzava il pecorino prodotto in loco o […] il Parmigiano, formaggio che si rintraccia come ingrediente in tutte le più antiche ricette della carbonara dell'immediato dopoguerra.

Non ultimo, il fatto che gli strascinati siano di pasta fresca all’uovo li accomuna alla prima ricetta della carbonara del 1952 […] . Insomma, se anche c’è stato un apprezzamento delle truppe anglo-americane presenti a Roma nel 1944, esso è avvenuto sulla scorta di una ricetta che era già patrimonio della cucina nostrana e che, non a caso, proviene da quel fazzoletto di terra che aveva già regalato la ricetta dell’amatriciana, destinata a diventare famosa una volta entrata nella Città eterna.

 Rimane il mistero del nome “carbonara”, che compare per la prima volta nel 1950 nell’articolo de La Stampa “Il papa ha passato ponte” in cui viene citato il ristorante romano Cesaretto alla Cisterna che da anni ospitava gli ufficiali americani in cerca degli spaghetti alla carbonara. Basta una telefonata con il sindaco di Monteleone a confermare che, in effetti, sul territorio insistono diverse miniere di lignite, da cui si estraeva il carbone che era poi destinato a Roma. C'entrerà qualcosa? Attenendoci alle fonti certe il mistero rimane, e che la ricerca continui dunque un passo per volta.

 Vanno tuttavia ribaditi ancora i due punti di contatto con altre ricette radicate nell'area di confine tra Umbria e Lazio: Norcia (e la sua pasta alla norcina con la salsiccia) dista meno di 30 chilometri da Cascia, mentre con una cinquantina si raggiunge […]

CONSUMO CRITICO. Pizza e parmigiano sono invenzioni americane? Il dibattito surreale. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 30 Marzo 2023

In questi giorni fa discutere tutti in Italia un’intervista rilasciata al Financial Times da un professore dell’Università di Parma, Alberto Grandi, sul tema dei falsi miti e delle fake news legate alla cucina italiana. Grandi insegna storia economica e storia dell’alimentazione all’Università di Parma e ha parlato delle vere origini di alcuni alimenti simbolo della cucina italiana: il parmigiano, la pizza, la carbonara, il panettone e il tiramisù. Le sue affermazioni sono state subito strumentalizzate e amplificate dalla stampa e dai media, che hanno titolato ad effetto come “Piatti tipici italiani? Sono americani” oppure “L’articolo del Financial Times distrugge i miti della cucina italiana”. Le tesi del professor Grandi sono interessanti ma anche controverse e si prestano a fraintendimenti, a seconda di come vengono presentate. Analizziamo il caso del formaggio parmigiano.

Il vero Parmigiano è del Wisconsin?

Grandi riconosce che questo formaggio sia stato inventato chiaramente in Italia, ma sostiene che poi sia stato esportato nel mondo dagli italiani e la sua ricetta originaria sia stata perfezionata nei caseifici del Wisconsin, negli Stati Uniti, e mantenuta intatta fino ad oggi. Afferma Grandi infatti: «La sua storia è straordinariamente antica, ha circa mille anni, ma prima degli anni ’60 le forme di parmigiano pesavano solo circa 10 chili ed erano racchiuse in una spessa crosta nera […] la sua consistenza era più grassa e morbida di quanto non lo sia oggi. La sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin». 

Non è in dubbio dunque che sia nato in Italia e successivamente esportato nel mondo. E già qui possono tirare un respiro di sollievo tutti coloro che, a leggere i titoli sensazionalisti di giornale avevano pensato al crollo di un mito italiano. Il formaggio parmigiano è nato nella pianura padana e in particolare nella zona di Parma, si hanno di esso già testimonianze storiche scritte nell’opera Decamerone di Giovanni Boccaccio, alla metà del 1300. Infatti si legge nell’opera, a proposito dell’immaginario paese di Bengodi: “Et eravi una montagna tutta di formaggio Parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti, che niuna altra cosa facevan, che fare maccheroni e raviuoli e cuocerli in brodo di capponi, e poi li gittavan quindi giù, e chi più ne pigliava, più se n’aveva”. Boccaccio parlava già di un formaggio di Parma da grattugiare, quindi è inequivocabile l’origine lontana in terra italica. Ma ne parlano anche altri autori umanisti come Bartolomeo Sacchi (detto il Platina), nella sua opera De honesta voluptate et valetudine, del 1541: “Due sono oggi in Italia le specie di formaggio che si contendono il primato: il Marceolino, come infatti lo chiamano gli Etruschi perché si fa in Etruria nel mese di marzo, e il Parmigiano, che tra i Cisalpini si può anche chiamare maggengo, dal mese di maggio”.

Il Parmigiano Reggiano ha origini antiche che risalgono al XII secolo, nel Medioevo. Fu presso i monasteri benedettini e cistercensi di Parma e Reggio Emilia che nacquero i primi caselli (laboratori di produzione del formaggio simili agli odierni caseifici). I monaci avevano bisogno di un formaggio che durasse nel tempo e ottennero questo risultato asciugando la pasta e aumentando la dimensione delle forme. In questo modo il formaggio si poteva conservare a lungo.

La tesi controversa di Grandi è dunque che pur essendo nato in Italia, oggi la sua ricetta originaria sia mantenuta solo in Wisconsin, mentre nel nostro Paese si produce la sua versione moderna frutto di manipolazione industriale. Assodato il fatto che l’origine della ricetta risale almeno al Medioevo, appare ovvio che la lavorazione di parmigiano (come ogni tipo di produzione casearia) abbia subito sostanziali modifiche nel corso dei secoli, dovute alle innovazioni tecniche, ma ciò non significa che si debba attribuirne la nascita ai casari italo-americani del Wisconsin. Il professor Grandi infatti parla proprio di nascita in America, e questo che lascia perplessi: «Forme di venti chili, tutte nere, tendenzialmente era un formaggio più grasso di come è oggi. Il Parmesan è nato circa cento anni fa, negli anni Venti, in America su iniziativa di alcuni casari italiani che lo producevano nello stesso modo in cui veniva fatto da noi all’epoca. Il Parmesan non è un caso di “Italian sounding” e di contraffazione. Il Parmigiano si è evoluto negli anni ma se volessimo mangiare quello che mangiavano i nostri nonni, il Parmesan è sicuramente più vicino all’originale. Mi ha colpito molto il fatto che uno dei più antichi caseifici del Wisconsin si chiami Magnani, cognome molto diffuso in provincia di Mantova e nella pianura Padana».

Falsificazioni alimentari e agropirateria nel Wisconsin

Personalmente trovo scorretta questa ricostruzione di Grandi, soprattutto per il fatto che il Wisconsin è proprio la patria delle contraffazioni alimentari sul formaggio italiano. Due sono infatti i tipi di frode che negli anni sono stati documentati proprio in Wisconsin: l’agropirateria, la falsificazione cioè di un prodotto tipico, e l’italian sounding, l’utilizzo del nome di un prodotto DOP italiano per vendere qualcosa di completamente diverso. E si badi bene che questo è avvenuto non solo per il Parmigiano ma anche per altri celebri formaggi DOP italiani, come ad esempio l’Asiago. Da loro in America è tutto legale ovviamente, siamo noi che giustamente percepiamo questi processi come una falsificazione.

L’agropirateria mondiale nei confronti dell’Italia non è esclusiva degli Stati Uniti d’America, peraltro, ma riguarda molti altri Paesi, dal Parmesao brasiliano al Reggianito argentino fino al Parmesan diffuso in tuti i continenti. Ma ci sono anche le imitazioni di Provolone, Gorgonzola, Pecorino Romano, Asiago o Fontina. Tra i salumi sono clonati i più prestigiosi, dai prosciutti di Parma e San Daniele, ma anche la mortadella Bologna e gli extravergine di oliva e le conserve come il pomodoro San Marzano. Queste notizie di contraffazioni sono note e documentate da anni. Dire oggi che nel Wisconsin si produce il vero Parmigiano, quello con la ricetta più fedele a quella di origine del Medioevo, appare in effetti surreale, come ha affermato anche la Coldiretti in risposta alle tesi di Alberto Grandi. Il dubbio che si tenti di screditare abilmente in questo caso la storia e i primati gastronomici dell’Italia, appare in effetti legittimo. Del resto, dietro ai tentativi di gettare ombre su alcune produzioni gastronomiche tipiche dell’Italia, possono nascondersi interessi economici di vario tipo legati a politiche commerciali di altre nazioni. Si pensi solo a quanto potrebbero crescere i volumi export e di fatturato nel mondo delle aziende americane produttrici di Parmesan, se sdoganassimo il fatto che il vero parmigiano lo hanno creato loro. E al danno di immagine e fatturato conseguente per l’export del parmigiano italiano. Non si pensi cioè che le politiche agroalimentari siano estranee alle logiche più ampie di interessi commerciali e strategici di espansione anche a livello geopolitico. Sono armi a tutti gli effetti anche quelle, usate da tutti gli Stati a seconda della convenienza, basti pensare a ciò che è successo di recente con le politiche sull’import-export di grano e di olio di girasole dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, solo per fare un esempio. [di Gianpaolo Usai]

Parola di Alexandre Dumas. Nell’800 la pizza napoletana non era così buona e saporita. Luca Cesari su L'Inkiesta il 25 Maggio 2023

Come spiega lo storico enogastronomico Luca Cesari in "Storia della pizza" (Il Saggiatore), all'epoca dello scrittore francese la pietanza napoletana era insaporita con grasso, fredda e, nel peggiore dei casi, secca. Il vero vantaggio di questo cibo era soltanto uno: costava così poco che se lo poteva permettere chiunque

Negli anni trenta dell’Ottocento si trovavano a Napoli per brevi periodi due grandi personalità che avrebbero segnato la storia nei rispettivi campi. Il primo è Samuel Morse, che all’epoca faceva il pittore, prima di iniziare la fruttuosa carriera con gli esperimenti sull’elettromagnetismo e la trasmissione su filo che lo resero famoso. Tra il 1830 e il 1831 passò in Italia e lasciò una vivida impressione sulla città partenopea e le sue usanze, inclusa la pizza, che descrisse come «una specie di torta nauseabonda […] ricoperta di fette di pomodoro e cosparsa di pesciolini, pepe nero e chissà quali altri ingredienti». E concludeva affermando che, secondo lui, assomigliava «a un pezzo di pane tirato fuori da una fogna».1 La non lusinghiera impressione sarà confermata da altri autori che vedremo in seguito, anche se questa prima descrizione è forse una delle più critiche verso la specialità napoletana.

Il secondo resoconto che incontriamo tra le nostre fonti proviene invece dalla penna del grande romanziere Alexandre Dumas, celebre autore de I tre moschettieri e Il conte di Montecristo. Durante il suo viaggio nel Sud Italia del 1835, il romanziere ebbe l’occasione di annotare una grande quantità di fatti e curiosità che verranno pubblicati qualche anno dopo in francese nell’opera in quattro volumi dal titolo Impression de voyage – Le corricolo.

(…)

La pizza è una specie di talmouse come si fa a Saint‑Denis; è di forma rotonda e impastata con la stessa pasta del pane. È in diverse larghezze, a seconda del prezzo. Una pizza da due liard basta per un uomo; una pizza da due soldi dovrebbe soddisfare un’intera famiglia. A prima vista la pizza sembra un piatto semplice; dopo l’esame, è un piatto misto. La pizza è all’olio, la pizza è al lardo, la pizza è allo strutto, la pizza è al formaggio, la pizza è ai pomodori, la pizza è ai pesciolini; è il termometro gastronomico del mercato: sale o scende di prezzo, a seconda del prezzo dei suddetti ingredienti, a seconda dell’abbondanza o della scarsità dell’anno. Quando la pizza ai pesciolini è a mezzo grano, il pescato è stato buono; quando la pizza all’olio è a un grano, il raccolto è stato pessimo. Poi una cosa ancora influenza il corso della pizza, è la sua freschezza; capiamo che non si può vendere la pizza del giorno prima allo stesso prezzo di quella del giorno stesso; per tutte le tasche ci sono pizze di una settimana che possono, se non piacevolmente, almeno vantaggiosamente, sostituire il biscotto di mare.

Le pizze descritte in questo brano dovevano essere più spesse di quelle attuali, altrimenti sarebbe incomprensibile il riferimento a quelle di taglia più grande capaci di sfamare un’intera famiglia; in secondo luogo, nella maggior parte dei casi, si trattava di semplici focacce di acqua e farina condite superficialmente con grasso, tanto che venivano trasportate facilmente all’interno di cesti e vendute in strada. Se poi aggiungiamo anche che il pizzaiolo percorreva le strade d’inverno al freddo, ci si può fare un’idea del prodotto che metteva a Fatti e misfatti della pizza napoletana 75 disposizione dei passanti.

Inoltre non c’è nulla di strano che una forma di pane larga e piatta possa essere venduta anche da secca, anzi il fatto che perda tutta l’umidità senza ammuffire è da sempre uno dei vantaggi riconosciuti a questo tipo di schiacciate. Ovviamente non saranno state fragranti come appena sfornate, ma erano pur sempre una forma di pane condito e il loro basso costo avrà certamente incontrato un tipo di clientela disponibile a comprarle. In sostanza le pizze descritte da Dumas erano insaporite con grasso o pochi altri ingredienti, fredde e, nel peggiore dei casi, secche. Il vero vantaggio di questo cibo era soltanto uno: costava così poco che se lo poteva permettere praticamente chiunque. 

Da “Storia della pizza – Da Napoli a Hollywood” di Luca Cesari, Il Saggiatore, 352 pagine, 19 euro

"Altro che americana: vi spiego perché la pizza è italiana". Continuano le polemiche sulla nostra cucina. Ma come al solito si tratta di note stonate. Maria Cristina Bellelli il 31 Marzo 2023 su Il Giornale.

Se Napoli è indubbiamente una grande capitale della cultura italiana, di certo sua grande ambasciatrice nel mondo è la pizza. Un alimento semplice, povero, di umili origini ma in grado di conquistare il cuore e il palato di re, regine e persino dittatori (pare che il caro leader della Corea del Nord straveda per la pizza partenopea).

Sempre da oltre la Manica, arrivano le solite "invidiosette" insinuazioni secondo cui la pizza, per come la conosciamo noi, non sia nata sotto l'ombra del Vesuvio ma sotto quella dei grattacieli di New York.

Da grande amante di arte e cultura, amo far sì che siano i grandi maestri a dare le giuste risposte. In questa occasione sarà un grande scrittore d'Oltralpe, di una terra quindi, quella francese, che non è mai stata tenera verso la cucina italiana, ma che in questo caso è importante testimone a nostro vantaggio.

Il grande Alexander Dumas, il papà di D'Artagnan e dei tre moschettieri, ci racconta ne Il corricolo (1841), una raccolta di racconti ispirati al suo soggiorno nell'Italia del sud, di come la pizza - in una grande quantità di varietà, tra cui quelle con il pomodoro e mozzarella - facesse già parte da tempo immemorabile della tradizione napoletana.

Nell'800 l'Italia era la meta prediletta del "Grand Tour", che attirava rampolli della nobiltà e della borghesia europea, in primis francesi e inglesi, affascinati dalle bellezze, dalle tradizioni e dai sapori di una terra "esotica" come l'Italia.

A partire dai viaggi di Byron, gli inglesi si sono dimostrati innamorati e incuriositi della nostra terra. Peccato che abbiano la "memoria corta ".

In una illustrazione inglese del 1881 del giornale The Graphic viene rappresentata una antica pizzeria napoletana dove i clienti gustano i loro pasti comodamente seduti in piccole ed intime stanzette separate da pareti di legno.

Questo 30 anni prima della cosiddetta prima pizzeria americana. Siccome la storia è sempre maestra concludo citando un ultimo documento del 1884, conservato nell'archivio di Stato di Napoli, che ci riporta drammatici momenti da noi appena rivissuti. In questo documento Luigi Mattozzi, titolare di una storica pizzeria, fa istanza al questore di Napoli per impedire la chiusura del suo esercizio durante un "lockdown" della città a causa di una epidemia di colera.

La pizza e le pizzerie napoletane, quindi italiane, sono sopravvissute a epidemie e guerre. Con un sorriso, presto ci dimenticheremo anche delle continue piccole invidie stampate di tanto in tanto dal Regno Unito.

Parmigiano e pizza nel mirino: ai marxisti non piace il cibo made in Italy. Attilio Barbieri Libero Quotidiano il 29 marzo 2023

Nella settimana in cui il governo ha candidato la cucina italiana a patrimonio immateriale dell’umanità, è arrivato un attacco frontale al nostro made in Italy a tavola. Il quotidiano britannico Financial Times ha dedicato un lungo articolo al tema, dando voce ad Alberto Grandi, professore di storia del cibo all’Università di Parma, ma soprattutto nemico dichiarato delle nostre tradizioni. Il titolo non lascia dubbi: «Tutto quello che io, un italiano, pensavo di sapere sul cibo italiano è sbagliato». E per fugare ogni dubbio ecco la sintesi del contenuti: «Dal panettone al tiramisù, molti classici sono in realtà invenzioni recenti, come ha dimostrato Alberto Grandi».

E in effetti per il professore mantovano, classe 1967, l’attacco alle tradizioni alimentari italiane è una missione. Nel 2018 pubblica con Mondadori il libro Denominazione di origine inventata, con un sottotitolo che suona come un attacco al nostro sistema produttivo: «Le bugie del marketing sui prodotti tipici italiani». Il Financial Times ripercorre i cavalli di battaglia del volume. Ce n’è per tutto e tutti.

PIZZA AMERICANA

La pizza, ad esempio, che Grandi definisce «disco di pasta condito con ingredienti», sarebbe più americana che italiana e «il primo ristorante a tutti gli effetti che serve esclusivamente pizza non» sarebbe «stato aperto in Italia ma a New York nel 1911», chiosando: «Per mio padre negli anni '70, la pizza era esotica quanto lo è il sushi per noi oggi». A Mantova, forse. Ma a Milano, negli anni Sessanta, di pizzerie ce n’erano diverse. In centro come in periferia. Ricordo, per averla frequentata con i miei genitori, la Pizza Pazza dove i «dischi di pasta conditi con ingredienti», erano la normalità per i milanesi. Senza contare che Francesco de Sanctis, ministro della Pubblica Istruzione del Regno d’Italia sotto Vittorio Emanuele II, scrittore e autore di una Storia della letteratura italiana che ha rappresentato una pietra miliare per decenni, riferisce nelle memorie di giovinezza, che già nei primi decenni dell’Ottocento, a Napoli, erano aperte le prime pizzerie.

«La sera s’andava talora a mangiare la pizza in certe stanze al largo della Carità», scrive de Sanctis. Era il 1833, anno in cui a Largo della Carità apre il locale Le Stanze di Piazza Carità, tuttora operante come Pizzeria Mattozzi. Ma nel 1738, aveva aperto la Pizzeria Porta d’Alba, dotata di sedute dal 1830. Dunque la pizza si mangiava in locali dedicati oltre due secoli fa e non veniva «fatta e mangiata per strada dalle classi meno abbienti», come fa dire a Grandi il Financial Times.

Non meno discutibile la ricostruzione del professore mantovano sul Parmigiano Reggiano, la regina delle nostre Dop (Denominazioni d’origine protetta). Secondo lui il Parmigiano ha sì una tradizione millenaria, ma ad interpretarla fedelmente sarebbero i pochi formaggiai del Wisconsin che lo producono tuttora con una crosta nera e non i casari italiani che fanno forme con la crosta chiara e dal peso di 40 chilogrammi, anziché i 10 del Parmigiano medioevale. Una evoluzione naturale per un prodotto di cui riferisce nientemeno che Giovanni Boccaccio nel Decamerone e di cui c’è traccia in un atto notarile redatto a Genova nel 1254, che parla del caseus paermensis, il formaggio di Parma. Per di più il Parmesan prodotto dai grandi taroccatori del Wisconsin cerca di assomigliare il più possibile all’originale che si fa nelle province di Parma, Reggio e Mantova. Ha la medesima pezzatura e la crosta, priva della stampigliatura Parmigiano Reggiano, è ugualmente chiara.

UN SECOLO NON BASTA

Ma ce n’è anche per il panettone, colpevole di essere stato reinventato nella sua formulazione attuale da Angelo Motta nel 1919, e per il tiramisù, apparso per la prima volta nei libri di cucina degli anni Ottanta - segnala Grandi - anche se le prime ricette risalgono al ’70 .E si tratta di due dolci senza alcuna denominazione. A dare la chiave di lettura migliore del lavoro di Grandi è probabilmente l’autrice dell’articolo uscito sul Financial Times: «La sua missione», scrive Marianna Giusti, «è distruggere le fondamenta su cui noi italiani abbiamo costruito la nostra famosa e notoriamente inflessibile cultura culinaria». Una missione, quella di demolire le tradizioni alimentari italiane, che «l’accademico marxista» (a definirlo tale è il Financial Times) condivide con l’amico Daniele Soffiati, segretario della Cgil mantovana, con il quale ha dato vita a un podcast, intitolato “Doi, Denominazione di origine inventata”. E Grandi non nasconde la simpatia per Eric Hobsbawm, lo storico britannico dichiaratamente comunista, autore del volume L’invenzione della tradizione. Alla fine tutto torna. 

Estratto da repubblica.it il 27 marzo 2023.

"Dal Financial Times arriva un attacco surreale ai piatti simbolo della cucina italiana, proprio in occasione dell'annuncio della sua candidatura a patrimonio immateriale dell'umanità all'Unesco". È quanto afferma la Coldiretti nel commentare un articolo del Financial Times che boccia i piatti tipici della gastronomia nazionale. Il quotidiano economico-finanziario britannico ha pubblicato un'intervista della giornalista Marianna Giusti ad Alberto Grandi, storico dell'alimentazione e docente all'università di Parma, che già in passato si era dedicato a sfatare alcuni "miti" della tradizione culinaria italica.

Nell'articolo sono finiti "classici" come carbonara, tiramisù, panettone e parmigiano. Su quest'ultimo, nell'intervista si legge che "prima degli anni '60 […] Aveva una consistenza più grassa e morbida rispetto a quella attuale" e che "la sua esatta corrispondenza moderna è il parmigiano del Wisconsin".

 Tesi che, secondo Coldiretti, cercano "di banalizzare la tradizione alimentare nazionale. Sulla base di fantasiose ricostruzioni si contestano le tradizioni culinarie nazionali più radicate. In sostanza la carbonara l'avrebbero inventata gli americani e il panettone ed il tiramisù sono prodotti commerciali recenti ma soprattutto si arriva addirittura ad ipotizzare che il parmigiano reggiano originale sia quello che viene prodotto in Wisconsin in Usa, la patria dei falsi formaggi made in Italy".

 […] continua Coldiretti - potrebbe far sorridere se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico ed occupazionale. La mancanza di chiarezza sulle ricette made in Italy offre infatti terreno fertile alla proliferazione di falsi prodotti alimentari italiani […]".

 L'agropirateria mondiale nei confronti dell'Italia, secondo la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti, ha raggiunto un fatturato di 120 miliardi con in testa alla classifica dei prodotti più taroccati i formaggi, […]

Tra i salumi, denuncia ancora Coldiretti, sono clonati i più prestigiosi, dal Parma al San Daniele, ma anche la mortadella Bologna o il salame cacciatore e gli extravergine di oliva o le conserve come il pomodoro San Marzano. Ma tra gli orrori a tavola non mancano i vini […]

La candidatura della cucina italiana a patrimonio dell'umanità è un'opportunità per proteggere e rafforzare l'identità della cucina italiana che è la più apprezzata nel mondo, con il record storico realizzato dalle esportazioni agroalimentari made in Italy che hanno raggiunto il valore di 60,7 miliardi secondo l'analisi della Coldiretti su dati Istat, […]

Stefano Lorenzetto per il “Corriere della Sera” il 4 aprile 2022.

Aggravante generica: il suo unico fratello, Andrea, è stato chef con Romano Tamani all'Ambasciata di Quistello, due stelle Michelin, e al Divina Commedia di New York, dove pranzava il sindaco Rudolph Giuliani. Aggravante specifica: Alberto Grandi è presidente del corso di laurea in Economia e management all'Università di Parma, capitale universale del cibo made in Italy. È proprio qui che Grandi, docente di storia dell'alimentazione, ha violato, e continua a violare, l'ortodossia.

Il parmigiano? Inventato nel Wisconsin. La pizza Margherita? Non c'entra con la regina Margherita di Savoia. I tortellini bolognesi? Si facevano con carne di pollo. Teorie a dir poco sacrileghe esposte nel saggio Denominazione di origine inventata (Mondadori), dedicato alle «bugie del marketing sui prodotti tipici italiani», che gli è valso un'entusiastica recensione di Piero Angela a «Quark», ma anche le ire dei consorzi di tutela Doc, Docg, Dop, Igp, Igt, Pat, Stg («delle ultime due sigle ho scordato il significato, credo significhino Prodotti agroalimentari tradizionali e Specialità tradizionale garantita»), per nulla entusiasti di questa sarcastica Doi, acronimo a sua volta inventato di cui non avvertivano il bisogno, ora divenuto un podcast di successo in 12 puntate su Apple e Spotify: 170.000 download in meno di due mesi.

Ha sconsacrato persino la carbonara.

«Fino al 1953 non ne parlava nessun ricettario. Gli ingredienti furono portati nel secondo dopoguerra dalle truppe americane. A bacon e uova, la loro colazione, aggiunsero la pasta. Il gastronomo Luigi Carnacina se ne attribuiva la paternità. Il collega Luigi Veronelli gli chiese: "Ma perché le hai dato questo nome?". La risposta fu: "Non me lo ricordo"».

 Lei sostiene che la cucina tricolore ha 50 anni scarsi di vita. Tesi bizzarra.

«L'Italia da un bel po' non crede più al futuro, così ha inventato un fastoso passato. La verità è che eravamo morti di fame. Mangiavamo poco e male. Poi abbiamo cominciato a mangiare tanto e male. Alla fine ci siamo raccontati di aver sempre mangiato tanto e bene».

Debbo smentirla: la «castradina» che Giorgio Gioco cucinava con l'agnello al 12 Apostoli di Verona veniva dagli schiavi della Serenissima prelevati in Dalmazia.

«Guardi, il tanto celebrato Pellegrino Artusi, che nel 1891 compila La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene, raffazzonò ricette. E consigliò di copiare da tedeschi e inglesi, non dai francesi, giudicati troppo raffinati per i nostri palati».

 E il «De re coquinaria», mi scusi?

«La cucina romana raccontata nel I secolo da Marco Gavio Apicio non sarebbe riproducibile ai nostri giorni. Pensi solo al garum, la salsa più diffusa a quell'epoca: scarti di pesce fatti marcire nel sale».

 Quando finì la fame italica?

«All'inizio del XX secolo, con l'avvento della meccanica e della chimica in agricoltura. Dal 1876 al 1915 ben 20 milioni di italiani vanno a cercarsi il cibo all'estero. Un contadino veneto su tre soffriva di pellagra, cioè carenza da vitamina PP, abbreviazione di "Pellagra preventing", scoperta negli Stati Uniti solo nel 1937. I medici americani la paragonavano a una peste portata dai nostri connazionali, abituati a consumare 3 chili di polenta pro capite al giorno. Si toglievano la fame, ma si ammalavano. Cesare Lombroso studiò per primo la patologia. Giunse a una conclusione sballata: ritenne che a causarla fosse la cattiva conservazione del mais, non la dieta monotona. È in tal modo che nacquero i granai pubblici. Un bel caso di eterogenesi dei fini».

 Apollinare Veronesi, magnate del pollo Aia, mi disse: «Quando ai miei tempi si tirava il collo a una gallina, o c'era un malato in casa o era malata la gallina».

«Infatti nei tortellini l'Artusi mette carne di pollo. Solo nel 1974 la Camera di commercio registrerà la ricetta del "vero tortellino di Bologna" fatto con lombo di maiale, prosciutto e mortadella».

 Secondo un altro disciplinare camerale, il mitico ragù alla bolognese prevede il latte. Nessuno se n'è mai lamentato.

«Sì, ma risale al 1982, quando era in auge la panna da cucina. Questo per dire l'artificiosità di certe operazioni».

 Mi indichi un piatto di sicuro italiano.

«È dura. Mi hanno crocifisso per aver scritto che le pizzerie nacquero in America, eppure fu là che si cominciò a mangiare la pizza stando seduti. Nel nostro Sud era un cibo di strada. Bravo il napoletano Raffaele Esposito a inventarsi nel 1889 d'aver ideato la Margherita in onore della regina d'Italia, giunta a Capodimonte con Umberto I. Negli Usa era un cibo per disperati, vivamente sconsigliato dai medici, al pari dei maccheroni».

Ma lei attribuisce agli yankee persino il parmigiano, si rende conto?

«No, io dico che piaceva già a Boccaccio e che Napoleone mandò Gaspard Monge a Parma, affinché indagasse su un formaggio che si conservava bene. Solo che in questa città non c'erano le vacche da latte, per cui fu mandato a Lodi, da dove inviò all'imperatore un rapporto sul "fromage Lodezan dit aussi Parmezan". C'è un buco di 150 anni, dal 1700 al 1850, nella storia di questo eccelso prodotto. Oggi si fa un gran parlare del parmigiano contraffatto, però fu alla fine del XIX secolo che comparve nel Wisconsin il tanto deprecato Parmesan, in forme di circa 20 chili e con la crosta nera. Chi lo produceva? Qualche casaro italiano emigrato là. Ne cito uno solo: Magnani. Un cognome molto diffuso fra Parma e Mantova. Soltanto nel 1938 spunta il primo consorzio di tutela del Parmigiano reggiano».

 E quella degli spaghetti che sarebbero nati in Africa che storia è?

«Oggi la pasta si fa con il frumento Creso, in commercio dal 1974, che ha soppiantato il famoso Senatore Cappelli. C'entra la "battaglia del grano" intrapresa da Benito Mussolini, giacché un terzo della materia prima per il pane dipendeva dalle importazioni, con pesanti ricadute sulla bilancia commerciale. In soccorso del Duce venne il genetista Nazareno Strampelli. Fu lui a inventare il grano duro dedicato al senatore Raffaele Cappelli, che per primo aveva finanziato le sue ricerche. Attraverso pazienti incroci, l'agronomo marchigiano creò una varietà assai produttiva e resistente alle malattie: il grano Ardito. Ma ci arrivò utilizzando una varietà trovata in Tunisia».

Insomma, c'è qualcosa di solo nostro?

«L'aceto balsamico tradizionale di Modena, che nella versione Igp, la meno nobile, è una delle cinque leccornie più esportate insieme con Parmigiano Reggiano, Grana Padano, Prosecco e Prosciutto di Parma. Peccato che l'originale costi 10.000 euro al litro e richieda almeno 12 anni d'invecchiamento, che possono arrivare a 30. Il rischio d'impresa è enorme: alla fine una giuria decide a chi concedere il bollino. Il succedaneo si fa con mosto, aceto di vino e caramello. Un'operazione commerciale scaltra».

Che l'avrà fatta inorridire.

«Ma no, sono onnivoro, passo indifferentemente dal McDonald's ai grilli fritti che ho mangiato a Pechino. Oggi solo uno yogurt e una banana. Sono a dieta». 

Ricorda un cibo della sua infanzia?

«Sì, ed è tristissimo rievocarlo, nonostante a Mantova fosse il piatto tipico della domenica: ris e tridura , riso bollito nel brodo, con l'aggiunta di uovo sbattuto e parmigiano a fine cottura». E un sapore perduto per sempre? «Il fiapòn , un dolce. Si friggevano in una padella unta gli avanzi di polenta e si spolveravano con zucchero a velo». 

Ma a chi dovrebbe importare se un cibo è nato davvero in Italia o altrove?

 «Certo non a me. Basta che sia buono e non faccia male. Tuttavia detesto la mistica del made in Italy: puro marketing». 

 Il pomodoro ciliegino mi pare buono. 

«Certo. E pensare che i coltivatori di Pachino non lo volevano, preferivano dedicarsi al cuore di bue insalataro. A brevettarlo nel 1989 fu la Hazera genetics di Tel Aviv, alla quale ancor oggi i siciliani pagano le royalty per le sementi». 

 Pure il lardo di Colonnata è delizioso. 

«Chi dice di no? Fantastico. Ma è mai stato in quella frazione delle Alpi Apuane? È così minuscola che faticherebbero a starci due maiali. E infatti conosco allevatori mantovani che forniscono il lardo da stagionare nelle conche di marmo. Trattandosi di un'Igp, indicazione geografica protetta, non è obbligatorio il legame fra territorio e materia prima». 

 Che cosa insegna ai suoi studenti? 

«Come ha mangiato l'uomo prima della scoperta del fuoco. L'idea che si nutrisse di ciò che cacciava è fasulla». 

Di che si nutriva, allora? 

«Gli ominidi erano divoratori di carogne, al pari degli avvoltoi e delle iene». 

 E ti pareva! Che schifezza. 

«Non me lo sono inventato. Basta leggere Storia dell'alimentazione di Jean-Louis Flandrin, un tomo di 750 pagine curato dal medievista Massimo Montanari, studioso supremo della materia. È stato mio professore e in seguito abbiamo insegnato insieme per due anni. L'uomo cacciatore l'ha creato l'antropologia per riabilitare i nostri antenati». 

Non crede che la Denominazione di origine inventata danneggi una delle poche industrie nazionali ancora floride? 

«È quello che mi rimproverò il mio concittadino Gianni Fava quand'era assessore all'Agricoltura della Regione Lombardia: "Se tu togli a un piatto la storia, lo privi di un ingrediente". Aveva ragione. Mi ha messo in crisi. Sono stato invitato a parlare della tavola tricolore ad Ankara. Prima della partenza, mi hanno detto: "Stia attento a come parla..."». 

Viviamo in una civiltà gastrica.

 «Eccome. Sul food si gioca una partita sproporzionata, quasi che l'italianità passasse dalla difesa dell'amatriciana».

 Torneremo a patire la fame? 

«Non credo a una carestia in Italia. Il grano russo e ucraino che sfama l'Africa lo daranno a noi. Lo paghiamo di più».

Estratto Da “Posta e risposta – la Repubblica” il 29 Marzo 2023

Caro Merlo, non sono per niente d’accordo con Grandi: […]La nostra cultura culinaria ce la siamo costruita da soli evitando il più possibile contaminazioni.

Giovanni Barbui — Pordenone

 Risposta di Francesco Merlo

Non con Alberto Grandi lei è in disaccordo, ma con la storia e con la vita[…] Le consiglio i libri di Elisabetta Moro e Marino Niola sul cibo Made in Italy, frutto di migrazioni, mescolanze e contaminazioni.

Lei coltiva il mito dell’autoctonia che non è solo un’ideologia reazionaria: è una falsità. Sono sudamericani anche fagioli, pomodoro e peperoni. Sono asiatiche: arance, pesche, albicocche, melanzane e tutte le spezie. E il caffè? […] Gli alimenti si sono integrati prima degli uomini e spesso a loro insaputa. E la cucina è la prova generale dell’umanità di domani.

Attacco alla cucina italiana. Il "Financial Times" rilancia le tesi di un prof mantovano: "Tradizioni inventate. Panettone industriale, pizza e carbonara sono made in Usa". Andrea Cuomo il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

Tradizioni inventate, piatti di importazione, storytelling un po' di comodo. Tutto quello che non avreste mai voluto sentire sulla cucina italiana lo ha scritto giorni il Financial Times. Voi penserete: so' americani, sono convinti che sulla pizza ci stia bene l'ananas e adorano le fettuccine Alfredo. E invece no. A spifferare certe controverse teorie sulla cucina che proprio qualche giorno fa è stata candidata a patrimonio immateriale dell'umanità è un italiano che vive in Italia, lavora in Italia e mangia in Italia: Alberto Grandi, mantovano come i tortelli di zucca e la sbrisolona. Grandi, che è insegna Storia delle Imprese all'Università di Parma, si è attirato più contumelie di Jorginho quando sbagliò i due rigori che lasciarono gli azzurri fuori dal mondiale del Qatar, ma almeno quello è mezzo brasiliano. «Stanno creando un clima infamante contro i prodotti italiani», scrive l'ex ministro dell'Agricoltura, il leghista Gian Marco Centinaio. «Chi ci accusa di gastronazionalismo forse è soltanto invidioso dei nostri successi», contrattacca il sottosegretario al ministero dell'Agricoltura Luigi D'Eramo. «Un attacco ingiustificato e inaccettabile, ma è soprattutto privo di qualsiasi fondamento», nota la presidentessa di Unimpresa Giovanna Ferrara. Di articolo «surreale», ispirato «da una vecchia pubblicazione di un autore italiano che potrebbe far sorridere, se non nascondesse preoccupanti risvolti di carattere economico e occupazionale», parla invece Coldiretti.

Ma che cosa ha detto il signor Grandi, ohibò? Va detto che già il titolo dell'articolo, che è una lunga intervista firmata Marianna Giusti, è già un «acchiappaclick»: «Tutto quello che io, un italiano, sapevo sul cibo italiano è sbagliato». Va detto che Grandi è noto per un libro (poi diventato podcast), DOI - Denominazione d'Origine Inventata, in cui si diverte a smontare falsi miri sulla cucina italiana, con stile ironico e brillante. Divertente ma innocuo. Ma non appena Grandi ha varcato il confine, apriti cielo.

Grandi è un marxiano (e anche un po' un marziano). Segue le teorie dello storico Eric Hobsbawm, secondo cui «quando una comunità si trova priva di un proprio senso di identità a causa di un qualche shock o frattura con il suo passato, inventa tradizioni come atto fondativo di un mito». E questo avrebbe fatto l'Italia nel secondo dopoguerra, negli anni in cui la miseria lasciò il posto a un travolgente benessere. Partiamo dal panettone: è un'invenzione industriale di Angelo Motta, che un secolo fa nobilitò un dolce fino ad allora più triste e misero, mangiato dai poveri e senza nessun legame con il Natale. E oggi pasticcieri e chef si sfidano a colpi di panettoni artigianali venduti a 45 euro al chilo. Il Tiramisu? È creazione recente, «il mascarpone si trovava con difficoltà fuori da Milano prima degli anni Sessanta». Il Parmigiano? «È antico, ma fino agli anni Sessanta le forme pesavano appena 10 kg e la pasta era più grassa e morbida di adesso», più simile (orrore!) al Parmesan prodotto in Wisconsin. E ce n'è anche per la pizza, che sarebbe un'invenzione americana. Il primo ristorante che serviva solo pizza fu aperto a New York nel 1911, in Italia nel dopoguerra non c'erano pizzerie a parte Napoli. In fondo un po' la stessa storia della Carbonara, nata unendo gli ingredienti a disposizione delle truppe americane giunte in Italia: uova, bacon, formaggio e panna. Poi diventati guanciale, pecorino romano, pepe e ancora uiva. Ma fino agli anni Cinquanta i ricettari italiani recavano un'incredibile varietà di ricette per il piatto che più stimola il dogmatismo culinario nazionale.

Comunque: se la cucina italiana è una tradizione inventata, è la più bella invenzione che c'è.

La chef smonta le teorie anti italiane: "Vi spiego perché il parmigiano è nostro". L'arte inchioda chi vorrebbe cambiare la storia. Ecco cosa svela un dipinto del XVII secolo. Maria Cristina Bellelli il 28 Marzo 2023 su Il Giornale.

Ha destato grandissimo scalpore un articolo del Financial Times in cui vengono sminuite, e in alcuni casi addirittura smentite, molte delle eccellenze italiane. Per di più per bocca di un connazionale, il professore Alberto Grandi di Parma.

Quando ho letto questa notizia, non mi sono scomposta più di tanto. Sono anni, anzi decenni, che da oltre la Manica periodicamente arrivano veri e propri attacchi contro la cucina del Bel Paese (con un accanimento che ha quasi del freudiano).

Sorrido nel leggere delle origini americane della carbonara, dei panettoni e dei tiramisù nati al supermercato e altre amenità del genere.

Leggendo quell'articolo, però, mi sono soffermata su un particolare: l'affermazione che il vero Parmigiano si produce in Wisconsin in quanto gli emigranti italiani di oltre un secolo fa avrebbero portato la ricetta originale dalla valle del Po, mentre in madrepatria sarebbe stata industrialmente modificata, sfalsandola.

Il professore sostiene che il Parmigiano originale fosse prodotto in forme piccole, di al massimo 10 chili e di colore scuro, quasi nero. E anche la composizione interna sarebbe stata diversa: più grassa e morbida.

La risposta la lascio ad un grande maestro della pittura lombarda del XVII secolo: Francesco Paglia. In uno dei suoi capolavori conservati nella chiesa di San Giuseppe a Brescia (una bellissima chiesa, cara a corporazioni e mestieri) si può ammirare San Lucio, patrono dei casari, mentre distribuisce ai poveri del formaggio. Il dipinto si trova nella cappella della corporazione dei casari. Il Paglia, nella sua pittura, prende spunto da ciò che vedeva ai suoi tempi e che ora permette a noi di vedere. San Lucio, infatti, tiene in mano un grande pezzo di formaggio, a pasta dura, nella forma, consistenza e colore del Parmigiano o del "cugino", non meno pregiato, Grana Padano. Un grande spicchio di formaggio proveniente da una forma di grandi dimensioni, paragonabile a quelle attuali.

Consiglio quindi caldamente a chi voglia discutere delle origini della cucina italiana e dei nostri prodotti di tenere sempre da conto lo studio e la ricerca della nostra cultura millenaria. Ancora una volta, troviamo risposte e verità nell'arte e nella storia del nostro magnifico Paese.

E qui concludo, con un assaggio di formaggio italiano, come in ogni pasto che si rispetti.

I Cibi dei poveri.

I Cibi sacri.

Il Bisfenolo.

L’Aspartame.

Cibo da Dio.

Le Etichette.

Cosa si mangia nelle zone dove si vive più a lungo?

Erbe Aromatiche.

Gli Integratori.

Puzzolenti.

I cibi nocivi.

Il potassio.

Vitamina B12.

Vitamina D.

Il caffè.

Maizena.

Lo Zenzero.

I Carboidrati.

La Soia.

Il Surimi.

L’insalata russa.

La carne cruda.

Il Merluzzo.

Il Prezzemolo.

La noce moscata.

Alchechengi.

Il Colorante.

Nitriti e Nitrati.

Le vitamine.

Il Sale.

Gli Zuccheri.

I Cibi dei poveri.

Poveri politici “costretti” a ostriche e caviale. Redazione su Nicolaporro.it il 27 Agosto 2023

I commenti del ministro Lollobrigida sui poveri che mangiano più sano dei ricchi non erano una svista perché anche Ignazio La Russa conferma che la linea, forse non del governo, ma di FdI è che mangiare pesce e carne (“le pietanze costose”) non è salutare come mangiare pasta e ricotta, con benefici sia al portafoglio che alla salute.

Purtroppo, come notava La Russa, all’estero non c’è questa consapevolezza, per cui ad esempio quando si invitano i premier esteri in Italia alle vare riunioni come il G7 (vedi sotto il menu di quello tenuto a Siracusa tempo fa), si è costretti a rifilargli anche quattro costose pietanze a base di pesce. 

Anche al recente meeting in Giappone, Meloni è finita in un pranzo, come si può leggere qui su CNN, a base di ostriche, caviale e altre “proteine nobili”, tra cui una famosa e rara carne di vitello  chiamata “Hiba Beef”, che viene solo da vitelli di colore nero di una razza particolare, allevati rigorosamente al pascolo in una zona senza inquinamento e dove la qualità di aria, acqua e erba è la migliore in Giappone. 

I leader politici quando si ritrovano sono “costretti “a deglutire ostriche, caviale e carni di alta qualità allevate in modo naturale e senza tracce di prodotti chimici, come fanno i miliardari, per ragioni di status. Ma in realtà, non c’è bisogno di pesce e carne di qualità allevate in modo naturale, che costa molto di più di quelle industriali. Si può mangiare un sacco di carboidrati che costano molto meno, con melanzane, pomodori e formaggio presi ad un discount.

Questo chiarimento rassicura le famiglie di lavoratori e pensionati o giovani appena assunti a 1.000 euro al mese, che si ritrovano un’inflazione dei generi alimentari per il secondo anno superiore al 15% medio in Italia, per cui si accontentano di spaghetti al pomodoro con una spruzzata di parmigiano.

Sì, perché, in realtà, forse il tema più che la dieta a base di farinacei è l’inflazione, che adesso in Italia per il secondo anno è più alta che in quasi tutti i paesi al mondo, persino più di Brasile o Messico e in Europa come si vede è sopra la media.

Alcuni paesi hanno inflazione pari o un poco superiore alla nostra, come Austria, UK, Svezia o Paesi dell’Est; tuttavia, c’è una piccola differenza con l’Italia di cui non si parla mai. Se uno va a controllare da loro gli stipendi aumentano, anche del 7% l’anno come in UK. In Italia siamo sull’1,7% e quindi al netto dell’inflazione gli stipendi medi calano di quasi il 5%.

Da qui viene, saggiamente, la linea del partito di maggioranza del governo Meloni, di sottolineare i pregi, per chi ha redditi bassi, di una dieta vegetariana con contorno di ricotta. Ovviamente un bicchiere di vino non si nega a nessuno. Paolo Becchi e Giovanni Zibordi, 27 agosto 2023

I poveri buongustai, la sostituzione etnica e la vitellina Mary. Francesco Lollobrigida è il poeta della gaffe. Da quando è ministro “il cognato di” Giorgia Meloni, detto Lollo-Beautiful,collezione cantonate. E l’ultima al meeting di Rimini («i poveri mangiano anche meglio dei ricchi perché cercando dal produttore l'acquisto a basso costo, comprano qualità») raggiunge vette liriche. Simone Alliva su L'espresso il 25 agosto 2023

«Anche stavolta, pure sul ministro Lollobrigida, molti capiscono Toma per Roma» questa volta a correre in difesa del marito di Ariana Meloni è il presidente del Senato, Ignazio La Russa. Un ministro incompreso Francesco Lollobrigida che al meeting di Rimini, confrontando l'Italia con gli Usa, ha detto che nel nostro Paese «i poveri mangiano anche meglio dei ricchi perché cercando dal produttore l'acquisto a basso costo, comprano qualità». 

Lollo-Beutiful faccia da attore di soap americana: («Iniziarono a chiamarmi Beautiful quando facevo politica all’università: era il mio nome in codice per sfuggire alle rappresaglie dei compagni che attraverso le vere identità poi ti aspettavano sotto casa», ha raccontato) si è dimostrato in realtà, in pochissimi mesi, un vero e proprio poeta della gaffe, del vaniloquio, della bravata controproducente.

La più rumorosa è stata sicuramente quella sulla superiorità della razza bianca. Il ministro dell’Agricoltura il 18 aprile ha interpretato così la crisi demografica: «Non possiamo arrenderci all’idea della sostituzione etnica». Onesto il tentativo di difesa due giorni dopo: «Sono ignorante, non razzista» ma sempre in lotta con sé stesso: «Non credo sia corretto definirmi ignorante perché fino a ieri non sapevo chi fosse il signor Kalergi». Durante un colloquio in Buvette al Parlamento, il ministro spiegò durante un caffè con grande serietà: «Io cito l'etnia in senso statistico. Del resto, persino al supermercato c'è la cucina etnica... E poi c'è la musica etnica. È razzismo pure quello?».

Dubbi, precisazioni e passi indietro seguono quasi sempre le uscite del ministro, come quelle sui percettori del reddito di cittadinanza: «Nelle campagne c’è bisogno di manodopera e i giovani italiani devono sapere che non è svilente andare a lavorare in agricoltura. Anzi, quello che non è un modello di civiltà è non andare a lavorare, stare sul divano e gravare sulle spalle altrui col reddito di cittadinanza», tuonava il 2 aprile al Vinitaly di Verona, a proposito del tema delle quote di stagionali richiesti per le campagne di raccolta. Per poi specificare, ma soltanto il 12 giugno, cioè due mesi dopo: «Quando consigliavo di prendere in considerazione l’idea di andare a lavorare nei campi, non lo dicevo in termini negativi».

Confuso, anche sulla questione dei femminicidi. Così tanto che durante la presentazione del disegno di legge che «interviene in maniera efficace su una criticità che sembra essere all’attenzione dell’opinione pubblica solo quando emerge il fenomeno e quindi la criticità», il ministro afferma in conferenza che i provvedimenti «in termini strategici prevedono atti come questi che tendono a eliminare ed eradicare un problema di tale gravità e tale natura» e passa quindi a parlare del provvedimento che interessa il suo settore così: «Le donne non si dovrebbero toccare nemmeno con un fiore e invece tratterò un argomento che è quello della produzione dei fiori e delle piante nella nostra nazione».

Ma è sicuramente sul cibo che il ministro è riuscito fino a oggi a dare il meglio. Dalle Fiere Zootecniche Internazionali racconta la storia della vitellina Mary: «Noi ora stiamo subendo un'altra aggressione: l'aggressione del cibo prodotto in laboratorio. Si dice che Mary, la vitellina più piccola lì presente, sia un problema, venga curata male. Io non credo che quel ragazzo che lì accanto la tiene con tanto affetto, la maltratti. Mary fa la sua vita, finirà alla macellazione e produrrà carne di qualità».

Lollo ma che stai a dì? L’ultima gaffe di Lollobrigida: i poveri mangiano meglio dei ricchi, le file alla Caritas e l’idea di spedire il cognato d’Italia a Bruxelles. Claudia Fusani su Il Riformista il 26 Agosto 2023 

Questa volta ha realizzato proprio mentre la diceva che stava per fare l’ennesima figuraccia. Nel video il momento della consapevolezza corrisponde a quello di una brevissima pausa. Sembra quasi aver perso il filo del ragionamento. In realtà in quella frazione di secondo Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura nonché cognato d’Italia, cioè compagno-marito di Arianna, che è la sorella d’Italia, realizza tutto quello che sarebbe successo. E che sta succedendo. Ovvero titoli e sfottò, “Lollo ma che stai a di’, “ancora, ma non avevi detto che non l’avresti fatto più?”, “l’ultima del cognato d’Italia”. E aridinghate, dicono a Roma.

La frase incriminata è stata sussurrata giovedì sul palco di Comunione e Liberazione a Rimini, panel dedicato all’agricoltura, ai danni provocati dall’alluvione proprio in questa regione e al caro prezzi che è stato un po’ il filo rosso di tutta la settimana. Ed è qui che Lollo, detto anche Ciccio bello, cioè Francesco Lollobrigida se n’è uscito con la frase: “In Italia abbiamo un’educazione alimentare interclassista per cui spesso i poveri mangiano meglio perché comprano dal produttore e a basso costo prodotto di qualità”. Ecco, se doveva essere un’ode all’ottima bruschetta fai da te, gli è venuta malissimo in un paese in cui le code alle mense della Caritas aumentano ogni giorno e non sono stranieri migranti appena arrivati ma padri e madri che non riescono a fare la spesa per un caro-carrello che il governo non riesce a fermare. Va da sé che le opposizioni lo hanno subito biasimato. E crocifisso. Creando ufficialmente il caso: ma Lollo c’è o ci fa a spararle così grosse? Va detto che il ministro è tra i più simpatici nella maggioranza, ha sempre la battuta pronta ed è generoso, nel senso disponibile, con i giornalisti. Anche a lui, come a tutti gli altri è stata messa la mordacchia da tre-quattro mesi. Una sorta di cordone di sicurezza. E però, come si vede, non è colpa di giornalisti incalzanti e maligni pronti a farlo cadere in errore. Lollo se le fa e se le dice anche da solo. Anzi, meglio da solo. Più o meno una al mese.

A maggio, mentre infuria la battaglia contro la carne coltivata, cita un report dell’Oms in base al quale questo prodotto “nasconde 53 rischi per la salute”. Peccato che non sia vero, tutta colpa di una errata traduzione dall’inglese della parola hazard che riferisce dei rischi-caratteristiche di ogni tipologia di cibo.

A giugno, pensando di fare un passaggio elegante, risponde in conferenza stampa sul ddl contro i femminicidi che il Cdm ha appena licenziato. Elogia il testo e poi, passando al provvedimento che riguarda il suo ministero, dice: “Le donne non si dovrebbero toccare neppure con un fiore e invece tratterò un argomento che è quello della produzione dei fiori e delle piante nella nostra nazione”. Femminicidi e coltivazioni di fiori: la stessa cosa no? Un gaffeur, come minimo. Che mostra tutta la sua potenzialità due mesi prima, in aprile, quando nel pieno della polemica politica sul decreto Cutro su immigrati, stragi in mare e corridoi umanitari, afferma: “Qui bisogna fare più figli altrimenti diamo il via alla sostituzione etnica”. Era il 19 aprile e per l’appunto il Capo dello Stato Sergio Mattarella era in visita ad Auschwitz.

L’incontinenza verbale del ministro cognato ha perso ogni freno inibitore in questo agosto di meritate vacanze. Ieri il teorema dei poveri che mangiano meglio dei ricchi. Dieci giorni fa, di fronte al 30% di presenze turistiche in meno, allarga le braccia: “Chi vuole servizi migliori va in Italia e paga, chi li vuole peggiori va in Albania. La qualità si paga”. Peccato che lui stesso per Ferragosto sia andato ospite del presidente Rama a sud di Durazzo. Il combinato disposto è stato un pessimo messaggio per il turismo italiano.

Quattro giorni prima s’è cimentato col granchio blu: “Trasformiamo una criticità in opportunità e impariamo a cucinarlo”. Bravo Lollo, stavolta l’hai azzeccata. Peccato che i coltivatori di vongole, a cui il governo ha appena dato tre milioni di euro per i danni, non hanno alcuna intenzione di passare dalle vongole al blu. Anche se dicono sia ottimo per gli spaghetti. Ma anche al forno, gratinato. Dicono che Meloni voglia mandare Lollobrigida in Europa. Quasi che Bruxelles e la distanza potesse nascondere le gaffe.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Le dichiarazioni del ministro. L’ultima sparata di Lollobrigida: “I poveri mangiano meglio dei ricchi”. Il dem Orlando replica al ministro dell’Agricoltura: “Ecco perché hanno abolito il reddito di cittadinanza”. Redazione su L'Unità il 25 Agosto 2023

Non ce la fa. Ogni volta che prende la parola pubblicamente, il ministro Lollobrigida non manca mai di deliziare media e opposizioni. Stavolta il titolare del dicastero dell’Agricoltura si esercita in un concetto ardito: sostiene che i poveri in realtà mangiano meglio dei ricchi. “In Italia – ha detto Lollobrigida al meeting di Rimini – abbiamo un’educazione alimentare interclassista: spesso i poveri mangiano meglio, perché comprano dal produttore e a basso costo prodotti di qualità. In Paesi come gli Stati Uniti, invece, c’è una divaricazione sociale, tra chi ha più soldi e mangia meglio, e chi ne ha meno e compra cibo di scarsa qualità, anche a causa di elementi condizionati come il Nutriscore”.

“Questo – ha aggiunto il ministro durante l’incontro ‘Food Security e sostenibilità’ – porta anche a una divaricazione delle condizioni di salute: il sovrappeso negli Usa al 77% rispetto al 36% della media europea e il problema è concentrato in fasce più basse”. “Produrre cibo di qualità – ha continuato il ministro – ha costi diversi e va spiegato a nazioni che non hanno questo elemento che contraddistingue la loro educazione alimentare”.

Per questo, ha precisato, “abbiamo presentato la candidatura della cucina italiana come patrimonio dell’Unesco”. La candidatura della cucina italiana a patrimonio dell’Unesco, ha ricordato il ministro, “è stata presentata negli scavi Pompei, viaggerà per 31 porti del mondo sulla Amerigo Vespucci, l’abbiamo illustrata anche a New York per raccontare agli statunitensi la qualità della nostra cucina”.

Ma, ha concluso, questa “partita da giocare durerà fino al 2025 e mira a coinvolgere ristoratori, produttori, cuochi e cittadini e dovrà far capire come la cucina italiana rappresenti qualità di produzione ma anche ricerca e cultura”. Tagliente la replica dell’ex ministro dem, Andrea Orlando: “Per il ministro Lollobrigida – ha detto – spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi. Ecco perché hanno tolto il reddito di cittadinanza. Bisogna fare qualcosa per i ricchi che, poveretti, mangiano male”. Redazione - 25 Agosto 2023

Estratto dell’articolo di Elena Dusi per “la Repubblica” sabato 26 agosto 2023.

Non è vero che i poveri mangiano meglio. Il rapporto Censis-Coldiretti dello scorso novembre mostra gli effetti dell’inflazione sul carrello della spesa: il 37% degli italiani ha ridotto la qualità del cibo acquistato. 

La percentuale si divarica se guardiamo ai redditi bassi (46%) rispetto a quelli alti (22%). Francesco Lollobrigida, ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, ha sostenuto la tesi giovedì al meeting di Rimini: «Spesso i poveri mangiano meglio perché comprano dal produttore a basso costo prodotti di qualità». 

Il suo pensiero è smentito dai dati Censis, che nel rapporto “Gli italiani e il cibo nelle crisi e oltre” mostrano come l’inflazione abbia spostato gli acquisti verso discount (vi fanno la spesa il 72% degli italiani) e supermercati che offrono promozioni (l’83% dei clienti va a caccia di sconti).

[...]

La scorciatoia per arrivare a fine mese è il supermercato economico, non il banco del contadino, visto che anche lui si è adeguato al rialzo del costo della vita. 

Open to Lollobrigida. La destra, il poveraccismo pasoliniano e le lezioni sull’Italia di Ally Millman. Guia Soncini su L'Inkiesta il 26 Agosto 2023

Il dibattito scatenato dal cognato di Meloni è strano in uno Stato che feticizza proprio la cucina di cui parla lui. Peccato che non si sia ancora inserita nella discussione la mia pensatrice di riferimento, che dovrebbe fare la consulente al ministero del Turismo e quello dell’Agricoltura 

Sono molto triste perché, al terzo giorno di polemicuzza estiva su quel Lollobrigida che è non Gina ma Francesco, non è ancora comparsa su TikTok una risposta di Ally Millman, mia pensatrice di riferimento e donna che non so perché il ministero del Turismo e quello dell’Agricoltura non abbiano ancora assunto come consulente.

Ally è un’americana che vive a Milano, è fidanzata con un italiano e, in un’estate che – beati voi se non ve ne siete accorti – è stata all’insegna del clash culturale tra turisti americani e tipicità italiane, è l’unica voce della sanità mentale.

Le turiste americane vanno a Positano e fanno video stravolti perché sono dovute andare a piedi coi bagagli dal molo all’albergo, non essendo evidentemente mai andate prima in vacanza non dico in costiera amalfitana, ma anche solo in posti meno orrendi di Orlando, in posti in cui non arrivi prendendo un taxi dall’aeroporto.

Le turiste americane tornano dall’Italia stravolte perché al ristorante hanno ordinato l’acqua ed è arrivata quella minerale, e sotto i loro post i saperlalunghisti altrettanto americani scrivono eh ma è perché in Italia fino a trent’anni fa l’acqua non era potabile e allora la gente non si fida di bere quella di rubinetto. La famosa acqua non potabile degli anni Novanta.

Le turiste americane tornano dall’Italia e dicono state attente perché a mangiare tutta quella pasta e mai fibre poi state male, in Italia è praticamente impossibile trovare frutta e verdura, vi do una dritta pazzeschissima, cercate la voce «contorno» nei menu. Residenti in un paese in cui una pesca costa quanto farsi gestare un figlio spiegano serissime che qui c’è carenza di frutta e verdura, e appropriatamente suggeriscono una soluzione: tutti i ristoranti hanno le patate fritte – perché se sei americano la tua idea di verdura è quella.

A fronte di questo inevitabilmente – il mercato crea le proprie nicchie – ci sono le spiegatrici di Italia agli americani (il New York Times ne ha persino consultate alcune per un pezzo che sarebbe stato più appropriato comparisse su Cavalli e segugi). Quelle che dicono cose originali e sagacissime quali «non ordinate cappuccino dopo mezzogiorno» o «non mettete il ghiaccio nel vino».

Poi, per fortuna, c’è Ally. Che dice ma cosa state dicendo, ma veramente pensate che l’acqua l’abbiano inventata gli americani, che l’antica Roma non avesse l’acqua? È che le fontane italiane non le riconoscete perché sono molto più fighette di quelle americane. (Peraltro ho imparato molte più cose dell’Italia dal TikTok di Ally che da tutte le campagne da «Please, visit Italy» a «Open to meraviglia»: voi lo sapevate che per strada, vicino Como, ci sono i distributori automatici di latte sfuso?).

E quindi Lollobrigida (Francesco, no Gina) dice che gli italiani poveri mangiano meglio, perché vanno dal contadino a farsi dare i prodotti freschi. Il che, visto che (per fortuna) siamo un paese di provinciali, ricorda a tutti noi qualche episodio d’infanzia – la nonna che ti fa bere l’uovo crudo appena uscito dal culo della gallina, e tu che vorresti vomitare – o d’età adulta (il tragico mal di testa dopo aver bevuto il-vino-genuino-del-contadino).

A me viene in mente anche Romolo Catenacci, il personaggio di Aldo Fabrizi in “C’eravamo tanto amati”, quando dice al genero che il ricco è solo, i poveri sono tanti, sempre assieme. Oppure quella direttrice di newsmagazine che guarda le foto del reportage dall’Africa, i ragazzini con la pancia gonfia e le mosche attorno, e sospira: come sono belli questi bambini poveri. Chissà se Lollobrigida sa quant’è pasoliniano, chissà se questa destra tutta sa quant’è pasoliniana, chissà quanto ci mette la sinistra ad accorgersene e a mollare finalmente Pasolini e i suoi danni sulla psiche collettiva.

Oltre che pasoliniani, sono anche fermi ai dietologi del 1986, con la mistica della dieta mediterranea e Ignazio La Russa che interviene per dire quanto sia sano un piatto di pasta alla Norma, cioè un mix di carboidrati e fritto perfetto per alzarti la glicemia e il colesterolo.

Intanto l’elettorato di sinistra – quel che ne resta – si chiede, come in quella puntata di Portlandia, non più solo se il pollo con cui sta per cenare sia biologico, ma se abbia avuto una vita felice. L’ultima frontiera del delirio antispecista è che dovremmo essere tutti vegani, che è una prospettiva stupenda se come me detestate gli animali: se nessuno mangerà più maiali, chi mai ne alleverà più? Il veganesimo come via perfettissima all’estinzione di intere specie animali: si proceda pure.

Chissà se alle prossime elezioni Lollobrigida (il cognato, no la bersagliera) intende candidarsi a Milano. Perché, oltre a Romolo Catenacci e alla direttrice che guardava il reportage africano e al poveraccismo di Pasolini, la sua uscita mi ha ricordato la fissazione milanese per il panettone.

Un dolce insensato, superato dalla storia, che non ha nessun senso mangiare in un’epoca in cui alla pasticceria all’angolo trovi la Sacher o la lemon meringue pie, in una città in cui hai le torte di Knam e mille altre prelibatezze su cui non mi dilungo per non arrubbare il lavoro a Gastronomika.

Eppure ogni anno – è quasi autunno, ci siamo quasi – i milanesi si accapigliano su quale sia il panettone migliore. E cos’è, questo, se non feticismo del dolce povero, anche quando esso ha ormai prezzi da ricchi?

Se fossi Beppe Sala, chiamerei Lollo (il Lollo, no la Lollo) a fare il giudice d’una competizione tra panettoni. Proclamazione del vincitore all’Opera San Francesco, e per l’occasione dibattito di lotta e di governo: con canditi o senza?

Lollobrigida, anche Serra si smarca dalla sinistra: "Polemica fondata sul nulla". Il Tempo il 26 agosto 2023

Il ministro dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida è finito sotto la lente d'ingrandimento della politica e dell'opinione pubblica per essere intervenuto al Meeting di Rimini, nel corso dell’incontro Food Security e sostenibilità. Stando alle parole del ministro, in Italia è diffusa un'educazione alimentare interclassista. La frase che ha scatenato un profluvio di critiche è la seguente: "I poveri mangiano meglio, perché comprano dal produttore e a basso costo prodotti di qualità". Oggi la vicenda è stata commentata da Michele Serra nella sua rubrica su la Repubblica.  

"Un’alta percentuale delle polemiche social, che i media 'tradizionali' rilanciano con irriflessiva passività, mi sembra fuori misura, dettata dai nervi o dall’antipatia politica assai più che dalla ragione. Sono polemiche fuori contesto e sempre più spesso anche fuori testo, nel senso che drammatizzano e alterano frasette non sempre memorabili, trattate come dichiarazioni solenni anche quando non lo sono né per l’intenzione, né per lo spessore": questa l'introduzione all’argomento offerta dal giornalista. Quindi Serra ha continuato: "Un esempio fra tanti: la frase del ministro dell’Agricoltura Lollobrigida sui «poveri» che in Italia «spesso mangiano meglio dei ricchi» è sicuramente discutibile (molte frasi lo sono), e fa un uso abbastanza equivoco del concetto di «poveri». Ma non è tale da giustificare l’ondata di sdegno che l’ha accolta". 

Per il giornalista la "cucina povera" è, in Italia, "di alto valore gastronomico, e difatti ne meniamo gran vanto, specie nel confronto con i cugini francesi, maestri della tavola 'alta', meno bravi di noi nei piatti di tutti i giorni". "Con il riciclo degli avanzi i nostri antenati, e soprattutto le nostre antenate, hanno costruito monumenti al sapore e al risparmio. Lollobrigida, per giunta, faceva il paragone con il junk food che nutre quotidianamente gli americani non di classe alta: robaccia, decisamente, e doppiamente robaccia se confrontata con l’alimentazione popolare italiana", ha aggiunto. Quindi la conclusione inaspettata: "Lollobrigida non è — diciamo così — tra i miei punti di riferimento. Il suo caso vale però, insieme a mille altri, come eccellente esempio di una polemica fondata sul quasi nulla, e però ripresa da quasi tutti, perfino da leader politici dal clic troppo facile. Abbiamo davvero, noi tutti, così tanto tempo da perdere?". 

Estratto dell’articolo di Vittorio Feltri per “Libero Quotidiano” sabato 26 agosto 2023.

È di nuovo bufera sul ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, la cui vera colpa è quella di essere il marito della sorella del premier Giorgia Meloni. Ogni volta che quest’uomo apre la bocca, la sinistra, sempre imbracciando e puntando il fucile, si inventa bizzarri motivi per chiederne le dimissioni, distorcendone le parole e attribuendo a queste un significato deformato. Ancora una volta riteniamo che il capo del dicastero in questione abbia ragione [...]

Paragonando la nostra maniera di nutrirci a quella in voga negli Stati Uniti, il ministro ha spiegato che «il nostro modello di educazione alimentare è interclassista. Da noi spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi, cercando dal produttore l’acquisto a basso costo spesso comprano qualità. Negli Usa, invece, le classi meno agiate vengono rimpinzate con elementi condizionanti che vanno nell’interesse del venditore più che del consumatore finale». 

[...] la sinistra accusa Lollobrigida di essere fuori dal mondo, di vivere su un altro pianeta, specialità quest’ultima proprio dei progressisti, che si sono scollati dal popolo sposando cause che al popolo non interessano e occupandosi di armocromia.

L’esponente di Fratelli d’Italia non ha fatto altro che sottolineare qualcosa di fattuale: alimentarsi in modo sano non è una prerogativa dei ricchi, anzi spesso chi è povero, ossia chi dispone di minori risorse, adotta comportamenti più virtuosi a tavola, in quanto, allo scopo di risparmiare, sceglie prodotti di stagione che sono notoriamente meno costosi, si reca dal produttore, accorciando la filiera e, reperendo merce di prima scelta, evita i cibi già pronti, prediligendo alimenti non conservati, più salubri, meno carichi di zuccheri e grassi e di gran lunga più economici.

[...] che cibarsi in modo equilibrato sia qualcosa da benestanti, una sorta di lusso precluso alla massa, è un pregiudizio che non sta in piedi. Per fare una buona spesa serve la testa, non serve essere zio Paperone. Del resto, lo prova la storia: l’obesità è figlia della società del benessere. Quando io ero fanciullo, di rado ci si imbatteva in un individuo afflitto dal grasso, eravamo tutti asciutti in quanto ci nutrivamo in modo equilibrato. Quando è giunta la ricchezza è sorto anche il fenomeno della ciccia con tutti i problemi accessori che ne derivano. E pensiamo per un attimo alla cucina delle nonne, avvezze a sfruttare gli avanzi, o quel poco che c’è in frigorifero o nella dispensa, per realizzare piatti prelibati e nutrienti.

Ricordo la cara zia Nella che, con due ingredienti, riusciva a farmi fare un pasto da re. Poi sono diventato abbiente e, purtroppo, non ho più mangiato tanto bene. Un portafogli contenuto non implica una pessima alimentazione. Fare credere il contrario è fornire una scusa a quanti trascurano il proprio organismo comprando, per pigrizia, alimenti raffinati, confezionati, altamente grassi e dolci, privi dei necessari valori nutrizionali eppure esageratamente calorici. [...]

Lo chef sta con Lollobrigida: "Vi spiego perché ha ragione..." Massimo Balsamo il 26 Agosto 2023 su Il Giornale.

L'esperto ha definito incomprensibili le polemiche sulle dichiarazioni del ministro dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare

Nelle ultime ore si sono moltiplicate le polemiche sulle dichiarazioni del ministro Francesco Lollobrigida. Il titolare dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare al Meeting di Rimini ha affermato che "spesso i poveri mangiano meglio dei ricchi", tanto è bastato alla sinistra per sollevare il solito polverone. Intervistato dall'Adnkronos, lo chef Alessandro Circiello ha ammesso di non aver compreso le ragioni delle critiche: "La nostra alimentazione si basa su prodotti poveri e ricette tradizionali contadine, ma famose nel mondo. Cibi che hanno un basso impatto ambientale ed economico ma forniscono tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno [...] Non bisogna essere necessariamente ricchi per mangiare bene, sano e gustoso".

Bassetti sta con Lollobrigida: "Sui poveri e il cibo ha una posizione corretta"

L'esperto, membro deTaSiN, Tavolo tecnico sulla Sicurezza Nutrizionale del Ministero della Salute, ha posto l'accento sull'inconsistenza degli attacchi della sinistra, sposando l'opinione di Lollobrigida:"I legumi, grazie alle loro proteine vegetali nobili, se associate ai cereali, hanno lo stesso impatto sul nostro corpo di una bistecca. Era quel che sostenevano già negli anni Sessanta i grandi scienziati americani Ancel Keys e Margaret Haney, scopritori e massimi teorici della dieta mediterranea. Proposero al mondo intero il modello alimentare italiano, come stile di vita in grado di distribuire piacere e salute in maniera democratica".

Da Elly Schlein ad Antonio Misiani, passando per la sociologia Chiara Saraceno (ai microfoni del Fatto Quotidiano ha definito le parole di Lollobrigida "superficiali e ignoranti"), tutti sbugiardati da un esperto del settore. Ma lo chef Circiello non è l'unico ad aver difeso il ministro. Interpellato dall'Ansa, Gianfranco Vissani ha confermato che "i poveri mangiano meglio dei ricchi perché sanno riconoscere le cose buone e genuine": "Un piatto povero può diventare un grandissimo piatto se cucinato bene e la gente che tradizionalmente non frequenta Capri, Porto Cervo o Saint Tropez sa come si può mangiare bene spendendo relativamente poco".

Altro che gaffe, dunque: il ragionamento del ministro Lollobrigida è corretto. Vissani ha evidenziato che la famiglia media italiana, legata alle radici e che deve fare i conti per arrivare a fine mese, è tradizionamente educata al riconoscimento delle materie prime: "Questo gli permette di acquistare prodotti di ottima qualità e quindi di mangiare bene e in maniera sana". Con buona pace dei soliti soloni, pronti a tutto per denigrare l'esecutivo guidato da Giorgia Meloni.

I Cibi sacri.

Estratto dell’articolo di Marco Ventura per il “Corriere della Sera” il 25 luglio 2023.

Certi miti africani e amerindiani fanno originare donna e uomo da una cottura. Come fossero cibo. Ci ricordano che nelle tradizioni religiose cibo e creazione coincidono. Gli esseri umani e divini si uniscono e si dividono negli alimenti cotti e crudi, nella preparazione e nel consumo, nel digiuno e nella festa, nel prescritto e nel vietato. 

Nella Grecia classica sale verso l’Olimpo il fumo della bestia sacrificata — agli dèi non serve altro, hanno già nettare e ambrosia — e agli uomini resta la carne. Da Zeus a Vishnu, da Buddha a Maometto, il cibo della religione è la religione stessa: il cibo è «la materia prima della religione», le religioni sono «regimi alimentari sacralizzati».

Partono da qui Elisabetta Moro e Marino Niola nel loro Mangiare come Dio comanda (Einaudi). I due antropologi dell’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa imbandiscono per lettrici e lettori una ricca mensa di prove del cibo nella religione […] 

Gli autori mostrano anzitutto le continuità profonde, gli schemi che persistono mentre ne mutano le manifestazioni. È il caso del passaggio del pane, del vino e dell’olio dal pantheon greco-romano al cristianesimo, in quella che Moro e Niola definiscono una «teologia della dieta mediterranea». Così i cereali devono il loro nome a Cerere, la greca Demetra, la «dea madre» signora delle messi, mentre l’olio è sotto il segno di Atena, e perciò i giovani ateniesi sulla soglia dell’età adulta giurano di difendere la patria davanti agli ulivi sacri. 

Il vino, poi, è il dono di Dioniso, il «dio in fermento» come il succo della vite che è «succo della vita», «bios allo stato nascente ed effervescente».

I cristiani reinventano e perpetuano i tre elementi nel transito «dal simposio alla messa». Se Gesù è «la messe che diventa Messia», i «tre emblemi alimentari del Mediterraneo antico» si trasformano nel corpo, nel sangue e nel crisma di Cristo. 

Al contempo i cristiani introducono cesure nella trama: mangiano tutto, purché con moderazione e senza dimenticare l’affamato e l’assetato alla porta, e poi sostituiscono il sacrificio finale dell’Agnello di Dio a quelli ripetuti degli agnelli del gregge. In questo il cristianesimo non è il solo caso di un tema fondamentale che persiste mentre muta. Moro e Niola ce lo mostrano mentre srotolano il filo vegetariano che conduce dalla Magna Grecia di Pitagora alla Londra di Gandhi, mentre sfogliano il ricettario che accomuna e distingue il puro e l’impuro di ebrei e musulmani.

Il senso del libro, tuttavia, è ancora oltre: lo incontriamo nell’ulteriore passaggio dal cibo della religione quale sviluppatosi nei millenni alla «religione del cibo» contemporanea. Se infatti ogni religione è un regime alimentare, spiegano gli autori, ogni regime alimentare è una religione, e la nostra religione del cibo contiene a sua volta una continuità e una cesura, perché da un lato ripropone antiche discipline, ma dall’altro pretende liberarsi del divino.

Da qui il titolo del volume: vogliamo ancora «mangiare come Dio comanda», anche senza Dio. La nuova disciplina si è staccata da tradizioni e culture e, come il «vegetarianismo», si impone quale «contrassegno identitario di una nuova élite alfabetizzata, metropolitana, ambientalista e globish, uguale a Shanghai come a Stoccolma, a Milano come a New York». 

«Religione del nostro tempo», il cibo «pesa allo stesso tempo sulla bilancia e sulla coscienza». Ciò vale per la nostra «cibomania», ovvero la «sovraesposizione del piacere, della conoscenza e dell’esperienza gastronomica», ma anche per la nostra «cibofobia», cioè per «l’ipercorrettismo alimentare che demonizza un cibo dopo l’altro». 

Qui approda il libro, infine: alla nostra «intolleranza alimentare», non meno integralista di quella religiosa, nella quale «la secolarizzazione e il culto del corpo da una parte e le esigenze di sicurezza e le mode alimentari dall’altra» rimpiazzano salvezza e fede con salute e fiducia. […]

Il Bisfenolo.

Il bisfenolo è presente in quasi tutti i pomodori pelati, come evitarlo. Roberto Demaio su L'Indipendente lunedì 3 luglio 2023.

Un nuovo test ha analizzato 20 confezioni di pomodori pelati, quasi tutti confezionati in lattina, scoprendo che il bisfenolo A è ancora un grosso problema. Il bisfenolo (BPA) è una sostanza impiegata nei recipienti per uso alimentare e può provocare gravi danni alla salute. È provata la sua correlazione con l’alterazione del sistema nervoso, riproduttivo ed immunitario e recentemente è stato collegato anche a problemi di obesità e al tumore mammario. Dalle analisi pubblicate sul mensile dei consumatori tedeschi Öko-Test, 18 lattine hanno superato il limite critico, superando addirittura di 28 volte il limite considerato innocuo dalle autorità europee. Solo una marca si è salvata ed è in vetro. Alcune tra le marche coinvolte sono italiane e, con pochissime eccezioni, tutti i barattoli contengono pomodori italiani. Tra i nomi anche Cirio, Mutti e i pelati prodotti da La Doria per Lidl.

L’indagine si è concentrata in particolare sul bisfenolo A. Lo scopo era capire se questo può migrare dai rivestimenti delle lattine al pomodoro. Si è voluto verificare anche se i prodotti fossero contaminati da residui di pesticidi o tossine delle muffe. Tutti i pomodori pelati in scatola del test hanno superato la dose giornaliera consentita. D’altra parte, solo i 2 prodotti in vetro sono puliti. Öko-Test, il mensile dei consumatori tedeschi che ha pubblicato le analisi, ha specificato che “con un cibo in scatola di un fornitore del nostro test, un adulto del peso di 60 kg assume 28 volte più bisfenolo A di quanto l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) consideri innocuo secondo le ultime stime”. Tuttavia, la dose giornaliera tollerabile non è vincolante. Non si tratta quindi di un limite legale. Quindi anche in questo caso i pomodori sono assolutamente a norma di legge. La cosa che stupisce maggiormente è che a superare questi limiti sono anche i pomodori confezionati in lattine “BPA free”, ovvero quelle per cui la sostanza non dovrebbe essere usata per il rivestimento interno.

Il Bisfenolo A (BPA) è prodotto sin dagli anni ’60 dello scorso secolo ed è una sostanza chimica molto utilizzata in tutti i paesi industrializzati. È impiegato principalmente nella produzione delle plastiche in policarbonato, utilizzate nei recipienti per uso alimentare, e nelle resine epossidiche che compongono il rivestimento protettivo interno presente nella maggior parte delle lattine per alimenti e bevande. Gli usi in campo non alimentare vanno dalla carta termica degli scontrini ai dispositivi odontoiatrici. Il BPA è considerato un interferente endocrino, ovvero una sostanza in grado di danneggiare la salute alterando l’equilibrio endocrino, soprattutto nella fase dello sviluppo all’interno dell’utero e nella prima infanzia. Gli studi sperimentali, ed anche un numero crescente di studi epidemiologici indicano che il BPA ha effetti estrogenici, che hanno una vasta influenza sulla funzione riproduttiva, ma anche su altre funzioni dell’organismo. Il BPA, pertanto, può alterare lo sviluppo del sistemi riproduttivo, di quello nervoso ed immunitario. Recentemente sono stati scoperti alcuni effetti particolarmente preoccupanti sull’aumento del rischio di obesità e di tumore mammario. Il Bisfenolo A può passare in piccole quantità dai recipienti che lo contengono ai cibi e alle bevande, soprattutto se i materiali non sono perfettamente integri e sono utilizzati ad alte temperature.

Sempre secondo il test, fortunatamente i pesticidi non sembrano essere un problema e neppure le tossine della muffa, le quali sono state trovate in un solo prodotto. Importante sapere che il Bisfenolo A è una molecola usata come additivo nella produzione di plastiche e lattine, quindi acquistare o conservare i pomodori pelati in bottiglie di vetro pone al riparo dalla sua assunzione. [di Roberto Demaio]

L’Aspartame.

Cancerogeno o sicuro? Quanti dubbi sull'aspartame. Maddalena Bonaccorso su Panorama il 28 Luglio 2023

Il dolcificante al centro di studi che ne rivelerebbe la pericolosità. Ma è proprio così?  L’incertezza regna sovrana, e tutto l’affaire “aspartame” suona contraddittorio.

Il dolcificante, presente in circa 6.000 prodotti di uso alimentare e bevande di consumo praticamente quotidiano come dentifrici, bibite, chewing-gum e caramelle, è stato dichiarato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità “potenzialmente cancerogeno”. Nello stesso tempo, però, il comitato Fao-Oms Jecfa ( un gruppo congiunto di esperti FAO/OMS che si occupano di additivi alimentari) lo indica come sicuro, se ci si attiene a quella che dal 1971 è la dose massima giornaliera consentita, e cioè 40 milligrammi per kg di peso: tradotto, sarebbe l’equivalente di circa 12 lattine di bibite, quantitativo francamente difficile da raggiungere. Come regolarsi, dunque? In un articolo di “Nature” , Mary Schubauer-Berigan, della IARC (Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro) di Lione spiega che l’alert è più che altro un invito "alla comunità dei ricercatori per cercare di chiarire e comprendere meglio il rischio cancerogeno, che può o meno derivare dal consumo di aspartame". La decisione di diramare un allerta deriva da studi -che hanno preso in considerazione il consumo di bevande dolcificate in maniera artificiale- effettuati sia sui roditori che sulle persone, al fine di esaminare le possibilità di correlazione tra il consumo di aspartame ad alcuni casi di cancro al fegato. Il problema, però, sta nel fatto che non è semplicissimo circoscrivere i suoi effetti, dato che il dolcificante “incriminato” viene consumato assieme ad altre componenti, e considerando il fatto che –sempre citando “Nature”- il prodotto una volta arrivato nel nostro organismo, si scompone in tre metaboliti: fenilalanina, acido aspartico e metanolo: "Queste tre molecole si trovano anche in seguito all'ingestione di altri alimenti o bevande" ha spiegato Francesco Branca, direttore del Dipartimento di Nutrizione e Sicurezza Alimentare dell'OMS. Questo rende di fatto impossibile rilevare l’aspartame nelle analisi del sangue, creando di fatto un enorme ostacolo per la capacità di ricercatori e clinici di comprendere gli effetti sull’organismo umano. Il metanolo, peraltro, è di per sé cancerogeno, ma la quantità rilasciata dall’aspartame quando si scompone risulta totalmente irrilevante. Lo stesso Francesco Branca, durante una conferenza stampa tenutasi il 12 luglio a Ginevra, ha quindi dichiarato che "Non ci sono prove convincenti da dati sperimentali o umani che l'aspartame abbia effetti avversi dopo l'ingestione, entro i limiti stabiliti dal precedente comitato”. L’aspartame, che è circa 200 volte più dolce dello zucchero, ma ha le stesse calorie ed è per questo tuttora molto utilizzato nelle diete dimagranti, venne “scoperto” come dolcificante nel 1965 dal chimico James Schlatter, ed è oggi il più diffuso al mondo. Nonostante la sua enorme diffusione lo renda di fatto quasi impossibile da evitare, è bene sapere che anche il farmacologo Silvio Garattini, parlando all’agenzia Adnkronos, ha parlato di “contraddittorietà” nelle dichiarazioni di OMS, dicendo che anche solo l’uso della definizione “potenzialmente cancerogeno” è molto equivoco e lascia incertezza. Nel frattempo, il fondatore dell’istituto farmacologico “Mario Negri” invita comunque a consumarne il meno possibile, auspicando "ulteriori ricerche per chiarire definitivamente" gli effetti del dolcificante sulla salute e auspica che sulle etichette dei prodotti venga indicato con il nome di aspartame, anziché con la sola sigla di E951. Sigla alla quale, da ora in poi, faremmo bene a prestare più attenzione.

(ANSA-AFP il 14 luglio 2023) L'OMS ha dichiarato di aver classificato l'aspartame, un dolcificante artificiale comunemente usato nelle bevande analcoliche, come "possibilmente cancerogeno per l'uomo", lasciando però invariato il livello di assunzione giornaliera accettabile. "Non stiamo consigliando alle aziende di ritirare i prodotti, né stiamo consigliando ai consumatori di smettere del tutto di consumarli", ha affermato Francesco Branca, direttore della nutrizione e della sicurezza alimentare dell'Organizzazione mondiale della sanità.

"Stiamo solo consigliando un po' di moderazione", ha detto Francesco Branca, direttore della nutrizione e della sicurezza alimentare dell'Organizzazione mondiale della sanità in una conferenza stampa presentando i risultati di due revisioni delle prove disponibili sull'aspartame. L'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) dell'Oms ha effettuato la sua prima valutazione della cancerogenicità dell'aspartame durante un incontro a Lione, in Francia, dal 6 al 13 giugno.

"Il gruppo di lavoro ha classificato l'aspartame come possibilmente cancerogeno per l'uomo", ha detto l'Oms. È stato inserito nella categoria Gruppo 2B, sulla base di test che riguardavano specificamente il carcinoma epatocellulare, un tipo di cancro al fegato. Altri test sono stati effettuati su animali da laboratorio. La categoria Gruppo 2B contiene anche l'estratto di aloe vera e l'acido caffeico presenti nel tè e nel caffè, ha affermato Paul Pharoah, professore di epidemiologia del cancro presso il Cedars-Sinai Medical Center di Los Angeles.

"Il pubblico in generale non dovrebbe essere preoccupato per il rischio di cancro associato a una sostanza chimica classificata come gruppo 2B", ha affermato. Mary Schubauer-Berigan della Iarc ha affermato che le prove riferite al carcinoma epatocellulare provengono da tre studi, condotti negli Stati Uniti e in 10 Paesi europei. "Questi sono gli unici studi epidemiologici che hanno esaminato il cancro al fegato", ha detto ai giornalisti. Branca ha aggiunto: "Abbiamo, in un certo senso, lanciato un segnale, indicando che dobbiamo chiarire molto meglio la situazione", ma non è nemmeno "qualcosa che possiamo liquidare".

Un secondo gruppo, il Jecfa, il comitato congiunto di esperti sugli additivi alimentari formato dall'Oms e da un'altra agenzia delle Nazioni Unite, l'Organizzazione per l'alimentazione e l'agricoltura, si è riunito a Ginevra dal 27 giugno al 6 luglio per valutare la rischi associati all'aspartame e ha concluso che non vi sia alcun motivo per modificare la dose giornaliera accettabile stabilita nel 1981, da zero a 40 milligrammi di aspartame per chilogrammo di peso corporeo. 

Con una lattina di bibita analcolica senza zucchero contenente tipicamente 200 o 300 mg di dolcificante aspartame, un adulto del peso di 70 kg dovrebbe quindi consumare più di 9-14 lattine al giorno per superare il limite, supponendo che non venga assunto ulteriore aspartame da altre fonti . "Il problema è per i grandi consumatori", ha detto Branca. "Chi beve una bibita ogni tanto non dovrebbe preoccuparsi", ha concluso.

L’aspartame sarà dichiarato cancerogeno: dove si trova e come individuarlo in etichetta. Roberto Demaio su L'Indipendente martedì 4 luglio 2023.

L’International Agency for Research on Cancer (IARC), l’agenzia dell’Oms specializzata nella ricerca sul cancro, potrebbe presto classificare l’aspartame come “possibile cancerogeno per l’uomo“. È quanto anticipa Reuters sul proprio sito citando fonti anonime. L’ufficializzazione della notizia è attesa per il prossimo 14 luglio, quando la valutazione sarà pubblicata sulla rivista Lancet Oncology. L’aspartame è uno dei dolcificanti più diffusi in commercio. È presente in numerosi prodotti e, secondo i regolamenti europei, le aziende sono obbligate a segnalare il suo uso all’interno delle etichette. L’Associazione Internazionale dei Dolcificanti invita alla prudenza chiedendo di aspettare la pubblicazione completa dei risultati.

L’aspartame è un edulcorante artificiale intenso a basso tenore calorico. Si presenta come una polvere bianca e inodore ed è circa 200 volte più dolce dello zucchero. La scoperta risale al 1965, grazie al lavoro del chimico James Schlatter. Nel dettaglio, l’aspartame si ottiene mettendo insieme due aminoacidi: la fenilalanina e l’acido aspartico. In Europa ne è autorizzato l’uso come additivo alimentare. Fa parte dei cosiddetti “dolcificanti intensivi” e la sua produzione avviene attraverso la sintesi chimica. Il motivo del suo utilizzo è il potere calorico molto basso o addirittura nullo.

Il dibattito sulla sua sicurezza nasce da due studi sui topi dei primi anni Duemila, guidati dall’Agenzia per la protezione ambientale della California e dall’Istituto Ramazzini di Bologna. Esposti anche a bassi dosaggi, si è registrato un numero anomalo di tumori del cervello e leucemie. Nonostante un dibattito che dura da più di vent’anni, gli studi sugli esseri umani invece avevano sempre escluso il rischio tumore, fino a che una ricerca francese su 100mila persone ha notato un lieve aumento del rischio. Se la notizia di Reuters fosse confermata, sarebbe il primo ingresso di questo dolcificante nella lista dei possibili cancerogeni. Chiaramente questa decisione potrebbe andare a sconvolgere l’industria di cibi e bevande proposti e venduti come salutari per il basso o nullo contenuto di zuccheri. L’aspartame è possibile trovarlo nelle bevande (soprattutto in quelle senza zuccheri come la Coca Cola Zero), nei chewing gum, nelle merendine, nei gelati e nei cibi industriali dietetici. Fa parte di tanti prodotti lattieri (come lo yogurt) e negli alimenti usati in pasticceria. È presente pure in molti confetti. Secondo le direttive dell’Unione Europea, è obbligatorio che venga indicato nell’etichetta degli ingredienti che si trova nella confezione di tutti prodotti alimentari. È possibile riconoscerlo anche attraverso la sigla E 951.

Tuttavia, la categoria dei “possibili cancerogeni”, secondo la definizione della IARC, comprende anche le sostanze per le quali l’evidenza scientifica è ancora limitata. Carlo La Vecchia, epidemiologo dell’università di Milano che si occupa di aspartame da almeno un decennio, ha dichiarato di non aver mai notato effetti tossici: «Non abbiamo riscontrato problemi negli esseri umani. Trovo comunque che la nuova classificazione cambi poco le cose». Su posizioni simili anche L’Associazione Internazionale dei Dolcificanti (ISA), la quale ha specificato che “l’ingrediente è uno dei più studiati nella storia ed è stato dichiarato sicuro da oltre 90 agenzie per la sicurezza alimentare”. Frances Hunt-Wood, segretario dell’ISA, ha dichiarato di aver fiducia nel rigore scientifico e che attenderà con impazienza la pubblicazione completa dei risultati nelle prossime settimane. [di Roberto Demaio]

Cibo da Dio.

Estratto dall’introduzione di “Mangiare come dio comanda”, di Elisabetta Moro e Marino Niola (ed. Einaudi) pubblicato da "la Repubblica" il 31 maggio 2023.

L’uomo è ciò che mangia, ma Dio non è da meno. Perché da che mondo è mondo attraverso le scelte alimentari ogni popolo costruisce simultaneamente l’immagine di sé e quella della divinità. In un continuo rispecchiamento tra l’essere supremo e i suoi fedeli che lo trasformano nell’autore e al tempo stesso nel garante dei loro usi e consumi.

All’origine di quello che noi chiamiamo «gusto» non c’è semplicemente un gioco di papille o una conseguenza automatica della disponibilità di risorse, ma un intreccio complesso e avvincente tra piacere, desiderio, paura, accessibilità, immaginazione, imposizione, sentimento, comandamento. In realtà, quel che facciamo è sempre alla confluenza tra materiale e immaginario, ideologia e liturgia, credenza e appartenenza. Il risultato è quel che chiamiamo «identità».

Un concetto in perenne trasformazione, ma che pure è necessario per identificarci nel flusso indistinto delle cose. In quello scorrere fluviale della realtà che Eraclito definisce panta rei. In questo senso le culture, per poggiare il loro edificio identitario su fondamenta solide e resistenti al tempo, ricorrono agli dèi. Concepiti come esseri immutabili, fuori dalla storia, liberi dalla morte e pertanto simboli di eternità e paradigmi di perfezione. Modelli da imitare.

Di fatto, dando forma e volto ai propri dèi, le società costruiscono la propria immagine ideale. E di tale costruzione il cibo è la materia prima fondamentale. Produttiva e riproduttiva. Costituente e ricostituente dei corpi come delle anime. Della carne come dello spirito. Ecco perché abbiamo scelto di indagare su analogie e differenze tra varie religioni attraverso la lente d’ingrandimento del cibo.

Per mostrare che «mangiare come Dio comanda» non è una semplice espressione proverbiale ma una password che svela i segreti di quel che siamo. Ma soprattutto di quel che facciamo, che sentiamo, che pensiamo e che crediamo ogni volta che ci mettiamo a tavola. E visto che ogni Dio comanda cose differenti, la sfida più ardua consiste nel trovare dei menu che vadano bene a tutti, ossia delle ricette di convivenza.

La convivialità non ha valore solo all’interno di ciascuna religione, ma anche là dove diverse fedi si incontrano. L’esempio più illuminante è costituito dalla città di Sarajevo, dove per sei secoli è stata in vigore una legge non scritta, ma rispettata da tutti. Il suo nome èkomšiluk («buon vicinato»). Un vero e proprio manifesto dell’ospitalità. Secondo un’antica consuetudine, tipica delle comunità multireligiose, quando si invitava qualcuno a cena nessuno chiedeva all’altro la fede di appartenenza.

Ma per rispetto di tutti si evitavano i cibi e i comportamenti proibiti dalle varie fedi. La somma di tutti i tabú alimentari richiedeva ai padroni di casa una strategia culinaria di precisione che escludeva il maiale per non offendere i musulmani, polpi e vongole per non mettere in imbarazzo gli ebrei, la selvaggina per non infastidire i buddisti, il manzo per non umiliare gli induisti. La parola komšiluk si forma dal turco komsu che significa «vicino».

Ma che nelle lingue e nelle culture balcaniche subisce uno slittamento semantico positivo e passa a indicare uno spazio di mediazione, una zona franca dove le diverse religioni depongono le armi e si spogliano dei loro caratteri più contundenti per ritrovarsi in pace. 

Accogliere e fare stare bene i «vicini di casa» è fondamentale affinché i motivi di unione prevalgano su quelli di divisione (Odak 2022; Di Mare 2011). Di fatto, lakomšiluk ha funzionato a lungo e bene fino alla guerra della ex Jugoslavia, quando una propaganda scellerata ha messo tutti contro tutti.

Cancellando un’antica tradizione di buon vicinato. Che per secoli era stata più sacra delle religioni stesse, al punto che ogni casa aveva due porte, una che dava sulla strada e una che dava sul retro e conduceva dritto a quella del vicino. Il rispetto reciproco e il mutuo soccorso erano i fondamenti della comunità. 

Tutti partecipavano alle feste e ai riti religiosi delle famiglie del quartiere, mettendo in atto regole condivise da generazioni. Al punto che in ogni casa erano presenti servizi di piatti, bicchieri, pentole e posate dedicati esclusivamente alle festività. Non per ragioni estetiche, ma di purezza rituale. Per rispettare la regola della Torah ebraica secondo cui latte e carne non devono mai incontrarsi, nemmeno di striscio, né materialmente né, tantomeno, simbolicamente, in una padella o in una zuppiera.

La purificazione delle stoviglie deve essere garantita in maniera assoluta e solo l’utilizzo di utensili appositamente dedicati la assicura per davvero. Così anche i cristiani, che volentieri mescolano il formaggio con la carne, oppure cucinano i legumi con la pancetta, pur ritenendo che basti un colpo di spugna per lavare via quel che si è cucinato, si adattavano alla regola ben più rigida degli ebrei, per i quali il sapone pulisce ma non purifica.

Le Etichette.

La battaglia delle etichette. Report Rai. PUNTATA DEL 15/05/2023

di Lucina Paternesi e Giulia Sabella

Dal 2020 l’Unione Europea ha intrapreso la strategia “Farm to Fork”, alimenti più sostenibili e abitudini più sane a tavola.

Con il 59% della popolazione in sovrappeso e il 23% affetto da obesità, dal 2020 l’Unione Europea ha intrapreso la strategia “Farm to Fork”, alimenti più sostenibili e abitudini più sane a tavola anche grazie a un’etichettatura comune in tutti i paesi membri. Tra le proposte più quotate c’era il Nutriscore, il sistema di etichettatura fronte pacco di origine francese che funziona come un semaforo: cinque lettere dalla A alla E, e cinque colori, dal verde scuro all’arancione intenso, per aiutare i consumatori a fare acquisti consapevoli e limitare il consumo di quegli alimenti che potrebbero avere un impatto negativo sulla salute umana. Il voto definitivo, però, è slittato anche grazie alle proteste dell’Italia, da sempre contraria all’etichetta a semaforo, perché ritenuta ‘discriminatoria’ nei confronti dei prodotti tipici italiani. Sotto la bandiera della difesa del Made in Italy si sono coalizzate associazioni di categoria, lobby e politici di tutti i colori. Nasce così la proposta italiana, il NutrInform Battery, un’etichetta che non valuta gli alimenti con un colore, ma spiega la composizione nutrizionale attraverso 17 diversi numeri e percentuali e, soprattutto, fa contenti i produttori. Ma quali studi scientifici hanno validato la proposta italiana e chi li ha fatti? Tra conflitti d’interesse e timori corporativi l’Italia rischia di perdere uno strumento utile di salute pubblica in nome della tutela degli interessi delle lobby?

Le domande e le risposte di Ferrero

Le domande e le risposte di Barilla

Le domande e le risposte del team di ricerca del Centro di Ricerca Luiss - X.ITE

Le domande e le risposte di Federalimentare

Le domande e le risposte di Ferrero

Da: Marco BRAMBILLA Inviato: venerdì 12 maggio 2023 10:58 A: [CG] Redazione Report Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 Buongiorno, ringraziandovi per l’opportunità, di seguito la risposta ai vostri quesiti. Cordialmente Marco Brambilla Ferrero è a favore di un’obiettiva e trasparente informazione al consumatore sulla composizione degli alimenti attraverso etichette fronte pacco informative e facilmente comprensibili. Condivide in tal senso la proposta di etichettatura fronte pacco promossa dalle Istituzioni italiane a livello Europeo. Ferrero ha risposto all’invito delle Istituzioni italiane (all’epoca MISE, Ministero della Salute e MIPAAF), rivolto alle Imprese dell’industria alimentare in Italia, di applicare il sistema NutrInform Battery in via sperimentale a referenze vendute esclusivamente sul territorio nazionale. Per questo motivo è stato implementato su alcuni prodotti a scaffale che rispondono a questo prerequisito vincolante. Il sistema è stato declinato anche a livello digitale, all’interno delle piattaforme web Ferrero compatibili, localizzate esclusivamente in Italia e in lingua italiana. Relativamente alla sperimentazione dello schema proposto dalle Istituzioni italiane, segnaliamo che il Presidente di Federalimentare, all’epoca in cui lo studio è stato commissionato, era Ivano Vacondio, rappresentante dell’industria molitoria, e non Paolo Mascarino, in carica come Presidente solamente da Gennaio 2023. In questo contesto Federalimentare rappresenta in maniera trasparente e credibile gli interessi dell’intero settore, che sono supportati dalle Istituzioni italiane, a prescindere dal credo politico, da associazioni di rappresentanza del mondo agricolo, come Coldiretti, fino ad associazioni della società civile, come Slow Food, certamente distante dagli interessi industriali. Il NutrInform Battery rappresenta un’alternativa alle proposte sommarie e penalizzanti, come il Nutriscore, ma anche ad approcci come i bollini neri in alcuni paesi del Sudamerica, la cui efficacia non è comprovabile in termini di salute pubblica, anche a causa di molteplici variabili sociali e macroeconomiche.

Da: [CG] Redazione Report Inviato: martedì 9 maggio 2023 12:44 A: Marco BRAMBILLA Cc: Ufficio Stampa Ferrero Italia Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 Gent.mi, Facciamo seguito alle precedenti comunicazioni intercorse e inviamo alcune domande a cui vi chiediamo di dare risposta entro e non oltre le ore 12 di venerdì 12 maggio pv. - Che cosa pensa Ferrero dell’etichetta a semaforo Nutriscore? - Come mai l’etichetta a batteria proposta dall’Italia, il NutrInform Battery, è presente solo su alcune referenze Ferrero e non su tutti i prodotti? Sono stati scelti i prodotti ‘più salutari’ per avviare questa sperimentazione? - La scelta di sostenere l’etichetta fronte-pacco proposta dall’Italia, il NutrInform Battery, deriva dal fatto che, qualora venisse adottato il Nutriscore a livello europeo, gran parte delle merendine per bambini e dei prodotti a base cioccolato sarebbero etichettati con la lettera E e il colore arancione scuro? - Il fatto che Federalimentare, di cui il dottor Mascarino è presidente, abbia contribuito a elaborare un'etichetta per la quale ha finanziato gli studi presso l'Università Luiss (ateneo di cui è socia attraverso Confindustria), etichetta poi riportata su alcune merendine Ferrero, di cui lo stesso Mascarino è vicepresidente affari istituzionali, non rappresenta un conflitto d'interessi? - Ci risulta che in Sud America alcuni prodotti Ferrero siano contrassegnati con bollini neri riportanti le diciture "alto in zucchero, alto in grassi". Queste indicazioni hanno inciso sulle vendite di questi prodotti? - Alcuni distributori attivi in Paesi dove è presente il Nutriscore (come ad esempio Delhaize in Belgio) hanno dato la possibilità alle aziende di esporre la lettera semaforica sull'etichetta dello scaffale su base volontaria; perché Ferrero ha deciso di non aderire a questa iniziativa? Rimaniamo in attesa di un vostro gentile riscontro, Cordiali saluti, Redazione Report 

Le domande e le risposte di Barilla

Da: Barilla – Ufficio Relazioni Esterne Inviato: martedì 4 aprile 2023 09:24 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Risposta Barilla - Report Rai3 - Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Gentile Redazione buongiorno, Grazie per averci contattato. In merito alla vostra richiesta pervenutaci il 30/3/2023, il Gruppo Barilla intende specificare che: il nostro impegno per offrire alle persone cibo sempre più buono, sicuro e con un profilo nutrizionale bilanciato inizia dalle nostre ricette, che miglioriamo continuamente. Dal 2010 abbiamo riformulato 488 prodotti per ridurre il contenuto di grassi, grassi saturi, sale e/o zucchero e incrementando il contenuto di fibre. Dal 2016 siamo una Company Palm oil-free. Crediamo profondamente nell’importanza di trasferire ai nostri consumatori più informazioni possibili per aiutarli a fare scelte consapevoli. Questa responsabilità ci ha visto impegnati negli ultimi 20 anni con attività educative e informative per promuovere l’adozione di stili di vita sani e abitudini alimentari ispirate al modello della dieta mediterranea, rivolte alle nuove generazioni (Progetto Giocampus) e alle nostre Persone Barilla (Iniziativa “sì.Mediterraneo”). Questo percorso ci ha portato ad offrire in maniera volontaria ai nostri consumatori uno strumento ulteriore: l’etichetta Nutrinform Battery, che abbiamo inserito in via sperimentale sui siti dei nostri marchi Mulino Bianco e Pan di Stelle ed è al momento declinata per alcuni prodotti monoporzione, in aggiunta alle informazioni già disponibili nella lettura delle etichette e contenute all’interno delle linee guida nutrizionali di Mulino Bianco. Non abbiamo ancora gli elementi per valutare l’impatto di questa iniziativa e l’interesse dei consumatori su un progetto ancora in divenire. Vi ringraziamo per l’attenzione e restiamo a vostra disposizione per ogni ulteriore richiesta di informazioni o chiarimenti. Distinti Saluti L’Ufficio stampa Barilla

Da: [CG] Redazione Report Inviato: giovedì 30 marzo 2023 15:02 A: Barilla – Ufficio Relazioni Esterne Oggetto: Richiesta intervista - Report Rai3 Report Via Teulada, 66 – 00195 Roma Sito: report.rai.it Alla ca dell’ufficio Relazioni Esterne BARILLA Gent.mi Scriviamo dalla redazione di Report Rai3 perché in una delle prossime puntate torneremo ad occuparci di etichettatura degli alimenti. Alla luce della forte contrarietà italiana alla proposta francese di etichettatura a semaforo, denominata Nutriscore, e dell’alternativa proposta dall’Italia di un’etichetta più informativa, come il NutrInform Battery, avremo piacere di poter intervistare uno dei rappresentanti del brand Mulino Bianco per capire il punto di vista di una delle aziende storiche del made in Italy, eccellenza nel panorama industriale internazionale. In particolare vorremmo anche sapere se, come visibile sul sito internet di alcune referenze Mulino Bianco, è in corso una sperimentazione dell’applicazione dell’etichetta NutrInform-Battery su alcuni dei prodotti e come tale proposta è stata accolta – se già presente – da parte dei consumatori. Per esigenze di produzione avremmo bisogno di ottenere una risposta da voi entro e non oltre mercoledì 5 Aprile pv, al fine di poter organizzare una video intervista nei giorni immediatamente seguenti. Certi di ricevere un Vs positivo riscontro Si porgono i più cordiali saluti La redazione di Report

Le domande e le risposte del team di ricerca del Centro di Ricerca Luiss - X.ITE

Libera Università Internazionale degli Studi Sociali Guido Carli Domande trasmissione Report – Lucina Paternesi 1 di 10 Domande trasmissione “Report” – Lucina Paternesi Domanda 1 Cosa ha spinto il professor Mazzù – Professor of Practice, Marketing presso l’Università Luiss e con una lunghissima e prestigiosa esperienza nel campo della consulenza aziendale e, appunto, del marketing - ad avviare alcune ricerche nel campo dell’etichettatura dei prodotti alimentari, tema solitamente oggetto di studio per gli specialisti in Nutrizione, in Scienze dell’Alimentazione e Salute Pubblica? Risposta 1 Il tema dell’etichettatura dei prodotti alimentari confezionati (FoPL – Front ok Pack Nutritional Label o etichetta nutrizionale fronte pacco) è stato trattato non solo dal professor Mazzù ma da un articolato gruppo di ricercatori del Centro di Ricerca Luiss – X.ITE su comportamenti e tecnologie, fra cui, appunto, il professor Mazzù, la professoressa Simona Romani (ordinario di Marketing e Prorettrice alla didattica dell’Ateneo) e il professor Michele Costabile (ordinario di Marketing e direttore del Centro di Ricerca Luiss – X.ITE). Ai tre componenti della Faculty di marketing più senior, poi, si sono affiancati altri professori e ricercatori più giovani e alcuni Research Assistant del medesimo Centro di Ricerca. L’esperienza del professor Mazzù - professor of practice (etichetta che viene utilizzata per professori che apportano negli Atenei e nei centri di ricerca il portato della loro lunga e prestigiosa esperienza nelle market & business practices) - è tanto rilevante nel mondo della consulenza aziendale quanto in quella del management e della direzione aziendale. Al riguardo alleghiamo i curricula dei tre professori sopra menzionati. Si potrà ben rilevare come i temi concernenti il consumer behavior sono sempre stati al centro dei loro interessi di ricerca. In particolare, la professoressa Romani è co-autrice di uno dei primi manuali italiani (la prima edizione è del 2000) sul comportamento del consumatore (“Il Comportamento del Consumatore. Teoria e applicazioni di marketing” Franco Angeli Editore,. Co-autore Daniele Dalli, 2016). La gran parte delle sue pubblicazioni nazionali e internazionali riguardano temi di 2 comportamento del consumatore e politiche di marca (oltre 4600 citazioni, H-Index 30; i10- index 44). Il professor Costabile è autore di oltre 100 pubblicazioni scientifiche ed è, fra l’altro, co-autore del manuale di marketing più venduto nelle università italiane (l'ultima edizione è del 2022, P. Kotler, K.L. Keller, D. Chernev, F. Ancarani, M. Costabile, Marketing Management, Pearson Italia). Manuale che, intuibilmente, tratta temi anche relativi al packaging e all’etichettatura. Ecco che il Centro di Ricerca Luiss – X.ITE è in grado di dispiegare competenze idonee a progettare e realizzare ricerche scientifiche su temi relativi a prodotto, packaging, etichettatura ed effetti sul comportamento del consumatore. Il professor Mazzù ha guidato il gruppo di ricerca, anche a ragione del suo ruolo di responsabile della Knowledge Transfer Unit, parte del centro di ricerca che si occupa di unire la parte teorica e di practice della ricerca. Etichette e packaging, sono elementi strutturali del cosiddetto marketing mix e rispetto a questi le ricerche condotte dal gruppo di ricerca di Luiss X.ITE hanno misurato le risposte dei consumatori a diverse configurazioni di etichette e di packaging. Riteniamo sul punto di dover chiarire quanto l’intervistatore/intervistatrice implicitamente asserisce. I journal scientifici, e la manualistica di marketing, ospitano numerosi e qualificati contributi collegati a prodotti alimentari. Se di interesse possiamo fornire anche un’evidenza quantitativa del numero e dell’incidenza degli articoli su questi temi nei journal di marketing. A titolo di prima familiarizzazione su temi di ricerca e campi disciplinari riferimento segnaliamo i manuali della disciplina (Marketing, Comportamento del consumatore) ovvero journal scientifici e riviste accademiche quali: European Journal of Marketing, Journal of the Academy of Marketing Science, Journal of Business Research, etc.1 . Gli autori accademici che pubblicano su questi temi e su questi journal non sono esperti di public health. Anche perché il loro background sarebbe, altrimenti, carente proprio nei campi del marketing e del consumer behavior. Ecco che, 1 Es., Ikonen, I., Sotgiu, F., Aydinli, A., & Verlegh, P. W. (2020). Consumer effects of front-of-package nutrition labeling: An interdisciplinary metaanalysis. Journal of the academy of marketing science, 48, 360-383; Dubois, P., Albuquerque, P., Allais, O., Bonnet, C., Bertail, P., Combris, P., ... & Chandon, P. (2021). Effects of front-of-pack labels on the nutritional quality of supermarket food purchases: evidence from a large-scale randomized controlled trial. Journal of the Academy of Marketing Science, 49(1), 119-138; Talati, Z., Pettigrew, S., Hughes, C., Dixon, H., Kelly, B., Ball, K., & Miller, C. (2016). The combined effect of front-of-pack nutrition labels and health claims on consumers’ evaluation of food products. Food quality and preference, 53, 57-65 3 come in molti altri campi, le ricerche sono sempre più spesso condotte con approcci e competenze multidisciplinari. In ulteriore dettaglio, poi, giova ricordare che il coinvolgimento del Centro di Ricerca Luiss X.ITE è avvenuto allorquando i membri del Tavolo Interministeriale Agroalimentare, delegato allo sviluppo della proposta di etichetta nutrizionale fronte pacco nazionale, cercavano un partner accademico per progettare e realizzare ricerche che analizzassero la proposta italiana, anche in base a un protocollo sviluppato dall’Istituto Superiore di Sanità e dal CREA. Da questa esigenza è nata la collaborazione con Luiss - X.ITE. Ricordiamo che le norme europee espressamente richiedono che le etichette nutrizionali fronte pacco nazionali siano supportate da ricerche scientifiche che ne provino la corretta comprensione da parte dei consumatori. Per questa ragione il protocollo scientifico di validazione della proposta italiana, definito da ISS e CREA, verteva anche sulla comprensione dell’etichetta da parte dei consumatori. Come noto, l’etichetta è una fondamentale leva di comunicazione al consumatore, tema cruciale negli studi scientifici di marketing di cui la faculty che opera nel Centro di Ricerca Luiss – X.ITE ha comprovata esperienza. In sintesi: · Il lavoro di ricerca è stato condotto da gruppo di lavoro ampio formato da ricercatori senior e junior con competenze di ricerca su temi di comportamento del consumatore e di marketing coerenti quindi con il progetto di ricerca che analizza etichettatura su pack dei prodotti e le relative risposte cognitive, valutative e comportamentali del consumatore nel suo ruolo di acquirente. · Il focus della ricerca, condotta e supervisionata dai professori Mazzù, Romani e Costabile verte su tematiche di consumer behavior e marketing senza alcun obiettivo di misurazione che investa temi nutrizionali o di salute pubblica. · Il team di ricerca Luiss – X.ITE è stato attivato dal Tavolo Interministeriale Agroalimentare, delegato allo sviluppo della proposta di etichetta nutrizionale fronte pacco nazionale, che cercava un partner accademico. *** 4 Domanda 2 Quali sono le competenze del prof. Mazzù in questi ambiti? Che competenze hanno gli altri membri del team di ricerca che hanno collaborato con lui? Risposta 2 Il prof. Mazzù, insieme ad altri professori del Centro Ricerche X.ITE, ha maturato una lunga e profonda esperienza scientifica nell’ambito del “consumer behaviour”, e dunque non di semplici “ricerche di mercato” che si basano su tecniche e protocolli diversi dalle ricerche scientifiche. Come anticipato nella risposta alla precedente domanda, il professor Mazzù ha diretto operativamente la ricerca ma nel quadro di un più articolato gruppo di ricerca, le cui competenze e la cui posizione accademica è stata ampiamente descritta. Deve essere, tuttavia, chiarito che il professor Mazzù ha maturato una esperienza quasi trentennale nel marketing management, ha un incarico da Professor of Practice dal 2017 e ha al suo attivo circa 50 pubblicazioni. Ancora, nella sua esperienza nazionale e internazionale, in ruoli aziendali di marketing e come consulente direzionale, è stato protagonista di vari progetti che avevano ad oggetto analisi e decisioni su temi di reazioni del consumatore e agli elementi del marketing mix. Infine, è componente del Centro di Ricerca Luiss – X.ITE dall’A.A. 2016-2017 in qualità di Senior Research Fellow, e dall’A.A. 2018-19 è direttore della Knowledge Transfer Unit, e quindi delle attività che hanno quale fine ultimo il trasferimento delle conoscenze prodotte dalle ricerche scientifiche e applicative alla business community e ai policy maker. Ci preme, inoltre, evidenziare che nessuna delle variabili osservate nei nostri studi sul tema presenta analisi, evidenze empiriche o implicazioni diretti per temi di “public health” ovvero di politiche nutrizionali. Sono state invece studiate le risposte individuali, di natura cognitiva e comportamentale, ad alcuni stimoli di marketing, fra cui il package, l’etichetta e alcune loro configurazioni opzionali. L’individuo che osserviamo nei nostri studi, riconducibili agli statuti metodologici degli studi sperimentali, è considerato nel suo ruolo di consumatore. In sintesi: · l’intero team di ricercatori coinvolto sulla ricerca con diversi livelli di expertise ha da sempre lavorato sui temi intorno ai quali la ricerca ruota: risposta del consumatore a classici stimoli di marketing mix del prodotto. Nello specifico trattasi di risposte 5 cognitive, valutative e comportamentali allo stimolo di etichettatura presente sul prodotto. *** Domanda 3 3a. Il NutrInform Battery è stato anche oggetto di una tesi di laurea di uno studente, il dottor Carlandrea Peparini, per l’Anno accademico 2019-2020. Quali sono le competenze certificate del dottor Peparini nell'ambito delle Politiche di Salute Pubblica? Il dottor Peparini è uno dei tanti di studenti (centinaia ogni anno) che i componenti del Centro di Ricerca Luiss – X.ITE seguono in qualità di supervisor. Non abbiamo alcuna procedura di “certificazione” delle loro competenze scientifiche e, per come formulata, non comprendiamo la domanda (non ci pare di aver mai indicato il dottor Peparini quale esperto di Politiche di Salute Pubblica né come autore degli studi ai quali ci si riferisce in questa intervista) 3b. Ci può confermare che, ad oggi, lo stesso, è in Deloitte? Non abbiamo informazioni dirette recenti sul nostro ex studente ed è un genere di informazione che dovremmo validare con il nostro database laureati, verificando pure che il laureato abbia autorizzato la diffusione di tali informazioni da parte dell’Ateneo. *** Domanda 4 4.a Come sono stati condotti questi studi? La metodologia è conforme ai canoni della ricerca per le scienze sociali (vedi ad es., testo Malhotra, N., Nunan, D., & Birks, D. (2017). Marketing research: An applied approach. Pearson., pag 508-530). La metodologia seguita può essere letta nelle seguenti pagine dei paper pubblicati: · Pag 3-4 di Mazzù, M. F., Romani, S., & Gambicorti, A. (2021). Effects on consumers’ subjective understanding of a new front-of-pack nutritional label: a study on Italian consumers. International Journal of Food Sciences and Nutrition, 72(3), 357-366. 6 · Pag 836-837 di Mazzù, M. F., Romani, S., Baccelloni, A., & Gambicorti, A. (2021). A crosscountry experimental study on consumers’ subjective understanding and liking on frontof-pack nutrition labels. International Journal of Food Sciences and Nutrition, 72(6), 833- 847. 4.b Coinvolgendo un numero ridotto di individui, non rischiano di essere poco rappresentativi della popolazione? L’obiettivo dello studio, e in generale degli studi sperimentali non è la validità esterna – ossia la generalizzabilità dei risultati per inferenza statistica dai soggetti osservati (campione) a popolazioni più o meno ampie di riferimento – bensì quella interna, espressa in particolare sulla causalità tra due (X e Y) o più variabili. Validità interna che, come ben noto agli esperti di metodologia della ricerca nelle scienze sociali, rappresenta una base per eventuali studi estensivi – talora condotti con il metodo dei sondaggi su base campionaria – volti a dimostrare la validità esterna di una ipotesi interpretativa e non meramente descrittiva. Il tema della numerosità non si pone quindi avendo la nostra ricerca come obiettivo quello di testare quali diverse risposte – cognitive e comportamentali – del consumatore sono generate da diverse configurazioni sperimentali della variabile indipendente (nel linguaggio scientifico definite “manipolazioni”, con un significato ben diverso da quello dell’italiano comune). Nel caso delle nostre ricerche le variabili oggetto di sperimentazione erano, appunto i diversi sistemi di etichettatura. Del resto, come evidenziato nei manuali di ricerca sociale (vedi sopra) una ricerca basata su un disegno sperimentale presenta alcuni aspetti caratterizzanti quali: la compresenza di due variabili, tra cui si ipotizza una relazione di causalità, la “manipolazione” della variabile indipendente (tenendo sotto controllo il resto delle condizioni non ipotizzate quali causa del fenomeno), la randomizzazione dei rispondenti tra i vari gruppi di ricerca (gruppo sperimentale e gruppo di controllo). *** 7 Domanda 5 Come mai queste ricerche si focalizzano principalmente sulla valutazione dell’accettazione e del gradimento dell’etichetta (valutazione soggettiva), piuttosto che sull’effettiva funzionalità dell’etichetta fronte pacco (valutazione oggettiva)? Risposta 5 E’ opportuno subito chiarire che l’analisi non riguarda l’accettazione ma la comprensione. Nella letteratura sul tema, uno degli articoli più citati (Grunert, K. G., & Wills, J. M.,2007, “A review of European research on consumer response to nutrition information on food labels”. Journal of public health, 15, 385-399.), anche in quanto considerato uno dei primi riferimenti nella letteratura accademica sul tema, chiarisce che: “Perception leads to understanding, which is the meaning the consumer attaches to what is perceived”. Inoltre, viene introdotto il ruolo complementare del gradimento: “Another effect of perception and processing of the information may be liking of the label. Consumers may like the label—for example because they find it easy to understand and useful, or also because they like the symbols and colours used. Liking need not be linked to understanding, but can have impact on use of the label, as a label that is liked can lead to a more positive evaluation of the product even when it is not understood”. Il lavoro citato spiega che:“In analysing understanding, it is important to distinguish between subjective and objective understanding. Subjective understanding is the meaning the consumer attaches to the perceived label information and covers also the extent to which consumers believe they have “understood” what is being communicated. Objective understanding is whether the meaning the consumer has attached to the label information is compatible with the meaning that the sender of the label information intended to communicate. These may be quite different. Understanding is to a large degree a question of inferences (Kardes et al. 2004). Consumers relate the perceived information to their pre-existing knowledge and use this to infer meaning”. Lo sviluppo successivo della letteratura accademica sul tema si è concentrato quasi esclusivamente sul concetto di “objective understanding”, generando un importante gap di conoscenze scientifiche sulle dinamiche legate al “subjective understanding”. E il "subjective 8 understanding è rilevante perché quanto memorizzato dai consumatori è effetto della percezione soggettiva degli stimoli esterni. Percezione soggettiva su cui poi si formano atteggiamenti e convinzioni che condizionano le decisioni. La scelta del subjective understanding e delle restanti metriche di analisi deriva dal nostro scopo: vogliamo valutare come il consumatore percepisce, risponde, etc. all’etichettatura e non a comprendere se l’etichetta è percepita dal consumatore secondo i desiderata del “sender” (i.e. l’impresa che la appone sulla confezione dei propri prodotti). Lo studio scientifico si focalizza quindi sulla comprensione soggettiva perché questa è la misura di cosa comprende il consumatore, in modo spontaneo, dopo l’esposizione all’etichetta. La comprensione oggettiva, invece, misura il livello di adesione della persona a un risultato atteso. Il gradimento, invece, viene affiancato alla valutazione della comprensione nel modello di riferimento e per questo viene analizzato. Nel nostro primo lavoro specifichiamo “We decided to focus on subjective understanding because in the case of NutrInform Battery, objective understanding cannot be the primary focus since the message the sender intends to communicate is only based on factual-nutrient information and not on summary, re-elaborated information, reducing any risks of misunderstanding for consumers. Therefore, whereas objective understanding reflects whether consumers understand what the sender intends to communicate, subjective understanding reflects what consumers believe they have understood in terms of factual-nutrient information relevant for their nutritional knowledge. Thus, this facet of understanding is aligned with the aim of the NutrInform Battery and at the same time enriches the knowledge in terms of understanding Nutri-Score, that has been compared with other FOPL in various studies but focusing on the objective aspect. È utile infine notare che le ricerche pubblicate nei Journal scientifici internazionali, anche riconosciuti dal nostro sistema di certificazione di Abilitazione Scientifica Nazionale, sono soggette a processo di “double blind peer review”, che valuta e certifica la qualità, appropriatezza e rilevanza del lavoro prima della sua pubblicazione, suggerendo in maniera indipendente le necessarie modifiche di metodologia, analisi e conclusioni che devono essere necessariamente integrate prima della approvazione della versione finale. 9 In sintesi: · Lo studio si focalizza su comprensione e gradimento · La comprensione si articola in comprensione oggettiva e comprensione soggettiva · La letteratura precedente sul tema studia quasi esclusivamente la comprensione oggettiva, lasciando così un rilevante gap di conoscenza · La comprensione soggettiva è un elemento fondamentale (e complementare alla comprensione oggettiva) nel processo di decisione sia del consumatore sia delle imprese – e presumibilmente dovrebbe interessare anche le autorità governative nel caso di prodotti soggetti a controllo. · I paper sono pubblicati su riviste scientifiche che seguono processi di “double blind peer review” *** Domanda 6 6a. Come è stata fatta la validazione dell’etichetta NutrInform Battery? Non ci siamo mai occupati della validazione dell’etichetta in configurazione “NutrInform Battery”. 6b. Quali criteri sono stati seguiti? Come intuibile, sulla base di quanto riportato sopra, non siamo in grado di rispondere. La nostra ricerca non ha avuto questo obiettivo. 6c. Come mai non sono state seguite le linee guida dell’Organizzazione mondiale della Sanità per quanto riguarda la validazione del formato grafico e del sistema di profilazione nutrizionale? (Ad es., come richiesto dall’Oms, il Nutriscore ha dimostrato in molti studi di classificare gli alimenti in maniera corretta e in linea con le linee guida per una sana alimentazione) Come intuibile, sulla base di quanto riportato sopra, non siamo in grado di rispondere 6d Ci sono studi per il NutrInform Battery che indicano che aiuta il consumatore a identificare gli alimenti più salutari? 10 · Non abbiamo ancora approfondito questo tema. Ma non è escluso che lo faremo in futuro *** Domanda 7 Entrambe le ricerche risultano finanziate da Federalimentare, come riportato nelle informazioni aggiuntive degli stessi papers. È possibile sapere con quale cifra Federalimentare ha finanziato questi studi? E in base a quale accordo? Come già chiarito nelle pubblicazioni disponibili, la ricerca ha ricevuto un “non-conditional funding" (1) da Federalimentare, la federazione italiana delle imprese alimentari, ed è stata condotta in accordo ai principi e al protocollo di ricerca definiti in un memorandum of understanding firmato fra i soggetti pubblici e privati sopra menzionati (2) . (1) La formula "non-conditional funding” implica che la ricerca venga svolta secondo princìpi di indipendenza e autonomia da chi la finanzia e che in alcun modo il finanziamento ricevuto possa influenzarne l'esito e i risultati. (2) I soggetti coinvolti nella definizione del memorandum of understanding e del protocollo di ricerca sono, come anticipato, l'Istituto Superiore di Sanità (ISS) e il Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l'analisi dell' Economia Agraria (CREA)

Le domande e le risposte di Federalimentare

FEDERALIMENTARE Federazione Italiana dell’Industria Alimentare

Domande della Redazione di Report Dott.ssa Lucina Paternesi 1. Perché Federalimentare ritiene che l’etichetta semaforica Nutriscore, studiata a livello internazionale da oltre 20 anni, classifichi gli alimenti in modo fuorviante? La grande maggioranza degli scienziati, italiani ed esteri, crede che il Nutriscore e il suo algoritmo non possano dare un corretto giudizio nutrizionale degli alimenti. Lo dicono i medici e i nutrizionisti italiani, come riportato nel sito del Ministero della Salute. Lo dicono oltre 350 scienziati nutrizionisti e 19 associazioni mediche europee. Infine, lo ha anche stabilito l’AGCM quando ha vietato l’uso del Nutriscore in Italia per ingannevolezza verso il consumatore. L’EFSA, infine, ha chiaramente indicato che: “Because diets are composed of multiple foods, overall dietary balance may be achieved through complementation of foods with different nutrient profiles, so that it is not necessary for individual foods to match the nutrient profile of a nutritionally adequate diet”. Dunque, non esistono cibi sani o non sani, ma solo le diete possono sono sane o non sane. Dare un giudizio al singolo cibo, come fa il Nutriscore, non ha senso se questo non viene commisurato a come viene combinato con altri cibi nell’arco della giornata, e se non tiene conto delle reali porzioni consumate giornalmente (il Nutriscore giudica gli alimenti solo su 100g). 2. Come è nata la proposta italiana, il NutrInform Battery, presentata nel febbraio 2022 durante un evento promosso al Ministero degli Esteri dalla stessa Federalimentare? Il NutrInform è un’etichetta che incontra maggiormente il favore dei produttori da Voi rappresentati? Il Nutrinform Battery è nato all’interno di un gruppo di lavoro tecnico, istituito nel febbraio del 2018 all’interno del Tavolo Interministeriale Agroalimentare. Al gruppo di lavoro partecipavano i Ministeri dello Sviluppo Economico, della Salute, dell’Agricoltura, degli Esteri, l’Istituto Superiore di Sanità, il CREA, nonché venivano auditi i rappresentanti delle Associazioni dei Consumatori e delle Associazioni di Categoria agricole, industriali, del commercio e della distribuzione, che erano periodicamente tenuti informati degli sviluppi del lavoro. La proposta del Nutrinform Battery è stata validata scientificamente con apposite ricerche nel corso del 2019, in coerenza con le norme europee, e poi notificata alla UE nel gennaio 2020 con la procedura TRIS. A seguito del parere positivo della UE, il Governo italiano ha adottato il Nutrinform Battery quale schema nazionale volontario di etichetta nutrizionale fronte pacco, con decreto pubblicato in Gazzetta Ufficiale nel dicembre del 2020. L’evento citato del febbraio 2022 è stato promosso dal Ministero degli Esteri per presentare il Nutrinform Battery agli Ambasciatori della UE presenti a Roma, alla presenza di quattro Ministri del Governo: Salute, Esteri, Sviluppo Economico e Agricoltura. Federalimentare ha svolto un mero ruolo tecnico, collaborando esclusivamente per gli aspetti operativi dell’evento. 3. Perché Federalimentare ha finanziato le ricerche del Professor Mazzù, docente di Marketing alla Luiss, università privata che vede tra i soci la stessa Confindustria, sul NutrInform Battery? Quanti soldi sono stati investiti per quegli studi? Il protocollo di ricerca scientifica sull’etichetta Nutriform Battery è stato definito dai Ministeri coinvolti nel gruppo di lavoro dedicato alla creazione di una proposta di etichetta italiana: Sviluppo Economico, Salute, Agricoltura ed Esteri, con la supervisione scientifica dell’Istituto Superiore di Sanità e del CREA. Il Gruppo di Lavoro, con apposito Protocollo di Intesa firmato nel 2019, ha poi avviato una collaborazione pubblico-privato per la realizzazione operativa del protocollo scientifico, identificando nell’Università Luiss di Roma un autorevole centro di ricerca esperto di comportamenti dei consumatori cui affidare l’esecuzione degli studi, e chiedendo poi ai rappresentanti della filiera agroindustriale - e in particolare a Federalimentare - di cofinanziare la ricerca, analogamente a quanto avvenuto in Francia per la ricerca sperimentale del Nutriscore, finanziata anche con i fondi dell’ANIA (l’associazione nazionale industria alimentare francese). Studi e ricerche sulle etichette nutrizionali fronte pacco (cioè, le forme di espressione o presentazione supplementare della dichiarazione nutrizionale) possono essere infatti condotte nel rispetto di un protocollo validato da un Comitato Scientifico indipendente e poi realizzate con fondi pubblici e privati. 4. Non ritenete ci sia un conflitto d’interessi, da parte della Federazione, nel finanziare studi su un tipo di etichetta che la stessa Federazione ha contribuito a creare? Federalimentare ha partecipato – insieme alle rappresentanze dei consumatori e della filiera agroindustriale – al gruppo di lavoro interministeriale dedicato allo sviluppo della proposta italiana di etichettatura, offrendo commenti, quando richiesto, alle autorità governative e scientifiche impegnate in questo lavoro, così come hanno fatto gli altri partecipanti. Il piano di ricerca sul Nutrinform Battery è stato realizzato su protocollo scientifico definito dall’Istituto Superiore della Sanità e dal CREA, ed eseguito al solo livello operativo dall’Università Luiss, in modo indipendente, i cui risultati sono poi stati analizzati e validati da ISS e CREA prima della loro pubblicazione. Infine, la collaborazione tra pubblico e privato sul tema degli studi sulle etichette nutrizionali fronte pacco è stata realizzata in modo analogo anche da parte di altri Stati membri UE, nelle modalità sopra indicate. Viale Luigi Pasteur, 10 l 00144 Roma (I) l C.F. 97023320589 Tel. +39 (06) 5903534 – 5903380 l Fax +39 (06) 5903342 E-mail: presidenza@federalimentare.it federalimentare.it

1 LISTA DEGLI INTERVENTI PUBBLICI DI SCIENZIATI CRITICI VERSO IL NUTRISCORE 365 firme, pari a 350 scienziati (eliminando le doppie firme su due diversi documenti) 19 associazioni scientifiche

ITALIA

1. Articolo sul Nutrinform con critiche verso il Nutriscore (19 scienziati) ü C_17_pagineAree_5509_0_file.pdf (salute.gov.it)

2. Articolo sulla qualità informative del Nutrinform, che può aiutare i consumatori meglio del Nutriscore a compiere scelte migliori in merito alla dieta personale (16 scienziati) ü Front-of-pack (FOP) labelling systems to improve the quality of nutrition information to prevent obesity: NutrInform Battery vs Nutri-Score – PubMed (nih.gov)

3. Articolo che spiega perchè il Nutriscore non può ridurre il rischio di tumori (2 scienziati) ü C_17_pagineAree_5509_2_file.pdf (salute.gov.it)

4. Posizione Scientifica della SINU (Società Italiana Nutrizione Umana) sulle etichette nutrizionali fronte pacco, con critiche al Nutriscore (34 scienziati) ü “Front-of-pack” nutrition labeling – Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Diseases (nmcdjournal.com)

5. Posizione pubblica del Presidente del CNSA a favore del Nutrinform e contraria al Nutriscore ü Modulo per l’invio di commenti: PRESIDENT OF CNSA ITALIAN HEALTH MINISTER (europa.eu)

6. Articolo sul tema delle etichette nutrizionali e le malattie non trasmissibili, che evidenzia l’importanza della dieta complessiva e della inefficacia della riduzione dei cosiddetti “nutrienti critici”, come evidenziati dalle etichette semaforiche direttive (7 scienziati) ü Efficacy of front-of-pack nutrition labels in improving health status – ScienceDirect

7. Dieci Associazioni Scientifiche italiane hanno sollevato dubbi sull’efficacia del Nutriscore (SISA, SIO, SINU, CSRO, IO.net, Fondazione ADI, ADI, SISDCA, SINUPE, SIEDP) ü Documento Obesità, Nutriscore e Nutrinform 24052021 (salute.gov.it) ü “Front-of-pack” nutrition labeling – Nutrition, Metabolism and Cardiovascular Diseases (nmcdjournal.com) OLANDA

8. Documento critico verso il Nutriscore (176 scienziati) ü brandbrief_front-of-pack-nutrition-labelling_voedingsjungle_def-2-1.pdf (wordpress.com) ü 20191117_oproep.pdf (wordpress.com) ü 20200218_ondertekenaars_voor-de-site-def.pdf (wordpress.com)

9. Documento critico sull’efficacia del Nutriscore per migliorare le scelte di acquisto (1 scienziato) ü No evidence of Nutriscore effectiveness in supermarket

10. Intervista critica sul Nutriscore (1 scienziato) ü Interview-dr-Annet-Roodenburgmei2020.pdf (voedingsacademie.nl)

2 SPAGNA

11. Otto Associazioni Scientifiche spagnole federate in FESNAD segnalano che il Nutriscore non ha il sostegno degli scienziati nutrizionisti spagnoli ü fesnad.org/resources/files/notaPrensa.pdf

12. Documento che chiarisce che l’effetto del singolo alimento sulla dieta è così complesso che non può essere giudicato in modo simplicistico dal Nutriscore (23 scienziati) ü REPORT-ON-THE-FRONT-LABELLING-OF-FOOD.pdf (triptolemos.org)

13. Articolo scientifico che reassume tutti I punti critici del Nutriscore (67 scienziati) ü nutriscore_manifiesto_razones.pdf (republica.com)

14. Articoli critici verso il Nutriscore (10 scienziati/medici) ü Juan Revenga: Nutri-Score: ¿un sistema para blanquear ultraprocesados? | El Comidista EL PAÍS (elpais.com) ü Miguel A. Lurueña: NutriScore es insuficiente: trucos de empresas para ‘engañar’ al sistema (hipertextual.com) ü Beatríz Robles: Qué es Nutri-score, el semáforo nutricional que penaliza al aceite de oliva (newtral.es) ü Luis Alberto Zamora: ¿Está Nutriscore preparado para ser aplicado? (lasexta.com) ü Carlos Ríos: Carlos Ríos denuncia los errores de Nutri-Score (womenshealthmag.com) ü Julio Basulto Marset: ¿Cuánto azúcar tienen los “alimentos” para menores de 36 meses? – Julio Basulto ü Antonio Escribano Zafra: Antonio Escribano Zafra: «No se puede hacer creer a la población que si no come carne va a estar mejor» – El Día (eldia.es) ü Amil López Viéitez: Una nutricionista advierte de que etiquetar con Nutri-Score los alimentos puede ser incongruente | Noticias de en Heraldo.es ü Rafael Urrialde: linkedin.com/feed/update/urn:li:activity:6917904863771140096/ ü Jorge Jordana: Jordana considera “irresponsable” introducir Nutriscore en España (agropopular.com)

15. Intervista critica verso il Nutriscore (1 medico, insieme ad uno scienziato francese) ü Will Nutriscore founder on the slippery issue of Spanish olive oil? (europeanscientist.com)

POLONIA

16. Documento critico verso il Nutriscore, in quanto troppo semplicistico (1 scienziato) ü System Nutri Score nie informuje o wszystkim. Sprzedaż “czerwonych” produktów spadnie? (dlahandlu.pl)

PORTOGALLO

17. Studio che indica che il Nutriscore può essere ingannevole (1 Istituto Nazionale della Salute) ü repositorio.insa.pt/bitstream/10400.18/7817/1/Boletim_Epidemiologico_Observacoes_NEspeci a13-2021_artigo6.pdf

FRANCIA

18. Interviste critiche verso il Nutriscore (5 scienziati/medici) ü Philippe Legrand Interview with Professor Philippe Legrand: “Not all French experts agree on Nutriscore” (europeanscientist.com) ü Jean-Philippe Vuillez :JP Vuillez: “Cancer researchers need the freedom to work” (Interview) (europeanscientist.com) (he endorses Legrand’s opinion) ü Guy-André Pelouze: Will European holidays soon be under Nutri-Score’s watch? (europeanscientist.com) ü Jean de Kervasdoué: “La science est ludique et passionnante. Le public doit la redécouvrir.” Jean de Kervasdoué (Interview) (europeanscientist.com) ü Raphael Sirtoli: Interview with Raphael Sirtoli, co-founder of Nutrita: is FOP food labelling built on junk science ? (europeanscientist.com) Viale Luigi Pasteur, 10 l 00144 Roma (I) l C.F. 97023320589 Tel. +39 (06) 5903534 – 5903380 l Fax +39 (06) 5903342 E-mail: presidenza@federalimentare.it federalimentare.it

Da: Marco Mottolese Inviato: venerdì 12 maggio 2023 12:09 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Risposte Report - Maggio 2023.pdf Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Buongiorno, come da accordi, ecco le risposte di Federalimentare alle vostre domande. Rimaniamo a disposizione per qualsiasi eventuale chiarimento. Cordiali saluti, Marco Mottolese

Da: [CG] Redazione Report Inviato: venerdì 12 maggio 2023 15:17 A: Marco Mottolese Oggetto: R: Risposte Report - Maggio 2023.pdf Gentilissimo, grazie per la sua mail. In relazione alla risposta data al punto 1, chiediamo di poter avere la lista degli oltre 350 scienziati contrari al Nutriscore, che al momento è appoggiato da oltre 320 scienziati ed esperti (nutriscore-europe.com/members/). In relazione alla risposta data al punto 3, circa i presunti finanziamenti di ANIA agli studi sul Nutriscore, non ci risulta che l'ANIA sia mai stata favorevole al Nutriscore, né tantomeno che ne abbia finanziato le ricerche: in questo comunicato stampa del settembre 2016 (ania.net/alimentation-sante/etiquetage-nutritionnel) l'ANIA affermava di non aver ideato nessuna delle quattro etichette nutrizionali proposte in Francia e di avere, però, una preferenza per Nutri-rèpere e SENS. Come spiegato nello stesso comunicato e in altri successivi, l'ANIA ha soltanto partecipato, assieme ad altri, alla sperimentazione guidata dal Ministero della Salute che si è tenuta nei supermercati francesi per valutare quale etichetta adottare, tra le quali vi erano anche le due appoggiate da ANIA. Infatti, come si evince da fonti di stampa e dagli stessi comunicati ufficiali, ANIA fin da subito ha criticato il sistema a cinque colori ideato dal prof. Hercberg. Ovviamente, se siete a conoscenza di fonti o informazioni che dimostrano un appoggio di ANIA al Nutriscore, vi chiediamo di condividerle con noi per garantire una corretta informazione ai nostri telespettatori. Per motivi di produzione, vi chiediamo una cortese risposta entro domani mattina alle 11.00. Cordiali saluti, Redazione Report

Da: Marco Mottolese Inviato: sabato 13 maggio 2023 11:02 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Fwd: Risposte Report - Maggio 2023 Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Buongiorno, dando seguito alla vostra e-mail di ieri vi inviamo gli ulteriori approfondimenti inerenti le vostre ultime domande. In particolare, in allegato, su documento Federalimentare , la risposta alla prima domanda che riporta 365 firme, pari a 350 scienziati (eliminando le doppie firme su due diversi documenti) e 19 associazioni scientifiche collegate. Mentre, per il vostro secondo quesito, trovate la risposta al paragrafo 4 del seguente link ANIA: ania.net/alimentation-sante/etiquetage-nutritionnel-2909 e che qui copiamo nel corpo della mail per comodità e di cui , più sotto, incolliamo un breve estratto. Aprendo il link noterete con chiarezza come ANIA abbia finanziato la ricerca. 4. Sur l’accusation de « blocage » et de « rejet massif » par l’industrie agroalimentaire des initiatives en faveur de la mise en place d’un étiquetage sur les produits alimentaires, sur l’accusation d’avoir « interdit des recherches » Bien loin d’une démarche de blocage, l’ANIA s’est mobilisée pour participer et financer, aux côtés des pouvoirs publics, des associations de consommateurs et des scientifiques, une expérimentation sur l’étiquetage nutritionnel, pilotée par le ministère de la santé et conduite par le Fonds Français pour l’Alimentation et la Santé. Cette expérimentation en conditions réelles d’achats qui a duré 10 semaines avait pour objectif de comparer l’efficacité des différents systèmes, auprès des consommateurs, parmi les quatre systèmes proposés. Le Nutriscore est finalement sorti légèrement en tête sur 3 des 4 systèmes testés lors de l’expérimentation. L’ANIA s’est rendue aux conclusions de cette expérimentation destinée à définir le système d’étiquetage recommandé par les pouvoirs publics dans la mesure, bien évidemment, où il est conforme à la réglementation européenne. Ceci est d’autant plus important afin d’assurer une sécurité et une stabilité juridique nécessaires pour les opérateurs et indispensable pour maintenir la compétitivité de nos entreprises françaises qui évoluent avec des partenaires commerciaux européens et mondiaux. La Commission européenne doit se prononcer le 25 octobre sur la conformité du Nutri-score au cadre réglementaire européen. Siamo certi, con questi due ultimi approfondimenti, di aver soddisfatto ogni vostra richiesta per la miglior chiarezza del pezzo. Marco Mottolese Ufficio Stampa Federalimentare

Da: [CG] Redazione Report Inviato: sabato 13 maggio 2023 12:12 A: Marco Mottolese Oggetto: R: Risposte Report - Maggio 2023 Gentilissimo, come evidenziato nel paragrafo da voi inviato, l'ANIA non ha finanziato le ricerche che hanno portato a delineare l'etichetta Nutriscore: ha bensì partecipato e finanziato la sperimentazione di 10 settimane in condizioni reali di acquisto per testare quale delle quattro etichette proposte fosse la più adatta, sperimentazione che ha visto prevalere il Nutriscore. L'ANIA si era pronunciata a favore di altre due proposte, come riportato a questo link: ania.net/alimentation-sante/etiquetage-nutritionnel. Di seguito il paragrafo L’ANIA rappelle qu’elle n’a conçu aucune des quatre propositions proposées et n’en est donc pas le porteur. Des entreprises agroalimentaires ont individuellement ou collectivement participé aux réflexions visant à élaborer les logos Repère alimentaire SENS et Nutri-Repère qu’elle soutient. En effet, l’ANIA a toujours affiché publiquement une préférence pour les logos qui apportent une information objective aux consommateurs (Nutri-repère) et/ou une recommandation sur la fréquence de consommation (SENS). Un cordiale saluto, Redazione Report Da: Marco Mottolese Inviato: sabato 13 maggio 2023 14:13 A: [CG] Redazione Report Oggetto: Re: Risposte Report - Maggio 2023 Attenzione, la presente mail proviene da un mittente esterno alla rete aziendale RAI Ciao Lucina e colleghi di Report, in realtà anche Federalimentare, cosi come l’ANIA, ha finanziato la ricerca sperimentale con i consumatori italiani, su protocollo definito da ISS e CREA, per testare il Nutrinform a confronto con il Nutriscore, allo scopo di valutare l’efficacia della proposta sviluppata dalle Istituzioni italiane a confronto con quella francese. La sperimentazione ha visto prevalere il Nutrinform, su tutti gli indicatori, con dati validati da ISS e CREA. Federalimentare non ha finanziato ricerche volte a delineare l’etichetta Nutrinform. Spero di esservi stato utile e rimango a vostra disposizione, Marco Mottolese Ufficio Stampa Federalimentare

LA GUERRA DELLE ETICHETTE Di Lucina Paternesi e Giulia Sabella Immagini di Giovanni De Faveri, Davide Fonda, Carlos Dias, Fabio Martinelli, Marco Ronca Ricerca immagini Paola Gottardi Montaggio Sonia Zarfati Edizione e grafica Giorgio Vallati

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Sulle etichette troviamo calorie, grassi, zuccheri, fibre, proteine riferite ai 100 grammi o anche alla singola porzione. Riportano anche la percentuale dell’assunzione giornaliera indicata. Ma sono comprensibili?

SERGE HERCBERG – PROFESSORE EMERITO DI NUTRIZIONE UNIVERSITÀ SORBONA PARIGI NORD - IDEATORE NUTRI-SCORE Il consumatore ha sempre poco tempo mentre acquista di capire la qualità nutrizionale degli alimenti o di fare confronti tra prodotti di marche differenti.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per questo l’Organizzazione mondiale della Sanità nel 2020 ha consigliato di adottare un logo sintetico, semplice ed intuitivo per facilitare le scelte dei consumatori verso alimenti più sani dal punto di vista nutrizionale.

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT Intanto stiamo parlando di Public Healths, cioè di politiche per la salute, cioè prevenzione di malattie croniche, non trasmissibili.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO L’etichetta fronte-pacco è proprio uno dei pilastri delle politiche di salute pubblica, gli altri sono la tassazione di alimenti poco salutari, il controllo delle pubblicità rivolte ai bambini e quello sui claim ingannevoli riportati nelle confezioni. Etichette di questo tipo le hanno già adottate nel Regno Unito, in Australia e anche in Centro e in Sudamerica e le prospettive per alcuni prodotti cambiano.

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT Guardate come sono classificati alcuni prodotti italiani in Messico. Tutti e tre con bollini neri: alto in zuccheri, alto in grassi, alto in calorie.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Dopo aver incassato i bollini neri, dalle confezioni di alcuni cereali sono spariti i tigrotti, i pupazzetti e le api, cioè è sparito tutto quello che è più accattivante per i bambini. Ma le nuove indicazioni sull’etichetta hanno messo sul piede di guerra gli industriali.

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT Il giro d’affari che c’è all’interno della food industry è colossale, è più delle armi ed è più della droga.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Questo spiega la lotta tra due etichette, l’etichetta Nutri-score quella a semaforo e la NutrIform, quella a batteria. Non c’è solo dietro una lotta tra Italia o Francia ma anche tra lobby industriali e comitato scientifico. Allora, il Nutri-score, l’etichetta a semaforo, è stata concepita in Francia dall’equipe del prof. Hercberg, ed è sostanzialmente composta da cinque colori e poi delle lettere, quando siamo in presenza della lettera A o B e i colori verde scuro o verde significa che siamo di fronte a prodotto che ha delle fibre, delle proteine e pochi contenuti di grasso. Quando invece andiamo sulle lettere C, D o E, e i colori cominciano a passare dal giallo all’arancione all’arancione scuro, significa che quel prodotto contiene degli elevati quantitativi di zuccheri, grassi e sali, cioè è potenzialmente pericoloso per la salute. Proprio per questa sua chiarezza e immediatezza è l’etichetta preferita dall’Oms, che vuole etichette che aiutino il consumatore a scegliere i comportamenti migliori per la prevenzione delle malattie. Preferita anche dall’Europa, questo perché c’è il 59% della popolazione sovrappeso, il 23% di persone obese. In Italia poi noi siamo il quarto Paese europeo per bambini sovrappeso e addirittura il secondo per obesità infantile. Ed è per questo che il Nutriscore, l’etichetta a semaforo, è anche apprezzata dall’Associazione europea della Salute pubblica e dallo Iarc, l’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro. Però non esprime un giudizio sulla qualità del prodotto. Per questo che in Italia fa storcere il naso ai produttori ma anche ai politici. Le nostre Lucina Paternesi e Giulia Sabella.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il Nutri-score è un modello di etichetta elaborato in Francia. Ogni alimento viene valutato da un algoritmo in base agli elementi benèfici per l’uomo come frutta, verdura, proteine e fibre, e quelli che, se consumati in eccesso, possono contribuire all’insorgenza di alcune patologie: zuccheri, sale e acidi grassi saturi che nel giudizio finale hanno un peso maggiore. Il risultato è sintetizzato con una lettera: dalla A il più benefico alla E, e anche da un colore che va dal verde scuro all’ arancione intenso.

SERGE HERCBERG – PROFESSORE EMERITO DI NUTRIZIONE UNIVERSITÀ SORBONA PARIGI NORD - IDEATORE NUTRI-SCORE L’algoritmo si basa sugli studi sviluppati da un team di Oxford. I valori di riferimento per il punteggio finale sono stati definiti in base alle soglie fissate dall’Agenzia nazionale di sicurezza sanitaria alimentare francese, quindi sono stati validati da studi scientifici.

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT È un’etichetta molto chiara, semplice, non occorre neanche spiegarla, uno la vede e la capisce. Vedete come è possibile discriminare i vari tipi di bevande: quella che ha A è soltanto l’acqua, in genere tutte le bevande zuccherate hanno una E.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Tra gli alimenti verdi ci sono la pasta, i legumi, il pane, mentre salumi, formaggi e merendine hanno spesso il bollino arancione. In giallo mozzarella, qualche biscotto e alcuni succhi di frutta. Il Nutri-score non dà giudizi sulla qualità di un prodotto, né lo demonizza. È un semplice strumento che aiuta il consumatore a capire a colpo d’occhio cosa sta acquistando, a fare confronti tra prodotti dello stesso tipo e a scegliere quello che impatta meno sulla sua salute. In Belgio, lo hanno adottato già da un paio d’anni.

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Quando acquistiamo una pizza non sappiamo scegliere immediatamente quella che impatta meno sulla nostra salute. Eppure, la differenza c’è. Questa ha la lettera A perché è una base per pizza solo con del pomodoro. Una pizza con verdure e funghi è B, una pizza ai quattro formaggi è C, per la presenza di grassi saturi.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Nonostante i fondamenti scientifici, guai a mettere il bollino rosso sugli alimenti. Si provoca la dura reazione dei produttori. Lo sanno bene a Carrefour, la catena di supermercati di origine francese che nel 2021 in Italia è finita nel mirino dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato dopo una denuncia di Confagricoltura.

LUCINA PATERNESI Perché avete fatto questa segnalazione all’Antitrust nei confronti di Carrefour?

MASSIMILIANO GIANSANTI – PRESIDENTE CONFAGRICOLTURA Io non l’ho fatto contro Carrefour, noi l’abbiamo fatto contro chi utilizza il sistema Nutriscore. Noi riteniamo che il sistema Nutri-score in Italia crei una non buona informazione ai consumatori, dall’altro ovviamente una disparità di, o dei vantaggi competitivi, per le imprese che ovviamente lo utilizzano.

FLAVIA MARÈ – RESPONSABILE ASSICURAZIONE QUALITÀ CARREFOUR ITALIA I prodotti presenti qui sono pochi, sono un centinaio. In questo caso sono dei cereali al cioccolato che hanno un’etichetta B. Qui invece possiamo vedere dei biscotti, poi sono anche ricoperti di cioccolato, che anche questo apporta zuccheri e grassi, e in questo caso l’etichetta è una E.

LUCINA PATERNESI Sono prodotti fabbricati in Francia e poi distribuiti in Italia, non sono prodotti realizzati qui.

FLAVIA MARÈ – RESPONSABILE ASSICURAZIONE QUALITÀ CARREFOUR ITALIA Sì, perché nel momento in cui le aziende aderiscono sono anche tenute a mettere il Nutri-score su tutto l’assortimento per evitare che le aziende possano scegliere di privilegiare i prodotti più equilibrati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per evitare la sanzione Carrefour si è impegnata a non applicare l’etichetta Nutri-score sui prodotti Dop e Igp e a informare i consumatori attraverso cartelloni affissi in tutti i punti vendita.

SERGE HERCBERG – PROFESSORE EMERITO DI NUTRIZIONE UNIVERSITÀ SORBONA PARIGI NORD - IDEATORE NUTRI-SCORE Anche in Francia la lobby dei produttori rifiutava il Nutri-score per difendere i propri interessi e spesso era appoggiata dai politici. Ma di fronte alle evidenze scientifiche nel 2017 l’etichetta con il semaforo è stata introdotta in Francia, anche se in modo volontario. Di fatti ancora oggi alcune multinazionali come Ferrero, Lactalis, Coca-Cola, continuano a rifiutarlo.

GIULIA SABELLA La Nutella non ha il Nutri-score?

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Eh no! Ma se vuoi avere un’idea c’è un prodotto equivalente, viene valutato con la lettera D, vedete? Quest’altro invece è E, anche se è bio è più grasso.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Il Nutri-score non solo aiuterebbe il consumatore a scegliere ma può addirittura spingere anche le aziende a migliorare dal punto di vista salutistico le ricette dei prodotti. Eppure, non convince nessun nostro politico.

LUCINA PATERNESI Ministro buonasera, le posso fare solo una domanda? Che cosa ne pensa lei del Nutriscore?

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE De che?

LUCINA PATERNESI Del Nutri-score.

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE Sono contrario al Nutri-score.

LUCINA PATERNESI Perché?

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE Perché serve…

LUCINA PATERNESI Ma se in gran parte dell’Europa è stato adottato, ci sono più di trent’anni di studi.

ANTONIO TAJANI – MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI E DELLA COOPERAZIONE Trent’anni di studi che non vanno nella giusta direzione.

LUCINA PATERNESI Che cosa pensa del Nutri-score?

ADOLFO URSO – MINISTRO DELLE IMPRESE E DEL MADE IN ITALY Quello che pensa il governo italiano.

LUCINA PATERNESI Quindi?

ADOLFO URSO – MINISTRO DELLE IMPRESE E DEL MADE IN ITALY Noi finora l’abbiamo bloccato.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – MINISTRO AGRICOLTURA SOVRANITA’ ALIMENTARE E FORESTALE Io penso sia un pessimo strumento, perché non serve ad informare, serve a condizionare.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO La battaglia contro il Nutri-score è trasversale, raccoglie consensi un po’ ovunque sotto la bandiera della difesa del Made in Italy e il primo a portarla è Coldiretti.

LUCINA PATERNESI Fuorviante, discriminatorio e incompleto. Perché Coldiretti ce l’ha così tanto con questa etichetta?

FELICE ADINOLFI – DIRETTORE SCIENTIFCO CENTRO STUDI DIVULGA - COLDIRETTI Il primo motivo è che sicuramente l'algoritmo non tiene in conto alcuni elementi fondamentali per il profilo nutrizionale di un prodotto. Il secondo elemento è che l'algoritmo può essere modificato agendo sugli elementi positivi senza che il valore assoluto degli elementi negativi entri in campo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Cioè i produttori potrebbero modificare alcune ricette riducendo sale o zucchero al fine di scalare di colore e di lettera, senza intaccare i valori nutrizionali. Una bevanda dietetica oggi è verde chiaro pur non avendo alcun nutriente, mentre un succo di frutta potrebbe avere il bollino arancione se troppo zuccherato. LUCINA PATERNESI Quali sono i motivi per cui secondo lei questa è un’etichetta sbagliata?

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Il Nutri-score vuole produrre l’ottimo con un singolo alimento; invece, questo deve essere ottenuto con la combinazione di più alimenti. LUCINA PATERNESI Lei sta parlando però di educazione alimentare, è un’altra politica, è un’altra cosa rispetto all’etichetta fronte pacco.

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Bisogna informare. È questo il principio, perché se no noi andiamo a fare un’alimentazione come si fanno per i cani, cui gli si dà la crocchetta, perfetta, lettera A verde.

SERGE HERCBERG – PROFESSORE EMERITO DI NUTRIZIONE UNIVERSITÀ SORBONA PARIGI NORD - IDEATORE NUTRI-SCORE Il Nutri-score non è fatto per educare, è fatto per permettere al consumatore di mettere in pratica le informazioni che ha ricevuto da altre istituzioni e orientare le sue scelte alimentari. Non c’è contraddizione, piuttosto una complementarità.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO L’algoritmo alla base del semaforo Nutri-score non dà giudizi sulla qualità di un prodotto. Lo valuta in base alla presenza di fibre, grassi o zuccheri; per questo ha fatto storcere il naso a chi pone la qualità di un prodotto sopra a tutto.

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – COSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Un olio extravergine di oliva è paragonato a un olio di colza, è paragonato a un olio di girasole altoleico e questi ultimi sono tutti oli raffinati.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Proprio per questo il Nutri-score è in continua evoluzione, potrebbe addirittura segnalare gli alimenti ultra-processati colorando di nero lo sfondo del semaforo. È il bello dell’algoritmo: proprio il fatto che in base agli studi è possibile aggiornarlo costantemente.

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – COSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Queste sono le 12 persone che negli ultimi due anni hanno modificato l’algoritmo, le sembra normale che a seconda di chi ci va modifica l’algoritmo? Allora ci vado io e mi faccio il mio algoritmo, allora sono d’accordo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMO Non è proprio così. L’algoritmo viene periodicamente aggiornato dal gruppo di scienziati provenienti dai Paesi che hanno aderito all’etichetta semaforica.

GIULIA SABELLA Ogni quanto viene aggiornato l’algoritmo?

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Quando ad esempio vengono pubblicati nuovi studi rivelazione nel campo della nutrizione dobbiamo per forza tenerne conto. Di base l’algoritmo è pressoché perfetto, ma ci siamo resi conto che, ad esempio, l’olio d’oliva non veniva valorizzato dall’algoritmo. Conosciamo i suoi benefici per la salute se consumato con moderazione. Quindi ci siamo detti: va bene, cerchiamo di tenere conto di questi aspetti. Per questo motivo l’olio d’oliva è passato da D a C e ora diventerà B.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Oltre ai Paesi che hanno aderito, il comitato ospita i rappresentanti dei Paesi osservatori, come la Finlandia e l’Austria.

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Siamo anche affiancati da un comitato scientifico, uno o due scienziati per paese aderente, privi di conflitti d’interesse perché, cosa molto importante, non è il paese a dover essere rappresentato, ma la scienza.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Anche i nostri scienziati potrebbero far parte del comitato scientifico se l’Italia adottasse il Nutri-score. La Commissione europea avrebbe dovuto proporre un’unica etichetta e renderla obbligatoria in tutti i paesi membri entro la fine del 2022 ma le pressioni delle lobby, anche quella italiana, ha fatto saltare l’appuntamento. Ci stanno lavorando. Ora il Nutri-score non piace perché non dà un giudizio sulla qualità del prodotto. E allora noi in Italia ci siamo fatti la nostra etichetta, si chiama il NutrInform Battery, ma come funziona?

LUCINA PATERNESI Tra questa etichetta e questa etichetta, qual è più chiara?

SIGNORA SUPERMERCATO Ah beh no, sicuramente questa.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per vedere cosa ne pensano i consumatori, abbiamo chiesto ad alcuni clienti di un supermercato di confrontare tre scatole di cereali in base ai valori riportati sull’etichetta NutrInform Battery.

LUCINA PATERNESI Mi dice qual è il più salutare tra questi tre in base a questa etichetta?

SIGNORA SUPERMERCATO Dovrebbe essere questa.

LUCINA PATERNESI È la più salutare secondo lei. No, guardi le faccio vedere.

SIGNORA SUPERMERCATO Ah no ecco, questa non l’avevo vista.

LUCINA PATERNESI La più salutare è questa qui. Qual è l’etichetta più chiara per capire a colpo d’occhio qual è il cibo più salutare secondo lei?

SIGNORA SUPERMERCATO Quella col semaforo.

RAGAZZO SUPERMERCATO Tra le due indicazioni? Beh, sicuramente questa.

LUCINA PATERNESI Quella col semaforo?

RAGAZZO SUPERMERCATO Questa però è più specifica.

LUCINA PATERNESI Questo prenderebbe.

SIGNORA SUPERMERCATO No scusi, questo.

LUCINA PATERNESI E invece se io le faccio vedere l’etichetta Nutri-score...

SIGNORA SUPERMERCATO Ah mamma mia.

LUCINA PATERNESI Così a colpo d’occhio, il prodotto più salutare tra questi tre.

SIGNORE SUPERMERCATO Indubbiamente mi devo fidare della A verde.

RAGAZZA SUPERMERCATO Cioè la A è vista come il grado più alto, quindi il migliore. I colori pure fanno, è proprio il semaforo, no?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Su nove, soltanto in due hanno individuato il prodotto più sano guardando solo l’etichetta a batteria. Per tutti gli altri è servito mostrare l’etichetta a semaforo, giudicata più immediata e comprensibile a primo impatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati. L’Oms chiede da tempo un’etichetta chiara e impattante, questo per aiutare il consumatore ad orientarsi e scegliere gli alimenti più giusti per tutelare la propria salute. Da tempo in alcuni Paesi hanno adottato l’etichetta Nutri-score che è l’etichetta a semaforo concepita in Francia che ha lettere e cinque gradazioni diverse di colore, dal verde, che sta a significare che ci si trova di fronte ad alimenti più sani, a quelli arancione scuro, dove significa si è in presenza di alimenti ricchi di grasso, zucchero e sale. Ecco, sono utilissime per la prevenzione e soprattutto per chi ha delle patologie quali il diabete, l’obesità o problemi cardiovascolari. È stata concepita in Francia da una Università, adottata dal Ministero della Salute dietro a un centinaio di studi indipendenti e a stabilire i colori e le lettere è un algoritmo ideato a Oxford che calcola l’impatto di ogni singolo nutriente sul prodotto, e però, insomma, non giudica la qualità, quindi se tante volte dovesse apparire un bollino giallo sul parmigiano o sulla Nutella non significa che è un prodotto pericoloso ma bisogna limitarne il consumo perché è ricco di grassi o di zuccheri. Però dalle lobby dell’industria viene visto come un voto, un giudizio il Nutriscore e per questo abbiamo creato qui in Italia il NutrInform Battery, la nostra etichetta. Sostanzialmente riporta le informazioni che sono scritte dietro il prodotto e le ha trasformate in batteria, e qui già c’è un primo problema perché uno pensa o sceglie la batteria che è più carica, o il prodotto che ha le batterie più cariche, e invece fanno meglio quelle che hanno le batterie più scariche perché si assimilano meno calorie. Poi i colori sono tutti uniformi, tutto azzurro, poi ci sono 17 numeri diversi, alcuni in percentuale, insomma, è un po’ complicato orientarsi; tuttavia, è un’etichetta che ha messo d’accordo tutti qui in Italia, produttori, associazioni di categoria e politici. E poi la giudicano come un’etichetta, più informativa, che non dà giudizi, non dà nessun voto, però insomma, su quali basi scientifiche è stata approvata?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Mentre il modello francese oggi è già stato adottato anche da Belgio, Germania, Lussemburgo, Paesi Bassi, Spagna e Svizzera, l’Italia ha proposto un’alternativa. Si chiama NutrInform-Battery ed è una rivisitazione di un’etichetta già in voga in Europa vent’anni fa.

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT L’Italia l’ha presa dall’industria, praticamente, ha detto la adottiamo, ci piace, e poi ci introduciamo un elemento grafico, che è quello della batteria.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Solo che la batteria qui funziona all’inverso: più è scarica, migliore sarà la qualità nutrizionale dell’alimento. Il NutrInform è stato proposto da quattro ministeri, Istituto superiore di sanità e il Crea, il Centro di ricerca delle Politiche agricole. Mentre in Francia il Nutri-score è stato elaborato da scienziati indipendenti provenienti da università pubbliche, in Italia il NutrInform Battery viene tenuto a battesimo da Federalimentare, l’associazione di Confindustria che raggruppa tutte le aziende che operano nel settore alimentare.

LUIGI DI MAIO - MINISTRO DEGLI AFFARI ESTERI 2019-2022 – PRESENTAZIONE NUTRINFORM BATTERY - 15/02/2022 L’Italia è contraria all’adozione di meccanismi fondati sui cosiddetti semafori alimentari, come il sistema Nutri-score, poiché ispirati a una logica semplicistica e priva di chiari fondamenti scientifici.

GIULIA SABELLA Quanti studi scientifici hanno validato il Nutri-score?

SERGE HERCBERG – PROFESSORE EMERITO DI NUTRIZIONE UNIVERSITÀ SORBONA PARIGI NORD - IDEATORE NUTRI-SCORE Ad oggi ci sono più di cento studi nel mondo, finanziati interamente da fondi pubblici, che hanno validato il Nutri-score sotto ogni punto di vista. Ci sono poi studi retrospettivi che hanno mostrato su popolazioni seguite per dieci o quindici anni una minor incidenza di malattie cardiovascolari, obesità, diabete e cancro sulla base di un’alimentazione più sana, cioè mangiando cibi che il Nutri-score valuta con le lettere A e B e il verde chiaro o scuro.

LUCINA PATERNESI Quali studi scientifici ci sono dietro al NutrInform?

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT Ci sono soltanto tre studi, che sono stati fatti in Italia, che vanno a valutare la percezione soggettiva del consumatore.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Pochi studi e neppure propriamente indipendenti: due sono stati finanziati da Federalimentare, il cui presidente è il vicepresidente Affari istituzionali di Ferrero, cioè una delle multinazionali che più avversano l’etichetta con il semaforo. Dunque, Federalimentare non ha soltanto organizzato l’evento di presentazione ufficiale alla Farnesina, ma ha finanziato gli studi a supporto del NutrInform Battery alla Luiss, l’università privata di cui la stessa Confindustria è socia. A firmare questi studi è stato un professore esperto in Marketing.

LUCINA PATERNESI Lei, diciamo, che competenze ha in ambito di politiche di sanità pubblica? Questi studi sono stati pagati da Federalimentare. Mi può lasciare un numero di telefono, prendiamo un appuntamento?

MARCO FRANCESCO MAZZÙ – PROFESSORE DI MARKETING UNIVERSITA’ LUISS GUIDO CARLI Guardi, via e-mail, preferisco guardi.

LUCINA PATERNESI Ma se ci sono oltre cento studi a livello globale che confermano la validità del Nutriscore, che studi ci sono alla base del NutrInform?

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Ma il NutrInform non deve essere validato da nessuno perché il NutrInform non fa altro che ripetere quello che già la normativa europea permette.

LUCINA PATERNESI Quello che già c’è nell’etichetta retro-pacco.

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Brava.

LUCINA PATERNESI Ma allora che serve?

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA No, ma lo rende più facilmente, in maniera sinottica, più facilmente comprensibile.

LUCINA PATERNESI E glielo faccio rivedere, secondo lei è più facilmente comprensibile?

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Rispetto…

LUCINA PATERNESI Sono 17 numeri.

EMANUELE MARCONI – DIRETTORE CREA – CONSIGLIO PER LA RICERCA IN AGRICOLTURA Ho capito ma… E invece secondo lei vedendo l’etichetta di sopra ha un’informazione, un’educazione, capisce che cosa sta facendo?

ANTONIO PRATESI – MEDICO DIETOLOGO - ILFATTOALIMENTARE.IT L’etichetta a batteria italiana è ingannevole, è tarata per gli adulti ma viene utilizzata per i bambini. Guardi cosa succede con un succo di frutta se l’etichetta fosse tarata seguendo le indicazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità per un bambino, guardi come verrebbe, due terzi della batteria sarebbe piena.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Significa cioè che in base alle indicazioni dell’OMS con un succo di frutta un bambino ha già ingerito i due terzi del fabbisogno di zuccheri dell’intera giornata. Intanto il NutrInform, l’etichetta a batteria, l’hanno già utilizzata a livello facoltativo Barilla, in alcuni prodotti Mulino Bianco, e Ferrero, il cui vicepresidente, Paolo Mascarino, è oggi anche presidente di Federalimentare.

LUCINA PATERNESI Presidente, salve, piacere, Lucina Paternesi, Report Rai3. Posso farle due domande sul Nutri-score?

PAOLO MASCARINO – PRESIDENTE FEDERALIMENTARE E VICEPRESIDENTE AFFARI ISTITUZIONALI FERRERO Io oggi sono qui… cioè la giornata è dedicata a…

UFFICIO STAMPA FEDERALIMENTARE Le mandiamo il comunicato.

LUCINA PATERNESI Sì sì però devo fare una domanda, un paio di domande al Presidente.

UFFICIO STAMPA FEDERALIMENTARE Non interviene il presidente.

PAOLO MASCARINO – PRESIDENTE FEDERALIMENTARE E VICEPRESIDENTE AFFARI ISTITUZIONALI FERRERO Oggi è la giornata di Fiere di Parma.

LUCINA PATERNESI Come presidente di Federalimentare. Presidente scusi solo un secondo, ci può rispondere a due domande sul Nutri-score? Presidente su, non mi faccia correr dietro. Vi siete fatti l’etichetta, il NutrInform Battery? Perché i prodotti Ferrero sarebbero tutti arancioni e rossi?

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Con noi Federalimentare non parla, ma l’etichetta a batteria è già presente su alcuni prodotti Ferrero. Solo su alcuni però, probabilmente quelli più salutari. Invece col Nutriscore sarebbero tutti così. Intanto l’etichetta a batteria è arrivata fino alla Commissione europea, dopo aver incassato il consenso dell’industria e di tutte le associazioni di categoria.

LUCINA PATERNESI Non crede che in Italia si punti di più alla difesa del Made in Italy piuttosto che alla tutela della salute?

FRANCESCO SOFI – COMITATO DIRETTIVO SOCIETÀ ITALIANA DI NUTRIZIONE Questo è possibile ed è stato sempre così negli ultimi vent’anni. Prima la gente non pensava alla questione alimentazione-salute, ma adesso abbiamo ormai milioni di dati, la questione deve andare in mano principalmente al Ministero della Salute.

LUCINA PATERNESI Paternesi, di Report, Rai 3. Posso farle alcune domande sul Nutri-score?

ORAZIO SCHILLACI – MINISTRO DELLA SALUTE Tra un po’…

LUCINA PATERNESI Le facciamo alla fine? L’aspettiamo, va bene grazie.

ORAZIO SCHILLACI – MINISTRO DELLA SALUTE Dopo, dopo sì.

LUCINA PATERNESI Ha detto tra un po’.

LUCINA PATERNESI Ministro, ci dedica questi due minuti?

ORAZIO SCHILLACI – MINISTRO DELLA SALUTE Un attimo solo, un attimo.

LUCINA PATERNESI L’aspettiamo!

ORAZIO SCHILLACI – MINISTRO DELLA SALUTE Un secondo.

GIORNALISTA È andato via.

LUCINA PATERNESI Come è andato via!

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO E invece in Italia continua ad occuparsene il Ministero delle Politiche agricole, oggi anche della sovranità alimentare.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – MINISTRO AGRICOLTURA SOVRANITÀ ALIMENTARE E FORESTALE Ma sentite un po’, ma come fa a essere valido uno strumento che dice che in assoluto il parmigiano non è un alimento sano, che l’olio d’oliva non è un alimento sano? Vuole vedere gli altri prodotti?

LUCINA PATERNESI Sì, l’etichetta Nutri-score è stata studiata per 30 anni, l’etichetta a batteria ha due studi finanziati da Federalimentare, capisce?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – MINISTRO AGRICOLTURA SOVRANITÀ ALIMENTARE E FORESTALE Questo prodotto qui, invece è B, il parmigiano è D. Quindi questo qui è molto meglio… Vede il Nutri-score come è un algoritmo… Oh guarda, questo è un caprino bio, è francese quindi non c’è niente di nazionalismo, caprino bio è D.

LUCINA PATERNESI Certo, frequenza di consumo, certo è pieno di grassi saturi.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – MINISTRO AGRICOLTURA SOVRANITÀ ALIMENTARE E FORESTLE Quindi questo è sbagliato.

LUCINA PATERNESI Un secondo, un’ultima cosa. Gli studi sul NutrInform Battery.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA – MINISTRO AGRICOLTURA SOVRANITÀ ALIMENTARE E FORESTALE Se vuole fare lei l’intervista passa di qua.

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Se sono un amante dei formaggi non sarà certo questa E rossa sul Roquefort o sul Parmigiano Reggiano a impedirmi di consumarlo! Attirerà solo la mia attenzione sul fatto che si tratta di un prodotto molto salato e se ad esempio soffro di ipertensione questa informazione sarà preziosa. Continuerò a mangiare il mio formaggio, magari però un pezzettino più piccolo.

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Anche il Ministero dello Sviluppo Economico ha puntato tutto sull’etichetta a batteria. Quando l’attuale ministro dell’Economia Giorgetti era a capo del Mise, il NutrInform Battery è diventato anche un’applicazione per cellulare sponsorizzata dall’atleta italiana Federica Pellegrini. Ma funziona?

LUCINA PATERNESI Neanche questo è presente nel database.

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Nel suo ultimo rapporto il centro di ricerca della Commissione europea si è pronunciato sui vari sistemi di etichettatura esistenti, compresa la proposta italiana. Nelle sue conclusioni ha messo in evidenza la superiorità del Nutri-score.

GIULIA SABELLA Allora perché è così difficile adottarlo a livello europeo?

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Ci sono tantissimi interessi, anche e soprattutto di quei paesi come l’Italia che sono contrari.

GIULIA SABELLA Ci sono però produttori che hanno fatto pressioni?

LAURENCE DOUGHAN – RAPPRESENTANTE BELGIO COMITATO DIRETTIVO GOVERNANCE NUTRI-SCORE Assolutamente sì, non hanno proprio compreso lo strumento. Forse hanno paura di perdere quote di mercato. Ho molto rispetto per le tradizioni e il patrimonio culinario italiano, ma questa missione di salute pubblica ci richiede di apporre un logo nutrizionale che informi meglio e sia d’impatto.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Speriamo che la ricerca dell’informazione sulla qualità del prodotto italiano alla fine trovi una sintesi con l’impatto e la chiarezza dell’etichetta Nutri-score, questo anche perché per un consumatore che ha una patologia come il diabete è importante sapere con quali cereali cominciare la giornata e in questo caso scegliere il prodotto con l’etichetta A è fondamentale, aiuta moltissimo. Per il NutrInform invece ci scrive Federalimentare che il NutrInform Battery è nato all’interno del Tavolo interministeriale agroalimentare. Il gruppo di lavoro ha avviato una collaborazione per la realizzazione del protocollo scientifico, identificando nell’Università Luiss un autorevole centro di ricerca cui affidare l’esecuzione degli studi, chiedendo poi a Federalimentare di cofinanziare quella ricerca. E poi ci scrive che all’interno dell’evento promosso nel febbraio 2022 dal Ministero degli Affari Esteri ha svolto un mero ruolo tecnico. Il team invece del prof. Mazzù della Luiss ci conferma che le ricerche si sono incentrate sul comportamento del consumatore e sul marketing, perché il protocollo scientifico di validazione della proposta italiana, definito da Istituto superiore di sanità e Crea, verteva anche sulla comprensione dell’etichetta da parte dei consumatori. Questi lavori non mostrano se l’etichetta a batteria aiuta il consumatore a identificare gli alimenti più salutari e che il finanziamento, dice il team del prof. Mazzù, ricevuto non ha influenzato l’esito e i risultati delle ricerche. Ecco, non sappiamo però quanto sono state pagate. Inoltre ci scrive anche Ferrero, dice che ha risposto all’invito delle istituzioni italiane rivolto alle imprese di applicare l’etichetta a batteria su prodotti venduti esclusivamente in Italia, ecco perché l’etichetta è presente solo su alcuni prodotti e non su tutti. E che quando Federalimentare ha finanziato gli studi alla Luiss Paolo Mascarino, vice presidente affari istituzionali di Ferrero, non era presidente di Federalimentare. Era vicepresidente, lo ricordiamo noi. Avremmo anche voluto sapere quanto è costata al Ministero dello Sviluppo economico la app NutrInform Battery che abbiamo visto che non funziona ma non ce l’hanno voluto dire.

Tutti contro Yuka. Report Rai PUNTATA DEL 29/05/2023 di Lucina Paternesi 

Come finirà la guerra delle etichette?

Non solo Nutri-score e NutrInform Battery, la battaglia delle etichette diventa sempre più hi-tech. Per invogliare i cittadini a prendere confidenza con la proposta di etichetta fronte-pacco di stampo italiana, il Ministero dello Sviluppo economico ha lanciato lo scorso luglio un’applicazione per smartphone con cui scansionare i codici a barre dei prodotti, ma funziona? In Francia, invece, sulla base dell’etichetta a semaforo qualche anno fa è nata Yuka, l’app che assegna un punteggio agli alimenti segnalando anche gli additivi pericolosi in base al principio di precauzione. Oggi più di 35 milioni di utenti l’hanno scaricata in tutto il mondo perché nei suoi database sono schedati oltre 4 milioni di codici a barre: alimenti ma anche cosmetici. I giudizi più severi sono riservati proprio agli alimenti ultra-processati e agli insaccati: prosciutti, salami e carni trasformate sono sempre giudicati negativamente dall’app, proprio per l’eccessivo utilizzo di additivi e sale da parte dell’industria. La reazione non si è fatta attendere e la Federazione francese degli industriali della salumeria ha trascinato la start up in tribunale.

TUTTI CONTRO YUKA Di Lucina Paternesi e Giulia Sabella Immagini di Davide Fonda Montaggio Sonia Zarfati Grafiche Giorgio Vallati

LUCINA PATERNESI FUORICAMPO Per contrastare l’etichetta alimentare di origine francese, il Nutri-score, che assegna un colore e una lettera a ogni alimento in base alla presenza di grassi sali e zuccheri, l’Italia ha proposto un’alternativa: si chiama NutrInform Battery e riporta le stesse informazioni contenute nell’etichetta sul retro sotto forma di batteria. Per valorizzarla Giorgetti, quando era a capo del Mise, aveva trasformato il NutrInform Battery in un’applicazione per cellulare sponsorizzata dall’atleta italiana Federica Pellegrini. Ma funziona?

LUCINA PATERNESI Neanche questo è presente nel database.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Avevamo parlato del Nutri-score, l’etichetta alimentare a forma di semaforo che è stata adottata da vari paesi europei, è stata concepita in Francia ed è la preferita da parte dell’OMS perché è impattante, insomma perché evidenzia subito la presenza di grassi, sali e zuccheri, e aiuta il consumatore che va a fare la spesa di corsa a mantenere dei comportamenti corretti per la prevenzione della propria salute. Dopo la puntata avevamo incassato i complimenti di alcuni cattedratici europei, dell’Università di Liverpool e anche dalla Sorbonne mentre invece qui in Italia abbiamo ricevuto la maggior parte critiche. Addirittura, la presidenza del Consiglio ha diramato una nota dove ci accusava di aver dato un’informazione parziale perché il Nutri-score gira su un algoritmo che non è completamente trasparente ed è facilmente manipolabile. E poi anche l’ex ministro dell’Agricoltura, Centinaio della Lega, aveva detto: Report ha dato un’informazione sbagliata, parziale, non ha fatto buona informazione. Coldiretti ha detto: attenzione perché col Nutri-score si penalizza l’80% dei prodotti eccellenti italiani. Questo in parte è vero perché il Nutri-score non pretende di dare il bollino di qualità di un prodotto, mira più alla prevenzione, alla salute, ed è per questo noi abbiamo fatto la nostra etichetta alimentare che si chiama NutrInform Battery cioè traduce sostanzialmente le informazioni che sono sull’etichetta, sul retro del prodotto le trasforma in batteria, solo che poi l’app che dovrebbe aiutare i consumatori, come abbiamo visto, non funziona. Mentre Yuka è un’app che funziona: 40 milioni di cittadini l’hanno scaricata. La nostra Lucina Paternesi e Giulia Sabella.

ALICE SCAFFIDI – SERVIZIO CLIENTI YUKA Scansioniamo il codice a barre e visualizziamo il punteggio del prodotto, in questo caso 47 su cento e sono attribuiti anche dei colori per aiutare i consumatori ad orientarsi meglio.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Yuka è un’applicazione inventata in Francia. Nel suo database sono schedati oltre quattro milioni di codici a barre, prodotti alimentari ma anche cosmetici. L’applicazione li valuta ad uno a uno assegnando un punteggio.

ALICE SCAFFIDI – SERVIZIO CLIENTI YUKA Da un lato sì la qualità nutrizionale, dall’altro gli additivi, dall’altro la dimensione biologica in maniera da avere diciamo una visione globale.

LUCINA PATERNESI Dietro l’algoritmo che assegna questo punteggio…

ALICE SCAFFIDI – SERVIZIO CLIENTI YUKA Ci sono fonti scientifiche e sono tutte menzionate nell’applicazione. In questo caso il salame ha un punteggio scarso di 10 su 100, è presente un additivo a rischio, è troppo salato e un po’ troppo grasso.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Nel giro di qualche anno l’applicazione ha conquistato 20 milioni di consumatori solo in Francia, quasi 40 in tutto il mondo. Nata nel 2017, Yuka si basa sull’algoritmo del Nutriscore e, in più, valuta gli alimenti tenendo anche conto della presenza di additivi e coloranti, anche quando sono nei limiti di legge fissati dall’Autorità europea di sicurezza alimentare che ha sede a Parma, l’Efsa.

RENATA ALLEVA – NUTRIZIONISTA – ISDE MEDICI PER L’AMBIENTE Non è la dose che fa il veleno perché quella è tossicità acuta. Ma c’è una parte, che è quella che oggi noi riteniamo molto più importante per l’infiammazione silente che poi porta a patologie cardiovascolari, che è quella che viene definita tossicità cronica che, a piccole dosi, già creano delle alterazioni metaboliche.

JULIE CHAPON – COFONDATRICE YUKA Yuka è nata quando uno dei fondatori si è posto il problema di come dare alimenti migliori ai propri bambini. Allora ha pensato che sarebbe stato utile uno strumento per decifrare quelle informazioni. Se le scelte si orientano verso cibi più sani, di conseguenza anche l’industria sarà costretta a migliorare la composizione di alcuni prodotti.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Tra i prodotti a cui l’algoritmo ha assegnato un punteggio basso ci sono sicuramente i salumi e gli insaccati a causa della presenza di alcuni conservanti giudicati pericolosi. E proprio per questo motivo Yuka è stata presa di mira dalla Fict, l’associazione che dell’industria della carne lavorata.

JULIE CHAPON – COFONDATRICE YUKA Anche due aziende che appartengono al vicepresidente della Fict ci hanno attaccato per le nostre valutazioni sui nitriti, un additivo molto controverso e pericoloso. Anziché riformulare le proprie ricette ed eliminare l’uso di questi additivi, le lobby degli industriali hanno deciso di attaccare noi e il nostro lavoro.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Tre condanne da tre diversi tribunali del commercio. Per i giudici, Yuka ha commesso una pratica commerciale sleale e ingannevole e commette atti diffamatori contro la Fict; è condannata a risarcire 65 mila euro ad ABC Industrie e a Mont de la Coste. Il tribunale intima anche di modificare le informazioni fornite agli utenti sugli additivi presenti nelle carni.

JULIE CHAPON – COFONDATRICE YUKA Queste tre citazioni in giudizio avevano chiaramente l’obiettivo di distruggerci, avevano chiesto più di un milione e quattrocentomila euro di danni, una cifra impossibile per una start up come la nostra.

BERNARD VALLAT - PRESIDENTE FICT (2017 – 2023) Yuka si presenta spesso come una organizzazione non governativa che vuole dare trasparenza ai consumatori. Ma abbiamo provato che Yuka è una società commerciale e che nel capitale di Yuka ci sono degli azionisti che fabbricano dei prodotti in concorrenza con la carne.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Secondo gli industriali, quando l’app consiglia un altro prodotto da acquistare, l’algoritmo sarebbe influenzato da altri fattori e nell’azionariato dell’organizzazione avrebbero messo soldi anche industrie che producono surrogati della carne.

JULIE CHAPON – COFONDATRICE YUKA Il nostro bilancio è pubblico e trasparente e l’algoritmo che consiglia prodotti alternativi e più sani, quando ce ne sono, è totalmente indipendente. Nessuna azienda può pagare per comparire tra i nostri suggerimenti.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO A proposito di conflitti d’interesse, le due aziende che hanno trascinato Yuka in tribunale sono di proprietà di Antoine D’Espous, il vicepresidente della Fict.

LUCINA PATERNESI Non c’è secondo voi un conflitto d’interessi?

BERNARD VALLAT - PRESIDENTE FICT (2017 – 2023) Assolutamente no. Il signore D’Espous difende i propri interessi.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO La battaglia legale non è ancora finita. Due corti d’appello hanno dato ragione a Yuka ma le aziende sono pronte a ricorrere in cassazione.

BERNARD VALLAT - PRESIDENTE FICT (2017 – 2023) Il problema è che Yuka dà delle informazioni senza avere un comitato scientifico.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Secondo la federazione degli industriali della salumeria, Yuka dà un giudizio politico quando riporta gli studi scientifici dell’Organizzazione mondiale della sanità o dell’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro.

BERNARD VALLAT - PRESIDENTE FICT (2017 – 2023) Sì, i nitriti provocano il cancro ma se rispettiamo le dosi che sono raccomandate dagli scienziati, non c’è più rischio.

LUCINA PATERNESI FUORI CAMPO Lo scorso luglio però l'agenzia nazionale per la sicurezza sanitaria alimentare francese ha riconosciuto il nesso tra il rischio di sviluppare un cancro del colon retto e l'assunzione di nitriti e nitrati. Non è quindi poi così arbitraria la valutazione di Yuka.

LAURENT GUILLIER – DIP. VALUTAZIONE RISCHI - AGENZIA NAZIONALE SICUREZZA SANITARIA ALIMENTARE FRANCESE Sì, c'è effettivamente questa associazione legata a un consumo elevato. Abbiamo rivisto tutta la letteratura scientifica a disposizione e alla fine abbiamo proposto una riduzione, i consumatori francesi devono ridurre l’esposizione a nitriti e nitrati.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Ora Yuka ha vinto in appello ed è una bella notizia perché l’assoluzione si basa anche sulla libertà d’espressione e abbiamo anche capito che non avrà vita facile però visto quanto sono agguerriti quelli della lobby dell’industria alimentare, come non sarà semplice l’iter per arrivare ad una etichetta alimentare unica europea. L’ideale sarebbe quello di trovare una sintesi tra l’immediatezza del Nutri-score e la completezza di informazioni, anche a tutela della qualità, del NutrInform Battery, chissà se ci riusciranno.

Cosa si mangia nelle zone dove si vive più a lungo?

Ci sono molti punti in comune. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 17 Gennaio 2023.

Ci sono aree del mondo in cui la concentrazione di centenari e ultracentenari è nettamente sopra la media. Si chiamano Zone Blu, o in inglese Blue Zones, e vengono studiate da anni dai ricercatori per riuscire a capire se vi siano dei tratti comuni e delle caratteristiche specifiche nella dieta e nello stile di vita di queste persone, oltre alla genetica, che determinano la longevità e il vivere in buona salute senza malattie. 

A coniare il termine Blue Zone sono stati i suoi due scopritori, il demografo belga Michel Poulain, ricercatore dell’università di Tallinn in Estonia, e l’epidemiologo sardo Gianni Pes dell’università di Sassari. Dopo attente verifiche e indagini, nel 2000 Poulain e Pes identificarono alcuni villaggi nell’area montuosa dell’Ogliastra in cui viveva un numero di centenari decisamente superiore alla media. Per segnare quest’area sulla cartina, Poulain e Pes usarono un pennarello blu. Da qui derivò il nome di questa e altre zone speciali del mondo. A oggi, secondo Poulain, le zone blu che corrispondono ai criteri della ricerca scientifica sull’invecchiamento sono quattro: l’Ogliastra-Barbagia, due aree regionali e prevalentemente montuose della Sardegna, l’isola di Ikaria in Grecia, l’arcipelago di isole di Okinawa in Giappone e la penisola di Nicoya in Costa Rica. C’è poi il caso di Loma Linda, in California, dove vive una comunità cristiana degli Avventisti del settimo giorno che Poulain non riconosce però come zona blu in senso stretto.

Cosa c’è di speciale nelle zone blu

A Villagrande Strisaili, un paesino di 3 mila anime nell’Ogliastra, in Sardegna, i ricercatori hanno registrato 47 centenari in una popolazione di circa 3 mila abitanti e a Seulo, un altro paesino poco distante, 21 centenari in una popolazione di 800 persone. “Sono dati straordinari, precisa Poulain. Per capirci, se prendessi un villaggio di 3mila persone in qualsiasi altro posto in Italia probabilmente troveremmo un centenario, non certo 47. In più, oltre a questo che è già di per sé stupefacente, abbiamo riscontrato che in questi due villaggi non esiste differenza di longevità tra i due sessi, ovvero il cosiddetto ‘gender gap’ demografico, perché gli uomini vivono tanto quanto le donne, mentre in qualsiasi altro angolo del Pianeta l’uomo vive mediamente meno della donna”.

Oltre all’età anagrafica, tra gli abitanti delle zone blu quello che colpisce è la qualità della vita e la quasi completa inesistenza di malattie tipiche della vecchiaia come la demenza senile. Non si tratta dunque solo di longevità intesa come sopravvivenza fino a tarda età, ma di una vita attiva all’interno della comunità, qualitativamente significativa e di scopo. Gli anziani non sono persone sole e rassegnate, rinchiuse in case di cura per anziani, ma svolgono ancora un ruolo attivo nella comunità in cui vivono mantenendo forti relazioni sociali. La scoperta di queste zone blu ha attratto negli anni l’interesse di sempre più studiosi di genetica e di studiosi dell’Ambiente. Va detto tuttavia che il singolo fattore determinante che spiega una percentuale così elevata di longevi in queste aree circoscritte, non è ancora stato trovato. Non dipende a quanto pare solo da una buona genetica di base, ma piuttosto gli studiosi pensano che questa condizione favorevole di longevità e buona salute dipenda da una serie di fattori, tra cui la dieta. I fattori che i ricercatori hanno elencato come determinanti, ad oggi sono 7 e sono i seguenti. In questo articolo approfondirò soltanto quello della dieta:

Condurre una vita semplice

Mangiare cibo locale

Coltivare forti relazioni familiari e sociali

Nutrire la propria spiritualità

Rimanere fisicamente attivi fino a tarda età, nel lavoro o in attività extralavorative come la coltivazione di un orto

Rispettare il pianeta 

Avere sempre uno scopo di vita (forte senso di appartenenza alla comunità, curare e tramandare lavori, usi e costumi del luogo ecc.)

La dieta dei centenari 

Arriviamo dunque al fulcro della questione: cosa mangiano questi allegri centenari? Ci può essere un vantaggio e un segreto di lunga vita nel loro modello di alimentazione? Alcune caratteristiche alimentari di base rintracciate dai ricercatori, nonostante la lontananza geografica delle zone blu fra di loro, sono: 

Una dieta prevalentemente vegetale basata soprattutto su prodotti locali, stagionali e, spesso, coltivati da sé. Le verdure sono l’alimento presente ad ogni pasto e in abbondanza, non si tratta quindi di uno striminzito contorno.

Il consumo quasi quotidiano di legumi.

Il consumo quotidiano di proteine di origine animale, ma in quantità moderate (uova, formaggi, carne e pesce).

Minimo consumo di zuccheri aggiunti (i dolci si mangiano solo in occasione delle feste annuali come il carnevale, natale, o nelle ricorrenze come matrimoni ecc.)

Dieta moderata nelle quantità di cibo, in generale. Nell’entroterra sardo gli anziani sono abituati a una cena leggera all’imbrunire, mentre a Okinawa è ancora diffuso il detto hara haruchi bu, che significa “mangia fino a riempire otto parti su dieci” dello stomaco, e non oltre.

L’alimentazione locale si basa ancora sull’autoproduzione ed è molto più ricca di nutrienti utili alla prevenzione rispetto ai prodotti della grande distribuzione. Si parla di quasi il triplo di antiossidanti, vitamine e minerali.

I centenari sardi mangiano carne e latticini tutta la vita ma si tratta di carni e derivati animali sani, non appartenenti al circuito della Grande Distribuzione (supermercati, mense, ristoranti). Questo è un dato che fa riflettere, i cibi animali vengono consumati regolarmente (soprattutto latte, yogurt e formaggi) ma la salute media della popolazione sarda è molto buona, con molti casi di vite centenarie in tutta l’isola e non solo nella zona blu dell’Ogliastra-Barbagia. Il concetto chiave è il seguente: in Sardegna gli animali vengono tenuti al pascolo tutto l’anno in ogni stagione, mangiano in prevalenza il cibo che la natura ha designato per loro, cioè erba e fieno, e la loro dieta viene integrata solo per una piccola percentuale con mangimi a base di cereali. Questo fatto determina che carne e latte di questi animali siano più sani rispetto a quelli degli animali allevati per esempio nella pianura padana negli stabilimenti intensivi e al chiuso. Del resto, basta sentire il sapore e la consistenza della carne sarda, si percepisce subito una netta differenza con la carne del “continente”. Ma ci sono poi delle differenze qualitative che sono specifiche dei cibi sardi, a rendere l’equazione ancora più vincente. Per esempio nei formaggi sardi. Lo spiega il professor Luca Deiana, biologo molecolare dell’Università di Sassari: “Il latte delle pecore degli allevamenti bradi contiene bacilli (fermenti lattici) molto particolari: diversamente da quelli che si trovano in altri latticini questi bacilli resistono all’acidità gastrica. Rimangono attivi e continuano a produrre sostanze che aiutano a tenere sotto controllo il colesterolo, per esempio”. Anche gli omega-3 e altri grassi protettivi sono naturalmente presenti in quantità ingenti nei prodotti sardi. 

La dieta dei centenari di Okinawa ha delle differenze rispetto a quella dei sardi, per esempio perché non si consumano mai latticini e dolci, e si basa su 3 principi di base che i giapponesi seguono con determinazione:

Nuchi gusui (Cibo medicina): vedono il cibo come una medicina, per cui lo trattano come un elemento quasi sacro. La presenza di supermercati e cibo confezionato nelle isole di Okinawa è molto rara, non vige il consumismo tipico dell’Occidente o del Giappone metropolitano. I fast food invece non esistono proprio!

 Hara hachi bu (saziarsi all’80%): Bisogna alzarsi da tavola ancora con un leggero appetito. 

Kuten gwa (porzioni piccole): Mangiare piccole porzioni di diverse pietanze piuttosto che una sola grossa porzione di un unico alimento. In altre parole: variare la dieta. Ad Okinawa si persegue tradizionalmente una sorta di regime di restrizione calorica. Non digiunano ma incorporano l’idea che la fame non vada del tutto soddisfatta.

Quindi cosa mangiano? Si nutrono soprattutto di verdure, cereali integrali, alghe e pesce. Tecnicamente non sono vegetariani anche perché consumano carne (maiale), sebbene moderatamente. La base dell’alimentazione di Okinawa è il riso integrale, che cuociono al vapore. Questo riso è presente ad ogni pasto compresa la colazione. In alternativa servono la “soba”, cioè un impasto di grano saraceno integrale. Molto rappresentate sono le verdure. Si usa iniziare i pasti con una ciotola di verdure crude. Ma le verdure vengono anche cotte al vapore o saltate nel wok. Poi portano in tavola cavoli, carote, rape, germogli di bambù, funghi e la loro zucca (goya). Importante la soia, che consumano sotto forma di tofu, miso, natto e salse. Quindi è soia fermentata, non come quella che viene proposta in Occidente come base di dieta vegetale: burger di soia, latte di soia, fagioli di soia ecc. Diverse ricerche mostrano che in realtà la soia è un alimento salutare solo nella sua versione fermentata e non in quella naturale. Importante anche il pesce e i frutti di mare che compaiono nei piatti 3-4 volte alla settimana. Si usano molto le alghe: entrano nelle zuppe, si intingono nelle salse, si fanno saltare e insaporiscono il pesce. Infine rispetto a noi non esiste l’abitudine di assumere latte e latticini. Anche i dolci sono ridotti al minimo. E persino la frutta: si coltiva poco ed è considerata un cibo quasi di lusso. La bevanda di gran lunga più popolare è il tè verde, anche ai pasti.

La genetica conta ma non è tutto

Tutte le zone blu del mondo che i ricercatori hanno finora individuato (non si esclude che ce ne siano altre ancora da scoprire), sono aree caratterizzate da un forte isolamento geografico. Ed è proprio questo aspetto geografico che consente loro di mantenere un evidente vantaggio genetico di popolazione. Le persone che vivono in isole o luoghi geograficamente comunque isolati, tendono infatti a scegliere più spesso un partner di vita che è del proprio territorio, ed ecco come la genetica di base viene mantenuta di generazione e generazione, senza troppe alterazioni e variazioni. È innegabile che vi sia questo fattore genetico a dare il suo contributo nell’equazione complessiva, ma gli studiosi dicono che non si tratta del fattore predominante. Pensano invece che tutti gli altri fattori, che compongono lo stile di vita e l’ambiente in cui vivono i centenari, siano ancora più impattanti per longevità e salute. Si parla in questo cado di epigenetica, non di genetica. L’epigenetica è una branca della biologia che studia come l’età e l’esposizione a fattori ambientali, tra cui agenti fisici e chimici, dieta, attività fisica, possono modificare l’espressione dei geni pur senza modificare il DNA. In pratica i fattori ambientali fanno mutare soltanto il comportamento dei nostri geni, ma non ne alterano la sequenza di base presente nel DNA. Può sembrare un concetto molto complesso di primo acchito, in realtà è molto semplice e affascinante. Ogni persona dunque, oltre ad avere la propria genetica (che non muta mai nel corso della vita) possiede anche una propria epigenetica, che invece si modifica di continuo nel corso della vita ed è anch’essa trasmissibile ai propri figli, al pari della genetica. Un esempio per far capire la differenza tra genetica ed epigenetica è il noto caso dei gemelli monozigoti, che gli studiosi da sempre propongono come spiegazione dell’epigenetica: è risaputo che i gemelli monozigoti hanno lo stesso patrimonio genetico, ovvero il loro DNA contiene le stesse informazioni. Non a caso si parla anche di gemelli “identici”. Vi siete mai chiesti per quale motivo due gemelli monozigoti, pur condividendo gli stessi geni, tendono nel tempo a differenziarsi sempre di più? Subentrano differenze sotto tanti aspetti: fisico, caratteriale, intellettuale, degli ideali ecc. La risposta sta proprio nell’epigenetica. Se i due gemelli, ad esempio, per motivi di studio o di lavoro, da grandi si trasferiscono in due città o Paesi diversi, le differenze tendono ad accentuarsi per l’effetto che i due ambienti hanno su di loro. Per tutte queste ragioni, tra i due gemelli monozigoti può capitare che uno dei due sviluppi una patologia e l’altro no. Allo stesso modo si è visto che in coppie di gemelli dove uno fuma e l’altro no, uno vive in climi caldi e l’altro no, può determinare grandi differenze sullo stato di salute e sulla longevità. Pur avendo la stessa informazione genetica dunque, non è detto che questa si esprima allo stesso modo in entrambi. Questo è il concetto di epigenetica. Ritornando ai nostri centenari delle zone blu quindi, la loro genetica certamente conta ma più di essa conta il loro stile di vita e l’ambiente fisico-climatico in cui vivono.

La lezione che possiamo imparare

La longevità e il buono stato di salute di chi vive nelle Blue Zones, sono dovuti non solo a dei buoni geni, ma anche ad abitudini e comportamenti più salutari. Abbiamo visto la loro dieta e capito che è moderata e con pochi eccessi. Un’abitudine che accomuna diversi gruppi di centenari è l’assunzione dei pasti principali e degli eventuali spuntini in un arco di 12 ore, per beneficiare di altrettante ore di digiuno notturno che, grazie al periodo di riposo dell’organismo, consente di rigenerare dall’interno e di riparare le cellule danneggiate, eliminando quelle ormai non più funzionali. Questo è ciò che gli studiosi chiamano digiuno intermittente e che oggi viene proposto da diversi medici e nutrizionisti. 

La rete sociale è solida e culturalmente non è considerato accettabile il ricovero degli anziani nelle case di riposo. La convinzione infatti è che debbano essere la famiglia e la comunità a prendersi cura di loro. Energia, grinta, tenacia, coraggio, resilienza sono qualità che possiamo trovare quotidianamente nei centenari ma talvolta anche negli anziani che vivono accanto a noi. È bene quindi tornare a guardarli come pienamente vivi, con pari diritti e pari dignità.  [di Gianpaolo Usai]

Erbe Aromatiche.

Estratto dell’articolo di Carlo Ottaviano per “il Messaggero” il 7 maggio 2023. 

Quasi un miliardo di euro. È il mercato italiano delle erbe aromatiche e officinali usate in cucina, per i te e le tisane sempre più moda, nei liquori salutistici e impiegate nella cura del corpo.

La produzione strettamente agricola italiana è però solo di 150 milioni di ettari (4 mila tonnellate di prodotto su oltre 7.300 ettari). 

Gli imprenditori del settore si sentono quasi figli di nessuno «Siamo trascurati denuncia Andrea Primavera, presidente di Fippo, la federazione che rappresenta la gran parte dei produttori italiani dalle normative dell'agricoltura. Invece è un comparto innovativo a cui andrebbero dedicate misure specifiche anche alla luce delle oltre 140 specie coltivate e in una visione di biodiversità del Paese». «Molte piante aggiunge rientrano nella dieta mediterranea, penso ad esempio al rosmarino. Per questo è necessario un censimento per iniziare un percorso di valorizzazione».

Il grande interesse per il settore è dimostrato dalla presenza storica di alcuni grossissimi player […] Sul settore puntano anche i fondi di investimento, sempre attenti alle novità. […] «In Italia calcola Primavera, protagonista di molte iniziative durante il Salone Spices&Herbs Global Expo al Macfrut di Rimini la quantità del mercato complessivo di piante officinali è di 37mila tonnellate, oltre 45mila tonnellate per quello delle spezie, 45 tonnellate di zafferano e 10 tonnellate per gli oli essenziali. La nostra produzione è largamente insufficiente, copre un fabbisogno di appena il 20% della domanda, e questo lascia ampi margini di crescita del settore». 

Il settore è cresciuto a macchia di leopardo in modo spontaneo, creando alcuni distretti in Piemonte, nell'Alta Valle del Tevere, in Calabria, Sicilia interna, nord della Sardegna. Lavanda, menta, passiflora e piante da liquore, oli essenziali di agrumi sono le produzioni principali.

«Viviamo nel paradosso afferma ancora Primavera di produrre circa 4mila tonnellate (escluso coriandolo) di piante officinali e 350 tonnellate di oli essenziali (in gran parte agrumi e bergamotto) e di esportare 33mila tonnellate di prodotto. Come è possibile? Trasformando buona parte delle 40mila tonnellate di prodotto importato. Questo dà l'idea degli ampi margini di crescita per una produzione nazionale». […]

Per quanto riguarda il gusto dei consumatori, secondo Assoerbe, la materia prima agricola grezza più acquistata è la camomilla, tra le droghe vegetali il mirtillo, degli estratti vegetali la più consumata è la curcuma. In cucina stando a un altro studio presentato a Rimini da AstraRicerce e Cannamela due italiani su tre non rinunciano alle spezie avendo acquistato 97 milioni di confezioni nel 2022. Pepe nero, peperoncino e zafferano sono le tre spezie più usate, mentre rosmarino, prezzemolo e basilico restano le erbe aromatiche preferite. Forte il trend in crescita verso i sapori asiatici (lemongrass e cardamomo in testa). 

Gli Integratori.

Tutti i miti da sfatare sugli integratori alimentari. Gianpaolo Usai su L'Indipendente l’11 aprile 2023.

Dovremmo assumere degli integratori per stare meglio? Sono davvero essenziali per essere in buona salute? In commercio troviamo una miriade di sostanze e supplementi che il marketing dipinge come essenziali e capaci di migliorare ogni aspetto del nostro benessere, dal dimagrimento alla ricrescita dei capelli, dall’eliminare il gonfiore di pancia al dormire meglio, c’è una compressa per ogni cosa insomma.. Ma i pareri tra gli stessi medici, nutrizionisti ed esperti di prodotti nutraceutici sono spesso discordanti, alcuni dicono che gli integratori non servono, mentre altri ne difendono l’assoluta necessità e utilità. Il consumatore quindi è spesso preso tra due fuochi e non riesce a mettere a fuoco la questione. In questo articolo proviamo ad analizzare, in particolare, alcune obiezioni che vengono fatte solitamente da tutti coloro che criticano l’impiego di integratori alimentari. Possiamo definire queste obiezioni come dei veri e propri miti da sfatare.

Tutto ciò che ci serve è presente nel cibo

Perché assumere integratori di sostanze se queste sostanze sono già presenti nel cibo che mangiamo ogni giorno? Si tratta del più grande fraintendimento a proposito dell’argomento integratori. Molte persone (inclusi alcuni medici) non credono nell’efficacia dei supplementi, e tipicamente affermano che dopo tutto le persone hanno vissuto in questo pianeta per secoli senza prendere pillole per restare in salute. Questa affermazione però è vera solo a metà. In realtà oggi soltanto pochissimi alimenti contengono realmente tutte le sostanze che servono al nostro organismo per funzionare bene, ma la gran parte dei cibi in commercio non le contiene o le contiene solo in quantità estremamente basse e insufficienti per i nostri fabbisogni. Inoltre rispetto ai secoli e secoli di vita sulla Terra a cui fanno riferimento coloro che liquidano la questione con molta superficialità, le condizioni di vita e le risorse naturali del pianeta oggi sono diverse rispetto al passato, e questo incide in maniera sostanziale sulla disponibilità di sostanze nutrienti necessarie per gli esseri umani.

Pertanto si può dire, con più onestà e oggettività, che il cibo dovrebbe contenere tutti questi nutrienti di cui si compongono gli integratori, ma in realtà a conti fatti non li contiene quasi mai o solo in casi molto specifici. La conseguenza di ciò è che molte persone, nel mondo moderno, anche seguendo una dieta abbastanza salutare e a base di cibi biologici, possono risultare malnutrite e il loro corpo potrebbe aver bisogno di un maggiore sostegno. La logica impone allora di pensare che il modo migliore per assicurarsi una nutrizione adeguata che includa tutte queste sostanze essenziali, sia una combinazione di dieta sana e di qualche integratore fondamentale. 

Vi sono diverse ragioni per cui oggi anche gli alimenti biologici e integrali sono meno nutrienti di un tempo, tra le principali annotiamo le seguenti:

Impoverimento del terreno. La terra impoverita contiene meno fosforo e meno minerali, e questo significa che dapprima le piante e poi noi stessi non riceviamo questi nutrienti fondamentali tramite il cibo.

Tossine e sostanze inquinanti. Gli alimenti biologici sono coltivati certamente senza fertilizzanti chimici, pesticidi, ormoni e concimi tossici, per cui l’assenza di queste molecole tossiche è certa, ma crescono comunque anch’essi su questo pianeta Terra. L’aria, l’acqua, i terreni sono tutti gravati da un enorme carico tossico proveniente dai metalli pesanti, da composti chimici e inquinanti di matrice industriale, che inquinano e vanno a finire comunque anche nel più sano dei cibi. Sono sostanze inquinanti che non vengono monitorate e controllate (per meglio dire vietate) nella coltivazione o allevamento biologico. Quindi se ad esempio un cibo BIO non avrà sicuramente residuo di pesticidi, tipico invece di cibi non biologici, avrà comunque un residuo di metalli pesanti come piombo o cadmio, o di diossine, che si depositano a terra sui terreni dall’aria inquinata o arrivano dalle acque (falda acquifera o irrigazione con acqua dell’acquedotto).

Cibi non di provenienza locale. La maggior parte degli alimenti viene prodotta in campi e allevamenti situati a grande distanze rispetto ai consumatori, il che significa che il cibo viaggia per giorni (a volte settimane) prima di arrivare sulla tavola. In un simile lasso di tempo, anche gli alimenti biologici perdono molti nutrienti. Infatti i cibi perdono sostanze a partire dal momento della raccolta, cioè da quando vengono staccati dalla pianta, e più passano le ore e i giorni più la perdita è maggiore. Per questo i cibi freschi non solo sono più saporiti, ma contengono più nutrimento. Ricordate dunque che anche lasciare nel frigorifero per diversi giorni un cibo fresco comporta la perdita di preziosi nutrienti, specialmente vitamine e antiossidanti. 

Cottura e riscaldamento. In molti alimenti la cottura provoca la perdita di alcuni nutrienti sensibili al calore, in particolare le vitamine e gli enzimi. D’altro canto, per alcune altre sostanze, come ad esempio i caroteni di carote e pomodori, la cottura ne aumenta e migliora l’assorbimento nell’organismo, quindi qui la partita si pareggia diciamo. Ma è bene prestare attenzione al fatto di avere una dieta che sia basata sia su cibi crudi che su cibi cotti, in pari misura. Se invece si mangiano solo cibi industriali, precotti, già pronti, confezionati, allora si avrà una scarsa presenza di nutrienti nella nostra dieta, e il bilancio tornerà ad essere in negativo. 

Stress fisico, mentale ed emotivo. Questo è un caso di doppio smacco, perché non solo al nostro cibo moderno mancano alcuni nutrienti essenziali, ma noi abbiamo bisogno di ancora più nutrienti rispetto alle generazioni precedenti, a causa dei livelli di stress a cui siamo sottoposti. Gli orari lavorativi di 8-12 ore (quando va bene), la cultura del “dormire poco” per essere più produttivi, il sistema alimentare industrializzato, i freq uenti pasti fuori casa al bar o nelle tavole calde, affaticano l’organismo in modi che erano sconosciuti alle precedenti generazioni. A partire dagli anni Quaranta del XX secolo, le sostanze chimiche e i prodotti industriali di sintesi (ad es. la plastica o l’alluminio) hanno invaso l’ambiente. Siamo la prima generazione ad aver conosciuto una simile esposizione alle sostanze chimiche, che fra l’altro sono in costante aumento. Il nostro corpo possiede delle risorse per contrastare bassi livelli di alcuni tipi di tossine, ma questa esplosione di elementi tossici nell’aria, nel cibo e nell’acqua (che include anche l’uso di saponi, deodoranti, shampoo ecc.), si accumula nell’organismo e impedisce ai nostri sistemi di operare con forza ed efficienza ottimali. Pertanto in un ambiente completamente naturale i nutrienti presenti nel cibo sarebbero sufficienti, mentre nell’ambiente in cui viviamo oggi il nostro corpo ha bisogno di un aiuto in più. Altri elementi di forte stress sono l’incertezza economica, le difficoltà familiari, le giornate troppo frenetiche e il poco tempo a disposizione da poter dedicare per la cura dei figli. Questo stress consuma i nutrienti del corpo aumentando il nostro fabbisogno di essi.

Uso eccessivo di farmaci. Molti farmaci di comune impiego privano l’organismo di nutrienti, e non sono poche le persone che oggi hanno prescrizioni di 3, cinque o più farmaci da assumere a vita. La stessa perdita di nutrienti provocata dai farmaci avviene anche quando si faccia uso di sigarette, fumo di sostanze o alcolici. Queste sono persone che hanno tutte un aumentato fabbisogno di vitamine, minerali, enzimi, non facile da soddisfare nemmeno con l’impiego costante di ottimi integratori. 

Invecchiamento. Più invecchiamo, più diventa difficile per il nostro organismo assimilare correttamente i nutrienti, per fattori fisiologici di rallentamento e depotenziamento delle capacità biochimiche nei nostri organi.

Perdita della diversità microbica del microbiota. Il ricercatore Martin Blaser ha fatto studi pionieristici dimostrando che le persone che vivono in Paesi ancora in via di sviluppo (Africa) possiedono un microbiota forte, popolato da un’ampia varietà di specie batteriche. Al contrario, la diversità del microbiota dei popoli occidentali si è ridotta a partire dall’inizio del XX secolo, quando la combinazione di stress, tossine, antibiotici, e di un’alimentazione poco salutare ha cominciato a sabotare i nostri amici batteri che vivono nell’intestino. Il problema è che noi dipendiamo da questi batteri per assorbire i nutrienti presenti nel cibo, questo significa che dobbiamo compensare consumando più nutrienti.

Gli integratori affaticano il fegato?

Un altro comune mito da sfatare sugli integratori è la errata credenza che essi “possono essere pericolosi perché affaticano il fegato”. In estrema sintesi, la stragrande maggioranza degli integratori è innocua se usata in modo appropriato, ed è molto raro che qualcuno assuma troppi integratori o una dose troppo alta di un particolare supplemento. A volte alcuni prodotti possono risultare fastidiosi per lo stomaco ma questo dipende dal fatto che si acquistano quelli molto economici che sono preparati con una scarsa qualità degli ingredienti principali e anche degli eccipienti, cioè delle sostanze usate al fine di preparare la compressa o la capsula. Per questo è sempre bene acquistare prodotti di qualità che vengono fatti da aziende affidabili e che vantano una qualità superiore nelle materie prime. Detto ciò, teniamo comunque a mente alcune regole di base nell’uso degli integratori. La prima è che quelli contenenti delle erbe sono diversi da quelli contenenti vitamine e minerali, e hanno effetti più simili a quelli delle medicine piuttosto che degli integratori. Usate questi prodotti soltanto se la prescrizione è stata fatta da un medico esperto e se effettivamente sono necessari per un motivo preciso. Non prendeteli di testa vostra e nemmeno se ne parla la pubblicità in TV. La seconda cosa da tenere a mente è che gli integratori di vitamine A, D, E, K vengono assimilati dal corpo nei tessuti adiposi (cioè nel grasso di riserva). Vanno assunti solo in dosi appropriati, cioè quelle che vengono prescritte dall’esperto. Non vanno aumentate le dosi o diminuite, e non bisogna pensare che “mi ha fatto bene una dose 10, allora da domani prendo una dose 15”. Questo è un tipico ragionamento errato che fanno alcune persone. In realtà una dose maggiore potrebbe creare dei problemi, come accade anche per i farmaci del resto, non vanno mai aumentate le dosi di testa nostra. Infine, tenete a mente che la maggior parte delle vitamine sono idrosolubili, significa che il corpo assimila soltanto la dose di cui effettivamente necessita, poi l’eccesso lo elimina con le urine senza alcun pericolo di sovradosaggio o effetto collaterale. 

Effetti positivi degli integratori

Da questa breve trattazione si sarà compreso che in realtà molte persone oggi potrebbero avere un giovamento nell’assumere alcuni tipi di integratori, soprattutto quelli che possiamo considerare più basilari, come i multivitaminici, gli Omega-3 (con effetti antinfiammatori su tutto l’organismo e in particolare sull’invecchiamento del cervello), i probiotici e l’integratore di vitamina D. Tante persone nel mondo moderno non hanno carenze pesanti di vitamine e altre sostanze (eccetto la vitamina D, di cui è certa una carenza forte su gran parte della popolazione occidentale), ma sviluppa comunque carenze che portano ad un funzionamento sub-ottimale dell’organismo. Che significa?

Che funziona ma non a ritmo ottimale, ad esempio non riesce a produrre tutti gli enzimi e gli ormoni nelle quantità ottimali e necessarie su base giornaliera, ne produce soltanto una quantità scarsa (es. 40% anziché il 100%). Questo comporta uno stato di salute non ottimale, semplicemente. E nel tempo può portare allo sviluppo anche di patologie, per esempio quelle neurodegenerative o quelle cardiovascolari. Infatti i nostri processi metabolici e chimici richiedono un complicato equilibrio di sostanze chimiche per operare al meglio. Se queste sostanze chimiche sono scarse, possono crearsi blocchi, deficit e malfunzionamenti. Ecco perché in molti casi usare dei buoni integratori può dare effettivamente una marcia in più. Spesso chi prova una corretta supplementazione si accorge di sentirsi realmente bene, mentre prima “pensava” di stare bene. E la differenza si può avvertire soltanto dopo aver fornito al corpo quell’extra che trasforma le cose in meglio. Una buona integrazione può aiutare a perdere peso in eccesso, può rendere più energici, fa migliorare la digestione, fa sentire più sereni, migliora il sonno, migliora l’attenzione e concentrazione, può farci sentire più calmi e ottimisti (le sostanze utili al cervello rendono possibili questi meccanismi), meno propensi all’ansia. Mediamente questi effetti si notano dopo un periodo di utilizzo di 2 mesi, ma spesso anche solo dopo pochi giorni.

Un’ultima credenza sbagliata da menzionare è la seguente: gli integratori non sostituiscono una dieta salutare, questo non può mai avvenire. Essi contribuiscono a colmare le carenze nutrizionali e a proteggere il corpo da occasionali momenti di debolezza e stanchezza, ma non compensano una dieta mal calibrata. 

[di Gianpaolo Usai]

Puzzolenti.

Estratto da focus.it l'11 giugno 2023.  

Il nostro olfatto lo sa. Di puzze insopportabili ce ne sono molte: quella dei peti, della cacca, dei calzini sporchi, del sudore... Ma c'è di peggio: la sostanza più puzzolente del mondo è il tioacetone, un composto instabile di colore arancione/marrone che si ottiene solo a bassa temperatura.

Non si sa perché puzzi così: si pensa che la causa sia l'atomo di zolfo (S) nella sua struttura, (CH3) 2CS, ma nessuno ha ancora capito perché il tioacetone abbia un odore talmente disgustoso che quando venne isolato per la prima volta, dai chimici Eugen Baumann ed Emil Fromm nel 1889, provocò nausea, vomito e svenimenti in un raggio di 750 m dal laboratorio di Friburgo dove i due lavoravano.

I cibi nocivi.

Cibi ultraprocessati: provata la correlazione con varie forme tumorali. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 3 aprile 2023.

I modelli dietetici dei Paesi occidentali, ma ormai possiamo dire che si tratta di diete globali che riguardano un po’ tutti gli Stati del mondo sono sempre più dominati da alimenti ultra processati (cibi industriali molto lavorati e raffinati): relativamente economici, altamente appetibili e pronti da mangiare. Un nuovo studio scientifico li mette però nuovamente sotto accusa: aumentano il rischio di insorgenza dei tumori e il tasso di mortalità correlata, in particolare per quanto riguarda ovaio, mammella e cervello. Questi sono stati i risultati di uno studio condotto da ricercatori inglesi dell’Imperial College di Londra e pubblicati il 31 Gennaio 2023 su eClinical Medicine.

Lo studio e i risultati

Questo studio ha incluso una coorte di oltre 500 mila partecipanti del Regno Unito (di età compresa tra 40 e 69 anni) che sono stati monitorati nelle loro abitudini alimentari tra il 2009 e il 2012 in maniera molto specifica, e poi seguiti comunque fino al 31 gennaio 2021 per registrare l’andamento del loro stato di salute, in particolare sullo sviluppo di tumori e sui decessi di persone del gruppo dei partecipanti. I prodotti alimentari consumati sono stati classificati in base al grado di lavorazione degli alimenti, vale a dire da semplice e poco lavorato (es. pomodoro crudo) a mediamente o ultraprocessato (es. salse di pomodoro, pizza surgelata al pomodoro). Come sempre succede con gli studi di questo tipo, tutti i dati e risultati sono stati aggiustati per le caratteristiche socio-demografiche di base, l’abitudine al fumo, l’attività fisica, l’indice di massa corporea, l’alcol e l’apporto energetico totale. Ovvero, sono stati estrapolati dei risultati finali al netto di tutti gli altri fattori cosiddetti “confondenti”, i quali sono stati standardizzati, cioè resi uguali per tutto il gruppo partecipante allo studio. 

Il consumo medio di alimenti ultraprocessati era del 22,9% nella dieta totale. Durante un tempo medio di monitoraggio di 10 anni circa, 15.921 individui hanno sviluppato il cancro e si sono verificati 4009 decessi correlati al cancro.

I risultati mostrano che un maggiore consumo di alimenti ultra-elaborati è associato a un maggior rischio di cancro in generale e in particolare di cancro alle ovaie e al cervello, nonché a un aumento del rischio di mortalità complessiva, mortalità per tumore ovarico e del seno. Queste associazioni persistevano anche dopo l’aggiustamento per una serie di fattori socio-demografici confondenti, come detto: fumo, attività fisica e altri fattori dietetici. 

Dieta e cancro: impatto degli alimenti industriali

I ricercatori dello studio mettono nero su bianco che il cancro è responsabile di un decesso su 6 a livello globale e ha superato le malattie cardiovascolari come principale causa di mortalità prematura in molti paesi ad alto reddito. Tuttavia, sostengono che almeno il 50% dei casi di cancro potrebbe essere potenzialmente prevenibile e una dieta non sana è un fattore di rischio chiave modificabile. I ricercatori affermano che “Vi sono crescenti preoccupazioni per i potenziali effetti nocivi sulla salute degli alimenti ultra-trasformati, alimenti che sono formulazioni industriali realizzate assemblando sostanze alimentari di derivazione industriale e additivi alimentari attraverso una sequenza di processi industriali estensivi. Gli alimenti ultra-processati contengono poco o niente del cibo intero di origine e sono spesso densi di energia, ricchi di sale, zucchero e grassi nocivi, poveri di fibre e soggetti a un consumo eccessivo. Sono commercializzati in modo aggressivo con marchi forti per promuovere il consumo e stanno gradualmente sostituendo i modelli dietetici tradizionali basati su alimenti freschi e minimamente trasformati. Oltre alla loro composizione nutrizionale più povera, gli alimenti ultra-processati possono inoltre aumentare il rischio di cancro attraverso contaminanti potenzialmente cancerogeni che si generano durante la lavorazione industriale, attraverso l’uso di alcuni additivi alimentari controversi e alcuni materiali di imballaggio caratterizzati dall’avere proprietà cancerogene e/o di interferenza con gli ormoni del corpo umano”.

Conclusioni

Gli autori sottolineano che, rispetto a precedenti studi realizzati sugli alimenti industriali processati e lo sviluppo di cancro (e relativi tassi di mortalità associata), il loro studio è più completo e comprende un gruppo di partecipanti più ampio, pertanto apporta conclusioni più solide, che comunque sono in linea con gli studi precedenti nella sostanza. Affermano inoltre che in letteratura medico-scientifica si stanno accumulando prove sul forte potenziale di promozione – da parte degli alimenti ultra-processati – di obesità e diabete di tipo 2, ed entrambe queste condizioni sono fattori di rischio per molti tumori, compresi quelli dell’apparato digerente e alcuni tumori correlati agli ormoni nelle donne. In sintesi, questo ampio studio contemporaneo su adulti britannici di mezza età ha rilevato che un consumo più elevato di cibi industriali molto lavorati era associato a una maggiore incidenza e mortalità di tumori complessivi e di alcuni tumori in siti specifici, specie negli organi femminili legati alla riproduzione come ovaie e seno. Sebbene un nesso di causalità netto e incontrovertibile non possa essere dichiarato, a causa della natura osservazionale dello studio e degli studi di questo tipo in generale, questi risultati evidenziano comunque l’importanza di considerare i gradi di trasformazione degli alimenti nelle diete e suggeriscono che sarebbe sempre opportuno, a scopo precauzionale, non seguire diete e regimi alimentari basati in larga parte sul consumo di cibi industriali molto lavorati. Non è di alcuna sorpresa scoprire ancora una volta come i cibi più genuini e integri, come la Natura li produce e li offre (frutta, verdura, latte, carne ecc.), sono quelli più sicuri, in generale, e con meno problematiche per la salute e per lo sviluppo di patologie tumorali. Cibi naturali o poco lavorati quindi, in prevalenza. Il consumo occasionale e saltuario di cibi ultra-lavorati può essere contemplato, ma va visto e affrontato con la consapevolezza giusta e come l’eccezione ad una regola virtuosa. [di Gianpaolo Usai]

La pizza bruciacchiata fa male? Ecco la verità. Secondo quanto emerso dal convegno all'Accademia dei Georgofili di Firenze, non ci sono dubbi sul fatto che la pizza napoletana, anche se troppo cotta, non sia cancerogena. Cristina Balbo il 27 Marzo 2023 su Il Giornale.

La pizza napoletana non è cancerogena sul bordo. È quanto emerso nel corso del convegno intitolato "Pizza napoletana tra tradizione e innovazione", in corso all'Accademia dei Georgofili di Firenze.

Nelle ultime settimane, infatti, si era diffuso l’allarme per cui i cibi troppo cotti o bruciacchiati come pane, cracker, patate e pizza, se cotti a temperature troppo alte, potrebbero sviluppare una sostanza particolarmente cancerogena, l’acrilammide. Quest’ultima, per l’appunto, come si legge sul sito ufficiale dell’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, è una sostanza chimica che si forma naturalmente negli alimenti amidacei durante la cottura ad alte temperature (frittura, cottura al forno e alla griglia) e anche durante le lavorazioni industriali a temperature di oltre 120° con scarsa umidità.

Lo studio sulla pizza napoletana

La pizza napoletana è sicura, non porta problemi nella parte che definiamo più 'bruciacchiata” ha affermato Mauro Moresi dell'Accademia dei Georgofili. Quindi, al contrario di quanto si possa pensare, nella parte più cotta, la pizza napoletana è sicura e non cancerogena per la salute. “Questo perché la quantità di acrilammide nel prodotto e nel bordo, ovvero la parte più esposta a temperature alte, è bassa – si legge sull’Ansa - ciò viene dimostrato dai gruppi di ricerca dell'Università di Napoli e della Tuscia.” Stando, infatti, alle dichiarazioni di Moresi: “Il motivo è legato al tempo di cottura della pizza nel forno a legna, molto basso, in genere sui 90 secondi. Quindi possiamo affermare con certezza che la pizza napoletana è sicura”.

A confermare quanto detto da Mauro Moresi, è stato anche Paolo Masi, professore dell'Università di Napoli Federico II: “Gli studi dimostrano che la superficie della pizza che si brucia è inferiore al 3% sulla quantità di peso e non per unità di superficie – ha spiegato il professor Masi – quindi possiamo mangiare tranquillamente la pizza”. Il professore ha, inoltre, aggiunto che: “Gli studi sulla manualità e sulla riproducibilità dei campioni sono stati realizzati in collaborazione con Enzo Coccia, uno dei più famosi pizzaioli italiani che ha preparato i campioni”.

L'inchiesta di Report nel 2014

Il tema della pizza napoletana cancerogena, però, non è nuovo. Era stato Bernardo Iovene, nel programma Report, nel 2014, ad aprire un’inchiesta dal titolo "Non bruciamoci la pizza”. In quel caso si esplorava il mercato delle pizze surgelate e dei prodotti utilizzati in Italia per preparare uno dei piatti più amati e conosciuti al mondo. Nell’introduzione all’inchiesta si leggeva: “La pizza fatta con ingredienti giusti fa bene. Invece da Napoli a Roma, Milano, Venezia, Firenze, spesso non è digeribile. Talvolta, può contenere elementi cancerogeni“.

Tuttavia, alla luce di quanto emerso da questi ultimi studi scientifici, sembrerebbe che non ci siano dubbi sul potere stare tranquilli mentre si mangia una buona pizza napoletana, anche se un po' troppo cotta.

Rischio tumori, meglio non eccedere con patatine bruciacchiate e pane abbrustolito. Ecco perché. Vera Martinella su Il Corriere della Sera il 13 Marzo 2023.

È bene consumare con moderazione alimenti cotti eccessivamente, soprattutto gli amidacei. Sono potenzialmente cibi cancerogeni, anche se più saporiti

Siete tra quelli che scartano attentamente la parte un po’ annerita dalla carne alla griglia e dal pane abbrustolito, oppure fra gli amanti di toast e patate bruciacchiati? Buon per voi se state fra i primi, mentre gli appartenenti al secondo gruppo è bene che si moderino. Perché? Da circa 30 anni ormai gli scienziati raccolgono dati sul pericolo di cancro dovuto all’acrilammide, una sostanza chimica che si forma durante alcuni tipi di cottura e che, secondo gli esperti, «aumenta potenzialmente il rischio di sviluppare il cancro nei consumatori di tutte le fasce d’età». «Col passare del tempo si sono accumulate le evidenze scientifiche e i sospetti si fanno sempre più fondati man mano che si aggiungono studi scientifici – dice Riccardo Caccialanza, direttore dell’Unità di Dietetica e Nutrizione Clinica al Policlinico San Matteo di Pavia –. Già nel 2015 l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA, acronimo di European Food Safety Authority) aveva pubblicato la sua prima valutazione completa dei rischi derivanti dalla presenza di acrilammide negli alimenti, indicandone i possibili pericoli».

Così nasce il pericolo

Cos’è di preciso l’acrilammide? «Una sostanza chimica che si forma naturalmente negli alimenti amidacei durante la cottura ad alte temperature (frittura, cottura al forno e alla griglia) e anche durante le lavorazioni industriali a temperature di oltre 120 gradi con scarsa umidità – spiega Caccialanza –. Il processo chimico che provoca tutto ciò è noto come “reazione di Maillard”, quella che conferisce al cibo quel tipico aspetto e sapore di abbrustolito che lo rende più gustoso. Si forma per lo più da zuccheri e aminoacidi (principalmente un aminoacido chiamato asparagina) naturalmente presenti in molti cibi. La presenza di acrilammide è stata riscontrata in prodotti come patatine, patate fritte, pane, biscotti e caffè». Per questo è bene preparare i cibi dorati e non marroncini, come diventano quando sono troppo bruciacchiati: gli appassionati di bruschette e cotture tostate o scottate un po’ in eccesso devono, insomma, rassegnarsi a prediligerle solo in via eccezionale. 

Parola d'ordine: moderazione

Le prove ricavate da studi su animali hanno mostrato che l’acrilammide e il suo metabolita, la glicidammide, sono genotossiche e cancerogene: danneggiano cioè il Dna e provocano il cancro. Le verifiche condotte tramite ricerche sugli esseri umani non sono mai arrivate a una chiara dimostrazione, ma molte indagini hanno raggiunto conclusioni simili a quelle sugli animali. Tanto che anche l’industria alimentare ha iniziato a ridurne la presenza in diversi cibi. «Come sempre, quando si tratta di cibo e metodi di cottura, è molto difficile dimostrare che un singolo elemento possa provocare tumori, ma ormai gli indizi sono molti – conclude l’esperto -. Questo non significa divieti assoluti, ma buon senso e moderazione. Anche in virtù del fatto che gli effetti tossici dell’acrilammide derivano dal suo accumulo nel corso negli anni».

Tumori e metodo di cottura: le prove esistono

A proposito di cucina, è bene ricordare che per alcuni tipi di cottura le evidenze scientifiche sono più solide e certe. Barbecue, grigliate, fritture, affumicature e preparazioni «saltate in padella» sono stati già da tempo indicati come metodi nocivi perché a causa delle alte temperature si sprigionano sostanze cancerogene, come gli idrocarburi policiclici aromatici o le ammine eterocicliche. Il legame pericoloso appare evidente per diversi tumori dell’apparato digerente, soprattutto quello allo stomaco.

Il potassio.

In quali alimenti si trova il potassio, che è anche un prezioso alleato del cuore. Eliana Liotta su Il Corriere della Sera l’11 Marzo 2023.

È uno di quei minerali che permettono all’organismo di funzionare bene. In coppia col sodio regola il battito cardiaco e altri meccanismi fondamentali come la pressione

Il potassio è uno di quei minerali che permettono al nostro organismo di funzionare come si deve. In coppia con il sodio, regola il battito del cuore e altri meccanismi fondamentali per la vita, inclusa la pressione sanguigna. Gli italiani, però, ne assumono molto meno di quel che dovrebbero, come risulta dai dati dell’Istituto Superiore di Sanità.

Nella preistoria

Qualcuno ha stimato che la dieta paleolitica fornisse 16 volte più potassio rispetto al sodio. Ma questa proporzione nelle tavole occidentali non esiste più e le diete italiane contengono in media il doppio di sodio rispetto al potassio. Come si spiega? I nostri bisnonni primitivi non compravano al supermercato prodotti ricchissimi di sale (cloruro di sodio), dalle patatine fritte ai salumi.

Pistacchi

Il potassio è presente in percentuale elevata soprattutto nei cibi di origine vegetale, a cominciare dalla frutta fresca e dalla verdura. Si trova nella frutta secca, specie i pistacchi, nei cereali integrali, legumi, patate e funghi.

Cacao

Bella notizia: il cacao abbonda di potassio. Anche per questo un quadratino di cioccolato è consigliato in una alimentazione sana. Purché sia nero, fondente almeno al 70%.

Banane e kiwi

Fra le campagne della Food and Drug Administration per promuovere stili di vita sani negli Stati Uniti, si ricorda quella in favore delle banane, pubblicizzate come scudo contro l’ipertensione per il loro contenuto di potassio. E sono altrettanto ricchi del minerale il kiwi, l’avocado, le albicocche.

La pressione

L’ipertensione riguarda circa 15 milioni di italiani. Le diete che prevedono non solo una riduzione del sale ma anche un apporto maggiore di potassio sono più efficaci nel regolare la pressione rispetto ai regimi che propongono solo di tagliare il sale, come ha provato lo studio Dash. Un aumento del minerale nell’alimentazione è associato anche a una minore incidenza di ictus, di cui l’ipertensione è un fattore di rischio.

La consulenza scientifica è di Laura Rossi, ricercatrice presso il Centro di ricerca per gli alimenti e la nutrizione (CREA)

Vitamina B12.

Di cosa si tratta e quali sono gli alimenti che la contengono. Fondamentale per il nostro organismo, ecco cos'è la vitamina B12, qual è il fabbisogno giornaliero per le persone adulte e i rischi di una dieta vegana. Alessandro Ferro il 25 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Tabella dei contenuti

 In quali alimenti è contenuta

 La carenza di vitamina B12

 I rischi di una dieta vegana

Indispensabile per l'organismo e assunta tramite l'alimentazione, nella dieta di ognuno di noi non può mancare la vitamina B12. Chiamata anche cobalamina, è idrosolubile (si scioglie con l'acqua) e per questa ragione il nostro corpo fa fatica ad accumularla e dovrà sempre essere immagazzinata con i cibi che la contengono. Riveste enorme importanza per il metabolismo di aminoacidi, acidi nucleici e acidi grassi ma anche per la produzione dei globuli rossi e per la corretta formazione del midollo osseo.

In quali alimenti è contenuta

La vitamina B12 è normalmente presente nella carne e nel pesce così come nel latte e nelle uova: come ricorda l'Ospedale di Ricerca Humanitas, il 60% del suo assorbimento da parte dell'organismo umano avviene dopo aver mangiato carne o preso il latte, per circa il 30-40% dal pesce e solo in minima parte dalle uova. In realtà, l'alimento in cui si trova in maggiore quantità è il fegato di bovino. La cottura degli alimenti non favorisce la resistenza della vitamina che si riduce di almeno un terzo. Quotidianamente, un adulto dovrebbe assumere circa 2-2,4 mcg mentre le donne che si trovano in gravidanza o in allattamento hanno bisogno di quantitativi maggiori.

La carenza di vitamina B12

Chi segue una dieta mediterranea difficilmente potrà avere una carenza di quest'importantissimo componente del nostro organismo; viceversa, può capitare il fenomeno di malassorbimento a causa di alcune malattie come la celiachia, infiammazioni, assunzione eccessiva di farmaci, ridotta attività gastrica specialmente negli anziani ma anche l'aumento dei batteri. Di conseguenza, una carenza di vitamina B12 può portare a quella che si chiama "anemia perniciosa", patologia autoimmune dove le cellule del sistema immunitario che di solito ci proteggono da virus e batteri, attaccano alcune cellule del nostro stomaco (parietali) distruggendole. I sintomi tipici di questa carenza sono stanchezza, viso pallido, debolezza generale, formicolio agli arti e senso di affaticamento: nei casi peggiori può farne le spese anche il nostro sistema nervoso.

Vitamina B12: le carenze dannose

Per capire se si ha una carenza della vitamina B12 è necessario eseguire normali analisi al sangue controllando che il numero dei globuli rossi non sia troppo alto.

I rischi di una dieta vegana

Come detto in precedenza, gli alimenti che la contengono sono carne, pesce, uova e latte che sono del tutto esclusi da una dieta vegana: come spiegano gli esperti, non esistono alimenti vegetali che possano coprire in modo soddisfacente il fabbisogno quotidiano di vitamina B12. Ecco perché, per evitare una carenza eccessiva che porti allo sviluppo di una patologia, chi segue la dieta vegana dovrebbe assumere la B12 con integratori ad hoc e alimenti fortificati, che contengono cioè questa vitamina.

Alcuni studi dimostrano che la sua assunzione possa far migliorare lo sviluppo del quoziente intellettivo proteggendo anche da malattie degenerative: non a caso viene anche definita la "vitamina del buon umore".

Vitamina D.

Vitamina D, la magia per la salute degli over. La vitamina D ha un ruolo fondamentale nella salute della terza età. La sua carenza non è soltanto un problema per le ossa ma studi l'hanno associata all'insorgere di alcune malattie neurodegenerative. Roberta Damiata il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.

Sono circa 15 milioni le persone nel nostro Paese che hanno superato i 65 anni d'età, di queste circa 9 milioni con più di 75 anni. Oltre alla prevenzione e alle vaccinazioni, è importante per la salute della terza età, seguire una dieta adeguata con alimenti prevalentemente freschi come pesce, carne in modica quantità, e soprattutto frutta verdura di stagione. Pur seguendo queste regole però, con l'avanzare dell'età, possono presentarsi carenze di nutrienti e vitamine, che possono portare ad alcune patologie.

Una recente ricerca dell'Associazione Brain e Malnutrition ha evidenziato come la Vitamina D sia molto importante, anche per la terza età, perché riduce le infezioni, previene l'insorgere di malattie neurodegenerative, e rafforza l’apparato muscolo-scheletrico. Lo studio è stato condotto su 500 pazienti affetti da Parkinson, con un'età media di 70 anni. Il 65,6% di questi, era carente di Vitamina D, mentre il 26,6% presentava valori insufficienti. Lo studio ha evidenziato come quelli con la carenza maggiore, avessero contratto la malattia in forma più grave, o con sintomi clinici peggiori, e una maggiore compromissione delle funzioni cognitive globali.

Vitamina D, di cosa si tratta

È una vitamina liposolubile presente nel nostro corpo in due forme: la vitamina D2 (ergocalciferolo), assunta attraverso l’alimentazione, e la vitamina D3 (colecalciferolo), ormone sintetizzato dall’organismo a livello cutaneo grazie all’esposizione ai raggi ultravioletti B (UVB). È un regolatore del metabolismo del calcio, per questo è utile nell’azione di calcificazione delle ossa, contribuisce a mantenere nella norma i livelli di calcio e di fosforo nel sangue, ed è importante anche per la salute cardiovascolare. Inoltre riduce la crescita delle cellule tumorali, riduce le infiammazioni e migliora il funzionamento della tiroide.

Vitamina D, il suo ruolo nella terza età

Negli anziani il ruolo della Vitamina D è quello di mantenere il calcio all'interno dell'organismo e una sua carenza, compromette la mineralizzazione delle ossa, rendendole fragili e soggette a possibili fratture. Nel casi di carenza grave si possono manifestare sintomi come:

dolori articolari, ai muscoli ed alle ossa;

ossa fragili che tendono a deformarsi;

stanchezza persistente;

difficoltà di concentrazione.

Inoltre il deficit di Vitamina D, sembra essere connesso anche con molte altre condizioni mediche, tra cui diabete, ipertensione, cancro, patologie neurologiche, come la sclerosi multipla, e reumatiche come la fibromialgia. Alcuni studi inoltre, hanno messo in evidenza un rapporto tra carenza di Vitamina D e disturbi cutanei come prurito, orticaria e allergie alimentari.

Vitamina D, quali sono i cibi che la contengono

Da privilegiare, quando non ci sono controindicazioni specifiche del medico, cibi a base di latte, come lo yogurt, o formaggi stagionati (il parmigiano è uno dei migliori, ndr). Ma anche salmone, sgombro, alici, tonno, trota, uova, olio extravergine d’oliva a crudo. Molto importanti sono anche gli integratori di Vitamina D, oltre ad un'esposizione solare per almeno 30 minuti al giorno.

Prodotti consigliati:

Equilibra Vitamina D3 2000 U.I. - Equilibra. Integratore alimentare di Vitamina D3 in compresse altodosate. Una compressa di Vitamina D3 apporta 2000 U.I. di Vitamina D3, pari al 1000% del fabbisogno giornaliero. In particolare contribuisce: alla normale funzione del sistema immunitario, al mantenimento di ossa normali, alla normale funzione muscolare, all'assorbimento e utilizzo del calcio e del fosforo. Scopri il prodotto su Amazon.

Vitamina D3 2000 UI + VITAMINA K2 MK-7 100 µg - GloryFeel. Integratore in compresse di vitamina D3 + K2 con 2000 UI (50 µg) di vitamin D3 colecalciferolo e 100 µg di vitamina K2 MK-7 per compressa. Con la combinazione di Vitamina D3 che regola il metabolismo del calcio, e la vitamina K che attiva l'osteocalcina, che permette al calcio di depositarsi in maniera corretta nelle ossa e nei denti, oltre al corretto mantenimento del sistema immunitario. Senza additivi artificiali, OGM, senza stearato di magnesio, agenti separatori, aromi, coloranti, stabilizzanti, senza lattosio, glutine e senza conservanti. Scopri il prodotto su Amazon.

Vitamina D3, 1000 UI per Goccia -GloryFeel. Integratore in gocce da 50ml, ad alto dosaggio. Ogni goccia contiene 1.000 IU (25µg) di vitamina D3 pura (colecalciferolo) in pregiato olio MCD estratto da noce di cocco. Facile da dosare grazie al suo pratico contagocce in gomma naturale. Contribuisce alla normale funzione muscolare e del sistema immunitario, e può aiutare a migliorare l'umore. Stabilità molto elevata e una maggiore durata grazie alla vitamina disciolta in pregiato olio MCT ricavato dalla noce di cocco. Scopri il prodotto su Amazon.

Vitamina D 2000 Ui - Metagenics. Integratore in compresse masticabili al gusto di lime, con un edulcorante di origine naturale dalla pianta stevia. La vitamina D di Metagenics è una vitamina D3 (colecalciferolo, la forma di vitamina D di più facile assimilazione). Le compresse sono disponibili in 3 diversi dosaggi (400 ui, 1000 ui e 2000 ui) a seconda dell'età e delle diverse esigenze. Scopri il prodotto su Amazon.

Magnosol Calcium - Magnosol. Integratore alimentare in bustine, di magnesio, calcio e Vitamina D. Utile in tutti i casi di ridotto apporto o aumentato fabbisogno di tali nutrienti. Il magnesio è un minerale importante nei processi fisiologici del nostro organismo, in grado di contribuire al buon funzionamento muscolare e del sistema nervoso. La Vitamina D aiuta il regolare assorbimento e utilizzo di calcio, contribuendo a mantenerne livelli adeguati nel sangue. Il calcio è un minerale utile nei normali processi di neurotrasmissione ed è necessario per il mantenimento di ossa e denti sani. Scopri il prodotto su Amazon.

Il caffè.

Quali sono i migliori caffè d'Italia. In occasione della Giornata Internazionale del Caffè, la bevanda più amata dagli italiani, scopriamo quali sono le miscele più amate per una pausa di relax e convivialità. Mariangela Cutrone l'1 Ottobre 2023 su Il Giornale.

Il caffè è inevitabilmente la bevanda più amata dagli italiani. Ad essa il primo Ottobre è dedicata la sua Giornata Internazionale. Questa ricorrenza è istituita dal 2015 dall’ICO (International Coffee Organization) con l’obiettivo di far conoscere il lavoro delle tante persone, dai coltivatori ai baristi, che ogni giorno lavorano per farci trovare in tazza un prodotto di qualità.

Il tema di questo anno è il diritto a un ambiente di lavoro inclusivo e sicuro. Questa bevanda ci accompagna nel corso della giornata sin dal mattino. Caratterizza i nostri momenti di relax e convivialità con amici e colleghi. Ecco perché quello di incontrarsi per prenderne uno insieme è ormai un rituale consolidato per tutti gli italiani che non possono fare a meno di esso, anche all’estero.

La miscela perfetta è quella cremosa, dal gusto deciso in grado di infondere energia. Molti sono i produttori in Italia, soprattutto localizzati nella regione Campania dove famigerato è il culto di questa bevanda. Quello della sua produzione In Italia è infatti un settore molto competitivo. Nella nostra penisola si segnalano, oltre 900 imprese sparse su tutte le regioni d’Italia, da Nord a Sud. Ognuno ha la sua storia e la sua miscela dalle specifiche caratteristiche

Ecco secondo Cookist.it la lista dei cinque caffè più buoni e venduti in Italia anche su Amazon che hanno alle spalle tradizioni intramontabili:

- Borbone, la sua miscela nasce a Napoli in onore del re Carlo III di Borbone. Si narra che il re durante una sosta prima dell’attacco agli austriaci per liberare la città di Napoli nel 1734, alle porte della città abbia assaggiato per la prima volta il caffè e ne sia letteralmente innamorato. Circa 263 anni dopo, dall'iniziativa di Massimo Renda, è nato il Caffè Borbone. Di questo marchio nota è la Miscela Ciao Venezia, morbida e ricca di sfumature, generosa di profumi e aromi e dalle piacevoli acidità mai invadenti che le conferiscono un carattere unico, come la città da cui prende il nome;

- Vergnano 1882, torrefazione di caffè basata sulla tradizione antica di Domenico Vergnano a Chieri in Piemonte. Partendo dall’attività di una piccola drogheria ha diffuso la sua miscela in tutto il mondo. Oggi le sedi del Caffè Vergnano sono circa 130. Il suo Caffè 100% Arabica è quello più amato per il suo sapore delicato e di media intensità, dalla corposità morbida e rotonda;

- Pellini, di proprietà della famiglia Pellini che nel 1922 in Veneto ha fondato la storica azienda produttrice di caffè. La qualità di questo caffè è rinomata. Il merito è dell’attenta selezione dei chicchi che sono alla base di un processo di lavorazione compiuto ad hoc. In particolare si cita l’Espresso Bar Miscela di Caffè in Grani n°8 che è una miscela corposa composta da Arabica e Robusta che le conferiscono il sapore simile a quello dell’espresso del bar;

- Passalacqua, l'azienda produttrice è localizzata a Napoli in Piazza Dante sin dalle due origini risalenti al secondo dopoguerra. Alla base di questo caffè vi sono miscele dal sapore deciso e di carattere. Il merito è dei lunghi tempi di tostatura dei chicchi che sono di alta qualità e che presentano un basso contenuto di acidità. Ciò conferisce alla miscela stessa un sapore non troppo amaro. Simbolo di questo caffè è l’indiano pellerossa che ormai è parte della tradizione partenopea;

- Illy , ideato da Francesco Illy, uomo curioso e intraprendente, molto affascinato dalle innovazioni tecnologiche. È noto per essere stato l’ideatore della Iletta considerata la nonna delle macchine pressurizzate. Tra le miscele più amate di questo marchio storico non si può non citare Iperespresso Illy Arabica Selection Brasile, una miscela 100% Arabica, dalle note intense di caramello, dolci e calde. I chicchi provengono dagli altopiani sud-orientali del Brasile, dove le condizioni climatiche di questa particolare zona consentono alle piantagioni di caffè di crescere rigogliose. Mariangela Cutrone

Estratto dell'articolo di Antonio G. Rebuzzi Professore di Cardiologia Università Cattolica di Roma per Il Messaggero il 7 marzo 2023

Il caffè è indubbiamente una delle bevande più diffuse in tutto il mondo. Nonostante questo c'è ancora molta discussione riguardo alla sua azione su vari organi. La caffeina, […] sembra infatti avere effetti positivi su numerose patologie quali il cancro, il diabete, le malattie epatiche nonché quelle del sistema nervoso. A livello cardiovascolare il caffè è accreditato invece di un'azione pro-aritmica e di facilitare, specie negli anziani, l'insorgere di fibrillazione atriale.

 In un recente numero della rivista New England Journal of Medicine, Gregory M. Marcus ed i suoi colleghi della divisione di Cardiologia dell'Università della California di S. Francisco hanno studiato gli effetti acuti del consumo di caffè su una serie di parametri cardiaci in un gruppo di 100 soggetti ambulatoriali ai quali è stato chiesto di essere monitorati per un periodo due settimane. 

La prima in cui bevevano caffè e la seconda in cui dovevano astenersi dal consumarne anche una tazzina. Sono stati valutati gli eventi aritmici[…]i livelli di attività fisica nonché i periodi di sonno o di veglia […]ed infine i livelli glicemici […].

Contrariamente a quanto normalmente ritenuto, il consumo di caffè, in soggetti normali, non porta alcun aumento delle aritmie atriali, né tanto meno provoca un aumento di rischio di fibrillazione atriale. Anche per le aritmie ventricolari (più potenzialmente pericolose) una tazzina di caffè non ha un grosso effetto. Al contrario nei giorni "caffeinati" i soggetti in esame hanno avuto una significativamente maggiore attività fisica a cui ha però corrisposto una riduzione del sonno giornaliero. […]

La glicemia, nei giorni in cui si prende il caffè non cambia rispetto ai giorni di astinenza. L'evidenza, registrata da altri studi, di una riduzione di rischio di diabete nei bevitori di caffè non è stata registrata. Probabilmente questo effetto necessita di un periodo più lungo di osservazione per essere evidenziato. Lo studio in esame dimostra quindi che il caffè, lungi dall'aumentare il rischio di aritmie o fibrillazione, produce effetti positivi.

Così confermando altri studi sull'argomento, […]. Ricordiamo che secondo la Food and Drug Administration e l'Autorità europea per la sicurezza alimentare, un individuo adulto e sano, può ingerire senza particolari conseguenze per il fisico, fino a 4 tazzine di caffè al giorno per un totale di 300/400 milligrammi di caffeina. Un espresso contiene in media 85/90 mg di caffeina.

(ANSA il 20 aprile 2023) - "L' Italia al mondo è il settimo Paese a livelli di consumi di caffè, con 5,2 milioni di sacchi annui, 95 milioni di tazzine di caffè, ovvero 1,6 in media per italiano". È la stima economica rilanciata, su fonte Mediobanca, da Sca Italy, associazione di categoria che si impegna a supportare- informa una nota- la filiera del caffè, creando una comunità globale, che mira, non solo a valorizzare il caffè di qualità e mantenere elevati standard, ma anche a rendere la catena del valore più sostenibile, dal punto di vista ambientale e sociale.

Con il report, diffuso nel quadro di una guida allo Specialty Coffee, si segnala che l'esportazione di caffè torrefatto dall'Italia è aumentata del 12,9% lo scorso anno e che ogni giorno nel mondo si consumano 3,1 miliardi di tazze di caffè e si stima che il numero aumenterà fino a raggiungere le 3,8 miliardi di tazzine giornaliere entro il 2030. Sca Italy sottolinea che la denominazione Specialty Coffee nasce negli anni '70 negli Stati Uniti e indica il caffé nella sua massima espressione, accuratamente selezionato, frutto di una produzione realizzata in particolari condizioni di cura climatiche e ambientali, che gli conferiscono un gusto e un aroma unici.

Estratto dell'articolo di Michele Bocci per “la Repubblica” il 31 gennaio 2023.

Il caffé non alza la pressione, anzi, chi lo beve regolarmente ha valori «significativamente più bassi». […] La novità arriva dall’università di Bologna, che ha appena realizzato uno studio pubblicato sulla rivista Nutrients .

 […]Bisogna comunque regolarsi, visto che i ricercatori parlano di due o tre tazze al dì. […]Certo, «i dati confermano l’effetto positivo del consumo di caffè rispetto al rischio cardiovascolare», ma non bisogna esagerare con gli espressi.

La professoressa Maria Lorenza Muiesan, ordinario a Brescia e presidente la Società italiana di ipertensione arteriosa, specifica: «Chi ha la pressione alta può bere il caffè purché non in dosi eccessive e se si trova in buone condizioni, cioè non ha altri problemi di salute oltre all’ipertensione ». […] sono altri componenti del caffé, non la caffeina, a essere protettivi. «[…]come i polifenoli e, ad esempio, il potassio che sembrerebbe avere un effetto favorevole sulla pressione — dice Muiesan — Ma sempre se le dosi di caffè sono contenute ». […]

[…] «Dipende dalla qualità del loro stile di vita globale, e quindi anche dal concomitante consumo di alcol e di sigarette, dalla sedentarietà, dal sovrappeso eccetera», spiega la professoressa di Brescia. […]

  «Nonostante si sia temuto a lungo che potesse avere conseguenze negative per la salute, sono emersi invece da tempo diversi effetti benefici — dicono dall’Università — E tra chi ne beve abitualmente è stato osservato un minor rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, diabete e alcune malattie neurodegenerativ e e del fegato». Sempre comunque a patto di non esagerare.

Maizena.

Dieta e alimentazione. Maizena, quali sono le sue proprietà benefiche. La maizena, nota come amido di mais, è un ingrediente versatile in cucina, fonte di energia e anche un alleato per la cura dei capelli e della pelle. Mariangela Cutrone il 28 Gennaio 2023 su Il Giornale.

La maizena è un ingrediente molto versatile in cucina.

Nota come amido di mais è utilizzata principalmente per addensare molti cibi come budini, creme, e salse. Le sue proprietà sono sfruttate anche nel mondo della cosmesi per la cura della pelle e dei capelli. Si ricava dall’endosperma, la parte più interna del chicco di grano dopo averlo lasciato fermentare per almeno 48 ore e poi lasciato essiccare con cura.

Essendo povera di glutine è usata come ingrediente di molte ricette ideate per chi ne è intollerante. È spesso confusa con la farina di mais e con la fecola di patate ed è fonte di carboidrati, proteine, grassi e fibre. È una riserva preziosa di sali minerali come potassio, magnesio, calcio, sodio e ferro. Essendo troppo ricco di zuccheri è un alimento sconsigliato alla dieta di chi è diabetico.

Quali sono i benefici della maizena

Scopriamo insieme quali sono i benefici per la salute del nostro organismo e la bellezza di pelle e capelli.

Fonte preziosa di energia: ricca di sali minerali consente all’organismo di farne un’ottima riserva per sentirsi energici soprattutto nei periodi di stanchezza fisica

Favorisce l’attività digestiva: è in grado di fornire un rilascio lento di glucosio

Ideale per pelli grasse: ha una spiccata capacità assorbente che viene sfruttata per la cura della pelle come maschera per pelli impure. Consente di purificare l’epidermide efficacemente liberandolo da scorie e impurità

Effetto idratante: ingrediente di molti prodotti indicati per i capelli ricci perché è in grado di domare e nutrire le capigliature più folte e ribelli difficili da districare

Cura le scottature solari: in estate è un valido rimedio naturale in caso di eritemi solari. Di fatti basta aggiungere all’acqua utilizzata per il bagno circa 30g di maizena per godere di un sorprendente effetto rinfrescante. Lenisce il prurito e il dolore provocato dalla scottatura

Alleato della dieta: dona un immediato senso di sazietà

Azione antiossidante: ricco di caroteni che prevengono la formazione dei radicali liberi responsabili dell’invecchiamento cellulare. Preservano la vista dalla cataratta e dalla maculo patia

Rimedio con la stipsi: il suo contenuto di fibre permette di raggiungere un certo equilibrio intestinale. Indicata per chi soffre di stitichezza cronica e gonfiore addominale

Mantiene forti le ossa: fonte di calcio e vitamina K è alleata di benessere per la salute il sistema scheletrico prevenendo il rischio di osteoporosi.

Come usare la maizena in cucina

La maizena è facilmente reperibile nei supermercati nei reparti dedicati alle farine. Può essere utilizzata per rendere più croccanti le impanature di carne e pesce. È un ottimo sostituivo delle uova: indicato a chi fa fatica a digerirle o a chi ha problemi di colesterolo alto o sta seguendo una dieta ipoproteica. Rende gli impasti dei dolci maggiormente lievitati.

È molto utilizzata nella lievitazione di crepes, muffin e alcune tipologie di torte in primis la torta margherita. Il consiglio degli esperti è quello di abbinare la maizena alle farine tradizionali quando si preparano i dolci in modo da ottenere maggiore compattezza. Il dolce inoltre risulterà più soffice e non si sbriciolerà.

Lo Zenzero.

Basta un poco di zenzero… Le proprietà antiossidanti e antinfiammatorie della radice sono note da tempo. Ora sono stati indagati gli effetti dell'estratto fresco assunto con regolarità: svariati i benefici sul microbiota intestinale. Gioia Locati il 24 gennaio 2023 su Il Giornale.

Sono sorprendenti gli effetti di pochi grammi di zenzero sulla salute del colon. E non solo. Uno studio cinese ha esplorato le conseguenze dell’assunzione di succo di zenzero sul microbiota intestinale. In sintesi: se ingerito con regolarità per almeno tre mesi, l’estratto, consente di far crescere il numero dei batteri buoni e di ridurre quelli “cattivi”; permette di ridimensionare l’indice di massa corporea e di abbassare il colesterolo.

La radice contiene alcune nanoparticelle, le ELN (Esosome-Like-Nanoparticles) composte da micro RNA capaci di indurre citochine antinfiammatorie. Sono queste ultime le proteine che riescono a “spegnere” l’infiammazione del colon che sappiamo essere anticamera di varie malattie intestinali, dai tumori alla permeabilità intestinale..

I micro RNA sono noti per il loro effetto sulla regolazione dei geni. Così, spiegano gli studiosi, grazie allo zenzero, può verificarsi una cascata di benefici su tutti gli indici di salute metabolica.

Lo studio

Lo studio è stato condotto su 123 soggetti sani (63 uomini e 60 donne) che hanno consumato succo di zenzero fresco. Al gruppo di controllo è stata data una soluzione salina. Per una settimana il gruppo dello zenzero ha ingerito 20 ml di succo di zenzero fresco al dì (se il peso di una persona è calcolato come 60 kg, è equivalente a 500 mg/kg/giorno). Al termine dei sette giorni sono stati osservati cambiamenti nel microbiota.

Quali proprietà

Fra le proprietà riconosciute, vi sono quelle antiossidanti e antinfiammatorie, quelle antipiastriniche e ipolipemizzanti, sono noti inoltre gli effetti antiglicemici. Lo zenzero è stato utilizzato anche come rimedio per la nausea e il vomito, ha ricadute sulla salute cardiovascolare e su quella delle articolazioni e dei muscoli, infine aiuta nella gestione del peso.

Gli studi clinici mostrano che lo zenzero (1 g/giorno) può essere sicuro ed efficace per ridurre la nausea e il vomito durante la gravidanza o per la nausea indotta dalla chemioterapia. Uno studio in doppio cieco, controllato con placebo, condotto su 85 soggetti iperlipidimici, ha dimostrato che 3 g/die di zenzero per 45 giorni abbassano notevolmente i livelli ematici di trigliceridi (TG), colesterolo (CHOL) e lipoproteine a bassa densità (LDL). È stato anche riportato che l'integrazione di 4 g di zenzero potrebbe accelerare il recupero della forza muscolare dopo un intenso esercizio fisico in uno studio randomizzato su 20 partecipanti non allenati con i pesi. Inoltre il consumo di zenzero (2 g/giorno di zenzero in polvere) per 12 settimane nelle donne con obesità ha mostrato una significativa diminuzione dell'indice di massa corporea (BMI), dell'insulina sierica, dell'indice di resistenza all'insulina e del punteggio totale dell'appetito.

I Carboidrati.

Gli alimenti ricchi di carboidrati che sono anche molto salutari. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 17 febbraio 2023.

Nel corso degli anni i carboidrati hanno ottenuto una cattiva reputazione e sono stati associati all’aumento di peso, al diabete di tipo 2 e ad una serie di altri problemi di salute di salute. È certamente vero che gli alimenti trasformati ricchi di zuccheri e i cereali raffinati in genere mancano di vitamine, fibre e minerali importanti. Tuttavia, molti alimenti ricchi di carboidrati e fibre possono essere molto salutari. Sebbene le diete a basso contenuto di carboidrati possono essere utili per alcune persone, non c’è motivo di evitare del tutto cibi ad alto contenuto di carboidrati. In questo articolo vediamo alcune opzioni alimentari con cibi contenenti carboidrati che potreste voler prendere in considerazione per la vostra alimentazione.

Quinoa

La quinoa è un seme molto nutriente che è diventato popolare negli ultimi anni tra i consumatori attenti alla salute. È classificato come uno pseudocereale, ovvero un seme che viene preparato e mangiato come un chicco di cereale, ma che non appartiene alla famiglia botanica dei cereali. La quinoa contiene circa il 64% di carboidrati, il che la rende un alimento ad alto contenuto di carboidrati (la pasta di grano ne ha 70 grammi, il pane 55 grammi). Tuttavia è anche una buona fonte di proteine e fibre ed è ricca di molti minerali e composti vegetali. Questo alimento è stato collegato nella ricerca scientifica a una varietà di benefici per la salute, tra cui una migliore gestione della glicemia e la salute del cuore. Inoltre non contiene glutine, il che la rende un’alternativa valida al grano per chi segue una dieta priva di glutine. La quinoa è un cibo piuttosto saziante proprio in virtù del fatto che contiene molte sostanze nutritive. Per questo motivo può aiutare a promuovere una sana gestione del peso e la salute dell’intestino.

Avena

L’avena è un cereale integrale molto salutare e un’ottima fonte di molte vitamine, minerali e antiossidanti. Contiene il 65% di carboidrati e oltre 10 grammi di fibre. È particolarmente ricca di un tipo specifico di fibra chiamata betaglucano. È noto dalla ricerca medica che i betaglucani hanno attività antitumorali, antinfiammatorie, antiobesità, antiallergiche, antiosteoporotiche e immunomodulanti. Il significato medico e l’efficacia dei betaglucani sono confermati in vitro (cioè su test di laboratorio), così come utilizzando studi clinici su animali e esseri umani.

L’avena è anche una fonte piuttosto buona di proteine e contiene più proteine della maggior parte degli altri cereali. Presenta 16-17 grammi di proteine su 100 g di prodotto, mentre il grano arriva a 12-13 grammi. La ricerca suggerisce che mangiare avena può ridurre il rischio di malattie cardiache e metaboliche riducendo i livelli di colesterolo e glicemia nel sangue. 

Grano saraceno

Come la quinoa, il grano saraceno è considerato uno pseudocereale. Nonostante il nome, il grano saraceno non appartiene alla famiglia botanica del grano e non contiene glutine.

Il grano saraceno contiene 70 grammi di carboidrati. È molto nutriente, contiene sia proteine che fibre, ha più minerali e antiossidanti rispetto a molti altri cereali. Studi su esseri umani e animali suggeriscono che potrebbe essere particolarmente utile per la salute del cuore e la regolazione della glicemia. È un alimento usato nella tradizione culinaria del Trentino Alto Adige e della Valtellina, per la preparazione di piatti tipici quali i pizzoccheri, pane e torte di grano saraceno, la polenta taragna e i ravioli della Valtellina.

Ceci

Appartengono alla famiglia dei legumi, contengono 45 grammi di carboidrati ogni 100 g di prodotto, insieme a 13 grammi di fibre. Sono anche una buona fonte di proteine vegetali (21 grammi). I ceci contengono molte vitamine e minerali, tra cui ferro, fosforo e vitamine del gruppo B. Come è facile intuire, si tratta di un alimento molto ricco e denso in nutrienti. Non solo i ceci sono stati collegati al miglioramento della salute del cuore e dell’apparato digerente, ma alcuni studi in provetta suggeriscono che possono anche aiutare a proteggere da alcuni tipi di cancro. Con i ceci è facile preparare anche la famosa e gustosa crema orientale chiamata hummus. 

Fagioli

Appartengono alla famiglia dei legumi, contengono circa 47 grammi di carboidrati e 15 grammi di fibre. Come i ceci, sono un alimento incredibilmente ricco di nutrienti. I loro numerosi benefici per la salute includono una migliore regolazione della glicemia e un ridotto rischio di cancro al colon. 

Cibi a medio-basso contenuto di carboidrati

Fino a qui abbiamo visto gli alimenti ad alto contenuto di carboidrati, ora vediamo quelli a medio e basso contenuto, con valori di carboidrati che sono circa di un terzo o meno rispetto a quelli ad alto contenuto.

Patata dolce (batata) e patate classiche

Le patate dolci e normali sono entrambe dei tuberi, ma differiscono per aspetto e gusto. Provengono da famiglie di piante differenti ma offrono praticamente gli stessi nutrienti, con alcune piccole differenze e variazioni per quanto riguarda i contenuti di potassio e di betacarotene. La patata dolce, conosciuta anche come batata, proviene dalla famiglia delle Convolvulaceae, e le patate gialle classiche sono invece Solanaceae.

Entrambe le varietà sono originarie di regioni dell’America centrale e meridionale, ma ora vengono coltivate e consumate in tutto il mondo. Le patate dolci hanno in genere la buccia marrone e la polpa arancione, ma sono disponibili anche nelle varietà viola.

Contengono circa 20 grammi di carboidrati, che sono costituiti da amido, zucchero e fibre.

Le patate dolci sono spesso considerate più sane rispetto alle patate bianche o gialle tradizionali, ma in realtà entrambi i tipi sono salutari e altamente nutrienti. Sono comparabili in termini di calorie, proteine e contenuto di carboidrati, le patate bianche forniscono più potassio, mentre le patate dolci sono ricche di betacarotene. Entrambi i tipi di patate contengono anche altri composti vegetali benefici e sostanze antitumorali.

Barbabietole

Sebbene non siano considerati ricchi di carboidrati in generale, ne hanno molti per essere un ortaggio non amidaceo. Le barbabietole contengono circa 10 grammi di carboidrati per 100 grammi, dati da zucchero e fibre. La cosa molto interessante è che sono anche ricche di vitamine e minerali, insieme a potenti antiossidanti e composti vegetali protettivi per la salute. Le barbabietole sono anche ricche di composti che vengono convertiti in ossido nitrico nel nostro corpo. L’ossido nitrico abbassa la pressione sanguigna e può ridurre il rischio di diverse malattie cardiache e metaboliche. Gli atleti usano spesso il succo di barbabietola proprio perché l’ossido nitrico aiuta a migliorare la prestazione fisica, consentendo all’ossigeno di fluire in modo più efficiente durante l’esercizio. 

Mele

Contengono circa 14-16 grammi di carboidrati. Le mele vantano anche molte vitamine e minerali, ma di solito solo in piccole quantità. Tuttavia sono una buona fonte di vitamina C, antiossidanti e fibre. Le mele offrono numerosi benefici per la salute, tra cui una migliore gestione della glicemia e la salute del cuore. Le ricerche suggeriscono che l’aggiunta di mele alla dieta potrebbe anche essere associata a un ridotto rischio di alcuni tipi di cancro.

Mirtilli

I mirtilli sono spesso commercializzati come un superfood grazie al loro ricco contenuto di antiossidanti. Hanno circa 14,5 grammi di carboidrati. Contengono elevate quantità di vitamine e minerali, tra cui vitamina C, vitamina K e manganese. Gli studi hanno dimostrato che i mirtilli sono una buona fonte di composti antiossidanti, che possono aiutare a proteggere il corpo da varie malattie. Gli studi suggeriscono che mangiare mirtilli può persino migliorare la memoria negli anziani. 

Arance

Sono costituite da circa 15,5 grammi di carboidrati e sono anche una buona fonte di fibre. Le arance sono particolarmente ricche di vitamina C, potassio e alcune vitamine del gruppo B. Inoltre, contengono acido citrico, oltre a diversi potenti composti vegetali e antiossidanti. Mangiare arance può migliorare la salute del cuore e aiutare a prevenire i calcoli renali. Possono anche aumentare l’assorbimento del ferro da altri cibi che mangi, il che può aiutare a proteggere dall’anemia da carenza di ferro. 

In conclusione, è un mito che tutti i carboidrati siano malsani. In effetti, molti degli alimenti più sani sono anche ricchi di carboidrati. Detto questo, non dovreste mangiare carboidrati in grandi quantità se siete sovrappeso o avete già delle patologie metaboliche. Inoltre, i carboidrati raffinati, come il pane bianco e la pasta, sono certamente malsani per tutti. Tuttavia, potete godervi senza problemi i cibi che ho elencato in questo articolo, come parte di una dieta sana e gustosa. [di Gianpaolo Usai]

Estratto dell'articolo di Gemma Gaetani per “la Verità” il 21 gennaio 2023.

Si sono fatte strada due megabufale: eliminare i carboidrati virtuosizza l'alimentazione e il lievito di birra è di serie B rispetto al lievito madre. Rettifichiamole. […] Come spiega l'Istituto Superiore di Sanità, i carboidrati, detti anche glucidi (dal greco «glucos» = dolce), contenuti principalmente nei vegetali, in particolar modo nei cereali, sono semplici o complessi. I carboidrati semplici, chiamati zuccheri […] I carboidrati complessi possono essere anche definiti polisaccaridi, poiché formati dall'unione di numerose (da dieci a migliaia) molecole di monosaccaridi. Si dividono in polisaccaridi di origine vegetale (amidi e fibre) e di origine animale (glicogeno).

L'importanza dei carboidrati deriva dal fatto che vengono assorbiti e utilizzati dall'organismo molto facilmente, assicurando alle cellule rifornimento di glucosio e quindi di energia. […] I carboidrati complessi vengono assorbiti più lentamente rispetto agli zuccheri semplici, perciò forniscono energia e saziano più a lungo. Secondo le Linee guida per una corretta alimentazione dell'Iss, il 45-60% delle calorie giornaliere dovrebbe provenire dai carboidrati, almeno i 3/4 da carboidrati complessi e non più del 10% da zuccheri semplici.

A farci raggiungere la giusta quota quotidiana di carboidrati complessi contribuiscono pane, pizza e pasta. […] la differenza[…] è che i primi sono lievitati. Stessa nomea di alimento poco salutare che hanno assunto i carboidrati e le farine 00 e 0 per alcuni, ha acquisito il lievito di birra e ora assistiamo al trionfo delle pizze, al piatto e in teglia, preparate con lievito madre. Ma, di regola, il pane si prepara con lievito madre e la pizza con lievito di birra. […]

[…] Il lievito di birra rimineralizza, dà energia, disintossica il fegato, purifica capelli e pelle e ciglia e sistema cardiovascolare e metabolico perché contribuisce a tenere pulite le arterie. Il lievito naturale porta a una maggiore digeribilità dei panificati, che oltretutto si conservano più a lungo[…] .

Ciò che può rendere pesante un impasto con lievito di birra è che ne sia stato usato ben oltre il 4% per farlo gonfiare velocemente e cuocerlo non ancora maturato, perciò più pesante da digerire (perciò beviamo). Sia il lievito di birra, sia il lievito madre fanno bene (così come le farine raffinate non sono «veleno», semplicemente non andrebbero consumate in eccesso e in esclusiva, ossia ampliare la gamma di farine e la granulometria, optando ogni tanto anche per le integrali fornisce al nostro metabolismo una quota carboidrati più salubre).

La Soia.

Estratto dell’articolo di Graziella Melina per “il Messaggero” il 12 febbraio 2023.

[…]

Gli esperti italiani lo ripetono da anni: per poter dormire bene bisogna curare innanzitutto l'alimentazione[…] nei cibi consumati […] spesso e volentieri si nascondono sostanze che possono mal conciliare il riposo. […]il nutrizionista inglese Rob Hobson abbia deciso di stilare quasi una classifica degli alimenti più insidiosi e da evitare per tenere a bada la tanto temuta insonnia.

L'avvertimento dell'esperto inglese è indirizzato prima di tutto agli appassionati della cucina cinese e di quella giapponese. Se dopo una cena a base di sushi, il sonno faticherà ad arrivare la colpa è della salsa di soia. Il condimento incriminato contiene la tiramina, una sostanza che non ha per nulla un effetto soporifero. «La tiramina è un fattore scatenante comune per le persone che soffrono di emicrania - spiega Hobson - e può anche inibire il sonno in quanto provoca il rilascio di un ormone chiamato norepinefrina che può stimolare il cervello e ritardare il sonno». 

[…] Non possono stare tranquilli nemmeno i consumatori di prodotti nostrani: l'insidia della tiramina si nasconde anche nelle carni lavorate e persino negli agrumi e nel vino rosso. Il nutrizionista inglese non lascia in pace, del resto, nemmeno gli amanti del tè verde: mentre una tazza media di caffè contiene circa 100 mg di caffeina, la stessa tazza di tè verde ne contiene 50 mg. […]

Ma non finisce qui. Perché poi arriva anche la stoccata contro chi non sa rinunciare al cioccolato soprattutto per addolcire i momenti di stanchezza. «Qualsiasi cioccolato, indipendentemente dal suo contenuto di cacao, conterrà elevate quantità di zucchero ricorda Hobson Quindi, consumare troppo zucchero può influire sulla qualità del sonno». Se non addirittura provocare improvvisi risvegli durante la notte. 

[…] non poteva poi mancare l'alcol. «Sebbene possa provocare sonnolenza continua a spiegare il nutrizionista inglese - l'effetto è di breve durata ed è più probabile che abbia l'effetto opposto». 

 «Sappiamo bene che una sana alimentazione sicuramente migliora la qualità del sonno - conferma Caterina Guidone, endocrinologa dell'unità operativa patologie dell'obesità del Policlinico Gemelli di Roma - Tutto dipende però dalla quantità e dalla sensibilità di ognuno di noi. […]». 

esistono cibi che possono conciliare un riposo più tranquillo. «Gli alimenti che contengono il triptofano, presente per esempio in alcuni frutti come mango, datteri e banane, favoriscono il rilassamento dell'organismo. Anche il succo di amarena può essere di aiuto». Poi molto dipende dall'orario in cui consumiamo i pasti. 

 «Mai appesantire l'organismo a ridosso del sonno. Meglio inoltre se durante la giornata ci idratiamo in modo corretto. Seguiamo poi una regolare attività fisica, evitando l'attività fisica prima di andare a letto, perché l'adrenalina potrebbe compromettere la qualità e la quantità di sonno».

Il Surimi.

Cos’è realmente il Surimi e perché si tratta di un cibo da evitare. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 25 Gennaio 2023.

Il surimi, detto anche “polpa di granchio”, è un prodotto diffusissimo nei ristoranti, mense e ristorazione collettiva in genere, ma comune anche nei supermercati e nelle tavole degli italiani, specialmente durante i cenoni a base di pesce tipici delle festività natalizie o di altre feste in cui il pesce diventa il protagonista della tavola. Ma di cosa si tratta in concreto da un punto di vista strettamente tecnico e nutrizionale? È davvero fatto di polpa di granchio, un crostaceo prelibato e costoso?

Spesso il surimi viene usato per comporre la più classica delle insalate di mare (non nei ristoranti di alto livello però). Il surimi è qualcosa di poco naturale e molto artificioso. Si tratta di un composto alimentare prodotto con le parti tritate e poi pressate (compattate) di altri pesci, spesso considerate scarti della lavorazione di pesci, come il merluzzo o il nasello. A questo composto si aggiungono sempre (e sottolineo l’avverbio sempre) degli zuccheri, amidi, addensanti, coloranti, olio vegetale, sale e conservanti per creare i cilindri bicolore, ovvero l’interno bianco e il contorno arancione.

Non contiene polpa di granchio ma l’aroma

Il sapore di granchio, invece, è dato da un’aroma artificiale di granchio, tanto è vero che la dicitura ufficiale sulla confezione dei prodotti è “bastoncini al sapore di granchio”. Infatti il surimi contiene al massimo un 30-40% di polpa tritata di pesce (ma non polpa di granchio), e per il resto è fatto di amido, olio e altri additivi compresi degli zuccheri. Dal punto di vista nutrizionale, il surimi è un prodotto con tanto sale aggiunto che lo rende poco adatto a persone con problemi di ipertensione e patologie renali, ma che possiamo sconsigliare anche a persone sane, a causa del carico di conservanti e additivi aggiunti in questa preparazione. È da considerare un po’ come il “wurstel di mare”, in quanto è molto simile negli ingredienti e negli additivi al cilindretto di carne separata meccanicamente che definiamo wurstel. E come si sa, il wurstel non è di certo un alimento da consigliare e consumare senza pensieri (preparato alimentare sarebbe il termine più corretto).

Il marketing fuorviante di questi prodotti

Qui sopra nell’immagine mostro una delle tante confezioni di surimi che è possibile trovare nei supermercati. Aldilà della marca nello specifico (l’ingredientistica è in effetti sempre la stessa e non varia da marca a marca), quello che è interessante notare è la dicitura che accompagna la presentazione del prodotto, tratta direttamente dalla pagina internet del produttore. Si legge infetti che “il surimi è ottenuto dalla selezione delle parti migliori di pesce, che vengono poi tagliate, lavate e affinate”. Appare subito molto contraddittorio il fatto che si parta dalle “parti migliori del pesce” ma poi queste debbano essere lavorate e affinate. Ma se si tratta delle parti migliori, cosa ci sarebbe da “affinare” ulteriormente? È chiaro che si tratta di descrizioni invitanti e puramente magnificatorie, che servono per fare maggior presa sul consumatore. 

La lista ingredienti non mente, il prodotto è altamente lavorato, addizionato e trattato a partire da una materia prima scarsa (solo il 38% di pesce) e di bassa qualità. Da questa considerazione non si scappa ed è tanto vero che persino analizzando la tabella nutrizionale del prodotto (qui riportata nella immagine sulla parte sinistra) vediamo immediatamente che sono presenti ben 11,4 grammi di carboidrati e 1,53 grammi di sale ogni 100g di prodotto. Nessuna vera polpa di granchio o anche di pesce conterrebbe mai 11 grammi e mezzo di carboidrati e 1,50 grammi di sale. È evidente come il prodotto sia un vero preparato alimentare con aggiunta di carboidrati ed altre sostanze con funzione edulcorante. Segnalo che in questo caso è presente anche il glutammato monosodico, anch’esso un sale a tutti gli effetti, ma che sfugge al computo dei quantitativi di sale riportato in tabella nutrizionale. Inoltre fra gli ingredienti ritroviamo anche una voce non meglio specificata: proteina vegetale. Non è dato sapere a cosa ci si riferisce con “proteina vegetale”, potrebbe essere qualsiasi cosa come proteine di riso, soia, piselli, nella migliore delle ipotesi, oppure glutine nella peggiore delle ipotesi. Il glutine è la proteina del grano, ed è appunto una proteina vegetale, ma con effetti allergizzanti quando viene inserito in quantitativi concentrati nei prodotti alimentari. E soprattutto dovrebbe essere dichiarato chiaramente (come anche la soia), in quanto si tratta di sostanze definite dalla legge come allergeni. In questo caso l’indicazione in etichetta è molto vaga e sicuramente scorretta e non a norma di legge. [di Gianpaolo Usai]

L’insalata russa.

Miseria e nobiltà. Gastro-biografia dell’insalata russa. Thea Papa su L’Inkiesta il 26 Gennaio 2023

Patate, carote, piselli e sottaceti, avvolti dal voluttuoso abbraccio della maionese. Ecco la ricetta “non originale” in cui vi sveleremo i trucchi per prepararla

Sontuosa nella sua apparente semplicità, ha dominato le nostre tavole addobbate a festa per la notte di San Silvestro. Quasi un ossimoro accanto a salmone, ostriche e caviale, questo piatto povero e di relativamente facile realizzazione conserva quell’aura sfarzosa che lo rese famoso all’epoca della sua creazione, avvenuta con ogni probabilità a Mosca, negli anni Sessanta del diciannovesimo secolo.

Secondo le fonti più accreditate, l’invenzione dell’insalata russa si deve a Lucien Olivier, il cuoco di origine belga alla guida del prestigioso ristorante Hermitage, il cui signature dish ancora oggi porta il nome del suo ideatore: “insalata Olivier”. Nelle cucine di questa istituzione della capitale russa fu coniata una ricetta assai ricca e complessa, la cui riuscita era affidata al sapiente bilanciamento di sapori e quantità: lingua di vitello, pernici, tartufi e gamberi di fiume convivevano pacificamente con patate, capperi, uova e sottaceti; il tutto condito da una maionese speziata e cristallizzato in un aspic scenografico.

Come è possibile che una pietanza dal gusto squisitamente aristocratico sia divenuta simbolo pop del cenone di Capodanno per milioni di persone in tutta Europa (e non solo)? Ebbene, la “decadenza” degli antichi sfarzi gastronomici dell’Impero russo ha seguito di pari passo quella della monarchia: in coerenza con il nuovo regime politico e con la miseria dilagante, gli ingredienti più preziosi e ricercati furono sostituiti con surrogati a buon mercato; così piselli e carote finirono per rimpiazzare capperi e gamberetti, al fine di garantire il cromatismo originale senza sfidare l’austerità sovietica.

Patate e maionese sono dunque gli unici superstiti della sobria versione moderna di questa insalata, che puntualmente prenotiamo con largo anticipo alle gastronomie più chic della città, per poi ostentarla accanto ad altri innumerevoli antipasti sulle nostre tavole agghindate. E se vi dicessimo che prepararla in casa è un gioco da ragazzi? Bastano pochi accorgimenti per realizzare una maionese “a prova di pazzia”; quanto alle verdure, è solo questione di pazienza e precisione. Il piccolo sforzo vi ripagherà con complimenti ben più graditi di quelli scaturiti da una spesa ben fatta.

Ciò che differenzia una variopinta dadolata di verdure da un frugale pasto ospedaliero è il condimento: la maionese è una delle grandi salse madri francesi, ma le sue origini sono di fatto incerte. Una leggenda legherebbe la sua invenzione alla celebrazione della vittoria dei francesi sugli inglesi nella battaglia di Minorca del 1756: un cuoco avrebbe preparato questa salsa fredda con i pochi ingredienti a disposizione sull’isola, ovvero uova, sale, olio e limone, per poi battezzarla con un nome ispirato dalla capitale Port Mahon.

Un’altra ipotesi riconduce la nascita della salsa alla figura del duca di Mayenne, del quale costituì l’ultimo pasto (assieme a una porzione di pollo) prima della fallimentare battaglia contro Enrico IV. Nonostante non esistano documenti storici in grado di accertarne la paternità, è indiscutibilmente vero che ricette di condimenti tecnicamente assimilabili alla maionese spopolano sui libri di cucina francese sin dall’Ottocento, anche se a quell’epoca l’emulsionante era alquanto ballerino: accanto al più tradizionale tuorlo d’uovo troviamo l’uovo intero, solo l’albume, la gelatina ottenuta dal brodo di vitello e addirittura l’aglio pestato (proprio come nella salsa aioli).

Non è poi così stupefacente se pensiamo al gran numero di maionesi di pesce o di legumi che accompagnano antipasti e secondi piatti nei ristoranti più creativi. D’altra parte, gli ingredienti essenziali di un’emulsione ben riuscita sono: olio, acqua e uno stabilizzante – solitamente proteico – capace di tenere insieme le due fasi (che acqua e olio non si piacciano è cosa nota). Manca però un ultimo indispensabile componente: l’energia, che sia di un frullatore o del vostro polso.

Per oltre un secolo la maionese a casa si è preparata a mano, ma oggigiorno si tratterebbe di una prova di forza fine a sé stessa, poiché vi assicuriamo che i vostri commensali sarebbero certo in grado di compatirvi ma non di apprezzarne la differenza. Quindi vi conviene sfruttare le capacità del mixer che senza dubbio possedete, per ottenere una maionese stabile in tre minuti netti.

Per condire circa un chilo di verdure, un uovo medio a temperatura ambiente sarà più che sufficiente; mettetelo – intero – nel bicchiere del frullatore, aggiungete un grammo di sale (un pizzico abbondante) e una puntina di senape, se vi piace. Non abbiate paura dell’albume, sarà solo un elemento stabilizzante in più e vi eviterà di produrre avanzi da relegare negli angoli più remoti del frigorifero, dove con grande probabilità li dimenticherete.

Inserite anche due cucchiai di liquido acido: potete combinare limone e aceto di vino bianco, usare altri agrumi o aceti aromatizzati; l’unico limite è la fantasia.

A questo punto versate l’olio (200 grammi): per quanto quello extravergine di oliva sia eccellente in molteplici preparazioni, è decisamente sconsigliato in questo caso; il suo sapore intenso sarebbe eccessivamente coprente e il calore generato dall’attrito delle lame potrebbe addirittura conferire un indesiderato retrogusto amarognolo. Optate dunque per un olio di girasole o di soia, ed eventualmente aggiustate con un goccio di olio evo a emulsione già formata, a bassa velocità.

È giunta l’ora di accendere i motori: immergete nel bicchiere il frullatore a immersione appoggiandolo sul fondo, in modo che le lame siano completamente nella fase acquosa (è fondamentale non usare un recipiente troppo largo per evitare la “contaminazione” dell’olio nella fase iniziale). Tenendo fermi apparecchio e contenitore, azionate le lame alla massima velocità; quando vedrete l’emulsione formarsi sul fondo, potrete sollevare il frullatore a cuor leggero, incorporando gradualmente tutto l’olio.

Con questa tecnica sarà veramente difficile che qualcosa vada storto, a meno che non usiate un bicchiere troppo largo che obbliga le lame a pescare nell’olio, ma se proprio l’emulsione dovesse faticare a formarsi non insistete: lasciate riposare la miscela fino a quando l’olio non tornerà a galleggiare sulla fase acquosa, e riprovate.

Se temete la salmonella da maionese casalinga o siete vegani, troverete un valido alleato nel latte di soia, ma fate attenzione a non comprarlo zuccherato (a meno che non vogliate lanciarvi in una salsa dolce per il dessert). Inseritene circa 50 grammi nel bicchierone del frullatore a immersione, aggiungete 100 grammi di olio di semi, un cucchiaio di succo di limone, un pizzico di sale e una goccia di senape; per ingannare la vista potete usare anche una puntina di curcuma. Azionate il frullatore… et voilà!

Per quanto riguarda le verdure, vi suggeriamo di usare mezzo chilo di patate e lo stesso peso di carote, piselli e sottaceti, in parti uguali. Evitate la bollitura e optate per una cottura a vapore, magari al microonde: in questo modo le verdure resteranno croccanti e potrete tagliarle agevolmente in dadini di circa mezzo centimetro, senza rischiare di ridurle in purè. Per i sottaceti preferite un taglio più piccolo, così da conferire alla vostra insalata una nota acida quasi impalpabile (se siete pigri potete anche frullarli con l’aiuto di un mixer).

Dopo aver ottenuto la vostra dadolata perfetta, salate con parsimonia e amalgamate il tutto con la maionese, ricordando che è “solo” il condimento per l’insalata, e non viceversa. Lasciate riposare in frigorifero per qualche ora, meglio ancora una notte intera, e non dimenticate di curare la presentazione, soprattutto se si tratta di una cena importante: nessuno pretenderà che la serviate racchiusa tra due dischi di zucchero caramellato, ma evitate di rovesciarla sgraziatamente in un piatto qualunque, è pur sempre di nobile stirpe.

La carne cruda.

Perché la bistecca si può mangiare al sangue e l’hamburger no? FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

C’è un distinguo da fare, che dipende da batteri pericolosi come la Salmonella. Per annientarla è fondamentale seguire poche ed efficaci regole. Ecco quali

Bistecca al sangue, i rischi

Carne al sangue: sì o no? La risposta - per chi la mangia - non dipende dai gusti. Ci sono infatti distinguo da fare per via di batteri come Salmonella e Escherichia coli: agenti patogeni che possono causare disturbi intestinali anche di grave entità, che in alcuni casi si eliminano completamente con la cottura, e in altri invece no.

Se ormai è risaputo che la carne bianca, come il pollo, proprio per questo va sempre cotta completamente e maneggiata con molta cura, è facile invece cadere nell'errore per quanto riguarda la carne di manzo. La differenza, in particolare, riguarda bistecche e hamburger.

Nel primo caso, via libera: le bistecche si possono mangiare anche al sangue senza correre rischi. I batteri - quando ci sono - sono solo superficiali e quindi vengono completamente abbattuti anche solo con una breve cottura in padella o alla griglia. Per quando riguarda invece gli hamburger, il discorso cambia completamente: dato che sono composti da carne trita, e quindi da tanti pezzi diversi, Salmonella ed Escherichia coli potrebbero essere anche all'interno. Rischio che si moltiplica quando sono prodotti con carni di diversi animali. Proprio per questa ragione, sarebbe meglio cuocerli completamente, seguendo una procedura di preparazione ben precisa. Poche regole che è bene conoscere anche perché, per via della loro praticità, gli hamburger sono uno dei secondi piatti che mangiamo più spesso, e che facciamo mangiare ai bambini, tra i soggetti più sensibili all'effetto di questi batteri. Per sapere come fare, continuate a leggere

La prevenzione, al supermercato

A fare prevenzione si comincia facendo la spesa. Come tutti i prodotti da frigo o freezer, per evitare la proliferazione batterica anche con gli hamburger bisogna stare attenti a non interrompere la catena del freddo. L'ideale sarebbe tenerli in una borsa frigo nel tragitto dal supermercato a casa, e poi metterli subito in frigo nel ripiano dedicato alla carne.

Lo scongelamento (quando sono in freezer)

Così come si fa con il pesce congelato, e tutti gli altri tipi di carne, per evitare la proliferazione di batteri nel caso di hamburger congelati, l'ideale è scongelarli in frigo, sempre nel ripiano della carne. Scorciatoie come l’acqua calda non fanno altro che aumentare la carica batterica.

La preparazione

Per evitare che la carne sia troppo fredda, e quindi cuocia meglio anche internamente, bisognerebbe tirarla fuori dal frigo circa 10 minuti prima. Inoltre, per scongiurare la contaminazione batterica, come sempre per ogni tipo di carne o pesce, è bene tenere anche gli hamburger lontano da altri alimenti. Da non dimenticare: dopo aver maneggiato la carne cruda, le mani vanno sempre lavate accuratamente. In caso di tagli, anche piccoli, è fondamentale usare i guanti per evitare la penetrazione diretta di eventuali batteri.

La cottura

Per cuocere completamente un hamburger eliminando ogni possibile traccia batterica, la temperatura ideale è di 72 gradi. Va cotto su entrambi i lati, per due/tre minuti ciascuno, girandolo con una spatola in modo che non perda i succhi e quindi sia anche più saporito. La prova del nove è il colore della carne: se c’è ancora un po’ di rosa l’hamburger non è ben cotto. Il gusto magari può sembrare migliore, ma nel dubbio è meglio che la carne sia ben cotta. Questo non vuol dire che non si può mangiare, ma è molto più sicuro. Se la carne è fresca, i sistemi di conservazione e gestione in cottura sono buoni e le norme di igiene sono rispettate non è per forza necessario. Ma prevenire , nel dubbio, è meglio.

Il Merluzzo.

Scoprire che merluzzo e sale sono gli ingredienti della Storia. Pescatori baschi, saline preziosissime, guerre commerciali. Due libri raccontano i segreti dell'espansione europea. Matteo Sacchi il 18 Gennaio 2023 su Il Giornale.

Molti anni fa, nel 1965, venne pubblicato Vele e cannoni, un saggio, oggi notissimo, del grande storico economico Carlo M. Cipolla. In poche pagine rivoluzionò il modo di raccontare la storia. Spiegando benissimo come il successo dell'Occidente fosse nato a colpi di navigazione d'altura e di artiglieria imbarcata. E ora il quadro di quell'espansione, che ha portato le caravelle e i galeoni europei a conquistare il pianeta, è inseribile in un contesto anche più ampio, stratificato nel tempo. I prodromi della grande corsa si scatenarono a partire da materiali, all'apparenza, più umili rispetto al bronzo delle bocche da fuoco e alle complicate strutture costruite dai maestri d'ascia. Ne La leggenda dell'oro bianco, lavoro appena pubblicato da Carocci, a firma Giorgio Dell'Oro, l'attenzione si sposta su una materia prima di cui spesso ci dimentichiamo: il sale.

Essenziale per la conservazione dei cibi, soprattutto in un mondo senza refrigerazione, ma altrettanto essenziale per un altissimo numero di produzioni industriali, dalla concia alla lavorazione dei metalli, il sale oggi è di facilissima produzione. Lo era molto meno nell'Europa antica e medievale. Come spiega Dell'Oro era per certi versi un precursore del petrolio a causa della sua «universalità d'uso e disparità nella ripartizione geografica». Un conto era, infatti, la situazione dei Paesi mediterranei che disponevano di saline dove sfruttare l'evaporazione naturale, un altro essere costretti a cavare salgemma dal sottosuolo. Occorreva organizzare il difficile lavoro di scavo, disboscare ettari ed ettari per ottenere la legna necessaria al riscaldamento delle caldere dove il minerale veniva depurato: uno sforzo organizzativo immane. Riuscire ad ottenere una fonte stabile di sale significava però conservare il cibo, rifornire per lunghe traversate le navi, salvaguardare la salute di uomini e animali e garantire entrate allo Stato che quasi sempre lo gestiva in forma di monopolio. Ecco allora che il sale si trasforma nella molla prima dei commerci e poi delle inevitabili guerre navali. Guerre che rapidamente portarono gli europei a contendersi le merci che meglio si prestavano alla salatura, ovvero i pesci. In un manuale scolastico difficilmente troverete scritto che dominare il pianeta è stata in prima istanza questione di stoccafissi. Un merluzzo essiccato e salato però è un concentrato di energia conservabile sul lunghissimo periodo. Le navi vichinghe che per prime raggiunsero le coste della Groenlandia prima e del continente americano poi erano lunghe poche decine di metri, non avrebbero mai potuto farcela senza la possibilità di utilizzare stoccafissi essiccati. Infatti, come spiega il saggio appena tradotto da Nutrimenti Merluzzo. Storia del pesce che ha cambiato il mondo (a firma di Mark Kurlansky) arrivare sulle coste di Terranova avrebbe comportato anche un'altra rivoluzione: avere accesso ai banchi più pescosi del pianeta.

Ad un certo punto della storia europea, complici anche i dettami cristiani del mangiare di magro, i pesci essiccati e salati divennero la fonte principale di proteine per gli abitanti del continente, soprattutto i meno ricchi. Senza di essi l'economia sarebbe collassata, soprattutto durante la crescita del XIV e del XV secolo. Insomma abbastanza per scatenare guerre di pesca, che culminarono in quella al largo dell'Islanda scoppiata nel 1512 tra gli inglesi e le città della Lega anseatica. La vera svolta però avvenne in modo più silenzioso. Enormi quantità di pesce vennero portate sul continente dai pescatori baschi, che partivano verso il largo senza specificare nulla della loro rotta. Nessuno ha voglia di essere seguito se si reca su banchi di pesca da cui torna con tonnellate di merce pregiata. Zitti zitti, per decenni i capitani che partivano dal porto di Bilbao o di Bayonne diventarono sempre più ricchi. Iniziarono, però, i sospetti perché il merluzzo non si pesca in altura e di sicuro non si può essiccare in mare sul ponte di una nave. Ormai la richiesta di merluzzo era diventata troppo alta perché nessun altro si buttasse nell'affare. Senza dare troppo nell'occhio, due imprenditori di Bristol armarono delle navi e partirono anch'essi nell'esplorazione verso Ovest. A una prima campagna nel 1480 ne seguì una seconda nel 1481. Mesi dopo le loro navi tornarono stracariche di merluzzo. Entro il 1490 il porto di Bristol era diventato autonomo da questo punto di vista rispetto ai mercanti di pesce salato. Nessuno a Bristol pare si stupisse che nel 1492 un navigatore italiano di nome Cristoforo Colombo avesse raggiunto una nuova terra al di là dell'Atlantico. Tanto più che Colombo da Bristol era passato e contatti con i marinai baschi ne aveva avuti a iosa.

Evidentemente agli esploratori però interessa esplorare, e rivendicare, ai mercanti che trasformavano il merluzzo in oro interessava poterlo fare senza concorrenza. Mentre la conquista del Nuovo mondo stava decollando, da Bristol partì Giovanni Caboto e poi dalla Francia Jacques Cartier. Quando Cartier rivendicò la foce del St Lawrence in Canada ci trovò centinaia di vascelli da pesca baschi: caricavano merluzzi in silenzio stampa.

Anche le scoperte geografiche, quindi, sono iniziate seguendo la via del pesce che più ha influenzato la storia dell'uomo. Tanto più che pesce e sale sono andati a braccetto, facendosi reciprocamente da volano. Armate le navi e nutrita l'Europa però la sinergia tra progresso, stoccafisso e sali non è finita. Nessun pesce regge così bene la refrigerazione come il merluzzo. Tenero anche dopo il congelamento, si è trasformato nel motore della grande corsa alla pesca a strascico. Orfano del suo pesce di riferimento, il sale ha continuato ad essere comunque uno dei prodotti più richiesti sino a diventare il prodotto bianco che conosciamo oggi (i sali antichi erano quasi tutti colorati).

Insomma ci sono motori sotterranei delle vicende umane che per tanto tempo non abbiamo raccontato. E mal potrebbe incogliercene per la nostra miopia. Come racconta Mark Kurlansky, di merluzzo in certe zone del mondo ormai ce n'è davvero rimasto poco. E, a guardare come vengono gestite le risorse mondiali, a volte viene il dubbio che ci sia rimasto anche poco sale in zucca.

Il Prezzemolo.

Prezzemolo, è una delle piante più pericolose secondo Giardino Botanico Wandsbek. MARCO VASSALLO su Il Corriere della Sera l’11 Febbraio 2023.

Nella classifica annuale delle piante più pericolose stilata dal Giardino Botanico Wandsbek di Amburgo svetta una aromatica che tanto amiamo: ecco il motivo e perché possiamo continuare a usarla senza rischi

La pianta più velenosa dell'anno è tra quelle che più spesso usiamo in cucina: si tratta del prezzemolo, che svetta nella interessante classifica annuale stilata dal Giardino Botanico Wandsbek di Amburgo. Ogni anno i suoi esperti chiedono agli utenti di proporre una pianta o un fiore da analizzare, e tra i più votati stilano una lista in base alla loro «pericolosità» con l'obiettivo di diffondere conoscenza sulle possibili insidie che possono nascondere.

Perché l’uso abituale è corretto

Quest'anno dunque è toccato all'erba aromatica che tanto amiamo e usiamo, per condire piatti di carne, pesce, verdure, ma gli esperti del giardino botanico tedesco rassicurano: «Mangiare le foglie di prezzemolo non costituisce un pericolo. Al contrario, il prezzemolo fa bene: contiene molta vitamina C».

Dove sta il rischio

A rappresentare un pericolo non sono infatti le foglie di prezzemolo che consumiamo normalmente in cucina e che peraltro, oltre che di vitamina C, sono anche ricche di sali minerali. Il problema sta nei fiori che si formano nel secondo anno di vita della pianta (che è biennale). Sono i loro semi ad essere pericolosi, perché ricchi di apiolo: fenilpropanoide (un composto organico) che provoca contrazioni muscolari. «L'apiolo - spiegano gli esperti del giardino botanico - agisce sulle fibre muscolari lisce della vescica, dell'intestino e soprattutto dell'utero. Pertanto, l'olio di prezzemolo (ricavato quindi dai suoi frutti e non -lo ripetiamo - dalle foglie che mangiamo, ndr) veniva utilizzato per gli aborti». Con risultati - aggiungiamo che non di rado hanno provocato morti e messo vite a rischio.

Come coltivare il prezzemolo

Insomma, largo al prezzemolo così come lo abbiamo sempre usato, in foglie. Tanto che gli stessi botanici suggeriscono come coltivarlo sul balcone: «Ha bisogno di una posizione soleggiata, ma tollera anche l'ombra parziale. Il terreno dovrebbe essere ricco di sostanze nutritive e ben drenato». Altro trucco? Tenerlo lontano da altre piante ombrellifere e seminarlo ridendo: secondo una credenza popolare in questo modo ci si assicura una pianta in piena salute.

Il resto della classifica

Quanto al resto della classifica, al secondo posto c'è l'oleandro che in ogni sua parte contiene glicosidi cardioattivi (cardenolidi) capaci di alterare il ritmo cardiaco (per questo si raccomanda spesso di tenere cani e gatti lontano da questa pianta), e quindi il papavero rosolaccio, quello comune, che contiene alcaloidi blandamente tossici che in grandi quantità possono avere un effetto sedativo.

La noce moscata.

Estratto dell'articolo di Samantha Suriani per agrodolce.it il 17 gennaio 2022.

 Durante la puntata del daytime di Amici di Maria De Filippi andata in onda nel pomeriggio di domenica 15 gennaio su Canale 5 è scoppiato il cosiddetto caso noce moscata. […]

 A quanto pare, […] durante la notte di Capodanno […]  Wax, Tommy Dali, NDG, Maddalena e Samu, avrebbero sniffato della polvere di noce moscata per sballarsi e festeggiare l’ultima serata del 2022. Noi abbiamo deciso di usare il condizionale, in quanto queen Mary […] non è entrata nei dettagli e non ha confermato nessuna versione dei fatti. Tuttavia, sul web la voce sembra essere stata convalidata da alcune talpe interne al programma.

Pare addirittura che i ragazzi coinvolti, dopo il loro gesto, si siano anche sentiti male. […] Ma la domanda sorge spontanea: la noce moscata ha effetti allucinogeni?

Innanzitutto, ricordiamo che la noce moscata è una spezia vegetale originaria dell’Indonesia. […] Questa spezia […] contiene due composti attivi: la miristicina e l’elemicina. Il primo è un principio attivo precursore dell’MDMA mentre il secondo ha strutture simili all’anfetamina in sintesi, nonostante l’assunzione provochi effetti paragonabili a quelli dell’LSD. Per questo motivo, se assunta in dosi eccessive, la noce moscata può avere effetti allucinogeni.

Quando parliamo di dosi eccessive ci riferiamo a cifre superiori ai 2-8 grammi. Ovviamente questa cifra può variare in base alla sensibilità del singolo individuo, oltre che al suo peso e all’età. In generale, nel caso in cui l’assunzione superi questa quantità, la noce moscata può provocare nausea, vomito, febbre, stitichezza, gola secca, menomazione delle funzioni motorie, eccitazione nervosa, occhi arrossati, sonnolenza, apatia, percezione diversa dei colori, stati paranoici e gravi disturbi psichici […].

Ma non è finita qui. In medicina, sono stati registrati anche alcuni casi di overdose e morte in seguito all’ingerimento di 20-25 grammi di prodotto. […]

La noce moscata però non ha solo controindicazioni ma anche molti benefici. Se utilizzata nelle giuste dosi è consigliata a tutte quelle persone che soffrono di malattie respiratorie quali influenza o bronchite. Inoltre, per risolvere problemi di gengivite e nevralgia dentale, è possibile creare un collutorio con una goccia di olio essenziale di noce moscata diluito in acqua. Non solo. […]Questo alimento ha infatti anche proprietà afrodisiache. […]

Alchechengi.

Alchechengi, in supporto degli occhi e della digestione. Alchechengi, pianta perenne e parte integrante della famiglia delle Solanaceae, produce un frutto a forma di bacca dal gusto intenso e benefico. Monica Cresci il 6 gennaio 2023 su Il Giornale.

Facciamo la conoscenza con l'alchechengi, meglio noto anche come Physalis alkekengi L., una particolare pianta erbacea perenne originaria dell'Asia. Molto nota per le sue incredibili proprietà ma anche per i caratteristici calici che avvolgono con grazia la bacca commestibile, così singolari da ricordare piccole lanterne arancioni. Una struttura delicata ma al contempo resistente, con una consistenza simile alla carta ma di facile apertura. La bacca appare come una piccola perla dalle tonalità arancioni, dal gusto intenso, dai grandi benefici e dalle proprietà terapeutiche. Scopriamole insieme.

Alchechengi, qualche curiosità

Queste piccole lanterne cinesi vantano origini antiche, con impieghi in campo medico e alimentare sia all'interno della cultura tradizionale cinese che araba, greca, indiana fino a quella inca. Pianta perenne l'alchechengi è parte integrante della vasta famiglia delle Solanaceae, insieme al pomodoro e alla patata. Il primo a catalogarla fu Linneo, botanico e naturalista svedese, che le diede questo nome singolare ispirandosi al termine greco "fusalis" ovvero pieno di aria. Fiorisce durante il periodo estivo sfoggiando piccoli fiori bianchi a campanella, mentre le bacche maturano in autunno e appaiono come palline simili a ciliegie arancioni. Sono l'unica parte commestibile della pianta, a differenza del rizoma e delle foglie che risultano ricche di solanina in grado di provocare mal di testa, vomito, nausea e diarrea. Le bacche sono avvolte da una struttura a calice che, come già accennato, si può aprire per estrearre il frutto. Il gusto appare con un tono acidulo ma al contempo dolciastro, ricordando un mix singolare ma goloso tra pomodoro, lampone e agrumi.

Alchechengi, tutti gli effetti benefici

Il frutto è ricco di proprietà benefiche, infatti è impiegato anche in campo medico perché prodigo di vitamina C, mucillaggini, sostanze antimicrobiche, antibatteriche e antinfiammatorie, come la physalina e l'etilcaffeato. È un forte antiossidante, grazie alla presenza dell'acido citrico, e vanta un alto contenuto di carotenoidi. Dal punto di vista della salute l'alchechengi è un alleato impareggiabile dei reni perché aiuta a prevenire la formazione dei calcoli, favorendo anche l'eliminazione di quelli esistenti. Incentiva l'attività diuretica, la depurazione del fegato e la regolarità intestinale, rinforzando anche il sistema immunitario: consumarlo attiva un'azione protettiva per la digestione e la vista, favorisce anche la depurazione del sangue, argina le infezioni presenti nella bocca e in gola, regolando anche le problematiche della prostata, la febbre e il diabete. Sotto forma di decotto può ridurre lo stress e agevolare un'azione espettorante. Al contrario non è indicato in gravidanza, se si assumono farmaci diuretici o se è presente una ipersensibilità al frutto stesso.

Impieghi in cucina

L'alchechengi si coltiva facilmente, è una pianta resistente e dal carattere ornamentale, ma è necessaio preferire la tipologia Physalis alkekeng, Physalis pubescens e Physalis peruviana con bacche commestibili. I suoi frutti si possono consumare freschi o anche essiccati, si prestano facilmente come elementi decorativi per dolci e torte. Tutto merito del rivestimento a lanterna che le ricopre, che si può aprire con delicatezza per ottenere una singolare forma a stella o a ciuffo. Si possono preparare salse e marmellate, oppure immergere la bacca nel cioccolato fondente per un gusto davvero unico.

Il Colorante.

Estratto dell'articolo di Luisa Mosello per repubblica.it il 5 gennaio 2023.

Avete presente i prodotti e soprattutto le bevande rosso rubino? Non sempre sono coloranti vegetali come ad esempio la rapa a dar loro quella tinta accesa. A volte, in passato molto più spesso, viene usato un estratto di cocciniglia per ravvivare caramelle, yogurt alla fragola, succhi di frutta, bitter e liquori come l'Alchermes delle origini. Il nome di quest'ultimo deriva proprio dalla parola araba che indica questo insetto, della stessa famiglia delle coccinelle, utilizzato per ricavare del colorante dopo la sua essiccazione al sole.

Colorante che da qualche anno non viene più utilizzato nel liquore: al posto dell'E120 - questa la sua sigla ufficiale che appare sulle etichette dei prodotti che lo contengono e che si può cercare se si vuol essere certi della provenienza del colore vermiglio - ha sostituito coloranti sintetici cruelty free come l'E122, l'E132 e l'E124 ovvero la cocciniglia artificiale.

L'E120 non è vietato e non avrebbe controindicazioni evidenti per la salute ma in alcuni caso potrebbe provocare reazioni allergiche in persone particolarmente sensibili alle sostanze coloranti.

Le cocciniglie raccolte sui fichi d’India soprattutto in Perù e nelle isole Canarie vengono essiccate al sole, quindi macinate per ottenere una polvere che verrà trattata con acqua calda per estrarne la sostanza rossa che è l'acido carminico.

Poi ci sono gli "insetti per caso",  vale a dire quelli che vanno a finire inevitabilmente, anche solo in frammenti piccolissimi, in tanti cibi. Secondo uno studio condotto quattro anni fa dal Centro per lo Sviluppo Sostenibile e dall’Università Iulm di Milano "sono pochi gli italiani a sapere che ogni anno in media il consumo inconsapevole di insetti si aggira sui 500 grammi.

Questi animali sono dei contaminanti alimentari comuni e la legge italiana ne tollera una piccola percentuale“. Per esempio, un bicchiere di aranciata può contenere fino a 5 moscerini per essere promossa ed esser bevuta senza preoccupazioni. Così come una barretta di cioccolato può avere tranquillamente fino a 8 pezzetti di insetti. Che vengono rintracciati molto più di quanto si pensi nell’insalata, nelle marmellate, nei succhi di frutta, nelle passate di pomodoro e nelle farine. (…)

Nitriti e Nitrati.

CONSUMO CRITICO. Nitriti e nitrati aggiunti agli alimenti: perché fanno male e come evitarli. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 4 Gennaio 2023

Cinque porzioni di frutta e verdura sono alla base della corretta alimentazione e dovrebbero essere presenti quotidianamente nella nostra dieta. Attenzione però ai nitrati, soprattutto d’inverno, periodo dell’anno in cui se ne utilizzano di più per le coltivazioni in serra di molti ortaggi e soprattutto se si consuma l’ortofrutta non biologica. Nitriti e nitrati non sono autorizzati per legge nella coltivazione biologica, ma soltanto nell’agricoltura convenzionale. I sali di nitriti e nitrati sono comunemente utilizzati anche per stagionare la carne e altri prodotti deperibili: vengono aggiunti agli alimenti per la conservazione e contribuiscono anche a ostacolare la crescita di microrganismi nocivi, in particolare del Clostridium botulinum, batterio responsabile del botulismo. Aggiunti alla carne hanno la funzione di migliorarne il gusto e mantenere vivo il colore rosso, mentre nei formaggi i nitrati evitano il rigonfiamento durante la fermentazione. Infine i nitrati possono anche entrare nella catena alimentare come contaminanti ambientali dell’acqua e sono presenti sia nell’acqua del rubinetto di casa, sia in quella in bottiglia, anche se in dosi minime regolamentate dall’autorità sanitaria.

Sono additivi legali

Chiariamo subito che si tratta di 2 additivi alimentari di tipo conservante consentiti per legge, eccetto che nelle produzioni Bio, come accennato pocanzi. Quando vengono aggiunti nei prodotti alimentari, come avviene per esempio nei salumi, devono essere indicati obbligatoriamente nella lista degli ingredienti, con il loro nome oppure con le sigle E249 (nitrito di potassio), E250 (nitrito di sodio), E251 (nitrato di sodio) e E252 (nitrato di potassio). Come spesso accade, tuttavia, le sostanze legali non sempre sono innocue. I nitrati di per sé non sono pericolosi per la salute; una volta ingeriti, però, si trasformano in nitriti (tossici) e nelle più pericolose nitrosammine, sostanze dichiarate cancerogene da tutti gli studi scientifici e dalle agenzie di ricerca sul cancro come l’italiana AIRC. La normativa europea ne consente l’utilizzo e ha fissato delle soglie limite nelle quantità di assunzione per i consumatori. L’attuale dose giornaliera ammissibile (DGA) per il consumatore, per i nitrati, è di 3,7 milligrammi per chilogrammo di peso corporeo al giorno. Il livello di soglia per i nitriti è stato invece stabilito a 0,07 milligrammi per chilogrammo di peso corporeo. Quando si dice dose ammissibile significa che secondo gli esperti questa quantità di nitriti e nitrati è accettabile per i rischi di salute, va chiarito però che accettabile non vuol dire dose sicura o innocua ma soltanto appunto accettabile nell’equazione rischio/beneficio. E ovviamente va intesa come dose massima giornaliera, più che come dose accettabile. Tradotto in soldoni significa che un adulto del peso di 70 chili, ad esempio, dovrebbe ingerire al massimo 259 milligrammi di nitrato (circa ¼ di grammo) e solo 4,9 milligrammi di nitrito. Si tratta di quantitativi facilmente superabili con una dieta poco attenta e consapevole, specialmente nei bambini, dove questi quantitativi si abbassano ulteriormente. 

Un’informazione importante da acquisire, a questo punto, è quella che riguarda il contenuto di nitriti e nitrati effettivamente presente sui cibi che acquistiamo, dal momento che non vi è alcun obbligo di legge di indicare la quantità in etichetta ingredienti, ma soltanto la loro presenza. Risulta quindi utile sapere che i regolamenti europei sugli additivi alimentari consentono un impiego anche generoso di tali sostanze sui vari tipi di carni, pesce e formaggi che vengono messi in commercio. Ad esempio, nella produzione di aringhe e spratti marinati in scatoletta o al banco gastronomia, si possono aggiungere fino a 500 milligrammi di nitrato per ogni chilo di prodotto. Si veda qui di sotto l’estratto del Regolamento UE N.1129/2011 della Commissione europea, pagina 113.

[Estratto del Regolamento UE N.1129/2011 della Commissione europea, pagina 113]

Lo spratto o papalina è un pesce tipico della cucina dell’Estonia. Le aringhe sono un tipico pesce azzurro usato in tutto il Nord Europa presente anche in Italia in tutti i supermercati. Nella produzione di formaggi se ne possono inserire circa 150 mg/Kg, mentre per salumi, prosciutti affettati, bacon, wurstel e altre preparazioni di carne come hamburger e macinati, il Regolamento UE 1129/2011 consente una quantità che varia da 150 a 300 mg/Kg di prodotto. Ribadisco però che quando il consumatore acquista una vaschetta di prosciutto cotto o altro, non trova l’indicazione esatta della quantità di nitriti o nitrati presenti nel prodotto, ma solo l’indicazione generica della presenza della sostanza. Sta al consumatore dunque attuare un comportamento prudente nel consumo, cercando di non usare con frequenza questo genere di alimenti.

Perché nitriti e nitrati fanno male

Il primo motivo è che favoriscono alcuni tipi di tumore, come quello dello stomaco, dell’intestino e dell’esofago. In effetti, né i nitriti né i nitrati inducono direttamente l’insorgenza del tumore, ma una volta ingeriti possono subire nel nostro corpo una serie di trasformazioni chimiche che portano alla formazione delle nitrosammine, alcune delle quali sono certamente cancerogene. Ecco cosa succede: il nitrato, a contatto con la saliva e con alcuni batteri della bocca, si trasforma in nitrito e questo, una volta giunto nello stomaco si combina con delle sostanze particolari presenti nel cibo, chiamate ammine, e forma le nitrosammine, tra le sostanze cancerogene più pericolose. È evidente quindi che come consumatori dobbiamo cercare di ingerire meno nitrati o nitriti possibile, anche perché i tumori non sono l’unico problema collegato a queste sostanze. I nitriti si possono infatti anche legare con l’emoglobina, la proteina del sangue che trasporta l’ossigeno, impedendole di svolgere la sua funzione e ostacolando la respirazione. Questo problema è noto come metaemoglobina. In pratica i nitriti possono ossidare l’emoglobina trasformandola in metaemoglobina, il cui eccesso nel sangue riduce la capacità dei globuli rossi di legare e trasportare l’ossigeno nel corpo a tutti i tessuti, compresi il polmone e il cervello. Questo può determinare disturbi severi di tipo circolatorio e respiratorio, persino letali in alcuni casi. 

Un altro problema di salute associato ai cibi con nitriti e nitrati è quello delle allergie e intossicazioni, da lievi fino a letali. Questi conservanti, se impiegati illegalmente e in modo fraudolento (cioè in quantità superiori a quelle stabilite dai regolamenti UE), possono essere usati per mascherare delle alterazioni della carne e del pesce, tuttavia i fenomeni di putrefazione e degenerazione eventualmente in atto in realtà non si fermano con l’aggiunta dei nitriti, quindi, mentre la carne rimane alla vista di bell’aspetto e rossa (es. carne trita), in realtà questa carne può contenere delle tossine molto pericolose. E siccome la sostanza che si forma nei fenomeni degenerativi della carne è l’istamina, essa può dare origine a reazioni allergiche da lievi (gonfiori del viso e rush cutaneo) a fortissime o addirittura fatali come nel caso dello shock anafilattico.

Nocivi per l’uomo, nutrienti per le piante e abusati in agricoltura

I nitrati sono benefici per le piante che ne ricavano l’azoto necessario per la loro crescita. Per questo motivo gli agricoltori sono spinti a usare sempre più concimi arricchiti di nitrati, per aumentare le rese dei campi e abbreviare i tempi di maturazione. Ma quando si esagera (come succede spesso nell’agricoltura intensiva) si viene a creare un doppio effetto negativo: il primo è che gli ortaggi assorbono quantità elevate di nitrati che poi finiscono nel piatto, il secondo è che, penetrando in profondità nel terreno, i nitrati possono raggiungere le falde acquifere e quindi ce li ritroviamo poi anche nell’acqua potabile. Particolarmente penalizzati sono gli ortaggi in serra, dove la scarsa presenza di luce solare, specie in inverno, richiede di impiegare più fertilizzante e dunque i residui finali di nitrati su questi prodotti aumentano. 

Strategie e consigli per ridurre l’assunzione di nitrati

Il primo consiglio è di consumare frutta e verdura di stagione (che cresce quindi senza le serre), variando molto la tipologia di verdura e preferendola di agricoltura biologica che non utilizza fertilizzanti chimici: non è una buona abitudine mangiare melanzane, zucchine e pomodori tutto l’anno. Questi sono ortaggi estivi infatti. L’inverno ha varietà diverse di verdura e dovremmo orientarci sull’ortofrutta di stagione.

Una seconda attenzione è quella di acquistare poca verdura alla volta e consumarla nel giro di poco tempo (2-3 giorni), dopo averla conservata al freddo: man mano che la verdura invecchia in casa la quantità di nitrati aumenta infatti.

Evitare di riscaldare più volte i cibi che contengono nitrati, poiché col calore si trasformano più velocemente in nitriti. 

Aumentare il consumo di vitamina C, ad esempio utilizzando il limone come condimento: diverse ricerche infatti indicano che la vitamina C ostacola la formazione delle nitrosammine. 

Se consumiamo prosciutto crudo, preferiamo quello DOP, dato che per disciplinare non si possono impiegare nitriti o nitrati.

Scegliere acque minerali con un contenuto minimo ideale di nitrati al di sotto dei 10 mg/litro (troverete indicato il valore nell’etichetta della bottiglia).

Limitare carni trasformate come i salumi, ricchi di nitrati aggiunti, carne in scatola e wurstel, anch’essi ricchi di nitrati.

Per i bambini: evitare diete monotone e abitudini “viziate” dove si tende a mangiare solo spinaci e carote sia in inverno che in estate, oppure solo banane come frutta (che oltre ai nitrati spesso hanno anche altri pesticidi e conservanti), troppi salumi come il prosciutto cotto. Non solo banane quindi, ma è bene variare la frutta, includendo arance e mandarini che grazie alla vitamina C prevengono la formazione di nitrosammine. Oppure il kiwi, ancora più ricco di vitamina C rispetto alle arance e agli agrumi.

Perchè alcuni salumi con contengono nitrati?

Semplicemente perché è falso il fatto che per conservare un salume occorra usare i conservanti. Il sale è già un conservante di per sé, sempre presente in grande quantità nei salumi e affettati. Il mantenimento del colore rosa o rosso delle carni è il motivo principale della presenza di nitriti e nitrati negli alimenti, almeno dal punto di vista quantitativo. L’esaltazione cromatica, infatti, richiede una dose di questi conservanti circa tre volte superiore rispetto a quanto richiederebbe la sola conservazione. In assenza di questi additivi, le carni fresche iniziano a imbrunire già dopo pochi minuti, e il colore marroncino non è gradito al consumatore, che pensa erroneamente si tratti di un prodotto scadente o in procinto di avariarsi. Oggi molte aziende stanno facendo a gara per immettere sul mercato prodotti “senza nitriti e nitrati”, e al supermercato ci sono già diverse marche di prosciutto e mortadella con questa dicitura in bella mostra. Ma attenzione perché in alcuni casi si tratta di uno stratagemma ingannevole che tende a raggirare il consumatore: dal momento che alcune piante aromatiche, come il sedano, sono naturalmente ricche di nitrati (per il discorso del terreno concimato con fertilizzanti chimici, come detto), alcuni produttori utilizzano un estratto concentrato di sedano nell’impasto del salume, in questo modo possono non dichiarare in etichetta la presenza di nitrati ma solo di sedano. In realtà però i nitrati ci sono, nel prodotto. Infine segnalo anche che oggi esistono in rete dei dispositivi elettronici in grado di misurare in maniera istantanea, attraverso una sonda metallica da inserire nell’alimento, la quantità di nitrati che accompagna un dato alimento. Si possono acquistare e usare in casa o fuori casa, in quanto molto pratici e maneggevoli. E fra l’altro questi dispositivi misurano anche il livello di radiazioni negli alimenti. I costi in rete vanno dalle 70 alle 150 euro. [di Gianpaolo Usai]

Le vitamine.

Le vitamine che si trovano solo nei cibi animali (e i consigli per i vegani). Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 22 Dicembre 2022.

La dieta moderna, a base di cibi industriali molto raffinati e di frutta e ortaggi trattati pesantemente con la chimica in campo, è sempre più povera di vitamine. È sbagliato però pensare che queste ultime si trovino tutte nei cibi vegetali, alcune vitamine infatti sono presenti esclusivamente nei cibi animali.

Il termine vitamina significa “ammina della vita” e fu coniato dallo scienziato polacco Kazimierz Funk, che nei primi del ‘900 identificò il primo di questi composti vitali per l’uomo. Di lì a poco furono identificate altre vitamine, fino ad arrivare alle 13 oggi conosciute. Funk era un biochimico polacco-americano, accreditato per essere stato tra i primi a formulare (nel 1912) il concetto delle vitamine, che egli chiamò “ammine vitali” o “vita-ammine”. Dopo aver letto un articolo di Christiaan Eijkman, un medico olandese dell’Ottocento, che indicava che le persone che mangiavano riso integrale erano meno vulnerabili al Beri-Beri rispetto a quelle che mangiavano solo il prodotto completamente raffinato e ridotto in farina, Funk cercò di isolare la sostanza caratteristica e distintiva, e ci riuscì. Poiché quella sostanza conteneva un gruppo amminico, la chiamò “vitamina”. In seguito sarebbe stata conosciuta come vitamina B3 (o niacina), anche se Funk pensava in realtà che fosse la vitamina B1 (tiamina) e la descrisse come “fattore anti-Beri-Beri”. Il Beri-Beri è una patologia grave e cronica dovuta alla carenza della vitamina B1, che danneggia fortemente il sistema nervoso e cardiovascolare, provocando intorpidimento delle mani e dei piedi, encefalopatia, confusione, difficoltà a muovere le gambe e dolore. Può verificarsi anche una forma con perdita di appetito e stitichezza. Un altro tipo, il Beri-Beri acuto, che si riscontra soprattutto nei bambini, si presenta con perdita di appetito, vomito, acidosi lattica, alterazioni della frequenza cardiaca e ingrossamento del cuore.

Vitamine che si trovano solo nei cibi animali

In natura non esiste un alimento che contenga tutte le vitamine, da qui l’importanza di una dieta varia ed equilibrata. Alcuni tipi di vitamine si trovano infatti soprattutto nella verdura, nella frutta, nei cereali e nei legumi, mentre altre sono contenute esclusivamente negli alimenti di origine animale, come carne, pesce e uova. Queste vitamine sono la vitamina A, la D, la B12, e il loro apporto può diventare insufficiente in caso di restrizioni dietetiche o scelte alimentari particolari come quelle di vegetariani e vegani. Vediamo in sintesi a cosa servono queste 3 vitamine.

La vitamina A ha un’importanza fondamentale per la vista poiché fa parte dei componenti della rodopsina, la sostanza presente sulla retina che dà all’occhio la sensibilità alla luce. La vitamina A è inoltre utile per lo sviluppo delle ossa e per il loro rafforzamento nel tempo, per la crescita dei denti, e si distingue per la sua capacità di aiutare la risposta immunitaria del nostro organismo. Recenti scoperte scientifiche hanno dimostrato che la vitamina A possiede anche capacità antitumorali. Si legge di frequente che carote, pomodori, albicocche e altri cibi vegetali contengono vitamina A, ma questa informazione è completamente errata e anti-scientifica in realtà. Le carote contengono, per essere accurati da un punto di vista di nutrizione, i carotenoidi (come il betacarotene ad esempio). I carotenoidi possono poi essere convertiti nella vera vitamina A nell’intestino degli animali, compresi gli esseri umani. Possono, e non necessariamente vengono convertiti, in quanto tale conversione dipende dalla capacità di un organismo sano di produrre vari enzimi e dalla capacità di disporre di varie altre vitamine. Questo non è scontato per molte persone, per esempio perché seguono una dieta scorretta e ricca di alimenti industriali e raffinati, o perché assumono farmaci, fumano, bevono alcolici troppo spesso, e così via. La conversione da betacarotene a vitamina A è poi un processo non lineare, nel senso che occorrono almeno 6 molecole di betacarotene per poter formare una molecola di vitamina A. E come sottolinea il dottor Chris Kresser in “The Healthy Baby Code”, ciò significa che bisogna mangiare 2 Kg di carote per ottenere la quantità di vitamina A che si ottiene da 80 grammi di fegato bovino. Nei bambini questa conversione da betacarotene a vitamina A avviene in maniera molto scarsa, e nei neonati la conversione da betacarotene a vitamina A non avviene affatto. Questo comporta l’importanza di dare dei cibi animali ai bambini (come il burro o il formaggio) per salvaguardare la loro salute e soprattutto la fase della crescita e sviluppo nei primi anni di vita, anziché sottoporli a diete vegane.

La vitamina D è necessaria a numerose funzioni biologiche, prima fra tutte la corretta assimilazione e metabolismo del calcio, fosforo e magnesio, promuovendo la crescita sana dello scheletro, il rimodellamento osseo e prevenendo la degenerazione in osteoporosi con l’età avanzata. Non di meno, la vitamina D sembra avere un ruolo importante su varie funzioni neuromuscolari e immunitarie, e sulla riduzione dell’infiammazione. Esistono due forme di vitamina D importanti per l’alimentazione: la vitamina D2 che si trova in alcuni cibi vegetali come i funghi, il lievito e le alghe marine. E poi la vitamina D3: si tratta della forma più attiva di vitamina D e si forma nella pelle quando questa viene esposta alla luce diretta del sole. Le fonti alimentari più comuni di D3 sono gli alimenti animali come il burro, i formaggi e lo yogurt di animali che pascolano all’aperto e che sono esposti alla luce solare. La vitamina D è inoltre presente nell’olio di fegato di pesce e nei pesci grassi come sgombro, alici e sardine. 

La vitamina B12 è coinvolta nel metabolismo degli aminoacidi, della sintesi del DNA e dell’RNA – come anche la vitamina B9 o acido folico – e nel metabolismo degli acidi grassi. Ricopre un ruolo fondamentale nella produzione dei globuli rossi e nella formazione del midollo osseo. La vitamina B12 è presente in tutti gli alimenti di origine animale. In particolare la si trova nella carne, nel pesce, nel fegato, nel latte, nelle uova. Non è presente in nessun cibo vegetale.

Per chi è vegano

Per coloro che hanno fatto la scelta della dieta vegana, le 3 vitamine citate vanno assolutamente integrate nella dieta attraverso degli integratori di qualità. Queste vitamine sono necessarie per restare in buona salute. In commercio si possono trovare ormai integratori adatti per vegani di vitamine estratte da lievito o fonti non animali. Ricordiamoci che le vitamine non sono un optional nella nostra vita ma sostanze di fondamentale importanza per restare sani e vivere bene. Pertanto non solo i vegani dovrebbero stare attenti alla carenza di vitamine ma anche chi segue una dieta onnivora perché spesso si mangia male e si segue una dieta monotona a base sempre di pochi soliti alimenti, specie se questi alimenti sono riso bianco, pane bianco, pasta e farine raffinate, o dolci. Queste persone vanno spesso incontro a carenze vitaminiche importanti. Le vitamine vanno viste come come degli integratori naturali per chi fa sport, per lo stress mentale e periodi di convalescenza o per chi non è più giovane, in quanto l’assorbimento di tali sostanze da parte dell’organismo si riduce con l’avanzare degli anni.

Per valutare il vostro fabbisogno di vitamine e minerali, ed una eventuale integrazione attraverso degli integratori, consultate sempre prima il parere di un medico esperto in integrazione, dato che non tutti i medici sono preparati in questa materia. Anzi, spesso sono disinformati e schierati contro gli integratori per partito preso, per favorire l’industria del farmaco. Oppure sentite un bravo nutrizionista, in quanto assumere integratori con la formula del fai da te o su consiglio di amici e conoscenti non è corretto e potrebbe portarvi ad acquistare prodotti oggi presenti sul mercato che non hanno nessuna utilità in quanto di cattiva preparazione, o peggio ancora potrebbero nuocere a causa di ingredienti e additivi del tutto artificiali presenti nel composto.

Cibi e sostanze che sottraggono vitamine all’organismo

Infine, da tenere a mente: il caffè, l’alcol e il fumo di sigaretta riducono l’assorbimento delle vitamine in generale, pertanto è consigliabile bere poco caffè (2 tazzine al giorno al massimo). Il fumo di sigaretta riduce fortemente i livelli di vitamine nel sangue, specialmente della vitamina C in quanto tale vitamina viene impiegata dall’organismo per espellere la nicotina e le varie altre tossine presenti nella sigaretta. Ciò significa che i fumatori vanno subito in carenza di vitamina C, specie con una dieta povera di verdura fresca e frutta.

[di Gianpaolo Usai]

Il Sale.

Estratto dell’articolo di Maria Sorbi per “il Giornale” il 5 marzo 2023.

Colpevole. Il reato dell’imputato - il sale - è quello di provocare danni alla salute a carico di diversi organi vitali. In primis, al cuore, innescando ipertensione e rischio di malattie cerebrovascolari come ictus e infarto. A condannarlo un tribunale vero, presieduto dal presidente del tribunale ordinario di Milano, Fabio Roia, che ha simulato un processo al condimento numero uno della nostra tavola. Senza particolari attenuanti.

Il giudice ha concluso un processo di 4 ore di dibattimento con il pubblico ministero Nunzia Gatto (avvocato generale presso la corte d’appello di Milano) che ha esposto i reati compiuti dal sale in molti secoli di storia, mentre gli avvocati Ilaria Li Vigni e Giorgia Andreis hanno difeso l’imputato (rappresentato in sala dallo chef Federico Trobbiani). Nel mezzo gli interventi di esperti di parte, periti tecnici, medici di diverse specialità (cardiovascolare, nefrologica, nutrizionisti, internisti), giornalisti. Tutto come in un processo reale.

Nonostante il sodio, in piccole quantità sia stato chiaramente indicato come «vitale» per gli esseri umani, la sentenza ha tenuto conto soprattutto degli elementi di pericolo per la salute. Crollata anche la tesi della difesa fondata in prevalenza sulle proprietà antisettiche e di conservazione del sale. «È passata la tesi dell’accusa – ha commentato Roberto Carlo Rossi, Presidente dell’Ordine Provinciale dei Medici e degli Odontoiatri di Milano – in parte inaspettata.

Se da un lato, come medici, ci attendevano una sentenza più “buonista”, dall’altro il giudizio è pienamente giustificato da prove secondo cui il sodio assunto in quantità abbondanti non faccia bene. Tuttavia il sale è irrinunciabile; anche da esso dipende la buona funzionalità di diversi organi. Dunque la vera condanna riguarda l’uso smodato del sale». […]

Gli Zuccheri.

Zuccheri nascosti: dove si trovano e come riconoscerli. Gianpaolo Usai su L'Indipendente giovedì 27 luglio 2023.  

Gli zuccheri sono ovunque, e noi ne siamo diventati grandi consumatori negli ultimi 30 anni. Vengono aggiunti alle farine, ai succhi di frutta, alle bevande analcoliche, all’aceto balsamico, ai cereali per la colazione. Lo zucchero è presente in prodotti che non dovrebbero contenerlo, come piselli in scatola, minestroni surgelati, salsa di pomodoro, sughi pronti, maionese, fette biscottate, pane, yogurt, succhi di frutta, burger di soia, patate fritte, snack salati. Viene aggiunto per camuffare la qualità scadente di questi prodotti in termini di materie prime (un pomodoro non troppo fresco e aromatico, ecc.).

In ogni caso, aggiungere zucchero ai cibi porta a sviluppare una vera e propria dipendenza nel consumatore. Maggiore è l’assunzione, maggiore sarà il grado di assuefazione a cui si andrà incontro. Distinguiamo una prima serie di zuccheri principali impiegati nell’industria alimentare:

il saccarosio (che è il comune zucchero bianco da cucina, costituente di base anche dello zucchero grezzo di canna e dello zucchero integrale di canna) composto da glucosio e fruttosio.

il glucosio, lo zucchero più diffuso in natura. È contenuto nel corpo umano, nelle piante, ortaggi, frutti.

il fruttosio, presente nella frutta o in alcune verdure come il mais o il pomodoro.

il lattosio, presente nel latte.

E poi destrosio, maltosio, e molti altri ancora… Sono solo alcuni dei nomi che si nascondono dietro quello che comunemente viene definito semplicemente “zucchero”.

Gli zuccheri nascosti

 Sfortunatamente i produttori di cibo spesso nascondono la quantità totale di zucchero inserendolo con nomi molto diversi nella lista degli ingredienti. Qualche esempio? Si parte dagli zuccheri più comuni, che i consumatori attenti oggi conoscono già (almeno in parte), come:

fruttosio

glucosio

saccarosio

lattosio

succo di mela (in marmellate, gelati,)

succo d’uva (in marmellate, yogurt)

melassa

caramello

sciroppo di riso

malto d’orzo

sciroppo di glucosio-fruttosio (in merendine, biscotti, caramelle, gelati…)

miele

destrosio (impiegato spesso nei salumi)

E si continua con altri zuccheri e dolcificanti che il consumatore solitamente non conosce o di cui non ha una chiara percezione della natura dolcificante e calorica, come:

sciroppo d’acero

sciroppo d’agave

stevia

mannitolo

sorbitolo

maltitolo

ciclamato

saccarina

acesulfame K

aspartame

xilitolo

maltodestrine

maltosio

sucralosio

destrine

eritritolo

zucchero di cocco

zucchero di datteri

succo di frutta concentrato

D-ribosio

galattosio

amido di mais

estratto di malto d’orzo

amido di tapioca

Zuccheri nascosti: dove si trovano?

Di seguito riportiamo alcuni esempi concreti di prodotti in cui figurano questi “zuccheri nascosti”, di cui noi consumatori siamo poco consapevoli.

 Il primo esempio riguarda un latte vegetale di mandorle, a cui è stato aggiunto lo sciroppo d’agave, fino alla quantità di 28 grammi per litro (equivalente a circa 6 cucchiaini di zucchero per bottiglia), come potete constatare dai valori mostrati in foto.

Per quanto lo sciroppo d’agave sia uno zucchero naturale, estratto dalle foglie della pianta Agave, e sebbene sia conosciuto dai più come un’alternativa più salutare allo zucchero bianco, perché non produce picchi glicemici come le altre varietà di zuccheri, in realtà contiene circa il 70% di fruttosio e il 30% di glucosio ed è usato in molti “alimenti naturali” come barrette di frutta secca e cereali o yogurt dolcificati.

E dati i pericolosi effetti di un consumo eccessivo di fruttosio, il nettare d’agave potrebbe essere peggio dello zucchero comune per la salute metabolica. 

Cereali e succhi di frutta industriali

 Altre categorie di alimenti in cui gli zuccheri vengono aggiunti in quantità dall’industria alimentare sono quelle dei cereali per la colazione e dei succhi di frutta confezionati. Nel prodotto qui in esame lo zucchero è stato aggiunto nel quantitativo di 8 grammi ogni 100 grammi di prodotto, vale a dire 30 grammi di zucchero nella confezione da 375 grammi (pari a 6 cucchiaini di zucchero aggiunto).

Nei succhi di frutta confezionati è molto frequente l’aggiunta di zuccheri vari come lo sciroppo di glucosio-fruttosio. Gli zuccheri vengono aggiunti essenzialmente perché l’industria inserisce solo piccolissimi quantitativi di frutta nelle bottiglie, nell’esempio qui in foto abbiamo soltanto il 50% di frutta. E spesso si arriva ad avere solo il 30 o 20% di frutta.

 Inoltre la qualità della frutta selezionata per i succhi di frutta è molto bassa, si tratta di frutta di seconda e terza scelta e infine questa frutta subisce vari processi di lavorazione e di trattamento termico come la pastorizzazione, pertanto perde completamente aroma, freschezza e gusto dolce naturale del frutto. Ecco perché bisogna poi aggiungere lo zucchero.

Zuccheri nascosti: gli insospettabili

Spostandoci verso altre categorie di alimenti, possiamo notare come lo zucchero aggiunto sia presente anche in prodotti insospettabili come:

sughi pronti (sugo al tonno, sugo alla pescatora, ragù alla bolognese)

risotti in busta

piselli in scatola

carne in gelatina

secondi pronti (fagioli e tonno, piselli e tonno, ad esempio)

pesto pronto (pesto genovese, pesto siciliano, pesti vari)

pane in cassetta

cornetti salati

zuppe pronte

insalata russa

tortellini di carne

bevande al Ginseng

tè freddi

 Ecco un esempio di zucchero, lattosio e amido di mais aggiunti in un risotto in busta, nella quantità impressionante di ben 8,5 grammi per 100g, pari a quasi 2 cucchiaini di zucchero per 100 grammi di alimento.

Non c’è bisogno di evitare lo zucchero naturale

Non c’è motivo di evitare gli zuccheri che sono naturalmente presenti nel cibo. Frutta, verdura e derivati del latte contengono naturalmente piccole quantità di zuccheri, ma contengono anche fibre, nutrienti e vari composti benefici che sono legati allo zucchero e ne regolano il corretto funzionamento sul piano metabolico. È bene sottolineare che gli effetti negativi di un alto consumo di zucchero sono dovuti alla quantità massiccia di zuccheri aggiunti delle diete occidentali, e non al quantitativo che si assume attraverso i cibi che contengono zuccheri in maniera naturale come la frutta e la verdura.

Il modo più efficace di ridurre il vostro apporto di zuccheri è mangiare soprattutto cibo fresco e naturale, non processato o confezionato.

Se decidete di comprare cibo confezionato, fate attenzione all’etichetta e ai diversi nomi con cui si può trovare lo zucchero. Gli zuccheri aggiunti sono certamente il peggior ingrediente della dieta moderna. Cercate di evitarli e quando raramente li assumete cercate di esserne pienamente consapevoli. Il momento migliore per assumere zuccheri, sul piano metabolico, è subito dopo un allenamento intenso e l’attività sportiva in genere: lo zucchero verrà usato per il recupero energetico soprattutto muscolare e non altererà il metabolismo, né tenderà a farci ingrassare. [di Gianpaolo Usai]

Estratto dell'articolo Maria Rita Montebelli per “il Messaggero” il 19 aprile 2023.

Gli americani, che spesso non amano le mezze misure, li chiamano i "tre veleni bianchi", additando con questo poco tranquillizzante epiteto il sale, la farina bianca e soprattutto lo zucchero. E adesso, uno studio pubblicato su British Medical Journal da un gruppo di ricercatori cinesi e statunitensi, sembra dar loro ragione. Almeno per quanto riguarda lo zucchero. Secondo gli autori di questa ricerca, per non mettere a rischio la nostra salute, sarebbe consigliabile non superare i 6 cucchiaini di zucchero al giorno […]

gli autori hanno evidenziato che il consumo di zucchero risulta associato a 18 patologie endocrino/metaboliche (quali diabete, sindrome metabolica, obesità e sovrappeso sia negli adulti che tra i bambini, gotta), a 10 cardiovascolari (ipertensione arteriosa sia negli adulti che nei bambini, infarto, ictus, ecc.), a 7 tumori (compresi quello della mammella, del fegato, della prostata e del pancreas), più un'altra decina tra patologie di tipo neuropsichiatrico (depressione, disturbo da deficit di attenzione e iperattività o ADHD), odontoiatrico (carie ed erosioni dei denti), epatiche (fegato grasso), asma e ossee (osteoporosi).

A conti fatti insomma, sarebbero ben 45 quelle collegate ad un eccessivo consumo di zuccheri. […] Ci sono solide prove scientifiche a sostegno del fatto che chi consuma più zucchero (in particolare quello contenuto nelle bevande zuccherate) tende a pesare di più, mentre chi consuma zuccheri aggiunti tende più facilmente ad accumulare grasso cosiddetto "ectopico" (cioè non nel tessuto adiposo, ma a livello di alcuni organi, come il fegato o i muscoli, determinando in questo modo un cattivo funzionamento degli stessi).

Meno robuste, ma decisamente allarmanti, sono invece le prove che associano il consumo di ogni bevanda zuccherata in più a settimana, ad un aumentato rischio di gotta del 4%, e quelle che suggeriscono che per ogni 250 ml di bevanda zuccherata in più al giorno, il rischio di malattie coronariche aumenti del 17% e quello di mortalità per tutte le cause del 4%. E il problema sembra venire non solo dal saccarosio (il comune zucchero da cucina).

Alcune ricerche suggeriscono infatti che per ogni 25 grammi di consumo di fruttosio al giorno, il rischio di incorrere in un tumore del pancreas aumenti del 22%. […]Il consiglio è dunque di ridurre il consumo a meno di 25 grammi al giorno (l'equivalente di 6 cucchiaini o 6 zollette di zucchero) e di limitare il consumo di bevande zuccherate (200-355 ml) a meno di una a settimana, per non incorrere nelle conseguenze indesiderate dello zucchero sulla salute.

[…] Lo studio pubblicato su British Medical Journal viene dunque a portare acqua al mulino di chi invita alla prudenza nel consumo dello zucchero. In generale sottolineano gli autori le bevande zuccherate, sia essere bibite gassate o non, succhi di frutta, sport ed energy drink, sono la principale fonte di zuccheri aggiunti.

E se una serie di ricerche indica che nei Paesi occidentali il loro consumo negli ultimi anni è in declino, resta purtroppo ancora troppo elevato, soprattutto tra i bambini e i giovanissimi. Dando un contribuito importante al problema dell'obesità e del sovrappeso infantile.

Perché mangiare troppi zuccheri è pericoloso? Consigli per mangiatori di dolci. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 23 marzo 2023.

Ciò che si mangia è chimica, molecole chimiche, e la gente non lo sa. Si pensa invece che il cibo non sia altro che un insieme di calorie o di macronutrienti (grassi, proteine, carboidrati). Quel che si mangia in realtà interagisce e condiziona a sua volta la chimica del nostro corpo, inclusa la chimica del cervello, ossia il funzionamento chimico dell’organo sede del sistema nervoso centrale, e dei neurotrasmettitori come la dopamina, serotonina, adrenalina, ecc. Lo zucchero è un esempio esemplare delle reazioni chimiche che avvengono tra cibo e cervello. 

Da un punto di vista scientifico, l’essere umano ha necessità di zuccheri all’interno del suo corpo ma non ha un bisogno dello zucchero per la sua alimentazione! Cosa significa? Può sembrare un’affermazione un po’ confusa ma in realtà non lo è. Vuol dire che tra le sostanze essenziali per il corretto funzionamento dell’organismo ci sono anche gli zuccheri, o meglio il glucosio, e quindi una privazione totale di questi zuccheri peggiorerebbe lo stato di salute generale. Gli zuccheri sono talmente essenziali per il corpo umano che esso li ricava da sé in tutta autonomia a partire dai cibi naturali che vengono ingeriti, ad esempio a partire dai cibi contenenti carboidrati o proteine come il pane, i legumi o la carne. Questo è un meccanismo di regolazione innato ed automatico che ogni corpo attua aldilà della nostra volontà e del nostro stile alimentare. Se non fosse assolutamente necessario avere in circolo nel sangue il glucosio, il corpo non lo produrrebbe, ma in effetti lo fa attraverso complesse reazioni biochimiche chiamate gluconeogenesi, ciclo di Krebs ecc. Mangiare lo zucchero puro e concentrato invece, o alimenti con lo zucchero aggiunto come dolci, bevande zuccherate, cereali per la colazione, non è essenziale e anzi costituisce da un punto di vista biochimico una “forzatura” e un affaticamento eccessivo per il metabolismo, ovvero per l’insieme delle trasformazioni chimiche che si dedicano al mantenimento vitale all’interno delle cellule degli organismi viventi. 

Questo non significa che non si debba mai mangiare un dolce o una bevanda con lo zucchero aggiunto, lo si può fare in tutta tranquillità saltuariamente o in occasioni particolari come le feste. Ma diventa “problematico”, diciamo così, se fatto su base quotidiana o comunque con regolarità. Lo zucchero non è essenziale e costituisce un artificio creato dall’uomo stesso, non dalla Natura, mentre gli zuccheri contenuti in piccoli quantitativi nei cibi naturali come la frutta o le verdure (il pomodoro ad esempio contiene zuccheri, come anche la carota o le zucchine o la cipolla) sono contemplati dalla Natura e dalla biologia, in definitiva dalla nostra evoluzione. L’industria ha portato però la società occidentale ad un uso quotidiano e molto eccessivo in quantità di zucchero e dolci. Spesso i cibi dolci sono assunti ogni giorno senza neppure essere consapevoli di mangiare un dolce, si pensi agli yogurt alla frutta o ai cereali per la colazione, che molti consumatori non percepiscono come dei dessert anche se a tutti gli effetti lo sono, mentre i biscotti e le torte tutti sanno che si tratta di dolci. Oppure che dire dei crackers che sembrano biscotti salati ma in realtà contengono più zucchero che sale? Esistono e sono consumati da tantissime persone. Mangiare una fetta di dolce o dei biscotti può andare bene quando ci si vuole concedere un piacere e una coccola, ed è perfettamente sano concedersi tale piacere di tanto in tanto, anzi in realtà è l’organismo stesso che “ci fa capire” quando ha bisogno di una piccola dose di zuccheri, stimolando la fame specifica di determinati alimenti dolci, come cioccolato o biscotti. Ma tecnicamente non sono alimenti di cui il corpo ha necessità ogni giorno. Gli servono gli zuccheri, che ricava di default dai cibi in generale, come detto prima, ma non lo zucchero dei dolci. É il corpo stesso a regolare la quantità di zuccheri di cui ha bisogno, e tale quantitativo varia da persona a persona a seconda di vari parametri come età, sesso, corporatura, attività fisica e motoria, e così via. 

Ed è risaputo che uno degli errori più comuni, in ambito nutrizionale, è il consumo eccessivo di zuccheri, dolciumi o bevande dolci. Il nostro organismo è una macchina finemente regolata dal punto di vista chimico e purtroppo risente subito degli eccessi nutrizionali e degli squilibri che noi stessi determiniamo, sia con l’alimentazione che con molti altri comportamenti. Ogni assunzione in eccesso o troppo continuativa di sostanze nocive o problematiche (lo zucchero, come l’alcol, è una sostanza problematica) procura un “disagio” e una sorta di intossicazione all’organismo, il quale dovrà poi mettere in atto meccanismi supplementari di aggiustamento, regolazione o smaltimento/detossificazione di tali sostanze. Questo è vero sia che respiriamo ogni giorno la polvere di ferro all’interno di una fabbrica metallurgica, sia che assumiamo zuccheri in eccesso con la nostra dieta quotidiana. Per l’organismo non fa differenza, in entrambi i casi sarà messo in difficoltà e costretto a fare un extra-lavoro per cercare di liberarsi di queste sostanze. Purtroppo dopo un po’ non è più possibile smaltire l’eccesso e si instaurano problemi di salute e vere patologie. 

Serve più consapevolezza ed educazione alimentare 

Nonostante questo, sono tante le persone che ancora mettono lo zucchero nel caffè, mangiano il dolcetto a fine pasto, le brioche a colazione e il cioccolatino prima di andare a dormire la notte. Tutte abitudini (non sane) che si fa fatica ad abbandonare, perché sono state acquisite sin da piccoli. Per questi palati abituati ai cibi dolci, provare a togliere lo zucchero fa sembrare tutto amaro, anche quando non lo è affatto. Le persone che sin da piccole sono state abituate a mangiare cibi dolci e cibo molto salato, gradualmente perdono la capacità di apprezzare e riconoscere gli altri gusti, come quello acido (aspro), piccante, amaro, speziato, ecc. Gradualmente si perdono certi gusti e certe abitudini alimentari, e gradualmente vanno riacquisite, non ci sono scorciatoie o vie di mezzo valide in tal senso. Per cui, le dosi di zucchero vanno diminuite gradualmente, non di colpo. Tentare di farlo bruscamente significa fallire l’obiettivo, in quanto il corpo è ormai assuefatto e “rifiuterebbe” di non ricevere più zucchero da un giorno all’altro. Non gradirebbe e scatenerebbe segnali di tensione emotiva e di fastidio (nervosismo) come mal di testa, ipotermia, stanchezza, malumore, che ci metterebbero a dura prova e porterebbero la maggior parte delle persone a riprendere con le dosi massicce di zucchero come facevano in precedenza. 

Trucchi e strategie per diminuire lo zucchero

Un modo per riacquistare la capacità di apprezzare il sapore amaro per esempio è quello di bere il primo sorso di caffè amaro, poi aggiungere pochissimo zucchero nella tazzina. In questo modo la bevanda apparirà dolce ma in realtà è meno dolce del solito a cui si è abituati. Proseguendo con questa pratica per un certo periodo (solitamente occorrono circa 20 giorni per staccarsi dallo zucchero nel caffè), vi abituerete gradualmente a non usare più lo zucchero nel caffè, e le bevande come la coca-cola vi sembreranno stucchevoli e imbevibili (ricordo che la coca-cola contiene 35g di zucchero per lattina, ovvero 7 cucchiaini di zucchero). La stessa tecnica va applicata anche alle altre bevande calde che di solito siamo abituati a zuccherare, quindi il tè, il latte caldo, la cioccolata in tazza, la camomilla e le tisane. Un’altra tecnica efficace se si vuole passare a bere il caffè senza zucchero è quella di macchiarlo semplicemente con del latte o con una bevanda vegetale come il latte di avena o di riso. In questo modo non sarà infatti amaro e sgradito al palato, ma risulterà cremoso e gradevole, pur sapendo ancora di caffè. 

I mangiatori di dolci

Esiste un vero e proprio problema di dipendenza dai dolci. I mangiatori di dolci, appena si sentono un po’ deboli e giù di tono, ricorrono a caramelle, cioccolatini, merendine, per rialzare i livelli di glicemia. Se queste persone tolgono dalla loro dieta tutti questi dolciumi, si sentono stanchi e depressi, poiché il loro corpo non è più abituato a provvedere da solo a ripristinare il giusto livello di glicemia. In realtà, dopo solo qualche giorno di “astinenza”, il metabolismo si normalizza, la glicemia si stabilizza, l’energia ritorna e la voglia di dolci scompare. Per evitare questo tipo di problemi, la cosa giusta sarebbe avere una dieta molto scarsa in zuccheri fin da bambini. I piccoli che mangiano sano, storcono il naso davanti a dolci con molto zucchero, spesso li sputano letteralmente. É importante quindi per i genitori non abituare i bambini ai dolcetti e allo zucchero, e anche i nonni dovrebbero comprendere che non è cosa buona insistere con i dolciumi con i nipoti, al fine di ingraziarseli (classico comportamento della nonna). Ovviamente, qui tutto dipende dalla preparazione ed educazione alimentare del genitore. Una buona abitudine instillata nei figli sin da piccoli, sarà qualcosa che li accompagnerà e proteggerà per tutta la vita da svariati problemi di salute.

Come comportarsi coi dolci

I dolci sono alimenti problematici per la salute, pertanto da utilizzare con il contagocce. Ma nella pratica molte persone ne fanno invece un uso quotidiano. Sono innanzitutto un cibo artificiale, inventato dall’uomo e non dalla Natura. La Natura fabbrica il miele, al massimo, ma non possiamo considerarlo un “dolce” nel significato che diamo oggi a questa parola. Infatti un dolce si connota comunemente come un mix di farina, zucchero e grassi, mentre il miele è solo composto da zuccheri naturali, vitamine, minerali e persino sostanze antibiotiche.

Già solo per questa premessa, bisognerebbe guardare ai dolci con diffidenza e circospezione. E invece i dolci sono ovunque, in ogni bar, ristorante, supermercato, panetteria, persino in tabaccheria si possono trovare dei dolciumi. Se guardiamo ai programmi in TV su cibo e alimentazione, qual è il piatto che va per la maggiore? Proprio lui, il dessert. I dolci provocano innanzitutto dipendenza, specialmente quelli fatti con farina di grano, zucchero e grassi, in quanto la farina contiene triptofano, un aminoacido che si trasforma nel cervello in serotonina, un ormone che stimola calma e felicità. Ma l’effetto dura poco e appena svanisce il cervello chiede ancora triptofano e serotonina, avviando una dipendenza dal cibo dolce, appunto. É quindi evidente che i dolci – rispetto ad altri alimenti naturali – alterano troppo pesantemente il metabolismo e vanno gestiti accuratamente. Non dimentichiamo anche che i dolci sono l’alimento di elezione per quanto concerne lo zucchero, in quanto solitamente ne sono stracarichi. E questo porta anche alle crisi ipoglicemiche, che spingeranno a cercare altro zucchero in continuazione, provocando il malfunzionamento di pancreas e insulina e alterando anche da questo punto di vista il metabolismo. La soluzione ideale sarebbe “occhio non vede cuore non duole”, cioè quella di non comprarli e non averli davanti tutti i giorni, ma come abbiamo detto è praticamente impossibile evitare i dolci in quanto si trovano ovunque e spesso ne siamo dipendenti fin dalla tenera età.

Per alcuni individui stare alla larga dai dolci è abbastanza semplice, per molti altri invece si tratta di una sfida quasi impossibile. Molte persone usano il dolce come un antistress, quindi faticano a disfarsene e ne abusano quotidianamente. La soluzione non è bandirli del tutto e demonizzarli, ma piuttosto imparare a gestirli razionalmente. Anche perché, a ben vedere le cose, è possibile preparare dei dolci senza lo zucchero, che non danno la compulsione tipica di quelli a base di zucchero. Però solitamente la gente è attratta dai dolci che invece ila compulsione al creano eccome… quelli con creme, panna, zucchero, liquori, cioccolato bianco ecc.

Concedersi senza rimpianto un dolce a settimana potrebbe essere una soluzione praticabile per quasi tutte le persone, tranne coloro che hanno problemi di sovrappeso o disfunzioni metaboliche, i quali dovranno prima provvedere a mettere in ordine il loro metabolismo. Ci sono persone sottopeso, normopeso e magre, e per questi individui mangiare un dolce una volta a settimana non crea particolari problemi a livello metabolico, in quanto solitamente sono individui con un metabolismo geneticamente predisposto alla ossidazione dei carboidrati (in gergo comune si usa dire che “hanno un metabolismo molto attivo”). Ci sono poi gli sportivi, anche per loro nessun problema con un dolce a settimana e forse anche di più. Mangiamo quindi il dolce senza troppi freni mentali, godendo appieno del momento, specialmente se siamo persone che seguono sempre una dieta sana e controllata. Magari scegliamo un dolce ricco di grassi buoni (ad es. un gelato alla nocciola), piuttosto che un dolce ricco di farina e zucchero: si alza di meno la glicemia e ci sazia più a lungo. [di Gianpaolo Usai]

Silvia Turin per corriere.it il 7 gennaio 2023.

Con il mondo occidentale (e parte di quello in via di sviluppo) alle prese con le «epidemie» di obesità e diabete, l’attenzione alle calorie in eccesso che vengono dagli zuccheri aggiunti è fondamentale. Alla ricerca di fonti per dolcificare che siano più salutari, gli scienziati dell’Università canadese di Toronto hanno condotto una revisione di studi incentrata sulle proprietà del miele.

 Lo studio canadese

I benefici dell’alimento che ci donano le api sui fattori di rischio cardiometabolico sono stati valutati attraverso una revisione sistematica e una meta-analisi di studi compresi nei database MEDLINE, Embase e Cochrane Library. I parametri considerati hanno incluso l’effetto dell’assunzione orale di miele su: adiposità, controllo glicemico, lipidi, pressione sanguigna, acido urico, marcatori infiammatori e marcatori di steatosi epatica non alcolica. Sono stati selezionati un totale di 18 studi controllati (fino al 4 gennaio 2021) con una particolarità: erano ricerche in cui i partecipanti seguivano una dieta sana, dove gli zuccheri aggiunti rappresentavano al massimo il 10% dell’apporto calorico giornaliero (la dose consigliata dalle agenzie sanitarie mondiali).

Il quantitativo medio giornaliero di miele era, precisamente, di 40 grammi (circa due cucchiai) per un tempo di assunzione di 8 settimane. La maggior parte delle fonti di miele venivano da più fiori insieme. Il 42% dei partecipanti era sano e di peso misto (tra peso normale, sovrappeso o obesità), il 12% era in sovrappeso, il 21% aveva diabete di tipo 1 o di tipo 2, il 10% era intollerante al glucosio. I partecipanti avevano un’età media di 41,2 anni.

 Effetti benefici

Complessivamente, il miele ha ridotto la glicemia a digiuno, il colesterolo totale e quello cattivo (LDL), i trigliceridi e ha avuto un effetto benefico sul fegato grasso. Inoltre, ha aumentato i livelli colesterolo buono (HDL) e di alcuni marcatori dell’infiammazione. Sono state rilevate differenze significative nei sottogruppi di persone esaminate in base alla fonte floreale e alla lavorazione del miele. In particolare, il miele di acacia, trifoglio e quello grezzo sono stati i migliori per il controllo glicemico e i livelli lipidici, questo perché è stato valutato come il miele perda molte proprietà salutari dopo la pastorizzazione (cottura a 65° per almeno 10 minuti).

Meglio il miele grezzo

Il miele grezzo, infatti, contiene anche batteri probiotici, inclusi i lattobacilli, che hanno dimostrato di migliorare la regolazione del sistema immunitario. «Pertanto, può offrire benefici per la salute non forniti dal miele trasformato, poiché la lavorazione riduce la quantità di questi batteri probiotici», hanno rilevato gli autori. «Confermo – dichiara al Corriere Salute Stefano Erzegovesi, psichiatra e nutrizionista —. Il miele lavorato a temperature alte è più “bello” da vedere, però contiene meno antiossidanti. Le differenze notate nello studio sulle fonti botaniche dei vari tipi di miele invece sono generiche e i dati relativi pochi».

La maggior parte delle agenzie di regolamentazione, tra cui l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) e la Food and Drug Administration (FDA) degli Stati Uniti, includono il miele nella loro definizione di zuccheri liberi o aggiunti. Certamente il miele contiene circa l’80% di zuccheri (la maggior parte dei quali è fruttosio e glucosio), ma non solo: è un composto complesso di zuccheri comuni e rari, proteine, acidi organici e altre sostanze bioattive.

 Gli zuccheri «rari»

I suoi «zuccheri rari» costituiscono circa il 14% del contenuto zuccherino e moderano l’effetto del fruttosio e del glucosio. Hanno mostrato effetti sugli esiti glicemici a breve e a lungo termine. Inoltre, l’isomaltulosio ha dimostrato di agire come prebiotico favorendo la crescita di Lactobacillus acidophillus, Lactococcus lactis e Saccharomyces cerevisae, batteri associati a un microbioma intestinale sano. Il miele è anche ricco di composti fenolici e flavonoidi, che possono moderare gli effetti osservati sul colesterolo totale, LDL-C, HDL-C e trigliceridi a digiuno.

Ha anche una serie di proprietà farmacologiche, inclusi effetti antinfiammatori e antitumorali, un effetto antiobesogenico e protegge dai radicali liberi (che favoriscono l’invecchiamento) e dalle malattie associate. «I risultati non supportano la considerazione da parte dei responsabili politici e di coloro che pubblicano linee guida per designare il miele come zucchero libero, poiché il miele, se assunto con moderazione, può offrire una varietà di benefici per il controllo glicemico e i livelli lipidici», commentano gli autori della revisione.

Quanto consumarne

«Il fatto che il miele sia un buon sostituto dello zucchero bianco non vuol dire che questo ci autorizzi a consumarne di più – specifica l’esperto —. La parola chiave per gli zuccheri semplici è “quantità”: dosi maggiori di quelle raccomandate dall’Oms (quindi, circa 25 grammi al giorno) non sono salutari. Le componenti diverse del miele rispetto allo zucchero bianco (che sono i prebiotici, gli antiossidanti e questi zuccheri rari) funzionano “a soglia”: se ne assumiamo qualche grammo fanno bene, ma non “funzionano meglio” se aumentiamo le quantità. Anzi, più aumentano i grammi assunti, più si riduce l’impatto degli zuccheri rari e sale quello degli zuccheri semplici classici (cioè il glucosio e il fruttosio)».

Qual è il modo ideale per consumare il miele in modo da ottimizzare le sue proprietà? «Un “trucchetto” utile, che si ritrova nelle tradizioni alimentari del mediterraneo e del Medio Oriente, è di associarlo alla frutta a guscio: in questo modo l’impatto glicemico viene “calmierato” dalla presenza dei grassi della frutta secca. Per questo motivo, se volete usare il miele da spalmare sul pane al mattino a colazione, potete unire un cucchiaio di miele e un cucchiaio di crema di frutta a guscio al 100% (ad es. mandorle, nocciole o arachidi)».

La classifica degli zuccheri «migliori»

E rispetto alle fonti usate per dolcificare, se dovessimo fare una classifica, a parità di grammi, quale preferire? «Primo il miele, per quel che si è spiegato, secondo lo zucchero naturalmente presente nella frutta (fresca o essiccata), poi lo zucchero bianco e come ultima scelta i dolcificanti: hanno effetti metabolici negativi sulla flora intestinale ed educano il palato a un sapore troppo dolce. Inoltre, non c’è un solo dato che dimostri l’utilità dei dolcificanti nella perdita di peso».

Bevande zuccherate e succhi di frutta: buoni per il palato, ma per la salute? Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 18 Dicembre 2022

In questo articolo parlerò di uno studio scientifico importante inerente al rapporto tra il consumo di bevande zuccherate e succhi di frutta e lo sviluppo di patologie tumorali. Questo studio è molto recente e per l’importanza che riveste nelle politiche di prevenzione e tutela della salute pubblica ne è stata data notizia anche sul sito tematico della Regione Emilia-Romagna dedicato alla sicurezza alimentare e alla nutrizione.

Il consumo di bevande zuccherate è aumentato di oltre il 40% dal 1990 al 2016. Gli effetti negativi di questi prodotti su cuore e vasi sanguigni sono stati ampiamente studiati e sono oggi ben noti. Queste bevande sono associate a un aumentato rischio di sovrappeso e obesità; una maggiore incidenza di diabete di tipo 2 (indipendentemente dall’adiposità e dalla presenza di sovrappeso); un maggior rischio di ipertensione e decesso per patologie cardiologiche. Nel 2010, il professor Singh e i suoi colleghi hanno stimato che tra tutti i decessi annuali mondiali per diabete e malattie cardiovascolari, circa 178.000 erano attribuibili al consumo di bevande zuccherate. 

Meno noti sono invece gli effetti del consumo di bevande zuccherate sul rischio di cancro. Per approfondire la correlazione tra rischio di cancro e consumo di bevande zuccherate (inclusi i succhi di frutta), alcuni ricercatori di epidemiologia dell’Università di Parigi hanno analizzato i dati di oltre 101.000 persone incluse nella coorte di un grande studio epidemiologico, conosciuto come French NutriNet-Santé (2009-2017). La conclusione a cui sono giunti è che bere troppe bibite zuccherate o succhi di frutta nel corso della giornata è rischioso anche dal punto di vista oncologico. I risultati del loro studio sono stati pubblicati sulla rivista British Medical Journal. 

I risultati dello studio: ridurre il consumo

Con l’obiettivo di trovare eventuali associazioni tra il consumo di bibite zuccherate e il rischio di ammalarsi di tumore, gli studiosi francesi hanno valutato le risposte dei partecipanti a specifici questionari alimentari che includevano anche domande sul consumo di bevande zuccherate e su bevande addolcite con dolcificanti artificiali. Dall’analisi è emerso che ogni aumento di 100 ml al giorno del consumo di bevande zuccherate si associa a un incremento del 18% circa del rischio relativo di sviluppare un tumore. In particolare la possibilità di ammalarsi di cancro del seno aumenterebbe del 22%. “L’associazione con il rischio di sviluppare un tumore in generale è confermata anche per il consumo di succhi contenenti 100 per cento frutta, ma non è stata osservata nel caso di bibite contenenti dolcificanti artificiali, forse per via dei dati troppo scarsi” aggiungono i ricercatori. Secondo le ipotesi degli autori, alla base di questo effetto potrebbero esserci l’aumento di peso causato dalle bevande zuccherate e il loro elevato indice e carico glicemico, senza dimenticare la presenza di additivi potenzialmente pericolosi. “Seppur da confermare in altri studi e in diverse popolazioni, questi dati suggeriscono che la riduzione drastica delle bevande zuccherate potrebbe essere una strategia efficace per la prevenzione dei tumori” concludono Chazelas e colleghi. 

Cos’è il rischio relativo che emerge dagli studi?

Onde evitare letture troppo allarmistiche di questi dati emersi dallo studio, voglio specificare che si parla comunque di un incremento del 18% del rischio relativo di sviluppare un tumore. Il rischio relativo va distinto dal rischio assoluto: il rischio assoluto è identico per qualsiasi individuo e su qualsiasi condizione di salute preesistente, aldilà del fatto che la persona sia sana o obesa, oppure abbia già patologie cardiologiche, il rischio relativo è un dato che va riferito sempre al rischio di partenza che ogni individuo ha e che varia da persona a persona. Mi spiego meglio: se una persona è obesa, questa condizione comporta già un certo rischio di sviluppare una patologia tumorale dal momento che l’obesità di per sé si associa in moltissimi studi al favorire l’insorgenza dei tumori, proprio perché esiste una condizione di infiammazione e fragilità dell’organismo di partenza e strutturale. Pertanto un aumento del 18% di sviluppare un tumore, come emerso dallo studio dei ricercatori francesi, se riferito a un paziente obeso significa che ipotizzando un rischio di base della persona obesa poniamo del 30%, l’aumento del 18% è riferito a quel 30%, cioè parliamo del 18% di 30 quindi il valore assoluto che risulta è 5,4. Questo individuo, consumando bevande zuccherate regolarmente, aumenta del 5,4% il suo rischio di base (già presente) di contrarre un tumore. Lo stesso dicasi per individui fumatori o forti bevitori di alcolici che hanno di base già un elevato rischio di sviluppare tumori. Ma se una persona è sana, non sovrappeso, senza rischi di base particolari per i tumori, poniamo che abbia un rischio di base pari a 0,5% di sviluppo di patologia tumorale, iniziando a bere regolarmente bevande zuccherate il suo rischio relativo del 18% calcolato sullo 0,5 arriva a un aumento netto dello 0,09% di sviluppare tumore. Il suo rischio in termini assoluti è dello 0,09%. Rimane in sostanza un rischio molto basso. 

I succhi 100% frutta hanno fatto parte dello studio

Mi preme sottolineare il fatto che in questo studio sono stati studiati anche i succhi 100% frutta, quelli che tante persone ritengono essere più salutari perché il marketing lo fa credere. Si tratta di succhi ai quali non viene aggiunto lo zucchero o l’acqua, ma che ovviamente contengono già di per sé gli zuccheri della frutta. La tabella 1 che riporto qui sotto, estratta dallo studio pubblicato su British Medical Journal, mostra quali tipi di bevande sono state incluse nello studio: succhi di frutta al 100% (45%), poi bevande zuccherate diverse dai succhi di frutta al 100% (36%) e bevande dolcificate artificialmente (19%).

Conclusioni

In un contesto in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità e molti Stati stanno discutendo l’attuazione di una tassazione sulle bevande zuccherate, i risultati di questo studio osservazionale basato su un’ampia coorte prospettica suggeriscono che un maggiore consumo di bevande zuccherate è associato con il rischio di cancro generale e del cancro al seno nello specifico. Da notare che anche i succhi di frutta al 100% sono stati associati al rischio di cancro in generale in questo studio. Se questi risultati venissero replicati in ulteriori studi prospettici su larga scala, e dato il grande consumo di bevande zuccherate nei paesi occidentali, queste bevande rappresenterebbero un fattore di rischio modificabile per la prevenzione del cancro, al di là del loro consolidato impatto sulla salute cardiovascolare. Pertanto le politiche pubbliche come la tassazione e le restrizioni alla commercializzazione delle bevande zuccherate, che potrebbero potenzialmente contribuire alla riduzione dell’incidenza del cancro, dovrebbero essere utilizzate con maggior vigore nonostante l’opposizione costante delle multinazionali dei produttori e delle lobby ad esse associate, presenti nelle istituzioni europee come il Parlamento europeo. [di Gianpaolo Usai]

I Vermi.

Entomofagi.

I Grilli.

I Vermi.

Ue, via libera al verme della farina: speculano sul grano andato a male? Andrea Cionci su Libero Quotidiano il 16 febbraio 2023

Andrea Cionci. Storico dell'arte, giornalista e scrittore, si occupa di storia, archeologia e religione. Cultore di opera lirica, ideatore del metodo “Mimerito” sperimentato dal Miur e promotore del progetto di risonanza internazionale “Plinio”, è stato reporter dall'Afghanistan e dall'Himalaya. Ha appena pubblicato il romanzo "Eugénie" (Bibliotheka). Ricercatore del bello, del sano e del vero – per quanto scomodi - vive una relazione complicata con l'Italia che ama alla follia sebbene, non di rado, gli spezzi il cuore

Di grano straniero si parla sempre troppo poco: dal problema del glifosato (diserbante) alle micotossine, alle speculazioni su enormi stock, agli standard qualitativo-sanitari troppo bassi, fino ai problemi della sua conservazione, soprattutto durante le lunghe tratte oceaniche sulle navi graniere.

Negli ambienti dei produttori cerealicoli, tuttavia, è emersa un’inquietudine legata al nuovo regolamento della Commissione europea che ha permesso la commercializzazione di alcune specie di insetti edibili, per ora il Tenebrio molitor, verme della farina, e l’Acheta domesticus, il comune grillo. 

 Il sospetto che nutrono diversi addetti ai lavori, tra cui Giuseppe Li Rosi, presidente di Simenza, (l’associazione dei coltivatori di grani antichi siciliani), è che il via libera per l’alimentazione umana al Tenebrione mugnaio, la larva di un coleottero infestante dei cereali, possa consentire la trasformazione in oro di enormi partite di grano andate a male, ormai inutilizzabili perché irrimediabilmente intaccate dall’insetto. Queste, da ora, (tagliate con altre partite di grano buono) potrebbero essere trasformate in farina non solo commestibile e commercializzabile, ma addirittura “arricchita in proteine”.

L’operazione, se ci pensate, sarebbe speculativamente un capolavoro: grano verminoso trasformato in un alimento pregiato da far pagare ai consumatori molto più della farina normale.

Un’ipotesi estrema forse non del tutto realizzabile, secondo l’agronomo Luca Balleri, anche perché una grande quantità di vermi, oltre a conferire un pessimo odore al grano, con la loro umidità ne renderebbero difficile la molitura.

Eppure, ribatte Li Rosi, nei molini esistono dei laboratori chimici in grado di ricostruire le proteine, riequilibrare le vitamine di una partita di grano, ridare colore alla farina, ma anche e sopratutto di eliminare il cattivo odore di una partita di grano che per la troppa umidità è andata in germogliazione.

E’ certamente plausibile, secondo il perito agrario Alessio Guazzini, già membro della commissione europea sul Laveling (etichettatura agroalimentare), che il via libera al Tenebrione potrebbe consentire di abbassare di molto gli standard qualitativi del grano, un po’ secondo quella dicitura che leggiamo spesso sulle etichette: “può contenere tracce di frutta a guscio”. Altra possibilità è che del grano infestato potrebbe essere tagliato con del grano “pulito”.

Intendiamoci: anche nel migliore grano italiano sono tollerate, da un severo test qualitativo, quantità impercettibili di residui entomologici, ma parliamo dello 0,03 per cento su ogni grammo di farina. Nel momento in cui, però, la presenza di un verme, per legge, diventa tollerabile come quella di una nocciola o di una mandorla, capite bene che le percentuali tollerabili potrebbero cambiare, e di molto.

Una cosa è certa: preferite il prodotto nazionale. I grani stranieri, soprattutto quelli provenienti dal continente americano, nord e sud, vengono trasportati con enormi navi cargo dove le uova degli insetti contenute nel grano si schiudono e hanno tutto il tempo di svilupparsi in larve. Di solito si procede a una disinfestazione con un gas chiamato fosfina, molto tossico per l’uomo, che evapora e non lascia traccia, ma non sempre basta.

E’ pur vero che il Tenebrione costituisce un ottimo alimento per la mangimistica: è costituito dal 53% di proteine, dal 28% di grassi e dal 6% di fibre ed è ricco di vitamine essenziali. Polli e pesci lo sanno bene, dato che si nutrono di insetti fin dal quarto giorno della Genesi.

Ma da qui a propinarli all’uomo… I dubbi sono tanti, soprattutto di natura socio-culturale. Gli insetti sono, di fatto, il perfetto cibo mondialista: producibili ovunque da grandi multinazionali, sfruttano i sensi di colpa indotti sul “cambiamento climatico” (furbata retorica che va bene sia col troppo caldo che col troppo freddo). La loro produzione avviene in modo standardizzato, sganciato dal territorio, dalla tradizione e dalla realtà locale. L’aggressione alla cultura e all’identità alimentare, soprattutto italiana, è patente. Che lo sdoganamento dei poco invitanti insetti come cibo offra anche la possibilità di golose speculazioni per pochi ricconi, non sarebbe che la quadratura del cerchio.

Infine, portare l’uomo a nutrirsi di insetti, degradarne simbolicamente la dignità in questo senso, secondo alcuni, fa parte anche di quelle credenze pseudo-spirituali delle élite globaliste che tendono a mettere tutto alla rovescia.

Insomma, il consiglio è: se proprio volete mangiare insetti, lasciate che passino prima attraverso una argentea orata d’acquacoltura o un buon pollastro allevato a terra.

(ANSA il 18 gennaio 2023) - Le larve del verme della farina minore (Alphitobus diaperinus) congelate, in pasta, essiccate e in polvere potranno essere commercializzate in Ue come nuovo alimento dal 26 gennaio. E' l'effetto di un regolamento proposto dalla Commissione europea e approvato dagli Stati membri, pubblicato il 5 gennaio scorso. Con le larve del verme della farina minore sono quatto gli insetti e i loro derivati ad aver ricevuto il via libera come nuovo alimento dall'Unione europea dopo le larve del verme della farina, le locuste e i grilli. La Commissione Ue ha autorizzato la società Ynsect NL B.V. ad immettere nel mercato europeo queste larve.

Entomofagi.

Mangiavamo insetti già dal paleolitico e nel mondo classico erano prelibatezze. Daniela Guaiti su L’Inkiesta il 28 Gennaio 2023.

Un excursus storico sulla presenza di locuste, grilli e larve nell’alimentazione dei secoli passati. Tanto per cambiare, non ci siamo inventati nulla

«Giovanni era vestito di peli di cammello, con una cintura di pelle attorno ai fianchi, si cibava di locuste e miele selvatico». Così si legge nel Vangelo di Marco a proposito del Battista. Un Santo che abbiamo sempre immaginato non solo come un asceta, ma anche un po’ hippie, trasgressivo, proprio per queste sue scelte di vita, e per quella dieta così curiosa. In realtà la sua alimentazione era perfettamente in linea con le prescrizioni bibliche, era esattamente quella di un ebreo osservante. Nel Levitico, infatti, insieme ad altre norme che regolavano la vita quotidiana, si legge: «Sarà per voi in abominio anche ogni insetto alato, che cammina su quattro piedi. Però fra tutti gli insetti alati che camminano su quattro piedi, potrete mangiare quelli che hanno due zampe sopra i piedi, per saltare sulla terra. Perciò potrete mangiare i seguenti: ogni specie di cavalletta, ogni specie di locusta, ogni specie di acrìdi e ogni specie di grillo. Ogni altro insetto alato che ha quattro piedi lo terrete in abominio!». Bisogna però tenere presente che all’epoca del Battista le locuste erano considerate un cibo da penitenti, quindi sicuramente non una leccornia.

La presenza degli insetti nell’alimentazione umana è però ancora più antica: sicuramente nel Paleolitico i nostri progenitori non disdegnavano larve e altre creature per noi poco appetitose, ma quando nel Neolitico (a partire cioè dal 10.000 a.C.) l’agricoltura e l’allevamento fecero la loro comparsa nell’economia umana, lentamente l’entomofagia andò scomparendo. Ma non si perse completamente, anche se nell’antichità classica divenne una pratica rara e considerata curiosa. Erodoto, grande storico e geografo, nel quinto secolo racconta come i Nasamoni, abitanti di terre che corrispondono all’attuale Libia, «danno la caccia alle locuste e, disseccatele al sole, le pestano e poi le bevono gettandovi sopra latte».

Più tardi, nel primo secolo a.C., il geografo Strabone racconta di come in Africa alcune popolazioni vivessero di cavallette, «cacciate in quei luoghi dal forte soffiare dei venti di primavera e di settentrione. Per prenderle gettano nei burroni dei tipi di legna che bruciando fanno molto fumo e vi appiccano sotto il fuoco: le cavallette sorvolando quei burroni cadono acciecate dal fumo; ed essi allora le pestano con farina e ne fanno una specie di polenta della quale si nutrono». Per i Greci dell’antichità gli insetti erano qualcosa di esotico e curioso, oggetto di racconti al limite del fantastico. Ma non per tutti: secondo Aristofane nella civilissima Atene del quarto secolo i più poveri potevano acquistare al mercato «gallinacei con quattro ali», che secondo gli studiosi non erano che cavallette, vendute a basso prezzo. Aristotele, alla sua maniera, ne dà una descrizione scientifica, che rende ragione del sapore di questi insetti: «La larva della cicala se dovesse raggiungere la naturale grandezza sul terreno diventa una ninfa; allora ha un sapore migliore, prima che il guscio sia rotto. All’inizio i maschi sono più buoni da mangiare, ma le femmine, dopo aver copulato, sono ancora più buone perché sono piene di uova bianche». Questione di gusti, certo, ma non solo: allora come oggi l’opportunità di consumare insetti era oggetto di dibattito, tanto che Plutarco condanna chi mangia le cicale, che riteneva sacre per il loro bel canto, e che invece Ateneo di Naucrati considerava una prelibatezza.

E a Roma? Ancora nel primo secolo dopo Cristo, Plinio il Vecchio racconta come le locuste venissero cacciate e mangiate dai Parti e come molti insetti entrassero nell’alimentazione di alcuni popoli africani, mentre nella Capitale erano apprezzate le larve di un grosso insetto (cassus veniva chiamato), ingrassate con farina e vino. Ma i riferimenti all’uso degli insetti come cibo sono ormai rarissimi: se ne trovano tracce qua e là, come in Eliano, autore del terzo secolo che non ha parole lusinghiere nei confronti del consumo di cavallette.  L’abitudine di mangiare insetti, almeno in Europa, sembrava scomparsa. Ma nella storia, si sa, niente è per sempre.

Estratto dell'articolo di Franco Stefanoni per corriere.it il 27 marzo 2023.

Che cos’è la destra, che cos’è la sinistra. La cantava Giorgio Gaber, ma ora anche Alessia Ambrosi, 40 anni, veronese, bancaria, ex leghista a Trento poi passata con FdI e ora deputata, è intervenuta sul tema finendo sotto i riflettori per una frase che ha sollevato polemiche.

 «Ho dato il mio modesto contributo, da donna schierata», dice adesso. Via Twitter aveva infatti scritto: «Tipi di destra: amanti delle tradizioni, del buon cibo, di un calice di vino italiano, di decoro, ordine e sicurezza. Tipi di sinistra: adoratori di farine di insetti (prodotti recentemente regolati dal governo, ndr), imbrattatori di monumenti, fans di droghe libere e occupazioni abusive. Ecco perché sono una tipa di destra!».

La considerazione di partenza?

« Dopo la vittoria della Schlein, infatti, la destra non si trova più a fronteggiare il vecchio Pd ma un partito della sinistra preda di una deriva un po’ gruppettara, un po’ “sardiniana”, che professa un ambientalismo classista che parla quasi solo di auto e case green, del tutto incurante del fatto che la stragrande parte degli italiani queste cose non solo non può permettersele, ma nemmeno immaginarsele».

 Insomma il Pd precedente era meglio.

«Era orribilmente noioso, ma almeno più ragionevole».

A una persona di sinistra non può piacere il buon vino italiano o il decoro?

«[…] con la Schlein  […] si registra una inquietante propensione verso l’estremismo gastronomico politically correct».

 Cioè?

«Parliamoci chiaro: è gente che sogna di far colazione col porridge di cavallette».

Cosa prevede la normativa sulle farine d’insetti approvata dall’Italia. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 24 marzo 2023.

È notizia degli ultimi giorni che il governo italiano abbia attuato una stretta sulle farine di insetti attraverso la pubblicazione di 4 decreti legge congiunti tra il Ministero della Salute, quello dell’Agricoltura e Sovranità alimentare e quello delle Imprese e del Made in Italy. I provvedimenti, che hanno visto l’intesa il 22 Marzo 2023 in Conferenza Stato-Regioni, contengono specifiche indicazioni da riportare in etichetta per tutti i prodotti e preparati destinati al consumo umano ottenuti tramite l’utilizzo di Acheta domesticus (grillo domestico), larva di Tenebrio molitor (larva gialla della farina), larva di Alphitobius diaperinus (verme della farina minore) e Locusta migratoria, ovvero tutti e 4 gli alimenti a base di insetti autorizzati in commercio ad oggi nell’Unione Europea.

Questo articolo spiega cosa comporterà tecnicamente la direttiva italiana per i consumatori, mentre il tema delle reali qualità e problematiche degli insetti come alimento lo abbiamo già affrontato in un articolo intitolato L’UE continua ad approvare insetti commestibili, ma cosa dicono gli studi? al quale vi rimandiamo in caso di dubbi.

«Il nostro obiettivo è dare informazioni chiare e rafforzare la capacità di discernimento delle persone rispetto al tema fondamentale dell’alimentazione. Non considero gli insetti in concorrenza con i cibi della dieta mediterranea, ma ritengo fondamentale evitare che i prodotti del made in Italy siano confusi con queste farine. Per questo occorre una etichettatura specifica su questi prodotti», ha commentato il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida. Il ministro ha aggiunto che occorre dare informazioni chiare sulle confezioni di tutti questi prodotti, inclusa la loro esposizione al pubblico in scomparti ben identificabili e in scaffalature dedicate, di modo che chi non gradisce utilizzarli possa tenersene lontano.

«Alla base dei provvedimenti firmati vi è il principio della trasparenza su cui si fonda la capacità di scelta dei consumatori, che devono sapere come un prodotto è stato realizzato, da dove proviene e con cosa è fatto, per esser liberi di utilizzarlo o meno», ha confermato il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso.

«Vigileremo con i Nas sia per quanto riguarda il divieto dell’utilizzo di farine di insetti in alimenti tipici della dieta mediterranea come pizza e pasta, sia per quanto riguarda la conformità dell’etichettatura dei prodotti che li contengono e che dovrà esser visibile e chiara. Chi acquista questi prodotti a base di farine di insetti deve e sapere che c’è un rischio di allergia anche se adesso non sappiamo quantificare quanto nello specifico», ha detto il ministro della Salute, Orazio Schillaci, durante la conferenza. Da queste parole emerge l’intenzione del governo italiano di vietare l’impiego di insetti nella produzione di pasta e pizza. Tale volontà è in contrasto, almeno per il momento, con i regolamenti UE di approvazione, che ne prevedono l’impiego anche in prodotti come la pasta. Resta da capire se la posizione italiana prevarrà o meno su quella europea, e lo scopriremo solo nei prossimi mesi. Va tenuto conto, infatti, che per l’entrata in vigore i decreti dovranno ricevere il via libera della Commissione UE, che ha 90 giorni per dare il suo ok. Quindi al momento il governo italiano ha fatto la sua mossa, ma non è detto che la partita si chiuderà così.

Ipotesi di etichettatura in Italia

Durante la conferenza stampa il ministero dell’Agricoltura, di concerto con gli altri due ministeri coinvolti, ha illustrato una possibile soluzione di etichettatura per i prodotti contenenti insetti o derivati dalla lavorazione degli stessi. L’ipotesi prevede una dicitura sulla confezione del prodotto di questo tipo: “Il prodotto contiene Acheta Domesticus (Grillo domestico) essiccato/in polvere. Tale ingrediente può provocare reazioni allergiche. Paese di Origine: XXXXXX”

Si tratta di un buon inizio per quanto riguarda la trasparenza nei confronti dei consumatori, in quanto tale dicitura è già sufficiente a far capire la natura dell’alimento, senza ambiguità o elementi fuorvianti. Questa ipotesi di etichettatura riguarderà probabilmente la confezione nel suo insieme, ma non è detto che questi messaggi saranno collocati tutti assieme nello stesso angolo della confezione. Potrebbero essere separati e sparpagliati qua e là, con caratteri e grandezza differenti, e questo complicherebbe un po’ il lavoro dell’acquirente a caccia di tutte le informazioni. Ad esempio “grillo domestico” potrebbe essere indicato chiaramente nella lista degli ingredienti, ma non sul lato frontale della confezione, oppure l’avvertimento sulle reazioni allergiche apposto in caratteri minuscoli solo nel retro in un angolo del sacchetto, e così via. Sarebbe invece auspicabile un riquadro univoco ben presente già sulla parte frontale del prodotto, dove tutte queste indicazioni siano riunite assieme. 

Criticità a parte, va annotato come i ministri italiani stiano facendo uno sforzo per aiutare il consumatore verso una scelta chiara sui cibi a base di insetti, specialmente per l’intenzione di aggiungere anche la provenienza della materia prima contenente insetti, cioè il Paese di Origine. Questa indicazione infatti non è prevista come obbligatoria dai regolamenti UE di approvazione di questi cibi, ma è soltanto facoltativa e a discrezione dell’azienda produttrice. Il governo italiano sembra che voglia che questo dato sia invece sempre presente, forse anche al fine di poter identificare in maniera chiara i prodotti italiani rispetto a quelli UE e Non-UE, come già oggi accade per altri alimenti come la pasta, l’olio, o le passate di pomodoro. 

Aldilà di questo ci sarebbe da garantire anche una completa tutela dei consumatori riguardo i procedimenti di produzione di questi novel food, nel senso di una maggiore trasparenza che ancora manca. Dal Ministero della Salute, per esempio, su tutte le condizioni igienico-sanitarie operanti all’interno delle fabbriche e stabilimenti produttivi degli insetti, dal momento che l’allevamento e la trasformazione in polvere o l’essiccazione avvengono oggi quasi esclusivamente in Paesi extra-UE, dove le norme igienico-sanitarie vigenti sono differenti e meno stringenti rispetto a quelle dei Paesi dell’Unione. Sarebbe molto importante, anche in favore dei consumatori che decidessero di mangiare questi novel food, avere chiaro accesso alle informazioni sulle procedure di produzione (nome dell’azienda di allevamento, non soltanto il Paese di origine, procedure di allevamento e di soppressione degli insetti a fine allevamento, ecc.)

Diatriba sulla denominazione: non farina bensì polvere

Infine va segnalato che da più parti in Italia si levano obiezioni e proteste riguardo la scelta della denominazione esatta dei prodotti a base di insetti, fatta dalle autorità europee. La UE infatti parla di farina di insetti, ma varie associazioni di produttori alimentari, specialmente del settore della pasta e della pizza, fanno notare che sarebbe più opportuno usare la dicitura “polvere sgrassata di insetto” al posto di “farina”. La farina sarebbe, secondo questi oppositori, solo il prodotto della macinatura del grano e di altri cereali, e avrebbe una nobiltà e una tradizione che è lunga di secoli, rispetto al suo equivalente a base di insetti. Certo, non ci sono molti appigli tecnici dato che anche l’essiccazione e macinatura degli insetti porta alla fine all’ottenimento di una farina, ma credo anch’io che sarebbe utile differenziare anche con due termini distinti i due derivati, al fine di dare al consumatore un ulteriore elemento di discriminazione e unicità, proprio perché a livello nutrizionale comunque le due cose sono molto diverse, allo stesso modo in cui accade con le bevande vegetali, che per legge non possono essere denominate come “latte” sulle confezioni. Il governo italiano su questa differenziazione sembra abbia abbracciato la via della denominazione “polvere” anziché “farina”, perché nei 4 decreti appena preparati e spediti alla Commissione UE ha utilizzato proprio tale espressione. Vedremo come andrà a finire negli sviluppi.  [di Gianpaolo Usai]

Estratto dell’articolo di Claudia Osmetti per “Libero quotidiano” il 20 Gennaio 2023.

[…] Gli insetti a tavola? Ma per carità. Il 54% degli italiani è totalmente contrario (ma vuoi mettere una fiorentina alla brace o, per andare sul semplice, due spaghetti aglio e olio?); il 24% si dice indifferente e solamente il 16% quasi quasi una forchettata di prova gliela dà pure. Ché non si sa mai. (Per completare la casista manca il 6% degli intervistati, ma loro sono quelli che manco hanno risposto).

L’indagine l’ha fatta l’istituto Ixè ma è targata Coldiretti, l’associazione che rappresenta gli agricoltori italiani: e vai a spiegarglielo, adesso, all’Unione europea che sta pure ampliando il catalogo (pardon, il menù) dell’alimentazione che ci aspetta. Vaglielo a ricordare, a Bruxelles, che qui, a Roma a Milano a Napoli, le locuste al forno non le vorrà ordinare nessuno. […]

Tuttavia la commercializzazione degli insetti a scopo alimentare, nel Vecchio continente, è stata possibile grazie al regolamento “Novel Food”: correva l’anno 2018, il Covid manco lo avevamo mai sentito nominare e a dare manforte alla misura ci si era messa anche l’Efsa (al secolo l’Autorità alimentare europea) che ha detto “sì”, come in quella popolare pubblicità degli anni Ottanta. Insomma, ha espresso la sua autorizzazione: seppur ricordando che chi è già allergico ai crostacei o agli acari della polvere sarebbe meglio stia lontano dalla farina di cavallette che potrebbe causar loro qualche reazione non troppo indicata.

 D’accordo, ma poi, nella pratica quali sono questi prodotti che potremmo trovare al mercato nel “banco insetti”? I vermi gialli della farina, i grilli domestici e le locuste migratorie: più la new-entry fresca fresca di approvazione, arrivata ieri, la larva della farina minore (che scientificamente si chiama Alphitobius diaperinus), congelata, in pasta, essiccata e pure in polvere, la quale sarà disponibile da giovedì prossimo 26 gennaio. […]

I Grilli.

L’Unione Europea ha approvato la polvere di grillo come alimento. Iris Paganessi su L'Indipendente il 5 Gennaio 2023.

Dal 24 gennaio si potranno trovare alimenti contenenti polvere di grillo domestico in tutti i supermercati dell’Unione Europea, Italia inclusa. Lo ha stabilito la Commissione europea, inserendo la “polvere parzialmente sgrassata di grillo domestico” nell’elenco dei nuovi alimenti approvati nell’Unione e permettendone l’immissione sul mercato unico.

L’autorizzazione, firmata da Ursula von der Leyen, è stata pubblicata ieri sulla Gazzetta ufficiale dell’Ue: dal 24 gennaio la società Cricket One Co. Ltd (che aveva presentato la domanda) sarà l’unica a poter commercializzare la polvere di grillo per i prossimi 5 anni; “salvo nel caso in cui un richiedente successivo ottenga un’autorizzazione per tale nuovo alimento senza riferimento ai dati scientifici protetti a norma dell’articolo 3 o con il consenso di Cricket One Co. Ltd”.

Il nuovo alimento è costituito dalla polvere parzialmente sgrassata del grillo domestico (Acheta domesticus) intero, ottenuta mediante una serie di fasi: digiuno di 24 ore degli insetti per consentire lo svuotamento intestinale, il congelamento degli insetti e la loro conseguente uccisione, lavaggio e trattamento termico, essiccazione, estrazione dell’olio e macinazione.

Nel parere scientifico chiesto dalla Commissione Ue all’European Food Safety Authority (EFSA), l’Autorità “ha concluso che la polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus è sicura alle condizioni e ai livelli d’uso proposti. La farina di grillo potrà quindi essere utilizzata durante la produzione di “pane e panini multicereali, cracker e grissini, barrette ai cereali, premiscele per prodotti da forno (secche), biscotti, prodotti a base di pasta, salse, prodotti trasformati a base di patate, siero di latte in polvere, prodotti sostitutivi della carne, minestre concentrate o in polvere, snack a base di farina di granturco, bevande tipo birra, prodotti a base di cioccolato, frutta a guscio e semi oleosi, snack diversi dalle patatine, preparati a base di carne” e in molte altre tipologie di alimenti elencati nel documento di approvazione. Le etichette dei prodotti che la contengono dovranno riportare la dicitura “polvere parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico)”.

Così, dopo il primo via libera dell’Ue all’utilizzo delle tarme della farina nel settore alimentare, ecco un altro insetto edibile sul mercato europeo. [di Iris Paganessi]

Estratto dell’articolo di tg24.sky.it il 24 gennaio 2023.

 Da oggi, 24 gennaio, si può comprare nell’Unione Europea la farina parzialmente sgrassata di Acheta domesticus (grillo domestico). Prosegue la liberalizzazione da parte dell’Ue alla vendita di prodotti derivati da insetti. Il 26 gennaio entrerà anche in vigore il regolamento che autorizza la commercializzazione delle larve di Alphitobius diaperinus (verme della farina minore) congelate, in pasta, essiccate e in polvere

[…]  Tra gli altri nuovi cibi ammessi alla vendita nell’Ue ci sono anche: i grilli in polvere, congelati, in pasta ed essiccati, con l’ok alla commercializzazione arrivato nel marzo 2022; nelle stesse forme, da fine 2021, si vende la locusta migratoria; da marzo 2022 luce verde per la larva gialla della farina

 L'elenco degli insetti che potrebbero finire sulle nostre tavole sembra essere destinato ad allungarsi: ci sono ben altre otto domande in lista d'attesa. In tutti i casi elencati, le norme Ue includono requisiti specifici di etichettatura per quanto riguarda l'allergenicità poiché le proteine da insetti possono causare reazioni soprattutto nei soggetti già allergici a crostacei, acari della polvere e, in alcuni casi, ai molluschi. […]

È stata scoperta una maxi frode sul cibo biologico. Stefano Baudino su L'Indipendente il 4 marzo 2023.

La Guardia di Finanza di Caserta e gli uomini dell’Ispettorato centrale repressione frodi hanno eseguito 7 misure cautelari, emesse dal Gip del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere su richiesta della Procura, a carico di 7 soggetti accusati di associazione a delinquere finalizzata al falso ideologico e di frode in commercio aggravata. Gli indagati – ora interdetti per dodici mesi dall’esercizio dell’attività imprenditoriale e sottoposti a divieto di dimora nel casertano – avrebbero infatti commercializzato tra il 2016 e il 2022 enormi quantitativi di prodotti agroalimentari dichiarati falsamente come biologici.

Cinque tra le persone sottoposte a misura cautelare, sottolinea una nota della Procura, occupano i vertici “di importanti aziende operanti nel commercio di prodotti da agricoltura biologica”. Gli inquirenti hanno appurato un complicato e ramificato sistema di frode che avrebbe trovato il suo perno nell’attività di tre imprenditori: uno di Caserta, titolare di due imprese di trasformazione e di un’impresa agricola specializzata nella produzione ortofrutticola di agricoltura biologica; un altro di Catania, titolare di un’azienda di importazione-esportazione di frutta secca; un terzo, che operava nel cuneese, a capo di un’impresa di peso inserita nell’import-export di conserve di pomodoro e frutta secca. Secondo il pubblico ministero, gli indagati avrebbero commercializzato prodotti fatti passare per “biologici” che, in realtà, erano importati da paesi esteri (le mandorle, ad esempio, arrivavano dalla California), attraverso la compiacenza di aziende laziali, pugliesi e calabresi che hanno fornito false fatture per giustificare gli acquisti.

Gli inquirenti stanno effettuando perquisizioni e sequestri nei confronti delle persone indagate e di otto imprese al fine di ricercare ulteriori elementi utili e di accertare l’effettivo volume dei prodotti irregolari fatti circolare sul mercato. Al contempo, l’autorità giudiziaria ha disposto l’acquisizione di documenti nei laboratori che hanno svolto le analisi sui prodotti per conto delle aziende, presso un istituto bancario e alla Consob. L’obiettivo degli investigatori è infatti quello di chiarire la natura di alcuni capitali di cui gli indagati avrebbero usufruito per finanziare le loro operazioni commerciali illecite.

Se confermata, l’inchiesta può consentire di fare pulizia in comparti agroalimentari tipici del Made in Italy come le conserve a base di pomodoro e le mandorle – ha comunicato in una nota FederBio -. Da anni siamo parte attiva nel segnalare alle Autorità competenti situazioni a rischio frode, in particolare in alcuni comparti e territori critici come quelli che sono stati oggetto delle indagini da parte della Procura di Santa Maria Capua Vetere. La Federazione propone, inoltre, soluzioni concrete per migliorare il sistema dei controlli che integrano le moderne tecnologie digitali per garantire un monitoraggio, preciso e in tempo reale, delle tecniche di produzione e una vera tracciabilità anche nel caso di filiere complesse”. [di Stefano Baudino]

Estratto dell'articolo di repubblica.it il 2 Agosto 2023 

Una influencer vegana è morta dopo essere passata a una dieta vegana-crudista che includeva quasi unicamente semi, succhi e frutta esotica. 

Zhanna Samsonova, cittadina russa, aveva 39 anni e un seguito di milioni di follower sui social media. […] Si trovava in Thailandia quando è deceduta lo scorso 21 luglio dopo aver cercato cure mediche nelle strutture locali. 

La sua causa ufficiale di morte non è stata dichiarata, ma i famigliari hanno confidato ai media il sospetto che si sia trattato di una "infezione simile al colera". La sua famiglia è in attesa dei referti medici definitivi e del certificato che stabilirà la causa del decesso. 

Samsonova seguiva una dieta vegana interamente cruda per almeno quattro anni ed è sopravvissuta solo con "frutta, germogli di semi di girasole, frullati di frutta e succhi".

"Qualche mese fa, in Sri Lanka, sembrava già esausta", ha confessato a Newsflash un amico. Da lì "era tornata a casa per farsi curare, ma poi era scappata di nuovo. Quando l'ho vista di nuovo, sono rimasto inorridito", ha aggiunto. 

"Vivevo un piano sopra di lei - riferisce un'altra giovane - e ogni giorno avevo paura di trovare il suo corpo senza vita al mattino. L'ho convinta a farsi curare, ma non ce l'ha fatta”.

DAGONEWS il 2 Agosto 2023 

Zhanna Samsonova, l’influencer vegana 39enne morta in Thailandia, aveva scritto un agghiacciante post sui social, appena pochi giorni prima di morire. La madre sostiene che la figlia sia morta per un’infezione simile al colera. Ma per gli amici è morta di fame dopo che da anni era diventata crudista e si limitava ad alimentarsi solo con frutta, verdura, germogli e succhi. Da tempo l’avevano invitata a farsi curare, ma lei aveva rifiutato i loro consigli per continuare a nutrirsi con poco o nulla. 

A rendere la storia ancora più angosciante è uno degli ultimi post di Samsonova in cui sosteneva appena pochi giorni prima di morire: "La vita non ha senso ma vale la pena di essere vissuta a patto di riconoscere che non ha senso".

La ragazza si sottoponeva anche a giornate intere di digiuno in cui non beveva nemmeno acqua. Quando si è ammalata di covid, dopo aver ignorato tutte le precauzioni per evitare il contagio, ha raccontato di essersi “curata” con 10 giorni di digiuno totale.

Chi è e come è morta Zhanna Samsonova, l’influencer vegana e crudista. La notizia che ha sconvolto i fan, si era ammalata e vi sono accertamenti in corso. Andrea Aversa su L'Unità l'1 Agosto 2023

Zhanna Samsonova, influencer russa vegana e crudista, sarebbe morta il 21 luglio di inedia all’età di 39 anni. Lo riporta il Daily Mail. Samsonova viveva in Malesia. Da 17 anni viaggiava in Asia e da dieci seguiva una dieta crudista a base vegetale che consisteva in frutta, germogli di semi di girasole, frullati. In alcuni periodi la 39enne praticava anche il “digiuno secco”, in cui si rifiutava di mangiare o bere qualsiasi cosa per giorni.

Chi è e come è morta l’influencer Zhanna Samsonova

Da più di sei anni sembra che avesse smesso di bere acqua, sostituendola con succhi di frutta. Conosciuta sui social col nome di Zhanna D’Art, l’influencer vantava milioni di follower tra TikTok, Facebook e Instagram, dove promuoveva la sua filosofia alimentare e pubblicava ricette vegan. Dopo aver preso un’infezione simile al colera si sarebbe aggravata a causa della sua alimentazione estremamente restrittiva, come dichiarato dalla madre.

Tuttavia, la causa ufficiale della morte non è ancora stata determinata. Ora la famiglia sta cercando di riportare il corpo in Russia. “Qualche mese fa, in Sri Lanka, sembrava già esausta –  ha raccontato un amico a Newsflash – L’hanno rimandata a casa per farsi curare ma era scappata di nuovo“. Zhanna aveva scritto tempo fa sui social: “Vedo la mia mente e il mio corpo trasformarsi ogni giorno. Amo la nuova me, non tornerò mai indietro alle vecchie abitudini“. Andrea Aversa 1 Agosto 2023

 Educazione alimentare. Così gli influencer sponsorizzano sui social il cibo spazzatura. Il marketing alimentare può influenzare i nostri ragazzi in vario modo. Servirebbe un codice etico di comportamento da parte delle celebrità. Fabrizio Angelini su Il Riformista il 2 Agosto 2023 

Sono 3 milioni e 200 mila gli italiani che soffrono di disturbi del comportamento alimentare, ovvero il 5% della popolazione. Il 90% di questi cittadini sono donne, ma i maschi sono in netto aumento. Il dato sicuramente più preoccupante, tuttavia, è la manifestazione sempre più precoce della patologia: oggi i primi episodi registrati si manifestano alla giovanissima età di 8/9 anni.

L’Ospedale Pediatrico Bambin Gesù ha diffuso dei dati allarmanti nel marzo scorso, in occasione della Giornata Nazionale del Fiocchetto Lilla, dedicata a chi soffre di queste patologie: negli ultimi due anni (2021-2022) gli accessi al pronto soccorso sono raddoppiati (+96,8%) rispetto al biennio precedente (2019-2020). I ricoveri ordinari sono invece passati dai 362 del 2019-2020 ai 565 del 2021-2022 (+56%). In aumento anche i day hospital che sono passati da 1.062 a 1320 (+24.3%).

Importante è anche l’aumento dei maschi: si è passati dai dati di cinque anni fa dove rappresentavano l’1% al 20% del 2022: provare a dire che pandemia e lockdown non abbiano influito sui nostri ragazzi diventa cosa davvero difficile davanti a questi numeri.

Quella che racconta il Bambin Gesù nel suo resoconto dettagliato è la fotografia di ciò che emerge anche dai principali nosocomi italiani e da molte strutture residenziali per DCA che vedono le richieste e le liste di attesa aumentare a dismisura. Ogni istante perso – che con queste liste di attesa rischia di essere una enormità – a chi sta lottando contro i disturbi del comportamento alimentare e alle loro famiglie, costa caro. A confermare quanto detto sopra, ci sono i numeri impietosi del Ministero della Salute estratti da un incrocio di dati sanitari e ospedalieri: nel 2019 i casi registrati erano stati 680.569, nel 2022 1.450.567.

Nell’ambito delle patologie psichiatriche, i disturbi del comportamento alimentare rappresentano il più alto indice di mortalità; secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità sono la seconda causa di morte per le ragazze nella fascia di età tra i 12 e i 25 anni. Il dato Rencam (Registro nominativo cause morte) del 2022 rilevava in Italia complessivamente 3.158 decessi con diagnosi correlate a queste patologie con un’età media di 35 anni che significa, tragicamente, molti decessi sotto i 25 anni.

Questi dati sono in difetto perché tutti gli esperti sono concordi nell’affermare che esistono molti “invisibili”, che non chiedono aiuto perché non si rendono conto del problema, oppure lo sottovalutano (spesso, troppo spesso!) e addirittura non sanno a chi chiedere aiuto.

Anche in questo i dati italiani non sono molto incoraggianti: esistono 126 centri specializzati di cui 63 nelle regioni del nord. È chiaro, quindi, comprendere i motivi per cui in Italia nascono sempre più associazioni come Volo Oltre, una Organizzazione di Volontariato (OdV) di Cesena che fornisce sostegno ai familiari e amici di persone affette dai Disturbi del Comportamento Alimentare come anoressia, bulimia, binge, altri non specifici, e sensibilizza la popolazione del nostro territorio su una delle epidemie del nostro tempo. Volo Oltre, come altre associazioni che svolgono le medesime attività, ha un ruolo importante perché fa cultura e ne parla, facendo in modo che genitori e ragazzi possano stare in allerta, mantenendo alta l’attenzione. Incontri con specialisti nel settore, gruppi di auto-mutuo-aiuto, reti di relazioni e scambi con le istituzioni del territorio. Il lavoro di prevenzione che svolge Volo Oltre nelle scuole è fondamentale perché coinvolge docenti e ragazzi. Senza dimenticare l’attività di indirizzo e informazione sui centri di cura e assistenza, aiuto e supporto psicologico attraverso operatori qualificati, oltre la condivisione di esperienze e di progettazione di interventi utili a diffondere conoscenze sui DCA.

Bisogna parlarne, e non sottovalutare mai il problema. Gli esperti provano a spiegare le cause di questo triste boom nello smodato uso dei social network che diffondono e instillano nei più giovani un’ideale di bellezza quasi irraggiungibile insieme ad app e siti che sponsorizzano presunti “metodi” e “diete” infallibili. Serve educare a un rapporto sano col cibo e, laddove necessario, ricorrere a dei professionisti preparati che possono dare tutti i consigli del caso anche ai più giovani. Il punto vero, però, è agire senza se e senza ma davanti alle prime manifestazioni di questo disagio che, spesso, cela un malessere più profondo nei ragazzi. Un malessere che è da ricercare e da far ricercare insieme a professionisti del settore perché si è davanti ad un percorso che mette a dura prova, spesso, tutta la famiglia. Serve pertanto ricorrere a una multidisciplinarietà di approccio. Parlatene ragazzi, e parliamone tutti noi adulti ciascuno secondo il suo ruolo, perché sono proprio la prevenzione e la precocità nell’individuazione del fenomeno a tracciare la strada per una risoluzione positiva ed efficace della malattia. Fabrizio Angelini

Cosa significa essere vegani: il perché della scelta, cosa si può fare e cosa no. Beatrice Montini su Il Corriere della Sera il 7 Febbraio 2023.

Una scelta etica che non è solo alimentare ma che riguarda ogni aspetto della propria esistenza. E che ormai può essere alla portata di tutti

Essere vegan non è una scelta solo alimentare. Anzi. Essere vegani vuol dire — prima di tutto — cercare di escludere, da ogni aspetto della vita quotidiana, tutto quello che «deriva» dagli animali e può in qualche modo danneggiarli. Ecco perché – secondo questa filosofia – va evitato ogni tipo di sfruttamento nei loro confronti, che si tratti di produzione di cibo, abbigliamento o divertimento.

Venendo agli esempi concreti, per quanto riguarda il cibo: niente carne e pesce ma anche latte, latticini, formaggi, uova, miele. Quello che si sceglie di seguire è invece un’alimentazione 100% vegetale che comprende legumi, cereali, verdure. A differenza però di chi ha un’allergia ad un determinato alimento — come ad esempio la ragazza morta a Milano perché allergica al latte — chi sceglie un’alimentazione vegetale per etica può benissimo consumare alimenti che presentino «tracce» di alimenti animali (ad esempio i latticini) perché quelle tracce significano semplicemente che quel cibo è stato prodotto in uno stabilimento in cui può essere stato contaminato ma che non che contiene l’alimento animale.

Ma il veganismo, come scelta di totale rispetto degli animali, riguarda anche gli altri aspetti della quotidianità che non riguardano il cibo e per questo alcuni preferiscono definire «vegetaliani» e non vegani coloro che si limitano alla scelta alimentare 100% vegetale. Nell’abbigliamento, ad esempio, vivere vegan significa evitare le fibre non vegetali (come lana e seta e ovviamente cuoio, pelle, pellicce) scegliendo tutte le altre, sia naturali (cotone, lino, canapa, soia, velluto) che sintetiche (acrilici e simili).

Dire no allo sfruttamento animale, nella filosofia cosiddetta «cruelty free» (cioè senza violenza) significa anche escludere, ad esempio, feste di paese che prevedano gare, corse, giochi con animali. Un esempio su tutti: il Palio di Siena. Ma anche dire no a zoo e parchi acquatici.

Infine la scelta vegetale e senza crudeltà vale anche nella cura della persona: quindi ok a cosmetici (ma anche saponi, detersivi etc) senza derivati animali ma anche che non siano stati sperimentati sugli animali.

Mentre fino a una decina di anni fa (ma forse anche meno) seguire questo stile di vita era abbastanza complicato, adesso il mercato si è estremamente sviluppato: nei supermercati e nella grande distribuzione si trovano senza difficoltà i cosiddetti sostituti della carne e dei latticini. Ma anche la moda e l’abbigliamento si stanno sempre più orientando verso capi ecologici e senza crudeltà.

Dieta ovo-vegetariana: come funziona e perché è un buon modello alimentare. su L’Indipendente il 15 Febbraio 2023.

Un certo numero di persone nel mondo segue diete e modelli alimentari di tipo vegetariano e lo fa per motivi di varia natura: di salute, ambientale, motivi economici o anche religiosi. Esistono svariati tipi di diete vegetariane, tra cui quella definita ovo-vegetariana, che esclude tutti gli alimenti di origine animale ad eccezione delle uova. Carne, pollame, pesce o latticini come latte, yogurt e formaggio vengono eliminati, ma sono consentiti uova intere, albumi e cibi contenenti uova come maionese, pasta all’uovo e alcuni prodotti da forno. Le diete ovo-vegetariane sono meno popolari delle diete vegane, che escludono completamente tutti gli alimenti e i sottoprodotti di origine animale, e delle diete latto-ovo-vegetariane, che includono latticini e uova ma non carne, pollame o pesce. Le diete vegetariane ben pianificate – di qualsiasi tipo – sono di norma nutrienti e salutari. Tuttavia, ci sono diversi motivi per cui qualcuno può scegliere una dieta ovo-vegetariana rispetto ad altre diete vegetariane.

Le uova intere sono sia economiche che nutrienti, il che le rende un alimento ottimale in aggiunta a qualsiasi dieta di tipo vegetale. Si configurano infatti come un’ottima fonte di proteine di alta qualità, vitamine del gruppo B e composti anti-infiammatori. Per questo alcune persone scelgono di includere le uova in una dieta altrimenti priva di cibi animali se hanno difficoltà a soddisfare i loro bisogni nutrizionali con una dieta rigorosamente vegana.

Una dieta ovo-vegetariana costituisce una scelta appropriata anche per chi vuole essere vegetariano ma ha allergie o sensibilità ai latticini, che sono alimenti classici della dieta vegetariana. Inoltre, altri possono scegliere la dieta a causa di preoccupazioni religiose, ambientali o etiche sul trattamento degli animali utilizzati per produrre carne e latticini. Coloro che sono motivati da questi problemi etici spesso si assicurano di mangiare solo uova e prodotti a base di uova, oltre ai cibi vegetali.

I potenziali benefici della dieta ovo-vegetariana

Una dieta ovo-vegetariana può giovare alla salute in vari modi. Innanzitutto può contribuire a migliorare la qualità dell’alimentazione. La ricerca suggerisce che le persone che seguono diete vegetariane (in genere) mangiano cibi più ricchi di nutrienti, come frutta, verdura, legumi e cereali integrali, rispetto ai non vegetariani che seguono una dieta di tipo occidentale a base di alimenti industriali e raffinati. Ovviamente questo vantaggio non è presente se il confronto avviene coi non-vegetariani che seguono diete genuine a base di cibi di qualità e a basso grado di processazione industriale. Gli ovo-vegetariani tendono anche a consumare meno calorie da zuccheri aggiunti, grassi insalubri come quelli idrogenati tipici del cibo industriale e generalmente non sono soggetti ad abuso di sale. 

Salutare per il cuore

Se state cercando di apportare cambiamenti dietetici a beneficio del cuore, una dieta ovo-vegetariana potrebbe essere efficace. Diversi studi osservano che i vegetariani possono avere un rischio ridotto del 30-40% di malattie cardiache, rispetto ai non vegetariani che seguono diete a base di prodotti industriali e raffinati. Inoltre, se abbinate all’attività fisica regolare e pratiche di gestione dello stress, le diete vegetariane hanno dimostrato di abbassare la pressione sanguigna e i livelli di colesterolo, oltre a invertire l’accumulo di placca all’interno dei vasi sanguigni.

Promuove la salute metabolica e la glicemia stabile

Diete vegetariane ben pianificate possono ridurre il rischio di diabete di tipo 2 migliorando il controllo della glicemia e la sensibilità all’insulina. Una recente revisione di 14 studi ha rilevato che la dieta vegetariana è inversamente associata alla probabilità di sviluppare il diabete di tipo 2, rispetto alle diete standard di tipo occidentale a base di prodotti raffinati e industriali. Le persone già con una condizione di diabete possono migliorare la sensibilità insulinica aderendo ad una dieta di tipo vegetariano, secondo altri studi scientifici. Va precisato che tutti questi studi prendono in considerazione diete vegetariane ben bilanciate e realmente salutari, preparate da medici e nutrizionisti. Non si tratta quindi di mangiare semplicemente “senza cibi animali”, come molte persone fanno arbitrariamente. In quest’ultimo caso spesso si finisce per seguire una dieta prevalentemente ad alto indice glicemico e a base di alimenti come farine raffinate, focacce, biscotti, riso bianco, patate, carboidrati in genere e frutta oppure verdure contenenti zuccheri come zucchine, pomodori e carote, ma senza le uova e con pochissime proteine e grassi. Questo tipo di dieta “vegetariana” non è affatto salutare e non corrisponde alle diete vegetariane su cui vengono fatti gli studi scientifici che riporto qui nell’articolo. Non è un caso infatti che dagli studi citati emerga che alimenti come verdure a foglia verde scuro e ortaggi a radice ad alto contenuto di fibre, beta-carotene, vitamina C e magnesio siano gli elementi che hanno avere gli effetti preventivi più forti, e queste sostanze non sono contenute nel riso bianco e nei biscotti, che pure fanno parte di una dieta vegetariana. La dieta vegetariana equilibrata e sana deve prevedere il consumo di uova e spesso anche dei derivati del latte come i formaggi, il burro e lo yogurt. 

Altri benefici

Le diete vegetariane sono associate a molti altri benefici per la salute e lo stile di vita, tra cui la perdita di peso. Le diete vegetariane sono spesso meno caloriche e possono promuovere la perdita di peso in modo più efficace rispetto alle diete onnivore. Sono associate anche alla salute dell’intestino. Le diete vegetariane sono ricche di fibre e composti vegetali che promuovono la salute e la crescita di batteri intestinali sani, il che porta a una migliore funzione digestiva e a una migliore immunità.

Possibili inconvenienti delle diete vegetariane

Per la maggior parte delle persone, una dieta ovo-vegetariana è molto sicura e salutare. Tuttavia, potresti non riuscire a ottenere alcuni nutrienti essenziali se non pianifichi bene la tua dieta:

Assunzione proteica insufficiente

Mangiare abbastanza proteine è essenziale per mantenere ossa, muscoli, organi, pelle e ormoni sani. Le diete non vegetariane si basano su carne e latticini per le proteine. Poiché una dieta ovo-vegetariana esclude questi alimenti, devi assicurarti di assumere proteine altrove in quanto le uova da sole non bastano a tale scopo. Uova, legumi, noci e semi sono tutte ottime opzioni proteiche ovo-vegetariane.

Vitamine, minerali e omega-3

Alcune delle carenze nutrizionali più comuni nelle diete vegetariane includono ferro, calcio, zinco, grassi omega-3, vitamine D e B12. Carne, pesce e latticini sono spesso una fonte importante di questi nutrienti nelle diete non vegetariane. Pertanto, rimuoverli può portare a carenze se non si fa attenzione a sostituirli con alternative vegetariane.

Ecco alcuni alimenti che possono fornire questi nutrienti se passate a una dieta ovo-vegetariana:

Ferro. Includere uova e fonti vegetali di ferro come lenticchie, ceci, riso integrale, frutta secca, semi di zucca e pistacchi è un modo intelligente per soddisfare il fabbisogno di ferro. 

Calcio. Includi regolarmente alimenti come fagioli, cime di rapa, rucola, frutta secca, tofu, ceci, cavolo nero e altri ortaggi della famiglia dei cavoli, semi di sesamo e tutti i tipi di semi in generale per garantire un adeguato apporto di calcio.

Vitamina D. Trascorrere del tempo al sole è il modo migliore per avere una buona produzione di vitamina D nell’organismo. Anche le uova di galline allevate al pascolo contengono questa vitamina.

Vitamina B12. Le uova sono una buona fonte di vitamina B12. Lo stesso vale per gli alimenti fortificati con l’aggiunta della B12 come le bevande vegetali o il lievito alimentare. Infine, è sempre possibile assumere un integratore di vitamina B12.

Zinco. Cereali integrali, uova, noci, semi e legumi sono tutte buone fonti di zinco adatte agli ovo-vegetariani.

Grassi Omega-3. Semi di chia, semi di lino, semi di canapa e noci sono buone fonti vegetali di grassi omega-3. Ma soprattutto le uova di galline che vivono all’aperto e che sono nutrite con mangimi arricchiti con omega-3 forniscono questi grassi sani. Se ritenete di non essere in grado di soddisfare il fabbisogno di questi nutrienti attraverso la sola dieta, consultate il medico o un dietologo in merito all’assunzione di integratori. La salute non è infatti raggiungibile senza l’apporto ottimale (non soltanto un apporto basso) di tutti queste sostanze.

Alimenti alternativi al latte vaccino

La maggior parte delle bevande alternative al latte vaccino non fornisce la stessa quantità di proteine e minerali del latte animale. Questo non li rende una cattiva opzione di per sé, ma vale la pena considerare questo aspetto se il tuo obiettivo è costruire una dieta vegetariana completa dal punto di vista nutrizionale.

Cibo spazzatura vegetariani

Non tutti i cibi ovo-vegetariani sono salutari. Dolci senza latticini, cibi fritti con oli altamente raffinati, sostituti della carne vegetariani trasformati, così come bevande zuccherate, cereali e biscotti per la colazione, tecnicamente si adattano a uno stile di vita ovo-vegetariano ma dovrebbero essere consumati con parsimonia, se non esclusi del tutto. Una dieta vegetariana sana enfatizza cibi integrali e ricchi di nutrienti e limita i cereali raffinati, gli zuccheri aggiunti, gli oli raffinati e altri cibi spazzatura ultra-elaborati. [di Gianpaolo Usai]

La cicoria, un sapore adulto che ha più storia di Roma. Andrea Grignaffini su L’Espresso il 13 settembre 2023.

Povera ma apprezzata da millenni, si presta a diverse varianti. E anche la sua radice ha una nicchia di amatori

L’amaro: uno dei cinque sapori, almeno stando al numero più canonico dello “spettro gustativo”. Un sapore per età adulta, quando si è metabolizzata la componente mentale del rischio di tossicità che induce proprio questo gusto, che si ama o si odia. Piace agli chef più coraggiosi ma piace anche nei contesti della cucina popolare. Lo dimostra un vegetale come la Cicoria comune (nome scientifico Cichorium Intybus) che appartiene alla famiglia delle Asteraceae: una pianta erbacea perenne dai fiori azzurri che cresce spontaneamente in tutte le aree erbose e da sempre, specialmente in primavera, è pronta alla raccolta.

I Romani la conoscevano già prima della nascita di Roma non solo per il suo uso alimentare ma anche per le sue qualità terapeutiche. Il leggendario medico Galeno di Pergamo, la considerava amica del fegato. Mentre Marco Gavio Apicio la trattava dall’alto della sua competenza culinaria come ottimo ingrediente e suggeriva di cucinare la cicoria con il garum, l’olio e la cipolla affettata. La cicoria rappresenta il segno di riconoscimento delle verdure più povere ma anche più conosciute e utilizzate in cucina soprattutto nel Lazio con preparazioni semplici ma molto saporite come la tipica cicoria lessata e passata in padella con aglio, olio extravergine d’oliva e peperoncino.

In Basilicata e Puglia la cicoria lessata diventa contrappunto di una passata di fave secche prendendo il nome di ’ncapriata. Ma la cicoria non è solo gustosa nella parte verde ma anche la sua radice ha una nicchia di amatori, noi tra i quali. Già nel 1700 la radice della cicoria essiccata, tostata, macinata e preparata come infuso, era utilizzata come correttivo o surrogato del caffè, dal medico padovano Prospero Alpini che ne aveva scoperto le proprietà curative. Un uso che venne ripreso durante l’ultimo conflitto mondiale come succedaneo del caffè. Un epicentro della “resistenza” di queste radici è stato un piccolo comune padano: Soncino. Anche se in questi ultimi tempi la produzione più ingente si è trasferita nel Bresciano e la radice amara di Mairano è divenuta De.co. Il suo utilizzo ci venne raccontato da Gaudenzio a fine ’700: «Piglia la redice, raschiala e tagliala a fettoline: falla poi cuocere in acqua bollente per mezzo quarto d’ora: scolala da quell’acqua e tornale a cuocere in brodo grasso bollente e quando saranno cotte ci potrai mettere rossi d’ova, cascio dolce, spetiarle e un poco di colore». Ricetta che ancora oggi avrebbe sua ragion d’essere. Ma si possono anche semplicemente preparare in insalata: cotte lessate a rondelle e condite con olio, limone o aceto di vino e sale. Oppure condite con la bagna cauda, per dare un maggior vigore sapido-aromatico.

Estratto dell'articolo di Silvia Turin per corriere.it l’11 marzo 2023

Il latte UHT è molto meno nutriente di quello fresco?

Il trattamento chiamato UHT («ultra high temperature», cioè il riscaldamento a circa 140 gradi per pochissimi secondi) comporta solo lievi variazioni ai valori nutritivi del latte. Perdite limitate [...] Si registrano il 6% di perdita del valore biologico delle proteine, nessuna influenza sui grassi e sul calcio, qualche variazione nel contenuto di vitamine D e A, il 30% in meno di B1 e B12 e il 50% in meno di vitamina C (di cui però il latte non è una fonte di rilievo). Riduzioni che non impoveriscono in modo significativo i notevoli apporti nutritivi del latte.

Il latte magro contiene meno calcio?

Il latte e i derivati del latte nella dieta italiana forniscono un importante apporto di calcio, minerale indispensabile per la costruzione e il mantenimento dello scheletro, per la coagulazione del sangue e per la contrazione muscolare. [...] nel latte intero sono presenti 119 milligrammi di calcio e in quello scremato invece 125 milligrammi. Strano? Se c’è meno grasso è logico che la concentrazione delle restanti componenti aumenti, sia pure di poco.

Bere latte da adulti è innaturale e fa male?

Sono affermazioni infondate. Per digerire il latte serve che il corpo produca sufficienti quantità di un enzima, la lattasi. In alcune aree geografiche (specie in Asia) in età adulta la lattasi non viene più prodotta, e quindi il latte non è più ben tollerato. Al contrario, l’enzima è ben presente in Nord Europa e Nord America (e circa due miliardi di persone nel mondo digeriscono bene il latte anche da adulti) probabilmente perché bere latte offre maggiori quantità di calcio a popoli che sono meno esposti ai raggi solari.

 [...]

 Niente intolleranza al lattosio con il latte crudo?

Il latte crudo è il latte munto, refrigerato a 4 gradi e non risanato con la classica «pastorizzazione» (riscaldamento a 72 gradi per 15 secondi). Trattato in questo modo, mantiene invariati sia la sua componente di lattosio (con problemi per chi è intollerante) sia i rischi di proliferazione batterica. Nonostante le cautele, nel latte crudo è praticamente impossibile escludere, infatti, la presenza di germi: anche quello preparato e conservato al meglio può presentare o sviluppare una carica batterica non indifferente, capace di provocare infezioni alimentari anche gravi.

Per questo in Italia vige l’obbligo di consumarlo dopo la bollitura, un processo più dannoso (per le vitamine e gli altri principi nutritivi) di quanto sia la pastorizzazione, la quale lascia sostanzialmente inalterato il valore nutritivo di questo importante alimento ed elimina del tutto gli agenti patogeni (aumentando anche la durata di conservazione, come scritto sopra).

 Lo yogurt è un toccasana per l’intestino?

È una definizione esagerata. [...] L’azione favorevole dello yogurt sulla flora batterica intestinale è limitata, però, perché la maggior parte dei fermenti lattici benefici che contiene non riesce a superare la barriera acida dello stomaco e ad arrivare nell’intestino in quantità sufficiente per agire con efficacia.

Il burro è più «grasso» dell’olio?

In realtà il burro, a parità di peso, contiene meno grassi rispetto a qualunque tipo di olio (l’83,5% contro il 100%) e quindi è un po’ meno «calorico»: 100 g di burro forniscono 760 kcal contro le 900 dell’olio. I «vantaggi» nutrizionali del burro, però, si fermano al fatto che sia abbastanza ben digeribile e una discreta fonte di vitamina A, perché i grassi che contiene sono quelli «sfavorevoli»: 49 g di acidi grassi saturi (che innalzano il colesterolo nel sangue) e 250 mg di colesterolo in 100 grammi di burro.

 In confronto l’olio d’oliva ha solo 16 g di grassi saturi e niente colesterolo e contiene 83 g di acidi grassi insaturi (solo 27 nel burro), quelli più favorevoli (quasi tutti di ottimo acido oleico, che aumenta il colesterolo buono).

[...]

La mozzarella è un formaggio leggero?

Non esistono formaggi veramente definibili «magri», anche se è vero che i formaggi freschi (rispetto agli stagionati) contengono più acqua e meno grassi, quindi meno calorie per porzione. Ad esempio, è vero che la densità calorica della tanto amata mozzarella è inferiore a quella di molti altri formaggi, ma questo non toglie che contenga comunque una discreta percentuale di grassi: in quella di mucca il 19% (con 250 calorie per 100 g), in quella di bufala il 24% (con 290 calorie).

Il gelato è un alimento completo e può sostituire un pasto?

Il gelato a base latte (che non è propriamente un «latticino» dato che contiene altri ingredienti) non è un alimento completo dal punto di vista nutritivo (non contiene tutte le sostanze nutritive che servono nelle giuste quantità), ma alcuni gelati possono arrivare a sostituire un pasto a livello di apporto energetico perché contengono anche 400-500 kcal. Nemmeno dal punto di vista della sazietà il gelato sostituisce «bene» un pasto, perché è un alimento che viene digerito in fretta e contribuisce a far tornare in breve tempo il senso di fame. Grazie al suo valore calorico meno importante rispetto ai dolci, però, può essere inserito a fine pasto come alternativa.

Estratto dell'articolo di Attilio Barbieri per “Libero quotidiano” il 15 febbraio 2023.

I formaggi italiani sono i migliori al mondo. Nelle prime dieci posizioni della classifica mondiale dei 50 formaggi top stilata da Taste Atlas, ben otto sono occupate dai prodotti dell’arte casearia tricolore. Un risultato clamoroso. Che ha scatenato, com’era scontato, non poche polemiche. In Francia - ma questo era prevedibile - ma pure negli Stati Uniti, dove opera una potentissima lobby di grandi taroccatori dei nostri prodotti lattiero caseari. Ma andiamo con ordine e vediamo nel dettaglio come si collocano le cinquanta specialità censite.

 In prima posizione assoluta viene il Parmigiano Reggiano, seguito da Gorgonzola piccante in seconda posizione, Burrata in terza, Grana Padano in quarta posizione.

Quinto si classifica un formaggio messicano, l’Oaxaca, prodotto nell’omonimo stato e con una consistenza simile a quella dei nostri formaggi a pasta filata.

 In sesta posizione di piazza il nostro Stracchino di Crescenza, seguito in settima posizione dalla Mozzarella di bufala Campana. Ottavo è il Serra da Estrela, un formaggio portoghese a pasta semimorbida, ottenuto dal latte delle razze ovine Bordaleira Serra da Estrela e Churra Mondegueira. Nono è il Pecorino Sardo, decimo il Pecorino Toscano.

E non è finita qui. A scendere troviamo il Pecorino Romano, quindicesimo, i Bocconcini di mozzarella, sedicesimi, la Provola in ventesima posizione, il Taleggio in diciassettesima. Più giù la Stracciatella e il Fiore Sardo, rispettivamente in ventitreesima e ventiquattresima posizione. La Mozzarella è ventottesima, il Gorgonzola dolce è trentasettesimo, il Caciocavallo Silano quarantaduesimo, il Provolone del Monaco quarantaquattresimo. Sono italiani otto formaggi sui primi dieci e diciotto, in tutto, nella top 50. […]

I risultati di quest’ultima Top 50 dedicata ai formaggi hanno sollevato un vespaio di polemiche. Mentre la stampa francese è indignata perché il primo formaggio prodotto dai caseifici transalpini in classifica è appena tredicesimo. […]

 «È una classifica che rischia di far rabbrividire le persone: dalla top 10 è assente la Francia», scrive La Nouvelle Republique, «un piazzamento che ha indotto molti francesi», soprattutto sui social media, «a mettere in dubbio la credibilità di questa classifica». Profonda indignazione rimbalza anche da oltreoceano, alimentata dalla potentissima lobby dei formaggiai del Wisconsin, che rivendicano fra l’altro il diritto di taroccare le Dop europee che definiscono «nomi comuni alimentari». […]

È una bufala. I miei formaggi sono più buoni dei tuoi. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 18 Febbraio 2023

Se sfogliate i giornali di ieri, l’Italia domina la classifica mondiale dei formaggi più amati: ma è davvero così? Due riflessioni, dal punto di vista editoriale e dal punto di vista del merito, sull’opportunità di gioire (e amplificare) notizie come questa

Taste Atlas è un magazine online in inglese, con sede a Sofia, che qualche giorno fa ha pubblicato una “classifica” sui migliori formaggi al mondo. Gli italiani ne escono vincitori, soprattutto sugli acerrimi nemici francesi. E a poche ore dalla pubblicazione, tutti in Italia plaudono a questo riconoscimento, entusiasti di poter dire che nelle prime dieci posizioni i nostri latticini sono in grande spolvero, surclassando qualunque altra nazione.

Ma chi fa questa classifica e soprattutto che valore ha nel mondo? Siamo certi di poter gridare al successo internazionale?

People, casa editrice e agenzia di comunicazione, che edita tra l’altro un bel libro di Michele Antonio Fino sul Gastronazionalismo, legge in questa classifica qualche nota stonata, e ne scrive sul suo profilo Twitter: «TasteAtlas è la creatura di un ex giornalista croato, Matija Babic, e ha la propria sede a Sofia. Qui 30 (trenta, non trentamila) “ricercatori” compilano classifiche e mappe del gusto sulla base di meta analisi. Non si fa fatica a valutare la qualità della classifica, specie considerando le curiosità. Al 16° posto ci sono i “bocconcini” (de che?) e al 6° lo “stracchino di crescenza” (che sarebbero due formaggi diversi)… Ma che importa? Ci casca anche la politica. Il gastronazionalismo rende stupidi? No, ma fa fare cose stupide. La morale è sempre quella: se, quando vedi la parola Italia o il Tricolore, ti si gonfia la vena, la risposta è dentro di te, ma è sbagliata».

Due le riflessioni che ci vengono in mente, dopo aver visto tanti siti di tanti quotidiani italiani cavalcare la notizia, che indubbiamente ha il grande pregio di raccogliere consensi e click: dare visibilità e rilievo a una classifica che non ha alcun valore oggettivo e gastronomico è un modo fuorviante di fare informazione. Ma al netto delle riflessioni editoriali e sulla deriva che spesso prendono le notizie che riguardano questo settore, c’è anche una questione di merito.

Come scrive Marco Massarotto nel commentare la notizia: «Posto che la soggettività esiste (legittimamente) sempre e comunque, ogni classifica (dai formaggi al web) ha i suoi limiti, questa è una classifica di recensioni e trasmette il gusto popolare, cui si può obiettare che non sono palati tecnici. Ai World Cheese c’è un panel di 250 esperti cui si può obiettare che non rappresentano il gusto comune. Come ogni aggregato di dati con un criterio, però, qualche indicazione se ne può trarre: 1) abbiamo un primato di preferenza popolare e su alcune tipologie in particolare. 2) il “mito” del formaggio francese è appunto un mito, ben custodito, in quanto sia in queste classifiche popolari sia in quelle tecniche i francesi son ben presenti, ma non certo int posizioni di dominio, anzi. 3) la nostra cultura del formaggio è tanto straordinaria dentro i caseifici e le malghe quando povera e trascurata nei media e nei wine (hai visto i cheese?) bar. Mentre siamo come si vede se non i migliori, decisamente tra le top 3 regioni al mondo, chissene se primi o secondi). E dovremmo capitalizzare questi riconoscimenti e sviluppare educazione diffusa locale e globale».

Il punto calzante della riflessione è proprio sul concetto alla base di ogni “selezione”: giuria e pubblico sono spesso poco d’accordo, e capire il valore di una classifica deve proprio partire dal suo metro di giudizio usato per realizzarla. Tecnica professionale e palato comune non sempre sono d’accordo, e la più grande crema spalmabile al mondo è lì a dimostrarlo. Si possono mediare le due cose? Difficile, forse impossibile. Allora meglio separare i giudizi, ma spiegare bene chi sono i giudici, e qual è il target. Certo, il titolo sarà meno forte, e forse avremo meno click. Ma, da lettori, vogliamo informazioni o bufale?

La guerra del pesce che si combatte intorno alle coste della Libia. Per mettere fine ai sequestri di pescherecci italiani è stato stipulato un accordo tra broker privati che fa felice il generale Haftar. Ma sull’intesa con Bengasi i servizi frenano e il governo Meloni pone il veto. Marco Bova su L'Espresso il 3 Novembre 2023  

Lo sguardo fiero e commosso. L’ingresso al porto di Bengasi, abbracciato ai compagni al comando del peschereccio mazarese Anna Madre, lo stesso con il quale, nel 2020, era finito sequestrato nella capitale della Cirenaica. Quest’anno Giacomo Giacalone, 35 anni, a Bengasi è tornato ma da pescatore libero. Ha potuto farlo in virtù di un accordo, privato, che prevede il pagamento di mille euro al giorno alle autorità del generale Khalifa Belqasim Haftar. Un’intesa osteggiata dalla nostra intelligence e sulla quale il governo di Giorgia Meloni frena. 

Tre anni fa la storia di Giacomo, aveva fatto il giro del mondo. Era stato fermato a 40 miglia dalle coste libiche e bloccato a Bengasi per 108 giorni assieme ad altri 17 pescatori. Alla vigilia di Natale erano stati tutti liberati, dopo che il premier Giuseppe Conte e il capo della Farnesina, Luigi Di Maio, erano andati a stringere la mano ad Haftar. Era il riconoscimento internazionale che serviva al generale. Al rientro di Giacalone, la procura di Roma aprì un’indagine, individuando sui social molti dei sequestratori, finora mai reperiti. Sei mesi dopo, nel maggio 2021, fu la guardia costiera di Tripoli a mitragliare un altro peschereccio, l’Aliseo, ferendo il capitano Giuseppe Giacalone, padre di Giacomo. Uno dei militari a bordo della motovedetta libica – una di quelle consegnate dalla Marina italiana – era stato addestrato a Messina. All’arrivo al porto di Mazara del Vallo, il comandante con ancora addosso la maglia sporca di sangue, giurò: «Non andrò mai più in alto mare a pescare il gambero rosso». Così è stato. Il figlio, invece, quest’estate, è tornato per oltre un mese di pesca, a trenta miglia da Bengasi, affiancato da altri sette pescherecci mazaresi. E ha anche attraccato nel porto libico per rifornirsi di gasolio a prezzi stracciati: 0,30 centesimi al litro, a fronte degli 0,90 pagati in Italia. Era a pesca anche il 18 luglio. Mentre, a oltre novanta miglia da Misurata, i guardacoste di Tripoli mitragliavano il peschereccio Orizzonte della marineria di Siracusa, salvatosi grazie al pattugliatore Orione della Marina italiana, impegnato nell’operazione Vigilanza pesca. È ciò che accade nella guerra del pesce, complicata dal caos libico scatenatosi nel 2011, dopo l’eliminazione di Gheddafi. 

Già dal 2005 la Libia rivendica una Zpp (Zona pesca protetta) fino a 74 miglia dalla costa. Un’area da sempre battuta dalla flotta di Mazara del Vallo per la pesca del gambero rosso, oro del Mediterraneo, quotato anche 500 euro a cassetta. Il prezzo da pagare è il rischio di essere mitragliati e sequestrati. L’alternativa è trovare un accordo. La Zpp libica non è mai stata riconosciuta dall’Onu, ma viene tollerata dalla Commissione europea. L’Italia, invece, ha aperto dei negoziati per «dare continuità alla partecipazione italiana allo sfruttamento delle risorse ittiche presenti nella Zpp». Il tema della pesca viaggia in parallelo con gli altri interessi in Libia: gas e petrolio (attività di Eni), e con la questione migranti. Con il governo di Tripoli, riconosciuto dalle Nazioni Unite, c’è una linea di credito basata su addestramento e motovedette donate dalla Marina nostrana, ma di pesca non se ne parla. A maggio scorso Giorgia Meloni ha incontrato a Roma il generale Haftar, alla ricerca di garanzie sul blocco delle partenze di migranti. Negli auspici della premier, il vertice doveva suggellare una «proficua collaborazione». Che però non sembra esserci, a giudicare dai naufragi. Un po’ come accade con il presidente tunisino Kais Saied.

 Sul versante pesca, gli unici accordi sono iniziative private. Nel 2019 ci provò Federpesca (la Confindustria del mare), con un patto quinquennale con gli uomini di Haftar, regolato da una società di intermediazione maltese. Tripoli reagì con disappunto e l’Italia fece marcia indietro. Stavolta ci hanno riprovato due imprenditori mazaresi, senza coinvolgere le istituzioni. L’accordo si basa su un contratto tra due società (una di Mazara del Vallo e un’omologa di diritto libico), riconosciuto dalle autorità di Haftar. Il permesso libico, valido dieci anni, si estende dalla linea perpendicolare di Misurata fino al confine con l’Egitto, per un tratto di 750 chilometri. L’iniziativa è partita da un imprenditore ed ex politico mazarese, Vincenzo Asaro, 62 anni, oggi broker internazionale. L’origine dei rapporti con le autorità di Haftar risale alle relazioni del socio, Saverio Giarratano, per gli amici Renè, imprenditore edile, da anni trapiantato a Bologna. Nell’ottobre 2022 con Asaro costituisce la International Services, società di intermediazione, che a sua volta ha stipulato un accordo con una società libica, concessionaria del governo di Bengasi. Un’intesa bocciata, sin da subito dalle autorità italiane, per il rischio di «attribuire una legittimità di fatto ad autorità non riconosciute dal governo italiano». 

Tuttavia, a inizio 2023, il peschereccio Sofocle è riuscito a concludere un ciclo di 21 giorni di pesca, senza alcun fastidio. Tra maggio e luglio l’accordo ha inglobato altri armatori tra cui l’Anna Madre di Giacomo Giacalone. Il pressing da Roma si è fatto intenso fino a una nota del ministero dell’Agricoltura, datata 2 agosto, in cui si intima ai capitani di allontanarsi dall’area. Un alt che di fatto blocca i pescherecci. «Se dobbiamo diventare un problema per la sicurezza nazionale, ci fermiamo – avverte Asaro – dicono di attendere gli accordi del governo, ma la pesca sta morendo e non possiamo neanche darci da fare per migliorare la nostra condizione». Lo stop soddisfa l’Aise che, seguendo il denaro pagato dagli armatori attraverso l’International Services, ha individuato la destinazione finale, ovvero la Libyan military investment and public works authority, la cassaforte di Haftar. Il generale, si sa, è prodigo di relazioni, a cominciare dalla Russia, a patto che siano proficue. Per lui.

L’acciuga sta bene proprio su tutto. Andrea Grignaffini su L'espresso il 21 Agosto 2023  

Protagonista di mille ricette e di abbinamenti tra i più vari, il pesce azzurro si adatta a molteplici usi

Un ricchissimo concentrato di virtù marine…e molto di più.

Protagonista di antiche leggende, guizza argentata in tanti detti nazional-popolari prestandosi a interpretare altrettante antropizzazioni e perfino certi vezzi attribuiti all’animo femminile: si parla della saporosa acciuga, la più ammiccante e vanitosa tra i pesci azzurri. Una credenza narra che le acciughe sarebbero nient’altro che la punizione di Dio alle Engrauline, piccole stelle luminosissime che avevano offeso la luna e annoiato il firmamento con il loro estenuante vaniloquio. Così Dio le fece precipitare in mare a «correre, a stancarvi, patir la fame e la paura», decretando una funesta sorte da sottile sottomarino per quei corpi celesti e una nuova fortuna per l’uomo che, lungi dal limitarsi ad ammirarne i bei riflessi luccicanti, prese soprattutto ad apprezzarle come cibo.

Questo fu vero non solo per chi, di acciughe fresche, poteva farne agile incetta vivendo in prossimità di porti e pescherecci, ma anche per coloro che, oltre i valichi, i passi e le valli, ne beneficiavano nella versione più longeva, sotto sale; raro non era trovare acciughe appese a testa in giù sopra le tavole delle sempiterne polente padane o, ancora più su fino alle Langhe e in Val d’Aosta, vederle arrivare dentro ai caruss, i carretti dei famosi anchoiers dalla Val Maira che giravano di cascina in cascina, per stradine inghiaiate o innevate, attraversando le piatte campagne per approdare fino in città come Torino e Milano, tirando o spingendo il loro carico di pesci salati.

Ma non basta, l’acciuga fa capolino anche nel repertorio di prelibatezze mediterranee, qui voluttuosamente sott’olio; si passa da quelle del Mar Cantabrico, le più carnose e ghiotte, a quelle più delicate della Liguria e della Sicilia.

Un sottile pescetto che dà mostra d’incredibile versatilità anche nelle ricette di carne come vivace comprimaria all’interno di basi e salse o nella sua preziosa quintessenza, la colatura, un sopraffino condimento per primi piatti ma anche per vegetali e uova, o, ancora, per incarnare quell’insostituibile quid in certi intingoli della tradizione – ben lo sanno gli amanti della bagna cauda.

Poi è nell’insolito connubio tra mondo ittico e caseario, di cui è tanto felice quanto rara se non unica testimone, che strugge in piacevolezza: sul pane appena tostato, adagiata su un generoso strato di burro, meglio se di malga, fa la storia di una vera libidine palatale.

DOLCE

La colatura di alici. La fermentazione rappresenta il metodo più utilizzato per la conservazione, pensiamo ai Garum (salse di pesce fermentato). E proprio questa preziosa salsa ambrata dall’intensa espressività umami, è preparata ancora secondo l’ancestrale tradizione. Per chi ama le alici questa è la loro quintessenza.

E AMARO

Bollicine e bianchi in abbinamento. Nonostante venga istintivo l’abbinamento con i vini bianchi diciamo “da spiaggia”, quelli beverini e aciduli, in realtà diventano troppo disarmonici con la parte amarotica e più selvaggia dell’alice che spadroneggia il gusto. Da premiare quelli più morbidi al sorso capaci di addomesticarne l’impronta.

Tonno adulterato venduto in tutta Italia: 30 intossicati e 12 arresti. Stefano Baudino su L'Indipendente l'8 Luglio 2023 

«Me li sogno la notte i cristiani che si sentono male. Nessuno ci ha lasciato le penne solo per grazia del Signore: non mangiare pesce crudo». Queste le inquietanti parole, intercettate dagli inquirenti, rivolte a un’amica nel settembre 2021 dalla dipendente di una delle società coinvolte nell’inchiesta della Procura di Trani sul tonno adulterato, la cui nocività ha portato all’intossicazione di almeno 33 persone. Una vicenda che ha condotto a sequestri milionari e per la quale sono state spiccate 18 misure cautelari.

L’inchiesta, denominata “Albacares”, ha avuto origine nel 2021, quando decine di persone in diverse province italiane – di cui 6 a Firenze, una a Lavagna (Liguria), 10 a Benevento, 3 a Bisceglie, 5 a Bitonto, 4 a Pezze di Greco (Brindisi), 4 a Pescara e 5 a Teramo – hanno accusato intossicazioni alimentari di diversa gravità. Molte di loro sono state ricoverate in ospedale, alcune addirittura in terapia intensiva e in rianimazione. Tra loro, un bambino di soli 11 anni, portato in ambulanza all’ospedale Perrino di Brindisi con “sintomi suggestivi di sindrome anossica con cianosi” e una saturazione d’ossigeno all’86 per cento. Un unico denominatore tra i vari casi: la consumazione del tonno a pinna gialla, che secondo le risultanze d’indagine veniva decongelato e trattato con nitriti e nitrati per migliorarne aspetto e colore.

Gli inquirenti hanno inquadrato in 5,2 milioni di euro i proventi delle attività illecite. Cinque persone sono finite in galera: si tratta dei vertici di due aziende di Bisceglie, la Ittica Zu Pietro Srl e la Izp processing. Altre sette persone si trovano ai domiciliari. Rispondono tutte, a vario titolo, di associazione a delinquere finalizzata all’adulterazione di sostanze alimentari, frode in commercio e falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico. Altre sei persone sono state raggiunte da provvedimenti cautelari, tra cui divieti e obblighi di dimora nei comuni di residenza. Coinvolti nelle indagini anche un laboratorio di Avellino e una società di consulenza.

Nel provvedimento del gip Anna Lidia Altamura si parla espressamente di come nitrati e nitriti, il cui uso era vietato dai regolamenti europei, venissero aggiunti “in concentrazioni elevate al fine di esaltare il colore del pesce“, nascondendone lo stato di alterazione. Le analisi dell’istituto Zooprofilattico di Bologna, effettuate in seguito al sequestro di sette tonnellate e mezzo di tonno svolto dai Nas, hanno certificato la presenza di una sostanza rossa ad azione colorante campionata come “Fruitmax Red 104”.

ll Procuratore capo di Trani, Renato Nitti, ha spiegato che l’inchiesta ha definito «un quadro allarmante del fenomeno e fondamentali sono state le intercettazioni, telefoniche e ambientali», sottolineando come sia stato «indispensabile sapere le esatte parole pronunciate e intercettate per capire quanto stava accadendo, sia dal punto di vista giuridico sia per la ricostruzione del fatto». Roberta Moramarco, pm di Trani che ha coordinato le indagini, ha aggiunto che la falsificazione di certificazioni, documenti ed etichette è stata appurata nei «quaderni di prova relativi alle analisi in cui si annotavano i valori reali degli additivi che venivano poi segnalati in modo falsificato e inviati alle autorità competenti, che venivano così depistate nella loro attività di controllo». [di Stefano Baudino]

Estratto dell'articolo di Irma d’Aria per repubblica.it il 25 giugno 2023.

È considerato un elisir di lunga vita. Per questo i medici lo consigliano nelle diete. Secondo i dati diffusi dalla Fao, l'Italia si posiziona all'ottavo posto, in Europa, per consumo di pesce pro capite, con 28,9 kg l'anno (contro una media europea di 22,7 kg). 

L'amore degli italiani per questo alimento è confermato anche dalla ricerca di Marine Stewardship Council che ha intervistato 800 persone e dai dati è emerso un nuovo segmento: i "seafood lovers", veri appassionati di pesce di cui il 95% sono consumatori abituali, soprattutto al Sud e nelle Isole (97%) seguiti da Nord Est e Centro (entrambi 94%) e Nord Ovest (93%) mentre il dato interessante è che il 44% dei consumatori possono essere identificati come "seafood lovers".

Questo dato pone l'Italia ai primi posti come percentuale di appassionati di prodotti ittici, seguiti da Francia e Svezia. 

Eppure, nonostante gli italiani, portino spesso il pesce in tavola, sono ancora tanti i luoghi comuni ed i miti da sfatare. Eccone sei su cui facciamo chiarezza con l'aiuto di un esperto.

• MANGIARE PIU' PESCE FA BENE ALLA SALUTE

Non si può certo dire che non sia vero che mangiare pesce faccia bene alla salute. Eppure, qualche precisazione va fatta. 

Perché questa affermazione è vera solo se si sceglie bene il tipo di pesce: "I pesci grandi predatori - come pesce spada e tonno - che vivono a lungo, anche se si trovano in acque visibilmente pulite si nutrono di una serie di contaminanti (diossine, Pcb, i metalli pesanti, ritardanti di fiamma) che poi passano anche a noi - chiarisce Silvio Greco, presidente del comitato scientifico di Slow Fish e dirigente di ricerca della stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli - . 

Invece, i pesci che fanno davvero bene sono quelli che hanno un ciclo vitale breve come sgombri, acciughe, sarde, sardine, tonno allitterato, alici, palamite, pesce sciabola, bughe, zerri, sugarelli". 

Sono considerati un piatto povero della nostra tradizione e per questo sono ancora guardati con diffidenza perché la gente e anche i ristoratori non li conoscono. E' peccato anche perché sono economicamente più accessibili e più abbondanti". 

• IL SUSHI E' BUONO CON IL PESCE FRESCO

Se davvero mangiassimo un sushi fatto con il pesce fresco potremmo avere seri problemi di sicurezza con il rischio di ingerire il famigerato anisakis, un parassita particolarmente persistente che affligge, tra le altre specie, acciughe e sardine, aringhe, branzini e merluzzi, rane pescatrici e calamari. 

Nell'uomo provoca infiammazioni allo stomaco e all'intestino e reazioni allergiche in alcuni casi anche gravi. "L'88% di tutto il pesce che viene consumato come sushi non è pesce fresco abbattuto ma surgelato - chiarisce Greco - .Per legge, il pesce deve essere abbattuto, cioè surgelato in un abbattitore che lo porta velocemente a una temperatura di -18 gradi. Così si distrugge l'anisakis e gli altri parassiti". Insomma, godiamoci pure sushi, sashimi, tartare, carpaccio e marinato, ma teniamo a mente qualche piccolo accorgimento.

"Di certo quello che si mangia nei vari Sushi Bar - aggiunge l'esperto - è pesce surgelato, ma diffidiamo dei prezzi troppo bassi: un buon sushi di qualità non può costare 10 euro". Precauzioni anche se lo prepariamo a casa: in questi casi, dobbiamo conservarlo per almeno 96 ore in un congelatore domestico contrassegnato con tre o più stelle. 

• IL SALMONE E' ADATTO PER LE DIETE

Il salmone è il pesce più consigliato nelle diete: quelle ipocaloriche, ma anche quelle suggerite a chi ha problemi cardiaci. Eppure, ci sono tanti motivi per non mangiare salmone. 

"Purtroppo, nel 97,5% dei casi - spiega Greco - si tratta di salmone allevato in Cile, Norvegia o Scozia e non sempre le condizioni sono buone. Per esempio, se i salmoni sono rosa come quelli selvaggi è perché nei loro mangimi è presente una sostanza colorante.

Quindi, il salmone allevato non è certo tra i pesci più salubri". E a proposito di mangimi, i pesci di allevamento sono nutriti non solo con altri pesci (per 1 chilo di salmone allevato si uccidono 5 chili di pesci pescati, e quindi i salmoni sono anche non sostenibili), ma anche con farine derivanti dagli scarti di macellazione. 

Quanto alle calorie, 100 gr di salmone fresco contano circa 180 calorie, le alici 96, mentre i calamari 70 e le cozze addirittura meno di 60.

• SCEGLIERE IL PESCE 'BISTECCA' PER LA QUALITA'

In realtà è solo più comodo perché non ha spine e si cucina, e consuma, appunto, come se fosse una fetta di carne. 

"È un peccato - fa notare Greco - visto che abbiamo a disposizione oltre 300 specie di pesci ma i consumatori puntano su tonno, pesce spada e salmone che sono grandi animali predatori dal ciclo vitale lungo più di una stagione, che attraversano diversi mari prima di essere catturati e che ci trasmettono tutto il loro carico di contaminanti e metalli pesanti".

Senza contare che la pesca intensiva del pesce spada e del tonno, quello rosso in particolare, ha messo a dura prova le riserve ittiche. 

• IL PESCE FRESCO E' SEMPRE LOCALE

In realtà non è per niente così e basta dare un'occhiata a un qualsiasi banco del pesce per averne conferma: nel nostro Paese ogni giorno viene sbarcato pesce fresco proveniente da 40 Paesi, e molti di questi si affacciano sul Pacifico o sull'Atlantico.

In questo caso a venirci incontro è l'etichetta, che deve contenere obbligatoriamente: - Denominazione commerciale della specie: es. "orata", mentre il nome scientifico nel commercio al dettaglio non è obbligatorio in etichetta ma può essere esposto in un cartello unico; - Metodo di produzione: "pescato", "pescato in acque dolci", "allevato"; - Zona di cattura: deve essere indicato in maniera comprensibile per il consumatore il mare in cui è stato catturato, le famose zone di cattura Fao (es. "Area 47: Atlantico, Sudest", o lo Stato di origine se si tratta di pesce allevato; - Stato fisico: decongelato, scongelato - Presenza di additivi: ad esempio "contiene solfiti" per i crostacei legalmente additivati con solfiti.

• VONGOLE E COZZE SONO INQUINATE

I molluschi in genere vengono considerati gli spazzini del mare, ma in realtà sono delle specie allevate da privilegiare per gusto, facilità di preparazione e proprietà nutrizionali; perché scegliendole non andiamo a stressare sempre i soliti cinque pesci pescati che consumiamo e perché la mitilicoltura è la forma di allevamento più sostenibile.

"Largo quindi a cozze, vongole e ostriche, che si nutrono dei microrganismi presenti nell'acqua, filtrandola, e non necessitano quindi di mangimi - suggerisce Greco -. È però necessario che l'ambiente di allevamento sia sicuro per evitare che sostanze o batteri nocivi alla nostra salute siano filtrati e si accumulino poi nel loro organismo. Come tutti i molluschi, devono essere vendute in reti sigillate, recanti un'etichetta che ne indichi varietà, scadenza e provenienza".

Gli Insaccati.

La carne sintetica.

La carne cruda.

Il Prosciutto.

Il Polpettone.

Gli Insaccati.

Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” martedì 7 novembre 2023.

Pane, olio e sale? Pane burro e marmellata? Il pane c'è sempre, ma se si scava nel nostro dna goloso, la madeleine proustiana degli italiani è per plebiscito il pane e salame. […]  da Nord a Sud non manca all'appello una regione che non abbia una grande tradizione norcina da combinare con un suo ricco repertorio di pani. Non c'è che l'imbarazzo della scelta.

Salame e nobiltà si potrebbe dire ad esempio a Sant'Olcese, un borgo storico in Alta Val Polcevera sopra a Genova. È qui che l'immaginifico Andrea Pedemonte Cabella, una dinastia centenaria di produttori alle spalle, ha dato vita a un Nobile Protettorato per la tutela di questo salume dal cuore antico, dove procedure antiche di preparazione e un mix di carne di maiale e bovina danno vita a un salame di straordinaria eleganza. Un oggetto gourmet tanto identitario da dare vita a una processione laica e a una solenne cerimonia dove, in abito scuro e cravatta rossa, sfilano ogni anno grandi nomi del patriziato genovese, politici, professionisti, imprenditori e personaggi della cultura. […]

Se si cala a Piacenza si trova invece un salame colore rosso vivo con occhiature di grasso perfettamente bianco, con una grande intensità di sapore, unita a dolcezza e a delicatezza, tanto che il piacentino cardinale Alberoni lo usava come strumento di diplomazia con le corti di Francia e di Spagna. L'abbinamento perfetto non è da Palazzo, però: qui ci vuole il "batarò", panino ovale e povero cotto a legna. Cresponetto, Verdiano, Strolghino sono salami capolavoro prodotti dalla famiglia Spigaroli nel cuore della Bassa parmense.

[…] E se nella vicina Felino, celebre per il suo salame dolce e delicato, si va bene con la torta fritta (al pari del modenese gnocco fritto) e in Toscana il pane sciapo accompagna alla grande la sapida finocchiona, la pizza bianca non è solo la compagna della mortadella, ma funziona alla grande anche con la corallina, eccellenza autentica della regione di Roma.

La carne sintetica.

Carne sintetica, il "no" al commercio per difendere la cultura e l'economia italiana. Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 18 novembre 2023

Un errore, quelli di Coldiretti, lo hanno fatto, e conviene dirlo subito perché è il solo: cadere nella provocazione, farsi prendere dalla rabbia, per quanto indotta. Durante la manifestazione davanti a Montecitorio in favore dell’approvazione del provvedimento che vieta la sperimentazione e la commercializzazione della carne sintetica, il presidente Ettore Prandini a un certo momento si stacca e, al grido «delinquenti», punta minaccioso il piccolo drappello di esponenti di +Europa che viceversa sono contrari alla norma e reggono un cartello che è un insulto a chi lavora alzandosi alle 4 del mattino: «Coltivate ignoranza». Devono intervenire gli agenti di polizia perché non si passi alle vie di fatto. Farsi prendere dal nervoso annebbia; può portare a scatti poco urbani e addirittura a prendere sul serio una coppia improbabile come i parlamentari Riccardo Magi e Benedetto Della Vedova. Meglio li ha capiti il coltivatore a fianco di Prandini, che si è limitato allo sfottò: «Non vi vota neppure vostra moglie».

Ora che è stato esaurito il cosiddetto “colore”, sul quale è prevedibile che qualcheduno monterà chilogrammi di panna montata, concentriamoci sul contenuto. La scienza sta studiando la carne sintetica: riprodurre dalle cellule di animali infinite tonnellate di proteine da servire in tavola come filetti prelibati; ignoto è al momento sapere che gusto, proprietà nutritiva e consistenza avranno. L’Unione Europea è entusiasta dell’idea quanto il governo italiano è contrario a essa. Il provvedimento quindi ha altissime probabilità di andare contro le disposizioni comunitarie e di essere disapprovato da Bruxelles. Ciononostante il governo, con il sostegno di oltre due milioni di agricoltori, va avanti. I sostenitori della carne sintetica sostengono che essa potrebbe risolvere il problema della fame nel mondo. Tesi suggestiva, e forse vera, anche se attualmente nel globo non manca tanto il cibo quanto la capacità di alcuni di procurarsi il denaro per alimentarsi. È anche vero, come sostengono gli animalisti, che le proteine artificiali salverebbero dal macello milioni di animali, che però con la carne artificiale in commercio non vedrebbero mai la luce.

Estratto dell’articolo di Antonio Fraschilla per “la Repubblica” venerdì 17 novembre 2023.

Ettore Prandini è considerato il mastino di una triade che oggi governa l’agricoltura italiana. Una triade composta, oltre lui, da Federico Vecchioni e Vincenzo Gesmundo: il primo amministratore delegato di Bf spa, colosso da 1,2 miliardi di euro […]; il secondo potentissimo deus ex machina di Coldiretti, da decenni, seduto in una miriade di cda del comparto. 

Prandini da cinque anni è il volto dell’associazione con i favori di Gesmundo. E oggi Coldiretti è diventata una sorta di ministero aggiunto che detta la linea in materia. Soprattutto dopo l’arrivo a Palazzo Chigi di Giorgia Meloni e la nomina a ministro del cognato d’Italia Francesco Lollobrigida.

Dalla carne coltivata alla pesca a strascico, dai contratti di filiera sostenuti a suon di milioni dallo Stato alla difesa della “sovranità alimentare” passando per le nuove norme sui flussi migratori per l’agricoltura: tutto il dizionario agricolo utilizzato da Meloni e Lollobrigida è stato scritto nelle stanze della Coldiretti. 

Un feeling fortissimo, quello tra l’associazione e il governo: la prima uscita pubblica di Meloni appena insediatasi al governo del Paese? A un evento Coldiretti a Milano. La chiusura della campagna elettorale di Lollobrigida? A Potenza insieme a Prandini. Il nuovo capo di gabinetto del ministro? Un uomo che arriva da Coldiretti.

Per carità, l’associazione dei padroni grandi e piccoli della terra da sempre, storicamente, è stata filogovernativa: nei corridoi della Coldiretti ricordano ancora il sostegno palese a Matteo Renzi per il referendum costituzionale […]. «Vedrai con noi ce la farai», sussurrò Gesmundo a Matteo. La storia è andata diversamente. 

Ma adesso con l’arrivo di Meloni al governo il rapporto è andato oltre ogni più rosea speranza. E forse questo spiega la spavalderia del presidente di Coldiretti ieri davanti a Palazzo Chigi dove manifestavano i deputati di Più Europa, favorevoli alla carne coltivata.

Ettore Prandini, carattere ruvido tipico dei campi bresciani, è da tutti definito un “decisionista”: esattamente il soprannome che venne dato al padre, il ministro potente dei Lavori pubblici, il democristiano Giovanni Prandini. 

Il padre, definito dalla sinistra Dc un componente della “banda dei quattro” insieme a Paolo Cirino Pomicino, Francesco De Lorenzo e Carmelo Conte, venne coinvolto in Tangentopoli e poi prosciolto. Ettore nel frattempo fin da giovane inizia a guidare l’azienda zootecnica di bovini da latte di famiglia nelle terra della Lugana.

Nel 2006 arriva alla guida la Coldiretti Brescia, nel 2012 è al vertice della Coldiretti Lombardia. Poi l’incoronazione nel 2018 a volto nazionale dell’associazione. Dietro le quinte c’è il suo gran sostenitore Gesmundo, che da anni tesse la tela dell’agricoltura italiana. 

[…] Cai e Bf sono due colossi che raggruppano consorzi agrari e mondo della finanza, sotto la guida di Vecchioni, che ha appena fatto il grande salto anche nel mondo dell’editoria di destra, investendo ne La Verità di Maurizio Belpietro: scelta gradita da Meloni e dal suo cerchio magico.

Prandini, anche forse forte del peso che ha nel governo, ieri in piazza ha voluto contestare l’opposizione. Diventando improvvisamente popolare anche in mondi a lui sconosciuti, a partire dai social: su twitter l’hastag Prandini è stato per ore tra quelli di tendenza. Il ministro Lollobrigida ieri a caldo si è dissociato. Poi in serata ha corretto il tiro a favore di Prandini: “Ha difeso gli agricoltori”. […]

Francesco Lollobrigida e la legge inutile contro la carne coltivata, l'ultimo spauracchio della Destra. Il ministro della sovranità alimentare ha fatto approvare una norma che oggi non serve a nulla e domani potrebbe essere cancellata dall'Europa. Vi spieghiamo cosa è davvero questo prodotto che fa tanta paura. Tommaso Carboni su L'Espresso il 17 Novembre 2023

Forse non bisognerebbe prestare troppa attenzione a una legge che oggi è inutile e domani rischia il conflitto con le regole del mercato unico europeo. Brevemente è successo questo: il ministro di Agricoltura e Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, è andato fino in fondo alla sua battaglia identitaria e ha fatto approvare la legge che vieta la produzione e la vendita della cosiddetta carne “coltivata” nel nostro paese. Peccato che non ci sia nessuno in Unione Europea nell’imminenza di venderla, questa carne. 

L’Efsa, l’ente comunitario che si occupa della sicurezza alimentare, per ora non ha ricevuto alcuna richiesta di autorizzazione da parte di produttori di carne coltivata. Quando un’azienda depositerà il proprio dossier, allora l’Efsa si prenderà 18 mesi per valutare se il prodotto è sicuro per i consumatori. Se l’Efsa dice sì, a quel punto il divieto di Lollobrigida andrà contro le regole europee. Il mercato unico infatti impedisce a un paese di bloccare unilateralmente la vendita di un tipo di cibo approvato per il resto dell’Unione. L’Italia dovrebbe avanzare un reclamo e produrre delle evidenze scientifiche diverse rispetto a quanto riscontrato dall’Efsa. Ma niente di tutto ciò è dietro l’angolo. Ne riparleremo probabilmente fra qualche anno. 

Adesso la cosa interessante è capire che cos’è la carne coltivata (chi è contrario la chiama “sintetica”), dove è venduta nel mondo e in quali forme, e se è davvero una minaccia per gli allevatori che il ministro dice di voler proteggere. Gli animali sviluppano naturalmente grasso, muscoli e tessuto connettivo. La sfida è replicare in bocca la consistenza delle carni. Si comincia acquisendo e conservando le cellule staminali di pollo, manzo, maiale, ma anche pesce, che vengono poi inserite in un bioreattore, anche detto fermentatore, e alimentate con ossigeno e nutrienti di base, aminoacidi, glucosio, vitamine, sali inorganici, esattamente come accadrebbe nel corpo di un animale. Bisogna indurre le cellule a differenziarsi in muscolo, grasso e tessuti connettivi. Le cellule differenziate vengono quindi raccolte, preparate e confezionate in prodotti finiti.

«Nel lungo termine l’intento dei produttori è realizzare tutti i tagli di carne», spiega Francesca Gallelli, consulente per gli affari pubblici del Good Food Institute (GFI),  una no-profit che promuove alternative vegetali, coltivate e da fermentazione a carne, latticini e uova.. Oggi però l’industria sembra concentrarsi principalmente su prodotti trasformati, cose come hamburger, crocchette, salsicce. 

Nel mondo ci sono due aziende che hanno ottenuto il via libera delle autorità sanitarie a vendere le loro carni. La prima è stata Eat Just (oggi si chiama Good Meat), sbarcata nel 2020 a Singapore, il primo paese ad aver approvato il commercio di carne coltivata. Da allora la carne Good Meat è stata servita in alcuni ristoranti gourmet, bancarelle e app di consegna di cibo. Oggi è disponibile nella macelleria Huber’s Butchery. Ci sono due opzioni: un panino di pollo con salsa di senape piccante oppure orecchiette alle verdure “di stagione” con sopra pollo croccante. Costo circa 15 euro per piatto. 

Dopo Singapore, gli Stati Uniti: il mercato si è aperto quest’anno con l’ok di Food and Drug Administration (FDA) e Dipartimento dell’agricoltura. Oggi Good Meat spedisce il suo pollo a China Chilcano, un ristorante di Washington D.C., peruviano con influenze cinesi. Nel menu degustazione (70 dollari), c’è uno spiedino di pollo coltivato con salsa anticucho, patate e chimichurri. La seconda azienda approvata dalle autorità Usa si chiama Upside Foods. Anche questa per ora si limita a rifornire un solo ristorante, uno stellato di San Francisco. La novità è che Upside ha saputo riprodurre un intero filetto di pollo. Il sapore è ottimo, dice la chef, simile al poulet rouge, una varietà tradizionale della Francia. L’altra cosa interessante è che l’azienda ha grossi piani di espansione: nell’Illinois aprirà un impianto di bioreattori da 187mila metri quadrati. Nella produzione su larga scala però Upside ha obiettivi tecnologicamente più modesti. Nel senso che per ora rinuncia al trancio di pollo, concentrandosi su carne trasformata, tipo crocchette e hamburger, usando proteine vegetali per dare struttura (l’azienda per questi prodotti deve ancora ricevere la convalida degli enti di sicurezza).

Tra le società più avanzate nell’assemblare tagli specifici di carne c’è l’israeliana Aleph Farms – spiega Gallelli, l’esperta di GFI. L’obiettivo degli israeliani è commercializzare la prima bistecca di manzo coltivata al mondo. Quest’estate Aleph Farms è stata anche la prima azienda ad aver fatto pervenire una domanda di autorizzazione in Europa, di preciso nel Regno Unito e in Svizzera (quindi non in Unione Europea). Questa richiesta tuttavia potrebbe non riguardare la bistecca, ma altri prodotti trasformati. Nell’Unione ancora nessun dossier è stato sottoposto all’Efsa, ma c’è una società (Cultivated B, produce salsicce) che ha detto pubblicamente di aver avviato “colloqui preliminari”, che servono per acquisire informazioni su come inviare il dossier. 

Sono giustificate dunque l’ostilità di Lollobrigida e le paure di una parte degli allevatori di Coldiretti? Abbiamo visto che per ora l’offerta è su scala piccola, concentrata su prodotti trasformati, anche se la tecnologia evolve in fretta e le ambizioni sono grandi. Il settore, tra carne e pesce coltivati, ha ricevuto in tutto circa 3 miliardi di dollari di finanziamenti. Quanto potrà crescere questo mercato? È un’incognita. La carne vegetale sta vendendo meno: il sapore è buono, i prezzi sono ancora troppo alti. Ma vale la pena tentare. Miliardi di animali trascorrono vite miserevoli, spesso afflitte dal dolore. E poche attività umane emettono più gas serra dell’allevamento, per il quale vengono abbattute enormi aree di foresta. Il sistema non è molto efficiente: secondo uno studio pubblicato sulla rivista Science, i prodotti animali forniscono solo il 18% delle nostre calorie, utilizzando però l’83% dei terreni agricoli nel mondo. E sono responsabili anche di più della metà delle emissioni di gas serra del settore alimentare. 

Carne coltivata, il divieto è legge. «Il governo rispetta gli agricoltori». Storia di Virginia Piccolillo su Corriere della Sera il 16 Novembre 2023

Stop alle bistecche-non-bistecche, ad hamburger coltivati e cotolette green. Con 159 voti a favore, 53 contrari (M5S, Avs, +Eu) e 34 astenuti (Pd) la Camera ha approvato in via definitiva la legge che vieta la produzione e l’immissione sul mercato di cibi e mangimi composti da cellule di embrioni o di tessuto muscolare di animali vivi, coltivati in bioreattori con forte apporto di ormoni.

Perché è sbagliato dire «carne sintetica» ed è autorizzata in altre parti del mondo

Sarà vietato, d’ora in poi, anche chiamare “carne”, “bistecche”, “cotolette” o “burger” i prodotti di proteine vegetali che le imitano. Da 10 a 60mila euro le sanzioni. Mentre resta consentita la ricerca. Un provvedimento bandiera per il ministro della Sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida, che esulta: «Siamo orgogliosi di essere la prima nazione del pianeta a varare un provvedimento che difende la nostra alimentazione». Specifica: «Noi vogliamo buon cibo per tutti, non solo cibo per tutti». Rimarca che «tranne +Europa non c’è un partito che non abbia avuto autorevolissimi esponenti che hanno sottoscritto una petizione in cui c’era scritto “no al cibo sintetico”», quella Coldiretti. Auspica che lo stop a un prodotto «non testato e non sperimentato» venga adottato anche da altri Paesi europei.

«Domenica a Bruxelles porteremo un documento sottoscritto anche da Austria e Francia nel quale si inquadra una nuova visione del mondo agricolo», dice nel giorno ini cui la Ue, con l’astensione dell’Italia, proroga l’uso del glifosato: pesticida che crea danni neurologici.

Il «no» alla carne coltivata è giunto al termine di una giornata di tensioni dentro e fuori Montecitorio, culminate con la rissa sfiorata tra Benedetto Della Vedova (+Eu) e il presidente Coldiretti Prandini. Lollobrigida cerca di ricomporre chiedendo «rispetto per i parlamentari ma anche per il lavoratori».

Il «no» al provvedimento è giunto da M5S, Avs e +Europa. «Se a Singapore si compra in macelleria, penso sia come fermare il mare con le mani», dice Susanna Cherchi, M5s. «State prendendo in giro gli italiani perché quando sarà dichiarata legittima dall’Epsa non potrete impedire la legittima circolazione delle merci» ha attaccato in aula il leader verde Angelo Bonelli. «Non dovrebbe essere l’Epsa ma un processo farmaceutico » a valutare questo prodotto, ha obiettato il ministro. Scatenando la dura replica di Riccardo Magi (+Eu) che dopo aver parlato di «ddl oscurantista» e di «sabotaggio per la ricerca e per le aziende interessate» ha accusato il ministro di cultura «totalitaria».

A motivare l’astensione dem invece Antonella Forattini: «È l’ennesima, pomposa bandierina da sventolare per distrarre gli elettori». «Tuteliamo al contempo la salute dei cittadini e il settore agroalimentare italiano, da sempre sinonimo di qualità, identità, eccellenza, distintività e sostenibilità», dichiara il sottosegretario alla salute, Marcello Gemmato. E il capogruppo FdI Foti allunga ombre sulla difesa del cibo sintetico: «In gioco ci sono 25 miliardi di euro fino al 2030. Quindi non c’è più cibo per tutti, ma più profitti per i soliti noti».

Estratto dell’articolo di Alessandro Di Matteo per “la Stampa” venerdì 17 novembre 2023.

La carne coltivata è fuorilegge, la Camera approva il provvedimento che mette al bando sia la produzione sia la commercializzazione di prodotti sviluppati da cellule staminali ma a pochi metri da Montecitorio, davanti alla sede del governo, si arriva quasi alle mani. Da un lato della strada il presidio della Coldiretti, che festeggiava l'approvazione della legge, di fronte al portone di palazzo Chigi Benedetto Della Vedova e Riccardo Magi di Più Europa, che invece protestavano contro il divieto con cartelli che recitavano "Coltivate ignoranza". 

Troppo, per il presidente di Coldiretti Ettore Prandini che sceglie di affrontare fisicamente Della Vedova: «Delinquente, buffone», urla mentre gli si avvicina. Poi un paio di spintoni, il leader di Coldiretti si lancia fisicamente contro il deputato di Più Europa e viene bloccato dalle forze dell'ordine, che lo riportano dal lato dei coltivatori.

Più Europa reagisce duramente, Della Vedova parla di «aggressione» ed «eversione» e chiede le dimissioni di Prandini […] Al ministro dell'Agricoltura viene chiesto di non andare ad incontrare i manifestanti di Coldiretti. Francesco Lollobrigida, però, non ci pensa proprio a rimanersene dentro il palazzo. Il ministro è orgoglioso dell'approvazione della legge, «siamo la prima nazione a vietare la carne coltivata» e a chi gli chiede di non andare dalla Coldiretti replica che, certo, «la violenza verbale e fisica deve essere sempre lontana dalla politica e dalle istituzioni» ma «chiedere di non incontrare i lavoratori credo sia inopportuno». […]

Tra Più Europa e Prandini è scambio di accuse e promesse di denunce: «La spinta - dice il presidente di Coldiretti - è figlia del fatto che lui stava esponendo cartelli che insultavano l'intelligenza dei lavoratori che manifestavano». La mia reazione non è stata esagerata. È tutta la mattinata che Della Vedova provoca». […]

Lorenzo Cresci per “la Stampa” venerdì 17 novembre 2023. 

1. Che cos'è la carne coltivata (definita erroneamente anche "carne sintetica")?

È prodotta dalle cellule staminali di un animale: le cellule vengono coltivate in un ambiente privo di contaminanti e senza antibiotici. 

2. Come si lavora la cellula?

In un fermentatore, le cellule alimentate con ossigeno, mangime e calore crescono come farebbero nel corpo di un animale, sfruttando la capacità delle staminali di replicarsi indefinitamente. Una volta matura, la carne viene raccolta, ed eliminato il liquido di mangime rimanente, si ottiene un prodotto simile al macinato con fibre lunghe che viene compattato sottovuoto. 

3. In quali Paesi si consuma?

Israele, Regno Unito, Singapore e Stati Uniti. 

4. Gli scienziati italiani stanno facendo ricerca?

Sì, con la startup trentina Bruno Cell, Politecnico di Torino e università. 

5. Quali i vantaggi?

Secondo i produttori non produce scarti, riduce l'emissione di gas serra del 98% rispetto agli allevamenti tradizionali, riduce del 99% l'uso di acqua e sfrutta il 99% in meno dei terreni. 

6. Quali gli svantaggi?

Scienziati e studiosi sono divisi: alcuni sollevano dubbi sui meccanismi che nascono dalle staminali e bloccherebbero alcuni geni, come il P53, che frenano lo sviluppo di cellule tumorali. 

7 Qual è la differenza tra sintetica e vegetale?

La carne vegetale usa principalmente legumi e le proteine presenti come sostituti della carne: con aromi e altri ingredienti si cerca di riprodurre consistenza e sapore del prodotto animale.

Perché è sbagliato dire «carne sintetica» ed è autorizzata in altri Paesi del mondo. Storia di Margherita De Bac su Il Corriere della Sera giovedì 16 novembre 2023

1 Che cos’è la carne coltivata? Non c’è niente di sintetico in questa carne che viene prodotta a partire da una cellula animale, prelevata con una biopsia e poi coltivata in laboratorio con l’utilizzo di fattori naturali di nutrimento. Per sintetico infatti si intende qualcosa che deriva da una sintesi di più elementi. Sviluppandosi, queste cellule «primitive», che non avevano alcuna specializzazione, si differenziano fino a diventare muscolo. Non avviene nessuna modificazione genetica né manipolazione.

Carne coltivata, il divieto è legge. 2 Perché il processo di produzione prevede l’impiego di bioreattori? Lo strumento che si è dimostrato utile ai fini del raggiungimento di questo scopo è il bioreattore che riproduce le condizioni esistenti all’interno dell’organismo animale. Un nome che, anche in questo caso, spaventa ma che è stato in realtà già impiegato nella produzione di altri alimenti come birra e yogurt. Lo scopo del bioreattore è quello di garantire una temperatura controllata e utile a mantenere in vita le cellule e di rifornirle di nutrienti. La temperatura del corpo di un mammifero è 37 gradi.

3 Che cos’è un bioreattore? È un silos di metallo con elica capace di accelerare la moltiplicazione delle cellule.

4 La carne coltivata è sicura? Dal punto di vista della procedura con cui viene ottenuta è un alimento sicuro, non contaminato. Ancora non conosciamo invece l’effetto a lungo termine sulla salute in quanto è in commercio solo in alcune parti del mondo e da pochi anni.

5 E quali sarebbero i vantaggi? Il valore nutrizionale della carne coltivata è inferiore rispetto a quella allevata, non contiene la stessa quantità di proteine, ferro e sali minerali in quanto non deriva da un bovino in movimento.

6 Induce sazietà? Sì, a parità di quantità consumate il senso di sazietà è sovrapponibile.

7 Carne di allevamento e coltivata hanno lo stesso sapore? No, non hanno lo stesso sapore. Quando un animale da fattoria viene macellato, i muscoli sono soggetti a un complicato processo biochimico. Pertanto il gusto della carne coltivata è diverso da quella di allevamento. Il gusto e la consistenza della carne sono legati alla specificità nutrizionale dei mammiferi. Se una mucca ha un’intensa attività fisica la carne è molto più ricca di proteine e povera di grassi.

8 In Italia, prima dello stop del governo, era commercializzata? No, nell’Ue e in Usa non è autorizzata. Recentemente l’agenzia degli alimenti americana Fda ne ha approvato la produzione ma non il consumo. In alcuni ristoranti israeliani la carne si può mangiare, dietro firma di liberatoria. L’unico Paese al mondo dove è in vendita è Singapore che sta provando a produrre anche carne di pesce coltivata.

9 Ci sono progetti di studio in Italia? All’università di Tor Vergata dipartimento di biologia, è in corso un progetto sperimentale per ottenere carne coltivata strutturata (ad esempio una bistecca) con l’uso di stampante tridimensionale. (hanno risposto alle domande Laura Di Renzo,direttore scuola scienza dell’alimentazione Tor Vergata, e Cesare Gargioli, laboratorio cellule staminali e ingegneria tissutale).

Peccato carnale. Report Rai PUNTATA DEL 03/07/2023

di Giulia Innocenzi

collaborazione di Lidia Galeazzo, Greta Orsi, Giulia Sabella

Perchè il governo ha giurato guerra nei confronti della carne cellulare?

L'Italia è il primo paese al mondo a vietare la carne a base cellulare, in seguito a una raccolta firme promossa dalla Coldiretti contro il "cibo sintetico". Il settore è in continua evoluzione: dopo Singapore, anche gli Stati Uniti hanno dato il via libera al pollo a base cellulare, e gli investimenti nel settore continuano a crescere a dismisura. Questa nuova legge potrebbe mettere fuori gioco le imprese italiane già attive nel cibo a base cellulare? Se la Commissione europea darà il via libera a questo prodotto, l'Italia potrà vietarne l'importazione? La carne prodotta in laboratorio è sicura? Le proiezioni dicono che nel 2050 il consumo di carne sarà quasi raddoppiato. Per salvaguardare il Pianeta, visto l'impatto ambientale degli allevamenti intensivi, occorre trovare delle alternative. E in Olanda il governo sta adottando un piano per ridurre di un terzo gli animali allevati. I prossimi saremo noi?

IL PECCATO DELLA CARNE Di Giulia Innocenzi Con la collaborazione di Lidia Galeazzo, Greta Orsi, Giulia Sabella Immagini: Giovanni De Faveri, Carlos Dias, Davide Fonda, Marco Ronca, Paco Sannino Montaggio e Grafica: Giorgio Vallati Ricerca Immagini: Eva Georganopoulou, Paola Gottardi e Alessia Pelagaggi

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Singapore, la città-stato da 5 milioni di abitanti, sta facendo le prove in vista della parata del 9 agosto, giorno in cui si celebreranno i 58 anni di indipendenza dalla Malesia. Grazie anche alle banche e al commercio, è il terzo Paese al mondo per ricchezza pro capite, ma è anche il terzo più densamente popolato. Per questo si è sviluppata verso l’alto e per mantenere un po’ di verde si è dovuta inventare metodi innovativi.

CLARABELLE CHEW – MANAGER MARKETING - PARK ROYAL COLLECTION Benvenuti al Park Royal Collection. Dietro la reception c’è questo muro di 13 metri ispirato a un quadro cinese. Le piante sono vere e irrigate da un sistema automatizzato. L’albergo ha al suo interno più di 2400 tipi diversi di piante, servono anche a purificare l’aria e ci aiutano ad abbassare la temperatura di due gradi.

GIULIA INNOCENZI Questo è l’orto fatto sul vostro terrazzo.

CLARABELLE CHEW – MANAGER MARKETING - PARK ROYAL COLLECTION Il nostro orto urbano ha più di 60 varietà di verdura, frutta e fiori che serviamo con il cibo nel nostro ristorante. L’orto ci aiuta ad essere indipendenti e autosufficienti nel campo degli alimenti.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Un particolare importante visto che con lo sviluppo urbano Singapore è rimasta senza terre da coltivare ed è costretta a importare oltre il 90% del cibo che consuma. Per questo il governo incentiva gli orti sui tetti dei palazzi ma soprattutto il vertical farming, vere e proprie fattorie verticali dove si coltivano frutta e verdura.

VIVEK JADHAV – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE PRECEDE – INDOOR VERTICAL FARMS Qui produciamo 35 varietà diverse, e produciamo, rispetto ai raccolti dell’agricoltura convenzionale, dalle 50 alle 70 volte in più ma usiamo il 97% di acqua in meno.

GIULIA INNOCENZI Il suo basilico è verdissimo.

VIVEK JADHAV – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE PRECEDE – INDOOR VERTICAL FARMS Questo è come dovrebbe essere il cibo vero. Al supermercato il cibo è altamente processato, noi non dobbiamo neppure usare i pesticidi. Lo provi, e mi dica che ne pensa.

GIULIA INNOCENZI Sembra finto. Wow, profumatissimo.

VIVEK JADHAV – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE PRECEDE – INDOOR VERTICAL FARMS Immagini il pesto italiano fatto con questo basilico.

GIULIA INNOCENZI Gorgeous, buonissimo. A Singapore è diventata una priorità produrre voi stessi il vostro cibo dopo che il Covid ha bloccato le importazioni.

VIVEK JADHAV – AMMINISTRATORE DELEGATO E DIRETTORE PRECEDE – INDOOR VERTICAL FARMS Con la globalizzazione davamo tutto per scontato. Ora invece il governo ha deciso che entro il 2030 dovremo produrre internamente il 30% del nostro cibo. Oggi con il riscaldamento globale e l’accesso al cibo sempre più difficile, questo è diventato una necessità.

GIULIA INNOCENZI FUORICAMPO E la necessità di produrre il proprio cibo ha portato Singapore a essere il primo Paese al mondo ad autorizzare la carne a base cellulare, quella fatta in laboratorio. L’unico posto dove viene venduta è qui, da Huber’s, una macelleria.

JAIME TAN - MANAGER MARKETING - HUBER’S BUTCHERY Serviamo carne proveniente da tutto il mondo: Australia, Nuova Zelanda, Stati Uniti, Giappone. Tanta carne di manzo, ma anche pollo e maiale.

GIULIA INNOCENZI Qui avete le polpette italiane.

JAIME TAN - MANAGER MARKETING - HUBER’S BUTCHERY Polpette di maiale preparate con una ricetta italiana. E qui c’è la carne coltivata.

GIULIA INNOCENZI Ecco la carne coltivata, la carne a base cellulare.

JAIME TAN - MANAGER MARKETING - HUBER’S BUTCHERY I nostri clienti sono molto interessati a questo pollo fatto in laboratorio.

GIULIA INNOCENZI Perché avete deciso di vendere la carne a base cellulare?

JAIME TAN - MANAGER MARKETING - HUBER’S BUTCHERY La carne cellulare di Good Meat è l’unica ad essere autorizzata alla vendita dall’Autorità per la sicurezza alimentare di Singapore. È sicura per il consumo e con questa vogliamo far capire che si può fare la carne anche senza uccidere gli animali.

GIULIA INNOCENZI Perché avete deciso che il vostro primo prodotto è un prodotto a base di pollo anziché, per esempio, maiale oppure bovino?

JEFF YEW - SVILUPPATORE DI PRODOTTI GOOD MEAT Il pollo è l’animale più consumato del pianeta, il piatto nazionale di Singapore è riso con pollo. Dopo lavoreremo sulla produzione di maiale e di manzo.

GIULIA INNOCENZI Il vostro pollo coltivato può essere venduto in questa macelleria soltanto il giovedì.

JEFF YEW - SVILUPPATORE DI PRODOTTI GOOD MEAT Abbiamo cominciato con piccole quantità. Siamo partiti in laboratorio, ora produciamo in uno stabilimento di un nostro partner ma stiamo finendo di costruire il nostro impianto, che sarà il più grande bioreattore di tutta l’Asia.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Lo chef sta preparando per noi un piatto che viene venduto a 18 dollari di Singapore, l’equivalente di 12 euro. La ricetta è orecchiette con broccoli, funghi e pollo a base cellulare fritto. JUN CHONG - CHEF - HUBER’S BUTCHERY Vedete, sembra proprio come il pollo vero.

GIULIA INNOCENZI Yes, sembra pollo! Lo sa che, come italiani, non mettiamo mai il pollo con la pasta!

JUN CHONG - CHEF - HUBER’S BUTCHERY Spero vi piaccia lo stesso.

GIULIA INNOCENZI Grazie mille. Il pollo a base cellulare, vediamo com’è. Sembra davvero pollo normale, ha anche una consistenza molto morbida, forse c’è qualche striatura in meno. Però anche il fritto sembra proprio come la pelle del pollo. A occhi chiusi e senza saperlo non si saprebbe distinguere fra pollo tradizionale e questo.

JUN CHONG - CHEF - HUBER’S BUTCHERY È quello che dicono anche i clienti. La maggior parte delle persone non sarebbe in grado di dire che quello non è pollo tradizionale.

CLIENTE Bon appétit guys!

GIULIA INNOCENZI È la prima volta che prova la carne coltivata?

CLIENTE Sì, non vedo l’ora.

GIULIA INNOCENZI Com’è?

CLIENTE È buona, mi piace molto. Senti il sapore del pollo, la consistenza forse non è ancora quella, ma il sapore sì. È da un anno che non mangio carne.

GIULIA INNOCENZI Come mai?

CLIENTE Amo gli animali. Ma se ci fosse questa carne coltivata a disposizione, penso che ricomincerei a mangiarla.

GIULIA INNOCENZI In Italia è stata vietata la carne a base cellulare, cosa ne pensa?

JEFF YEW - SVILUPPATORE DI PRODOTTI GOOD MEAT Penso che in Italia volete proteggere la vostra cultura, gli allevatori. Ma dobbiamo anche trovare modi più sostenibili per produrre la carne. Magari nel futuro si potrebbe anche fare il prosciutto di Parma coltivato, chissà. Dobbiamo far sì che il governo la provi così potrà dire: beh, non è poi così diversa.

GIULIA INNOCENZI Magari il ministro dell’Agricoltura italiano può venire qui e provare la carne a base cellulare.

JEFF YEW - SVILUPPATORE DI PRODOTTI GOOD MEAT Prometto che preparo solo per lui una carbonara di pollo.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Insomma, la carbonara se lo chef non si offende preferiamo mangiarla qui in Italia. Credo che il ministro Lollobrigida sia d’accordo con noi. Tuttavia, questa storia della carne sintetica, o come più correttamente chiamarla carne a base cellulare, va raccontata senza barriere ideologiche, né da una parte, né dall’altra. Intanto, che cosa intendiamo? Intendiamo delle cellule che vengono prese attraverso una biopsia dalla carne di bovini, polli, maiali e anche dai pesci. Si tratta per lo più di cellule staminali, embrionali, oppure adulte oppure prese dal tessuto muscolare. Vengono fatte replicare nei bioreattori, sono apparecchi che servono anche per far fermentare il mosto dell’uva, trasformarlo in vino o per esempio anche la birra. Le cellule vengono alimentate attraverso un liquido che è formato da acqua, zuccheri, sali e vitamine, a volte viene usato anche il siero fetale che viene prelevato dalle bovine che arrivano gravide al macello. Ora questo è un sistema però più costoso, lo utilizzano alcune ditte solamente e pone anche dei problemi etici. Tuttavia, la produzione di carne a base cellulare apre degli scenari che fino a poco tempo fa erano impensabili: si potrebbe riprodurre per esempio la carne di mammut, quella di leone, si potrebbe riprodurre il kobe giapponese, che oggi è appannaggio solo dei più ricchi, però insomma bisognerebbe investire. Il mondo e l’Europa stanno investendo pesantemente in virtù anche di alcune considerazioni: intanto non è necessario uccidere l’animale né si deve fare ricorso agli allevamenti intensivi. È certo un procedimento costoso, il pollo che ha mangiato la nostra Giulia costa produrlo circa 90 euro al chilo ma basterebbe allargare la domanda, sviluppare il modo di produrlo. Però per questo bisogna investire. E c’è chi ci ha creduto perché sono stati raccolti circa tre miliardi di dollari fino ad oggi e ci hanno creduto soprattutto dei vip come Leonardo DiCaprio e il solito Bill Gates. Il nostro governo invece, è l’unico governo al mondo che ha vietato la commercializzazione, la produzione e l’importazione di carne a base cellulare. In base a quali presupposti? La nostra Giulia Innocenzi.

28/03/2023 – CONFERENZA STAMPA CONSIGLIO DEI MINISTRI FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÁ ALIMENTARE L’Italia è la prima nazione che dice no al cibo sintetico, alla cosiddetta carne sintetica e lo fa con un atto formale ed ufficiale sulla base di una raccolta di firme di Coldiretti che chiedeva un impegno a vietare sul nostro territorio la produzione, la commercializzazione e l’importazione di cibi sintetici.

28/03/2032 - FLASHMOB COLDIRETTI Stop, stop, stop cibo sintetico!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Coldiretti, padre putativo di questa legge, è fuori ad attendere la presidente del Consiglio che arriva poco dopo direttamente da Palazzo Chigi.

28/03/2023 – MANIFESTAZIONE COLDIRETTI ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Un ringraziamento particolare al nostro presidente del Consiglio, al nostro ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida, e siamo particolarmente felici e orgogliosi in questo giorno di essere italiani perché l’Italia è il primo Paese a livello mondiale ad aver vietato la produzione e la commercializzazione di cibo sintetico.

GIULIA INNOCENZI Possiamo chiamarla carne sintetica?

MARKUS LIPP – ESPERTO SICUREZZA ALIMENTARE - FAO Per me non ha senso chiamarla carne sintetica, perché fondamentalmente questi prodotti sono basati su cellule di animali che crescono, che si moltiplicano, proprio come farebbero in un animale. Per la sua neutralità e inclusività noi preferiamo chiamarla carne a base cellulare.

STEFANO AUGUSTO MARIA BIRESSI - PROFESSORE DI BIOLOGIA MOLECOLARE - UNIVERSITÀ DI TRENTO Sostanzialmente la carne colturale consiste nel prendere una piccola biopsia da parte del tessuto di un animale, diciamo un bovino o un maiale.

GIULIA INNOCENZI Un animale vivo.

STEFANO AUGUSTO MARIA BIRESSI - PROFESSORE DI BIOLOGIA MOLECOLARE - UNIVERSITÀ DI TRENTO Un animale vivo. Da queste cellule che vengono ottenute in un numero molto ridotto, si può ottenere un numero maggiore di cellule andando a stimolare la loro crescita in bioreattori simili a quelli, insomma, che vengono usati per la produzione della birra.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Lui è Stefano Biressi che, insieme a Luciano Conti e altre due ricercatrici all’Università di Trento, formano il team scientifico della Bruno Cell, la prima e unica startup italiana che quattro anni fa ha deciso di investire nella carne a base cellulare.

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Qui dentro ci sono cellule che stanno crescendo e la loro crescita è garantita da questo liquido rosso.

GIULIA INNOCENZI Quindi il liquido rosso da cosa è costituito?

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Il liquido rosso è costituito da acqua, sali, vitamine, amminoacidi e zuccheri. GIULIA INNOCENZI Dove viene messa dentro la cellula, per esempio, del bovino.

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Esatto.

GIULIA INNOCENZI Quello che vediamo in questa foto…

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Ognuna di queste è una cellula. GIULIA INNOCENZI …è una foto di questo contenitore.

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Esatto, di quello che c’è sul fondo di questo contenitore.

GIULIA INNOCENZI Queste striscioline sono delle cellule.

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Sono delle cellule che stanno crescendo. Partendo con poche cellule riusciamo a amplificarle fino a ottenerne miliardi.

GIULIA INNOCENZI Questo che animale è?

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Questo è maiale.

GIULIA INNOCENZI Quindi con questo potenzialmente ci si fa…

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Il prodotto più semplice da fare inizialmente sarebbe un wurstel o una salsiccia di carne di maiale.

GIULIA INNOCENZI Quindi una grigliata di salsiccia con queste cellule qua.

LUCIANO CONTI - PROFESSORE DI BIOLOGIA APPLICATA - UNIVERSITÀ DI TRENTO Più o meno.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Il ministro Lollobrigida ha vietato in Italia non solo la commercializzazione ma anche la produzione della carne sintetica, che avviene attraverso l’utilizzo dei bioreattori che servono a moltiplicare le cellule, replicando in larga scala quello che viene fatto in laboratorio.

02/04/2023 – SOL&AGRIFOOD FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE Perché i bioreattori si possono installare qui, ma non conviene. Conviene installarli dove non vengono tutelati né i lavoratori né l’ambiente, perché si paga di meno e le grandi multinazionali hanno tutto l’interesse a produrre cibi in quelle terre. Noi dobbiamo lasciare la produzione del cibo in mano ai nostri imprenditori.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma i nostri imprenditori producono anche i bioreattori. Questi sono alti 7 metri e sono totalmente automatizzati. Sono prodotti da Solaris, un’azienda nata 20 anni fa alle porte di Mantova, quindi made in Italy. Inizialmente i bioreattori venivano usati nel settore farmaceutico. Oggi sono usati anche dalla cosmetica, per fare materiali, come per esempio questi sci, e dal settore alimentare, dallo champagne alla birra, formaggi e carne. Ultima arrivata: la carne a base cellulare.

GIULIA INNOCENZI Se io metto le cellule della carne coltivata qui dentro, cosa succede?

MATTEO BROGNOLI - FONDATORE SOLARIS BIOTECH Che le cellule dopo N settimane producono dei tessuti muscolari che vengono raccolti, solitamente posizionati su quello che si chiama uno scaffold, una piattaforma in cui si organizzano le cellule di derivazione anche grassa per creare delle varie striature nel caso del salmone, e si riproduce a tutti gli effetti un pezzo di carne.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Solaris vende i bioreattori destinati alla carne coltivata principalmente a Stati Uniti e Singapore e si stanno specializzando su pollo, manzo e anche salmone.

GIULIA INNOCENZI E lei l’ha mai provato?

MATTEO BROGNOLI - FONDATORE SOLARIS BIOTECH L’ho assaggiato, sì, abbiamo un cliente importante a San Francisco. Dal punto di vista organolettico è assolutamente identico, dall’aspetto visivo è impossibile dichiarare il contrario, stanno un po’ lavorando sulla texture, cioè le fibre per renderlo ancora più simile.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO L’eccellenza di Solaris fa il giro del mondo, tanto che un suo bioreattore viene esposto nel museo del prestigioso Massachusetts Institute of Technology, il tempio della scienza, e nel 2021 viene comprato da un’azienda americana. Con la nuova legge di Francesco Lollobrigida, oltre a fermare la produzione di carne a base cellulare, si rischia che eccellenze come la Solaris, con una tecnologia come quella dei bioreattori dove l’Italia è all’avanguardia, guardino sempre più all’estero, così come chi fa ricerca.

STEFANO AUGUSTO MARIA BIRESSI - PROFESSORE DI BIOLOGIA MOLECOLARE - UNIVERSITÀ DI TRENTO Abbiamo un po’ di preoccupazione perché temiamo una riduzione degli investimenti che quindi andrebbe anche a impattare anche nella ricerca. E poi anche le scoperte che noi possiamo fare, temiamo possano essere valorizzate di meno.

GIULIA INNOCENZI La vostra unica prospettiva sarà quella di dare le vostre scoperte scientifiche ad aziende straniere.

STEFANO AUGUSTO MARIA BIRESSI - PROFESSORE DI BIOLOGIA MOLECOLARE - UNIVERSITÀ DI TRENTO Credo che sarà per forza quello il percorso da seguire, sì.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Con questo divieto l’Italia probabilmente non riuscirà ad attrarre i tanti soldi oggi in circolazione. Il 2021 è stato l’anno record per la raccolta di investimenti per carne e pesce a base cellulare nel mondo: 1,3 miliardi di dollari, che porta la raccolta totale per l’industria a 2,78 miliardi di dollari. Chi sono gli investitori? Dalle star come Leonardo DiCaprio a imprenditori come Richard Branson, patron della Virgin, a Bill Gates, che ha detto che i paesi ricchi dovrebbero abbandonare le bistecche tradizionali per sostituirle al 100% con quelle da laboratorio. Anche la start up italiana Bruno Cell è riuscita ad attrarre degli investimenti privati, che si aggirano finora su qualche centinaio di migliaia di euro. L’amministratore unico è Stefano Lattanzi che è in imbarazzo a parlarci della sua nuova attività.

STEFANO LATTANZI - AMMINISTRATORE UNICO BRUNO CELL Io sono in conflitto di interessi. Mi occupo nella mia vita professionale di tutti i giorni di carne tradizionale mentre quella della carne colturale è una cosa bellissima, che io sono orgogliosissimo di fare, il problema è che i colleghi del mondo delle carni tradizionali possono recepire questo mio coinvolgimento in un settore apparentemente minaccioso per il loro business che mi creerebbe enormi grattacapi dal punto di vista relazionale.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Cioè avrebbe paura di perdere dei clienti se venissero a sapere che ha investito nella carne sintetica. Chi non si nasconde sono i più grandi produttori di carne al mondo. Sembra assurdo ma stanno facendo a gara per investire nella carne coltivata. JBS, il colosso mondiale brasiliano, ha annunciato che sta costruendo il più grande stabilimento di carne a base cellulare mai realizzato prima in Spagna, con un investimento di 41 milioni di dollari. Nonostante siano gli Stati Uniti e il Medio Oriente ad attrarre oggi più investimenti nel settore, la carne coltivata è nata qui da noi, in Europa, con il primo hamburger creato dallo scienziato olandese Mark Post. Sono trascorsi dieci anni e oggi la sua Mosa Meat ha aperto il più grande stabilimento produttivo al mondo di carne coltivata.

ROBERT E. JONES - RESPONSABILE RELAZIONI PUBBLICHE MOSA MEAT Abbiamo inaugurato il nostro quarto stabilimento; al taglio del nastro due giorni fa c’era anche il delegato del ministero dell’Agricoltura olandese.

GIULIA INNOCENZI Il fondatore di Mosa Meat, Mark Post, presentò il primo hamburger da 250 mila euro. Quanto siete riusciti ad abbassare il prezzo della carne coltivata?

ROBERT E. JONES - RESPONSABILE RELAZIONI PUBBLICHE MOSA MEAT Dieci anni fa non esisteva la tecnologia per una produzione in larga scala. Grazie alla ricerca che abbiamo fatto in questi anni, ci aspettiamo di raggiungere la parità di prezzo fra cinque, sette anni.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Mosa Meat ha lavorato soprattutto sul liquido di coltura dentro il quale crescono le cellule della carne perché è uno degli aspetti che fa salire di più il costo di produzione, anche grazie a un finanziamento europeo da 2 milioni di euro. E l’azienda olandese fa parte anche di un altro progetto di ricerca, sempre finanziato dall’Unione europea per la bellezza di 10 milioni di euro che si chiama Giant Leaps e che viene fatto qui, all’università di Wageningen, 70 chilometri a sud di Amsterdam.

PAUL VOS - COORDINATORE DEL PROGETTO GIANT LEAPS Fa parte della strategia europea: cercare un sistema di produzione del cibo più sostenibile. Fra le proteine alternative su cui stiamo lavorando c’è anche la carne coltivata.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La questione dei finanziamenti europei alla carne a base cellulare, che quindi è finanziata anche da noi contribuenti italiani, è diventata un grattacapo per il ministro dell’Agricoltura Lollobrigida.

23/11/2022 – QUESTION TIME FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE Si sta discutendo della posizione in Europa relativamente al finanziamento delle aziende, con soldi degli europei, che sviluppano il cibo sintetico. Proprio in quella sede l’Italia sta manifestando la sua ferma opposizione all’immissione sul mercato di un prodotto che ho difficoltà a definire carne, latte e pollo.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Tuttavia, l’Europa va avanti e alcuni paesi stanno accelerando ancora di più. L’Olanda ha annunciato che investirà 65 milioni di dollari nella carne coltivata, l’investimento pubblico più grande al mondo finora nel settore. Ma anche altri Stati stanno puntando sulla carne a base cellulare. Il Congresso americano ha appena varato un finanziamento da 6 milioni di dollari nella ricerca delle proteine alternative; la California ne ha stanziati altri 5 per tre suoi laboratori e Israele ospita Upside Foods, la startup che lo scorso anno è riuscita ad attrarre una cifra record: 400 milioni di dollari. Questo anche perché il governo israeliano punta tantissimo sul settore. Benjamin Netanyahu, già nel 2020, è stato il primo premier al mondo a provare la carne coltivata.

09/12/2020 BENJAMIN NETANYAHU - PRIMO MINISTRO ISRAELE È incredibile. Come posso dire… Saporita, con compassione, e pulita. Non è male per niente. Ne prendo un’altra forchettata. Ci sono tante startup in questo settore. Penso sia un’industria dove Israele può diventare leader mondiale.

02/04/2023 – SOL&AGRIFOOD FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE La certezza che dove c’è standardizzazione del prodotto l’Italia è perdente, deve essere chiaro a tutti ed anche ad altre nazioni, ne ho parlato anche con il ministro spagnolo e francese che come noi hanno nella qualità un valore aggiunto che hanno interesse a difendere.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il ministro dell’Agricoltura francese ha rilasciato un’intervista ad una rivista dell’estrema destra dove si dice contrario alla carne a base cellulare perché comporterebbe la manipolazione di esseri viventi. In Spagna invece abbiamo sentito che la JBS, la leader mondiale nella commercializzazione della carne tradizionale, ha annunciato la costruzione del più grande impianto di produzione di carne sintetica al mondo, lo costruirà nel nord della penisola iberica, a San Sebàstian. Costo: 41 milioni di dollari, potrà anche contare su finanziamenti governativi, finanziamenti pubblici. L’istituto per il commercio estero spagnolo ha anche investito 750 mila euro in un’azienda specializzata in biotecnologie che dovrà studiare l’industrializzazione della carne sintetica ma i più grandi attrattori di investimenti sono sicuramente gli Stati Uniti, che hanno autorizzato pochi giorni fa due tipi di pollo sintetico. Uno appartiene alla Good Meat, quella autorizzata già a Singapore. Poi c’è il Medio Oriente, che ha in testa Israele con il suo miglior sponsor che è Netanyahu, che abbiamo visto ha gradito la carne sintetica. E poi fanalino, insomma, ci sono gli europei; il paradosso è che con Mark Post, l’olandese ricercatore, noi siamo stati i primi al mondo, dieci anni fa, a produrre un hamburger da carne sintetica e ora con la sua Mosa Meat ha inaugurato il più grande impianto di produzione di carne sintetica. Ha potuto godere anche di finanziamenti europei, l’Europa teme di essere tagliata fuori dal mercato del futuro. Anche la Cina ha inserito la produzione di carne sintetica nel piano quinquennale. Secondo alcuni analisti la carne sintetica potrebbe occupare una fetta del 10 al 35% entro il 2040 del mercato globale della carne. Gli unici che rischiano di essere tagliati fuori insomma siamo noi italiani. Gli imprenditori che in teoria o fanno come Stefano Lattanzi, investono alla chetichella, con la sua Bruno Cell investe sulla carne sintetica mentre, con un’altra azienda investe sulla carne tradizionale. Ecco, deve investire sulla carne sintetica senza dire nulla in giro perché ha paura di rovinare le relazioni perché il ministro Lollobrigida con la Coldiretti, si sono dimostrati irremovibili su questa decisione e hanno anche invocato un problema di sicurezza alimentare. In base a quali requisiti?

GIULIA INNOCENZI Buongiorno ministro, Giulia Innocenzi di Raitre. Posso solo chiederle sulla base di quali dati ha deciso di vietare la carne coltivata?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE Sul diritto di precauzione che l’Europa prevede come garanzia quando non esistono dei comprovati studi scientifici che permettono di garantire la salute dei cittadini.

GIULIA INNOCENZI È pregevole che un ministro adotti il principio di precauzione ma quante volte è stato applicato? Francesco Lollobrigida, presentando il disegno di legge, ha detto che il divieto di commercializzazione e produzione si basava sulla raccolta firme di Coldiretti, che da tempo sta portando avanti una guerra contro la carne sintetica.

GIULIA INNOCENZI Prandini buongiorno, Giulia Innocenzi di Report.

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Sì. Ti conosco abbastanza bene. GIULIA INNOCENZI Bene. Posso chiederle perché ce l’ha così tanto con la carne coltivata?

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Ho già dato la disponibilità a venire in studio a spiegarvelo direttamente. Se ci saranno le condizioni, ben volentieri.

GIULIA INNOCENZI Non facciamo le interviste in studio, siamo noi inviati che facciamo le domande.

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Ma siccome io preferisco venire in studio in modo tale che le interviste non vengano tagliate…

GIULIA INNOCENZI Ma se lei ce lo dice adesso non la tagliamo, mi dica.

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Perché è un rischio per i consumatori, lo stanno dicendo tutti i medici, lo stanno ribadendo i principali centri di ricerca, si è raccontato che era un meccanismo più sostenibile anche sotto un punto di vista ambientale, le università statunitensi stanno dimostrando esattamente l’opposto. Ha un impatto in termini ambientali 26 volte superiore ai sistemi tradizionali.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Prandini probabilmente cita uno studio dell’Università della California uscito qualche mese fa, che però non è stato ancora peer reviewed, cioè validato dalla comunità scientifica. E gli stessi ricercatori dicono che mancano ancora diversi dati. Mentre Singapore, per farsi aiutare nel primo processo al mondo di autorizzazione della carne a base cellulare, ha istituito un comitato di ricerca indipendente, FRESH, un gruppo di lavoro presso l’università di Nanyang.

BENJAMIN SMITH - DIRETTORE DI FRESH – FUTURE READY FOOD SAFETY HUB L’Autorità per la sicurezza alimentare ha instaurato subito un contatto diretto con le aziende che hanno dovuto condividere tutti i dati in loro possesso. I dati sono stati condivisi con gli scienziati, questo ha consentito all’Autorità alimentare di andare avanti spedita con l’autorizzazione.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E come ha fatto la FAO, l’organizzazione delle Nazioni Unite sul cibo e l’agricoltura, che insieme all’OMS ha redatto un report sulla carne a base cellulare, a formulare un giudizio sulla sua sicurezza?

MARKUS LIPP – ESPERTO SICUREZZA ALIMENTARE - FAO Esistono già pubblicazioni scientifiche ma soprattutto abbiamo avuto accesso ai dati di Singapore: l’ente regolatore e le aziende, dopo un accordo di riservatezza, li hanno condivisi con noi e la nostra conclusione è che questi prodotti possono essere sicuri.

GIULIA INNOCENZI Come facciamo a sapere se il cibo a base cellulare non è pericoloso per la salute dell’uomo da qui a dieci anni, per esempio?

MARKUS LIPP – ESPERTO SICUREZZA ALIMENTARE - FAO Ci sono già delle ricerche legate alle cellule, alla genetica, alle sostanze chimiche. Questa conoscenza scientifica la applichiamo alla carne a base cellulare e, se non c’è motivo per pensare che sia diverso da ciò che già conosciamo, la conclusione è che è sicuro al pari degli altri cibi.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Gli Stati Uniti hanno appena dato luce verde al pollo coltivato dell’israeliana Upside Foods e di Good Meat, la startup americana che ha già avuto il via libera da Singapore. L’EFSA, l’autorità europea per la sicurezza alimentare invece non ha ancora ricevuto nessuna domanda di autorizzazione.

GIULIA INNOCENZI Sarà l’EFSA, l’autorità per la sicurezza alimentare, a decidere sull’eventuale commercializzazione di questi prodotti. Non si fida dell’autorità europea, ministro? Non è meglio aspettare la decisione dell’autorità, ministro?

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Non mi devi spingere, devi essere educata.

GIULIA INNOCENZI Si calmi, devo fare le domande al ministro!

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Io lavoro col ministro. Ci sarà un punto stampa, deve aspettare. Lo diremo noi quando parla, un attimo. E non mi spinga, per favore!

GIULIA INNOCENZI Ma non l’ho spinta assolutamente!

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Non dovete essere invadenti.

GIULIA INNOCENZI Ma non sono invadente, ho chiesto un’intervista al ministro via e-mail, adesso se gli posso fare due domande…

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Adesso fa un punto… Quando le diremo di sì, quando le diremo di sì farà l’intervista al ministro.

GIULIA INNOCENZI Finora avete detto di no, se magari ci dice di sì.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA E adesso aspetti, aspetti… con calma, stia calma.

GIULIA INNOCENZI Io sono calmissima signora, mi scusi eh!

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Ma non deve buttarsi addosso.

GIULIA INNOCENZI Ma non mi butto addosso. Se mi fa fare una domanda, andiamo via.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Le domande sono solo su questo evento se le vuole fare, sennò no.

GIULIA INNOCENZI Eh, sul cibo.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Domande diverse non gliele faccio fare.

GIULIA INNOCENZI Ma è lei che decide le domande per il ministro su un evento sul cibo?

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Sì, sì, sono il suo capo comunicazione.

GIULIA INNOCENZI La carne coltivata no.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Quello lo vediamo, faccia domande giuste.

GIULIA INNOCENZI Ah, le domande devono essere giuste? Lo decide lei.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Giuste, inerenti a questo evento.

GIULIA INNOCENZI La carne coltivata è il cibo.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Eh, ma tanto non risponde.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE A lei già abbiamo risposto, basta.

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA A lei già ha già risposto, basta.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Il disegno di legge voluto dal governo, ora in discussione al Senato, vieta anche l’importazione della carne a base cellulare. Ma può uno Stato membro vietare l’importazione di un prodotto una volta che è stato autorizzato dalla Commissione?

TILLY METZ – EURODEPUTATA GRUPPO VERDI - ALLEANZA LIBERA EUROPEA L’Unione europea è costruita sul mercato unico e quindi vietare l’importazione di un prodotto non è possibile.

GIULIA INNOCENZI Prandini, nel frattempo cosa facciamo rispetto all’impatto ambientale della zootecnia, degli allevamenti intensivi, che è altissimo, rispetto al consumo di carne di oggi?

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI L’Italia è il Paese più sostenibile a livello globale.

GIULIA INNOCENZI Gli allevamenti intensivi contribuiscono al 14,5% delle emissioni di gas serra.

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Questo è il dato a livello globale. Se lei mi parla di un allevamento intensivo come c’è in Qatar, come c’è in Arabia Saudita, in pieno deserto, in stalle che non vedono la luce del giorno gli animali.

GIULIA INNOCENZI In Italia non abbiamo allevamenti intensivi?

ETTORE PRANDINI - PRESIDENTE COLDIRETTI Il sistema degli allevamenti italiano che noi definiamo intensivo, non è intensivo.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Quello di negare che il 90% circa della produzione di latte e carne italiani venga dagli allevamenti intensivi, quindi con un forte impatto ambientale, è una tendenza anche del ministro Lollobrigida.

GIULIA INNOCENZI Ministro, scusi, rispetto al cambiamento climatico, cosa pensa rispetto all’impatto della zootecnia, come si può fare a ridurre l’impatto?

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA Ora basta, è finito… è finito.

GIULIA INNOCENZI È una domanda sul cambiamento climatico, non va bene neanche questa?

UFFICIO STAMPA MINISTRO LOLLOBRIGIDA È finito il punto stampa. Quando vuole fare un’intervista, dagli il mio cellulare, mi chiama e la coordiniamo.

GIULIA INNOCENZI Benissimo, anche perché ve la abbiamo già richiesta l’intervista.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora con il ministro avremmo voluto parlare di un tema che sarà al centro del dibattito politico e imprenditoriale nel mondo. Noi invece siamo l’unico governo che ha espressamente vietato la commercializzazione, la produzione, l’importazione di carne a base cellulare. Allora intanto Lollobrigida dice che è per motivi precauzionali, noi sospettiamo che sia invece un appiattimento sulla linea dettata da Coldiretti. Il divieto di commercializzazione, entrando nel provvedimento, di fatto è un provvedimento inutile. Perché nessun alimento può entrare in commercio in Europa se non è prima approvato dall’EFSA, dall’agenzia sulla sicurezza alimentare europea. Di fatto Lollobrigida vieta un fatto che è già di suo vietato. Se invece un domani l’Unione europea dovesse approvare la commercializzazione della carne sintetica, beh allora il provvedimento di Lollobrigida non varrebbe nulla perché non può impedire il libero scambio, la libera commercializzazione di merci all’interno dei paesi membri. Poi, l’unico risultato sarà sicuramente quello di tagliare le gambe alle aziende italiane ed è un peccato perché noi abbiamo delle eccellenze nel campo della progettazione e costruzione dei bioreattori. Ora, secondo Coldiretti invece il processo di produzione di carne a base cellulare potrebbe sviluppare delle cellule cancerogene. Ora però secondo la Fao, nel report sugli alimenti a base cellulare, c’è scritto proprio che le attuali conoscenze scientifiche non supportano la possibilità che il cancro si trasmetta con il passaggio di cellule malate. Poi, sempre Coldiretti ha diffuso delle informazioni in base alle quali la carne coltivata è prodotta da un bioreattore da cellule impazzite. Ha messo anche vicino al bioreattore il simbolo della radioattività del nucleare. È terrorismo mediatico, perché qua il nucleare e le radiazioni non c’entrano nulla, sono un po' come il cavolo a merenda. E non ha senso parlare di cellule impazzite perché insomma il bioreattore non è null’altro che un apparecchio che è stato anche già usato abbondantemente per fermentare il mosto d’uva, trasformazione in vino, attraverso poi l’utilizzo di lieviti o anche della birra. E poi le cellule che sono dentro il bioreattore sono più controllate, attraverso delle analisi, rispetto a quelle della carne all’interno di un bovino. Poi, sempre Coldiretti, afferma che produrre carne a base cellulare inquina di più. Probabilmente Prandini si riferisce a uno studio dell’Università di California che ha studiato l’impatto sull’ambiente della produzione della carne sintetica e che dice che le emissioni emesse sono da 4 a 25 volte più elevate rispetto a quelle prodotte da allevamenti di carne tradizionale. Ora, premesso che si tratta di uno studio non revisionato e non suggellato da terzi, insomma gli stessi studiosi poi dicono che va approfondito ulteriormente. Un concetto quello dell’inquinamento maggiore per chi produce carne sintetica che è stato ripreso anche da alcuni articoli però bisogna fare una precisazione: se la energia che viene utilizzata dagli impianti per produrre carne sintetica proviene da fonti energetiche pulite insomma l’impatto è sicuramente minore. Sicuramente c’è meno consumo di suolo e di acqua rispetto agli allevamenti intensivi che ricordiamo invece sono la causa dell’emissione del 14.5% di tutte le emissioni di gas serra. Mentre invece sulla situazione degli allevamenti intensivi in Italia ha ragione Prandini che noi non siamo l’esempio peggiore. Tuttavia, il problema è globale. E’ vero che i ricercatori della Fao e quelli dell’Agenzia europea dell’ambiente, sono preoccupati perché prevedono un incremento dei consumi di domanda globale di carne in crescita addirittura del 73% entro il 2050. Del 58% invece il consumo di latte. Ecco, a questo si somma la crescita della popolazione mondiale e soprattutto di quella fascia, quella classe media che è quella che consuma di più. Insomma, lo scenario è apocalittico. Ecco, un esempio di quello che potrebbe accadere viene dall’ Olanda, un Paese piccolo che è il supermarket però dell’Europa. Dove il governo, per difendere l’ambiente, ha dovuto prendere un provvedimento che non a tutti è piaciuto.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Da più di tre anni gli allevatori in Olanda organizzano proteste in grado di bloccare il Paese. I trattori occupano le autostrade, le città e, come in questo caso, sparano letame contro la casa dell’allora ministro dell’Agricoltura, preso di mira per la cosiddetta legge sui nitrati. È una legge che fa parte del piano del governo contro l’inquinamento e prevede che l’Olanda dovrà ridurre di almeno un terzo gli animali allevati. È il primo Paese al mondo a mettere in piedi una misura così drastica e per farlo il governo ha messo sul piatto 24 miliardi di euro, che servirebbero per compensare gli allevatori costretti a chiudere le stalle. Fra loro c’è anche Omgo Nieweg, proprietario di un allevamento da 200 bovini ad Adorp, nel nord dei Paesi Bassi, salito agli onori delle cronache al culmine degli scontri con la polizia quando durante l’assalto al Consiglio provinciale è rimasto ferito al volto.

OMGO NIEWEG - ALLEVATORE Mio padre, mio nonno, anche loro erano allevatori. Siamo qui già dal 1985, avevo 15 anni, all’epoca siamo partiti con 50 vacche da latte.

GIULIA INNOCENZI Ha investito tanti soldi nell’allargare anche l’allevamento e adesso con la nuova legge sui nitrati come farà?

OMGO NIEWEG - ALLEVATORE Andrò avanti a fare l’allevatore come ho sempre fatto. Penso che la natura e l’allevamento vadano di pari passo. È sempre stato così.

GIULIA INNOCENZI Qui in Olanda però avete il triplo di nitrati rispetto al resto dell’Europa, e quindi questi nitrati possono infiltrare l’acqua e inquinare.

OMGO NIEWEG - ALLEVATORE Non penso che ci sia un’emergenza nitrati, possiamo gestire il problema, anche grazie alle innovazioni tecnologiche.

GIULIA INNOCENZI Quello è suo figlio, sul trattore?

OMGO NIEWEG - ALLEVATORE Sì, è mio figlio. Sta preparando la stalla per questa notte, quando rientreranno le vacche. Sono orgoglioso di lui.

GIULIA INNOCENZI Non hai paura della nuova legge, di quello che succederà in futuro?

FIGLIO ALLEVATORE Sì, ho paura, ma l’unica cosa che voglio fare è l’allevatore.

GIULIA INNOCENZI Non prenderesti i soldi che vi dà il governo per comprare l’allevamento?

FIGLIO ALLEVATORE No, no, no, no.

GIULIA INNOCENZI Neanche per un milione di euro?

FIGLIO ALLEVATORE No, per noi non è una questione di soldi.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Johan Vollebbroek, chimico di formazione e giurista per passione, è convinto che molti allevatori saranno costretti a chiudere. È grazie a lui, o molti direbbero per colpa sua, che l’Olanda è costretta ad adottare la legge sui nitrati. Ha denunciato il suo Paese alla Corte europea e ha vinto.

GIULIA INNOCENZI Su cosa si è basata la battaglia che lei ha portato avanti in tribunale?

JOHAN VOLLENBROEK - CONSULENTE “MOBILITAZIONE PER L’AMBIENTE” Il problema è che in Olanda negli ultimi cento anni abbiamo perso l’80% della biodiversità. Significa che stiamo perdendo per sempre alcune specie di insetti, piante e uccelli. Il nostro Paese sta morendo per colpa dei nitrati. Una direttiva europea dice che per difendere la biodiversità bisogna conservare gli habitat naturali, mentre l’Olanda ha continuato a distruggerli. Così nel 2019 il Consiglio di Stato ha congelato le licenze a tutte le attività produttive che generano i nitrati: da allora nessuna nuova industria e nessuna costruzione può essere autorizzata. Il danno ammonta a circa 26 miliardi di euro. È un disastro per la nostra economia!

GIULIA INNOCENZI Pensa che l’Olanda rimarrà un caso unico?

JOHAN VOLLENBROEK - CONSULENTE MOBILITAZIONE PER L’AMBIENTE Noi siamo i primi, ma la sentenza della Corte europea del 2018 riguarda tutta l’Europa.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO L’Olanda è il primo Paese ad affrontare queste misure radicali per ridurre le emissioni inquinanti perché, nonostante sia uno dei Paesi più piccoli dell’Unione europea, conta 100 milioni di polli, 11 milioni di maiali e 5 milioni fra bovini e caprini. Ha la più alta densità di vacche al mondo e sono queste che inquinano di più in termini di metano. Gli allevatori però non vogliono sentir ragioni e hanno fondato un partito, il BBB, che ha stravinto alle elezioni provinciali di marzo scorso, diventando il primo partito del Paese. Eddie van Marum gestisce un servizio funebre e fa anche da consulente per gli allevatori. Con 3790 voti è stato eletto nel consiglio provinciale di Groningen.

EDDIE VAN MARUM - CONSIGLIERE PROVINCIALE DI GRONINGER - BBB La legge sui nitrati è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso.

GIULIA INNOCENZI Lei è d’accordo che in Olanda ci sono troppi animali e quindi il numero di animali va ridotto per l’inquinamento?

EDDIE VAN MARUM - CONSIGLIERE PROVINCIALE DI GRONINGER - BBB No, non penso che ci siano troppi animali, penso che ci siano troppe regole. Finché per gli allevatori rispettare l’ambiente e il clima rappresenta un costo anziché un’opportunità, non caveremo un ragno da un buco. Oggi gli allevatori per stare in piedi, per colpa anche delle politiche dell’Europa, sono costretti a produrre in maniera intensiva.

GIULIA INNOCENZI Il governo ha messo sul piatto 24 miliardi di euro come compensazione per gli allevatori. Non pensa sia abbastanza?

EDDIE VAN MARUM - CONSIGLIERE PROVINCIALE DI GRONINGER - BBB Gli allevatori stanno subendo una vera e propria ingiustizia, sono diventati tutti dei fuorilegge, perché la loro licenza non vale più. Se davvero cominceranno a chiudere gli allevamenti, ci sarà una sommossa popolare. Il governo non ha ancora visto niente di quello che sono capaci di fare gli allevatori.

GIULIA INNOCENZI Il partito degli allevatori olandese ha ottenuto sostegni eccellenti, dalla francese Marine Le Pen all’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump.

23/07/2022 DONALD TRUMP - PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI (2017 - 2021) Gli allevatori olandesi si stanno battendo con coraggio contro la tirannia climatica del loro governo. Ci potete credere? Il governo vuole chiudere diversi allevamenti, nonostante la carenza di cibo. E voi sarete i prossimi. Noi ci battiamo contro i fanatici del clima, stiamo dalla parte degli allevatori coraggiosi che si stanno battendo per la libertà.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO A livello nazionale hanno trovato l’appoggio dell’estrema destra. Poi, dopo le elezioni provinciali, i rappresentanti del partito degli allevatori sono entrati in Senato. Insomma, c’è da scommettere che faranno di tutto pur di non fare approvare la legge sui nitrati. Però l’Olanda non può tornare indietro deve far rispettare la direttiva a difesa dell’habitat, difesa dell’ambiente. Dall’Olanda però arriva un segnale chiaro: da oggi in poi chiunque nel mondo sarà costretto a pagare per le scelte, per le leggi che vogliono tutelare dal cambiamento climatico, tutelare l’ambiente, si opporrà, farà cartello, inciderà sullo svolgimento democratico del Paese e troverà anche l’appoggio di una parte politica disposta a cavalcare la loro protesta. Il negazionismo sul cambiamento del clima da tempo è entrato nell’agenda dell’internazionale sovranista; quando invece si tratta di scelte per il futuro del mondo bisognerebbe operare senza ideologie e solo per il bene comune. Per esempio, a Singapore abbiamo visto che si può produrre grazie alle fattorie verticali 50 volte in più rispetto alla coltivazione tradizionale di ortaggi o verdure ma consumando il 97% in meno di acqua. Ecco, perché non studiarli e addottorali anche questi modelli? Anche perché intorno al consumo di acqua potrebbero scatenarsi delle vere e proprie guerre civili. Anche laddove non te lo aspetti.

Estratto dell’articolo di Fabiana Magrì per “la Stampa” l’8 aprile 2023.

La cosa più complicata, guardando la fettina ancora cruda nel suo pacchetto sottovuoto, con quel colore rosso tipico del manzo e le striature del muscolo, non è tanto comprenderne il processo produttivo, che l'azienda israeliana Aleph Farms è disponibile a spiegare in totale trasparenza nel Visitor Center all'interno dell'impianto di produzione pilota di Rehovot.

 A dirla tutta, la parte difficile è trovarle un nome. Perché questa fettina di origine bovina è un prodotto ibrido, all'incrocio tra biotecnologia alimentare e ingegneria tessutale, composta principalmente da muscolo, cellule produttrici di collagene e cellule adipose. Lo stadio finale della produzione avviene nel laboratorio dei bioreattori, un quartiere biologico sterile con condizioni di luce e calore a imitazione del corpo della mucca.

Qui le cellule staminali (cioè a uno stato di "verginità" che consente di farle maturare e diventare vari tipi di cellule) vengono nutrite con proteine, ferro, zinco e vitamina B12, poi si moltiplicano, si differenziano e si compongono intorno a una matrice proteica vegetale composta da soia e grano, tecnologia originale dell'azienda. Nulla è modificato geneticamente.

 […] Lo chef Amir Ilan, in forza fin dalla fase di start up, è responsabile della cucina per i test, gli assaggi, le dimostrazioni e gli eventi. Nel mondo si dibatte sull'aggettivo più corretto da usare per questa fettina, tra carne "coltivata", "sintetica", "pulita", "artificiale", "in vitro" o "di laboratorio".

Ma quelli di Aleph Farms si interrogano sull'adeguatezza della parola "carne" perché, sono convinti, dalla riflessione su "cosa è" e "cosa non è" questo nuovo cibo dipenderà il consenso (necessario) degli attori coinvolti in una transizione (anch'essa necessaria) dall'agricoltura convenzionale a quella cellulare.

[…]  «Siamo davanti a un salto evolutivo del genere umano che si verifica una volta ogni milioni di anni e che avrà un impatto significativo sull'adattamento della nostra specie sul pianeta terra», sostiene l'ingegnere alimentare e biologo.

 Le cellule coltivate, al pari della carne e del latte, possono materializzarsi in una varietà di cibi. La tanto discussa fettina è solamente una delle sue possibili declinazioni. Pertanto, dopo lunghe riflessioni, nelle prossime settimane Aleph Farms adotterà un rebranding dei prodotti.

[…] Insomma, mentre il governo Meloni discute il divieto di prodotti dell'agricoltura cellulare, come la carne coltivata in laboratorio, Aleph Farms, all'interno del consorzio di aziende internazionali Cellular Agriculture Europe di cui fa parte, sta portando avanti una campagna di informazione accurata sulla sicurezza e sui benefici ambientali di questi nuovi alimenti. […]

Estratto dell’articolo di Francesca Basso per il “Corriere della Sera” l’8 aprile 2023.

«L’Ue ha una direttiva che risale al 1996 che vieta il consumo di carne prodotta utilizzando ormoni. Quindi non vedo come sia possibile ipotizzare che il legislatore europeo autorizzi il consumo umano di carni prodotte in laboratorio». Paolo De Castro, ex ministro delle Politiche agricole ed eurodeputato del Partito Democratico, punto di riferimento a Bruxelles delle imprese agroalimentari italiane, interviene sul dibattito che si è acceso in seguito al disegno di legge del governo italiano che vieta la produzione, commercializzazione, importazione di cibi sintetici (in particolare carne, pesce, latte e mangimi artificiali per animali).

È d’accordo con il provvedimento del governo?

«[…] Al di là dei divieti e del resto, che saranno questioni da affrontare a livello europeo, stante l’attuale divieto Ue di consumo di carne con ormoni, come insegna la disputa commerciale con gli Usa, non vedo come sia possibile che ne sia autorizzato il consumo».

 Così non si blocca la scienza?

«Non bisogna mai fermare la scienza […] Tuttavia è necessario fare una riflessione sulla frattura tra il cibo da una parte e la natura dall’altra che crea questa idea dell’introduzione di prodotti coltivati in laboratorio, dalla carne al latte o altro».

Che cosa cambia?

«[…] mette in discussione un sistema di produzione che non solo caratterizza il cibo che noi consumiamo, ma anche il paesaggio rurale, gli aspetti legati al turismo e alla socialità».

[…] «[…] siamo di fronte alla negazione dell’agricoltura e dell’allevamento. È la sostituzione della natura con il laboratorio, si tratta di una pericolosa deriva che non ha nulla a che vedere con l’utilizzo degli insetti che sono comunque prodotti naturali. […]». […] «[…] C’è poi anche un problema di concentrazione nelle mani di pochi di questa tecnologia come dimostrano gli investimenti miliardari». […]

La carne da laboratorio fa bene alla salute? Contiene ormoni? Silvia Turin su Il Corriere della Sera l’08 aprile 2023

Una disamina delle proprietà della carne coltivata in vitro e le risposte alle domande scientifiche. I pro e contro per l’ambiente, la salute globale e personale

La carne coltivata è l’alternativa sostenibile agli allevamenti intensivi? Farebbe bene al Pianeta, ma male alla salute? È «sintetica»? Contiene ormoni?

Il dibattito sulla carne in vitro (coltivata in laboratorio a partire da cellule di un muscolo animale e destinata, prima o poi, ad arrivare sulle tavole dei consumatori) ferve dopo la presentazione del disegno di legge del governo italiano che vieta la produzione, commercializzazione, importazione dei cibi chiamati «sintetici». L’ultima dichiarazione in merito è quella di Paolo De Castro, ex ministro delle Politiche agricole ed eurodeputato del Partito Democratico, punto di riferimento a Bruxelles delle imprese agroalimentari italiane, che ha dichiarato al Corriere: «Non vedo come sia possibile che sia autorizzata, stante l’attuale divieto Ue di consumo di carne con ormoni».

Ma la carne coltivata in laboratorio contiene ormoni? Lo abbiamo chiesto a tre scienziati, che intervengono nel dibattito su un piano tecnico, rispondendo alle domande che si fanno i futuri consumatori soprattutto in merito alla salute.

La carne da «coltivazione cellulare» viene ottenuta prelevando cellule staminali da un muscolo vivente, per coltivarle in un bioreattore che riproduce le condizioni del corpo animale. Affinché le cellule si moltiplichino in maniera esponenziale (si parla di poche settimane di «coltivazione» rispetto a un anno e mezzo per far crescere un bovino) vengono immerse in un «terreno di coltura» con una miscela di nutrienti che sono, appunto, i «fattori di crescita».

«Non sono ormoni – spiega Carlo Alberto Redi, Accademico dei Lincei, presidente del Comitato di etica della Fondazione Umberto Veronesi —. C’è una presenza infinitesimale di insulina, ma tutto il resto sono acqua, zuccheri e sali, elementi che il nostro corpo utilizza normalmente».

«In questi brodi colturali ci sono dei fattori di crescita, che sono delle molecole, dei peptidi – aggiunge Stefano Erzegovesi, Nutrizionista. Sono tutti fattori naturali, perché altrimenti la cellula non li riconoscerebbe. La domanda è: il fatto di usare questi brodi arricchiti potrebbe lasciare nella carne un eccesso di fattori di crescita e quindi creare un prodotto cancerogeno? La risposta è probabilmente no, ma i dati scientifici con osservazioni sul lungo periodo sono ancora pochi. Quindi la soluzione non è vietare, ma fare andare avanti la ricerca e i controlli sulle carni coltivate».

I controlli sono previsti e dai dati disponibili non vengono nominati ormoni, né problemi di salute specifici: le aziende che stanno producendo la carne in vitro sono già autorizzate a lavorare dagli enti regolatori europei. Per la fase di messa in commercio, invece, le autorizzazioni sono ancora da richiedere e vagliare: se ne occupa l’EFSA (Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare), che analizzerà i dossier presentati dalle aziende su aspetti molto approfonditi. «Sono dati più completi rispetto a quelli che possono essere pubblicati sui giornali scientifici, hanno informazioni che chiunque nella comunità scientifica non potrebbe avere, sono migliaia e migliaia di pagine. Sulla base di quei rilievi potremmo fare le nostre controdeduzioni», dice Roberto Defez, direttore Laboratorio di biotecnologie microbiche IBBR-CNR di Napoli e aggiunge: «Sulla carne coltivata c’è un pregiudizio innanzitutto linguistico: di sintetico non ha nulla. C’è sempre questo mito del «ritorno alla natura», ma la natura non ha creato gli allevamenti intensivi: non siamo cacciatori che andiamo nella savana a competere con animali selvatici in un ambiente naturale».

«Il linguaggio ha creato delle paure a partire dalla dicotomia “sintetico/artificiale” – gli fa eco Redi – ma questa carne è molecolarmente identica a quella ottenuta uccidendo un animale, in più, diventa quasi una “tappa obbligata” perché la produzione di carne rossa non è più sostenibile». Le cellule coltivate in vitro non sono meno «naturali» di quelle che crescono e si moltiplicano in vivo negli animali stessi. Ciò che cambia è solo il contesto in cui crescono, il laboratorio.

Al netto delle comprensibili preoccupazioni per i lavoratori del settore e di tutta la filiera che produce carne da animali, i vantaggi che deriverebbero dalla promozione di una carne «alternativa» sono molteplici: etici, ambientali e di salute.

Innanzitutto la risposta alla questione etica: la possibilità concreta di ridurre quasi del tutto la sofferenza animale oggi causata dagli allevamenti intensivi, sofferenza che non si limita solo all’uccisione degli animali stessi, ma che deriva anche dalle condizioni di vita cui sono costretti.

Poi ci sono i vantaggi ambientali: alcune ricerche preliminari hanno concluso che la carne ottenuta da colture cellulari potrebbe usare il 7-45% in meno di energia, il 99% in meno di suolo, l’82-96% in meno di acqua, emettendo tra il 78-96% in meno di emissioni, a seconda del prodotto animale considerato.

Infine, la zootecnia intensiva inoltre sta creando un gigantesco problema di salute: «L’iper affollamento degli animali comporta il rischio di zoonosi, quindi del passaggio da animali a uomo di malattie infettive; in aggiunta, l’enorme uso di farmaci, necessari in quegli ambienti, aumenta il rischio di resistenza agli antibiotici un problema già attuale e grave per la salute umana», dichiara Erzegovesi.

Attualmente, si stima che oltre il 70% di tutti gli antibiotici utilizzati sul Pianeta siano impiegati per l’allevamento animale; l’Italia si piazza al terzo posto a livello mondiale. Inoltre, anche i reflui prodotti dagli allevamenti intensivi sono inquinati da antibiotici e batteri resistenti, il che ne rende rischioso il riutilizzo come fertilizzanti per l’agricoltura.

«È una carne della quale non possiamo fare a meno a fronte delle considerazioni sul Pianeta (foreste, acqua, antibiotico resistenza) e non abbiamo alcuna indicazione di pericolosità o nocività specifiche. Quindi c’è un guadagno secco dal punto di vista ambientale e della salute dell’alimentazione umana», afferma Carlo Alberto Redi.

È stato studiato quali sarebbero gli effetti di un’alimentazione basata sulla carne coltivata rispetto a quelli dovuti alla carne che siamo abituati a mangiare? Quali differenze? «Con questo tipo di carne abbiamo una possibilità in più – spiega Defez —: possiamo facilmente regolarne le quantità di grassi nocivi o determinare altri parametri per ovviare a specifiche emergenze nutrizionali e sanitarie. Per il resto, le considerazioni sono le stesse che si debbono fare sul consumo di carne rossa. Le agenzie per la sicurezza alimentare dicono che non bisogna consumarne molta. Le soglie di rischio saranno le stesse? Direi di sì».

«La carne coltivata farà bene al Pianeta e agli animali, ma non significa che sia una scelta alimentare salutare: mangiare due hamburger al giorno di carne coltivata a scapito di cereali integrali, legumi e verdure ci farà ammalare esattamente come la carne da allevamento (sotto la lente soprattutto l’aumentato rischio di alcuni tipi di tumore, ndr), perché si tratta comunque di un alimento privo di fibre e antiossidanti, come tutti i prodotti animali», specifica Erzegovesi. Quindi cosa ci rimane? «La soluzione ai problemi di salute dell’umanità e del Pianeta secondo me non è la carne coltivata, ma è quello che dice la EAT-Lancet Commission già dal 2019: il consumo di vegetali (frutta, verdura, frutta a guscio e legumi) deve raddoppiare mentre quello di alimenti come carne rossa e zucchero deve ridursi di oltre il 50%», conclude Erzegovesi.

Estratto dell'articolo di open.online il 3 aprile 2023.

«Nei laboratori si producano antibiotici e vaccini, non le bistecche». Con queste parole, l’infettivologo del San Martino di Genova Matteo Bassetti scende in campo (e pure platealmente) contro la carne sintetica. Con un post pubblicato sulla sua pagina Instagram, Bassetti – durante la «domenica delle Palme con gli amici e il barbecue» – si scaglia contro la carne sintetica, da giorni al centro del dibattito dopo la decisione del governo di vietare la produzione e la vendita di cibi prodotti in laboratorio a partire da cellule animali.

 [...]

«Se essere oscurantista vuol dire mangiare carne e bere un bicchiere di buon vino italiano sono orgoglioso di essere al buio…sempre meglio di quella luce violacea spacciata per superscientifica», conclude.

Da ansa.it il 3 aprile 2023.

Ricercatori attivi nel settore alimentare martedì hanno mostrato una gigantesca polpetta ricavata dalla carne ottenuta in laboratorio dalle cellule un mammut. L'evento è avvenuto al museo della scienza Nemo di Amsterdam e la polpetta è stata esposta sotto una campana di vetro dall'azienda di carne sintetica australiana Vow.

Le proteine del passato hanno mostrato la strada per i cibi futuri, hanno detto gli scienziati durante la presentazione, ma per poter provare la carne di mammut bisognerà aspettare ancora un po': le proteine millenarie richiedono test di sicurezza prima che gli esseri umani di oggi possano assorbirle.

"Abbiamo scelto la carne di mammut lanoso perché è un simbolo dei danni dei precedenti cambiamenti climatici" che hanno spazzato via l'animale, ha spiegato Tim Noakesmith, co-fondatore di Vow. Noakesmith ha aggiunto che rischiamo di "affrontare un destino simile se non facciamo le cose in modo diverso, compreso il cambiamento di pratiche come l'agricoltura su larga scala e il modo in cui mangiamo".

La carne è stata 'coltivata' per un periodo di diverse settimane dagli scienziati che per primi hanno identificato la sequenza del Dna della mioglobina di mammut, una proteina chiave che conferisce alla carne il suo sapore. Colmando alcune lacune nella sequenza della mioglobina mammut con i geni dell'elefante africano, il parente vivente più stretto del mammut, questa è stata poi inserita nelle cellule delle pecore usando una carica elettrica.

Estratto dell'articolo di Francesca Del Vecchio per “La Stampa” il 30 marzo 2023.

«Contro il cibo in provetta è meglio una vera porchetta». Ai circa cento agricoltori che hanno manifestato alla fiera agroalimentare «Cibus» di Parma con questo slogan non è bastata l'approvazione in Consiglio dei Ministri del decreto legge. Vogliono che sullo stop al cibo sintetico si acceleri.

 Nel testo del provvedimento, fortemente voluto dal titolare all'Agricoltura Francesco Lollobrigida (FdI) e licenziato dall'esecutivo di Giorgia Meloni martedì, si esplicita il divieto «di impiegare, vendere, importare, esportare, distribuire alimenti o mangimi costituiti a partire da colture cellulari o da tessuti derivanti da animali vertebrati». In altre parole, cibo in provetta, come lo chiamano i fedayyin del prodotto nostrano.

[…]  L'incognita potrebbe essere il parere dell'Efsa (autorità Ue per la sicurezza alimentare): se dovesse approvarne l'uso negli Stati membri, l'Italia non potrebbe opporsi alla distribuzione per via delle regole comunitarie della libera circolazione dei beni e dei servizi. E di conseguenza il provvedimento del governo diverrebbe sostanzialmente privo di efficacia.

La crociata degli allevatori, però, apre in Italia un capitolo dai contorni ancora troppo sfumati, nonostante le posizioni antitetiche di favorevoli e contrari. I fautori del Made in Italy – secondo Coldiretti lo stop promosso dal governo «salva 580 miliardi di euro di valore della filiera agroalimentare nazionale» – sostengono che l'intero comparto sarebbe a rischio, con in bilico circa 4 milioni di posti di lavoro in 740 mila aziende agricole, 70 mila industrie alimentari, oltre 330 mila realtà della ristorazione e ben 230 mila punti vendita al dettaglio.

 I favorevoli, invece, ritengono che la strada della produzione di carne coltivata, o carne «pulita», come la chiamano gli ambientalisti, sia l'unica per evitare il disastro climatico acuito dai gas serra degli allevamenti e dall'impiego massivo di acqua.

L'allevamento intensivo di animali, necessario per soddisfare la domanda di carne, impatta sull'ambiente con il 30% di utilizzo di suolo e circa l'8% di acqua dolce, generando il 17% dei gas serra del pianeta. Uno studio dell'Università di Oxford, «Environmental Impacts of Cultured Meat Production», ha concluso che, rispetto alla carne prodotta in modo tradizionale, quella di laboratorio potrebbe ridurre le emissioni di Co2 del 96%, con un consumo d'acqua inferiore fino al 95%, ed energetico tra il 7 e il 45%. […]

Come sempre, in Italia, l'opinione pubblica si è spaccata mentre gli esperti invitano alla cautela. «Quella di vietare i cibi artificiali, in particolare la carne, è una misura di prudenza. Ma chiudersi completamente alle nuove tecnologie è un errore», sostiene il professor Paolo Ajmone, ordinario di Miglioramento genetico animale all'Università Cattolica di Piacenza e direttore della Scuola di Dottorato del Sistema Agroalimentare Agrisystem. «Ne sappiamo ancora poco, è fondamentale che la ricerca vada avanti», aggiunge. Ajmone sostiene infatti che siano ancora molti gli aspetti da verificare. In primis gli effetti che questi alimenti possono avere sulla salute umana.

[…] Quanto alla sostenibilità economica su larga scala e all'accessibilità al prodotto, è bene considerare gli elevati costi di produzione, sempre secondo Oxford. «Al momento – sostiene Ajmone – non possiamo pensare a un processo produttivo, men che meno a un'esportazione della tecnologia di produzione in Paesi in via di sviluppo. Per cui, siamo ancora in una fase di test e di osservazione dei risultati. Accelerare i tempi vorrebbe dire creare un prodotto di nicchia, per ricchi, a costi troppo elevati».

Estratto dell'articolo di Emanuele Buzzi per corriere.it il 30 marzo 2023.

Beppe Grillo contro il governo sullo stop alla carne sintetica. […] Sul suo blog si rivolge ai lettori: «Dopo la notizia paradossale di ieri, prendetevi del tempo e informatevi. La carne coltivata in laboratorio è il futuro, per la salvaguardia degli animali e del nostro pianeta».

 […] Addirittura Grillo raddoppia e pubblica un secondo intervento su Facebook «“L’Italia è la prima nazione al mondo a dire no al cibo sintetico e alla cosiddetta carne sintetica […] Eppure questi alimenti […] sono tutt’altro che sintetici, e rappresentano una concreta alternativa agli allevamenti intensivi e alla macellazione, poiché per essere prodotti non richiedono la sofferenza e la morte di nessun animale».

Estratto dell’articolo di Antonio Todaro per “Libero quotidiano” il 31 marzo 2023.

E figuriamoci se non si metteva a tessere le sperticate lodi degli alimenti creati in laboratorio, lui chele innovazioni pseudo tecnologiche le descrive come l’unica possibilità di salvezza del genere umano - o perlomeno negli ultimi anni, visto che per esempio il computer, ora indicato da lui stesso come fonte di ogni possibile miglioramento, un tempo era sempre da lui descritto come ricettacolo di ogni male, tanto da fracassarne simbolicamente uno sul palco.

 Ma tant’è: «La #Carnecoltivata è il futuro». È così che scrive su Twitter il fondatore-ora-garante del Movimento 5 Stelle Beppe Grillo, peraltro già esplicito ammiratore delle farine ricavate da insetti […].

 Dopo lo slogan iniziale, ecco la spiegazione: «Qualche tempo fa scrive sempre Grillo sul blog, - ho visto questo interessantissimo documentario sulla carne coltivata.

Prendetevi del tempo e informatevi». E poi ribadisce: «La carne coltivata in laboratorio è il futuro, per la salvaguardia degli animali e del nostro pianeta».

 […] già un paio d’anni fa, sul sito che porta il nome dell’ex leader dei Cinque Stelle, comparivano articoli a favore della carne sintetica: uno in particolare, in cui l’autrice, tal Isha Datar, concludeva esultante spiegando che «mi entusiasmano i prodotti alimentari che oggi non riesco ancora a immaginare, perché questo è davvero un nuovo strumento anche per la creatività culinaria». Mentre noi, poveri retrivi e nostalgici, continuiamo a commuoverci davanti a un ossobuco alla milanese.

Adesso Grillo fa lo spot alla carne coltivata in laboratorio: "È il futuro". Luca Sablone il 30 Marzo 2023 su Il Giornale.

Il comico genovese si schiera a favore della carne coltivata in laboratorio: "È il futuro, per la salvaguardia degli animali e del nostro pianeta"

Anche Beppe Grillo si iscrive all'appello di coloro che credono convintamente nelle potenzialità della carne coltivata in laboratorio, un tema su cui invece il governo si è espresso in maniera contraria. Proprio nei giorni scorsi il Consiglio dei ministri ha approvato il disegno di legge che contiene le disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti e mangimi sintetici. La questione è destinata a far discutere ancora nelle prossime settimane e non manca chi si dice aperto a quella che ritiene essere un'opportunità.

Grillo vuole la carne coltivata

Il co-fondatore del Movimento 5 Stelle si è espresso sul tema attraverso un breve articolo pubblicato sul proprio blog. "La carne coltivata è il futuro. Prendetevi del tempo e informatevi", è stato il commento di Grillo nella descrizione su Twitter. Nel pezzo ha consigliato la visione di un documentario sulla carne coltivata che ha giudicato "interessantissimo". A conclusione ha ribadito a chiare lettere che la carne coltivata in laboratorio "è il futuro, per la salvaguardia degli animali e del nostro pianeta".

Ieri, sempre sul suo blog, ha ospitato un articolo a firma di Isha Datar incentrato sulla possibilità di mangiare carne senza uccidere gli animali. Tra le altre cose è stato affermato il sogno di un futuro dell'alimentazione "più grande e più audace". Ed è stato scritto che i limiti di ciò che può essere la carne cambieranno totalmente se la si coltiverà a partire dalle cellule: "La carne potrebbe essere sottile e traslucida. Potrebbe essere liquida. Potrebbe essere croccante, potrebbe essere spumeggiante".

Il "no" del governo

Dunque c'è chi sostiene che la carne coltivata possa essere una delle risposte più efficaci non solo alla fame nel mondo ma anche al cambiamento climatico. Dal suo canto il governo guidato da Giorgia Meloni ha esplicitato un netto "no" al cibo sintetico. È stato stabilito il divieto di impiegare, vendere, importare, produrre per esportare e somministrare cibi o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati.

La stretta dell'esecutivo è forte: in caso di violazione l'operatore sarà soggetto a una multa che va da 10mila fino a un massimo pari al 10% del fatturato realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente all'accertamento della violazione. Inoltre il prodotto sarà confiscato.

Mentre Grillo fa lo spot alla carne coltivata in laboratorio, dal ministero dell'Agricoltura e della Sovranità alimentare viene fatto notare che la decisione è stata presa in via precauzionale a livello nazionale "per tutelare gli interessi che sono legati alla salute e al patrimonio culturale". A spiegarlo è stato il ministro Francesco Lollobrigida: "Abbiamo voluto tutelare la nostra cultura e la nostra tradizione, anche enogastronomica. Se si dovesse imporre sui mercati la produzione di cibi sintetici, ci sarebbe maggiore disoccupazione, più rischi per la biodiversità e prodotti che, a nostro avviso, non garantirebbero benessere".

Estratto dell'articolo di Chiara Amati per corriere.it il 29 Marzo 2023

 «I Paesi ricchi dovrebbero mangiare carne sintetica al 100 per cento. Ci si può abituare alla differenza di gusto, senza contare che, nel tempo,verrà resa ancora più appetitosa […] è […]Bill Gates, […] «Ci stiamo avvicinando a grandi passi a un disastro climatico senza precedenti. Per evitarlo dovremmo cominciare a cambiare la nostra alimentazione, passando ad esempio al consumo di manzo sintetico e a prodotti alternativi a base vegetale».

«Non credo […]che gli 80 Paesi più poveri al mondo potranno mai mangiare carne coltivata, le cui tecniche di produzione sono piuttosto costose. Proprio per questo mi appello alle Nazioni politicamente e tecnologicamente più avanzate, in grado quindi di sostenerne i costi. Una strategia, questa, che consentirebbe di ridurre in maniera drastica l’inquinamento ambientale».

[…]«le mucche allevate per la carne bovina contribuiscono fortemente alle emissioni di gas metano. La cui quantità nell’atmosfera, tra il 2000 e il 2017, è cresciuta a dismisura arrivando a eguagliare i livelli dell’industria dei combustibili fossili». Fanno impressione, a tal proposito, alcune stime FAO secondo cui i 223 milioni di tonnellate di carne consumati nel 2020, entro il 2050 saliranno a 465 milioni.  […] Con un aumento del riscaldamento globale fino a quattro gradi Celsius entro la fine del secolo».

[…] Dal dicembre 2020, fa sapere Legambiente, «Singapore sdogana e autorizza la vendita di pepite di carne di pollo sintetica». Mentre a Tel Aviv, a gennaio 2021, viene inaugurato «The Chicken», il primo locale con un menu di carne coltivata in laboratorio, anche grazie a stampanti 3D in grado di ricreare la struttura muscolare della carne bovina e offrirla a prezzi inferiori a quelli del mercato tradizionale.

Insomma, cresce la coscienza comune. I grandi players mondiali stanno dimostrando un interesse maggiore a tematiche vitali per il Pianeta: deforestazione, land grabbing con milioni di ettari coltivati per produrre mangimi, con la distruzione di interi stock ittici, la conseguente perdita di biodiversità e i crescenti rischi sanitari». […]

Estratto dell'articolo di rainews.it il 29 Marzo 2023

L'ordine del giorno del Consiglio dei ministri che si terrà oggi pomeriggio prevede anche un disegno di legge che riguarda gli alimenti e i mangimi sintetici. "La presente legge detta disposizioni in materia di divieto di produzione e di immissione sul mercato di alimenti sintetici", si legge nella relazione illustrativa del provvedimento visionato dall'AGI.

 Si stabilisce il divieto di produzione e commercializzazione di alimenti sintetici, il divieto "comprende sia gli alimenti destinati al consumo umano che i mangimi destinati al consumo animale".

 Gli operatori che violeranno le disposizioni saranno soggetti alla sanzione amministrativa pecuniaria "da un minimo di euro 10.000 fino ad un massimo di euro 60.000 ovvero fino al 10 per cento del fatturato totale annuo realizzato nell'ultimo esercizio chiuso anteriormente all'accertamento della violazione, quando tale importo è superiore a euro 60.000, oltre alla confisca del prodotto illecito".

 […]

 In alcuni Paesi extra europei sono - si sottolinea nella bozza del provvedimento - in fase avanzata "gli studi finalizzati alla produzione a fine commerciali di tali alimenti" e negli Stati Uniti è arrivato il via libera "alla prima carne di pollo prodotta in laboratorio cioè una carne che si produce facendo sviluppare in laboratorio cellule animali".

[…] Le autorità competenti per i controlli saranno "il Ministero della salute, le Regioni, le aziende sanitarie locali, il Comando carabinieri per la Tutela della salute, attraverso i Nuclei Antisofisticazione territorialmente competenti, il Comando Unità Forestali, Ambientali e Agroalimentari".

La carne cruda.

Perché la bistecca si può mangiare al sangue e l’hamburger no? FABIANA SALSI su Il Corriere della Sera il 25 Gennaio 2023.

C’è un distinguo da fare, che dipende da batteri pericolosi come la Salmonella. Per annientarla è fondamentale seguire poche ed efficaci regole. Ecco quali

Bistecca al sangue, i rischi

Carne al sangue: sì o no? La risposta - per chi la mangia - non dipende dai gusti. Ci sono infatti distinguo da fare per via di batteri come Salmonella e Escherichia coli: agenti patogeni che possono causare disturbi intestinali anche di grave entità, che in alcuni casi si eliminano completamente con la cottura, e in altri invece no.

Se ormai è risaputo che la carne bianca, come il pollo, proprio per questo va sempre cotta completamente e maneggiata con molta cura, è facile invece cadere nell'errore per quanto riguarda la carne di manzo. La differenza, in particolare, riguarda bistecche e hamburger.

Nel primo caso, via libera: le bistecche si possono mangiare anche al sangue senza correre rischi. I batteri - quando ci sono - sono solo superficiali e quindi vengono completamente abbattuti anche solo con una breve cottura in padella o alla griglia. Per quando riguarda invece gli hamburger, il discorso cambia completamente: dato che sono composti da carne trita, e quindi da tanti pezzi diversi, Salmonella ed Escherichia coli potrebbero essere anche all'interno. Rischio che si moltiplica quando sono prodotti con carni di diversi animali. Proprio per questa ragione, sarebbe meglio cuocerli completamente, seguendo una procedura di preparazione ben precisa. Poche regole che è bene conoscere anche perché, per via della loro praticità, gli hamburger sono uno dei secondi piatti che mangiamo più spesso, e che facciamo mangiare ai bambini, tra i soggetti più sensibili all'effetto di questi batteri. Per sapere come fare, continuate a leggere

La prevenzione, al supermercato

A fare prevenzione si comincia facendo la spesa. Come tutti i prodotti da frigo o freezer, per evitare la proliferazione batterica anche con gli hamburger bisogna stare attenti a non interrompere la catena del freddo. L'ideale sarebbe tenerli in una borsa frigo nel tragitto dal supermercato a casa, e poi metterli subito in frigo nel ripiano dedicato alla carne.

Lo scongelamento (quando sono in freezer)

Così come si fa con il pesce congelato, e tutti gli altri tipi di carne, per evitare la proliferazione di batteri nel caso di hamburger congelati, l'ideale è scongelarli in frigo, sempre nel ripiano della carne. Scorciatoie come l’acqua calda non fanno altro che aumentare la carica batterica.

La preparazione

Per evitare che la carne sia troppo fredda, e quindi cuocia meglio anche internamente, bisognerebbe tirarla fuori dal frigo circa 10 minuti prima. Inoltre, per scongiurare la contaminazione batterica, come sempre per ogni tipo di carne o pesce, è bene tenere anche gli hamburger lontano da altri alimenti. Da non dimenticare: dopo aver maneggiato la carne cruda, le mani vanno sempre lavate accuratamente. In caso di tagli, anche piccoli, è fondamentale usare i guanti per evitare la penetrazione diretta di eventuali batteri.

La cottura

Per cuocere completamente un hamburger eliminando ogni possibile traccia batterica, la temperatura ideale è di 72 gradi. Va cotto su entrambi i lati, per due/tre minuti ciascuno, girandolo con una spatola in modo che non perda i succhi e quindi sia anche più saporito. La prova del nove è il colore della carne: se c’è ancora un po’ di rosa l’hamburger non è ben cotto. Il gusto magari può sembrare migliore, ma nel dubbio è meglio che la carne sia ben cotta. Questo non vuol dire che non si può mangiare, ma è molto più sicuro. Se la carne è fresca, i sistemi di conservazione e gestione in cottura sono buoni e le norme di igiene sono rispettate non è per forza necessario. Ma prevenire , nel dubbio, è meglio.

Il Prosciutto.

Cosa contiene realmente il prosciutto cotto? Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 28 Febbraio 2023.

Tra tutti i salumi, il prosciutto cotto è il più amato dagli italiani e il consumo medio pro capite è di 4 chili l’anno. In Italia esiste dal 2005 un Decreto legge chiamato Decreto Salumi, e fino al 2016 in base a tale decreto si poteva chiamare prosciutto cotto solo il cosciotto vero e proprio del suino in cui fossero identificabili almeno 3 delle 4 fasce muscolari principali della coscia dell’animale. Dal 2016 in poi invece, con una modifica di legge al Decreto Salumi, si possono chiamare prosciutto cotto anche quei prodotti venduti sotto forma di cubotti, rettangolare e a cubetti. La modifica del decreto ha aumentato anche la tolleranza del livello di umidità presente nel prodotto, cioè è possibile inserire più acqua rispetto a come era stabilito in precedenza. Ma se si aggiunge più acqua si perde il sapore della carne, che in quantità cala. Allora come si fa a far sentire il sapore al consumatore? È tutta questione di chimica.

Secondo i regolamenti di legge, in Italia esistono in commercio 3 tipi diversi di prosciutto cotto:

quello di Alta Qualità. Presenta un 15-20% massimo di salamoia. La salamoia è data da acqua, sale, zucchero, spezie, antiossidante e conservante (nitrito di sodio). 

il prosciutto cotto scelto

il prosciutto cotto normale. Presenta una salamoia che va in quantità dal 60 al 75% del prodotto. Si aggiunge così tanta acqua, diminuendo la quantità di carne, per fare un prodotto più economico.

Come si evince dalle caratteristiche di tecnologia alimentare del prodotto, nel prosciutto cotto semplice, o normale, per trattenere l’acqua aggiunta e per dare sapore e consistenza che ricordi la vera carne, sarà necessario l’impiego di sostanze chimiche apposite: addensanti, amidi, carragenine, aromi, fecola di patate, coloranti, esaltatori di sapidità, fosfati, zucchero, polveri proteiche animali.  

Il prosciutto cotto normale e quello scelto, sono il prodotto della modifica attuata al decreto salumi nel 2016 e sono a tutti gli effetti considerati dagli esperti di tecnologie alimentari e di nutrizione, un prodotto ricomposto. Non si tratta di una vera coscia di suino cotta, bensì di una preparazione specifica a base di vari ingredienti diversi che poi viene cotta in forno e simula visivamente e anche a livello di gusto il vero prosciutto cotto, anche se da un punto di vista prettamente legale e normativo questa preparazione è considerata “vero” prosciutto cotto, dal 2016 in poi.

Ma la cosa che più ritengo poco accettabile, come consumatore e come esperto di alimentazione sana, è il fatto che alcune di queste sostanze usate per il prodotto ricomposto non sono neppure dichiarate in etichetta tra gli ingredienti, in quanto non vige l’obbligo di farlo. Inoltre in etichetta quando ci rechiamo al supermercato per acquistare del prosciutto cotto, non troviamo alcuna indicazione che segnali se un prodotto è fatto con vera coscia di suino o con prodotto ricomposto. In Germania, al contrario, la normativa impone l’obbligo di dichiarare sulla confezione del prodotto se il prosciutto cotto è ricomposto o fatto da coscia intera. Il consumatore quindi è più tutelato e informato, rispetto a ciò che avviene in Italia. 

Quanto è veritiera l’etichetta del prosciutto cotto?

Alcuni ingredienti usati per produrre il prosciutto cotto ricomposto non sono dunque nemmeno dichiarati nella lista ingredienti, in quanto non vige l’obbligo di farlo. Un esempio di ciò sono le proteine in polvere di carne suina, che non si leggono come tali sulla lista ingredienti. La legge consente di non dichiararle così, ma di inserirle con la voce di “aromi” o “aroma naturale”. Un altro ingrediente che si utilizza per i prodotti ricomposti è un enzima di origine batterica chiamato transglutaminasi. Non c’è obbligo di dichiarazione in etichetta perché viene considerato, in base ai regolamenti europei sugli additivi alimentari, un coadiuvante tecnologico e non un vero e proprio ingrediente o additivo. Che significa? I coadiuvanti sono sostanze che aiutano il processo produttivo ma che alla fine della preparazione, ad esempio la cottura di carni come nel caso del prosciutto cotto o della mozzarella, rimangono nel prodotto finale soltanto in piccolissime quantità oppure hanno perso del tutto o attenuato fortemente la loro azione chimica. La funzione tecnologica di questo enzima nella preparazione del prosciutto cotto è quella di incollare e compattare fra loro i pezzi di carne macinata del prodotto ricomposto. Viene infatti chiamato anche “colla per carni”.

Il problema dell’enzima transglutaminasi è che determina in alcune persone problemi di intolleranza e irritazione intestinale, per cui si tende a non dichiararlo in etichetta oppure a classificarlo con la voce “aromi”, come emerso da una recente inchiesta giornalistica sulla produzione del prosciutto cotto industriale. Un lavoro di ricerca di scienziati tedeschi e israeliani ipotizza che la transglutaminasi aggiunta nei prodotti industriali potrebbe aver contribuito negli ultimi decenni all’aumento della celiachia nella popolazione occidentale, come confermato anche dal professor Alessio Fasano, uno dei massimi esperti al mondo di celiachia. Non esistono attualmente studi definitivi sulla sicurezza alimentare di questo enzima batterico per la salute dell’uomo. I rischi di questo enzima li sta valutando l’EFSA, l’Agenzia per la sicurezza alimentare in Europa, ma lo studio definitivo è fissato in agenda entro il 2099. Nel frattempo l’industria può tranquillamente usare questo additivo nelle preparazioni industriali. 

[Il termine temporale (deadline) dell’EFSA per stabilire il rischio e la sicurezza alimentare dell’enzima transglutaminasi]

E quello di Alta Qualità? È davvero di qualità?

Intanto va segnalato che anche in quello Alta Qualità c’è sempre la presenza dei seguenti ingredienti aggiunti, oltre la coscia di suino:

Zucchero (saccarosio)

Glutammato monosodico (esaltatore di sapidità)

Aromi

Nitrito di sodio (conservante classificato come probabile cancerogeno dallo IARC – Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro dell’OMS)

Rimane anche da chiedersi se queste carni siano davvero di alta qualità, aldilà delle belle etichettature e diciture consentite dalla legge. Sono animali allevati bene e con mangimi sani? Pare proprio di no, dal momento che i suini per la produzione del prosciutto cotto (al contrario di ciò che avviene per i suini allevati per il prosciutto crudo DOP) possono provenire da qualsiasi tipo di allevamento e da qualsiasi Paese europeo o extra-europeo. Si tratta di allevamenti intensivi ovviamente, sulla cui qualità della carne poco sappiamo e poco possiamo sperare, come avviene per qualsiasi altro allevamento animale intensivo (polli, bovini, mucche da latte ecc.).

Pertanto definire questo prodotto come di “alta qualità” è a mio avviso più una bella e consolante etichettatura che un criterio di qualità oggettiva del prodotto. [di Gianpaolo Usai]

Estratto dell’articolo di Giuseppina Scaccabarozzi per ilfattoquotidiano.it il 30 maggio 2023.

Un rapporto di “sudditanza” quello fra il controllore CSQA, l’ente di certificazione di sistema e di prodotto, e il controllato, il Consorzio del Prosciutto di Parma, che ha portato alla sospensione dell’ente certificatore decisa dal ministero dell’Agricoltura e della Sovranità alimentare, nel febbraio del 2022. 

Eppure, il 21 dicembre 2022 il ministero di Francesco Lollobrigida ha confermato nuovamente l’incarico a CSQA, che controllerà gli allevamenti, i macelli e i prosciuttifici del Consorzio per i prossimi tre anni. Sulla base di quali garanzie di imparzialità?

È la domanda alla base della nuova inchiesta di Report, Che porci!, a firma di Giulia Innocenzi, che andrà in onda lunedì alle 21.20 su Rai3 e che mostrerà immagini choc di diversi allevamenti di suini destinati a diventare il prestigioso prosciutto di Parma. 

Come per esempio un allevamento in provincia di Cremona infestato dai topi. Per correre ai ripari l’allevatore utilizza il rodenticida, ma anziché metterlo “in contenitori per esche a prova di manomissione”, come recitano le istruzioni per l’uso, lo sparge nei corridoi e sulle gabbie delle scrofe. Il rischio è che non siano solo i topi a mangiarselo, ma anche i suini.

Quel che è certo, perché catturato dalle immagini ottenute dall’associazione Last Chance for Animals e date in esclusiva a Report, è che capita che i suini si mangino i topi, soprattutto quelli che muoiono nei loro recinti. Sono topi morti dopo aver ingerito il veleno? Se così fosse questo potrebbe entrare in circolo nel suino, finire nei muscoli, e infine al consumo umano. 

In un altro allevamento, in provincia di Brescia, le carcasse dei suini che muoiono in allevamento vengono lasciate all’aperto per diversi giorni, anziché essere riposte in una cella frigo in attesa che le ritiri una ditta di smaltimento specializzata. Questo comportamento è contrario alle norme di biosicurezza, oggi una priorità per scongiurare la diffusione di virus e malattie. […]

Com’è possibile che tutto questo avvenga in alcuni degli allevamenti dell’eccellenza delle DOP italiane? I controlli, dicevamo. Il primo livello è quello dei servizi veterinari che hanno il compito di vigilare sulle condizioni delle strutture e degli animali per verificare che sia garantito il “benessere”. 

Il secondo livello, quello che monitora soltanto gli allevamenti i cui suini finiranno nel circuito delle DOP, è garantito dall’ente certificatore. Nel caso del Consorzio del Prosciutto di Parma è il CSQA, il principale ente italiano che controlla più di settanta prodotti, ad aver assunto l’incarico nel gennaio del 2020, in seguito a quello che è stato ribattezzato il più grande scandalo nel mondo delle DOP.

Si era scoperto, infatti, che per fare il prosciutto di Parma venivano usati anche i maiali danesi che hanno il vantaggio di crescere prima e ingrassare di più e quindi di portare più chili al macello, traducendosi in un maggiore guadagno per tutti. Ma questa genetica è vietata dal Disciplinare, e quindi furono distolti dal circuito DOP più di un milione di prosciutti.

Il Consorzio si affida allora a un nuovo ente certificatore: il CSQA. Il nuovo piano dei controlli adottato era molto rigoroso e produceva quindi molte non conformità che si traducevano in multe. I produttori del Consorzio – racconta Report – si lamentano e l’ente certificatore per non perdere il cliente – che gli vale circa sei milioni di euro l’anno – corre ai ripari, chiedendo ai propri ispettori di chiudere un occhio sulle irregolarità.

In alcuni casi, testimonia l’inchiesta di RAI3, vengono stracciati i verbali già redatti, così da non far scattare le multe. Alcuni dipendenti di CSQA non ci stanno e nel dicembre del 2020 scrivono al ministero dell’Agricoltura, che nel 2021 indaga in segreto e conferma alcune anomalie segnalate. […]

Che porci! Report Rai PUNTATA DEL 29/05/2023 di Giulia Innocenzi

Collaborazione di Greta Orsi e Giulia Sabella

Sono circa 3600 gli allevamenti che fanno parte del circuito DOP del Prosciutto di Parma.

Sono circa 3600 gli allevamenti che fanno parte del circuito DOP del Prosciutto di Parma. A verificare che venga rispettato il disciplinare c'è il CSQA, l'ente certificatore più grande d'Italia, che ha assunto l'incarico nel gennaio del 2020, dopo che lo scandalo della genetica aveva travolto l'ente controllore precedente. Il nuovo corso doveva essere segnato da controlli rigorosi e intransigenti, ma a seguito di una segnalazione di alcuni dipendenti, il ministero dell'Agricoltura scopre che il CSQA è più orientato ad assecondare le esigenze della filiera che preoccupato del rispetto della conformità al disciplinare  e decide così di sospenderlo. Ma a dicembre dell'anno scorso il ministero ora diretto da Francesco Lollobrigida conferma nuovamente l'incarico al CSQA per i controlli al Prosciutto di Parma per i prossimi tre anni. Sulla base di quali garanzie? Report mostrerà documenti e audio esclusivi che gettano un ombra sull'imparzialità dell'ente. Sono casi isolati oppure rappresentativi dell'eccellenza del made in Italy?

Le domande e le risposte dell'organismo di certificazione CSQA

Le domande e le risposte del Consorzio San Daniele

Le domande e le risposte del Consorzio del Prosciutto di Parma

Le domande e le risposte di Coldiretti

La nota del Dipartimento dell'ICQRF del MASAF rispetto al CSQA


 

Le domande e le risposte dell'organismo di certificazione CSQA

Da: Alvise Cattelan Inviato: giovedì 25 maggio 2023 16:09 A: [CG] Redazione Report Cc: Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 - CSQA

Spettabile Redazione Report, Gentile Dr.ssa Innocenzi, vi comunico che non risponderemo alle domande da voi poste in merito al servizio in oggetto. I miei più cordiali saluti. Alvise Cattelan Responsabile Marketing e Comunicazione Da: [CG] Redazione Report Inviato: lunedì 22 maggio 2023 14:04 A: Alvise Cattelan Cc: Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 - CSQA Gentilissimo, La contattiamo nuovamente in quanto la prossima settimana andrà in onda un servizio sulla produzione suinicola nel quale affronteremo in particolare la questione dei controlli sul consorzio dei prosciutti di Parma e il loro funzionamento. Dato che non è stato possibile effettuare un'intervista con il direttore del CSQA, vi chiediamo di poterci rispondere alle domande seguenti, in modo da offrire ai nostri telespettatori un'informazione quanto più accurata e completa. Per motivi di produzione, vi chiediamo una risposta entro e non oltre le ore 14 del giorno giovedì 25 maggio. Per qualsiasi informazione, è possibile contattare la giornalista Giulia Innocenzi che ci legge in copia. Cordiali saluti, Redazione Report - a seguito della sospensione di CSQA dai controlli al Consorzio del Prosciutto di Parma, quali misure avete adottato per implementare l'imparzialità come ente controllore? - è vero che gli ispettori del CSQA non sono stati formati per verificare il benessere animale? 2 - è vero che negli allevamenti non vengono fatti i controlli sul benessere animale? - a quanto corrisponde l'incarico economico annuale per CSQA da parte del Consorzio del Prosciutto di Parma per svolgere i controlli? - è mai successo che CSQA abbia ricevuto telefonate o subito pressioni da parte di Coldiretti o Confagricoltura per chiedere di togliere una non conformità a un allevatore loro associato? - a seguito dei vostri controlli avete mai comminato delle non conformità per i seguenti allevamenti? 1 XXX 2 XXX 3 XXX 4 XXX

Le domande e le risposte del Consorzio San Daniele

Da: Sivilotti, Nicola Inviato: venerdì 26 maggio 2023 12:34 A: [CG] Redazione Report Oggetto: R: Richiesta informazioni da Report, Rai3 - Consorzio del Prosciutto di San Daniele Spettabile Redazione Report, in riferimento alla Vostra richiesta, formuliamo la seguente risposta: Confermiamo che i nostri uffici hanno inoltrato alle Autorità dello Stato territorialmente competenti la segnalazione pervenuta dal sig. Genovesi e, successivamente, hanno dato riscontro al predetto così come risulta anche dalla documentazione da Voi trasmessaci. Cordiali saluti Nicola Sivilotti Pubbliche Relazioni, Marketing e Comunicazione Consorzio del Prosciutto di San Daniele Via Ippolito Nievo 19 - 33038 San Daniele del Friuli | Udine – Italy 

Le domande e le risposte del Consorzio del Prosciutto di Parma

Da: Direzione Inviato: giovedì 25 maggio 2023 12:11 A: [CG] Redazione Report Cc: Ufficio Stampa Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 - CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Contr. completamento: Completare Stato contrassegno: Contrassegnato

Gentile redazione, con riferimento alle domande pervenute, nel condannare fermamente le gravi irregolarità che ci segnalate, desideriamo, al contempo, fornire alcune opportune precisazioni per evitare la diffusione di informazioni errate. Innanzitutto, parlare di allevamenti del Consorzio del Prosciutto di Parma non è corretto; non esistono allevamenti che fanno parte del nostro Consorzio, esistono invece gli allevamenti del circuito italiano tutelato, che possono fornire la materia prima per tutti i prodotti della salumeria italiana ad Indicazione Geografica (IG). Per legge, al nostro Consorzio non competono le attività di controllo sugli allevamenti, né tantomeno il nostro ente può prendere provvedimenti disciplinari per sanzionare irregolarità o inadempienze. All’interno della filiera suinicola, ruoli, competenze e responsabilità sono ben definiti. Il benessere animale, nello specifico, è regolamentato da normative europee e nazionali che demandano i relativi controlli al Ministero della Salute, che li attua per mezzo dei Servizi Veterinari ufficiali competenti per territorio. Per tutti questi motivi, affermare che gli allevamenti facciano parte del Consorzio, contestualmente alle segnalazioni delle gravissime irregolarità da voi riportate e con l’allusione di un mancato intervento da parte del nostro ente, rappresenta un messaggio erroneo e lesivo per la reputazione dei nostri membri, 134 produttori di Prosciutto di Parma che non sono mai stati in alcun modo implicati in casi di maltrattamento di animali. Tali premesse chiariscono la nostra posizione in relazione alle domande che ci ponete sugli allevamenti. In aggiunta, rispondiamo all’interrogativo riguardante la segnalazione effettuata nel 2020 da Pietro Genovese, informandovi che il nostro Consorzio inoltrò tempestivamente la relativa documentazione alle Autorità competenti che presero in carico il caso. Rispondiamo, invece, con piacere alle domande che hanno diretta attinenza con il ruolo del nostro Consorzio e con le radici storiche del nostro prodotto. - Perché il Prosciutto di Parma si è sviluppato proprio nella zona di Parma? Lo sviluppo del Prosciutto di Parma nella sua specifica area di produzione è legato ad alcune componenti estremamente importanti: da un lato il patrimonio di abilità e conoscenze tramandate per generazioni, dall’altro le favorevoli condizioni microclimatiche ed ambientali di questa delimitata zona della provincia di Parma. Agli operatori locali va il merito di essersi saputi unire ed organizzare per trasformare questo patrimonio di tradizioni millenarie nel comparto produttivo che tutti conosciamo. Oggi il Prosciutto di Parma, con i suoi 3.000 addetti in zona tipica, garantisce la tenuta economica e sociale di una vasta area rurale della nostra provincia. - Che ruolo ha il vento “marino” nella stagionatura dei prosciutti? La stagionatura del Prosciutto di Parma si basa sulla lenta e naturale asciugatura della coscia. Le condizioni microclimatiche dell’area produttiva, di cui il “marino” fa parte, contribuiscono alla qualità e distintività del prodotto. L’apertura delle finestre per favorire l’asciugatura è una pratica comunemente diffusa, che si affianca all’utilizzo delle moderne tecnologie; mediamente le finestre vengono aperte un paio di volte alla settimana, con orari e durata che variano in base alle stagioni e alle condizioni di temperatura e umidità. 2 - Perché avete riconfermato l'incarico a CSQA nonostante fosse stato sospeso perché non considerato imparziale? Il CSQA, sottoposto ad un periodo di vigilanza straordinaria da parte dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e della repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF) nel febbraio 2022, è stato pienamente confermato in tutte le sue funzioni a giugno 2022. Con queste premesse, il nostro Consiglio di Amministrazione ha deciso di proseguire con convinzione il rapporto con questo Organismo, leader nazionale nella certificazione dei prodotti IG. Il Ministero dell'agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha rinnovato l’incarico a CSQA con apposito decreto. La Direzione

Da: [CG] Redazione Report Inviato: lunedì 22 maggio 2023 14:10 A: Direzione; Ufficio Stampa Cc: Oggetto: R: Richiesta intervista - Report, Rai3 - CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Gentilissimi, torniamo da voi in quanto la prossima settimana andrà in onda un servizio sulla produzione suinicola nel quale affronteremo in particolare la questione dei controlli sul consorzio dei prosciutti di Parma e il loro funzionamento. Dato che non è stato possibile effettuare un'intervista con il direttore, vi chiediamo di poterci rispondere alle domande seguenti, in modo da offrire ai nostri telespettatori un'informazione quanto più accurata e completa. Ovviamente, le domande sugli allevamenti di suini si riferiscono a quelli che ci risultano fare parte del Consorzio. Per motivi di produzione, vi chiediamo una risposta entro e non oltre le ore 14 del giorno giovedì 25 maggio. Per qualsiasi informazione, è possibile contattare la giornalista Giulia Innocenzi che ci legge in copia. Cordiali saluti, Redazione Report - Abbiamo riscontrato in diversi allevamenti che i suini malati o feriti vengono lasciati nei corridoi a morire. Siete a conoscenza di questo tipo di pratiche? - Abbiamo riscontrato in diversi allevamenti che i suini commettono atti di cannibalismo fra di loro, che portano anche a code e orecchie infette. Siete a conoscenza di questo tipo di pratiche nei vostri allevamenti? - In diversi allevamenti abbiamo registrato l'assenza degli arricchimenti ambientali, che dovrebbero prevenire gli atti di cannibalismo fra suini. Cosa fate perché i vostri allevamenti rispettino la direttiva europea che prevede la presenza di arricchimenti ambientali? 3 - Abbiamo riscontrato casi in cui i suini rosicchiano anche alcune carcasse presenti nei recinti. Cosa fate per evitare che ciò avvenga? - Abbiamo riscontrato che in alcuni casi i suinetti morti vengono lasciati nelle gabbie delle scrofe, alcuni persino mummificati. Ne siete a conoscenza? - In un allevamento in particolare abbiamo riscontrato la presenza di rodenticida sparso per l’allevamento, sulle gabbie delle scrofe e nei corridoi, mentre, come è prescritto nelle indicazioni di utilizzo, il contenuto andrebbe "messo in esche a prova di manomissione". Il rischio è che i suini malati lasciati nei corridoi possano cibarsene, e quindi aggravare ulteriormente le sofferenze. Ne siete a conoscenza? Qual è la migliore gestione per disinfestazione dai topi? - Inoltre, sempre nello stesso allevamento, abbiamo registrato il fatto che alcuni topi che potrebbero essere morti per l'ingestione del rodenticida sono finiti nei recinti dei maiali e mangiati dagli stessi. Questo può costituire un pericolo, perché il rodenticida può finire nel muscolo dei suini e quindi anche al consumo umano. Avete mai affrontato questo problema? Quale può essere la soluzione? - In diversi allevamenti abbiamo riscontrato la presenza di topi morti e vivi nei recinti, nel mangime, sulle tubature. I topi sono portatori di malattie e quindi non devono essere presenti negli allevamenti. Siete a conoscenza del problema? Qual è la migliore soluzione per affrontarlo? - Abbiamo visto diversi casi in cui i recinti degli animali sono molto sporchi, ricchi di liquami che finiscono anche nella mangiatoia e vanno a ricoprire il corpo dei suini. In questi casi c'è una cattiva gestione dell'allevamento? Come andrebbe risolto il problema? - Abbiamo trovato maiali malati o feriti, con coda infetta, con le piaghe e con ernie ombelicali, in recinti denominati "rimanenze" anziché nel reparto infermeria. Ne siete a conoscenza? - E' stato registrato un operaio che sposta gli animali da un box all'altro compiendo una serie di atti: dà calci, colpisce i suini con un chiavistello, tira i suini per la coda, prende un suino dalle orecchie e lo lancia, lega una corda alla zampa di un suino e lo trascina per il corridoio. Cosa fate per evitare che all'interno degli allevamenti destinati al prosciutto di Parma vengano commessi dei maltrattamenti? - In un caso il proprietario dell'allevamento ordina all'operaio di sopprimere cinque suini, senza la presenza del veterinario o una visita del veterinario nei giorni precedenti; è un comportamento corretto? - Abbiamo registrato il caso di un vascone non impermeabilizzato da cui fuoriescono i liquami. Ci sono delle pratiche adottate dal Consorzio per evitare che i liquami finiscano nei terreni e nelle falde acquifere? - Abbiamo registrato il caso di una carcassa lasciata per tre giorni all’aperto. Considerata l'importanza della biosicurezza, siete a conoscenza di pratiche simili? Cosa fate per contrastarle? - Siamo a conoscenza di un caso in cui le carcasse sono state lasciate in una cella frigo aperta non funzionante. Lo stesso allevatore ha anche una cella frigo dismessa con resti di suino coperti da calce idrata. Lo stesso allevatore era stato condannato nel 2019 perché sul suo allevamento c'era una specie di discarica di carcasse, scoperta e mandata in onda anche dal TG2. In casi come questo non c'è un'intensificazione dei controlli per verificare 4 che i comportamenti siano corretti? - E' mai successo che un allevamento sia stato espulso dal Consorzio? Se sì, in che casi è successo? - Di tutti gli allevamenti che fanno parte del Consorzio, qual è la percentuale di allevamenti intensivi e di estensivi? - Perché la lista degli allevamenti del Consorzio non è pubblica? - Che ruolo ha il vento “marino” nella stagionatura dei prosciutti? - Perché il prosciutto di Parma si è sviluppato proprio nella zona di Parma? - Perché avete riconfermato l'incarico a CSQA nonostante fosse stato sospeso perché non considerato imparziale? - Nella prima metà del 2020 vi ha scritto l’operaio Pietro Genovese per segnalare che in alcuni allevamenti dell’azienda agricola Boccalina, in provincia di Mantova, veniva aggiunta l’acqua ossigenata alla broda dei maiali. Come avete proceduto a seguito di questa segnalazione? Avete fatto le opportune verifiche? - Risultano parte del consorzio di Parma i seguenti allevamenti? - 1 XXX 2 XXX 3 XXX 4 XXX

Le domande e le risposte di Coldiretti

Da: Coldiretti - Relazioni Esterne Inviato: giovedì 25 maggio 2023 10:28 A: [CG] Redazione Report Cc: Oggetto: R: Richiesta informazioni da Report, Rai3 -COLDIRETTI Buongiorno, non ci risultano rilievi, da parte della Dirigenza del Csqa, rispetto a presunte pressioni indebite di nostri dirigenti o funzionari che esulano dal ruolo proprio delle Organizzazioni di rappresentanza e tutela dei propri soci. Restiamo comunque a disposizione per eventuali segnalazioni di comportamenti inadeguati sui quali faremo le opportune verifiche. Cordiali saluti Ufficio Relazioni Esterne Da: [CG] Redazione Report Inviato: lunedì 22 maggio 2023 16:33 A: Coldiretti - Relazioni Esterne Cc: Oggetto: Richiesta informazioni da Report, Rai3 -COLDIRETTI Report Confederazione Nazionale Coldiretti Gentilissimi, la prossima settimana Report andrà in onda con un servizio sulla produzione suinicola nel quale affronteremo in particolare la questione dei controlli sul consorzio dei prosciutti di Parma e il loro funzionamento. Al fine di offrire ai nostri telespettatori un'informazione il più accurata e completa possibile e di dare a voi il diritto di replicare, vi porgiamo la seguente domanda: · Coldiretti ha mai telefonato o fatto pressioni a CSQA, l'ente controllore del Consorzio del Prosciutto di Parma, per chiedere di togliere una non conformità a un allevatore o produttore vostro associato Per motivi di produzione, vi chiediamo una risposta entro e non oltre le ore 14 del giorno giovedì 25 maggio. Per qualsiasi informazione, è possibile contattare la giornalista Giulia Innocenzi che ci legge in copia. Cordiali saluti, Redazione Report

La nota del Dipartimento dell'ICQRF del MASAF rispetto al CSQA

COMUNICATO STAMPA Avendo appreso che la puntata di stasera, 29 maggio 2023, della trasmissione Report di Rai 3 dedica una inchiesta dal titolo "Che porci!" al Prosciutto di Parma e, in particolare, all’attività del suo ente certificatore, il CSQA Certificazioni S.r.l., si comunica quanto segue. Il Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste ha svolto una accurata attività di vigilanza, per il tramite del Dipartimento dell’Ispettorato centrale della tutela della qualità e repressione frodi dei prodotti agroalimentari (ICQRF), sull’organismo di controllo CSQA, a partire dal gennaio 2021. Tramite la vigilanza effettuata sono state rilevate diverse criticità nell’operato dell’Organismo di controllo sulla filiera del Prosciutto di Parma DOP (controllo acquisito a partire da gennaio 2020) che hanno evidenziato in particolare talune negligenze nell’espletamento dei compiti e gravi inadempienze nell’applicazione dei Piani dei controlli e nelle funzioni di certificazione. In esito a tali rilevi l’Organismo di controllo CSQA Certificazioni è stato sospeso per quattro mesi a decorrere dal 21 febbraio 2022. Per gli stessi fatti CSQA ha ricevuto dal Dipartimento ICQRF 4 contestazioni amministrative, ai sensi dell’articolo articolo 4 del Decreto Legislativo 19 novembre 2004 n. 297, di cui sono state definite con il pagamento spontaneo della sanzione pecuniaria da parte del medesimo organismo. L’Ispettorato in data 20 luglio 2022 e 18 ottobre 2022 ha comunque segnalato alla Procura della Repubblica di Parma le segnalazioni ricevute per gli eventuali profili di competenza. Durante il periodo di sospensione, CSQA è stata sottoposta da parte dell’Ispettorato ad una vigilanza straordinaria al termine della quale, sulla base delle evidenze acquisite, le criticità rilevate sono state in gran parte risolte. Inoltre, si evidenzia che di recente sono state approvate le modifiche al disciplinare di produzione del prosciutto di Parma DOP che cambiano molte delle regole fissate dal precedente disciplinare, in particolare in materia di genetica, di alimentazione e di peso dei suini, che necessitano dell’adozione di un rinnovato piano dei controlli. L’ICQRF, quale organo di controllo delle produzioni agroalimentari certificate nonché di polizia giudiziaria, continuerà a svolgere, con grande attenzione, l’attività di vigilanza per verificare che l’operato degli organismi di certificazione, compresa la DOP in questione, garantiscano il rispetto del Piano dei controlli e i relativi disciplinari di produzione. 

CHE PORCI! di Giulia Innocenzi collaborazione di Greta Orsi e Giulia Sabella riprese di Giovanni De Faveri, Fabio Martinelli, Paolo Palermo montaggio e grafica di Giorgio Vallati

GIULIA INNOCENZI Avrei bisogno di parlare con lei perché ho avuto una segnalazione rispetto al suo allevamento di suini.

ALLEVATORE Io non sono per queste cose veramente. Io sono per la privacy!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Siamo a Corte de Cortesi, in provincia di Cremona, e la privacy richiesta dall’allevatore di questo impianto da più di 15.000 maiali riguarda le immagini in possesso dell’associazione Last Chance for Animals, che noi di Report possiamo mostrarvi in esclusiva. Si vedono tre suini lasciati in corridoio: uno morto, uno moribondo e l’altro con problemi alle zampe. Andrebbero portati in infermeria e curati, invece dalle telecamere si vede che ben tre operatori diversi passano di fianco al suino malato, ma nessuno si cura di lui. In questo caso si vede persino che con il carrello l’operatore rischia di schiacciare l’animale!

GIULIA INNOCENZI Il comportamento di questo lavoratore è corretto?

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE No, è scorretto, notevolmente scorretto!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Quest’altro suino abbandonato in corridoio viene filmato per due giorni di fila. Passa il responsabile dell’allevamento, passa il proprietario, ma nessuno si prende cura di lui. E le sue condizioni peggiorano visibilmente.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE È uno scarto, e quindi non lo prende in considerazione, perché probabilmente costerà come cura. È un essere senziente che non serve più.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E infatti, dopo 48 ore senza cure, muore. Come quest’altro, ripreso il giorno prima in queste condizioni, e il giorno dopo morto. Non fanno certo una fine migliore i maiali lasciati nei recinti con gli altri animali. C’è il rischio che diventino preda degli altri suini. Succede spesso, infatti, che i maiali all’interno degli allevamenti intensivi si mangino fra di loro, attaccando soprattutto le orecchie e la coda dei loro consimili, commettendo veri e propri atti di cannibalismo.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Non mi sembra di vedere arricchimenti come, non so, la catena, la paglia.

GIULIA INNOCENZI Piccole distrazioni per i maiali.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Sì, sì piccole distrazioni ma importantissime…

GIULIA INNOCENZI Che sono previste dalla legge?

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Previste proprio dalla normativa vigente.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO I maiali sono portati a mangiucchiare anche le carcasse presenti nel recinto che, proprio per evitare il diffondersi di malattie, andrebbero rimosse nel più breve tempo possibile. Anche nella sala parto, suinetti morenti o morti. E sulle gabbie delle scrofe vediamo questa granaglia colorata. È il rodenticida, che viene usato per la disinfestazione dei topi.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Non va assolutamente bene, lo possono assumere il veleno.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E il rodenticida viene sparso anche nel corridoio dove vengono lasciati gli animali a morire. Così il suino potrebbe cibarsene. Eppure basta leggere l’etichetta del rodenticida per sapere che il veleno andrebbe messo in “contenitori per esche a prova di manomissione”. Ma non è quello che viene fatto qui.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Questo ratto dovrebbe essere asportato nel più breve tempo possibile, perché c’è la possibilità di trasmissione di patologie.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E invece sono tanti i topi morti presenti nell’allevamento. Ma soprattutto ce ne sono anche tanti vivi. Che viaggiano sulle tubature, bevono l’acqua destinata ai maiali e finiscono pure nel loro mangime.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Eccolo lì, ecco da dove vengono!

GIULIA INNOCENZI Dal tombino!

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Vengono dal tombino.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Il problema diventa grave se i topi morti finiscono nel recinto. I maiali li annusano, ci giocano un po’ e in qualche caso li mangiano pure. E se fossero topi che sono morti dopo aver ingerito il veleno?

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE La massa muscolare potrebbe contenere residui di topicida.

GIULIA INNOCENZI E quindi finire anche al consumo umano?

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Certo. Se andiamo a mangiare il lardo, ci facciamo il nostro rodenticida.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E il muscolo fa parte anche della coscia che può diventare un prestigioso prosciutto di Parma, visto che i maiali di questo allevamento hanno il timbro del consorzio.

GIULIA INNOCENZI Il rodenticida viene lasciato nel corridoio, qua vede, e ci sono questi suini che non stanno bene che potrebbero entrare in contatto col rodenticida!

RESPONSABILE ALLEVAMENTO Se lei li vuole i topi in casa sua faccia quello che vuole, glieli porto là tutti.

GIULIA INNOCENZI No, no, bisogna disinfestare ovviamente per questioni sanitarie.

RESPONSABILE ALLEVAMENTO Lasci stare quel discorso lì… Io voglio solamente sapere…

GIULIA INNOCENZI Il rodenticida però va tenuto in dei contenitori perché non devono succedere queste cose!

RESPONSABILE ALLEVAMENTO Ma c’è di tutto un po'… Adesso l’unica cosa che voglio capire io, ripeto, è chi si è permesso di fare quelle foto qua. Prima roba, che qua siamo in una proprietà privata. Lei metta giù la telecamera per favore. Metta giù la telecamera! Lei faccia pure quello che vuole. Però prima cosa come le ripeto, siamo in una proprietà privata. Metta giù quella telecamera per favore.

PROPRIETARIO ALLEVAMENTO Te… GIULIA INNOCENZI No, no, no… Scusi, scusi, scusi… no, no, no… no… no, no… Abbassa… Non mi metta le mani addosso! Andiamo via, andiamo via! Però non metta le mani addosso scusi eh! No, no, no… Si calmi. Andiamo, andiamo!

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Queste sono le immagini dell’allevamento Corte dei Cortesi che è in provincia di Cremona, uno degli oltre 3600 allevamenti che forniscono maiali al Consorzio di Parma. Non c’è però un registro pubblico. Ora se vuoi aderire al Consorzio di Parma devi sottostare a un disciplinare e, se lo rispetti, è un ente certificatore, è un ente terzo che lo stabilisce. L’ultima volta che ci eravamo occupati del Consorzio di Parma era il 2019. Era appena esploso il caos, lo scandalo della genetica, cioè di quei maiali danesi che erano stati allevati, che crescono più in fretta, forniscono al macello delle cosce più grandi, guadagnano di più gli allevatori peccato che siano vietati dal disciplinare. Per questo sono stati ritirati dal mercato, dal circuito DOP oltre un milione di prosciutti. Il Consorzio di Parma si è liberato del suo ente certificatore, l’Istituto Parma Qualità, e si è avvalso delle competenze dell’ente certificatore più prestigioso d’Italia, il CSQA, perché assicura imparzialità e anche maggiore rigore nei controlli. È così? La nostra Giulia Innocenzi con la collaborazione di Giulia Sabella e Greta Orsi.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Il CSQA controlla più di 70 prodotti ed è il più grande ente certificatore in Italia. Comincia a fare i controlli per il consorzio del prosciutto di Parma dal gennaio del 2020, quando entra in vigore un nuovo piano dei controlli, molto più rigoroso del precedente, proprio per segnare un taglio netto rispetto allo scandalo appena passato.

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITÀ AGROALIMENTARE Questi controlli generavano un sacco di non conformità che prima erano non conformità lievi adesso sono diventate gravi in alcuni casi. E quindi significa multa di 4.000 euro. Alcuni attori della filiera poi si sono lamentati.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Allevamenti, macelli e prosciuttifici si ritrovano con un sacco di multe in più rispetto al passato. Una gatta da pelare di cui discutono i principali dirigenti del CSQA. Noi di Report possiamo farvi ascoltare gli audio di quelle riunioni in esclusiva.

[RIUNIONE CSQA 27/02/2020] PIETRO BONATO - DIRETTORE CSQA Occhio che però noi qui parliamo di sanzioni! 4000 euro! Cioè, noi quando… Quando mettiamo la non conformità grave a questi gli arriva la sanzione, anche perché se non lo facessimo ragazzi rischiamo veramente di andare anche nel penale.

PAOLO SONCINI - RESPONSABILE CSQA CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Sono automatiche.

PIETRO BONATO - DIRETTORE GENERALE CSQA Questo è terribile capito? E quindi dobbiamo trovare una soluzione. GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E la soluzione è accantonare il nuovo piano dei controlli e applicare quello vecchio, che prevedeva molte più non conformità lievi. E che non fanno scattare così nessuna multa. In una delle riunioni si parla della non conformità numero 143, che scatta nei casi di cosce con tatuaggio al di fuori del territorio delimitato. [RIUNIONE CSQA 30/01/2020] LUCA VALDETARA - RESPONSABILE CERTIFICAZIONE DI ORIGINE PROTETTA CSQA La 143 è grave però.

PAOLO SONCINI - RESPONSABILE CSQA CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Nei controlli vecchi era lieve eh…

LUCA VALDETARA - RESPONSABILE CERTIFICAZIONE DI ORIGINE PROTETTA CSQA È grave adesso.

PAOLO SONCINI - RESPONSABILE CSQA CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Ho capito, però dobbiamo derubricare secondo me anche tutte quelle che adesso sono gravi ma prima erano lievi.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO I vertici del CSQA avrebbero consigliato i propri ispettori di usare la mano più morbida nelle sanzioni.

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITA’ AGROALIMENTARE I controlli venivano fatti, ma le non conformità venivano dette di non rilevarle.

GIULIA INNOCENZI E quindi lei ha dovuto anche strappare dei verbali?

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITÀ AGROALIMENTARE Sì e anche davanti all’allevatore, quando stai facendo un controllo, chiami il tuo responsabile e il tuo responsabile ti dice: “se l’hai già scritto sul verbale, strappa il verbale”. Quindi con una figura mica tanto bella. Perché poi si sente giustificato a fare ancora altre non conformità visto che non vengono rilevate.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Alcuni dipendenti di CSQA non ci stanno e nel dicembre del 2020 scrivono una lettera al ministero delle politiche Agricole, che vi mostriamo in esclusiva. Denunciano che non vengono effettuati i campionamenti genetici, che è singolare visto che era proprio il problema alla base dello scandalo che aveva travolto il Consorzio solo un anno prima; ma soprattutto che a causa delle lamentele da parte del Consorzio del prosciutto di Parma era arrivato l’ordine di non segnalare nel modo più assoluto nessuna non conformità.

GIULIA INNOCENZI Dottoressa Ferrarese buongiorno, sono Giulia Innocenzi di Report, Rai 3.

MARIA CHIARA FERRARESE - VICEDIRETTRICE CSQA Non rilascio interviste.

GIULIA INNOCENZI Le posso chiedere che provvedimenti avete adottato per garantire l’imparzialità nei vostri controlli sul Consorzio?

MARIA CHIARA FERRARESE - VICEDIRETTRICE CSQA No grazie. Siamo qui per altre cose. Abbiamo già risposto.

GIULIA INNOCENZI Beh, però è importante dottoressa. I dipendenti hanno parlato di sudditanza del vostro ente nei confronti del Consorzio!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Le accuse di mancanza di imparzialità erano arrivate anche dal ministero dell’Agricoltura, che aveva scoperto che circa 2,5 milioni di prosciutti erano stati classificati come Parma senza averne i requisiti. E il 21 febbraio 2022, il CSQA è stato sospeso perché come controllore ha assecondato troppo i voleri del controllato. Tuttavia il ministero del’Agricoltura e della sovranità alimentare conferma nuovamente l’incarico a CSQA per i prossimi tre anni.

GIULIA INNOCENZI Il suo ministero ha riconfermato CSQA per controllare il Consorzio del Prosciutto di Parma dopo che lo avevate sospeso, che motivazioni dà a questo?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE Intanto bisogna sentire il rapporto dei carabinieri, che hanno fatto tutte le adeguate verifiche sull’argomento. Dobbiamo essere molto attenti però a diffondere l’idea che i prodotti italiani siano sofisticati o siano prodotti non secondo criteri di qualità perché non è così. È l’immagine che diamo.

GIULIA INNOCENZI Ci vogliono anche dei controlli imparziali, no? Se è il controllato che paga il controllore secondo lei questo è un sistema che può garantire dei controlli efficaci?

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE Noi abbiamo due controllori istituzionali che abbiamo implementato nei numeri. Quindi queste persone controllano anche eventuali degenerazioni alle quali lei fa riferimento.

GIULIA INNOCENZI È stato il suo ministero a dire che il CSQA era più interessato a rispettare la filiera che non il disciplinare.

FRANCESCO LOLLOBRIGIDA - MINISTRO DELL’AGRICOLTURA E DELLA SOVRANITÀ ALIMENTARE È stato il ministero nel quale io non sto da tantissimo, sul quale sto lavorando invece con grandissima attenzione proprio alla tutela e al corretto adempimento dei giusti disciplinari.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Il consorzio aveva scaricato il vecchio ente certificatore e si era avvalso delle competenze del CSQA, il più prestigioso ente d’Italia che nel 2020 aveva cominciato i suoi controlli con molto rigore, infatti ciò che era lieve prima diventa grave dopo e viene anche sanzionato duramente. Questo provoca l'irritazione di alcuni allevatori, dei macelli e dei prosciuttifici che, non dimentichiamo, sono i controllati che pagano il controllore. Un’anomalia, sei milioni di euro l’anno, e infatti, dopo l’irritazione, il CSQA si ammorbidisce. Questo però provoca la ribellione di alcuni ispettori che denunciano a chi controlla il controllore, cioè al Ministero dell’agricoltura che accerta anche la non conformità di 2,5 milioni di prosciutti e, per questo, sospende il CSQA. Lo accusa di sudditanza nei confronti del Consorzio e di aver risparmiato loro delle multe. E qui c’è un altro conflitto di interessi: oltre al fatto che i controllati pagano il controllore, c’è anche quello un po' più particolare che i controllati sono anche tra i proprietari del controllore, basta verificare attraverso delle visure camerali. Insomma, è come chiedere a un vigile di fare la multa a sé stesso.

GIULIA INNOCENZI Lei è venuto a conoscenza di ingerenze da parte della proprietà di CSQA?

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITÀ AGROALIMENTARE Beh, se la proprietà è considerata anche la Coldiretti o Confagricoltura che hanno delle quote, sicuramente sì. Gli allevatori di maiali tutti sono associati a un’associazione di categoria però non tutti si permettevano di telefonare per farsi togliere la non conformità.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Andrea Cavazzuti è presidente della sezione suinicola di Confagricoltura per l’Emilia- Romagna ed è anche proprietario di questo allevamento di 13.000 suini a Soliera, in provincia di Modena. I suoi maiali sono destinati al consorzio del prosciutto di Parma e quindi è controllato dal CSQA, che da quanto ci risulta non ha rilevato non conformità di nessun tipo. Noi però abbiamo ricevuto una segnalazione che riguarda proprio il suo allevamento, e proviamo a parlarne con il padre.

GIULIA INNOCENZI Ho delle immagini di questo allevamento, di quello che succede nel reparto infermeria.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE E chi le ha fatte queste immagini?

GIULIA INNOCENZI Queste io le ho ricevute…

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE C’è violazione di domicilio. Andate via e di corsa.

GIULIA INNOCENZI Si, però succedono delle cose gravi…

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Qui siete in una proprietà. Andate via e di corsa.

GIULIA INNOCENZI Succedono però delle cose gravi.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Andate via e di corsa ho detto! Lei qui sta violando la proprietà privata.

GIULIA INNOCENZI Io non ho violato la proprietà privata, io le sto chiedendo…

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Se ne vada, lei se ne deve andare. Non le dico niente, le dico solo di andarsene e di corsa.

GIULIA INNOCENZI E delle rimanenze cosa ne fate?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Vada fuori da questa proprietà.

GIULIA INNOCENZI Finiscono al prosciutto di Parma anche le rimanenze?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Vada fuori! O chiamo i carabinieri.

GIULIA INNOCENZI Chiamiamoli i carabinieri, poi dopo gli mostriamo anche queste immagini.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Vada fuori! Lei deve andare fuori! E non faccia fotografie lei, sennò le prendo la macchina fotografica e gliela sbatto fuori. Lei vada fuori!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Le immagini che hanno fatto arrabbiare l’allevatore Paolo Cavazzuti, di cui è entrata in possesso Last Chance for Animals, mostrano alcuni recinti dove si trovano gli animali particolarmente sporchi. Qui addirittura feci e urine finiscono nei contenitori del cibo. E sul naso dei maiali. Nel reparto “rimanenze”, possiamo vedere diversi maiali malati o feriti. Alcuni hanno la coda infetta, segno che potrebbero essere stati oggetto di cannibalismo da parte degli altri suini. Maiali con le piaghe e addirittura in uno stesso box sono presenti due animali con l’ernia ombelicale.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Per quanto riguarda l’ernia ombelicale l’unica terapia è quella chirurgica e lì la terapia chirurgica non la fanno perché è sconveniente dal punto di vista economico.

GIULIA INNOCENZI Che fine fanno le rimanenze, i maiali che sono nel reparto rimanenze?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Ma le rimanenze sono semplicemente quando si carica, c’è un suino leggermente sottopeso, lo si mette in un box con gli altri sottopeso fintanto che non ha raggiunto il peso dovuto. Non c’è nessun maltrattamento.

GIULIA INNOCENZI È che all’interno delle rimanenze ci sono anche suini con ernia ombelicale oppure con ferite alle zampe.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Assolutamente no. Quelli con ernia ombelicale vanno in un’infermeria.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Eccola l’infermeria. Qui ci sono gli animali che stanno male. Quelli che versano in condizioni peggiori sono nei recinti denominati “scarti”. Ma è proprio quando l’operatore sposta gli animali in questi box che si vedono comportamenti non proprio consoni. L’operaio dà calci, colpisce i maiali ripetutamente con un chiavistello, anche in testa, li tira per la coda, li prende dalle orecchie e gli fa fare un volo. A un certo punto prende una corda, la lega alla zampa di questo animale che evidentemente ha difficoltà a muoversi e lo trascina per il corridoio, fino al recinto degli scarti.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Questo è maltrattamento, lo possiamo giudicare come una sofferenza dell’animale senza motivo, punita dal codice penale.

GIULIA INNOCENZI Ma lei come mi valuta un suino a cui viene legata la zampa con una corda e trascinato per il corridoio?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE È morto.

GIULIA INNOCENZI No, è vivo, un suino vivo.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE No, no. Non c’è questa ipotesi

GIULIA INNOCENZI Eh, purtroppo c’è. E un suino preso dalla coda e fatto lanciare dall’altra parte?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Guardi, di solito sono senza coda quindi non viene fatto…

GIULIA INNOCENZI No dalla codina piccola insomma.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE È impossibile.

GIULIA INNOCENZI E un suino preso dall’orecchio e trascinato?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Signorina, chi è venuto dentro verrà perseguito.

GIULIA INNOCENZI Ma queste cose qui me le valuta come un maltrattamento animale o è una giusta gestione dei maiali?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Non sono cose corrette. Ha ragione che se uno le ha fatte ha sbagliato chi le ha fatte.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma quando gli mostriamo che nelle immagini c’è anche il figlio rimane sinceramente sorpreso.

GIULIA INNOCENZI C’è anche filmato Andrea Cavazzuti all’interno del reparto infermeria.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Come c’è filmato Andrea Cavazzuti?

GIULIA INNOCENZI Eh, sì.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Ma cosa dice?

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Eccolo Andrea Cavazzuti, proprietario di questo allevamento insieme al padre nonché dirigente di Confagricoltura. Si vede mentre fa avanti e indietro per il reparto infermeria. Poi torna con l’operaio e gli dà istruzioni ben precise su cosa fare degli animali nel recinto scarti.

ANDREA CAVAZZUTI Ah, niente sti qua bisogna ammazzarli. Sono tutti da ammazzare. Sono 5, non ce n’è lì, forse c’è quello là! No, è zoppo. Niente dai. Ammazzali, ammazzali.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La soppressione di un animale può essere decisa solo da un veterinario. Ma nei giorni precedenti non si è mai visto passare il veterinario aziendale. Quindi Cavazzuti ha deciso di sua sponte di far ammazzare quei cinque maiali, ormai ritenuti solo degli scarti?

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Sì, si possono eliminare, certamente. Perché sono scarti che sono irrecuperabili.

GIULIA INNOCENZI Eh, ma deve essere appunto sotto la supervisione del veterinario la soppressione dell’animale. Non lo può decidere Andrea Cavazzuti quali animali uccidere.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Ma glielo dice perché precedentemente li ha visti il veterinario.

GIULIA INNOCENZI Il veterinario non si è visto però in quei giorni lì nel reparto infermeria.

PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Ma chi l’ha detto in quei giorni lì. Per bacco, il reparto infermeria è stato filmato per dei giorni?

GIULIA INNOCENZI Eh, sì. PAOLO CAVAZZUTI - ALLEVATORE Ah, sì? Benissimo, allora c’è un reato continuato e aggravato.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO L’allevatore si preoccupa più di sapere chi ha messo le telecamere piuttosto di quello che contengono quelle immagini. Sono state realizzate da Last Chance for Animals e parlano chiaro. I maltrattamenti degli animali sono puniti dal Codice penale. Ma oltre al Codice penale c’è anche quello morale. C’è anche un problema di qualità perché i maiali maltrattati sono stressati e producono una carne di minore qualità. Per non parlare poi della mancanza di igiene. L’igiene è fondamentale per la prevenzione e per evitare la diffusione, il proliferare di batteri e di virus. I maiali in libertà grufolano tutto il giorno mentre quando sono chiusi in un allevamento intensivo danno adito a fenomeni di cannibalismo. Il 90% dei suini allevati in Italia è negli allevamenti intensivi che costituiscono una minaccia per l’ambiente, per il clima ma anche per lo sviluppo di possibili pandemie. Sono i temi che sono al centro di tutti i governi e degli enti sovranazionali. Ecco, questi temi come entrano nel disciplinare del Consorzio di Parma?

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La Lombardia è la prima regione in Italia per numero di maiali allevati e rischia oggi di essere al centro di una procedura di infrazione europea contro l’Italia per la violazione della direttiva nitrati, che sono presenti nei liquami e costituiscono un pericolo per le falde acquifere. Questo allevamento si trova a Calvisano, in provincia di Brescia, uno dei comuni con le acque più inquinate proprio perché ricche di nitrati. I liquami dei suoi 1650 maiali confluiscono qui, nel vascone.

GIULIA INNOCENZI E questo vascone è pericolosamente vicino a due corsi d’acqua. Alla mia sinistra e alla destra del vascone ci sono due canali. Il rischio di infiltrazioni è altissimo visto che qui i liquami sono direttamente a contatto con il terreno, mentre la vasca dovrebbe essere totalmente impermeabilizzata.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO I liquami sembrano fuoriuscire persino da sotto i capanni e la recinzione del vascone è divelta, con la possibilità che gli animali selvatici entrino in contatto con i liquami. E questo è molto pericoloso per la biosicurezza.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE I liquami sono il massimo dell’accumulo di germi che possono provocare patologie insomma: batteri, virus.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E ancora più pericoloso è lasciare le carcasse all’aperto. Le immagini di Last Chance for Animals mostrano che questo suino morto è stato lasciato fuori dai capanni per tre giorni di fila.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Questo la legge non lo consente. La carcassa, proprio per questioni di biosicurezza, dovrebbe essere messa in un contenitore refrigerato.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E qualche giorno dopo la nostra visita sono intervenuti anche i carabinieri forestali insieme ai servizi veterinari di Brescia. Oltre alle pessime condizioni di diversi maiali, hanno trovato animali in stato di decomposizione, amianto e farmaci scaduti. I carabinieri hanno comminato sanzioni per 25mila euro e sottoposto a vincolo sanitario l’allevamento. E la gestione delle carcasse anche di quest’altro allevamento a Cumignano sul Naviglio, in provincia di Cremona, sembra molto preoccupante.

GIULIA INNOCENZI È aperta! Oddio vieni, vieni, vieni, vieni! Questa cella dovrebbe essere una cella frigo chiusa e invece è aperta e dentro ci sono tutte le carcasse lasciate così, aperto, per questioni di biosicurezza è pericolosissimo, andrebbe chiusa, serrata. La temperatura dovrebbe essere una temperatura da freezer, e invece questa cella frigo non sta funzionando.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La mattina dopo ci rechiamo nuovamente in allevamento, e troviamo una spiacevole conferma.

GIULIA INNOCENZI La cella frigo che abbiamo visto ieri è ancora aperta, è socchiusa la porta, è ancora aperta. Salve, buongiorno! È lei il responsabile?

ALLEVATORE Sì.

GIULIA INNOCENZI Però quella cella frigo dove ci sono tutte le carcasse dentro adesso è aperta.

ALLEVATORE Eh, stanno portando via i maiali!

GIULIA INNOCENZI Eh, ma era aperta anche ieri sera.

ALLEVATORE Io so che gli dico di chiuderla…

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma era aperta anche la notte in cui sono state realizzate queste immagini ottenute da Last Chance for Animals, con meno carcasse perché le riprese sono state fatte qualche settimana prima del nostro arrivo. Ed è stata scoperta anche un’altra cella frigo, dismessa, con quelli che sembrano resti di suino coperti da calce idrata.

ALLEVATORE No, no, non è il mio allora.

GIULIA INNOCENZI Non è il suo? Non corrisponde a questo?

ALLEVATORE No

GIULIA INNOCENZI Ma possiamo vederlo?

ALLEVATORE No. La cella se vuole gliela apro, dentro di calce non ce n’è. Ah beh, sì ha ragione

GIULIA INNOCENZI Ci sono qua i resti. Cosa è successo qui?

ALLEVATORE Si è rotta abbiamo messo giù quella là. Scusi chiudiamo perché è meglio. Dobbiamo far venire giù quello dello smaltimento e portare via anche questa.

GIULIA INNOCENZI Ma perché avevate messo….

ALLEVATORE Ehi scusa, qui siamo a casa mia!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma questo allevamento era già stato oggetto nel 2019 di una denuncia della Lav e anche di un’inchiesta del TG2, a firma del collega Piergiorgio Giacovazzo, visto che avevano trovato una vera e propria fossa comune di suini. E l’allevatore era stato condannato.

GIULIA INNOCENZI Avete dovuto pagare mi sembra una multa una da 3000 euro e una da 6000 euro.

ALLEVATORE Sì, ma poi c’erano le spese dell’avvocato alla fine è venuta fuori una trentina di mila euro.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Successivamente, nel 2021, riceve pure la visita dei servizi veterinari, che prescrivono all’allevatore di migliorare la pulizia, di indicare il reparto infermeria con una cartellonistica adeguata e di ripristinare la qualità dell’aria. Eppure, a distanza di due anni da quel controllo, vediamo animali molto sporchi, un’infestazione di blatte, maiali malati che non stanno nel reparto infermeria, che invece risulta vuoto, e una vera e propria stanza dell’orrore, dove tra ragnatele e un suino morto abbandonato, vengono allevati i maiali che verranno destinati al Consorzio del prosciutto di Parma.

GIULIA INNOCENZI Ma gli ispettori del CSQA vengono ogni tanto a controllare?

ALLEVATORE CSQA sì, sono stati giù ma per delle discrepanze sui certificati.

GIULIA INNOCENZI Non è tanto un controllo loro quello di come stanno i maiali.

ALLEVATORE No, c’è quello del benessere dell’USL che viene giù a fare controlli.

GIULIA INNOCENZI Quindi i servizi veterinari…

GIULIA INNOCENZI Nella lista sono inclusi anche i controlli per vedere come stanno gli animali?

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITÀ AGROALIMENTARE Noi rispondiamo a un quesito che dice che verifichiamo anche le strutture, verifichiamo come vengono mantenuti i maiali, insomma, ma in questo non viene fatto assolutamente.

GIULIA INNOCENZI E perché non viene fatto questo controllo?

ISPETTORE CSQA – CERTIFICAZIONE SICUREZZA QUALITÀ AGROALIMENTARE Non siamo stati formati per valutare il benessere animale.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Che non sia una priorità salta agli occhi dal disciplinare. Su 65 pagine al benessere animale è dedicato una riga: “Le strutture e le attrezzature dell'allevamento devono garantire agli animali condizioni di benessere”. Molto più prolissi invece sui dettagli riguardanti le marchiature su animali e prosciutti, e sulla collocazione geografica dei prosciuttifici: “la zona tipica comprende il territorio della provincia di Parma posto a sud della via Emilia a distanza di almeno cinque chilometri da questa, delimitato ad est dal fiume Enza e ad ovest dal torrente Stirone”. Il motivo, secondo il disciplinare, è che “solo in quest’area arriva l’aria del mare della Versilia, che si addolcisce tra gli ulivi e i pini della Val Magra, e si asciuga ai passi appenninici arricchendosi del profumo dei castagni fino a rendere dolce ed esclusivo il prosciutto di Parma”. Dunque è il marino, il vento pubblicizzato come ingrediente speciale, con il sale e il tempo di stagionatura, che renderebbe unico il prosciutto di Parma.

FEDERICO QUARANTA - PARMA FA QUARANTA (PROGETTO SOCIAL PER IL CONSORZIO DI PARMA) Guardate questo muro, è di un prosciuttificio, guardate la sequenza cadenzata delle finestre, sono orientate perfette. Ci sono i prosciutti, sono loro che aspettano. Ma chi? Il marino!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma è davvero il vento il segreto del successo del prosciutto di Parma?

GIULIA INNOCENZI Come mai proprio a Parma?

GIOVANNI BALLARINI - PRESIDENTE ONORARIO DELL’ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA Io ritengo che in questo incrocio Parma diventa un punto importantissimo per il commercio.

GIULIA INNOCENZI Quindi non c’entrano tanto i venti che vengono dalla Versilia.

GIOVANNI BALLARINI - PRESIDENTE ONORARIO DELL’ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA In una società tecnologica delle macchine abbiamo bisogno di racconti, abbiamo bisogno di miti. Quindi è una narrazione.

GIULIA INNOCENZI Marketing.

CHRIS DEROSE - PRESIDENTE LAST CHANCE FOR ANIMALS Gli americani crescono con il mito del prosciutto di Parma, ma dopo che vedranno queste immagini si faranno molte domande sui metodi di allevamento del prosciutto di Parma. Non pensavo che gli allevamenti intensivi avessero preso piede in questo modo anche in Italia.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Nella lista dei migliori cibi al mondo stilata dalla CNN il prosciutto di Parma ha conquistato il 31° posto, fra gli italiani dopo solo la pizza e la lasagna. Stefano Fanti, il direttore generale del Consorzio, è orgoglioso di questi risultati.

GIULIA INNOCENZI Buongiorno dottor Fanti, Giulia Innocenzi Report Raitre. Ho bisogno di farle vedere queste immagini, sono del Consorzio del prosciutto di Parma. Allevamenti suoi…

STEFANO FANTI - DIRETTORE DEL CONSORZIO DEL PROSCIUTTO DI PARMA Mi scusi lei sta passando una proprietà privata.

GIULIA INNOCENZI Non le interessa? Questo è un maiale che sta mangiando un topo in un allevamento dove c’è il topicida. Non le interessa? Ci sono animali abbandonati agonizzanti lasciati morire! Non le interessa dottor Fanti? Ma veramente? Neanche sapere che allevamenti sono?

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Stefano Fanti è il direttore del Consorzio del prosciutto di Parma da 25 anni, non gli interessa conoscere le condizioni in cui versano alcuni degli allevamenti che lo riforniscono. La nostra Giulia voleva mostrargli le immagini con le finalità di migliorare la situazione anche perché in uno di quelli che abbiamo visitato, quello di Brescia dove i liquami fuoriuscivano dal vascone, sono entrati poi i carabinieri che hanno riscontrato animali, carcasse di animali abbandonate e dei farmaci scaduti. L’allevatore dovrà pagare una multa di 25.000 euro ed è sottoposto a vincolo sanitario. Poi negli altri allevamenti, quelli di Brescia, di Cremona, di Modena che sono stati filmati da Last Chance for Animals, immagini che riproducevano casi di maltrattamenti, di scarsa igiene. Insomma, sono sicuramente pochi allevamenti sui 3600 ma insomma è importante sicuramente sottolineare queste anomalie. Perché è una questione culturale, gli stessi ispettori del CSQA ci hanno detto guardate noi non siamo formati per analizzare, per studiare e per valutare il maltrattamento animale. È una questione culturale. È una questione insomma culturale. Ed è un peccato perché questi fatti rischiano di rovinare l’immagine di un prodotto di eccellenza. Quando un consumatore compra un prodotto, lo paga di più perché è anche convinto che viene tutelato il benessere animale. Per questo è brutta l’immagine di un direttore che fugge davanti a una giornalista rompiscatole. Avrebbe potuto anche rispondere l’ente certificatore, il CSQA, però insomma ha preferito proprio snobbare le nostre domande. E ora vediamo cosa succede invece se a denunciare invece è un operaio che lavora all’interno dell’allevamento.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Pietro riprende l’operaio che riempie una bacinella di acqua ossigenata e la getta nel pentolone dove c’è il siero di latte destinato ai maiali.

PIETRO GENOVESI Metti ancora acqua ossigenata, un secchio e poi basta?

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO In alcuni casi l’acqua ossigenata fa reazione e il liquido fuoriesce dal pentolone.

OPERAIO Guarda questo, sta sboccando tutto fuori.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Bentornati, allora parlavamo dei controlli all’interno degli allevamenti italiani e cosa succede quando un operario che lavora lì dentro denuncia l’utilizzo di acqua ossigenata nel cibo per i suini?

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Lui è Pietro Genovesi, e oggi si ritrova con una condanna a un mese per tentata estorsione. La sua storia ha dell’incredibile. Lavora per più di 20 anni come operaio per l’azienda agricola Boccalina che ha diversi allevamenti destinati ai consorzi Dop del prosciutto di Parma e San Daniele. A un certo punto, però, entra in scontro con il suo capo.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Zanetti Guido un giorno viene lì e mi propone di usare dell’acqua ossigenata in tutte le alimentazioni, in tutte le fasi del ciclo della vita delle scrofe e dei suini.

GIULIA INNOCENZI E quindi chiedeva di mettere l’acqua ossigenata proprio nel mangime dei suini?

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Proprio nella vasca dove si prepara la broda che mangiavano liquido, un pentolone, un minuto prima di cominciare la distribuzione dovevi mettere 30 litri a ogni pasto.

GIULIA INNOCENZI Aveva chiesto ma perché mi sta chiedendo questo?

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Ma, secondo lui favoriva una migliore digestione, un migliore accrescimento.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ma inserire acqua ossigenata nel cibo dei suini che conseguenza può avere? Siamo andati al laboratorio del Sant’Anna di Pisa dove il chimico Marco Martinelli fa degli esperimenti con l’acqua ossigenata con la stessa concentrazione che avrebbe usato l’azienda agricola Boccalina.

MARCO MARTINELLI – RICERCATORE SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Se io vado a prendere una fragola e la metto in una soluzione al 3% di acqua ossigenata noi vediamo che comincia un po’ a sbiadire. Se la utilizziamo al 30%, e qui c’è stato in entrambi i casi un’ora a contatto in questa soluzione, il risultato mi sembra evidente. Questa era l’unica zona che era un po’ meno a contatto che è rimasta rossa. E tutto il resto bianchissimo

GIULIA INNOCENZI Tutto il resto bianchissimo.

MARCO MARTINELLI – RICERCATORE SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Sì e soprattutto anche al tatto è molto morbida la buccia, si sta sfacendo.

GIULIA INNOCENZI Cosa può succedere se viene inserita l’acqua ossigenata a uso industriale nella broda di latte?

MARCO MARTINELLI – RICERCATORE SCUOLA SUPERIORE SANT’ANNA DI PISA Tutto ciò che è ossidante è rischioso da utilizzare, chiaramente il tratto più colpito è il tratto gastroesofageo e quindi è poi suscettibile, per esempio, a formazioni tumorali o a infiammazioni.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO L’acqua ossigenata non può essere aggiunta nell’alimentazione dei maiali, men che meno se quei maiali sono destinati ai consorzi del Parma e San Daniele, visto che il mangime è regolamentato in maniera molto rigorosa dai disciplinari. Pietro comincia a registrare dei video con il suo cellulare e riprende l’operaio che riempie una bacinella di acqua ossigenata e la getta nel pentolone dove c’è il siero di latte destinato ai maiali.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Metti ancora acqua ossigenata un secchio e poi basta? Basta solo un secchio al giorno un secchio alla sera?

OPERAIO Ah sì, sì?

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Tutti i giorni?

OPERAIO Tutti i giorni.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Ed effettivamente l’operazione sembra essere fatta in maniera routinaria. In alcuni casi l’acqua ossigenata fa reazione e il liquido fuoriesce dal pentolone. OPERAIO Guarda qui Pietro! Sta sboccando tutto fuori!

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Hai visto?

OPERAIO Io adesso cosa faccio?

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Ah, niente la lasci andare. Dovevi aspettare a mettere l’acqua ossigenata. Se c’è tanto burro fa di più…

OPERAIO Eh, la schiuma…

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Se c’è solo siero non fa niente. Panna e burro fa così.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Pietro decide allora di portare questo video al capo dei veterinari della provincia di Mantova, Giorgio Grandi. I Nas si presentano nell’allevamento e chiedono all’operaio presente a cosa serva l’acqua ossigenata, e lui risponde che è utilizzata per la disinfezione dei box e degli impianti.

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE PER LE FORZE DELL’ORDINE Non mi risulta che le tubature vengano pulite con l’acqua ossigenata.

GIULIA INNOCENZI Perché l’acqua ossigenata non è contemplata per l’uso zootecnico?

DARIO BUFFOLI – VETERINARIO – CONSULENTE DELLE FORZE DELL’ORDINE Non è contemplata per l’uso zootecnico.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO I carabinieri prendono per buona la versione dell’operaio, che però quando lo incontriamo cambia versione e ammette di aver gettato l’acqua ossigenata nel cibo dei suini.

GIULIA INNOCENZI Perché tu davi l’acqua ossigenata ai maiali?

OPERAIO Io sono operaio, quello che mi dicono io lo faccio.

GIULIA INNOCENZI Quindi chi è che ti diceva di dare l’acqua?

OPERAIO Il nostro capo.

GIULIA INNOCENZI Chi? Zanetti Guido?

OPERAIO Tutti.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Quindi l’operaio avrebbe mentito ai carabinieri. Pietro allora torna dal direttore dell’Ats, questa volta però munito di una camerina nascosta. E quando gli chiede perché abbiano preso per buona la versione data dall’operaio, anziché indagare più a fondo, il direttore punta il dito contro Pietro.

GIORGIO GRANDI – DIRETTORE DISTRETTO VETERINARIO ALTO MANTOVANO FINO AL 15/03/2023 Attenzione perché eventualmente potrebbe essere anche che venga rifatta un’indagine anche su di lei eh, perché sta facendo questo.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La profezia del direttore dell’Ats si avvera. Pietro prima viene licenziato, e poi denunciato a sua volta dal suo ex datore di lavoro per tentata estorsione. Ma le anomalie non finiscono qui. Il direttore dell’Ats dice che il video dove si vede l’operaio che aggiunge l’acqua ossigenata nel pastone dei maiali, e che era la prova da allegare all’esposto, è stato cancellato.

GIULIA INNOCENZI Dottor Grandi?

GIORGIO GRANDI – DIRETTORE DISTRETTO VETERINARIO ALTO MANTOVANO FINO AL 15/03/2023 Sì.

GIULIA INNOCENZI Buongiorno, sono Giulia Innocenzi di Rai3, posso parlarle un minuto?

GIORGIO GRANDI – DIRETTORE DISTRETTO VETERINARIO ALTO MANTOVANO FINO AL 15/03/2023 Guardi, io non sono autorizzato a rilasciare interviste.

GIULIA INNOCENZI Sì, però ho una domanda che riguarda proprio lei. Le volevo chiedere perché non ha acquisito il video dove si vede che l’operaio dà l’acqua ossigenata nel pastone dei maiali?

GIORGIO GRANDI – DIRETTORE DISTRETTO VETERINARIO ALTO MANTOVANO FINO AL 15/03/2023 Io non posso rilasciare nessuna intervista.

GIULIA INNOCENZI Sì, ma io lo chiedo anche per lei, per fare un po’ di chiarezza. È un po' strano che un cittadino fa un esposto e lei non acquisisce il video. Che fine ha fatto quel video che è stato mandato?

GIORGIO GRANDI – DIRETTORE DISTRETTO VETERINARIO ALTO MANTOVANO FINO AL 15/03/2023 Non posso rilasciare nessuna intervista.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO Era il capo dell’azienda Guido Zanetti a ordinare di dare l’acqua ossigenata ai maiali? Per capirlo non c’è altra soluzione che chiederlo direttamente a lui.

GIULIA INNOCENZI Buongiorno signor Zanetti, sono Giulia Innocenzi. Solo qualche domanda per capire la questione dell’acqua ossigenata ai maiali, per capire se veniva da una sua direttiva.

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Signora, abbia pazienza. Io trovo che lei sia molto in gamba, molto carina, ma penso che questo signore tenta solo di ricattarmi. Abbia pazienza e c’è cascata anche lei.

GIULIA INNOCENZI Però io ho visto i video dove gli operai portavano l’acqua ossigenata nel pastone dei maiali. Com’è?

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Sono costruiti, sono falsi.

GIULIA INNOCENZI Costruiti?

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Sì.

GIULIA INNOCENZI In che senso? Contraffatti?

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Sì, sì, guardi io parlerò solo davanti alle sedi giudiziarie.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO La famiglia Zanetti è proprietaria anche del caseificio Zanetti, marchio storico nel settore dei formaggi. Un fatturato di più di mezzo miliardo di euro l’anno. Storicamente l’industria del latte e quella del prosciutto sono sempre andate a braccetto: ai maiali vengono dati gli scarti della lavorazione del formaggio. Non si butta via niente. Un sistema virtuoso ma se tutto funziona bene.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Ciao Gerardo!

CAMIONISTA C’è la soda nel latte.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO C’è la soda nel latte? Si sono sbagliati?

CAMIONISTA Ce n’è tanta.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Tanta soda?

CAMIONISTA Adesso ti faccio vede ’na roba. Perché io sono un mezzo chimico eh! Guarda come diventa.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Reagisce.

CAMIONISTA Porca miseria! È viola eh! Se non c’è niente dentro rimane di un colore… Quando fai la pipì hai capito? Guarda come diventa! So solo che c’è la soda dentro… Ce n’è tanta anche!

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Succedeva piuttosto anche spesso che c’era nel caseificio c’era una valvola che non si apriva, purtroppo entrava in contaminazione con questo acido, il siero non era più buono naturalmente per essere dato da mangiare ai maiali perché lì era proprio veleno, e quindi pensavano bene di smaltirlo sempre nelle deiezioni animali.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO E sono diverse le volte in cui Pietro filma con il suo cellulare il camionista mentre butta il siero di latte, contaminato a suo dire dalla soda caustica, sostanza altamente tossica, nei liquami dei maiali, anziché nel depuratore.

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Ancora?

CAMIONISTA Eh! Devo fare un altro viaggio eh!

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Ma sempre cosa è… soda?

CAMIONISTA Eh, è piena di soda!

PIETRO GENOVESI – EX OPERAIO Come si fanno a sbagliarsi a mettere la soda?

CAMIONISTA Ma lì c’è qualcosa che non va Pietro!

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO In queste immagini, che noi di Report possiamo mostrarvi in esclusiva si vede l’operaio che la mattina presto, verso le 6, usando una cisterna attaccata al muletto, aspira dal depuratore gli scarti del caseificio, fra cui la soda caustica, e li butta nel vascone dei liquami dell’allevamento limitrofo, sempre di proprietà di Zanetti, attraverso un tubo attaccato al muro. E poi dove andavano a finire i liquami contaminati dalla soda caustica?

EX OPERAIO Li portavano via in campagna, dove loro hanno la terra.

GIULIA INNOCENZI Sai se lì coltivavano?

EX OPERAIO Beh, lì si coltiva il mais! La colza, il mais…

GIULIA INNOCENZI Per i maiali?

EX OPERAIO Sì, sì, sì.

GIULIA INNOCENZI E perché lo facevano?

EX OPERAIO Per risparmiare.

GIULIA INNOCENZI FUORI CAMPO L’operaio e Pietro decidono allora di denunciare. I carabinieri, coordinati dal maresciallo Bisin, filmano quella che sembra una pratica abituale. Il 5 maggio 2019 i carabinieri irrompono nel caseificio proprio mentre avveniva lo sversamento dei liquami inquinati. Grazie a questo sistema gli Zanetti avrebbero risparmiato circa 90.000 euro l’anno, più i mancati lavori per ingrandire il depuratore.

GIULIA INNOCENZI Hanno trovato che la soda caustica veniva messa nel vascone dei liquami, su questo mi può dire almeno se non viene più fatto?

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Sono tutte illazioni. Comunque, c’è un’indagine in corso.

GIULIA INNOCENZI Però sono intervenuti i carabinieri, vi hanno beccato in flagrante in quel caso.

GUIDO ZANETTI - IMPRENDITORE Non mi risulta signora, non mi risulta.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO La procura di Mantova indaga. Tutto nasce dalle denunce di alcuni operai, uno, Pietro, è stato anche denunciato dal suo capo per tentata estorsione, condannato in primo grado, vedremo cosa accadrà in appello. Ora, è lui, proprio Pietro, ad aver denunciato il fatto che l’acqua ossigenata veniva utilizzata per allungare il pastone, la broda per i maiali, sostanza vietata. Ha anche denunciato, con altri operai, lo smaltimento illecito della soda, utilizzata con altri prodotti chimici per lavorazione del formaggio. L’illecito smaltimento, perché dovevano essere smaltiti in un apposito depuratore e invece venivano smaltiti sui campi dove venivano coltivati mais e colza. Un bel risparmio per l’azienda. E poi questi mais e colza venivano trasformati in cibo, pasto per i maiali. Ora Pietro ci ha detto di aver avvisato anche con una mail il Consorzio di Parma e quello San Daniele e di aver ottenuto la promessa di un pronto intervento. Ora, premesso che sono tutti innocenti fino a prova contraria, il Consorzio di Parma ci scrive per dirci che non competono a loro le attività di controllo sugli allevamenti né possono sanzionare le irregolarità, ecco, e collegare le anomalie che abbiamo riscontrato in questi allevamenti con un loro mancato intervento fornisce un’immagine erronea e lesiva per la reputazione dei loro membri. Tutto vero insomma, spetterebbe un po' di controllo invece al CSQA che ha risposto dicendo con voi di Report non parlo, a voi non rispondo. Ecco, a qualcuno forse dovranno pur rispondere.

Estratto dell’articolo di Antonella Baccaro per il “Corriere della Sera” il 31 maggio 2023.

La Rai e le inchieste di Report finiscono sotto accusa a Palazzo Chigi, durante l’incontro tra la premier Giorgia Meloni e le parti sociali, mentre si discute di riforme e Pnrr. 

A tirare fuori l’argomento è stato il presidente della Coldiretti, Ettore Prandini, che, premettendo di rispettare la libertà di stampa e il servizio pubblico, ha detto a Meloni che la trasmissione di Sigfrido Ranucci screditerebbe gli imprenditori agricoli, riferendosi a un servizio sugli allevatori andato in onda. Anche il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti si è lamentato con la premier del fatto che la tv di Stato non può ospitare programmi che ledano la reputazione delle aziende italiane.

Un attacco che si aggiunge a quello del ministro delle Imprese Adolfo Urso, che ha denunciato Report per «palesi falsità contenute» in un servizio della trasmissione su di lui, e a quello del senatore Maurizio Gasparri (FI), che auspica l’intervento della commissione di Vigilanza.

L’episodio inedito di Palazzo Chigi segnala il clima incandescente intorno alla Rai, in un momento delicato in cui si va formulando il quadro delle trasmissioni che comporranno la programmazione autunnale. Tra queste, Report , di cui si sta discutendo non tanto la conferma, che è data per scontata, ma la collocazione.

Stamattina ci sarà una prima riunione del comitato editoriale che l’ad Roberto Sergio ha voluto perché tutti i direttori di genere, più quelli della distribuzione e del marketing, si confrontassero sui nuovi palinsesti. […]

Il Polpettone.

Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 29 gennaio 2023.

Non è piatto da disprezzarsi scriveva del polpettone Pellegrino Artusi nella ricetta 316 del suo La scienza in cucina e l'arte di mangiar bene. Un'affermazione che sollecita una domanda, ovvero perché il grande gastronomo si sentì in dovere quasi di scusarsi nel presentare questo piatto?

La risposta la fornisce senza troppi giri di parole Annibale Mastroddi, macellaio gourmet con storica bottega a due passi dalla piazza del Popolo a Roma: «Artusi raccontava una cucina borghese, attingendo anche a repertori popolari e le polpette erano un piatto di intelligente impiego degli avanzi […] Ovvio quindi che il polpettone riportasse subito la fantasia alle polpette, con una differenza, però: le prime sono molteplici, mentre il polpettone è un pezzo unico che si presta a farciture nobili, senza contare il fatto che è anche adatto ad essere servito in maniera più formale. […]».

LE ORIGINI

Lungo le vie della storia si trovano peraltro autorevoli conferme alla teoria del macellaio romano. Sarebbe stato sufficiente trovarsi tra gli invitati al battesimo di Cosimo I, celebrato nel 1519 a Firenze, ai quali fu offerto un pasticcio di vitella battuto a polpettone dove tra gli ingredienti figuravano il prosciutto tagliato fine a coltello e i funghi secchi fatti rinvenire[…].

[…] I grandi chef tra 700 e 800 portano in tavola la carne del vitello ridotta a poltiglia col mortaio, mescolata con ogni tipo di ingredienti, compresi pinoli e canditi, anche se la versione più vicina ai nostri gusti viene dal Regno di Napoli, con una farcia a base di provolone e salame.

LE SALSE

«Il segreto del polpettone non è solo nella qualità della carne, ma anche dalla fantasia della farcia», spiega Franco Ilardo, patron appassionato del Gran Caffè Rione VIII, punto di ristoro chic al limitare del Ghetto di Roma. […]

Le possibilità sono tante davvero. Carlo Cracco, ad esempio, lavora anche sulla salsa: il suo polpettone è molto ricco, con un trito di manzo, vitello, pollo, maiale, oltre che di verdure (carote, sedano, cipolla, broccoletti, spinaci), ma il suo tocco magistrale si estende anche alla salsa, una besciamella fatta col brodo di carne o di verdure per esaltare tutti i sapori. Il procedimento, comunque, è uguale in tutto il mondo: carne sminuzzata, farcia di fantasia e cottura al forno, oppure in umido. […] 

Le lenticchie.

Le lenticchie. Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2023.

[...] Le lenticchie, simbolo fin dai tempi antichi di prosperità e di ricchezza, per la somiglianza tra il legume e le monete. Partendo da questa piccola superstizione, i padroni di casa che si vogliano sbizzarrire, possono giocarsela sulla varietà di lenticchia prescelta.

 La scelta è molto ampia: si passa dalle verdi giganti di Altamura a quelle piccole piccole dell'isola di Ustica, ma anche, virando sull'esotico, ci sono le urad dhal asiatiche, che ricordano col loro nero screziato il caviale Beluga o le piccole verdi venate di blu di Le Puy in Alta Loira, molto gustose e speziate.

Senza dimenticare che, dall'altra parte dell'Oceano, al posto delle lenticchie la magia funziona con i black eyed peas, molto simili ai nostri fagioli dall'occhio, ma soprattutto a delle monetine, che si consumano nel gustoso Hoppin'John, a base anche di riso e bacon.

Su cibo e superstizione, difficile non fare un salto a Napoli [...] «Qui sotto il Vesuvio è tutto un rito magico. Ricordate Peppino De Filippo col suo celebre scongiuro aglio, fravaglio /fattura canun quaglio /corna, bicorna /capa r' alice e capa r' aglio? che per essere eseguito alla perfezione richiede anche che si sputi tre volte a terra con tre gesti di corna a due mani rivolte in giù.

Bene, al di là del folklore la filastrocca ci ricorda la potenza dell'aglio che da noi non solo è una base fondamentale, ma porta anche bene, perché scaccia gli spiriti cattivi, come ben sapevano i contadini che si difendevano dalle streghe di Benevento, molto prima che i vampiri entrassero nella nostra cultura. [...] in Grecia la melagrana rappresenta la fecondità [...] in Spagna l'uso di consumare dodici chicchi d'uva l'ultimo giorno dell'anno per avere fortuna nei mesi a venire.

E ancora, tra i più potenti anti-iella portati dalle Americhe e approdati con successo nelle nostre cucine, c'è il peperoncino, che in Calabria trova la sua patria tricolore di elezione. «Verissimo - dichiara Ivano Daffinà che a Roma racconta i sapori della sua terra al Simposio in Prati e nel neonato Filippo' s al Nazareno - Il peperoncino lavora a tanti livelli: innanzitutto, rosso come un cornetto vegetale, porta fortuna già di per sè. In secondo luogo, da sempre il suo è il piccante delle ricette dell'amore, dell'afrodisiaco.

Il Grano Antico.

Antifascista.

Pizza o Pasta?

La Pasta Ripiena.

I Dolci di Natale.

Il Grano Antico.

È vero che i grani antichi sono una truffa del marketing? Gianpaolo Usai su L'Indipendente lunedì 30 ottobre 2023.

Nella giornata di Giovedì 25 Ottobre è stato rilasciato un comunicato stampa dell’Accademia Nazionale di Agricoltura, dal tenore molto perentorio e provocatorio: I grani antichi sono una bufala che truffa il consumatore. Prendo dunque spunto da questo comunicato per analizzare diversi punti trattati da questo documento e per dare alcune informazioni ai lettori sull’argomento. 

Il comunicato stampa ANA contro i grani antichi

Passiamo all’analisi dei contenuti del comunicato. Per l’Accademia Nazionale di Agricoltura la commercializzazione dei prodotti a base di grani antichi “è una strategia commerciale che si basa su una narrazione ingannevole: non sono sostenibili per l’ambiente, salubri per la salute e vengono venduti a prezzi più alti senza motivo”.

Questa conclusione perentoria e dissacrante dei grani antichi è giunta al termine di un incontro tenutosi presso l’Accademia il giorno 23 Ottobre 2023. L’incontro ha tentato di analizzare “luci e ombre delle tipologie di frumento dette grani antichi oggi presenti sul mercato”. All’incontro ha partecipato il Prof. Luigi Cattivelli, Direttore del Centro di Ricerca Genomica e Bioinformatica del CREA, autore anche del volume Pane nostro. Grani antichi, farine e altre bugie (Edizioni Il Mulino, 2023) presentato durante il dibattito. Il CREA è un ente pubblico governativo e la sigla sta per Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria. 

Un primo punto toccato nel comunicato stampa è che i grani antichi sarebbero “grani vecchi e non rientrano nel registro nazionale”. 

In particolare si legge che “Oggi le farine sono tutte registrate e controllate dal CREA, mentre i cosiddetti grani antichi, non sono iscritti a nessun registro e non hanno regole. Sono grani vecchi che non rispondono più alle esigenze nutritive e produttive di oggi, come si può pensare di nutrire il pianeta con grani non più attuali? E poi se compro una pagnotta di grano antico chi mi garantisce cosa c’è dentro e cosa mangio senza controlli? È stato dato valore a qualcosa che non ce l’ha”. 

Intanto va detto che la dicitura corrente “grani antichi” non è molto corretta, da un punto di vista tecnico, in quanto le varietà di grani in questione non sono né vecchie (come dice l’ANA) né antiche ma semplicemente tradizionali e in gran parte risalenti ai primi del 900, come la varietà più conosciuta dal pubblico, quella del grano Senatore Cappelli, e molte altre. Chi si occupa di varietà autoctone non parla di grani antichi ma di varietà tradizionali, appunto. Ma l’accusa di non rientrare nel registro nazionale delle varietà riconosciute e autorizzate è del tutto priva di fondamento, infatti i grani antichi dal 2017 sono iscritti al Registro nazionale delle varietà da conservazione, come mostrato dall’associazione siciliana a tutela dei grani antichi Foodiverso, e proprio in virtù di questa norma le filiere sono tracciate e controllate a partire dal seme. Ma il dato paradossale è che l’organismo che controlla e certifica tali filiere dei grani antichi è proprio il CREA, l’ente di cui il professor Luigi Cattivelli è un esponente di primo piano. Pertanto come è stato possibile scrivere in un comunicato stampa che le varietà di grani antichi non rientrano nel registro nazionale? Una svista clamorosa, come minimo. E di sicuro un autogol pazzesco agli occhi di tutti i consumatori che oggi si approcciano ai prodotti fatti con le varietà tradizionali di frumento italiano, i quali sono portati a dubitare della attendibilità di chi dovrebbe garantire imparzialità e diffondere accurate informazioni. Di certo non si poteva fare una pubblicità migliore ai grani antichi stessi.

Un secondo punto sostenuto dal comunicato stampa ANA è il seguente: “Falso il messaggio sulla sostenibilità ambientale”.

Si legge che “Anche il messaggio della sostenibilità è falso perché i grani antichi sono decisamente meno produttivi di quelli odierni e perciò servirebbero molti più ettari di terreno da coltivare per avere un quantitativo accettabile. Lo stesso dicasi per la salubrità perché le piante, rispetto a quelle moderne, essendo il doppio di altezza sono maggiormente soggette alle micotossine, si allettano facilmente e sono anche più soggette all’assorbimento di metalli pesanti presenti nel terreno come il cadmio”.

Il punto della presunta non sostenibilità delle produzioni di grani antichi appare un altro scivolone da parte di ANA. Intanto possiamo far notare come le produzioni industriali di grani moderni, quelli di varietà più recenti e frutto di ibridazione genetica, come ad esempio il grano Manitoba proveniente dal Canada, e altri, sono produzioni altamente non sostenibili e inquinanti. Quanto gasolio hanno bruciato le navi cargo che hanno importato in Europa il grano canadese, USA o australiano, oppure il grano ucraino e russo? Grano canadese ed estero notoriamente ampiamente trattato in campo con il pesticida Glifosate, che inquina a sua volta l’ambiente e crea tossicità sia al terreno che nei confronti del consumatore finale. Vogliamo forse far credere che inquinare con le navi cargo e con i pesticidi in campo sia sinonimo di sostenibilità? Pertanto partiamo dal presupposto che i grani moderni che si vogliono imporre, non sono essi stessi sostenibili in alcun modo e fare peggio di così non è proprio possibile dal lato della sostenibilità. Al contrario le produzioni con grani antichi non necessitano di trattamenti chimici in campo, perché sono basate su varietà di frumento e riso che per loro natura hanno molte più difese naturali contro gli insetti e contro le problematiche che possono sorgere durante la maturazione in campo. A tale proposito prendiamo in esame il fenomeno dell’allettamento, citato dal documento ANA. L’allettamento consiste nel ripiegamento fino a terra di piante erbacee, per l’azione del vento o della pioggia. L’allettamento è negativo in quanto rende difficoltosa la raccolta del prodotto (per esempio la mietitura) e quindi comporta perdite di prodotto in termini di resa per ettaro. L’allettamento può essere risolto nei cereali adottando varietà di piante con maggiore resistenza meccanica all’azione del vento e della pioggia, ovvero piante che non si piegano. L’agricoltura industriale ha risolto il problema dell’allettamento attraverso l’ibridazione genetica di piante e semi, dal momento che le piante erbacee dell’era pre-industriale (ovvero i cosiddetti grani antichi, se parliamo di cereali) erano a stelo alto e maggiormente soggette all’allettamento. 

[Immagine tratta da Prof. Pasquale De Vita (CREA Foggia)]Questa però è la “narrazione” che da sempre fanno le multinazionali dell’agroindustria, ovvero dire che le piante “antiche” erano poco produttive e allettavano spesso, quindi andavano rimpiazzate da varietà più moderne e tecnologiche (ibridate geneticamente) che garantissero una resa maggiore. In realtà le cose non stanno proprio così e gli agronomi esperti di agricoltura biologica e di tecniche agricole tradizionali ci spiegano meglio come in verità le piante antiche (tradizionali, pre era industriale) producevano e producono ancora oggi molto bene ma in un regime di agricoltura biologica, non in quello di agricoltura convenzionale. Questo perché, come spiega Giovanni Dinelli, Professore ordinario di Agronomia Generale e coltivazioni erbacee e Direttore del Master “Produzioni Biologiche” presso l’Università di Bologna, in agricoltura convenzionale (quella intensiva e non BIO) si fa uso esclusivamente di concimi di sintesi che se usati sulle piante tradizionali, non ancora ibridate, ha un effetto paradosso portando a un maggiore allettamento e ad una resa minore di prodotto. Questo è dovuto probabilmente al fatto che i concimi di sintesi hanno molti meno nutrienti da dare alla pianta rispetto ai concimi naturali, e la pianta cresce più debole e con meno resistenza meccanica. Al contrario, le varietà moderne di frumento, dette anche “a taglia nana” in quanto ibridate per fare in modo che abbiano uno stelo più corto e maggiore robustezza contro l’allettamento, sono state selezionate per l’agricoltura convenzionale e mal si adattano all’agricoltura BIO, come sostengono anche eminenti esperti europei su riviste scientifiche prestigiose. Il professor Dinelli precisa anche che le piante a taglia nana “sono come una Ferrari Testarossa che va a 300 all’ora, con una potenza produttiva enorme ma che con 1 litro di benzina fanno solo 2 chilometri di strada, mentre le piante tradizionali (grani antichi) sono come una Fiat Topolino convertita a carbonella in grado di percorrere 140 chilometri”. Una metafora per capire che le piante ibridate e moderne hanno bisogno di molte più sostanze chimiche di sintesi in campo (fertilizzanti, pesticidi ecc.), per portare a termine una data produzione, rispetto alle piante tradizionali che con il nutrimento naturale producono un po’ meno in termini di quantità ma inquinano molto meno e quindi sono più congrue in un discorso di sostenibilità. Quindi il discorso è: quanta strada vogliamo fare? Ci interessano solo le megaproduzioni di breve periodo? Che mondo vogliamo lasciare ai nostri figli? Un mondo pieno di veleni e inquinamento o una terra più pulita? Questa è la vera sostenibilità di cui si dovrebbe ragionare, mentre l’agroindustria spesso tende a confondere la maggiore produttività con la sostenibilità. 

E a proposito della disputa sulla sostenibilità e salubrità, anche un altro esponente importante dell’Università di Bologna, Enzo Spisni, Professore di Fisiologia della Nutrizione, non ha dubbi sul fatto che i grani antichi siano più sostenibili di quelli moderni: “Diciamolo, i grani antichi sono grandi amici dell’ambiente: non hanno bisogno di diserbanti (sono alti e tolgono il sole alle piante infestanti) e nemmeno di pesticidi. L’altezza, soprattutto nelle prime fasi di crescita li mette al riparo dagli schizzi dell’acqua piovana che portano le spore delle muffe del terreno fin sulla spiga. Quindi niente antimicotici, ma nemmeno antiparassitari: non ne hanno bisogno. Il risultato è che per un agricoltore è sufficiente seminare i propri semi che derivano dal raccolto precedente, ed aspettare. Non serve più entrare in campo con il trattore fino alla mietitura (quanto gasolio risparmiato!). Vogliamo parlare di acqua? I grani antichi non hanno mai bisogno di acqua. Avendo un apparato radicale molto più sviluppato se la vanno a cercare più in profondità rispetto ai grani moderni. Tutta questa libertà dell’agricoltore è mal vista e avversata dalle multinazionali delle sementi, dei pesticidi e dei fertilizzanti, che poi spesso sono le stesse grandi multinazionali dell’agro-food business. Questi giganti finanziari vogliono vedere gli agricoltori dipendere dalle loro sementi, dai loro fertilizzanti e dai loro pesticidi. E anche dal loro know-how sulle sementi vendute. Abbiamo capito benissimo che parlando di grano (e in generale di cibo), gridare ai quattro venti “tutto è uguale”, come fanno alcuni divulgatori scientifici, fa molto comodo alle multinazionali dei pesticidi e del food. Io faccio analisi (certificate) sui grani moderni e continuo a trovare contaminazioni che non mi spiego: pur entro i limiti di legge trovo, su grani dichiarati italiani, Clopirifos, un pesticida (piuttosto pericoloso) bloccato in Europa dal gennaio 2020, mentre non trovo pesticidi nei grani antichi coltivati (sempre) in biologico. Tocco quindi con mano che non è tutto uguale.”

Maggiori problemi di allergie e intolleranze con i grani moderni

Un aspetto non considerato e anzi ignorato completamente dal convegno dell’ANA riguarda la maggiore allergenicità dei grani moderni, ampiamente dimostrata da tanti studi scientifici ormai da diversi anni. Il problema nasce dal fatto che i grani moderni sono stati selezionati e ibridati geneticamente, oltre che per la taglia bassa della pianta, per aumentare sempre di più la forza del glutine. Questo è stato fatto dall’industria per garantire una migliore lavorazione industriale delle farine, con più elasticità degli impasti data proprio dalla qualità del glutine (la parola glutine deriva dal latino gluten e significa infatti colla, collante). Questo processo ha modificato qualitativamente il glutine del frumento moderno, rispetto a quello tradizionale. Questa modifica ha favorito sicuramente i processi industriali di lavorazione del pane e dei prodotti a base di frumento, facendo aumentare la produttività e i profitti delle aziende panificatrici, ma purtroppo ha comportato d’altro canto un peggioramento qualitativo del frumento per quanto riguarda la digeribilità e gli effetti sulla salute intestinale. In sostanza i grani moderni hanno un tipo di glutine che è più infiammatorio e che determina più problemi di allergie e intolleranze verso il frumento.

E sempre sul tema della maggiore allergenicità del frumento moderno (grani moderni) anche il professor Enzo Spisni, già citato sopra, spiega molto chiaramente sul suo profilo Facebook che “tutti gli studi controllati sull’uomo, inseriti in questo articolo di revisione della letteratura scientifica dimostrano che quando diamo da mangiare a soggetti (sani o malati), dei prodotti alimentari fatti con grani moderni o antichi, si osserva chiaramente che i grani moderni sono più pro-infiammatori”.

Più nutrienti e più sostanze nutraceutiche

Questo è un aspetto che il comunicato stampa ANA ha trattato in maniera ambigua ma in cui si sono riconosciute, in diversi punti del testo, le superiori proprietà nutrizionali dei grani antichi.

Si legge infatti che “il cosiddetto grano antico ha un 20% in più di minerali rispetto agli odierni”. Ed è vero: più minerali, ma anche più vitamine e più sostanze antiossidanti, dimostrato inequivocabilmente da tante rilevazioni di laboratorio. Il contenuto in sali minerali è maggiore: di circa il 15% nei grani antichi, questo non è un caso ma è dovuto al fatto che hanno un apparato radicale (cioè radici) che va più in profondità rispetto ai grani moderni. Si tratta di varietà che vanno sia più in alto in altezza come spiga ma anche più in profondità all’estremità opposta, nel terreno, andando ad esplorare maggiormente il terreno e ad attingere più sostanze minerali. 

I grani antichi possiedono anche l’1% in più di grassi, ed è importante perché in questi grassi finiscono gli oli insaturi del germe, i quali sono correlati con la presenza (nel germe) del complesso di tutte le vitamine del gruppo B, e della vitamina E. Quindi avere un po’ più di grassi non è un difetto in questo caso, ma al contrario si accompagna ad una ulteriore ricchezza di nutrienti rispetto ai grani moderni. 

E per quanto riguarda le proprietà nutraceutiche, è interessante lo studio fatto del Dipartimento di biochimica dell’Università di Bologna, di cui ci parla il professor Dinelli nel video della sua conferenza a Cesena al minuto 12:20 circa, in cui si sono dati gli estratti dei grani antichi a delle cellule cardiache e cellule tumorali. Risultato: l’estratto dei grani antichi ha avuto significativi risultati positivi, rispetto a quello dei grani moderni, nel far recuperare una salute funzionale delle cellule cardiache precedentemente stressate e portate in una situazione di sofferenza come avviene durante un infarto. 

Inoltre, un altro punto importante toccato dal comunicato stampa ANA è il seguente ed è tutto a favore dei grani antichi:

“Bassi livelli produttivi ma potrebbero aiutare l’economia collinare e montana”. Il grano antico ha un basso livello di resa produttiva. L’Italia produce il 40% del frumento tenero che si usa per fare pane, pasta e pizza e il resto lo importa soprattutto dalla Francia, produciamo già meno di quello di cui abbiamo necessità (….) I grani antichi non sono sostenibili a livello economico e ambientale, ma spezziamo una lancia a loro favore perché potrebbero essere coltivati nei terreni collinari e di montagna, dove i terreni sono abbandonati se non si coltiva vite, per fare piccole produzioni che magari aiuterebbero anche a evitare lo spopolamento di molte zone.”

A questo aggiungo che negli ultimi anni molti agricoltori del Sud Italia hanno preferito abbandonare i propri terreni e le coltivazioni di grano, per impossibilità di ottenere un profitto anche minimo, a causa della concorrenza sleale e dell’abbassamento del prezzo al quintale che si è determinato dalle politiche europee e italiane che incentivano sempre più l’importazione di grano estero a basso costo. Tanti ettari di terreno inutilizzato che invece potrebbero riprendere a produrre grano 100% italiano e di migliore qualità, passando e incentivando le varietà di grani antichi, e ovviamente retribuendo adeguatamente gli agricoltori italiani anziché mandarli in fallimento per favorire logiche di mercato dei grandi pastifici industriali italiani che acquistano sempre più grano estero a basso costo per poi conseguire maggiori profitti con margini più ampi applicati tra costo di acquisto della materia prima e prezzo finale del prodotto finito. 

Chi è ANA e che interessi rappresenta

Infine vediamo anche, è doveroso farlo, cos’è l’Accademia Nazionale di Agricoltura (ANA) per capire da quale fonte è arrivato questo comunicato stampa molto duro sulle coltivazioni di grani antichi. È assolutamente necessario inquadrare la fonte da cui proviene questo forte monito di condanna dei grani antichi, perché la veridicità e attendibilità di qualsiasi informazione è sempre legata anche a chi ne veicola il contenuto.

L’Accademia Nazionale di Agricoltura (ANA) è una Fondazione privata senza scopo di lucro, che secondo statuto svolge ricerca e promuove la conoscenza scientifica intorno all’Agricoltura e agli ambiti ad essa connessi. Questo ente privato è composto e gestito da associati, che nel caso di un’accademia vengono chiamati accademici, sono nominati a vita e provengono dal mondo dell’impresa, dell’università, ma anche dal settore bancario (si veda per esempio la recente nomina ad accademico onorario del presidente Abi e Cassa di Ravenna Spa). Per questa grande attività e varietà partecipativa che attinge dai diversi settori della società, l’Accademia amministra “risorse proprie, donazioni e altre risorse ottenute per attività che si riconducono a studi e a ricerche nell’ambito delle proprie finalità”, come si legge all’art. 2 dello Statuto.

Abbiamo a che fare dunque con un ente privato che ha stretti rapporti con il mondo delle imprese e dell’agricoltura industriale, che avvia collaborazioni e attività collegate al modello di agricoltura oggi prevalente, cioè quello industriale e intensivo, che è in antitesi al modello di agricoltura biologica in cui invece si impiegano i grani antichi. Tanto è vero che il convegno di Bologna del 25 Ottobre da cui è poi stato prodotto il comunicato stampa, è stato moderato – si legge nel comunicato stesso – da Ercole Borasio, Accademico Ordinario dell’ANA e già Direttore Generale della Produttori Sementi SPA. Quest’ultima azienda, con sede ad Argelato in provincia di Bologna, è leader in Italia e all’estero nel mercato dei semi, in particolare di sementi per la coltivazione di grano duro, ed è stata acquisita nel 2022 da un’altra azienda sementiera italiana marchigiana (la Agroservice Spa)  in accordo con la multinazionale svizzera dei semi Syngenta. Syngenta AG è una azienda produttrice di sementi e pesticidi, tra le prime 3 al mondo assieme a Monsanto-Bayer e Dupont. È di proprietà di ChemChina, un’impresa statale cinese. Syngenta è stata fondata nel 2000 dalla fusione delle attività agrochimiche di Novartis (altra multinazionale farmaceutica svizzera) e AstraZeneca (multinazionale farmaceutica anglo-svedese) e acquisita dalla China National Chemical Corporation (ChemChina) nel 2017. 

L’Accademia Nazionale di Agricoltura rilascia anche patrocini e offre il suo sostegno per convegni sponsorizzati da Syngenta e altre multinazionali dell’agricoltura industriale, come avvenuto l’anno scorso al convegno “Agromeccanici dell’innovazione”, organizzato il 10 novembre 2022 da Uncai e Confagricoltura, grazie agli sponsor McCormick (produttore di trattori e macchine agricole) e Syngenta fra gli altri. 

In conclusione, appare evidente che è sempre bene capire e vagliare la fonte di determinate informazioni o linee guida, perché spesso emerge che chi divulga notizie e raccomandazioni, in ogni settore, possa avere poca credibilità e attendibilità per via dei troppi legami con l’industria e con chi governa un settore produttivo specifico. Quello che si legge sui mezzi di informazione può essere spesso vero, ma a volte invece artefatto e distorto dalla reale natura dei fatti. [di Gianpaolo Usai]

Antifascista.

 Estratto da wired.it mercoledì 26 luglio 2023.

I fascisti odiavano la pasta. Spaghetti, tagliatelle e maccheroni finirono al confino come Altiero Spinelli, Antonio Gramsci e Sandro Pertini. Per questo la pastasciutta è antifascista. E ogni 25 luglio, ormai da 80 anni, in Italia si cucina, si mangia e si celebra la prima pastasciutta antifascista, offerta dai sette fratelli Cervi alla comunità di Campegine, a Reggio Emilia, per festeggiare la fine della dittatura fascista e la deposizione di Benito Mussolini, avvenuta in quella stessa data nel 1943.

La famiglia Cervi

La famiglia Cervi era una famiglia di contadini benestanti. Il signor Alcide, padre dei sette fratelli, era riuscito ad emanciparsi dalla condizione di mezzadro assieme alla moglie Genoveffa e a prendere un podere in affitto a Gattatico, vicino Campegine, nel 1934. Lì costruirono la loro vita, lavorando la terra assieme a Gelindo, Antenore, Aldo, Ferdinando, Agostino, Ovidio ed Ettore.

Ma i Cervi erano molto più che semplici contadini. Erano antifascisti.  

(...)

Fu quindi naturale e immensa la gioia che li pervase la sera del 25 luglio 1943, quando tornando dai campi scoprirono che il dittatore Mussolini era stato deposto, arrestato e confinato in Abruzzo dalla monarchia sabauda. Era tempo di festeggiare e mettere fine anche a quella fame che il fascismo aveva regalato a tutto il paese per 20 anni. 

Prima degli anni Cinquanta e della diffusione della produzione industriale, l’Italia è sempre stato un paese di persone malnutrite e affamate, che mangiavano male e morivano presto.  

(...)

Gran parte delle persone mangiava solo polenta, a nord, e pane, al sud. Niente pasta, che tra l’altro è molto più nutriente, perché ai fascisti non piaceva.  

(...)

Così, è facile immaginare perché i fratelli Cervi decisero di dare una festa e cucinare quintali di pasta al burro e parmigiano per festeggiare la fine del fascismo. Una pastasciutta antifascista, la prima, che venne cucinata a Gattatico e poi trasportata a Campegine. Nel tragitto la pasta divenne completamente scotta e, nel frattempo, gli altri contadini e contadine cominciarono a rubacchiarne un po’ per placare i morsi della fame. Un’avventura.

(...)

Postilla: perché i fascisti odiavano la pastasciutta?

Come insegna il sociologo Marco Cerri nel suo libro La pastasciutta dei Cervi, i motivi sono tre. Il primo riguarda il progetto autarchico, perché la pasta si fa col grano e per raggiungere l’autosufficienza cerealicola bisognava consumare poco grano. Il secondo è propagandistico e nasce dai futuristi. Tommaso Marinetti e gli altri si scagliarono contro la pasta dicendo che rammolliva lo spirito, dava sonnolenza e portava al neutralismo, cioè ad essere contrari alla guerra. 

Infine, l’ultimo riguarda la logica del ruralismo fascista, che additava la pasta come una moda importata dall’America. Fino agli anni Trenta del Novecento, la pasta era un alimento consumato quasi esclusivamente a Napoli e praticamente sconosciuto nel resto d’Italia. Furono i migranti tornati dagli Stati Uniti a darle nuova vita, dato che tra le comunità italiane d’oltreoceano era un alimento estremamente diffuso.

Fu quindi il sentimento anti statunitense dei fascisti, unito ai problemi economici e alla propaganda futurista che portarono il regime a combattere una guerra contro la pasta, tanto che nei suoi primi anni il consumo pro capite era di appena 12 chili l’anno, ridotto ai 9 durante la guerra. Mentre già nel 1954 ci fu un balzo a 28 chili l’anno, stabilizzatosi poi agli attuali 23 a testa. 

Per questo, ancora oggi, la pastasciutta resta un simbolo dell’antifascismo. E quest’anno, a 80 anni dalla fine della dittatura, il 25 luglio 2023 verranno cucinate 220 pastasciutte antifasciste in tutta Italia, come annuncia l'Associazione nazionale partigiani d'Italia. Per ricordare i fratelli Cervi, la loro generosità e l’antifascismo su cui si fonda la Repubblica italiana, nonostante qualcuno provi a farcelo dimenticare.

Estratto dell’articolo di Matteo Pucciarelli per repubblica.it mercoledì 26 luglio 2023.

Niente pastasciutta antifascista per l'Anpi: potrebbe causare disordini. Questa l'incredibile risposta all'associazione partigiani della sindaca Elena Mezzalira del comune di Rosà, in provincia di Vicenza. L'evento voleva commemorare i sette fratelli Cervi che organizzarono nel 1943 una gran mangiata di pastasciutta per festeggiare la destituzione di Benito Mussolini, avvenuta il 25 luglio 1943. Questo perché "il nome dell'iniziativa può essere richiamo di disordini, problemi di sicurezza e ordine pubblico", ha risposto via mail la sindaca agli organizzatori.

"Questa sindaca è contro la Costituzione e quindi la democrazia. Non so se ha la tessera di Fratelli d'Italia o della Lega. Certo è una fascista che andrebbe rimossa dall'incarico e il comune Commissariato", dice il segretario di Rifondazione comunista Maurizio Acerbo. Tra l'altro a Porto Burci, sempre in provincia di Vicenza, i neofascisti hanno appeso uno striscione con su scritto "se manca olio, lo portiamo noi". Un richiamo al tristemente famoso olio di ricino con cui le camicie nere purgavano i propri oppositori durante il Ventennio.

L’Anpi protesta e assicura che “non smetteremo di denunciare alle autorità competenti e di diffondere unità e cultura”. Mentre il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni confida che “il prefetto di Vicenza si attivi subito per spiegare a questa esponente della destra cosa è la Costituzione della Repubblica”.

Pizza o Pasta?

Formati, origini, curiosità: quello che non sai sulla pasta. Storia di Mariangela Cutrone  su Il Giornale il 25 ottobre 2023.

Il 25 ottobre si celebra il World Pasta Day che quest’anno è giunto alla venticinquesima edizione.

Questa manifestazione è organizzata dai pastai dell’Unione Italiana Food e IPO – International Pasta Organization, con l’intento di celebrare il piatto più amato dagli italiani e non solo. E' da anni infatti il simbolo della nostra convivialità oltre ad essere un’icona per un’alimentazione sana ed equilibrata. Per l’occasione numerosi sono gli eventi organizzati in tutta Italia, da Nord a Sud. Prevedono convegni, laboratori, cene con chef stellati, incontri tra associazioni, ordini professionali, università, aziende. Il tutto è finalizzato alla condivisione dei saperi e delle competenze tipiche del mestiere di pastaio e chef.

E' un’opportunità per gli addetti a questo settore per raccontarsi e narrare tutto ciò che si cela dietro ad un piatto di pasta, dalle tecniche di produzione, alla creatività nel preparare un piatto originale e salutare al tempo stesso. Gli italiani si confermano i maggiori consumatori di questo piatto che è sempre più diffuso e amato all’estero sino a diventare una vera e propria eccellenza del Made in Italy.

Secondo una ricerca recente condotta dall’International Pasta Organization, gli italiani consumano in media durante l’anno circa 23,5 kg all’anno seguiti dai tunisini che ne consumano annualmente 17 kg, i venezuelani 15 kg, i greci 12,2 kg e i peruviani 9,9 kg. Più della metà della pasta prodotta in Italia (62%) è infatti destinata al mercato estero.

Oggi i formati presenti sul mercato sono circa 300. Possono essere classificati in paste secche o paste fresche, corte, fini, lisce, rigate. La varietà è immensa ed è in grado di soddisfare ogni esigenza di palato. questa è una testimonianza concreta della ricchezza del nostro patrimonio culinario. Ogni formato o tipologia ha un impasto differente e anche un tempo di cottura determinato e si sposa con ingredienti gustosi che la nostra dieta mediterranea, sinonimo di benessere e salute è in grado di offrirci. Numerose sono le combinazioni e le ricette sempre più creative e appetitose.

È molto difficile stabilire però le origini certe di questo piatto. Alcune leggende sostengono che la pasta è stata importata per la prima volta in Europa da Marco Polo che l’assaggiò in Cina per la prima volta. Da alcune ricerche storiche invece emerge che la pasta esisteva già durante il periodo della Magna Grecia e in Etruria prima di diffondersi nell’Impero Romano. In quel periodo però era fresca e si presentava sotto forma di larghe sfoglie con le quali venivano preparati degli involtini generalmente ripieni di verdure. Poteva essere cotta solo nei forni.

Successivamente l’essicazione fu introdotta durante la dominazione araba in Sicilia dall’anno 827 al 1091. Secoli dopo la produzione di pasta si è affermata in tutte l’Italia raggiungendo la Campania, la Puglia, la Toscana e la Liguria, le regioni maggior produttrici. Le tecniche di essicazione si sono evolute. In particolare Gragnano è diventata la patria della pasta di grano duro.

Pizza o pasta? Ecco quale dei due piatti è meno calorico. Storia di Camilla Sernagiotto su Il Corriere della Sera il 30 giugno 2023.

Pizza o pasta? Iniziamo scoprendo quante calorie apporta la pasta

Le tavole degli italiani abbondano sia di pizza sia di pasta. Si tratta dei due piatti tradizionali della nostra cucina, vere e proprie icone che in tutto il mondo vengono considerate come simboli tricolori. In entrambi i casi, parliamo di carboidrati composti. Per quanto riguarda la pasta, ha un apporto calorico notevole: 100 gr di pasta equivalgono a circa 170 Kcal (circa 50gr non cotta). E questo solo per ciò che riguarda la pasta, non il sugo. Considerando che nessuno mangia la pasta senza aggiungere un sugo o almeno un po' di condimento, bisogna calcolare che l'apporto calorico minimo raddoppierà. Dunque aggiungendo solo un filo d'olio, del grana o del parmigiano, le calorie immediatamente diventano 340. Per ciò che riguarda i condimenti, è bene optare per i più leggeri, quindi via libera a un sugo pomodoro e basilico oppure a sughi a base di verdure o di pesce. Sarebbero invece da evitare i condimenti molto elaborati a base di carne, ragù, guanciale, pancetta e salsiccia. La cosa migliore sarebbe consumare un piatto di pasta con un sugo a base di verdure e pesce, condito con un filo di olio extravergine d’oliva, perché così facendo si otterrà un piatto completo ed equilibrato a livello di macro-nutrienti, come vedremo nel dettaglio di seguito. Leggi anche: - Dieta mediterranea, i 10 cibi che fanno stare bene e allungano la vita - Pizza, la ricetta perfetta per farla a casa senza errori (e in 5 passaggi) - La ricetta della pizza tonda nel forno di casa di Renato Bosco - Pizza, i 9 errori da non fare mai quando mangiate in pizzeria - Come cuocere la pasta - Cottura passiva della pasta: lo studio che dimostra quanto si risparmia davvero - I 6 errori da non fare mai quando si cuoce la pasta - Pasta al pomodoro: le 10 mosse per cucinarla alla perfezione

E la pizza? Scopriamo il suo apporto calorico

Per ciò che riguarda la pizza, se si sceglie una pizza margherita di dimensioni medie (circa 300gr) si dovrà considerare un apporto calorico di 700 Kcal. Quindi, a rigor di quantità, pasta e pizza presentano più o meno il medesimo apporto calorico. Una pizza oppure una porzione di pasta con il condimento (all’incirca 80 gr) presentano il medesimo numero di calorie. Leggi anche: - Dieta mediterranea, i 10 cibi che fanno stare bene e allungano la vita - Pizza, la ricetta perfetta per farla a casa senza errori (e in 5 passaggi) - La ricetta della pizza tonda nel forno di casa di Renato Bosco - Pizza, i 9 errori da non fare mai quando mangiate in pizzeria - Come cuocere la pasta - Cottura passiva della pasta: lo studio che dimostra quanto si risparmia davvero - I 6 errori da non fare mai quando si cuoce la pasta - Pasta al pomodoro: le 10 mosse per cucinarla alla perfezione

Qual è il carboidrato migliore tra pizza e pasta?

Dunque se ci si basa sul numero di calorie, la scelta è indifferente: potete scegliere tra pizza oppure pasta a seconda dei vostri gusti. Ma se invece volete farvi guidare dalla qualità del tipo di carboidrato, basterà andare alla radice del piatto, optando per farine integrali sia per la pasta che per la pizza. È bene ricordare però che la scelta di una farina integrale non cambia la situazione riguardo all'introito calorico. La differenza casomai sta nella quantità di fibre, dato che la farina integrale presenta una parte notevole di fibre, minerali e vitamine, in dosi ben maggiori rispetto alle farine raffinate. Questa caratteristica renderà pasta e pizza integrali più facilmente digeribili. Leggi anche: - Dieta mediterranea, i 10 cibi che fanno stare bene e allungano la vita - Pizza, la ricetta perfetta per farla a casa senza errori (e in 5 passaggi) - La ricetta della pizza tonda nel forno di casa di Renato Bosco - Pizza, i 9 errori da non fare mai quando mangiate in pizzeria - Come cuocere la pasta - Cottura passiva della pasta: lo studio che dimostra quanto si risparmia davvero - I 6 errori da non fare mai quando si cuoce la pasta - Pasta al pomodoro: le 10 mosse per cucinarla alla perfezione.

Il riso integrale batte tutti a morra cinese

Nella morra cinese del piatto più buono — dove con «buono» intendiamo maggiormente salutare — a vincere è in assoluto il riso integrale. Sia lato calorie sia per quanto riguarda le fibre, il riso integrale è il piatto migliore a cui accostarsi. Contiene una media di 111 Kcal ogni 100gr (cotto), mentre abbiamo visto che la pasta (anche se integrale) contiene oltre 300 Kcal per ogni etto. L'ideale sarebbe abbinare il riso integrale ad altri alimenti leggeri e sani, per esempio le verdure, il pesce e la carne bianca. È fondamentale creare i pasti equilibrati e completi di ogni macro-nutriente. Per questo motivo una corretta alimentazione non può che derivare da una corretta informazione, relativa innanzitutto alla piramide alimentare che caratterizza una dieta sana ed equilibrata. Leggi anche: - Dieta mediterranea, i 10 cibi che fanno stare bene e allungano la vita - Pizza, la ricetta perfetta per farla a casa senza errori (e in 5 passaggi) - La ricetta della pizza tonda nel forno di casa di Renato Bosco - Pizza, i 9 errori da non fare mai quando mangiate in pizzeria - Come cuocere la pasta - Cottura passiva della pasta: lo studio che dimostra quanto si risparmia davvero - I 6 errori da non fare mai quando si cuoce la pasta - Pasta al pomodoro: le 10 mosse per cucinarla alla perfezione

Pasti equilibrati in cui non ecceda nessun macro-nutriente. È fondamentale puntare su pasti equilibrati in cui non ecceda nessun macro-nutriente. Troppe proteine infatti potrebbero avere come controindicazione l'affaticamento dei reni; un eccesso di frutta e verdura potrebbero comportare fastidi gastro-intestinali; molti carboidrati rischiano di affaticare la digestione, inoltre fanno immagazzinare grasso. La scelta ideale sarebbe puntare su un piatto completo di proteine, verdura e un po’ di carboidrati. Per questo motivo, tornando alla pasta e alla pizza (meglio se scelte nelle varianti integrali), sarebbe un'ottima idea preferirle con condimenti di verdure, pesce e carne magra, esattamente come dovremmo fare per accompagnare il riso integrale. Scegliendo pasta o pizza con verdura, pesce e carne, avremo un pasto completo ed equilibrato (dunque il nostro organismo non ci farà percepire fame dopo poco, come invece succede quando non introduciamo la giusta quantità di macro-nutrienti). Leggi anche: - Dieta mediterranea, i 10 cibi che fanno stare bene e allungano la vita - Pizza, la ricetta perfetta per farla a casa senza errori (e in 5 passaggi) - La ricetta della pizza tonda nel forno di casa di Renato Bosco - Pizza, i 9 errori da non fare mai quando mangiate in pizzeria - Come cuocere la pasta - Cottura passiva della pasta: lo studio che dimostra quanto si risparmia davvero - I 6 errori da non fare mai quando si cuoce la pasta - Pasta al pomodoro: le 10 mosse per cucinarla alla perfezione

La Pasta Ripiena.

Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 15 Gennaio 2023.

Pasta ripiena e gola. Un connubio molto antico su cui non tramonta mai il sole [...]

 [...]

Sotto il profilo storico, puntando lo sguardo sul tortello, appare evidente che questo piatto si porta dietro sicure ascendenze medioevali. Più precisamente, in principio furono le torte, i pasticci, i pastelli, un modo intelligente per conservare e presentare in bella forma ogni tipo di vivanda. Non per caso in antico, come spiega lo storico Massimo Montanari, con la parola tortello veniva indicato il contenitore, mentre raviolo si chiamava la farcia.

 Quello che è certo è che già nell'immaginario trecentesco la pasta, specie quella ripiena, evocava sublimi orge della gola, come suggerisce Boccaccio con la sua terza novella dell'ottava giornata dove «in una contrada che si chiamava Bengodi eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli e cuocergli in brodo di capponi, e poi li gittavano quindi giù».

Sarebbe stato però nel rinascimento che il tortello avrebbe assunto una sua nobile dimensione. Propizio fu il matrimonio, correva l'anno 1490, di Isabella d'Este con Francesco II Gonzaga, che insieme a una speciale attenzione per le arti, portò anche un grande patrimonio di cucina col suo cuoco Cristoforo Messisbugo che nel suo grande trattato Banchetti, composizioni di vivande et apparecchio generale parla in maniera esplicita di ritortelli. Come non è un caso se qualche decennio dopo lo scalco di Alfonso II d'Este abbia sistematizzato una ricetta di tortelli di zucca con butirro e zenzero.

Da quel momento comincia il viaggio del tortello nel bel Paese. La parte del leone la fa qui l'Emilia Romagna, dai cappelletti di Cesena ai cappellacci di zucca ferraresi, dai balanzoni o tortelli matti di Bologna, agli agnolini a mezzaluna di Parma, dai tortelli verdi di Reggio Emilia, al raffinato tortel dols con vino cotto, mostarda e pangrattato caro a Maria Luisa d'Asburgo, duchessa di Parma. Ma si può continuare anche fuori dal confine padano coi culurgiones sardi a base di pecorino, patate aglio e menta, con la versione del Mugello e quella maremmana, o ancora, nel formato maxi, con quella in uso nelle Marche.

I Dolci di Natale.

Quesiti linguistici. Panettone, pandoro, panforte e gli altri: i nomi dei dolci di Natale spiegati dalla Crusca. Accademia della Crusca su L’Inkiesta il 24 Dicembre 2022

Il pane, elemento centrale dell’alimentazione in numerose culture, nelle festività natalizie diventa dolce in numerose varianti. Ma oltre la divisione tra “panettonisti” e “pandoristi”, la lista dei pani dolci in Italia è lunghissima

Tratto dall’Accademia della Crusca

Per augurare ai nostri lettori un felice periodo festivo, pubblichiamo una golosa lista di nomi di dolci natalizi.

Risposta

Il pane è elemento centrale dell’alimentazione in numerose culture, spesso caricato di particolare sacralità: si pensi solo che la tradizione suggerisce di non infilzarci il coltello e di non posarlo sulla tavola capovolto, e che vige quasi il divieto di gettarlo: non a caso, esistono infinite ricette per riciclare il pane raffermo. A Natale, questo alimento così simbolico si agghinda per le feste: in altre parole, diventa un pane dolce, che in molti casi conserva il richiamo all’alimento da cui deriva quasi solo nel nome.

I due “pani” più rappresentativi del Natale in Italia sono sicuramente il panettone di Milano e il pandoro di Verona, che dividono letteralmente il paese in “panettonisti” e “pandoristi”. Anche all’interno di questi schieramenti possiamo individuare ulteriori categorie: tra gli amanti del panettone abbiamo chi apprezza l’uvetta ma non i canditi o viceversa, tra gli appassionati del pandoro i “puristi”, che non ne vogliono sapere di farciture e glasse, e coloro che invece apprezzano le sperimentazioni: un vero scontro all’ultima fetta.

La storia del panettone, il dolce natalizio più famoso d’Italia (e più esportato nel mondo), appare indissolubilmente legata a Milano: già in un glossario dei primi del Seicento del dialetto milanese, il Varon milanes de la lengua de Milan, si fa cenno a un «pan grosso, qual si suol fare il giorno di Natale», come ricordato da Giuseppe Sergio (Il panettone, ovvero Milano alla conquista del Natale, in Massimo Arcangeli [a cura di], Peccati di lingua. Le 100 parole italiane del Gusto, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 201-203). Si trattava, ancora, semplicemente di un grosso pane preparato per le feste. La tradizione di preparare un grande pane (dal che panettùn) da dividere con i propri cari nelle festività pare risalire al Medioevo. Solo nel XIX secolo il panettone diventa il dolce di Milano, arricchendosi via via di ingredienti golosi e cambiando anche forma: da quella tonda e piatta di focaccia a quella di cupola. Giuseppe Rigutini, nell’Appendice al Vocabolario italiano della lingua parlata (1876), lo definisce «sorta di pane fatto con farina, burro, zafferano e lievitato con birra. Lo fanno assai bene a Milano», a ulteriore prova del fatto che la tradizione del panettone è da considerare milanese. Alberto Cougnet (L’arte cucinaria in Italia, Milano, Società tipografica Successori Wilmant, 1911), nel breve trafiletto che precede la ricetta della leccornia, scrive:

È il dolce più caratteristico d’Italia […]. Andate in qualsiasi città del mondo – vecchio e nuovo – e troverete che il panettone troneggia fra i grossi pezzi della pastellaria dulciaria. Infatti sono convogli intieri di cassette di panettone che partono verso la fine di novembre da Milano per avviarsi verso le lontane Americhe, specialmente, portando colà, ed in altre regioni divinate e scoperte dal genio di Cristoforo Colombo, di Amerigo Vespucci, di Caboto e di Pigafetta, e persino in quelle asiatiche percorse per la prima volta da un europeo, il veneziano Marco Polo, un ricordo folkloristico per la cena tradizionale del “ceppo”, il panettone di Natale, che ai buoni Ambrosiani, al di là dei vasti mari e dei continenti infiniti, rammenta l’antico rito che formava la gioia dei loro anni infantili, quando accomunati al domestico banchetto, trionfava, dopo il tacchino o pollin, farcito di mele, di marroni e di tartufi, il colossale panettone.

Pellegrino Artusi, dal canto suo, nell’edizione del 1911 del suo celebre volume La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene. Manuale pratico per le famiglie (Firenze, Tipografia Landi), a p. 417 riporta la ricetta (la 604) della versione del panettone preparata dalla sua governante, Marietta Sabatini, chiamata in suo onore proprio “Panettone Marietta”. In fondo alla ricetta, Artusi esprime la sua preferenza: «È un dolce che merita di essere raccomandato perché migliore assai del panettone di Milano che si trova in commercio, e richiede poco impazzamento»: all’epoca, insomma, esisteva già una produzione industriale di questa golosità.

La cerimonia del ceppo nominata dal Cougnet viene descritta nei particolari sulla pagina di Academia Barilla in questi termini:

All’inizio di questa sorta di cerimonia il capofamiglia si faceva il segno della croce, quindi metteva nel camino un grosso ceppo di quercia e lo faceva bruciare con un fascio di rami di ginepro. Una volta acceso il fuoco, riempiva un calice di vino e ne gettava qualche goccia sul fuoco, quindi ne beveva un sorso, per poi passarlo agli altri membri della famiglia perché ne bevessero tutti. Una volta terminato il vino, gettava una moneta sempre nel fuoco e ne distribuiva una a testa ad ogni familiare. A questo punto si portavano in tavola i panettoni, di solito tre. Da essi il capofamiglia tagliava una fetta da mettere da parte per farla benedire il giorno di San Biagio, a febbraio, per poi conservarla fino al Natale successivo come portafortuna.

Il nome panettone, dunque, deriverebbe semplicemente dalla sua natura originaria di “grande pane”. A questo etimo così disadorno si sono sovrapposte mille leggende, delle quali dà conto Stanislao Porzio in un volume del 2007 (Il panettone. Storie, leggende e segreti di un protagonista del Natale, Milano, Guido Tommasi). Secondo una di queste, il nome deriverebbe da “pane di Toni”: alla fine del XV secolo, alla corte di Ludovico Sforza, durante un lungo banchetto, un giovanissimo garzone di panetteria si addormenta mentre doveva sorvegliare il forno in cui cuoceva il dolce. Il dolce si brucia e lui, per riparare al guaio, improvvisa un dolce con la pasta di pane avanzata e tutte le leccornie che trova in giro per la cucina: burro, uvetta, canditi. Questo dolce nato per caso sarebbe piaciuto così tanto al duca da far sì che da lì in poi il pane di Toni venisse servito ogni Natale. In un’altra leggenda è quella di Ughetto della Tela che arricchisce via via la semplice pagnotta per risollevare le sorti della panetteria del padre della ragazza di cui si era innamorato. Si noti, peraltro, che in milanese l’uvetta si chiama proprio ughetta. Questa storia è stata anche usata molti anni fa dall’azienda Motta come pubblicità nel 1949 (foto dall’Archivio Alinari).

Nei libri di cucina dal Novecento in poi possiamo trovare infinite ricette del panettone, qualora volessimo prepararlo (con molta fatica) in casa. Esiste, però, un disciplinare di produzione di questo dolce che prevede l’uso dei seguenti ingredienti: farina, zucchero, uova, burro (almeno il 16% del prodotto), uvetta e scorze di agrumi canditi (almeno il 20% del prodotto), lievito naturale e sale. Gli altri ingredienti sono opzionali; il procedimento per la realizzazione è assai complicato, come si evince dalle molte ricette in circolazione.

Il pandoro viene, invece, da Verona. La storia sembra più recente, tanto che possiamo rintracciare con relativa certezza il “papà” del soffice dolce, che si distingue dal panettone per la mancanza di ingredienti aggiuntivi al suo interno (solo una morbida e burrosa pasta dorata). Si tratta di Domenico Melegatti, che, a fine Ottocento, avrebbe creato il Pan d’oro partendo dalla ricetta del tradizionale dolce veronese del Natale, il nadalin, cotto proprio in uno stampo a forma di stella a otto punte (ma molto più basso rispetto a quello dell’odierno pandoro) e aromatizzato anche con pinoli e anice. Alcune fonti riportano una possibile discendenza da un altro dolce veronese tipico delle feste, il levà (‘lievitato’), preparato con ingredienti semplici quali farina, latte e uova. In base al nome, si è data l’ipotesi che il dolce fosse invece nato ai tempi della Repubblica Veneta come Pan de Oro, seguendo l’uso rinascimentale che prevedeva di decorare i dolci con foglie di oro zecchino. Alcuni ritengono probabile anche l’influsso del pane di Vienna (Wienerbrot), un dolce della tradizione mitteleuropea preparato con una pasta tipo brioche (cfr. ad es. A. Lo Russo [a cura di], Dolce Natale: panettone e pandoro. Una tradizione italiana, Firenze, Alinari, 2004). In ogni caso, il Melegatti modifica le precedenti ricette, alleggerendole, e decide di cuocere il pandoro in uno stampo metallico a forma di stella a otto punte, come già quello del nadalin, ma, come dicevamo, più alto.

Il 14 ottobre 1884, Melegatti chiede la registrazione della ricetta del Pandoro (dolce speciale). Assieme alla ricetta, Melegatti registra anche lo stampo in cui l’impasto viene cotto, disegnato per lui dall’artista e pittore veronese Angelo Dall’Oca Bianca (1858-1942). Una forma così iconica da essere stata anche immortalata sulla facciata di Palazzo Melegatti-Turco-Ronca in corso Porta Borsari 21 a Verona, sede originaria del laboratorio di pasticceria omonimo. accademia della crusca

Da "leggo.it" il 24 dicembre 2022.

Come riconoscere un buon panettone? Cosa serve per fare un panettone di alta qualità? Arriva il decalogo per riconoscere un buon panettone anche grazie ai consigli dello chef Iginio Massari sull'ultimo numero di Inchieste.

Ma anche gli occhi meno esperti possono riconoscere un buon panettone in poche mosse. Altroconsumo, seguendo criteri e punteggi, ha stilato una classifica dei 15 panettoni da comprare al supermercato. I criteri sono appunto la qualità di burro e uova, la presenza di frutta, il peso, la presenza di lieviti: un gruppo selezionato di pasticceri ha valutato l’insieme, e il loro giudizio è stato unito a quello di 150 consumatori. 

Sul podio tre marche non certo mainstream. Al primo posto c’è il panettone classico Fior fiore Coop (70 punti, 8,74 euro), che ha raggiunto il punteggio più alto grazie alla pasta soffice. Al secondo posto con 65 punti il Gran Galup (15,90 euro) marchio piemontese attivo da quasi cento anni, mentre il gradino più basso del podio va al Duca Moscati (63 punti, 3,29 euro), il panettone classico di Eurospin, che si aggiudica anche la palma di numero 1 nel rapporto qualità prezzo.

Ottimo come qualità prezzo anche il panettone Le Grazie (62 punti), che si piazza al quarto posto davanti al Mandorlato Balocco e al Giovanni Cova & Co. (entrambi a 59 punti). Al settimo posto il ‘panettone di Milano’ di Terre d’Italia e il gran Nocciolato Maina (57 punti), mentre il Panettone all’antica Tre Marie si piazza al nono posto con 56 punti. Seguono Caffarel, Bauli, Vergani, Melegatti, Motta e Paluani che completano la speciale classifica.

IL DECALOGO Il panettone deve presentare la forma a fungo, con la cupola che deborda dall'involucro di carta, la crosta deve essere ben compatta e di colore uniforme e non bruciacchiato; un buon pirottino (cioè lo stampo di carta oleata in cui viene messo l'impasto del panettone per la cottura) dev'essere abbastanza rigido, in modo da sostenere meglio il panettone e proteggerlo dagli affossamenti;

la scarpatura, cioè il tipico taglio a croce sulla cupola del panettone non è solo un accessorio estetico: un'incisione corretta aiuta l'impasto a gonfiarsi e a cuocere in modo uniforme, lasciandolo morbido, leggero e più aromatico;

al taglio il panettone deve risultare soffice, senza difetti evidenti (buchi nella pasta, fondo bruciacchiato); 

gli alveoli, cioè i fori che si formano nell'impasto di un panettone, dicono molto sulla cura con cui è stato posto a lievitare. Devono essere grandi e soprattutto non omogenei (un'alveolatura più fine e compatta è invece più tipica del pandoro).

Se il panettone è lievitato bene, sarà morbido e soffice; canditi e uvetta sono forse la caratteristica principale del panettone: più ce ne sono in superficie, più ne troverai anche nell'impasto. La loro distribuzione deve essere uniforme. I canditi devono essere di buona qualità (non piccoli e duri) e ci deve essere anche il cedro, più pregiato dell'arancia; 

il disciplinare del panettone prevede una quantità minima di tuorlo d'uovo del 4%. Ovviamente più tuorli si utilizzano, più intenso sarà il colore giallo della pasta. Un buon panettone si riconosce anche da questo; 

aroma e gusto dovrebbero essere quelli caratteristici delle paste acide lievitate: quando invece il sapore è alterato, spesso è dovuto all'eccessiva cottura che rende la parte esterna troppo amara, e alla scarsa qualità dell'uvetta, che può risultare a volte troppo acida. 

Il vero panettone non può sgarrare sugli ingredienti. Deve essere fatto con burro e non con altri grassi, contenere una certa quantità di tuorlo d'uovo, canditi e uvetta. Il lievito deve essere naturale, ottenuto dalla lavorazione precedente, per dare il tipico sapore leggermente acido all'impasto. 

La legge detta norme precise sugli ingredienti che devono essere aggiunti all'impasto del panettone: chi produce deve seguire scrupolosamente le indicazioni non solo sul tipo di materia prima da usare, ma anche sulla sua quantità.

L'impasto deve contenere: farina di frumento; zucchero; uova di gallina di categoria «A» e/o tuorlo (in quantità tale da garantire non meno del 4% in tuorlo); burro per almeno il 16%; uvetta e scorze di agrumi canditi (arancia ma possibilmente anche cedro) in quantità non inferiore al 20% e preferibilmente avere uguale proporzione (possono anche non esserci, purché sia indicato nella denominazione di vendita); 

lievito naturale costituito da pasta acida (cioè da un pezzetto di impasto già lievitato); sale. Si possono aggiungere altri ingredienti specificati, per esempio miele, burro di cacao, emulsionanti, conservanti. 

L’ORA DELLA POLENTA. Nicola Santini su L’Identità il 24 Dicembre 2022

 Antesignana del comfort food, arcaica, consolatoria col profumo di famiglia, di sere d’inverno e convivialità, la polenta è uno dei primi impasti cotti della storia dell’umanità.

Se ne hanno tracce del suo uso già tra i Sumeri e in Mesopotamia, dove veniva preparata con segale e miglio. La farina d’orzo era la polenta dei greci e a seconda delle culture, delle epoche e delle materie prime disponibili in Africa e Asia ne troviamo testimonianza sotto tantissime varianti.

Si chiama polenta dal latino puls. Da sempre cibo comune, i romani venivano chiamati anche pultiferi, che significa nientemeno che mangiatori di polenta. All’epoca ricettari tramandati oralmente fino alla diffusione della scrittura riportavano le regole della polenta ad hoc: impasto a base di macinatura di farro cotto in acqua e sale, da servire con contorno di ceci, pesci sotto sale, formaggi, verdure che si cuocevano al vapore e raramente carne. Addirittura la polenta si accompagnava alla frutta. Quasi fosse un dessert. Da qui, alcune torte semplici e casalinghe tutt’oggi si appellano familiarmente come “polentine”.

La versione classica è a base di cereali a grana grossa in acqua bollente salata.

Seneca bacchettando il malcostume della sua epoca (parliamo del 75 DC) incolpava della crisi morale e dei valori, della sregolatezza dei costumi e del linguaggio, la frugalità dei pasti che venivano consumati venendo sempre meno alla ritualità di preparazione e consumo. Invocando la parsimonia veterum, rimpiangeva i tempi in cui i latini si riunivano per mangiare puls: “Pulte, non pane vixisse longo tempore Romanos manifestum” che per noi significa: di polta (polenta) e non di pane vissero per lungo tempo i romani.

La scoperta del mais, principale componente della polenta odierna va attribuita a Cristoforo Colombo, che ne promosse anche la diffusione con una scelta di farine che sono giunte fino a noi.

Per la polenta di oggi si versa la farina a pioggia in un paiolo possibilmente di rame pieno di acqua bollente, salata, in una formula che vuole il rapporto 1 a 4. E poi bastone di legno, tanta pazienza e voglia di rimestare in continuazione, per almeno un’ora. Cotta la polenta, si versa su una tavola di legno, si può condire con un sugo o accompagnare a un formaggio. E una volta fredda si può tagliare a fette per grigliarla o friggerla, ripassarla al forno e trasformarla in un piatto Gourmet.

Il vero fascino però rimane quello del pentolone conviviale. E il Friuli Venezia Giulia è la regione dove la tradizione viene rispettata in ogni singolo passaggio.

Sulla ritualità della polenta sono nati eventi, iniziative conviviali, ritrovi golosi. Tra questi il Gruppo di Tutela Antica Polenta di Fauglis, che tiene in vita una tradizione secolare a protezione di metodo, materia prima e arte del convivio. Un gruppo che tramanda di generazione in generazione quella che è una vera e propria arte di coccolare il palato partecipando, sempre senza scopo di lucro, a rendez vous golosi e reclutando nuove leve per far sì che la storia non vada mai perduta.

Imparare con gusto. La guerra dei Gianduiotti. Il colosso svizzero del cioccolato Lindt entra a gamba tesa nella procedura di riconoscimento Igp degli storici gianduiotti torinesi. Vuole modificare la ricetta originale. Divampa la "guerra" tra Italia e Svizzera. Maria Cristina Bellelli il 9 Novembre 2023 su Il Giornale.

Dopo secoli e secoli di neutralità il Paese di Heidi, dei formaggini e degli orologi a cucù, la Svizzera ha scatenato una nuova guerra con l'Italia.

Per carità, non è una guerra che si combatte con fucili e cannoni, nessuno si fa male (almeno fisicamente parlando) ma gli animi si scaldano lo stesso come se si fosse su di un campo di battaglia. È scoppiata la guerra dei gianduiotti.

La deliziosa specialità torinese si è trovata al centro di una ferocissima disputa scatenata dal colosso elvetico del cioccolato Lindt. Tutto nasce dalla sacrosanta rivendicazione del riconoscimento Igp (Indicazione geografica protetta) portata avanti dal comitato del Gianduiotto di Torino Igp, al fine di ottenere l'importantissima tutela del leggendario dolciume piemontese. Punto imprescindibile dell'iter per il riconoscimento Igp è ovviamente il rispetto rigoroso della ricetta originale, così come ideata da Caffarel nel 1865.

Gli ingredienti sono esclusivamente tre: nocciola, zucchero e massa di cacao di altissima qualità. Nient'altro. Sarebbe tutto così pacifico e semplice se non fosse stato per l'intervento a gamba tesa di Lindt nella questione. Le regina del cioccolato svizzero si è fortemente opposta con tutto il suo peso da multinazionale miliardaria al riconoscimento ufficiale della ricetta originaria, pretendendo l'aggiunta di un ulteriore e totalmente estraneo ingrediente, il latte.

Una perentoria pretesa che non è di certo finalizzata alla salvaguardia della tradizione dolciaria torinese ma che scaturisce da non indifferenti interessi economici nella produzione industriale dei gianduiotti. Il latte in polvere costa molto meno delle nocciole, aggiungendo il primo a discapito delle seconde si otterrebbe un prodotto di gran lunga più economico. Sicuramente buonissimo ma nemmeno lontanamente paragonabile ad un vero gianduiotto tradizionale.

La vicenda sembrerebbe di facile soluzione, quasi lapalissiana (se il latte non ci andava nel 1865, non ci dovrebbe andare neppure ora), se non fosse che la Lindt come asso nella manica fa fortemente pesare il fatto di essere la legittima proprietaria del marchio Caffarel, acquisito nel 1997 e unico autorizzato a riportare sulle confezioni l'immagine di Gianduia, storica maschera del carnevale torinese da cui i gianduiotti prendono il nome.

Pur essendo depositaria di cotanta e illustre eredità storico/dolciaria, Lindt non sembra essere molto interessata nel portare avanti la tradizione quanto piuttosto di perseguire ben più pragmatiche logiche di mercato. Le ragioni addotte poi fanno per lo meno storcere un po' il naso, anche se sicuramente sono validamente sostenute da fior fiore di principi del foro dell'ufficio legale di Lindt.

Fortunatamente dall'altra parte della barricata, a strenua difesa dell'originalità del cioccolatino più buono del mondo, sono schierati compatti grandi nomi come Venchi, Domori,Ferrero e Pastiglie Leone e grandi maestri cioccolatieri come Guido Gobino, Guido Castagna e Giorgio e Bruna Peyrano.

Proprio Gobino con le sue parole riesce perfettamente a riassumere le "eccentriche" pretese di Lindt. "Sostenere di essere gli inventori di una specialità dolciaria solo per avere acquistato il marchio 130 anni dopo è un po' come acquistare la Ferrari e arrogarsi di aver inventato le macchine da corsa. È una cosa che fa sorridere".

Purtroppo a causa di questo motivo, per quanto assurdo, il riconoscimento Igp è in una fase di stallo e sicuramente a Torino ci sarà da lottare.

Basterà però assaggiare un vero gianduiotto, fatto come si deve, senza latte, per comprendere che ne vale davvero la pena.

Il dolce business del cioccolato: un mercato da quasi sei miliardi di euro. È un settore in crescita sia nel mercato interno sia nelle esportazioni. Con l’Italia in prima fila grazie a marchi conosciuti nel mondo e alle startup che puntano su innovazione e sostenibilità. Antonia Matarrese su L'Espresso il 16 Maggio 2023

Tutti pazzi per il cioccolato. E non solo i golosi. L’ultimo in ordine di tempo a credere nelle potenzialità e nel business del «cibo degli dei» è stato il conduttore televisivo Fabio Fazio: assieme al socio Davide Petrini ha rilevato la Lavoratti 1938 di Varazze, la sua città nel Savonese, salvandola dalla crisi post-pandemia che aveva fermato la produzione. Dopo le tavolette di cioccolato firmate dal maestro pasticcere siciliano Corrado Assenza, arriveranno inusitate praline combinate alle stagionature di Parmigiano Reggiano grazie a un accordo con il relativo consorzio.

Numeri alla mano, sono proprio i cioccolatini sfusi, in sacchetti o in eleganti confezioni, a conquistare il podio delle vendite al dettaglio: «Con oltre 165 mila tonnellate vendute nel 2021 e incrementi che sfiorano il 20 per cento rispetto all’anno precedente, questa categoria merceologica rappresenta l’evoluzione del consumatore che cerca la novità, ma anche un prodotto con percentuali sempre più alte di cacao», spiega Mario Piccialuti, direttore generale Unione Italiana Food: «Il giro d’affari complessivo si attesta sui 5,9 miliardi di euro (+6,8%) ed è destinato a crescere sia in Italia sia nei Paesi che tradizionalmente importano le nostre eccellenze, quali Germania, Francia e Regno Unito».

Cibo confortevole per eccellenza, il cioccolato è diventato letteratura economica in questi tempi di crisi: per far fronte all’aumento del costo del cacao, la classica barretta ha perso un dentino.

«Oggi il cioccolato è una grande opportunità, come lo è stato negli anni Trenta per mio nonno Francesco che arrivò a Trieste da Timisoara», racconta Riccardo Illy, presidente di Polo del Gusto. La sub-holding del gruppo Illy, che conta aziende alternative al caffè, ha in pancia Domori, fondata nel 1997 da Gianluca Franzoni: il marchio ha sviluppato il Progetto Criollo, che protegge la specie di cacao più rara al mondo. «Siamo associati a due piantagioni, una in Venezuela e l’altra in Ecuador. C’è una sola verità sul cioccolato che ogni coltivatore deve capire: la qualità del cacao dipende dalla genetica della pianta».

La cittadella del cioccolato targata Illy è in fase di ultimazione a None, in Piemonte, sul sito dell’ex stabilimento Streglio, di cui sono stati conservati i macchinari. Ed è previsto un raddoppio a Londra, dove Domori nel 2019 ha acquisito Prestat – storico fornitore della casa reale, celebre per le sue praline ripiene, con flagship store a due passi da Piccadilly Circus – e nel 2022 Rococo Chocolates. L’obiettivo da qui a cinque anni? Superare i 50 milioni di euro di business e rafforzarsi in Francia.

Quartier generale a Milano, stabilimento appena ampliato a Castelletto Stura, in provincia di Cuneo, 1.300 dipendenti, 145 negozi ai quattro angoli del mondo e ricavi per 155 milioni di euro (+43 per cento): è il biglietto da visita di Venchi, famosa per cremini e nougatine. «Il cioccolato beneficia dell’effetto trading up: meno quantità, più qualità. L’Italia rappresenta per noi il 40 per cento del fatturato, seguita dall’area Cina-Taiwan-Singapore e dagli Usa (sette negozi solo a New York, con la più grande fontana di cioccolato al mondo in Union Square, ndr). Il 60 per cento del cacao che utilizziamo arriva dal Sudamerica, soprattutto dal Venezuela», racconta Daniele Ferrero, amministratore delegato e socio con il 27 per cento, che ha aperto il capitale ai manager. «Credo nell’imprenditorialità diffusa: le persone investono su loro stesse e condividono il rischio, impegnandosi a tenere le quote per tre anni. Alla scadenza, l’azienda può ricomprarle al valore di mercato».

Ma le specialità Venchi hanno convinto anche privati dall’ingente patrimonio come i fratelli Guerrand, fra gli eredi della maison francese Hermès, o la famiglia Pao Cheng di Hong Kong attraverso Nuo Capital (acronimo di New Understanding Opportunities) o ancora i sauditi di Olayan Group. «Ci siamo impegnati per avere soci internazionali escludendo l’ingresso dei fondi d’investimento. I family office restano la soluzione migliore. Venchi è un marchio che fa gola perché dinamico e globale, ma con dimensioni ancora contenute. E molto attento alla sostenibilità e alla valorizzazione del territorio. Utilizziamo la specifica menzione geografica Langhe per le nocciole Piemonte Igp che acquistiamo direttamente sulla pianta, grazie a un accordo con Ascopiemonte di Santo Stefano Belbo che raggruppa 540 soci per un totale di 2.500 ettari di terreno coltivati a noccioleto», conclude Ferrero.

Dai grandi protagonisti alle startup che puntano sulla lavorazione totalmente artigianale del cioccolato e sul fattore umano. L’idea arriva da Roma, dove il business coach Nicola Salvi ha fondato il marchio Grezzo Raw Chocolate con lo slogan «Piacere sano»: fave di cacao di altissima qualità pressate a freddo, zucchero di cocco a basso indice glicemico, agave, zero additivi e aromi artificiali. «Il cioccolato crudo è cinque volte più ricco di proprietà nutritive rispetto a quello tradizionale. La sola essiccazione, sotto i 42°, è un processo alternativo alla tostatura utilizzata su larga scala che, con le alte temperature, distrugge parte del gusto autentico del cacao», spiega Salvi che ha appena inaugurato la terza insegna nella Capitale.

L'Italia da scoprire. Torrone, storia e tradizione. Il torrone è un dolce delle festività dalle origini molto antiche: a contendersi l’invenzione di questa prelibatezza sono due città italiane, tra leggende e tradizioni. Teresa Barone il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Il torrone arricchisce la tavola degli italiani in occasione del Natale e di tutte le festività: un dolce tradizionale molto apprezzato e declinato in una lunga serie di varianti, anche a livello regionale.

L’origine di questa prelibatezza a base di miele, mandorle, noci, albume, ostia e altri ingredienti, tuttavia, è tutt’oggi molto discussa. Il nome torrone, ad esempio, deriva probabilmente dal latino "torrere", che significa precisamente abbrustolire, e fa riferimento alla lavorazione della frutta secca utilizzata nell’impasto. Le mandorle e le noci, infatti, vengono tostate prima di essere amalgamante insieme agli altri componenti.

A contendersi l’invenzione del torrone sono soprattutto due comuni italiani, vale a dire Cremona e Benevento. Anche la Sardegna, tuttavia, vanta una tradizione artigianale molto antica legata soprattutto ad alcuni paesi del centro dell’Isola.

Le origini romane del torrone

Una delle ipotesi legate all’origine del torrone rimanda perfino all’antica Roma. Varrone, ad esempio, racconta dell’esistenza di un alimento molto energetico chiamato "cupeto" o "copeta", che ha molte caratteristiche comuni.

C’è chi ipotizza, inoltre, che i romani abbiano conosciuto per la prima volta il torrone durante le Guerre Sannitiche, copiando poi la ricetta proprio dai Sanniti.

Il torrone tra Cremona e Benevento

Che l’origine del torrone sia legata alla città di Cremona è una delle teorie più accreditate. Si pensa, infatti, che sia stato l'Imperatore Federico II di Svevia a portare questo dolce dalla Sicilia fino alla città lombarda, avendolo assaporato alla corte di Palermo dove la preparazione del torrone si era diffusa grazie alla cultura araba.

Secondo una leggenda molto conosciuta, inoltre, il torrone è giunto a Cremona il 25 ottobre del 1441, il giorno del matrimonio tra Bianca Maria Visconti e Francesco Sforza. Si pensa che a prepararlo siano stati i cuochi di origine siciliana e che lo abbiano realizzato cercando di riprodurre nella forma la torre campanaria della città, il celebre Torrazzo da cui deriverebbe anche il nome del torrone.

Secondo l’ipotesi che lega l’origine del torrone a Benevento, invece, le prime preparazioni di questo dolce risalgono al III e IV secolo a.C, precisamente nel corso dell’epoca dei Sanniti.

Il torrone non solo a Natale

Immancabile durante le festività natalizie ma anche in occasione del cenone di Capodanno o del pranzo del primo giorno del nuovo anno, in alcune zone d’Italia il torrone rappresenta anche una specialità consumata in altre occasioni.

In Sardegna, ad esempio, il giorno di Pasquetta si tiene la Sagra del torrone in un paesino della Barbagia, Tonara, dove la ricetta tradizionale viene messa in pratica fin dalla metà dell’Ottocento: la sua particolarità è l’assenza di zucchero e il color avorio. Preparato anche unendo pinoli, nocciole e scorze di agrumi, il torrone si può gustare anche nella variante aromatizzata al liquore di mirto, un’altra specialità enogastronomica dell’isola.

A Napoli, invece, il consumo del torrone è legato al 2 novembre e alla giornata dedicata ai morti. Un’abitudine legata all’antica tradizione di lasciare sulla tavola del cibo per le anime dei defunti, ospiti silenziosi nell’abitazione dei familiari proprio nella notte tra il 1° e il 2 novembre.

Sughero. Stappare o svitare, il dubbio amletico del vino. Giambattista Marchetto su L’Inkiesta l’11 Gennaio 2023.

Mentre si fanno strada diversi sistemi di chiusura – dal tappo a vite al vetro – il sughero riafferma il proprio ruolo sul mercato. Grazie al miglioramento delle prestazioni (gestendo il minimo rischio di Tca) e alla leva della sostenibilità, il cork rafforza le posizioni sul mercato

Nella carriera di ogni “gerontofilo” del vino, spesso incompreso da chi le bottiglie le ama giovani e belle, abbiamo visto tappi (di sughero) che voi umani… tappi sgretolati al primo affondo della vite a spirale, imbarazzanti fenomeni di stappo “interruptus” con imprecazioni annesse, tappi inzuppati o induriti come legno dimenticati all’apparire del calice. E tutto questo finirà, con coperture vitree o metalliche, tappi a corona o siliconici.

Romantico e sostenibile, carico di storia e di storie, perno della tradizione, il tappo di sughero è l’icona di un mondo che… per qualcuno va scomparendo. Sarà vero? Giocheremo tutti con la “richiudibilità” delle bottiglie dal tappo a vite? Stapperemo silicone o vetro? Andando oltre riflessioni autoreferenziali e iconiche cornici, il confronto è aperto.

Questione di emotività

Per riflettere sull’importanza della scelta di una chiusura – tappo in sughero, in silicone, a vite – si può partire dalle emozioni. Sì, perché proprio dall’esperienza emotiva è partito un esperimento condotto dal Behavior and BrainLab Iulm di Milano nel 2018 e ampliato nel 2022. L’obiettivo era dimostrare come la wine experience possa essere modificata tramite informazioni preliminari fornite ai degustatori e possa portare anche i più esperti a una valutazione completamente differente dello stesso prodotto.

La metodologia del centro di ricerca non si è basata esclusivamente sulla valutazione razionale, ma soprattutto sull’esperienza emotiva e cognitiva analizzata tramite tecniche neuroscientifiche. Analizzando le differenze percepite da un campione misto di esperti e consumatori abituali tra un vino che si credeva provenire da una bottiglia chiusa con tappo in sughero rispetto a un vino che si credeva provenire da una bottiglia chiusa con tappo a vite, sono emersi elementi curiosi.

I ricercatori hanno fatto innanzitutto leva sull’impatto del suono. Sono stati fatti ascoltare due audio (uno stappo da sughero e un’apertura a vite) e il primo evidenzia un engagement cognitivo maggiore del 39% rispetto al secondo, così come l’attivazione emotiva risulta maggiore del 64%. In entrambe le fasi successive – esperienza olfattiva e degustazione – i risultati rimangono coerenti: con l’esperienza olfattiva il vino che si pensa provenire da una bottiglia con tappo in sughero ottiene un engagement cognitivo maggiore del 34% mentre l’attivazione emotiva risulta maggiore del 59% rispetto a quella del tappo a vite. Nella fase di degustazione l’engagement cognitivo del presunto sughero è dell’80% superiore rispetto alla presunta vite. Inoltre, i partecipanti mostrano un’attivazione emotiva maggiore del 238% quando convinti di star assaporando vino proveniente da bottiglia con tappo in sughero.

Complessivamente dunque la bottiglia con tappo in sughero viene valutata meglio (per qualità, intensità e piacevolezza) e la maggioranza del campione ha dimostrato anche una disponibilità di spesa maggiore per la stessa rispetto al tappo a vite.

Questione di sostenibilità

La scelta del tappo è allora tutta una questione di suggestione? Forse no. Forse qualche informazione su costi, sostenibilità, prestazioni tecniche serve… Con le fluttuazioni di petrolio e materie prime, oggi non è improbabile riuscire ad ottenere prezzi competitivi per un tappo in sughero tanto quanto per uno con componenti plastiche, ma al di là del posizionamento nella scala di costi quello su cui oggi i produttori del cork tradizionale pongono l’accento è la sostenibilità della scelta.

«Nel caso di una chiusura in sughero possiamo controllare l’intero processo dalla coltivazione nelle sugherete all’estrazione della materia prima fino a produzione e commercializzazione. E questo permette di affermare e certificare che ogni tappo ha una carbon footprint negativa», rimarca Carlos Manuel Oliveira e Silva, vicepresidente di Apcor, l’associazione dei produttori in Portogallo, dove l’economia del sughero vale circa il 2% del Pil nazionale.

Ecco la migliore value proposition del sughero. «Le cantine che oggi stanno spingendo molto sulla sostenibilità – chiarisce il manager di Amorim Cork – possono facilmente aggiungere il proprio investimento nei tappi accanto a quelli su fotovoltaico e biodiesel».

Dato che però spesso la parola “sostenibilità” rischia di rimanere vuota e virtuale, vale la pena di scavare tra le pieghe del mondo cork. Si scopre allora che le sugherete sono una risorsa ambientale preziosa per la conservazione del suolo, la regolazione dei cicli idrogeologici, la riduzione delle emissioni (trattenendo 6 tonnellate di CO2 per ettaro ogni anno) e la protezione della biodiversità (sono state identificate 37 specie di mammiferi, 160 di uccelli, 24 di rettili e anfibi).

Oltre ad essere una barriera contro i processi di desertificazione, le querce da sughero non vengono tagliate e dunque la decorticazione permette alle piante di continuare il proprio ciclo vegetativo, che nell’area del Mediterraneo risulta prezioso.

Valore sociale

Il mercato del sughero – che vale circa 1,8 miliardi di euro su scala globale – viene rappresentato come ideale punto di incontro tra valorizzazione del lavoro e salvaguardia dell’ambiente. E in effetti l’estrazione del sughero risulta essere il lavoro agricolo meglio pagato al mondo, dato che richiede grande competenza e un’attenzione che si costruisce nel tempo.

In Portogallo, Italia e Spagna soprattutto, questo settore economico vive condizioni peculiari, basato su un equilibrio fragile. Questo perché – nonostante il sughero abbia molti altri impieghi potenziali, dall’isolamento delle superfici al design – sono i tappi per bottiglie di vino a trainare l’industria del sughero, rappresentando il 70% del valore di mercato per la materia prima. Ecco perché il bacino del Mediterraneo si trova nella posizione di difendere questa risorsa e i giacimenti esistenti, ovvero le sugherete.

E le performance tecniche?

Nasi umani e “nasi” elettronici, che ispezionano ogni singolo tappo, arrivano a garantire prestazioni tecniche altissime. Stando a quanto assicurano i produttori, oggi i tappi di sughero hanno performance che garantiscono una sicurezza altissima rispetto al Tca, i microrganismi responsabili dei sentori “di tappo”.

«Si tratta di mettere in campo conoscenze che si sono evolute per secoli – chiosa Oliveira e Silva – e quello che oggi sappiamo in termini di risk management ci permette di sconfiggere il Tca, lasciando libero il sughero di esprimere tutti il proprio valore in termini di sostenibilità, di efficacia tecnica e di marketing. In fin dei conti il tappo a vite è sul mercato da quasi cinquant’anni, ma oggi il sughero copre il 70% dei sistemi di chiusura nel mondo. Nonostante le nuove mode, la domanda è in crescita, tanto che la produzione non riesce a soddisfarla. Allora forse era presto per celebrare il funerale del sughero, tutt’ora vivissimo».

La Storia.

Il Costo.

Col ghiaccio.

La Tappatura.

Il Vermouth.

Il Prosecco.

Lo Champagne.

Lo Spumante.

I Rosé.

I Vini.

La Storia.

Estratto dell'articolo di Cristiana Lauro per ilsole24ore.com domenica 10 settembre 2023.

I gusti e i consumi di vino hanno avuto negli ultimi anni un evidente cambio di rotta. Fino a una decina di anni fa le scelte dei consumatori miravano soprattutto a connotati di struttura, dominanza di legno (da botte più o meno grande, la quale gioca il suo campionato olfattivo e gustativo) e a un grado alcolico sostenuto, mentre oggi si registra la ricerca di tutt’altre caratteristiche. 

[...] Italia è cresciuto il consumo di spumanti, dei vini rifermentati in bottiglia e anche del Lambrusco doc che nel Nord America rileva dati di crescita davvero significativi.

Come si spiega questo orientamento di mercato? A mio avviso i consumatori – soprattutto le nuove generazioni – sono più consapevoli e orientati principalmente su vini “gastronomici”. È una variante di gusto che facilita l’abbinamento a tutto pasto con una gradazione alcolica non eccessiva, laddove il frutto – la parte vinosa insomma – esce con maggiore agilità e freschezza.

Il nord Europa – o meglio i Paesi scandinavi che sono soggetti ai monopoli di Stato, tanto quanto il Canada – si comportano più o meno allo stesso modo. [...] 

Per quanto riguarda il mercato asiatico – rappresentato principalmente da Cina e Giappone – riscontriamo due tendenze differenti, quasi opposte. Contrariamente a quanto si dia per scontato da chiacchiere di corridoio, la richiesta cinese è dominata da etichette “entry level” e il gusto corrisponde a quello che fu italiano intorno alla fine degli anni Novanta. Vini morbidi, con gradazione alcolica sostenuta e concentrati. Poi forte struttura e, possibilmente, sentori di legno in evidenza. [...]

Il Giappone fa un percorso a sé rispetto alla Cina, ma è un grande importatore di vino italiano. Anche qui registriamo le stesse tendenze gustative dell’Italia e del Nord America, quindi un mercato più evoluto, più colto che va a cercare vini freschi e versatili. Forse più autentici, aggiungo io, e qui la chiudo.

Vitivinicoltura Latina. Come si faceva il vino nell’antica Roma. Daniela Guaiti su L’Inkiesta il 7 Marzo 2023.

Dalla catalogazione dei vitigni ai consigli per la cura della vite, fino alle indicazioni per favorire la fermentazione e preservare la conservazione: nella “Naturalis Historia” c’è tutto quello che un produttore di vino del primo secolo dopo Cristo doveva sapere

Il vino si fa in vigna. No, il vino si fa in cantina. Il dibattito che appassiona professionisti del settore e amanti del vino un tempo non aveva ragion d’essere. Perché il vino si faceva (e forse si fa) prima in vigna e poi in cantina. Un ordine filologico che salta immediatamente all’occhio se si scorre l’opera di Plinio il Vecchio, il naturalista latino che all’enologia ha dedicato pagine e pagine della sua opera, la “Naturalis Historia”. Leggendo queste pagine appare evidente che per i Romani del primo secolo dopo Cristo il lavoro dell’uomo per portare il nettare di Bacco nei bicchieri iniziava dalla terra e proseguiva fino a quando l’invecchiamento non fosse concluso. E già allora si parlava di vitigni e di varietà, si selezionavano uve e si sceglievano tecniche di vinificazione di volta in volta più adeguate, anche se non necessariamente in linea con i gusti di oggi.

La vite

«Non c’è al mondo delizia maggiore del profumo della vite in fiore». Plinio sottolinea la supremazia dell’Italia nella coltivazione della vite ma non si limita a questo. La vite è pianta unica per il suo profumo, per la sua forza e per le sue dimensioni, tali che molte opere celebri al suo tempo erano state realizzate con un’unica pianta: una statua di Giove a Populonia, una pantera a Marsiglia, la scalinata del tempio di Diana ad Efeso. Un elenco che attesta l’importanza data dagli antichi Romani, importanza che si riflette nelle cure prodigate in vigna. «La vite si pota annualmente e tutta la sua potenza di crescita viene incanalata verso i tralci o fatta sfociare nelle propaggini». Inizia così la trattazione che Plinio dedica alla viticoltura. Si specifica poi che le piante vanno fatte crescere in maniera diversa a seconda dei climi e dei suoli, proprio come oggi. Le viti potevano essere maritate al pioppo come nell’Agro Campano: salivano talmente alte sui rami del “coniuge” che «il contratto di chi viene ingaggiato per la vendemmia prevede il risarcimento delle spese per il funerale e la sepoltura». Ma anche altrove le viti sovrastano gli alberi, come avveniva nella Pianura Padana con gli aceri. Diversamente in alcune zone le viti potevano essere sorrette da pali corti, oppure formare pergolati e, come oggi, le viti venivano tenute basse nelle zone più ventose, come «in Africa e in alcune zone della provincia Narbonese».

Catalogati i tipi di impianto della vite, lo scienziato passa a elencare le varietà degli acini, in base al colore, alle dimensioni e alla forma: acini dallo “splendore purpureo”, acini rosati e verdi, acini raggruppati in grappoli grossi e turgidi, acini dalla forma decisamente allungata. Le diverse tipologie vengono trattate in modi differenti e hanno sapore diverso: non c’era una distinzione netta tra uva da tavola e uva da vino, tanto che era diffusa l’usanza di far macerare i chicchi d’uva nel loro proprio vino. Tante, tantissime le varietà: «Solo Democrito dichiarava di conoscere tutte le specie greche… tutti gli altri ci hanno tramandato che sono innumerevoli… ne esistono quasi tante quanti sono i terreni». Così Plinio non può elencarle tutte, ma si limita alle più note o più strane. Le più famose erano le viti aminnee, il cui nome deriva da una località campana, e che davano un vino robusto e forte. Celebri anche le viti nomentane e le apiane, il cui vino, inizialmente amabile, era molto diffuso in Etruria.

A queste varietà autoctone italiane, si affiancano quelle importate dalla Grecia o da altri paesi: non sempre tuttavia, nota lo studioso, era possibile trasferire un vitigno senza alterarne le qualità, tanto che alcuni, «celebri nella loro terra di origine, sono irriconoscibili altrove». E via elencando, Plinio nota per ogni cultivar i pregi e i difetti, la resistenza alle intemperie o la predilezione per determinati climi, la fragilità di fronte alle malattie o la produttività. E già allora si notava come spesso il vino è migliore quando il raccolto non è abbondante, e si cercavano tecniche per mediare tra quantità e qualità. Un esempio, l’uva elvennaca, amante delle brezze marine, intollerante alla guazza: sembrava mal adattarsi al clima italiano ma, secondo un esperto dell’epoca, il senatore Grecino, sopportava male in realtà le tecniche sbagliate usate per coltivarla, che la volevano troppo feconda, a scapito del sapore del vino.

Plinio continua elencando gli ibridi, «ottenuti dall’innesto delle specie più comuni tra loro». Vi sono uve che insolitamente danno un vino migliore quando il raccolto è più ricco, altre che non possono essere vendemmiate prima che sia arrivato il gelo, altre ancora che pur avendo acini neri danno vino bianco.

Non mancavano poi gli esempi di grande capacità imprenditoriale e di abilità nella viticoltura: Plinio ritiene che siano stati troppo pochi, e per questo li ricorda tutti puntualmente, senza risparmiare dettagli ed elogi. Tra i più abili il grammatico Remmio Polemone che «comprò un appezzamento di terreno nel territorio di Nomento per 600.000 sesterzi… e, dopo aver fatto vangare completamente i vigneti… nel giro di otto anni ottenne il risultato strepitoso, a stento credibile, di aggiudicare al compratore il raccolto ancora sui tralci per 400.000 sesterzi», riscosse cioè sul capitale investito un interesse quattro volte superiore a quanto legalmente consentito. Non basta: tutti corsero ad ammirare i cumuli di uva ammassati in quei vigneti, e Polemone riuscì a vendere lo stesso terreno, al decimo anno di sfruttamento, ad Anneo Seneca (proprio quel Seneca), a un prezzo «quadruplicato rispetto al costo». Tutto ciò grazie ai consigli di uno scaltro liberto o, come dicevano i vicini umiliati, grazie alla superiore cultura del grammatico.

In cantina

«Sarà opportuno parlare anche del procedimento con cui si tratta il vino, dal momento che i Greci hanno messo a punto dei criteri speciali al proposito e ne hanno fatta un’arte». Così inizia la parte della trattazione dedicata alla lavorazione del vino: il mosto veniva trattato con varie sostanze per ottenere il sapore desiderato. In Africa gesso o calce per “temperare l’asprezza”; in Grecia argilla, marmo, sale o acqua di mare per “ravvivare la mitezza”; in Italia si usavano in genere resina, pece crapulana da questa ottenuta, o mosto vecchio o ancora aceto oppure mosto ristretto, che addolcisce il vino.

Usanza diffusissima era quella di trattare le anfore con la pece: ampio spazio è dedicato da Plinio alla produzione di questa sostanza, a partire dalla resina di alberi di specie determinate. A seconda delle varietà di pece il vino acquistava sapore e aroma particolari. «Il trattamento del mosto avviene dunque durante la prima fermentazione, che si completa nel giro di nove giorni al massimo, cospargendolo di pece per conferire al vino profumo e una punta di sapore». I vini scialbi venivano rinvigoriti con la resina grezza, mentre i vini troppo aspri venivano addolciti con la crapula. «Il mosto in alcuni luoghi ha il difetto naturale di bollire spontaneamente una seconda volta, danno in seguito al quale il sapore svanisce»: sono tanti gli inconvenienti a cui gli antichi enologi dovevano fare attenzione.

I vini venivano chiarificati con la cenere o con il gesso, oppure con acqua di mare «attinta al largo e conservata a partire dall’equinozio di primavera, o almeno raccolta di notte nel giorno del solstizio o quando soffia l’Aquilone, oppure infine raccolta nel periodo della vendemmia, purché sia bollita».

Attenzione andava prestata anche nell’uso della pece, nello sceglierla, e nel trattare i recipienti: «È ormai accertato che il vino contenuto in recipienti spalmati di cera inacidisce. Ma è meglio trasferirlo in recipienti che abbiano contenuto aceto, piuttosto che in recipienti in cui sia stato del mosto o del vino melato». Ancora, Plinio cita Catone, che oltre all’uso del marmo e della pece raccomanda come additivi di cantina lo zolfo, il sale o la cenere. Ai conservanti, perché di questo si trattava, si univano anche dei coloranti, «come una sorta di belletto da vino», che oltre a dargli intensità di tinta conferivano anche densità e corpo. «Grazie a così numerose sofisticazioni, il vino è costretto a piacere; e poi ci meravigliamo che faccia male!». Come dire che non abbiamo inventato niente di nuovo.

Il Costo.

Estratto dell’articolo di Giuseppe Scuotri per corriere.it lunedì 25 settembre 2023.

Per bere un buon vino non è sempre necessario spendere grosse somme di denaro. Con un po’ di ricerca, è possibile trovare etichette di qualità sorprendente e a buon mercato. Eric Asimov, critico enogastronomico del New York Times, ha stilato una lista delle migliori 20 bottiglie di vino in commercio che costano meno di 20 dollari. Tra queste, quattro sono di aziende italiane. Ecco l’elenco completo. 

Etichetta più economica della lista, questo vino portoghese proveniente dalla zona di Lisbona ha una texture interessante e sentori tannici garbati. «Raramente bottiglie così economiche offrono questi livelli di profondità di gusto o di piacere», afferma Asimov. 

Vino fermo asciutto e sapido, questo Xarello è prodotto dall'etichetta Celler Credo, di proprietà della Recaredo, uno dei migliori produttori di vini spumanti di tutta la Spagna. 

Questo valpolicella, realizzato con uve biologiche, al palato risulta fresco e fragrante ma perfettamente bilanciato. «Entra ed esce dal mercato - dice Asimov -, ma quando lo trovo lo prendo sempre».

Realizzato con vigne sangiovese da agricoltura biologica, questo Chianti ha un sapore ricco e fruttato, tenuto bene insieme da sentori di tannino. Asimov lo consiglia con dei piatti classici della tradizione italiana: una bistecca o una pasta con un ragù molto saporito. 

Un altro italiano della lista arriva dal Trevigiano. Un vino spumante che, come dice Asimov, è essenzialmente un Prosecco anche se non viene chiamato così. La differenza, precisa il giornalista, si avverte anche dalle bollicine molto più fini e particolari della media. Il risultato è un'esperienza piacevole e meno «dimenticabile» di tanti altri prosecchi. 

Prodotto da una piccola azienda votata al biologico da quarant'anni, questo Montepulciano è un vino fruttato e bilanciato, con piacevoli note tanniche. Asimov lo consiglia come accompagnamento con carni o la pasta e fagioli. 

Estratto dell’articolo di Cristiana Lauro per “Il Sole 24 Ore” lunedì 25 settembre 2023.

Quanto incide il costo di una bottiglia di vino sul conto al ristorante? Un po’ troppo, soprattutto negli ultimi tempi. I ricarichi eccessivi nelle carte dei ristoranti riducono i consumi e rischiano di tagliare fuori una fetta di pubblico. È paradossale che la voce “vino” sia così sproporzionata rispetto al pasto consumato. 

I prezzi sono molto alti ovunque nel mondo, soprattutto in paesi come la Cina, il Giappone o gli Emirati Arabi, solo per fare alcuni esempi di grandi importatori. Ciò è dovuto principalmente a dazi doganali elevati, ma non solo. […]

La ristorazione e gli hotel di lusso in Italia si stanno allineando a prezzi ingiustificabili, giacché qui da noi il consumo prevalente riguarda la produzione interna e non l’importazione. Escludo le enoteche da questa considerazione le quali, invece, stanno proponendo i ricarichi abituali che si aggirano intorno al 40% sullo scaffale.

Il livello qualitativo dei vini italiani è in continua crescita, soprattutto su una fascia di prezzo decisamente competitiva. Operando nel settore da lungo tempo, conosco i listini di un vasto numero di aziende; bottiglie che poi ritrovo nelle carte dei ristoranti ricaricate del 400% (se va bene). Il servizio al bicchiere sotto questo punto di vista è ancora più redditizio per il rivenditore. 

Si tratta di un andamento che perde di vista una questione importante riguardo ai consumi, ad esempio il semplice fatto che se un tavolo con quattro coperti beve una bottiglia di vino, probabilmente ne prenderebbe due se costassero il 25% in meno. […] 

Pertanto, la logica qual è? Uno lavora e un altro – che lavora di meno su quel prodotto – guadagna molto più di lui. Strano modo di vedere le cose. I ristoratori italiani possono ricaricare quanto vogliono, ma devono sapere che un servizio al calice che parte da trenta euro non è “accompagnamento”, anche se il contesto è lussuoso. […]

Col ghiaccio.

Estratto dell’articolo di Cristiana Lauro per “Il Sole 24 Ore” il 19 Agosto 2023

Oltre a quella dei vini rosati è partita anche la moda di aggiungere ghiaccio nel calice di vino o, più spesso, negli spumanti. Oggi è ufficialmente sdoganato - e fa tendenza - quello che fino a poco tempo fa si configurava come gesto sfacciato, indecente. Personalmente non mi disturba incrociare nei locali diverse persone che bevono il vino col ghiaccio, a patto che si tratti di scelte dei clienti e non di proposte del servizio di sala (giammai!).

L’aggiunta di ghiaccio non è necessariamente una critica al prodotto o alla temperatura di servizio (che tuttavia viene sottovalutata con una certa frequenza), può essere semplicemente una preferenza di quel momento e, ripeto, una richiesta del cliente. 

Nel caso però è importante prestare attenzione al tipo di ghiaccio che, come insegnano i maestri della mixology, è fondamentale. Il ghiaccio non solo rinfresca ma diluisce, quindi è bene che sia di grosse dimensioni per evitare di annacquare il vino. 

È pertanto bandito quello tritato, utile soltanto per rinfrescare i calici e con la raccomandazione di buttarlo via subito dopo. Il ghiaccio ideale, infatti, deve somigliare più possibile a quei bei cubi grossi e trasparenti che utilizzano i barman per preparare diversi tipi di cocktail. […]

Estratto dell’articolo di Luciano Fiordiponti per dissapore.com ” il 19 Agosto 2023

Partiamo da una premessa: qualora leggere nel titolo “ghiaccio nel vino” vi abbia fatto istintivamente sobbalzare, allora possiamo essere amici. In caso contrario, se tuffare poligoni di acqua allo stato solido nella più sacra delle bevande non vi provoca la benché minima smorfia di disapprovazione, be’ è il momento di parlarne. 

L’usanza di godere della frescura regalata dal ghiaccio negli afosi giorni estivi è ben radicata. Da decenni disponiamo di congelatori dove far solidificare l’acqua in molteplici forme. Spesso i cubetti di ghiaccio sono risolutori per chi ha la memoria di una falena e scorda puntualmente di porre in frigo con il giusto anticipo la n-sima bottiglia della m-sima bibita, proprio quella che servirà a metà del pranzo e che non si può servire a temperatura ambiente senza passare per un cavernicolo.

E non basta: nel mondo della mixology il ghiaccio non è solo un mezzo refrigerante ma un vero e proprio ingrediente, con le sue brave grammature e forme di cui tenere conto. Infine, non scordiamo anche l’appagante sinestesia regalata dal tintinnio dei cubetti nel bicchiere. Insomma, il ghiaccio non è un nemico e non è il male; tuttavia ci sono bevande in cui è meglio non far nuotare questi poligoni gelati: il vino è una di queste. 

Nel caso fosse necessario e nel caso siate nuovi del posto, vi metto in carreggiata: qui non si è dogmatici; tutto è contestabile, tutto è discutibile e ogni giudizio è ribaltabile per mezzo, si capisce, di prove ed argomentazioni concrete (un esempio recente? La pizza con l’ananas).

[…] Ogni vino possiede una gamma di molecole aromatiche peculiare, un intarsio millimetrico di profumi e sapori che hanno una correlazione diretta con il vitigno, con il grado di maturazione dell’uva, con l’annata, con il territorio dove le viti affondano le radici, con tempi e modi di affinamento, ecc… 

L’invadenza maleducata anche di un solo cubetto di ghiaccio perturba questa trama delicata, con la possibilità di perdere il piacere di bere un qualcosa di unico. Figuriamoci nel caso di tre cubetti, come piace agli americani e, mi dicono, anche ai francesi (chiedere ai piemontesi per maggiori informazioni): come si può pretendere di avere ancora del profumo e del sapore residuo se allunghiamo il vino della metà, anche nel caso di un esemplare da svariati kilotoni aromatici?

[...] Volete godere di vino fresco, finanche freddo? Munitevi di secchiello e i cubetti di ghiaccio metteteli dentro quest’ultimo, magari aggiungendoci anche un pizzico di sale grosso se siete amatori dei climi antartici, oppure acquistate una glacette, strumento ideato per mantenere a lungo stabile la temperatura del vino nella bottiglia.

La Tappatura.

Estratto dell’articolo di Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 25 luglio 2023.

Quali sono i tappi più indicati per chiudere e conservare al meglio le bottiglie di vino? Ne esistono di varie tipologie ma diciamo che oggi la partita si gioca fra tappo di sughero naturale e tappo tecnico a vite. In commercio potete trovare anche quelli in sughero agglomerato (che sconsiglio), i tappi di vetro (resistenti e riciclabili) e addirittura quelli in silicone fortunatamente in uscita di scena, mi auguro per sempre. 

Malgrado i puristi più rigorosi storcano il naso, a me il tappo a vite piace e il dato oggettivo è che il suo utilizzo sia dilagante ovunque nel mondo. La questione dirimente è il fatto che il tappo a vite non necessiti di strani strumenti a leva appuntiti come i vari tipi di cavatappi in commercio; permette inoltre di richiudere con facilità la bottiglia, ritrovando il vino nelle stesse condizioni, ed è anche più economico.

Tutto questo con buona pace dei consumatori un po’ oltranzisti, poco propensi ad accantonare un gesto classico “protocollare” che può risultare scomodo in diversi contesti. 

Va ricordato che il tappo a vite in alluminio non altera i sentori sia olfattivi che gustativi del vino, mentre il tappo di sughero – benché più adatto per le bottiglie destinate a un lungo invecchiamento – corre il rischio di contaminazioni da Tca (tricloroanisolo), il famoso sentore di tappo dovuto a un fungo che fa sapere il vino non di sughero (badate bene!) ma di muffa, di giornali vecchi. In quel caso buttatelo via perché non va bene nemmeno per sfumare le scaloppine.

Ma tiriamo le somme: il tappo di sughero naturale deve essere di ottima qualità (quindi costoso) e lungo. È indicato per vini da invecchiamento importante in quanto consente un lento scambio di gas nel corso del tempo e in buone condizioni di conservazione della bottiglia. 

(...)

Manuale per consumatori consapevoli. I sistemi di tappatura del vino, spiegati da un enologo. Anna Prandoni e Andrea Moser su L’Inkiesta il 15 Febbraio 2023.

Proviamo a spiegare tutti i sistemi che si possono usare per consentire al nostro nettare preferito di arrivare integro fino a noi. Se pensate sia un dettaglio, non avete mai studiato bene pregi e difetti di ogni tipologia di tappo

Quanto sottovalutiamo i dettagli? Spesso, moltissimo. Come nel caso delle bottiglie di vino, per le quali diamo estrema importanza al contenuto (e ci mancherebbe), vetro e forma, ed etichetta dimenticando la parte funzionale che riesce a far arrivare dalla cantina a noi il vino nelle sue condizioni perfette, o almeno quelle in cui l’enologo ha deciso che quel vino dovesse avere per noi. “Capire” il tappo e riuscire a controllarne gli effetti è dunque uno dei passaggi fondamentali per chi fa vino e la scelta è ormai vastissima anche in questo ambito.

Ma iniziamo dalla funzione: il tappo deve aderire perfettamente al vetro della bottiglia, per evitare di far fuoriuscire il liquido (colature), ma ben più importante, evitare l’eccessiva entrata di ossigeno che potrebbe causare la possibile perdita di qualità del vino causando i classici difetti organolettici dovuti all’ossidazione. Scoprire se “sa di tappo” è la principale ragione per cui al ristorante ci fanno assaggiare il vino prima di servirlo: quel gesto non serve infatti solo per scoprire se il vino è buono e ci possa piacere oppure no, ma innanzitutto serve per capire se possa avere difetti dovuti a cessioni del tappo, fra cui la più evidente è il TCA (tricloroanisolo), quello che comunemente chiamiamo “gusto di tappo”. Al contrario di quello che tutti siamo portati a pensare, non è questo il difetto che gli enologi temono di più: il TCA è quello più macroscopico, quello che normalmente tutti i clienti riconoscono. Ma ci possono essere anche altri difetti dovuti alla tappatura con sughero naturale: come la presenza di altri anisoli, come la cessione di tannini che rendono amaro e/o secco il vino, la cessione di geosmina che dà sentori terrosi, la cessione di pirazine che danno sentori verdi al vino oppure la combinazione o la concentrazione di questi composti, che sono difficilmente riconoscibili dal cliente come un difetto dato dal tappo ma vengono associati alla qualità del vino.

Per ovviare a questo, aziende e professionisti hanno iniziato a studiare tappature più costanti e standardizzabili del sughero, materiale naturale che per sua natura non riesce a essere affidabile sempre e al 100%.

La prima domanda da porsi, quindi, è: in materiale naturale, in materiali metallici, plastici o loro compositi?

Con i materiali plastici

Per cercare di dare un’alternativa al classico sughero, infatti, i primi surrogati che mantenevano la manualità e l’aspetto visivo del tappo tradizionale sono stati i tappi in materiali plastici, che hanno degli indubbi vantaggi in termini economici, produttivi e di stabilità qualitativa, ma non sono esenti da interazioni e/o cessioni al vino, nel passato hanno anche creato problemi di tenuta, e soprattutto hanno un possibile forte impatto ambientale se non riciclati correttamente. Quelli ricavati quindi dai materiali plastici sono stati eliminati da moltissime cantine per motivi di sostenibilità, ma esistono anche tappi in materiale plastico prodotti partendo da materie prime naturali. Ricordiamoci sempre, però, che il polimero di arrivo è pur sempre plastica ed è una plastica non indispensabile, che quindi le cantine più sensibili al tema decidono di non utilizzare.

Con il vetro

Se scegliamo materiali naturali, il tappo in vetro con guarnizione in silicone, tenuto in sede da una capsula, è un’alternativa possibile, molto usata per i superalcolici. Ha degli svantaggi invece sul vino: intanto perché servono tappatori dedicati e poi perché questa tipologia di tappo non è pensata per l’invecchiamento a lungo termine. Inoltre, la guarnizione può deteriorarsi nel tempo e far passare più aria, che è proprio quello che non vogliamo che succeda.

Con la vite

Il tappo a vite, scelta in Italia molto difficile perché da noi tradizionalmente associato a vini di scarsa qualità, dal punto di vista tecnico è incredibile. Per gli enologi è una scelta molto lungimirante, perché potenzialmente “allunga” la vita al vino, facendo passare pochissimo ossigeno e, nelle ultime evoluzioni, anche delle quantità di ossigeno misurabili e costanti. Formalmente, è una capsula in alluminio con all’interno una membrana in materiale leggermente poroso, filmato con diversi materiali a seconda della scelta tecnica che si desidera ottenere.

Nel resto del mondo si trovano vini di grandissimo livello tappati con questa tipologia di chiusura. La scelta di questo tipo di chiusura negli altri Paesi dipende molto da dove queste popolazioni hanno imparato a vendere o a bere vino: la sommellerie giapponese ha appreso il vino dal vecchio mondo, quindi ama tendenzialmente il tappo in sughero. Il mercato tedesco è da anni un importante promotore del tappo a vite e i mercati anglosassoni sono molto aperti al suo utilizzo: anzi, alcuni importatori vogliono il tappo a vite e lo inseriscono come richiesta specifica nei contratti. A volte, infatti, costa di più rimandare in cantina le bottiglie con difettosità di tappo piuttosto che scegliere direttamente una soluzione come il tappo a vite.

Ma quali problemi può portare questa scelta? Il tappo in sughero può perdonare delle “sviste” produttive o delle scelte tecniche scorrette, un utilizzo della solforosa errato in fase di imbottigliamento o delle piccole riduzioni latenti, affidandosi al fatto che faccia passare sicuramente una piccola quantità di ossigeno. Mentre il tappo a vite ha una chiusura tendenzialmente più ermetica, che tende a evidenziare determinate problematiche tecniche, soprattutto le riduzioni.

A livello produttivo, questa scelta ha degli effetti: l’enologo deve pensare il vino, le fermentazioni e fin anche i trattamenti in campagna in base al tappo che sceglierà. Perché con il tappo a vite l’OTR (Oxigen Transfer Rate), cioè la capacità di passaggio di ossigeno attraverso il tappo, è bassissima, fino ad essere quasi nulla nei casi più estremi. Se è ragionato, è eccezionale, perché la bottiglia arriva a noi esattamente come è stata “pensata” in cantina. Dal punto di vista salutistico, permette di utilizzare meno solforosa e il vino è comunque protetto dal punto di vista ossidativo e quindi resiste meglio al passare del tempo.

L’unico problema che questi tappi possono avere è dato da un difetto meccanico durante la tappatura oppure dal fatto che una bottiglia possa prendere quello che si definisce un “colpo di testa”, proprio nel punto di contatto fra la guarnizione e la bocca della bottiglia, in questo caso si forma un canale in cui la tenuta della guarnizione non è più garantita e che quindi porta all’ossigenazione eccessiva del vino. Ma a parte questo inconveniente, è un tappo che offre grandissime performance.

Con la microgranina

Una valida alternativa contemporanea sono i tappi in microgranina di sughero. I produttori di questi tappi garantiscono che questo processo dia vita a un tappo potenzialmente non contaminato, asettico, sostenibile ed economico. Inoltre, per la produzione di questi tappi si riciclano degli scarti di produzione dei tappi naturali e/o delle partite di sughero che a causa dei contaminanti presenti non possono essere utilizzati direttamente per la produzione di tappi naturali. La microgranina di sughero utilizzata per produrre questi tappi potrebbe essere contaminata in origine da vari composti e per purificarla la si può trattare generalmente in due modi. Con pressione, temperatura e/o vapore, questi processi però non garantiscono al 100% l’eliminazione dei possibili difetti. La metodologia più sicura allo stato attuale è quella dello strippaggio con CO2 supercritica, uno stato dell’anidride carbonica alimentare intermedio tra liquido e gas che ha grande capacità solventi. Il rovescio della medaglia è che dopo il processo di pulizia, il materiale avrà purtroppo perso gran parte delle sue caratteristiche di elasticità che ci permetterebbero di garantire la perfetta adesione del tappo al collo della bottiglia. Si aggiungono quindi alla microgranina dei collanti poliuretanici o altri materiali tecnologici che hanno la caratteristica di restituire elasticità al tappo, oppure, ultimamente, colle di origine vegetale (polioli) provenienti in alcuni casi da olio di vinaccioli, completamente biodegradabili. Il vantaggio di questi tappi? Per l’enologo, in assenza di cessioni e difetti organolettici dovuti al sughero, la possibilità di scegliere tra diversi livelli di permeabilità all’ossigeno proposte e garantire così un’evoluzione organolettica del vino più regolare e costante nel tempo. Inoltre, la costanza qualitativa e la standardizzazione di questi tappi è una sicurezza in più per la conservazione del vino. Il difetto principale è invece la potenziale cessione di gusti anomali in fase di affinamento e la tenuta nel tempo in caso di affinamenti molto molto lunghi. Essendo una forma di tappatura relativamente giovane non abbiamo uno storico sufficiente per sapere come si comporteranno queste chiusure con affinamenti di lungo o lunghissimo periodo. 

Con il sughero naturale

Arriviamo alla tappatura più classica, il tappo monopezzo naturale “perfetto”. È sempre la soluzione migliore, ma quanti ce ne sono di davvero perfetti? Uno su cento? Uno su mille? E purtroppo, come sempre quando usiamo materiali naturali, non è un problema di costo. Il mondo del sughero è arrivato in ritardo rispetto alle richieste del mercato, e la ricerca per 30, 40 anni si è bloccata oppure è stata molto lenta. Da qualche anno alcune aziende produttrici hanno capito che il mercato stava optando per altre possibilità e hanno finalmente fatto un passo avanti in termini di qualità. Basti pensare che negli anni ‘90 il tappo naturale copriva il 90% del mercato globale mentre ora copre circa il 10%. Purtroppo, per avere sughero perfetto serve molto tempo e serve grande efficienza in tutte le fasi produttive: servono dagli otto ai dodici anni per la decortica (estrazione della corteccia dalle querce da sughero), e se si fanno errori in pianta, o trattamenti sbagliati, e se la gestione del terreno nei sughereti non è corretta, il problema deI difetti organolettici può aumentare esponenzialmente.

Il fascino di questo tappo è comunque indubbio, anche perché non è misurabile, non è sempre identico, è un po’ come il vino. Quanto ossigeno passa con un tappo naturale? Nessuno lo sa con precisione perché varia molto da un tappo all’altro. È prodotto con la corteccia di un albero, chi puó sapere ogni singola fase della sua crescita? Si fanno analisi di densità, di peso, ma non c’è mai la matematica certezza, e anche se alcune aziende stanno pensando di fare analisi tappo/tappo attraverso tomografia, la sua reale efficienza non è praticamente misurabile. Misurabilissimo invece è il prezzo, che per i tappi di altissima gamma può arrivare anche a 1,20€ oppure superare 2€ al pezzo. Un costo che necessariamente pesa sulla cantina e anche sul consumatore. Ci pensate mai ai costi dei singoli componenti di una bottiglia quando acquistate un vino? 

Inoltre, oltre ai sopraelencati possibili difetti “naturali”, per sbiancare e sanificare il sughero naturale e renderlo più accattivante alla vista vengono utilizzati dei forti ossidanti detti perossidi, che in caso di errori nella fabbricazione possono rimanere sulla superficie del tappo e potrebbero quindi migrare nel vino, fungendo da ossidanti ancora di più dell’ossigeno stesso. 

Alla luce di tutte queste possibilità, la scelta strategica di ogni enologo e di ogni cantina è personale e identitaria, e dice molto sulla propria idea di interpretare il vino e la sua immagine.

La “guerra dei tappi”, insomma, non è ancora finita. 

Il Vermouth.

Estratto dell'articolo di Giacomo A. Dente per “il Messaggero” il 7 febbraio 2023.

Negroni, Martini, Milano-Torino, Manhattan, Americano. Sono i nomi di alcuni tra i cocktail più amati, […] tutte unite però da un fil-rouge antico, che affonda le sue radici più di due secoli fa nella Torino sabauda. In quel tempo, e più precisamente nel 1786, nacque infatti il Vermouth, […].

Vermouth […] fu il nome scelto da Antonio Benedetto Carpano, speziale con bottega a piazza Castello, per la sua formula, a metà strada tra un medicinale e un corroborante: Moscato di Canelli, erbe e spezie. Ne risultò di fatto un vino liquoroso stuzzicante, elegantissimo che conquistò immediatamente il favore di Vittorio Amedeo III e della corte dei Savoia. Il successo fu immediato. […]

[…] questo vino liquoroso divenne mitico grazie alla madre di Winston Churchill che inventò un cocktail a base di vermouth e whiskey, il Manhattan[…]. A inizio secolo, col nome di Delizia per Signore, fece furore il vermouth bianco, mentre gli anni 20 videro il successo del vermouth rosso (colore ottenuto con la presenza di caramello) e, a seguire, delle polibibite (nome nazionalista, inventato dai futuristi per i cocktail) create dall'ingegnere sabaudo Cinzio Barosi, intrepido utilizzatore della bevanda torinese in tutte le sue invenzioni. […]

Con il passare del tempo si trovarono di fatto a coesistere realtà da milioni di bottiglie all'anno con produttori di nicchia che non superavano il migliaio. Proprio per questo motivo, nell'ormai troppo articolato mondo del vermouth si avvertì il bisogno di pervenire a un disciplinare, perlomeno per lo storico prodotto sabaudo.  Così, con decreto del marzo 2017, è nato il Vermouth di Torino[…]

Il Prosecco.

Il Prosecco e i suoi fratelli. Report Rai. PUNTATA DEL 10/07/2023

di Emanuele Bellano

di Emanuele Bellano

Un viaggio nel fake italian wine all'estero

Il Prosecco è il vino più venduto e più esportato d'Italia con 638 milioni di bottiglie prodotte nel 2022 per un valore di 3 miliardi di euro. E per questo è anche uno dei più imitati. Dal Prisecco al Primasecco, passando per il Perisecco, il Kresecco o l'Amusecco. In Germania i produttori sono sempre più creativi e, tra cause e contenziosi, riescono ancora ad aggirare le norme europee a protezione delle denominazioni geografiche tipiche. Dall'altra parte del mondo, in California, hanno riprodotto pezzi interi di Toscana con tanto di paesaggi e castelli medievali. È la celebrazione di un mito che spinge le vendite dei vini con nomi italiani come il Chianti o il Marsala, anche questi teoricamente protetti dalle leggi sulle denominazioni geografiche tipiche.

IL PROSECCO E I SUOI FRATELLI Collaborazione di Cecilia Bacci e Chiara D’Ambros Immagini Alfredo Farina e Chiara D’Ambros

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANUFAKTUR JÖRG GEIGER Questo è un vecchio albero di pere che ha oltre 250 anni. Con queste pere facciamo il vino frizzante analcolico che chiamiamo PriSecco.

EMANUELE BELLANO Che caratteristiche ha questo Prisecco e come lo fate?

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANUFAKTUR JÖRG GEIGER Spremiamo diversi tipi di mele e pere, poi uniamo erbe, fiori, spezie e, a volte, ad acque aromatiche. Così alla fine abbiamo una bevanda molto complessa con oltre 30 ingredienti che può essere servita come aperitivo, ma può anche essere bevuta a tavola, abbinata ai piatti, esattamente come si fa con il vino.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Jörg Geiger ha iniziato la sua attività come ristoratore in una cittadina nel sud della Germania a cui ha affiancato la coltivazione di alberi di mele e pere. Finché ha deciso di usare la frutta per produrre la sua nuova bevanda. E l’ha chiamata “Prisecco”.

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANUFAKTUR JÖRG GEIGER Stavamo cercando un nome per descrivere questo prodotto che è frizzante, secco e senza alcool. In tedesco frizzante si dice “prickelnde” [pricheld]e da questo ho preso la prima sillaba “pri”, dalla parola “sekt” che vuol dire secco ho preso la sillaba “sec” e siccome noi tedeschi per dire senza qualcosa diciamo “ohne”, per indicare che questo vino è senza alcool ho usato la lettera “o”. Ed ecco alla fine il nome: Pri-secc-o.

EMANUELE BELLANO Ma è un nome del tutto simile al Prosecco.

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANUFAKTUR JÖRG GEIGER Il Prosecco da noi viene considerato di qualità media. Il nostro prodotto è di prezzo più alto, per cui non abbiamo alcun vantaggio dall’associare il Prosecco al nostro Prisecco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Tra “Prisecco” e altre bevande la Manufaktur Jörg Geiger produce circa un milione e mezzo di bottiglie all’anno. Presso il suo punto vendita una bottiglia di Prisecco costa 11 euro e novanta centesimi ma nei ristoranti e nelle enoteche può ovviamente avere un costo più alto. Alcune bottiglie però hanno un’etichetta diversa, senza la scritta “Prisecco”.

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANIFAKTUR JÖRG GEIGER Spedire questa in Italia, con la scritta, ci può creare dei problemi perché è in corso una controversia presso la corte di Alicante, in Spagna.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ad Alicante ha sede l’EUIPO, l’agenzia che gestisce i marchi e la proprietà intellettuale dell’Unione Europea. A questo ufficio si è rivolto il consorzio per la tutela del Prosecco DOC. A giugno 2022 l’EUIPO ha risposto, annullando il marchio europeo “Prisecco” perché, scrivono, “imita quello del Prosecco DOC e spinge i consumatori a credere di trovarsi di fronte al vino Prosecco”. Jörg Geiger ha fatto appello.

EMANUELE BELLANO Da allora ha tolto il nome Prisecco dall’etichetta a causa di questa controversia?

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANUFAKTUR JÖRG GEIGER Sì, ma non per il mercato tedesco. Qui non c’è nessun problema perché il nostro marchio “Prisecco” è stato registrato nel registro tedesco dei marchi prima rispetto a quello del Consorzio DOC.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E così la Manufaktur Jörg Geiger continua a produrre bottiglie a marchio Prisecco, che vengono vendute anche all’estero.

JÖRG GEIGER - PRODUTTORE DEL PRISECCO - MANIFAKTUR JÖRG GEIGER Per esempio nel mercato americano conoscono il nostro prodotto come Prisecco. Soprattutto sulla costa est: New York, Washington.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, la Germania è una terra di vini di grande rispetto. Poi ci sono produttori come Jorg Geiger che producono vino con la fermentazione delle pere e delle mele che lui stesso coltiva. E’ una tradizione secolare per quello che riguarda le campagne del sud della Germania. Ne esce fuori una bevanda frizzante per questo Jorg ha messo il nome Prisecco. Evoca un po’ il nome del nostro Prosecco DOC che viene sostanzialmente prodotto in Friuli e in Veneto. Parliamo di 638 milioni di bottiglie ogni anno, valore del fatturato 3 miliardi ed è il vino sicuramente più venduto in Italia e all’estero. Solo che dovrebbe essere tutelato dall’Europa ma le maglie sono larghe non ci si infila solo Jorg, insomma ci si sono infilati in tanti. Il Prosecco e i suoi fratelli. Perché c’è chi si è inventato il Primasecco, Perisecco, il Frut secco, il Proseccolino, insomma. Poi per confondere meglio le idee li mettono anche vicini al nostro Prosecco. Il nostro Emanuele Bellano.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO I tentativi di sfruttare l’appeal della parola prosecco sono tanti: dal marchio “Proseccolino”, registrato da una ditta tedesca, al “Rich Prosecco” in lattina, brevettato da una società austriaca, fino a tutte le declinazioni tedesche della parola secco.

ERNST BÜSCHER - ISTITUTO TEDESCO DEL VINO I produttori di vino tedeschi hanno preso la parola “secco” da Prosecco per comunicare immediatamente quali caratteristiche i loro vini frizzanti hanno, in modo da evocare ai consumatori il Prosecco che è un vino decisamente famoso in Germania.

EMANUELE BELLANO Come è nata l’idea di usare la parola “secco”?

ERNST BÜSCHER - ISTITUTO TEDESCO DEL VINO Ci fu una ditta che iniziò questo trend chiamando il suo vino Primasecco.

EMANUELE BELLANO Primasecco!

ERNST BÜSCHER - ISTITUTO TEDESCO DEL VINO Primasecco: un brand che faceva riferimento alla parola italiana “primavera”. Ma oggi gli è stato vietato di usare questo marchio.

EMANUELE BELLANO Per quale motivo?

ERNST BÜSCHER - ISTITUTO TEDESCO DEL VINO C’è stata una causa ed è venuto fuori che il marchio Primasecco era troppo simile alla parola italiana. Questo fu l’inizio della mania, in Germania, del secco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Dopo il “Primasecco” è arrivato il “Perisecco”, il cui marchio è stato annullato l’anno scorso. Oggi le declinazioni della parola secco in Germania sono tante. Si va dal vino in lattina come in questo caso.

EMANUELE BELLANO Ravini Secco, frizzante bianco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO A bevande aromatizzate alla frutta.

EMANUELE BELLANO Qui nello stesso scaffale abbiamo un Prosecco DOC, Denominazione di origine Controllata, quindi prodotto in Italia, più altri tipi di Prosecco prodotti in Italia Valdobbiadene in questo caso, un Prosecco Rosé sempre italiano, Denominazione di origine Controllata e poi abbiamo, invece, a fianco, una serie di non italiani prodotti in Germania. Qui abbiamo un Fruchtsecco che ha in questo caso il sapore di mango, il gusto mango, poi abbiamo un Fruchtsecco, pure questo, al melograno.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Ogni regione in Germania fa il suo tipo di Secco. Vicino Francoforte c’è la vineria Rotkäppchen, che produce in Italia il Prosecco di Valdobbiadene DOC col marchio Ruggeri, e in Germania un Fructhsecco.

COMMESSO ROTKÄPPCHEN Può provare quello alla mela, che è alcolico. Va bene per l’aperitivo, ha un’acidità un po’ più alta che lo fa assomigliare al Prosecco.

EMANUELE BELLANO Perché il nome è piuttosto simile: Fruchtsecco, Prosecco.

COMMESSO ROTKÄPPCHEN Sì, è vero. È per questo che probabilmente lo vendiamo. Perché le persone pensano come lei che siano simili. È una questione di marketing.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO In una giornata di sole come questa sul lago di Costanza, nel sud della Germania, l’aperitivo è d’obbligo. Sulle sponde del lago coltivano uva con cui fanno Meersecco, KreSecco e il Bodensee Secco.

EMANUELE BELLANO Ha davvero un sapore che assomiglia al Prosecco.

 BARMAN Sì, è il Secco, un tipo di Prosecco.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO E proprio come per il Prosecco, viene servito da solo, oppure è usato per preparare cocktail.

BARMAN Ci facciamo il Red Passion, l’Aperol Spritz, il Campari.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il proprietario del marchio "Ravini Secco Frizzante" ci scrive che "la parola "secco" è usata sia in Germania che Austria per indicare un vino semi-frizzante: "secco" però è un nome, semplicemente non è protetto" e quindi si sentono nella legittimità di usato. Ma non è il solo contenzioso in Europa. Da tempo per esempio c’è quello in atto con i produttori croati del Prosek che è un vino che loro dicono non c’entra nulla con il Prosecco: è un vino fermo, è ambrato ed è ideale per i dessert. Ecco i croati chiedono il riconoscimento del prodotto IGP, l’indicazione geografica protetta del territorio. Però i parlamentari italiani si sono opposti. Ora c’è da dire che la Commissione Agricoltura della Ue, che sta elaborando un nuovo regolamento per i prodotti a denominazione protetta, ha approvato recentemente un emendamento nel quale si dice chiaramente che ogni menzione anche se tradizionale non può rientrare nell’elenco dei prodotti a denominazione protetta quando evoca uno già in lista ed è il caso del Prosek con il Prosecco. Poi c’è anche un altro contenzioso in atto, che è quello con i viticoltori australiani che vogliono utilizzare il nome "Prosecco" sui loro vini perché dicono che sostanzialmente quel nome è riferito a un vitigno. Però i produttori italiani dicono: “guardate che noi abbiamo registrato il marchio nel 2011 però quel vitigno appartiene ad un’area ben identificata, ha preso il nome addirittura nel 1500 da un castello che era in quel territorio: il Castello di prosecco. E questo è niente perché quello che vedremo adesso, ci sono addirittura nell’altra parte del mondo dei produttori che non solo emulano il vino ma emulano anche i castelli, i vigneti che sono attorno ai castelli, insomma la storia di un’intera regione.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Con le sue torri, merli, arazzi e sale affrescate questo castello medievale sembra raccontare un pezzo di storia toscana. Potrebbe essere in Val d’Orcia o vicino Montepulciano. Ma in realtà è negli Stati Uniti, California.

JIM SULLIVAN - VICE DIRETTORE CASTELLO DI AMOROSA Siamo a Calistoga, nella parte settentrionale della Napa Valley. E ci troviamo nel mezzo di questa splendida fortezza medievale ricostruita fedelmente, un castello toscano adibito alla produzione di vini.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO La struttura ha un nome italiano: Castello di Amorosa. È stata costruita da Dario Sattui, bisnipote di un emigrato italiano che fu tra i primi, qui in California, a piantare viti e ad avviare la moderna produzione del vino.

JIM SULLIVAN - VICE DIRETTORE CASTELLO DI AMOROSA Tutto nasce dall’idea di piantare uve di Sangiovese e produrre vini in stile italiano. Poi il castello è diventato un grande produttore di vini e anche un’attrazione turistica dove le persone vedono qualcosa di spettacolare.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Nel castello ci sono sotterranei e segrete, con l’umidità perfetta per conservare le botti. I turisti che vengono da tutta America, oltre a immergersi nell’atmosfera toscana, possono bere i vini della cantina.

JIM SULLIVAN - VICE DIRETTORE CASTELLO DI AMOROSA Questo è il nostro Sangiovese della Napa Valley, un fantastico vino in stile Chianti, il vero orgoglio del castello. Ma voglio farvi vedere l’etichetta perché è davvero affascinante. Questo è il castello dove siamo noi ora e di fronte potete vedere le nuove vigne che sono state piantate: sono Primitivo.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Oltre al Sangiovese e al Primitivo fanno Dolcino, Gewürztraminer e Barbera. Tutta l’area settentrionale della California intorno alla città di Sacramento sembra essere una riproduzione della Toscana. Napa Valley, Amador County, Sonoma Valley: dovunque ci sono vigneti a perdita d’occhio e le cantine che producono vino hanno spesso nomi italiani come Villa Toscano, Bella Piazza, Terra D’Oro o Vino Noceto.

JIM GULLETT - PROPRIETARIO VINO NOCETO Il Sangiovese, il vitigno nobile del centro Italia costituisce la base per il Chianti Classico e il Brunello di Montalcino. Come il suo cugino toscano questo nostro vino ha un sapore intenso di ciliegia ed è leggermente speziato.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Jim Gullett ha viaggiato in Toscana per anni alla ricerca del vino da riprodurre qui in California. Alla fine ha scelto il Sangiovese con cui il suo winemaker realizza un Chianti Style.

EMANUELE BELLANO Perché in California usate parole italiane come Chianti?

RUSTY FOLENA - WINEMAKER VINO NOCETO In Italia l’arte di fare vino ha migliaia di anni di storia, qui solo un paio di secoli.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Per regolare l’uso dei nomi italiani Europa e Stati Uniti hanno siglato un accordo che vieta ai produttori americani di chiamare i loro vici in etichetta con nomi che fanno riferimento a vini DOP, cioè prodotti in un’area geografica specifica, come Chianti o Marsala.

EMANUELE BELLANO Stavo cercando un Chianti fatto in California. Ce l’avete?

COMMESSO Questo è americano. È imbottigliato qui a New York.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Il vino è un Chianti ed è coltivato e imbottigliato in America dalla Opici Vineyards che produce anche questo Marsala col nome, anche qui, palesemente indicato in etichetta. Nello stesso scaffale c’è un Marsala in cartone da 5 litri prodotto dalla Cribari Cellars e, sempre in cartone, il Chianti della Franzia Bros Winery. Più in basso un altro Chianti: Carlo Rossi, vino prodotto e imbottigliato dalla Gallo Winery a Modesto, California.

EMANUELE BELLANO Perché allora avete deciso di chiamare questi vini Chianti o Marsala, che sono delle aree specifiche in Italia?

HONORE COMFORT - VICE PRESIDENTE INTERNATIONAL MARKETING WINE INSTITUTE È una tradizione cominciata decine di anni fa, quando i produttori cercavano un modo per descrivere i loro vini e farli apprezzare dai consumatori. E poiché in California i consumatori conoscevano i vini italiani, i produttori hanno usato questo espediente.

EMANUELE BELLANO Chianti Station?

CAMERIERE Questo vino si chiama così dal nome di una stazione ferroviaria qui vicino. Ci vivevano molti immigrati italiani provenienti dall’area del Chianti in Toscana.

EMANUELE BELLANO Oh, davvero?

CAMERIERE Sì, stiamo parlando della fine dell’Ottocento, primi del Novecento. C’era il treno che attraversava l’area e lì c’era la stazione della ferrovia Chianti. Così, quando questa ditta ha iniziato a fare vino ha costruito la prima vineria sulla collina sopra la stazione e da lì il nome del vino: Chianti Station.

EMANUELE BELLANO FUORI CAMPO Eccola Chianti, California. Come l’omonima area toscana, ha filari d’uva uno dopo l’altro e vigneti alternati ad olivi. Il vino Chianti Station assomiglia molto all’originale toscano. Sul listino la bottiglia è a 100 dollari e due bicchieri alla mescita vengono 37 dollari. A Los Angeles invece ha sede la San Antonio Winery che produce sia Chianti che Marsala.

CASSIERE Quest’etichetta ha più di 50 anni. Quando la nostra ditta ha iniziato, 105 anni fa, si cercava di copiare quello che facevano gli italiani o i francesi. Ma adesso l’Unione Europea ha iniziato a proteggere i suoi marchi.

EMANUELE BELLANO Nel 2006 l’Unione Europea e gli Stati Uniti hanno firmato un accordo per la protezione delle etichette dei vini che si riferiscono ad aree geografiche specifiche, come per esempio Chianti e Marsala. Perché i produttori di vini in America continuano a usarle?

HONORE COMFORT - VICE PRESIDENTE INTERNATIONAL MARKETING WINE INSTITUTE Quando questo accordo è stato firmato, nei primi anni Duemila, c’erano delle vinerie storiche che usavano questi marchi da prima. A loro la legge americana ha garantito di poter continuare a usare questi nomi, come riconoscimento del loro valore storico e della loro tradizione.

EMANUELE BELLANO L’Unione Europea chiede spesso di creare un registro condiviso dei nomi di vini a denominazione geografica tipica da considerare protetti ovunque, anche in America. Siete d’accordo con questa richiesta?

HONORE - VICE PRESIDENTE INTERNATIONAL MARKETING WINE INSTITUTE - CALIFORNIA Gino non penso che noi vogliamo parlare di questo in un’intervista. E la ragione è perché noi rappresentiamo tutti i produttori di vino e abbiamo membri che sono d’accordo e altri che non lo sono. Per cui non voglio entrare in questa faccenda.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, dopo l’intervista l'organizzazione americana che cura gli interessi dei produttori di vino negli Stati Uniti, ci scrive che loro riconoscono solo l'accordo tra Stati Uniti ed Europa del 2006. Obbediscono a norme americane in base alle quali nomi come “Chianti” o “Marsala” sono dei nomi semigenerici e possono essere indicati in etichetta a patto poi di indicare chiaramente il luogo in cui vengono prodotti, cioè la Californa. Insomma, prosit… alla faccia del made in Italy.

Estratto dell'articolo di Cristiana Lauro per ilsole24ore.it il 15 giugno 2023.

Non tutti sanno come si producano gli spumanti. La parola “Prosecco” è diventata per molti sinonimo di vino con le bolle, mentre è bene chiarire che i Prosecco si producono soltanto in Veneto e in Friuli, da uve Glera, fuori da lì non è Prosecco. E smettete di chiamarlo “prosecchino”! 

I metodi per produrre spumante sono due: Charmat e metodo Classico. In entrambi i casi si parte dal vino fermo che si spumantizza attraverso tecniche e tecnologia, per intervento della mano dell’uomo. È interessante e vi spiego subito come funziona ma, per quanto dicevo poco fa, ricordate che se l’uva naturalmente non diventa vino, figuratevi se si prende la briga di fare lo spumante. 

Si parte da un vino prodotto con uve di acidità elevata alle quali si aggiungono dei lieviti e dello zucchero. Poi si imbottiglia in vetro spesso e si chiude ermeticamente con tappi tipo quelli della Coca Cola. Le bottiglie vengono posizionate orizzontalmente e si dà inizio alla presa di spuma che è molto semplice da spiegare: i lieviti aggiunti, famelici di zuccheri li divorano trasformandoli in alcol etilico e anidride carbonica. Dopo questa grande abbuffata – che avviene nel giro di un paio di mesi – i lieviti tirano le cuoia, cadono stecchiti sulla parte bassa della bottiglia coricata (mi si passino le facezie, ma funziona davvero così). 

Le bottiglie vengono poi lasciate per un lungo tempo al buio nella stessa posizione, insieme al sedimento farinoso dei lieviti deceduti per ingordigia. Nel frattempo l’anidride carbonica, non potendo uscire e liberarsi per via della chiusura ermetica, inizia a sciogliersi per produrre un perlage sottile e, col tempo, sempre più elegante. 

Ma non finisce qui! Dopo almeno un anno e mezzo di riposo verranno risvegliate attraverso uno scuotimento che i francesi chiamano “remuage” e può avvenire manualmente, oppure attraverso grossi macchinari. 

Di fatto serve a staccare dalle pareti delle bottiglie il sedimento dei lieviti e per farlo, dopo il remuage, occorre ribaltarle a testa in giù, in modo tale da raccoglierli sul collo della bottiglia che viene poi immerso in salamoia (soluzione di acqua e sale) a meno 20 gradi e così si ghiaccia. A questo punto le bottiglie vengono girate e stappate. Avviene quindi la “sboccatura” (o dégorgement se preferite alla francese che fa più chic). […]

A seguire: tappo a fungo, gabbietta in alluminio, ed ecco pronto il nostro spumante metodo Classico, la stessa tecnica che produce Champagne in Francia, Cava in Spagna e via dicendo. 

I Prosecco si producono con questa tecnica. A differenza del metodo Classico la fermentazione del vino anziché in bottiglia avviene in autoclave – una grande vasca in acciaio a tenuta stagna – per periodi più brevi. Una sorta di acceleratore che serve a produrre spumanti più semplici, non molto longevi, riducendo notevolmente i costi produttivi e di manodopera.

Per concludere un piccolo suggerimento per chi muove i primi passi nella conoscenza del vino che – come stiamo vedendo insieme, un po' alla volta e con parole semplici – è un mondo veramente affascinante: levatevi dalla testa l’idea di copiare le ricette e mettervi a fare lo “spumantino” a casa vostra.

Lo Champagne.

Futuribile. Gran Vintage, come ti mitizzo lo champagne. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 15 Febbraio 2023.

Anche i grandi marchi sono attenti alle giovani generazioni e costruiscono il loro futuro mercato attraverso i professionisti che stanno facendo passi avanti nella ridefinizione del settore

«Ogni Grand Vintage rappresenta la mia personale interpretazione di una specifica annata e, come tale, è unico. Grand Vintage è l’occasione per scoprire – attraverso i miei occhi – l’originalità di una particolare vendemmia: non è un “riassunto” di quell’anno, quanto piuttosto la mia visione di ciò che ha rappresentato. Come un fotografo che inquadra uno scatto, seleziono i vini che comporranno l’assemblaggio finale di un Grand Vintage. È come lavorare con i negativi fotografici: puoi intravederne forme e contorni, puoi essere sicuro del risultato finale, ma non potrai esserne certo finché non avrai sviluppato la foto». Sono le parole poetiche di Benoît Gouez, chef de cave del mitico marchio Moët & Chandon, che è in grado di raccontare le sue creazioni esattamente come farebbe un padre amorevole con i suoi figli. Nessuna annata è uguale alle altre, e ogni enologo ha una sola occasione all’anno per realizzare il suo miglior vino possibile, alle condizioni date. Condizioni che per la maggior parte non dipendono da lui, ma dalle circostanze climatiche, prevalentemente, ma anche dalle bizze della natura, incontrollabile per definizione. Certo, molto si può poi “sistemare” in cantina, ma di sicuro senza un’ottima uva non si può fare un vino eccellente.

E il 2015 appena lanciato sul mercato ha goduto, in vigna, di una luce intensa e di un bel caldo estivo. È stato, per molti versi, un anno di “risveglio” e di maggiore consapevolezza del clima più caldo e del suo impatto sulla regione della Champagne: lo stress idrico senza precedenti poteva portare le vigne in sofferenza, minacciando la quantità di azoto presente negli acini, e forti acquazzoni si sono abbattuti sui vigneti poco prima della vendemmia: tuttavia, le uve erano sane e ben mature, irradiavano brillantezza, con buona concentrazione e aromi sorprendenti, portando a una resa soddisfacente. Le piogge incessanti, pur creando condizioni difficili per i raccoglitori, non hanno influito sullo stato di salute e sulla qualità delle uve. La freschezza aromatica del Meunier e del Pinot Noir è stata preservata: sani e maturi, hanno mostrato una struttura favorevole all’invecchiamento. Lo chef de cave è stato in grado quindi di selezionare i vini prodotti dai tre vitigni della regione (provenienti sia dalla tenuta della Maison che da una straordinaria fornitura in arrivo dai vigneti partner) con livelli di qualità che soddisfacevano i parametri necessari per dare vita a un Grand Vintage, selezione che non tutti gli anni è possibile. Prosegue Gouez: «Il 2015 è stato un anno di risveglio e di consapevolezza nei confronti del cambiamento climatico, sia in vigna che nel mondo. Grand Vintage 2015 è uno champagne di contemplazione – segna l’inizio di un nuovo giorno». Esiste anche in versione Rosé, dove domina il Pinot Noir, con un frutto concentrato, scuro e profondo.

L’occasione della presentazione di questa annata è anche quella di lavorare sul futuro. Perché questa Maison ha a cuore i giovani e ha da sempre una tensione all’innovazione, con curiosità, e desiderio di ridefinire i codici espressivi che dal 1743 ne fanno un riferimento. È in questo solco che nasce il premio speciale “Tradizione Futura”. Inaugurato con la presentazione della Guida Ristoranti d’Italia 2022 e rinnovato anche nell’edizione 2023, il riconoscimento – nato dalla collaborazione tra Moët & Chandon e Gambero Rosso – viene assegnato a 10 giovani leve della cucina nostrana, senza distinzione di genere o provenienza geografica, che stanno contribuendo a scrivere un nuovo capitolo della cultura gastronomica italiana.

Tradizione Futura è un laboratorio di esperienze e confronto, un network di relazioni che permette agli chef premiati di dialogare con la Maison, attenta a costruire il suo futuro attraverso la valorizzazione dei nuovi talenti, come Andrea Leali di Casa Leali a Puegnago (BS), Maria Carta di Is Femminas a Cagliari, vincitori della prima edizione; e Nico Mastroianni dell’enoteca Il Santo Bevitore di Cassino (FR) e Xin Ge Liu de Il Gusto di Xinge di Firenze (premiati lo scorso ottobre).

Andrea Leali, classe 1993, è un autentico golden boy della cucina bresciana: nel 2018 è Chef emergente dell’anno per la guida del Gambero Rosso e nel 2022 la guida L’Espresso premia Casa Leali, che gestisce con il fratello Marco, con i Tre Cappelli, consacrazione per un autodidatta totale che fin dall’inizio ha solo perseguito la sua visione, coltivando una cucina decisamente fuori dal comune, che affonda le mani nell’archivio dei ricordi per rielaborare piatti emozionali della quotidianità. Una filosofia dei sapori che non prescinde dalla sostenibilità: nulla viene sprecato e gli scarti di verdura vengono lavorati, ad esempio, per preparare il sugo di un piatto a base di anguilla. Per Grand Vintage 2015, morbido e avvolgente, chef Leali propone la sua Giardiniera del Lago, verdure in giardiniera, piccoli pesci di lago in diverse consistenze e lavorazioni e salsa di sarde allo spiedo, un piatto pensato per racchiudere tutto il lago e le sue usanze culinarie.

Maria Carta è la custode della “cucina di longevità”. Originaria di Seulo, comune della Barbagia che conta il maggior numero di ultracentenari al mondo – ben 25! – ed è certificato Blue Zone (area demografica/geografica dove l’aspettativa di vita è più alta della media), diventa ben presto depositaria dei segreti culinari delle donne della zona, che decide di raccogliere in un quaderno di ricette di profonda memoria. Insieme al suo staff tutto al femminile (da cui il nome del ristorante), parte dalla tradizione gastronomica della Barbagia e dell’Ogliastra per costruire un progetto unico, che fonde l’alta cucina con l’antico cibo della longevità. Ispirata dalle note luminose e speziate di Grand Vintage Rosé 2015, chef Carta propone Racconti di Terra e Mare: si tratta di una fregula fatta a mano con semola di grano bio Senatore Cappelli macinato a pietra, accompagnata da un ragù al nero di seppia, lavata solo con acqua di mare, servita su emulsione e scaglie di bottarga, basilico e carciofo fritto.

Nico Mastroianni, nonostante i suoi appena 25 anni di età, può già vantare una lunga serie di collaborazioni con grandi nomi della gastronomia (da Iannotti a Martini), che lo fanno pensare e lavorare come un autentico veterano. Nel 2017, a soli 20 anni, diventa chef del Santo Bevitore. Sperimentazione è la parola chiave della sua cucina, un percorso di continuo studio, apprendimento, che si alimenta con passione e curiosità. La sua proposta guarda molto al territorio del basso Lazio: eccellenze di terra e di mare a cui lo chef cerca di volta in volta di dare una dimensione nuova, classica o innovativa a seconda delle occasioni, ma sempre genuina. In abbinamento a Grand Vintage Collection 2006 propone Baccalà dell’entroterra: filetto di baccalà, servito con pecorino, olio al basilico, limone e cavolo nero. Un chiaro omaggio alle proprie origini ciociare, che ben si sposa con il corpo pieno e tostato dello Champagne. 

Xin Ge Liu, trent’anni, cinese di nascita ma italiana d’adozione, ha scelto la culla del Rinascimento, Firenze, come luogo d’elezione dove dare vita alla propria passione per la cucina, che combina con la sua precedente formazione nel mondo del fashion e del design. All’interno del suo ristorante Il Gusto di Xinge nascono creazioni, gustose ed esteticamente raffinatissime, che si ispirano ai classici della tradizione cinese ma sono realizzati con ingredienti del territorio, creando un ponte simbolico tra il suo Paese d’origine e quello dove vive. La chef adotta un processo creativo simile a quello che si potrebbe vedere in un atelier di moda: partendo da emozioni, ricordi e immagini, tratteggia un moodboard preparatorio degli ingredienti, che diventano poi la traccia sui cui costruire il piatto vero e proprio. Il dolce che decide di abbinare a Grand Vintage Collection 1999 è Xinge’s Moon, una rivisitazione della Moon Cake, tipico della tradizione cinese, qui realizzato con una base di farina di riso, al cui interno si trova un primo strato di crema al taro (radice di una pianta tropicale dell’Asia), seguito da un secondo con crema di litchi e champagne.

Lo Spumante.

Luciano Ferraro per il “Corriere della Sera” il 30 dicembre 2022.

Quando, 16 anni fa, Gianluca Bisol, ventunesima generazione di una famiglia veneta che produce vino da cinque secoli, profetizzò che il Prosecco sarebbe diventato lo spumante più venduto al mondo, molti gli diedero dell'utopista. Qualche tempo dopo stupì tutti dichiarando che la richiesta mondiale di Prosecco sarebbe arrivata a un miliardo di bottiglie. La prima previsione si è avverata da tempo. Nel 2022 è toccato alla seconda, anche se non riguarda solo le bollicine del Nord Est. 

Quota un miliardo è stata raggiunta dall'intero comparto delle bollicine italiane. Il Prosecco è comunque la locomotiva: oltre 7 bottiglie su 10 vengono dalle due Docg (Conegliano-Valdobbiadene e Asolo) e dalla Doc che si estende su 5 province venete e 4 del Friuli-Venezia Giulia.

La conferma del 2022 come anno d'oro per lo spumante italiano è arrivata a novembre da Londra: allo Champagne & Sparkling Wine World Championships 2022, il campionato planetario degli spumanti, l'Italia ha conquistato 53 medaglie d'oro, 129 d'argento e il trofeo più ambito, quello di cantina dell'anno, è andato per la quinta volta alla Ferrari di Trento della famiglia Lunelli. 

Ora i numeri ribadiscono il buon momento per gli spumanti tricolori. Secondo l'Osservatorio Unione italiana vini-Ismea «il 2022 chiuderà con un nuovo record produttivo molto vicino al tetto di un miliardo di bottiglie (970 milioni), per un controvalore di 2,85 miliardi di euro di cui circa 2 miliardi solo di export». Dove finisce tutto questo vino?

«A trainare la crescita - si afferma nello studio - la domanda nei mercati chiave di Stati Uniti, Regno Unito e Germania, ma anche piazze consolidate ed emergenti, come Canada, Svezia, Giappone, Est Europa e Francia, sempre più attratta dalle bollicine italiane (+25% la crescita in volume nel Paese dello Champagne)». 

Se il Prosecco fa la parte del leone, l'intero Vigneto Italia è ormai costellato di spumanti storici e recenti. Continua, a doppia cifra, la crescita del Trentodoc, che sta portando verso l'alto la qualità delle sue fresche bollicine di montagna, anche grazie ad una nuova generazione di vignaioli. 

La Franciacorta punta buona parte delle sue carte sul mercato italiano, con bollicine in grado di sfidare il tempo. Segnali di rinnovato vigore arrivano anche dall'Oltrepò, con il suo straordinario bacino di Pinot nero, essenziale per il Metodo classico. Alta Langa e Asti proseguono la loro corsa. Sono a denominazione di origine l'83% delle bottiglie (6% gli Igt).

«Per il 2022 - sostengono Uiv e Ismea - la crescita produttiva stimata è del 6%, con un aumento dei volumi esportati dell'8% e una variazione minima, ma comunque positiva (+1%), della domanda interna». Mentre i vini fermi devono vedersela con gli effetti di inflazione, recessione e aumento dei costi delle materie prime. 

Anche i brindisi delle feste, ai quali è dedicata la guida Bollicine in edicola con il Corriere della Sera, hanno segnato un record. Stando all'analisi, «saranno 341 milioni le bottiglie di spumante italiano stappate tra Natale e Capodanno, sia in Italia (95 milioni) che, soprattutto, all'estero, sempre più testimone della febbre da Italian sparkling con i 3/4 delle vendite».

I Rosé.

Estratto dell’articolo di Cristiana Lauro per ilsole24ore.com il 29 aprile 2023.

I dati parlano chiaro: il consumo dei vini rosé è in aumento un po’ ovunque anche se fino a qualche tempo fa erano visti con diffidenza, quasi come si trattasse di tagli grossolani fra vini rossi e bianchi. Una specie di mischione da “piccolo chimico”. 

[…] La moda del momento – destinata pertanto a passare, poiché non ho dubbi che fra due o tre anni parleremo d’altro – chiede a gran voce i rosati dal colore appena accennato, detto anche “buccia di cipolla”. Quelli alla provenzale, alla francese, tanto per intenderci (e tanto per cambiare, aggiungo io). Vini rosé fin qui bistrattati e che oggi, purché francesi, in tanti sono disposti a pagare anche 50/60 euro in carta al ristorante. Ecco, un po’ troppo, a mio avviso. 

È bene tenere presente che la suddetta categoria di vini in Italia è sempre esistita e di solito non si faceva parlare dietro. Addirittura in alcune regioni come la Puglia – o l'Abruzzo coi suoi Cerasuolo – questa tipologia, sebbene di colore tutt’altro che “provenzale”, ha sempre visto consumi di tutto rispetto, a differenza di altre aree del nostro paese dove la moda si è affacciata di recente. 

Diverso è il discorso del nord Europa, ad esempio, che ha sempre fatto largo consumo di rosé. Oggi un po’ ovunque in Italia si produce rosato di ottima qualità: da uve Sangiovese in Romagna, ma anche sulla costa toscana. Ci sono rosati molto appezzati e richiesti da Nerello sull’Etna e poi i Cerasuolo di Vittoria.

Insomma il rosato, se di qualità, è un ottimo vino che può essere consumato anche a tutto pasto, non solo come aperitivo. Se poi seguite la mia dritta dell’abbinamento cromatico come punto di partenza per la scelta, troverete molti piatti di pesce della nostra cucina tradizionale a lieve macchiatura di pomodoro che con un buon bicchiere di rosato si sposano perfettamente. 

Il Cacciucco alla livornese, per esempio, è perfetto con un rosato della costa toscana, così da far diventare l’abbinamento cromatico anche regionale. Quella dell'abbinamento cromatico potrebbe sembrare una dritta per principianti ma datemi retta: non lo è! Anzi, molto spesso funziona, senza star lì troppo a ragionare col piatto davanti che poi diventa freddo. […]

Ora che state diventando piccoli esperti di vini – più o meno rosé – e vi starete chiedendo cosa sia una pressa orizzontale, ma soprattutto tecnicamente come faccia l'uva a diventare vino, non vi viene curiosità di andare oltre? Il mondo del vino ha un fascino tutt’altro che scontato.

I Vini.

I Padri.

I Concorsi.

La Cantina.

Dannoso.

Aggiunte.

Vermentino di Gallura.

Vitovska.

Gratena nero. 

Il Nebbiolo.

Il Barbera.

Il Valpolicella.

Il Lambrusco.

L’Amarone.

Il Chianti.

I Padri.

19 Marzo. Storie di padri (e figli) nel mondo del vino. Daniela Guaiti su L’Inkiesta il 18 Marzo 2023

Per la Festa del papà, abbiamo raccolto aneddoti, ricordi, racconti, dove il rapporto padre-figli emerge nella sua profonda complessità. Sullo sfondo, anzi, al centro, il mondo del vino, della vigna, della cantina e delle degustazioni, in cui queste famiglie vivono e lavorano

«“Non giudicare il giorno dalla vendemmia ma dai semi che hai piantato”: questo era scritto sul biglietto che papà mi diede in occasione della mia iscrizione all’università. È un messaggio che racconta il mondo vinicolo ma che, in realtà, è una massima di vita». Con questo ricordo Pierluigi Bolla, presidente di Valdo Spumanti, rende omaggio a suo papà, Sergio. «Purtroppo l’ho perso quando avevo solo 21 anni, ma mi restano bellissimi ricordi, come questo. Il pensiero scritto su quel biglietto certamente ha guidato le mie scelte di uomo e di imprenditore: è un insegnamento che voglio trasferire a mio figlio». Che si chiama Sergio, come il nonno. Per brindare a lui e agli altri papà, Valdo propone Valdo Tenuta Pradase Valdobbiadene Prosecco Superiore Docg Metodo Classico Millesimato 2019, Brut millesimato da singola vigna, in edizione limitata.

«Vinexpo 1989». Marcello Meregalli, quinta generazione dell’azienda Gruppo Meregalli da sempre leader nella distribuzione, inizia il suo racconto con un luogo e una data precisi. «All’epoca avevo undici anni. Per l’occasione avevano proposto un’apertura particolare di cognac A.E. Dor: questa maison, che ancora oggi distribuiamo e con cui lavoriamo da moltissimi anni, aveva organizzato una cosa speciale, aveva aperto una bottiglia, un vero bon bon, una damigianetta da cinque litri chiusa con la ceralacca del 1805. Mi ricordo che tra tutti i vari ospiti presenti io ero il più piccolo e non sapendo cosa fare guardo mio padre che mi raccomanda di bagnarmi solo le labbra “senza bere, perché è cognac…”, con tutte le raccomandazioni del caso. Aggiunse però che un’annata come il 1805 non mi sarebbe più capitata, che era un’occasione speciale! Qualcosa di veramente storico che ancora oggi mi è rimasto nel cuore, bere una bottiglia che aveva quasi due secoli ai tempi, e più di due secoli oggi, è qualcosa che mi è rimasto sempre impresso. In quell’occasione era stata coinvolta la televisione per intervistare i partecipanti alla degustazione e avevano fatto una domanda anche a me: mio padre aveva fatto la traduzione, capivo ancora poco il francese a quei tempi; mi avevano chiesto se l’avessi assaggiato e cosa ne pensavo, avevo risposto che era strepitoso che avesse più anni di tanti palazzi… sono scoppiati tutti a ridere».

Ornella Pelissero dalla scomparsa di suo padre, nel 2007 guida l’azienda di famiglia Pasquale Pelissero ma non può fare a meno di sottolineare: «Sono quasi sedici anni che è mancato ma facciamo ancora tutto pensando a lui. Qui tutto è dedicato a lui». Anche le botti, su cui è impressa una dedica a papà. Del resto Pasquale Pelissero, uomo di Langa, era persona rara. Nato il 24 settembre 1939, sotto il segno della Bilancia, prende in mano le redini dell’azienda agricola a soli sedici anni, alla morte del padre. Trascorrono anni duri, di fatiche e privazioni, ma negli anni ’70 arriva la svolta: Pasquale inizia a imbottigliare il Barbaresco. In cantina ci sta poco. È solito asserire: «Quando curi tanto e bene la tua vigna, in cantina hai poco da fare È del 1971 la prima bottiglia di Barbaresco Cascina Crosa: un vino perfetto da stappare per festeggiare tutti i papà.

La Franciacorta è la cornice della storia di Francesco, padre di Gian Mario Bariselli dell’azienda I Barisèi. Gian Mario (che è a sua volta padre) dedica le sue due esclusive Riserva al papà e allo zio Battista: i due fratelli hanno rappresentato la terza generazione della famiglia e sono stati artefici, tra gli anni ’70 e ’80, di un esteso e lungimirante progetto di innovazione legato al territorio. In quel tempo Gian Mario, accanto al padre e allo zio, ha assistito alla nascita del meraviglioso percorso che sarebbe diventato, di lì a pochi anni, la sua ragion d’essere e che oggi porta avanti con quella energia e quello spirito di innovazione che sono l’eredità del papà.

«Il rapporto con mio padre Paolo è un rapporto complesso e profondissimo». Così Diego Bosoni di Cantina Lunae: «Appena nato mi portò in cantina, che a quel tempo era sotto casa, e mi battezzò col vino! Papà è un uomo forte, prorompente e non sempre facile. Ho iniziato a comprenderlo davvero quando sono andato a studiare fuori casa… In quel momento ho iniziato anche a innamorarmi del vino e ho capito il valore del lavoro che aveva fatto e stava facendo mio padre. Ho compreso che il vino e la cantina erano parte essenziale della mia vita. Oggi ci confrontiamo e ci scontriamo quotidianamente, ma sappiamo scendere a compromessi. E va bene così. Quello che ci accomuna nonostante i nostri caratteri diversi è la passione per i sogni e per il futuro, la voglia di creare. Nell’entusiasmo che ci spinge sempre a guardare oltre e a conoscere meglio, ci ritroviamo e siamo molto simili». Contrasti e affinità che Diego Bosoni non racconta solo con le parole, ma anche con un vino, che ha chiamato, appunto, Padre/Figlio.

Carlo Ferrini, consulente enologo di fama internazionale per tante grandi cantine italiane, ha iniziato dal 2001 la sua avventura come produttore nei due territori da lui più amati, Montalcino e l’Etna. Da oltre cinque anni la figlia Bianca è al suo fianco nell’azienda Podere Giodo e insieme padre e figlia lavorano ogni giorno per creare vini che rispecchiano i territori dove sono prodotti: il Brunello di Montalcino Giodo e l’Igt Toscana La Quinta in Toscana, mentre sotto il nome Alberelli di Giodo producono in Sicilia un rosso di Nerello Mascalese e un bianco di Carricante in purezza. Bianca, classe 1992, un passato da pallanuotista e una laurea in Economia aziendale, racconta che il più bel regalo che le ha fatto il padre è stato quello di trasmetterle passione e conoscenze: «Le nostre idee più belle – racconta – nascono sempre in quello che consideriamo il nostro “ufficio”: la vigna. Di recente ad esempio abbiamo deciso di produrre il Carricante camminando tra i filari sull’Etna».

«Lavoro insieme a mio padre Alessandro alla gestione e alla conduzione dell’azienda vinicola di famiglia da più di vent’anni» racconta Simone François. «Ricordo ancora il primo evento in cui sono stato coinvolto, nel 1997, quando in occasione del centenario di Castello di Querceto vennero aperte alla stampa dodici annate storiche a partire dai primi del Novecento… io avevo poco più di vent’anni, e ricordo di aver assaggiato per ultimo e con grande emozione ogni bottiglia. È uno di quei momenti in cui ho compreso e fatto anche mia l’enorme passione di mio padre per l’azienda e per il territorio chiantigiano, oltre all’orgoglio di raccontare una storia personale e familiare che si intreccia con le vicissitudini storiche del Castello. Recentemente abbiamo lavorato affinché il nostro cru di Sangiovese in purezza “La Corte” potesse aderire agli alti criteri qualitativi richiesti dal disciplinare per produrre Chianti Classico Gran Selezione, la tipologia al vertice della denominazione. Dall’annata 2017 questo cambiamento è realtà e ne siamo molto fieri: “La Corte” è un vino storico per Castello di Querceto, di cui conserviamo nella nostra cantina bottiglie fino all’annata 1904, prodotte dal mio bisnonno».

Léon Femfert dell’azienda Nittardi suddivide in tre fasi il rapporto con suo padre Peter, produttore e gallerista: «In un primo lungo momento ho imparato, osservato e ascoltato tantissimo. Mio padre è stato un grande esempio per me: guardavo come lavorava in fattoria e osservavo come si rapportava con le persone durante i nostri viaggi, visitando clienti e amici produttori. Nella seconda fase ho preso in mano l’azienda, e abbiamo anche discusso molto, come credo che sia normale tra padri e figli. Ora siamo nella terza fase, che dura da diversi anni: abbiamo trovato un nostro equilibrio, condividiamo la passione per il vino e amiamo trovarci insieme e confrontarci su bottiglie speciali, vecchie annate di Nittardi e sui momenti di vita dell’azienda… Io devo moltissimo a lui e a mia madre».

Saverio Notari di Compagnia del Vino ricorda: «Mio papà era un vero mostro sacro del vino. Lo stato d’animo con cui lavoravo con lui è tangibile in questo episodio. Io vivevo e lavoravo come enologo in Brasile; tornai in Italia perché mio papà Giancarlo mi aveva detto di voler lasciare il suo lavoro da Marchesi Antinori per avviare un suo business con un marchio di vini proprio. Già in precedenza aveva detto più volte di voler lasciare Antinori ma non lo faceva mai. All’età di 62 anni lo fece davvero, così mi convinse ad andare a lavorare per lui.

Era difficile calarsi nella realtà di dipendente e soprattutto da dipendente dell’azienda di mio padre, lui era amministratore unico e ovviamente, vista l’esperienza, prendeva le decisioni in autonomia. L’approccio era complicato e la differenza di trent’anni si sentiva. Per questo, nel corso dei tredici anni in cui abbiamo lavorato insieme, papà ha ricevuto da me due lettere di dimissioni: a volte non vedevo fiducia nei miei confronti, il contrasto generazionale era evidente e spesso avevamo visioni diametralmente opposte.

Per due volte dunque ho scritto la lettera che mandavo, secondo le regole, per posta. Quando mio padre la riceveva, veniva nel mio ufficio al primo piano con la lettera in mano e mi diceva «Andiamo a pranzo!».

Per lui il pranzo era un momento di pausa, conviviale. Io ero arrabbiato in quel momento, ma il pranzo, accompagnato dal buon vino che papà sceglieva accuratamente, placava gli animi e faceva dimenticare a entrambi la lettera. Papà leggeva le lettere e comprendeva le mie motivazioni e il mio stato d’animo, ci eravamo capiti a vicenda. Non parlavamo più del mio licenziamento e da Compagnia del Vino non sono più andato via».

«Negli anni Ottanta, quando abbiamo iniziato – racconta Marco Caprai dell’azienda Arnaldo Caprai – non c’era tutta la disponibilità di informazioni che c’è adesso. Io e mio papà leggevamo Veronelli, che spiegava come valorizzare il vino italiano colmando il divario che lo separava da quello francese. Ragionavamo di densità, di selezione clonale, il mondo universitario iniziava a entrare nelle vigne. Io, con la consulenza di un professore, volli cambiare la forma di allevamento tradizionale del Sagrantino, per permettere all’uva di esprimere al massimo le sue potenzialità. Facemmo una prova su un piccolo vigneto, poi presi coraggio e allargai l’operazione su vasta scala. Ridisegnammo interamente le viti: avevamo cataste di legno enormi, esito di una potatura radicale. Mio papà le vide e arrivò quasi di corsa: non capiva se si trattasse di uno scherzo, di un atto vandalico o se noi eravamo impazziti. Riuscii a spiegare quello che avevamo fatto, ma soprattutto la vendemmia del ’90, che fu straordinaria in tutto il mondo, da noi fu davvero eccezionale: l’aver riequilibrato la produzione della pianta ci portò ad anticipare la vendemmia, con una capacità della pianta di maturare fisiologicamente e un risultato di eccellenza. È stata la nascita di un nuovo mondo nel Sagrantino. A mio papà Arnaldo, che a 90 anni è ancora presente in azienda, dedico una bottiglia speciale, Spinning Beauty: il filo in etichetta è quello che unisce le nostre storie».

«Un uomo d’altri tempi, rispettato da tutti», così Giuseppe Scala di Santa Venere ricorda il padre Federico: un nome che, secondo la tradizione di famiglia ora è passato al figlio. Il padre avrebbe voluto coinvolgere Giuseppe in azienda, ma lui voleva fare tutt’altro: «La cosa è esplosa quando io mi trovavo a Bologna per studiare. Papà mi mandò delle bottiglie da vendere, e le ho vendute tutte. Poi dopo la laurea sono tornato giù, e la passione si è accesa, una passione che è diventata lavoro e che sto cercando di trasmettere a mio figlio: un bambino che come tanti vuole fare il calciatore, da grande, ma in seconda battuta alla classica domanda risponde «Quello che fai tu». E se non sarà lui, sarà una delle sue due sorelle. Il vino è un mondo anche femminile. È presto, hanno tempo davanti. Per ora annusano, vivono la vita di cantina, la vendemmia, gli incontri». E assorbono quella passione che si tramanda di padre in figlio.

Luca Baccarelli di Roccafiore ricorda la sua infanzia nella vigna dietro casa, che non era produttiva, era destinata a fare il vino «Solo per noi. È stato negli anni Novanta che mio padre ha avuto la visione che lo ha portato a fare vino: un’intuizione territoriale che ha portato alla nascita di Roccafiore, azienda modello di sostenibilità. Io sono entrato subito in questo progetto e subito mi sono dedicato al vino, partendo dalle basi. Era il 2006-2007. Il giorno che abbiamo imbottigliato la prima annata è stato memorabile. Avevamo appena finito la cantina, era tirata a lucido, ed era ancora vuota. Non avevamo neanche i macchinari, avevamo noleggiato quello che serviva per imbottigliare. Al termine di una giornata emozionante e faticosa, la cantina non era certo piena, ma c’erano bancali per diecimila bottiglie. La sera papà vede quelle bottiglie e dice: «E adesso cosa ci facciamo con tutto questo vino?». Tra lo stupito e il preoccupato: finalmente, dal momento in cui aveva piantato la prima barbatella, ha visto il sogno realizzato, tutto era diventato concreto. Ora iniziava una nuova fase».

Tommaso Chiarli, responsabile comunicazione Chiarli 1860, traccia una linea che lega le generazioni, di padre in figlio: «Se devo pensare a un ricordo che leghi la mia famiglia al vino, non un vino qualsiasi ma il Lambrusco di Sorbara, mi torna in mente, vivida, l’immagine di mio nonno ottantenne e dei suoi baffi bianchi, orlati di rosso, dopo averli immersi a metà in un bicchiere del vino che accompagna la nostra vita da cinque generazioni. Quel bel rosso vivo che tinge i suoi baffi bianchi è un ricordo indelebile, così come il soprannome affettuoso di Vinazza che alcuni amici avevano affibbiato a mio padre. Sorbaristi si nasce e si rimane per sempre».

Una storia di padri e figli è anche quella di Tenuta J. Hofstatter: Martin Foradori Hofstätter ha ereditato dal padre Paolo l’amore per il Riesling, vino che ha accompagnato i ricordi della sua infanzia, immancabile presenza sulla tavola di Natale. Realizzando il sogno del suo predecessore, è stato il primo italiano a investire nella Saar, in Mosella, con l’acquisizione della storica tenuta Dr. Fischer. Qualche anno dopo è toccato a suo figlio Niklas segnare un nuovo traguardo: dalla sua esperienza di formazione in Germania è nata l’idea di produrre una linea di vini dealcolati a base di uve Riesling coltivate nella regione vinicola tedesca, presente sul mercato italiano con il marchio “Steinbock”.

Non è una storia di cambio generazionale, ma una storia di giovani al comando al fianco del loro padre quella di Ca’ di Rajo, la cantina trevigiana creata nel 2005 da Simone Cecchetto. I nonni erano mezzadri, poi divenuti conferitori di uve. Il nonno Marino Cecchetto sognava la creazione di una cantina ma il figlio Bortolo, astemio, lascerà quel desiderio nel cassetto. La cantina nasce dall’intuizione di Simone, figlio di Bortolo, che a 19 anni mette la prima pietra della sede di San Polo di Piave e poi coinvolge nella sua attività i fratelli minori: Alessio, oggi responsabile agronomico del gruppo a 33 anni, e Fabio – classe 1996 – che si occupa della rete vendita. Tre giovani impegnati nella salvaguardia della Bellussera, forma di coltivazione della vite tanto amata dal nonno e dal padre.

I Concorsi.

Lo scherzo al concorso. Qual è il vino da 2 euro che ha vinto la medaglia d’oro a Hong Kong come il più buono al mondo. Il prodotto economico di una catena di supermercati preso e travasato nella bottiglia di una cantina di alto profilo ma inesistente. Redazione Web su L'Unità il 12 Settembre 2023 

Forse ne avevano bevuto troppo, alla giuria del premio Gilbert & Gaillard International Wine Competition di Hong Kong. O forse no. Il punto è che lo scherzo è perfettamente riuscito. Alla kermesse internazionale, con partecipanti e candidati da tutto il mondo, ha vinto un vino da due euro e cinquanta burlescamente travasato in una bottiglia ricercata e di alto profilo. Uno scherzo della trasmissione belga On n’est pas des pigeons, programma dell’emittente RTBF – che tradotto vuol dire “non siamo mica schiocchi”, appunto – , che è andato oltre ogni aspettativa: medaglia d’oro.

La storia è stata ripresa da Il Gambero Rosso. La squadra della trasmissione belga ha acquistato una bottiglia tra le più economiche e scadenti della catena di supermercati Delhaize da 2 euro e 50. “Si tratta di un vino prodotto da vinacce pressate cui viene aggiunto zucchero e acqua. Quello che si ottiene è una bevanda che non potremmo nemmeno definire vino”. Il prodotto è stato travasato in un’altra bottiglia costruita ad hoc con l’etichetta della cantina “Le Château Colombier”, “la tenuta del colombo”. Una cantina inesistente.

Come da bando del concorso la bottiglia è stata inviata tramite pacco espresso, quota di partecipazione di cinquanta euro. “Abbiamo scelto Gilbert et Gaillard perché distribuiscono medaglie ogni tre mesi. Prima di tutto ciò, c’è un solo controllo: devi far analizzare il tuo vino in un laboratorio e provvedere a indicare caratteristiche quali livello di alcol e zucchero. Anche questo costa, 20 euro. Ma anche in questo caso c’è un modo per imbrogliare: si potrebbe inviare quello che si vuole”, ha spiegato il team della trasmissione ai telespettatori.

Poco tempo dopo, il verdetto incredibile: “Colore rosso granato brillante. Naso timido che combina frutta a nocciolo, ribes, rovere discreto. Palato soave, nervoso e ricco, con profumi giovani e puliti che promettono una bella complessità. Evoluzione su spezie fini e un tocco di fuliggine. Molto interessante”. Medaglia d’oro e la possibilità di acquistare adesivi da apporre alle bottiglie. Una storia che ha fatto il giro del mondo.

Redazione Web 12 Settembre 2023

La Cantina.

Arrivano le cantine sottomarine, per affinare il vino nei fondali marini. Un progetto sperimentale nelle acque dell'area marina protetta. A breve via all'avviso pubblico. REDAZIONE ONLINE il 20 Febbraio 2023 su La Gazzetta del Mezzogiorno.

PORTO CESAREO - Al via a Porto Cesareo (Le) il progetto delle cantine sottomarine, che prevede l’affinamento dei vini in contenitori immersi nei fondali dello Jonio. Si tratta in realtà di una pratica già adottata in diverse regioni italiane (Emilia Romagna, Sardegna, Liguria, Toscana) e paesi esteri (Grecia, Croazia) che interessa anche parchi marini e siti di interesse comunitario. A Porto Cesareo insiste una delle Aree Marine Protette più importanti d’Europa ed è lì, che a breve, saranno depositate in via sperimentale 2 ceste con ingombro massimo di mt. 1,50x1,50x1,50 ognuna.

Tutto ha avuto inizio dalla richiesta effettuata da una nota cantina vitivinicola del territorio. La giunta comunale ha deliberato di dare atto indirizzo affinché predisponga quanto necessario per consentire, in via sperimentale, la pratica da parte della cantina richiedente come di altre realtà che avanzeranno la stessa richiesta. Il tutto a condizioni ben precise:

ogni azienda potrà essere autorizzata ad immergere massimo 2 ceste con ingombro

massimo di mt. 1,50x1,50x1,50 ognuna;

ogni cesta dovrà avere una targhetta con indicazione dell'azienda titolare;

la concessione demaniale, in via sperimentale, dovrà avere la durata di un anno;

le ceste potranno essere posizionate solo nella zona C dell'Area Marina Protetta e previo parere del consorzio;

le ceste potranno essere posizionate al di fuori delle aree destinate alle attività portuali e previo parere della Capitaneria di Porto di Gallipoli;

le bottiglie dovranno contenere la dicitura “affinata nell'Area Marina Protetta di Porto Cesareo”.

Non abbiamo vigneti e cantine su Porto Cesareo – spiega la sindaca Silvia Tarantino -, ed è per questo che ancora più straordinario è il legame con il territorio salentino, tra terra e mare attraverso la valorizzazione di tutte le risorse. Siamo un comune a forte vocazione turistica e che la pratica delle cantine sottomarine potrebbe contribuire ad aumentare l'attrattività del territorio”.

Estratto dell’articolo di Cristiana Lauro per ilsole24ore.it il 12 febbraio 2023.

[…] Tenendo da parte il collezionismo da investimento che può avere addirittura un carattere speculativo viaggiando su cifre elevatissime e bottiglie introvabili, vorrei offrire il mio piccolo contributo a chi ama il vino e desidera cimentarsi nell'allestimento di una piccola cantina casalinga senza spendere una fortuna.

Detto questo, per ovvie ragioni, in questa sede farò riferimento a zone e denominazioni senza citare le singole etichette. Chiedo venia fin da subito per l'esclusione di alcune grandi denominazioni nostrane dall'elenco: è per ragioni di spazio e per riuscire a inserire nella nostra cantinetta un po' di tutto.

 Attenzione a temperatura e posizione delle bottiglie

La prima raccomandazione è sulla temperatura della cantina in quanto il caldo accelera i processi di maturazione e anche la luce non fa bene al vino. Inoltre, sarebbe bene conservare le bottiglie coricate, in modo che il tappo di sughero resti sempre a contatto col vino aderendo meglio al vetro ed evitando il più possibile i processi ossidativi conseguenti al contatto con aria. 

Detto questo, la temperatura di cantina ideale è compresa tra i 10 e i 15 gradi, con un'umidità al 75-80% circa. […] Ricordate quindi che se tenete le bottiglie in ambienti non adatti alla conservazione sarà necessario consumarle prima della prevedibile capacità di invecchiamento di quel vino.

Bollicine e bianchi dal Trentino alla Sicilia

Partiamo con le bollicine […]. I miei preferiti in genere sono gli spumanti Extra Brut o Pas Dosè (quelli veramente secchi): se ne trovano di interessanti anche a prezzi umani in Franciacorta, Trento Doc o Alta Langa. Casomai fate due bottiglie per tipo […]

Passiamo ai vini bianchi. […] Da nord a sud proporrei Gewürztraminer e Riesling altoatesini (per chi apprezza gli aromatici), Pinot Grigio e Chardonnay del Collio (amo i bianchi friulani), Soave Classico, Verdicchio dei Castelli di Jesi, Trebbiano d'Abruzzo, Vermentino della costa Toscana o di Sardegna, Fiano di Avellino, Greco di Tufo e, senza dubbio, un po’ di vini bianchi dell’Etna. Diciamo quattro per categoria e siamo a cinquanta bottiglie, quasi a metà cantina, direi.

Tra i grandi rossi dominano Piemonte e Toscana

Proseguiamo con i vini rossi […] Immancabili saranno i Barolo e i Barbaresco ma anche una delle varie Barbera. Poi, come non citare Chianti Classico riserva e Brunello di Montalcino, giusto per sistemare le due regioni che vanno per la maggiore: Piemonte e Toscana. Un po' di Lambrusco di Sorbara o Reggiano per i salumi e un buon Sangiovese Superiore di Romagna non possono mancare per onorare le cucine regionali che il mondo ci invidia.

Aggiungerei Montepulciano d'Abruzzo, un po’ di Primitivo di Manduria e di Cannonau, poi Taurasi e qualche rosso dell'Etna per celebrare l'eleganza del Nerello, uno dei miei vitigni preferiti in assoluto.

 Facciamo sei per tipo e abbiamo varcato abbondantemente la soglia delle cento bottiglie giù in cantina. Chiuderei con due bottiglie di Passito di Pantelleria, e due di Moscato d'Asti.

Un buon rapporto qualità prezzo per contenere la spesa

Quindi, se so ancora usare la calcolatrice, abbiamo messo insieme 126 bottiglie che – se acquistate nelle rivendite con personale specializzato […] fanno una spesa complessiva che si aggira sui 2.200/2.300 euro. Un costo tutto sommato contenuto per un appassionato deciso a metter su una piccola cantina casalinga[…].

Dannoso.

Tutelare la produzione del vino italiano: smascheriamo un attacco travestito da scienza. Alessandro Miani su Culturaidentità.it il 29 Gennaio 2023

Anche se è in arrivo il Carnevale, l’attacco al cuore della produzione dello strategico settore vinicolo italiano non è uno scherzo ma è reale e pericoloso. A renderlo ancora più subdolo è la maschera pseudo-scientifica scelta per affondare il colpo sulla base di comprovate evidenze, che ha purtroppo indotto anche alcuni “esperti” del Bel Paese a salire sul variopinto carro a forma di cavallo di Troia confezionato ad arte evidentemente fuori dai nostri confini nazionali. Si tratta probabilmente della stessa logica d’Oltralpe sapientemente ammantata di scienza che si sta utilizzando per far adottare a livello europeo un sistema di etichettatura comune, il Nutriscore, che penalizza l’olio di oliva e altri prodotti italiani tipici della Dieta Mediterranea e di comprovate proprietà benefiche sulla salute, oltre che in termini di sostenibilità ambientale delle produzioni.

Si vuole infatti penalizzare il consumo, ovvero la vendita e di conseguenza la produzione di vino sulla base della sua cancerogenicità e si tira in ballo addirittura l’Organizzazione Mondiale della Sanità, spesso da parte degli stessi che ne hanno criticato l’operato, le prese di posizione e gli errori di comunicazione nel corso della pandemia. Ma cosa c’è di vero e cosa è invece preso a “pretesto”? Quel che è noto è che nel lontano 2012, l’Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro (IARC) ha classificato l’alcol etilico (o etanolo) come cancerogeno certo per l’uomo (Classe 1 IARC) e l’OMS ha precisato che non esistono quantità di etanolo che possano ritenersi innocue per la salute.

Non si comprende quindi perché lasciare passare un decennio e per quale motivo attaccare solo il vino prodotto nei Paesi Mediterranei come l’Italia e non i super-alcolici ad esempio, che contengono quantità di etanolo ben superiori e sono quindi molto più dannosi per la salute. Ma non si comprende perché voler affrontare il problema della cancerogenicità certificata dalla IARC per l’etanolo e nascondere ipocritamente sotto il tappeto le polveri sottili che popolano la quotidianità delle nostre città, con l’Agenzia Europea per l’Ambiente (EEA) che nell’ultimo Report sulla Qualità dell’Aria ha citato espressamente la Pianura Padana come uno dei luoghi con l’aria più malsana d’Europa. E pensare che il particolato atmosferico (le polveri sottili. Il PM10, il PM 2.5 e via di seguito) è anch’esso classificato da oltre un decennio come cancerogeno certo per l’uomo (Classe 1 IARC, per l’appunto, come l’alcol) ed è responsabile secondo l’EEA di oltre 400.000 decessi prematuri ogni anno in Europa, con l’Italia che svetta in classifica oscillando tra i 70.000 e gli 80.000 decessi annui, pari a quelli del primo anno del COVID. Insomma, l’inquinamento atmosferico da cancerogeni Classe 1 IARC rappresenta una pandemia misconosciuta, ignorata, anno dopo anno (perché impossibile da diagnosticare con un tampone molecolare) certamente non inferiore al problema della mortalità evitabile da consumo di alcol (stimata dall’Istituto Superiore di Sanità in circa 17.000 decessi l’anno, tra cirrosi epatica, tumori, malattie cardiovascolari e incidenti stradali correlati al bere).

E perché prendersela col vino e non col benzene emesso dal nostro parco auto a “benzina verde”, oppure con i metalli pesanti e altri cancerogeni Classe 1 IARC. Insomma, se ci si avvicina al dibattito in corso con le lenti del ricercatore, sembra che la questione stia forse perdendo i contorni di un dibattito scientifico per andare a connotarsi in una dimensione filosofica da “Stato Etico” (in questo caso il sistema burocratico europeo), che agisce da Leviatano con la pretesa di avere il controllo su tutti gli aspetti della vita dei cittadini. Sappiamo dove ci hanno portato finora e che fine hanno fatto questi modelli, sia nei regimi già caduti che in quelli ancora in piedi. Questo non significa voler sottovalutare il problema dell’alcol, che deve essere affrontato non tanto attaccando la produzione vinicola italiana quanto contrastando ad esempio il consumo di superalcolici sempre più diffusi soprattutto tra i giovanissimi. I dati ISTAT ci mostrano fin dal 2002 (con trend consolidatisi successivamente anche dopo il 2012) come i superalcolici siano in aumento e costituiscano oltre la metà del consumo di alcolici e la stragrande maggioranza degli alcolici consumati dai giovanissimi. Ricordiamo che se l’alcol è dannoso per gli adulti, lo è in misura maggiore per i ragazzi: fino ai 16 anni manca l’alcol deidrogenasi (ADH), ossia l’enzima necessario per metabolizzare l’etanolo e disintossicare il corpo, mentre fino ai 21 anni questo enzima non è completamente efficiente.

Quindi giù le maschere e giù le mani dalla produzione vinicola italiana, che produce ricchezza per il Paese e dunque più benessere, più capacità di prevenzione e cura, più salute in definitiva. Per l’OMS, infatti, oggi da molti citato anche su questa questione, la definizione di salute é quella di “uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non semplice assenza di malattia”. Se togliamo ricchezza al Paese, togliamo benessere alla popolazione che non potrà piú contare su servizi di qualità, senza contare al danno sociale di interi territori votati alla viticoltura ed al danno storico che ne deriverebbe dalla perdita di identità. Quello di cui abbiamo veramente bisogno è una grande campagna di sensibilizzazione rivolta ai giovani e seri controlli nei supermercati, nei rivenditori e nei locali, per evitare un eccesso di consumo di alcool. In definitiva nel mentre non comprendo e non condivido la campagna in corso di demonizzazione del  prodotto vinicolo italiano, mi aspetto maggiore solerzia e impegno anche da parte degli esperti su una vera campagna contro il consumo di alcol da parte di giovani e giovanissimi, che stando ai dati disponibili sono sempre più votati al consumo di birra e superalcolici (legati alla moda del cosiddetto Binge Drinking – bere per ubriacarsi) e sempre meno al consumo di vino. La prima causa di morte dei nostri giovani tra i 14 ed i 24 anni non è il cancro ma sono gli incidenti stradali alcol-correlati.

"È cancerogeno", prosegue la crociata di Antonella Viola contro il vino. Federico Garau il 29 Aprile 2023 su Il Giornale.

Nel suo ultimo libro "La via dell'equilibrio. Scienza dell'invecchiamento e della longevità", l'immunologa torna ancora una volta a parlare del vino e dei suoi effetti nocivi 

"È cancerogeno", prosegue la crociata di Antonella Viola contro il vino

Mentre il governo italiano si oppone con tutte le sue forze contro certe etichette allarmistiche volute dall'Irlanda e combatte per tutelare un prodotto di pregio del made in Italy come il vino, riecco l'immunologa Antonella Viola con la sua corciata contro la bevanda. 

Nel suo ultimo libro "La via dell'equilibrio. Scienza dell'invecchiamento e della longevità", la dottoressa torna nuovamente a parlare dell'alcol e dei suoi effetti nocivi. Effetti che, beninteso, nessuno nega, ma che non devono comunque portare a demonizzare un prodotto che fa parte della cultura italiana e che, secondo diversi studi, non comporta dei rischi se assunto in quantità moderate. 

Nel sul focus su cibo e salute, tuttavia, l'immunologa riprende un argomento da lei già affrontato. 

"Dicono il falso". Ma l'Irlanda tira dritto sulle etichette sul vino

"L'etanolo è cancerogeno"

"Dire che un paio di bicchieri di vino al giorno non fanno male è falso e pericoloso", scrive Antonella Viola, ribadendo la sua posizione. "L'etanolo, l'alcol che si utilizza in tutti i tipi di bevande alcoliche, è cancerogeno", prosegue, citando uno studio inglese secondo cui il rischio associato al consumo di alcol associato alle donne è addirittura superiore rispetto agli uomini. "Su 1000 donne e 1000 uomini che consumano in media una bottiglia di vino a settimana, 14 donne e 10 uomini svilupperanno un tumore a causa dell'alcol... Non a caso, già nel 1988 l'Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro e l'Organizzazione mondiale della sanità hanno inserito l'etanolo nella lista dei carcinogeni di primo livello". 

Insomma, se da una parte l'immunologa apre le porte alla carne sintetica, prodotto di cui davvero sappiamo poco o niente circa gli effetti futuri, dall'altra mette al bando il vino senza alcun indugio. 

"Solo vantaggi". Dopo il no al vino, la Viola esalta la carne sintetica

"Chi beve ha il cervello più piccolo"

Antonella Viola ha effettivamente promosso la normativa irlandese che prevede delle etichette sulle bottiglie di vino finalizzate a fornire indicazioni sanitarie sui possibili danni a esso collegati. Un po' come accade per le sigarette. "È chiaro il legame tra il consumo di alcol, e non solo l'abuso, e i tumori al seno, del colon-retto, al fegato, all’esofago, a bocca e gola. Le donne che bevono uno o due bicchieri di vino al giorno hanno un rischio aumentato del 27% di sviluppare il cancro alla mammella", aveva dichiarato la dottoressa al Corriere della Sera. E, ancora: "Studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo". 

Affremazioni, quelle della Viola, che avevano scatenato non poche polemiche, portando anche a un botta a risposta con un altro viro-star, ossia Metteo Bassetti.

Estratto dell'articolo di Michela Nicolussi Moro per corriere.it il 20 Gennaio 2023.

Professoressa Antonella Viola, lei è biologa, ricercatrice e docente all’Università di Padova. Sta facendo discutere il suo appoggio alla scelta dell’Irlanda, approvata dalla Commissione europea, di equiparare alcol e sigarette e di inserire nell’etichetta degli alcolici gli avvertimenti sui danni alla salute.

 L’ha definita «una decisione giustissima», perché?

«Perché bisogna far sapere che l’alcol è incluso nella lista delle sostanze cancerogene di tipo 1, come amianto e benzene. È chiaro il legame tra il consumo di alcol, e non solo l’abuso, e i tumori al seno, del colon-retto, al fegato, all’esofago, a bocca e gola. Le donne che bevono uno o due bicchieri di vino al giorno hanno un rischio aumentato del 27% di sviluppare il cancro alla mammella».

 E quindi il famoso detto «un bicchiere al giorno fa sangue, fa bene al cuore»?

«È un falso, nessun medico serio lo direbbe. Non c’è una dose sicura. Come per le sigarette la dose sicura è zero. Noi siamo abituati a pensare che a far male sia l’abuso di alcol, ma l’effetto cancerogeno si sviluppa anche con un uso moderato. Può indurre alterazioni metaboliche che si riflettono a livello cardiochirurgico e causare seri danni all’intestino».

Anche al cervello?

«Sì, studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo».

(...)

Niente aperitivo con gli amici?

«Sì, ma con il succo di pomodoro. Non dobbiamo fare l’errore di trovarci in compagnia per bere qualcosa, come si dice. Io per esempio ho da poco rivisto il mio amico e collega Nicola Elvassore, appena nominato direttore scientifico del Vimm, l’Istituto di Medicina biomolecolare di Padova dove tempo fa ho iniziato la mia vita di ricercatrice, e abbiamo festeggiato con una passeggiata».

(...)

Estratto dell’articolo di Giorgio Calabrese per “la Stampa” il 23 gennaio 2023.

 Cara Professoressa Viola, le scrivo da medico-nutrizionista clinico a proposito dell'articolo in cui attesta indiscutibilmente che il vino accorcia la vita.

 La sua affermazione trae spunto […] da una ristretta quantità di «papers in review», quasi un diktat. Ma a tale ristretta mole di papers si oppongono ben 236.068 pubblicazioni scientifiche che sottolineano la bontà di questo «alimento liquido», come amo definirlo.

[…] Il vino consumato con moderazione e intelligenza - e lo dimostrano le evidenze scientifiche - ha effetti benefici, soprattutto se associato ai pasti, specie se in stile mediterraneo. Anche i singoli composti presenti nel vino (polifenoli, minerali e vitamine) sono stati oggetto di studi e lavori scientifici, pubblicati negli ultimi 30 anni, e questi dimostrano il ruolo funzionale e positivo sull'organismo.

 [...] La richiesta fatta alla Commissione stessa da parte dell'Irlanda di apporre l'etichetta «Nuoce fortemente alla salute» [...] risulta, quindi, abnorme. Non prevede distinzione se a basso, medio o elevato tenore alcolico.

Questa richiesta avrebbe lo scopo di allertare i consumatori sugli eventuali rischi associati all'alcol e nasce da una civilissima nazione, che, però, di base ha un elevato consumo di superalcolici e che per dissetarsi, invece dell'acqua, beve birra. Non è così per l'Italia e il Sud Europa. 

 […] In Italia, secondo i dati Istat, si beve all'incirca un bicchiere di vino al giorno e siamo passati negli ultimi 30 anni dai 3-4 bicchieri a questo consumo minimo con un contestuale aumento della qualità del vino medesimo. Una moderata quantità appaga il palato, aiuta la digestione e anche la salute cardio-circolatoria.

 Il vino contiene l'85-87% di acqua e il 12-15% di materia alcolica, associata a vitamine, minerali e antiossidanti. Chi scrive, più di 40 anni fa, ha definito il vino «un alimento liquido» al pari del latte e dell'olio e, come lei ben sa, anche questi due alimenti liquidi sono, a loro volta, sotto attacco mediatico e non mi stupirei, alla lettura del suo pensiero, che lei faccia parte di coloro che affermano che il buon latte provochi l'insorgenza del cancro.

Io penso che sia necessaria soprattutto un'azione di educazione alimentare e non solo fra i giovani, che sono i maggiori consumatori di birra, energy drink e shortini.

 Esiste in Parlamento un progetto di legge, che mi vede firmatario, inteso a educare i consumatori al moderato introito di alimenti, solidi e liquidi, spiegando che l'introduzione del minimo bicchiere di vino al dì deve avvenire dai 18 anni in su, quando il fegato è in grado di metabolizzare anche la minima quota di alcol, sempre durante i pasti e mai a digiuno, e men che meno come dissetante.

 I dati qui riportati e le vicende storicamente accertate vogliono essere al contempo un invito a rivedere le posizioni rigide, come quelle da lei esposte, quasi da persona astemia, che risultano parziali, ma anche di confrontare le diverse posizioni. Occorre, invece, una visione più ampia e scientificamente condivisa. Auguro a tutti e anche a lei di seguire il mio motto, coniato decenni fa: «Si beve l'acqua e si gusta il vino». Prosit!

Antonio Riello per Dagospia il 23 gennaio 2023.

Infuria la polemica su quanto possa ledere la nostra salute il vino e – paradossalmente – a scatenarla – sulle pagine dei media italiani – è stata una biologa che da anni vive e lavora in Veneto. Patria del Prosecco e dell’Amarone.

 Essendo cresciuto anch’io nel Veneto, sono conscio e preoccupato - come tutti del resto - dai molti e infidi danni procurati dall’abuso di alcoolici. Allo stesso tempo mi sento di aggiungere che, se la biologa in questione avesse per davvero ragione, le campagne delle Tre Venezie dovrebbero essere deserte da secoli. Insomma, la popolazione si sarebbe da tempo tranquillamente auto-estinta.

 Seriamente vale la pena forse di dare voce a quelli che, con tutta la prudenza e la responsabilità che il caso richiede, hanno deciso di mettere in risalto i pregi e i benefici che ne possono derivare dall’alzare un buon calice di rosso o di spumante. Tra loro anche una pattuglia di medici (delle più disparate specializzazioni mediche, finanche dermatologi, urologi e oculisti) protagonisti di un librino, Calici & Camici (edito da Cinquesensi) scritto da Paolo Brinis.  Un giornalista televisivo con una lunga militanza tra vigneti e cantine, che da diversi anni cerca di promuovere la cultura enologica, all’insegna del bere consapevole.  

Ebbene, tutti i professionisti intervistati, a cominciare dai cardiologi (fatto salvo il veterinario, che però faceva riferimento ai nostri amici a quattro zampe), hanno confermato che un approccio olistico al vino non fa per niente male.

 Insomma, il vino ci può essere amico. E a dircelo non sono frequentatori di osterie e incalliti wine-bevar, ma primari e professori universitari. Certo, se teniamo alla nostra salute, bisogna bere poco e bere bene, cercando sempre la qualità, come peraltro dovremmo fare ogni giorno acquistando i prodotti dell’agro-alimentare.

 Trovo quindi sia sbagliato etichettare come dannoso il consumo di alcol a prescindere dalle quantità assunte (senza distinguere tra uso et abuso) e dalla tipologia della bevanda scelta. Cercando di intimorire il consumatore con dei claim allarmistici sulle bottiglie di vino, come quelli che campeggiano sui pacchetti di sigarette, e dimenticando tutto ciò che sta intorno al “pianeta vino”.

Trascurando la necessità di educare ad un bere corretto, affinché le nuove generazioni possano comprendere che dentro ad un bicchiere di vino troviamo cultura, tradizioni, terroir, socialità, famiglie, ricerca, arte. Penso ad esempio al Museo Lungarotti, in Umbria, dove con rigore scientifico e qualità delle collezioni si raccontano 3000 anni di storia del vino. O ai vigneti sperimentali in alta quota, oltre i 1300 metri, a Cortina e Sappada. O alle cantine progettate da architetti e scultori come Zaha Hadid, Renzo Piano, Arnaldo Pomodoro, solo per citarne alcuni. Che dire poi di certe etichette che impreziosiscono le bottiglie? Gli artisti sono tanti, Fabrizio Plessi, Stefano Vitale, Luigi Ontani, Milo Manara, Gilbert & George solo per citarne alcuni.  

Senza dimenticare l’economia. La filiera del vino in Italia vale almeno 14 miliardi di euro. L’eno-turismo ogni anno attira nel Belpaese milioni di turisti stranieri. E l’export, nel 2022, ha raggiunto la cifra record di 8 miliardi di euro.

 Risulta evidente quindi quanto sia necessario comunicare, in maniera corretta ed equilibrata, i rischi, ma anche i benefici conseguenti all’assunzione di vino. Si può ragionevolmente dubitare che la soluzione migliore – come vorrebbe l’Unione Europa – sia farlo con una serie di minacciose avvertenze, che potrebbero avere conseguenze davvero penalizzanti per la produzione vitivinicola dei maggiori produttori continentali, Italia in primis. La questione comunque non è solo di carattere igienico-sanitaria. La prevenzione è importantissima, ma non si vive solo di quella.

La questione è culturale e, in qualche modo, geopolitica. Il vino appartiene intimamente alla Civiltà Europea, per un evidente intreccio di tradizioni religiose, agricole, sociali, alimentari (e perfino letterarie). Demonizzare il suo lato enologico equivarrebbe a demonizzare una parte importante della sua intima identità (soprattutto per quel che riguarda Francia, Italia e Spagna). Certo che la UE lo può fare, ma allora risuona legittima la solita domanda: chi e cosa rappresenta davvero la UE?

Vittorio Feltri, feroce sospetto su Antonella Viola: "Pur sputt*** il vino..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 22 gennaio 2023

Sta prepotentemente diventando di moda il proibizionismo più becero. Il ministro della Salute (si fa per dire) Schillaci si sta impegnando per impedire a noi poveri, anzi ricchi, viziosi di fumare in santa pace per strada, e persino nei ristoranti dotati di tavoli all’esterno sarà vietato accendersi una sigaretta e di godersela col rituale caffè. Non bastasse la lotta al tabacco, ora si tende a fare la guerra al vino, dopo che l’Irlanda, Paese ad alto tasso alcolico, va dicendo che fa male, provoca cancri in ogni parte del corpo, in una parola uccide. Io, nonostante l’età, ho deciso di suicidarmi sia con il tabacco sia con il nettare degli dei, ma confesso di avere molte difficoltà bevendo e aspirando a farmi secco e finire al cimitero.

La lotta all’alcol in Italia è stata promossa da una gentile signora, Antonella Viola, biologa e docente all’Università di Padova. La studiosa concorda con il Paese nordico sulla nocività del vino, equiparabile a quella della nuvolette azzurre aspirate per puro godimento. Ella dice senza remore che l’alcol è incluso delle sostanze cancerogene di tipo 1, come amianto e benzene, che non so che roba sia non avendola mai ingerita. Inoltre la scienziata afferma disinvoltamente che le donne le quali bevono un paio di bicchieri al giorno hanno il rischio aumentato del 27 per cento di sviluppare il cancro alla mammella. In sostanza, la famosa biologa equipara il Valpolicella, di cui faccio uso anche se non smodato, a un colpo di pistola che ci manda all’altro mondo abbastanza in fretta. Significa che per lei l’80 per cento dei nostri connazionali si candida a un decesso precoce, posto che trincare è una consuetudine in ogni famiglia perbene.

Io stento a crederle. Sbevazzo da 60 anni, pur senza esagerare, e ora che mi avvicino prepotentemente agli 80 la prima cosa che faccio non appena rientro la sera in casa è quella di assaporarmi un elegante spritz, che mi fa scordare tutte le grane vissute in giornata. Il vino buono non è un veleno ma un toccasana, come dimostra il fatto che molti centenari italiani sorseggiano gai un po’ di bianco e un po’ di rosso senza dare retta alla menagramo docente all’Ateneo di Padova dove, per altro, chi non beve peste lo colga. La scienziata, nel suo attacco al Refosco e similari, aggiunge che berne qualche calice danneggia il cervello. Mi viene così il sospetto che la cara Antonella Viola, pur sputtanando il vino, non se ne sia privata in dosaggi abbondanti. Non è una accusa, questa, ma una semplice ipotesi.

A proposito di sigarette, sigari e pipa, vorrei concludere il mio pistolotto con una osservazione statistica. Allora, negli ultimi anni i fumatori sono diminuiti nel Belpaese di oltre il 10 per cento, ma i malati di cancro sono aumentati nel frattempo del 12 per cento. Vuol dire che il tumore se ne fotte delle Marlboro e ammazza chi gli capita a tiro, senza distinguere se il suo bersaglio fuma o no. Chi non è d’accordo con me mi spieghi perché. Lo stesso discorso vale per l’alcol. Già la vita è difficile e non sempre lieta, se poi dobbiamo seguire gli insegnamenti della cara Viola e dei suoi colleghi ci conviene morire subito, ma sani. 

Da maridacaterini.it il 25 settembre 2018.

Ecco alcuni “fuori onda”. Si punta l’attenzione sul linguaggio colorito di Vittorio Feltri, direttore del quotidiano Libero. Feltri era intervenuto in collegamento a Stasera Italia week end e le sue esternazioni avevano suscitato i commenti stupefatti della conduttrice Veronica Gentili: “era proprio ubriaco, ma che si è bevuto?”. Dallo studio il collega: “Feltri è astemio, è proprio questo il suo carattere”.

FELTRI: Macron non ha perso la testa perché non l’ha mai avuta. Va a letto con la nonna da 20 anni, non gli darei molto credito. I flussi migratori? Non capisco perché noi italiani ci dobbiamo far carico dei problemi dell’Africa. Anche perché 10-15 anni fa gli africani non stavano meglio di oggi eppure non venivano qui a rompere i coglioni.

 FUORIONDA DI VERONICA GENTILI: Io non ce la faccio (risate), no ragazzi non potete farci questo e dai, vi rendete conto? E’ talmente ubriaco che non riesce a parlare un po’ di politica. Cioè…Dice delle cose…tipo da libro sussidiario con il delirio. Che spettacolo, che spettacolo, ragazzi. Queste sono le cose che veramente ti mettono di buon umore hai capito? Ma quanto s’è ‘mbriacato’ Che s’è bevuto? Ma cosa cazzo si è bevuto? Hai visto quanto sta ‘mbriaco? Guarda, guarda, cioccatelo: tutto rosso che fuma la sigaretta. Che spettacolo, ragazzi

Dagospia il 24 gennaio 2023. MA È MATTIA FELTRI O IL PADRE VITTORIO? – IL DIRETTORE DELL’”HUFFINGTON POST”, NEL SUO “BUONGIORNO” PER “LA STAMPA”, PRENDE ELEGANTEMENTE PER I FONDELLI ANTONELLA VIOLA E LA SUA CROCIATA CONTRO IL VINO: “HA RAGIONE. CON GLI ANNI HO SMESSO DI BERE SUPERALCOLICI. HO AUMENTATO LE VERDURE MA RIPASSATE IN PADELLA NON SI PUÒ, VERO? SONO PIÙ VIRTUOSO OGNI ANNO CHE PASSA. MA NON SO SE FARÒ IN TEMPO A DIVENTARE PERFETTO O SE MI SUICIDO PRIMA…”

Estratto dell’articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 24 gennaio 2023.

Sì, lo so: ha ragione Antonella Viola, il vino non fa bene.

 Con gli anni ho smesso di bere superalcolici, dopo cena talvolta mi piaceva bere una grappa, ma l'ho abolita da un sacco di tempo. Birra poca per il colesterolo.

 […] Ho ridotto di molto ma fumo. Compenso con la sigaretta elettronica ma il ministro Schillaci ha detto che fa male anche quella.

[…] Mi piacciono la pizza, il pane, la pasta, ma sto attento perché le farine raffinate sono il peggior veleno della storia, ho letto in un report dell'Istituto dei tumori di Milano. Il fritto non più di una volta al mese, anche meno. […] Ho aumentato le verdure ma ripassate in padella non si può, vero? Comunque, mi sto sforzando tantissimo. Miglioro. Sono più virtuoso ogni anno che passa. Ma non so se farò in tempo a diventare perfetto o se mi suicido prima.

Estratto dell’articolo di Davide Desario per leggo.it il 24 gennaio 2023.

È diventato ministro tre mesi fa. E in questi 90 giorni Francesco Lollobrigida, a capo del dicastero dell’agricoltura e della sovranità alimentare, è riuscito a mettere i temi dell’agricoltura al centro dell’agenda di governo italiano ma anche dell’Unione Europea. Basti pensare alla battaglia contro la decisione dell’Irlanda di etichettare il vino come prodotto pericoloso per la salute.

 Cosa c’è di male nello scrivere sulle bottiglie che il vino fa male?

«Questa vicenda ha due aspetti che convincono poco. Il primo è che il Parlamento europeo si era espresso contro questo tipo di etichettatura mentre la Commissione Europea l’ha autorizzato.

 E questo è molto grave perché segna la debolezza del Parlamento europeo. Il secondo aspetto riguarda la scelta di una Nazione che non è leader nella produzione del vino di criminalizzare un prodotto i cui eccessi certamente producono danni come qualsiasi altro prodotto».

 Perché ora ve la prendete per il vino e non lo avete fatto per i pacchetti di sigarette?

«È un po’ diverso. Il vino assunto in piccole quantità, non solo non fa male ma è addirittura portatore di benefici per la salute come ha sostenuto il nutrizionista Giorgio Calabrese».

 In risposta alla tesi di questi giorni dell’immunologa Antonella Viola?

«Già, quella che dice che il vino è cancerogeno ma l’hanno fotografata mentre brindava con un bicchiere di bianco. Se dice che è così pericoloso perché lo beve? Il tabacco e il vino non possono essere paragonati: del tabacco fa male anche la singola sigaretta del vino, invece, fa male l’eccesso. La verità è che alcune nazioni criminalizzano dei prodotti per ragioni di mercato e concorrenza. L’Irlanda produce poco vino e molto whiskey. Ma non sono prodotti paragonabili: il whiskey ha degli effetti anche in piccole quantità ben più aggressivi per l’organismo del vino».

[…]

Si fa un gran parlare anche di carne sintetica, farine di insetti… Siete favorevoli all’apertura di questi nuovi orizzonti?

«Gli insetti sono in circolazione da tempo, alcune nazioni li hanno culturalmente sposati. Non so se siano un pericolo per la salute ma penso non lo siano per la nostra economia. Stento a credere che la dieta mediterranea sia sostituita da larve, grilli e cavallette. La carne e il latte sintetici hanno invece effetti ancora da testare per l’organismo, e il processo di trattamento è simile a quello della produzione di un farmaco. In alcuni ristoranti (ad esempio in Israele) è possibile assaggiare il pollo sintetico ma prima bisogna firmare una liberatoria. Ma il vero rischio è sociale».

 Si spieghi meglio.

«Credo che i ricchi continueranno a mangiare bene (prodotti di qualità). Per chi non è abbiente, invece, si produrrà un sistema più simile a quello che c’è negli Stati Uniti con il cibo spazzatura accessibile a tutti. Il rischio è la standardizzazione del prodotto». […]

Alcol, sigarette e morale. PIETRANGELO BUTTAFUOCO su Il Quotidiano del Sud il 21 gennaio 2023.

Da qualche parte Antonella Viola, celebre virologista Ztl, ha detto che l’aperitivo lei se lo fa col succo di pomodoro e che «chi beve ha il cervello più piccolo!». La morale è in agguato. Come dall’orizzonte sociale è sparita la sigaretta – tra poco sarà vietato fumare anche all’aperto – così s’intravede la messa al bando del bicchiere perché, insomma, ce lo chiede l’Europa. E però, al netto che fumare come un turco è un atto di libertà euroasiatica, da saraceni ebbri di gelsomino non si può che sghignazzare porgendo alle loro signorie i versi di Rumi: «Se in questa raccolta di poesie vedrai taverne, osti e ubriachi/correre dalla moschea alla taverna/e in quel luogo rilassarsi un po’/per un bicchier dar in pegno sé stessi/al vino il corpo e l’anima affidare/rose, roseti, cipressi, giardini e tulipani/ bada a non imbarazzarti per tutto ciò/ma fatti coraggio e scovane il significato: purifica il tuo sguardo se vuoi vedere la purezza».

Il super sommelier contro Viola: «Vino e cervello? Basta semplificazioni inutili». Luca Gardini su L’Espresso il 23 gennaio 2023.

L’immunologa fa scoppiare l’ennesima polemica sui danni causati da un consumo moderato di alcol. La risposta del critico: «Questa campagna diffamatoria è solo dannosa per il settore. Perché il problema, come ribadiscono i ricercatori, è sempre nel giusto dosaggio. E nella qualità del prodotto»

Mi sento in dovere, vista la pesante campagna discriminatoria che uno dei prodotti-cardine della manifattura italiana come il vino sta subendo da mesi, di dire la mia sull’argomento. È infatti dalla fine di ottobre del 2022, dalla pubblicazione cioè del “Libro Bianco in materia di alcol e problemi correlati” del Ministero della Salute, frutto di un monitoraggio pluriennale nei 30 Paesi Membri dell’UE da parte dell’OMS, che si susseguono messaggi allarmistici, aggravati da “ingiustificate fughe in avanti sugli health warnings”, vedi quella dell’Irlanda, come giustamente ha commentato Lamberto Frescobaldi, presidente dell’Unione Italiana Vini, che rischiano di penalizzare ingiustamente il segmento.

Ora arriva l’altrettanto contestabile (da cui, non a caso, colleghi illustri come l’infettivologo Matteo Bassetti si sono immediatamente dissociati) posizione espressa dalla professoressa Antonella Viola, ordinaria di Patologia Generale a Padova e ricercatrice, che in sede di intervista radiofonica a Radio Rai 1 ha deciso di semplificare ulteriormente una tematica che semplice non è.

Dato per assodato che quello dell’alcolismo, a livello europeo, e in particolare per la fascia degli under-25, è argomento serio, che meriterebbe una discussione politica ben più approfondita nei paesi membri, non credo giovino a nessuno, soprattutto se espresse da personalità scientifiche di incontestabile curriculum, dichiarazioni in cui l’effetto dell’alcol viene paragonato all’amianto e in cui viene messo in diretta correlazione un consumo, anche morigerato, di alcool, con patologie tumorali, fatto non dimostrato da nessuna indagine scientifica.

Anche lo stesso Libro Bianco del Ministero della Salute, non a caso, parla di sostanza “potenzialmente cancerogena e con la capacità di indurre dipendenza”, indicando come patologie alcol-correlate semplicemente la dipendenza. Quello che invece è certo, oltre alla vecchia tradizione del mezzo bicchiere a pasto, quei circa 100 cc che rappresentano uno degli elementi fondamentali, tra l’altro, della dieta mediterranea, anch’essa non casualmente patrimonio Unesco, è che il resveratrolo, ovverosia uno dei composti antiossidanti comunemente contenuti nel vino, per la precisione nelle bucce, sia bianche che rosse, è attualmente utilizzato in diversi preparati anti-age che vengono comunemente venduti in farmacia. Il problema, come ribadiscono i ricercatori, è sempre nel giusto dosaggio, oltre che (ovviamente) nella qualità del prodotto.

Se infatti 1 litro di vino contiene grossomodo 100 grammi di alcol, il mezzo bicchiere ne conterrà circa 7, quantitativo talmente basso da essere, per l’organismo, completamente metabolizzabile, ingenerando inoltre, oltre ad una blanda assunzione di antiossidanti, buone funzionalità cardio-circolatorie e, non secondariamente, aumento del rilascio di serotonina. Molto differente dall’effetto di un abuso dello stesso. Prendendo invece ad esempio il whisky, o meglio il whiskey irlandese, bersaglio privilegiato (immagino) soprattutto dalle politiche di Dublino, e contando che il contenuto in alcol di un litro di bevanda è circa del 35-40%, anche solo un bicchierino potrebbe avere effetti completamente diversi. Il succo del ragionamento insomma è: non demonizzare ma informare, rendere consapevoli. Soltanto così si possono condividere protocolli e politiche orientate a migliorare le condizioni di salute della popolazione.

Luca Gardini è il miglior critico del mondo sul vino italiano, secondo Tastingbook.com e sommelier campione del mondo

La Viola ci vieta il vino: ritorna il “metodo lockdown”. Il problema non è ciò che pensa Antonella Viola sul vino, ma il fatto che scambi la sua opinione per quella dell’intera comunità scientifica. Nicola Porro il 22 Gennaio 2023.

Oggi la Viola, in una sua intera paginata sulla La Stampa, ci spiega che “un aperitivo accorcia la vita”: avete capito bene, secondo la virologa, anche un singolo bicchiere di birra o di vino è cancerogeno.

Ma la cosa che mi fa impazzire è che, nelle prime righe, esordisce dicendo che “non sono opinioni personali” ma è proprio la scienza a sostenerlo. Curioso tuttavia che Mariano Bizzarri, professore oncologo della Sapienza, ma anche Matteo Bassetti ed altri, dicano che, talvolta, una dose moderata di vino rosso possa addirittura ridurre l’incidenza di diverse malattie tra cui alcuni tumori. Però queste sicuramente sono opinioni personali, vero?

Come se non bastasse, lo studio per cui con il vino “ridurrebbe il cervello”, citato già ieri dalla Viola, sarebbe – come spiega lo stesso Bizzarri – uno studio criticatissimo e considerato minoritario.

La Viola può dire tutto quello che vuole, ci mancherebbe.

Quello che però non può fare è negare che le sue siano opinioni personali. Questi dittatori della scienza, infatti, sono gli stessi che, fino a poco più di un anno fa, ci spiegavano che il lockdown fosse indispensabile e che con i vaccini non ci saremmo contagiati. Uno scienziato vero coltiva il dubbio, ricerca i possibili errori nelle proprie tesi e riesce a scindere le opinioni personali da quelle dell’intera comunità scientifica. Perché sì cara Viola, le tue sono proprio opinioni personali. Più che legittime, ma gran parte degli scienziati non la pensa come te.

Fa strano pensare che questi erano gli informatori scientifici durante il Covid. Durante la pandemia la Viola era considerata una specie di oracolo e, se la cosa non fosse seria, di fronte al pezzo di oggi dovremmo fare una gigantesca pernacchia.

Io vorrei che quelli che si sono cagati sotto durante i lockdown e che credevano ai virologi riflettessero sul fatto che una virologa di cui ci siamo tanto fidati ha detto che un bicchiere di vino è cangerogeno. Il che, per carità, potrà anche essere vero in minima parte, ma non si può spacciare la propria opinione per il pensiero di tutta la comunità scientifica.

Insomma, al solo pensiero che l’alternativa sana ad ubriacarsi si chiami Viola, ho i brividi.

Nicola Porro 22 gennaio 2023

Cristiana Lauro per Dagospia il 22 gennaio 2023.

Come si cerca di cavalcare l’onda parlando di tutto, con tutti e dappertutto? Ce lo spiega in poche, semplici mosse l’immunologa (per molti virologa) Antonella Viola.

 La dottoressa Viola – dal sembiante noto per via della presenza televisiva quotidiana quando eravamo obbligati in casa per colpa della pandemia – con questo ennesimo, recente giro di valzer ha scelto di occuparsi dei danni gravi derivanti dal consumo di alcol.

Il tema pubblico è stato avviato, come noto, dal via libera rilasciato dall’UE alle “etichette della salute” sulle bottiglie di vino in Irlanda; autorizzazione che – nonostante la ferma opposizione dei grandi produttori di Spagna, Francia e Italia – ha aperto il dibattito su direttive comuni a tutti i paesi UE circa l’etichettatura sanitaria dei vini.

 Ma vediamo i fatti, gli scritti, le affermazioni. La dottoressa Viola, che si dichiarò pubblicamente disponibile – per amore di questa bandiera, diciamo – in caso di ipotetica chiamata da parte del Governo Draghi (che invece non se la filò di pezza), farebbe meglio a ricordare, come scienziata, il fatto che da diversi millenni l’uomo produca e consumi vino senza essersi ancora estinto.

La correlazione causa-effetto dal punto di vista medico scientifico è assertiva, quindi farei intervenire specialisti come gastroenterologi, epatologi, esperti cardiovascolari, ad esempio. Insomma, chiediamo il parere ai medici specialisti prima di distribuire scampoli di scienza approssimativi e buttati un po’ a casaccio pur di riempire uno spazio social o televisivo.

 Facciamo parlare chi ha titolo ad esprimersi in materia, perché la questione per il nostro paese non è proprio di secondo piano. Vorrei ricordare che siamo fra i più importanti e migliori produttori di vino al mondo.

Il consumo di vino, isolato come fattore di rischio potrebbe non essere sufficiente a indurre le conseguenze di cui si sta occupando la dottoressa Viola. Io non dico che gli interessi economici debbano superare la tutela della salute, però sostengo fortemente che la scienza debba esprimersi con dati scientifici alla mano e soprattutto attraverso le figure giuste.

 In fine aggiungo che non mi piacciono le pressioni per assimilare il consumo di superalcolici a quello del vino, poiché vanno soprattutto valutate le modalità di consumo stesso. Attenzione perché il fatto che tutto sia ugualmente rischioso definisce gli interessi in gioco delle multinazionali e non di certo dei vignaioli. Mi riferisco a chi lavora in campagna, agli artigiani e a chi valorizza le nostre migliori tradizioni.

L’Italia è fatta di questo e il vino è il nostro petrolio, se vogliamo vedere anche il lato economico non disgiunto dalla faccenda. Senza contare che il vino è parte integrale della vita e della socialità dell’uomo fin dai tempi più antichi e che bere un buon bicchiere di vino in compagnia, a tavola mette di buon umore. O vogliamo dire che le molecole sintetiche alle quali ricorrono in tanti (compresi i più giovani, ahimè!) non hanno controindicazioni. No, quelle fanno bene?!

Estratto dell’articolo di Antonella Viola per “La Stampa” il 22 gennaio 2023.

[…] Non entrerò nel merito delle etichette, se queste funzionino o se invece bisognerebbe puntare su altri strumenti per ridurre il consumo di alcol. Né sulla probabile guerra economica tra vari Paesi europei e non. Cercherò invece, prove alla mano, di analizzare la questione sanitaria per rispondere ad una domanda semplice: è giusto avvisare i consumatori sui rischi legati al consumo di alcol? O, in altri termini, è vero che l'alcol fa male?

Prima di rispondere a queste domande, vorrei che fosse chiaro che tutte le affermazioni riportate in questo articolo non sono opinioni, personali o di una minoranza di ricercatori, ma la posizione ufficiale della comunità scientifica che si occupa di nutrizione umana, di oncologia, di tossicologia, di patologia; tutte queste posizioni sono basate su dati accumulati negli ultimi decenni e possono essere verificate.

 Cominciamo col dire che noi lo chiamiamo alcol, ma in realtà si tratta di alcol etilico o etanolo, perché di sostanze appartenenti alla famiglia chimica degli alcoli ce ne sono tante, ma l'etanolo è l'unico alcol adatto al consumo alimentare. Quando beviamo una bevanda alcolica, l'etanolo viene rapidamente assorbito a livello della mucosa gastrica e, in misura maggiore, dell'intestino.

 L'etanolo non è utilizzabile dal nostro organismo ed è tossico per le cellule: esso viene quindi sottoposto ad una serie di reazioni chimiche che lo trasformano. Il primo passaggio è la produzione di acetaldeide, una sostanza molto pericolosa, perché capace di danneggiare il Dna delle cellule in cui si accumula.

Quasi il 95% dell'etanolo assorbito a livello intestinale viene ossidato nel fegato, che subisce quindi pesantemente gli effetti del consumo di alcol. Per liberarsi della pericolosissima acetaldeide, il fegato deve continuare a lavorare fino a trasformarla in acido acetico. Queste reazioni […] causano la produzione di radicali liberi e quindi uno stress ossidativo che danneggia gli epatociti e che, a lungo andare, impedisce al fegato di svolgere al meglio tutte le sue funzioni essenziali per mantenerci in vita.

 Se però è vero che i danni epatici visibili […] sono certamente associati ad un consumo non occasionale di alcol, ben oltre il singolo bicchiere di vino a pasto, lo stesso non si può dire del rischio di cancro. Già durante il suo transito nel canale alimentare l'etanolo agisce come irritante e cancerogeno nei confronti delle mucose della bocca, della gola, dell'esofago e dell'intestino.

 Tra i tumori, infatti, associati al consumo di alcol, anche un consumo molto moderato, rientrano i tumori di bocca, laringe, faringe, esofago, stomaco e colon-retto, oltre a quello del fegato.

[…] Nelle donne, però, il rischio associato al consumo di alcol è maggiore che negli uomini. Uno studio inglese ha calcolato che su 1000 donne e 1000 uomini che consumano, in media, una bottiglia di vino a settimana, 14 donne e 10 uomini svilupperanno un tumore a causa dell'alcol. Naturalmente il rischio aumenta moltissimo se oltre a bere si fuma, se si è sovrappeso, se si hanno particolari fattori di rischio legati alla genetica o allo stile di vita. Diversi studi hanno confermato che nelle donne anche un consumo moderato di alcol, anche un singolo bicchiere di vino al giorno, può infatti favorire non solo lo sviluppo dei tumori di cui ho già parlato prima, che ovviamente colpiscono anche gli uomini, ma anche di quello che è il tumore più diffuso in Italia: il cancro al seno.

 […] Se tutto questo non bastasse a scoraggiare il consumo di alcol per scopo ricreativo, non vanno dimenticati gli effetti del consumo moderato di etanolo sul cervello. […]

In conclusione, quello che possiamo dire è che, quando parliamo di alcolici, non esiste una dose che possa essere definita sicura. Naturalmente, bere molto è decisamente peggio che bere poco, ma questo vale per tutte le sostanze tossiche e non è un argomento valido per negare i fatti. Noi, oggi, facciamo fatica a far passare questo messaggio, molto di più di quanto sia stato difficile farlo passare per il tabacco. Le ragioni sono molte: c'è la tradizione enologica del nostro Paese, il fatto innegabile che il vino fa parte della nostra cultura; e ci sono i legittimi interessi economici di un'intera categoria di produttori e commercianti. Ma tutto questo non si difende negando la realtà, mentendo ai consumatori ed esponendoli a gravi rischi per la salute.

La battaglia dei virologi per il vino. «Viola sbaglia, non restringe il cervello». Storia di Luciano Ferraro su Il Corriere della Sera il 22 gennaio 2023.

Dal Covid al vino, dalle polemiche su vaccini e lockdown a quelle su etichette e effetti nocivi dell’alcol. I virologi, gli infettivologi e gli immunologi che durante i mesi più caldi della pandemia sono diventati star della comunicazione, hanno trovato un nuovo terreno di scontro. Ha iniziato Antonella Viola, virologa che lavora in Veneto, la regione che è la prima produttrice italiana di vino, patria del Prosecco e dell’Amarone. Viola non si è limitata a dire, come sostengono molti medici, che l’unica quantità sicura di alcol da assumere è zero e che si tratta di un liquido potenzialmente cancerogeno. Ha aggiunto che bere un paio di bicchieri fa rimpicciolire il cervello («Studi recenti hanno analizzato le componenti della struttura cerebrale, dimostrando che uno o due bicchieri di vino al giorno possono alterarle. Insomma, chi beve ha il cervello più piccolo»). Subito le hanno risposto gli stessi colleghi che dividevano con lei la notorietà durante la pandemia.

Matteo Bassetti

Matteo Bassetti, il direttore di Malattie infettive all’Ospedale San Martino di Genova, si è fatto fotografare con un calice di rosso in mano dopo aver letto l’intervista che Viola ha rilasciato al Corriere del Veneto, in cui la docente padovana appoggia la scelta dell’Irlanda di indicare sulle bottiglie di vino e alcolici i rischi per la salute . «Credo che sia giusto dire alle persone - ha scritto Bassetti su Facebook - che non bisogna esagerare, che il vino può far male quando si usano delle grandi quantità. Non lo è altrettanto dire, «in un Paese come il nostro dove siamo cresciuti in qualche modo con la cultura del vino, che il vino rimpicciolisce il cervello o che è come l’amianto o chissà quale altro tipo di sostanza cancerogena. Dire che bere con moderazione non dovrebbe causare problemi è molto importante. Anche perché ci sono numerosi studi scientifici che dimostrano che in alcuni setting piccole quantità di vino non solo non fanno male, ma possono addirittura far benefico. Il vino è molto diverso rispetto alle sigarette, perché le sigarette o altre sostanze anche in bassa quantità possono avere un effetto cancerogenetico. Il vino, evidentemente, con quantità minori, credo che non ce l’abbia».

Più drastica con Viola è stata Maria Rita Gismondo, direttrice del Laboratorio di microbiologia clinica, virologia e diagnostica delle bioemergenze dell’Ospedale Sacco di Milano: «Ogni eccesso è assolutamente criticabile, che si tratti di bevande o di altre sostanze. Mi permetto di dire, però, che dovremmo lasciare questi commenti agli esperti di quel settore».

Maria Rita Gismondo

Il virologo dell’Università Statale di Milano Fabrizio Pregliasco è convinto, come Bassetti, che una modica quantità di vino non solo non è nociva, ma può essere benefica per uomini e donne. «Il vino sicuramente rappresenta un rischio per la salute nel momento in cui lo si consuma in modo non congruo - sostiene -. Ritengo che una demonizzazione totale come sempre non abbia senso. E che, come sempre, sia necessario praticare il buonsenso», perché «il resveratrolo presente nel vino rosso, ad esempio, ha un’azione positiva e immunostimolante e quindi serve ragionevolezza. Giusto invece lanciare un messaggio sui superalcolici e su altri prodotti magari destinati ai giovani», fra i quali non prevale un’attenzione all’«elemento qualità, ma che a volte puntano solo allo `sballo´».

Fabrizio Pregliasco

Sul fronte opposto a quello dei virologi ci sono gli enologi. Si sono riuniti nei giorni scorsi a Napoli, chiamati a raccolta dal loro presidente mondiali, Riccardo Cotarella. Sul palco hanno chiamato un gruppo di medici a favore della «quantità intelligente» di vino da bere, che «aiuta a proteggere da alcune malattie cardiovascolari». Tra gli intervenuti Luc Djoussé, direttore del Dipartimento di medicina della Harvard Medical School. La convitata di pietra è stata appunto la dottoressa Viola.

Riccardo Cotarella

«Nel simposio - dice Cotarella - è stato ribadito quanto sia importante uno stile di vita sano che trova la sua massima espressione nella famosa dieta mediterranea – patrimonio mondiale dell’Unesco - che prevede l’uso moderato di vino durante i pasti. Siamo sconcertati per le affermazioni dell’immunologa padovana, credo che serva senso di responsabilità prima di sentenziare su un tema tanto delicato, per non lasciare spazio a eventuali desideri di ingiustificato protagonismo».

(Labitalia il 12 gennaio 2023) - "Noi abbiamo già votato come Italia insieme alla Francia e altre nove nazioni contro questa ipotesi, e sembrava scantonata. L’Europa autorizza ma l`Irlanda in particolare  autorizza a mettere etichette su bottiglie di vino.

 E quale è il problema? Lì ci sono degli abusi di alcol enormi ma in questo modo si mette il vino sul piano dei superalcolici e quindi loro che sono produttori di superalcolici temono l’aggressione di un prodotto che  invece fa meno male".

 Lo ha affermato Francesco Lollobrigida, ministro dell`Agricoltura e della Sovranità alimentare, durante la registrazione di “Porta a Porta” che andrà in onda questa sera su Rai  Uno.

Quindi per Lollobrigida gli irlandesi "oggi utilizzano questo elemento per metterli sullo stesso piano e condizionare, e dire tanto è uguale  o comprate il vino o comprate il whisky, i danni sono gli stessi. E così, dietro scelte di questa natura, viene utilizzata spesso la salute, anche impropriamente, abbiamo quattromila anni di storia, di  generazioni cresciute con uso moderato di vino in ottima salute".  

Da affaritaliani.it il 12 gennaio 2023.

Bruxelles ha dato il via libera alla normativa irlandese che potrà adottare un'etichetta per vino, birra e liquori con avvertenze come "il consumo di alcol provoca malattie del fegato" e "alcol e tumori mortali sono direttamente collegati". I produttori italiani non hanno preso bene la novità e protestano per difendere il patrimonio della tradizione eno-gastronomica nazionale.

 Per la Coldiretti si tratta di un "attacco diretto all'Italia, principale produttore ed esportatore mondiale con oltre 14 miliardi di fatturato, di cui più della metà all'estero". Mentre altri Paesi, specialmente quelli del Nord Europa dove si registra un pesante consumo di alcool, potrebbero scegliere di seguire la stessa strada adottata dall'Irlanda.

Come è nata l'iniziativa da parte dell'Irlanda di proporre l'etichetta per il vino, la birra e gli alcolici

Le autorità irlandesi hanno riconosciuto che l'eccessivo consumo di vino, birra e alcolici è "un'emergenza sanitaria nazionale". Lo scorso giugno (2022), l'Eire ha notificato all'Ue un progetto di legge per apporre sulle bottiglie avvertimenti sui rischi sanitari del consumo di alcol e sul suo legame diretto con i tumori mortali.

 Mentre Roma, Parigi e Madrid, insieme ad altre sei capitali, hanno provato a opporsi mettendo nero su bianco la protesta con un parere inviato a Bruxelles che evidenziava come l'eccezione irlandese discrimini i produttori degli altri Paesi Ue, costretti alla doppia etichetta.

Le critiche non finiscono qui: sono diverse le voci, anche del settore privato, che non comprendono il via libera alla norma irlandese quando era stato lo stesso esecutivo Ue ad annunciare l'intenzione di procedere a stretto giro con nuove regole a livello comunitario. Questa circostanza potrebbe ora scoraggiare la stessa Irlanda dal prendere iniziative a breve termine. 

 I commenti di Unione italiana vini, Federvini, Cia-Agricoltori Italiani e Confagricoltura

Il presidente di Unione italiana vini (Uiv), Lamberto Frescobaldi commenta: "Il silenzio assenso di Bruxelles relativo alle avvertenze sanitarie in etichetta per gli alcolici rappresenta una pericolosa fuga in avanti da parte di un Paese membro". Federvini interviene chiedendo lo stop al "mutismo" dell'esecutivo Ue e fa appello al governo "per studiare ogni azione possibile per osteggiare una norma che contrasta con il buon senso e la realtà".

Non manca il commento sulla vicenda da Cia-Agricoltori Italiani, lo scenario "è sconcertante e compromette il lavoro fatto fino a ora a livello comunitario con il Cancer Plan". Mentre il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansantiparte, di Confagricoltura: "Deriva proibizionistica".  Il dem De Castro la via da seguire è quella indicata dal Parlamento europeo: sistemi di etichettatura più trasparenti per un consumo "moderato e responsabile" e un "no" categorico a equiparare il vino alle sigarette. Con il sì di Bruxelles ormai in tasca, l'Irlanda attende solo la decisione dell'Organizzazione mondiale del commercio.

Estratto dell'articolo di Rosaria Amato per “la Repubblica” il 12 gennaio 2023.

 Il vino come le sigarette. L'Irlanda ha ottenuto il via libera della Commissione Europea alle avvertenze sanitarie obbligatorie sulle etichette di vino, birra e liquori. Se arriverà anche l'ultima autorizzazione necessaria, quella dell'Organizzazione Mondiale del Commercio, su tutte le bottiglie di bevande alcoliche che circolano nel Paese del Nord Europa sarà obbligatorio indicare i rischi di malattie del fegato, tumori, aborti spontanei.

Per l'Irlanda rappresenta la vittoria di una battaglia intrapresa da lungo tempo per combattere l'alcolismo, un grave problema sanitario per il Paese. In questo modo, però, si ribellano i produttori italiani, si colpisce il consumo "sano" di vino e la sua commercializzazione: il prodotto viene demonizzato mentre è solo l'abuso che provoca problemi alla salute.

[…] La questione non è tanto che il consumo di vino italiano calerà in Irlanda, un Paese che da sempre non è un grande importatore dei nostri prodotti. Quello che temono i nostri produttori, spiega il presidente dell'Unione Italia Vini Lamberto Frescobaldi, è che verrà lanciato «un segnale d'allarme sui prodotti alcolici facendo di tutta l'erba un fascio». Il presidente di Confagricoltura Massimiliano Giansanti denuncia «una deriva proibizionistica», per Cia-Agricoltori Italiani con questa decisione si compromette «il lavoro fatto fino ad ora a livello comunitario con il Cancer Plan».

Infatti proprio in quell'occasione i Paesi che più spingono per l'adozione degli "health warnings" nelle bottiglie di vino e di birra si erano battuti per una applicazione generalizzata del principio, senza riuscirci. […]

Oltre la metà dei 14 miliardi di euro di fatturato dei produttori italiani arriva dall'estero, e 3 miliardi in particolare dall'export nei Paesi Ue. Ma non si tratta solo del danno economico: il via libera all'Irlanda mette in dubbio i principi sui cui si fonda la Ue, denunciano i produttori italiani: «La cosa che più spiace è che viene data la possibilità ai singoli Stati di muoversi in autonomia» […]

Avvisi di morte sul vino come sulle sigarette: l’UE dà il via libera alla proposta. Raffaele De Luca su L'Indipendente il 24 Gennaio 2023.

L’Irlanda potrà adottare il suo piano di etichettatura con cui il vino, la birra ed i liquori verranno sostanzialmente messi sullo stesso piano delle sigarette: è questa la conseguenza del modus operandi dell’Unione Europea, la quale recentemente ha di fatto dato il via libera alla norma irlandese che prevede di rifarsi ad avvertenze con cui mettere in guardia i consumatori dal rischio di ammalarsi di cancro e di andare incontro a malattie del fegato a causa dell’alcool. La disposizione era stata infatti notificata nello scorso mese di giugno da Dublino alla Commissione europea che, non avendo posto alcuna obiezione prima della scadenza del periodo di moratoria (fine dicembre), ha di fatto autorizzato l’Irlanda ad adottare la normativa. Un via libera, tra l’altro, arrivato nonostante i pareri contrari di diversi Stati Membri, che considerando la misura come una barriera al mercato interno si sono opposti ad essa.

Tra questi l’Italia, con il ministro dell’agricoltura Francesco Lollobrigida che ha definito la decisione «gravissima». «Crediamo che dietro questa scelta un’altra volta si miri non a garantire la salute ma a condizionare i mercati e che la spinta in questo senso viene da nazioni che non producono vino e dove si abusa di superalcolici», ha inoltre affermato il ministro, ponendo l’attenzione sul fatto che l’intento sia proprio quello di «equiparare il vino ai superalcolici» nonostante lo stesso, se utilizzato in maniera moderata, sia un «alimento sano». Una posizione, quest’ultima, a quanto pare condivisa anche da alcuni membri del comitato scientifico di MOHRE (l’Osservatorio Mediterraneo per la Riduzione del Rischio in medicina) che si sono schierati contro il piano di etichettatura. «Mentre non c’è nessuna evidenza che le sigarette non siano dannose per la salute, in letteratura scientifica ci sono studi che mostrano che basse dosi di vino sono in grado di allungare la sopravvivenza di chi le consuma», ha ad esempio affermato Fabio Lugoboni – responsabile dell’Unità Medicina delle Dipendenze del Policlinico veronese Giambattista Rossi – mentre secondo l’oncologo medico Oscar Bertetto «alle giuste dosi il vino può essere consumato senza problemi».

È anche in virtù di tali considerazioni, dunque, che le critiche arrivate dal mondo associativo risultano essere a maggior ragione rilevanti. “Il via libera dell’Unione Europea alle etichette allarmistiche sul vino è un attacco diretto all’Italia che è il principale produttore ed esportatore mondiale con oltre 14 miliardi di fatturato, di cui più della metà all’estero” ha ad esempio affermato la Coldiretti, sottolineando che l’Irlanda “potrà adottare un’etichetta per vino, birra e liquori con avvertenze terroristiche, che non tengono conto delle quantità, come ‘il consumo di alcol provoca malattie del fegato’ e ‘alcol e tumori mortali sono direttamente collegati'”. «È del tutto improprio assimilare l’eccessivo consumo di superalcolici tipico dei Paesi nordici al consumo moderato e consapevole di prodotti di qualità ed a più bassa gradazione come la birra e il vino», ha inoltre dichiarato il presidente della Coldiretti Ettore Prandini, sottolineando che «il giusto impegno dell’Unione per tutelare la salute dei cittadini secondo la Coldiretti non può tradursi in decisioni semplicistiche che rischiano di criminalizzare ingiustamente singoli prodotti indipendentemente dalle quantità consumate». Micaela Pallini, Presidente di Federvini, ha invece definito la normativa irlandese «unilaterale, discriminatoria e sproporzionata», invitando il Governo italiano ad attivarsi «quanto prima per studiare ogni azione possibile, nessuna esclusa, per osteggiare una norma che contrasta con il buon senso e la realtà».

Insomma, in Italia i pareri negativi nei confronti della normativa di fatto autorizzata dall’UE sono tanti, e del resto essi paiono giustificati non solo dalle opinioni degli esperti sopracitate, ma anche da un modus operandi dell’Unione alquanto enigmatico. L’utilizzo dei nitriti e dei nitrati, ad esempio, è consentito dalla normativa europea, ed i regolamenti europei sugli additivi alimentari permettono un impiego anche generoso di tali sostanze sui vari tipi di carni, pesce e formaggi che vengono messi in commercio: per rendere l’idea, nella produzione di aringhe e spratti marinati in scatoletta o al banco gastronomia, si possono aggiungere fino a 500 milligrammi di nitrato per ogni chilo di prodotto. Un atteggiamento che sembra essere alquanto permissivo, soprattutto se si considera che non vi è alcun obbligo di legge di indicare la quantità in etichetta ingredienti ma soltanto la loro presenza, nonostante i nitriti ed i nitrati favoriscano alcuni tipi di tumore. Certo, tornando al vino bisogna ricordare che l’etichettatura riguarda esclusivamente l’Irlanda e non in generale tutti i paesi dell’UE, ma il timore adesso è che l’esempio irlandese possa essere seguito da altri Stati membri, che potrebbero sentirsi legittimati ad agire nel medesimo modo. [di Raffaele De Luca]

Per l’UE il vino fa male quanto il fumo. C’entra ancora il Qatar? Redazione L'Identità il 12 Gennaio 2023

L’Irlanda, Paese membro Ue, ottiene il via libera da Bruxelles per etichettare il vino con le avvertenze per la salute come per le sigarette. Frasi e immagini-shock per scoraggiare il consumo di alcolici. Una decisione in netta contraddizione con l’orientamento espresso dal Parlamento Ue, che ha bocciato tale sistema di etichettatura per il vino. Come ricorda Dino Giarrusso, della commissione Ue Agricoltura, “il vino è un prodotto che se consumato responsabilmente non è nocivo, ed accompagna l’umanità da millenni”. E’ antiscientifico equiparare i danni per il nostro organismo. Insomma, il fumo fa sempre male. Il vino dipende dalle quantità. Magari l’Irlanda – la buttiamo là – ha un problema di alcolismo diffuso nella popolazione. In ogni caso, ci viene un dubbio legittimo, alla luce dei recenti scandali che hanno squassato l’Europarlamento. Non sarà che il Qatar sta facendo (ancora) pressioni, visto che l’Islam vieta l’alcol?

Lara Loreti per “la Stampa” il 13 Gennaio 2023.

 Alert sanitari sulle bottiglie di vino? Il nutrizionista: «C'è un grosso equivoco: è l'abuso di alcol a far male, non un bicchiere di un "alimento liquido" che ha al massimo il 15% di alcol». Il wine expert: «In Italia e Francia non accadrà mai». Il presidente di Assoenologi: «Nel nostro Paese è da escludere, sarebbe masochismo». Il produttore: «La Commissione europea ha sbagliato». Il sommelier: «È giusto avvisare i consumatori dei rischi».

Il mondo del vino italiano è in fibrillazione di fronte al via libera dell'Europa alla richiesta dell'Irlanda di adottare sulle etichette degli alcolici gli avvisi, come sulle sigarette, «il consumo di alcol provoca malattie del fegato» e «alcol e tumori mortali sono direttamente collegati». Mentre il governo italiano, con il ministro dell'Agricoltura Francesco Lollobrigida e il ministro degli Esteri Antonio Tajani, promette battaglia («finché ci sarò io - dice il primo - in Italia non succederà»), sale la preoccupazione che l'esempio irlandese sia seguito da altri Paesi.

A far drizzare le antenne ai protagonisti del settore, il fatto che il via libera Ue sia arrivato nonostante i pareri contrari di Italia, Francia e Spagna - principali produttori di vino - e altri sei Stati Ue. Destano poi timore le difficoltà che la misura potrebbe causare al mercato interno e l'annuncio della Commissione di iniziative comuni sull'etichettatura degli alcolici nell'ambito del piano per battere il cancro. Ricordiamo che proprio sul Cancer Plan al Parlamento europeo, nei mesi scorsi, era passata la linea morbida portata avanti dall'Italia su un alert sanitario incentrato sull'abuso e non sul semplice consumo di alcol.

«Quello che contestiamo - dice Riccardo Cotarella, presidente di Assoenologi - non è che l'alcol possa far male, ma la necessità di fare un distinguo fra consumo e abuso. Mi auguro che Italia e Francia facciano capire all'Ue che così non ci siamo. Noi da anni diciamo che bisogna bere con moderazione. Proprio domani (oggi, ndr) a Napoli ci sarà un convegno su vino e salute con 400 enologi».

Il dibattito è aperto. «Il fumo è un vizio, anche l'alcol può esserlo e può far male - dice il sommelier imprenditore italiano che vive a Bordeaux, Mattia Cianca - Queste etichette sono un danno per il commercio, d'altro canto è anche giusto avvisare i consumatori; in alcuni Paesi, sugli alcolici ci sono gli alert per le donne incinte, ad esempio, e credo sia giusto».

 Parla di "equivoco" il nutrizionista Giorgio Calabrese: «L'Europa è partita da una visione errata, che si ammanta di bene, ma che in realtà fa di tutta erba un fascio, valutando le bevande alcoliche uguali. Se bevo whisky è una cosa, se bevo birra o vino è un'altra. In molti Paesi del Nord Europa c'è la piaga dell'abuso di superalcolici, ma nel vino non c'è prevalenza di alcol, ma di acqua. Chi produce vino è esterrefatto».

 Lo conferma Lamberto Frescobaldi, presidente di Unione Italiana Vini: «Nel vino l'alcol di fermentazione può arrivare al 15%; i superalcolici sono cose diverse, non possono trascinarci in questo calderone. La richiesta dell'Irlanda è lecita, ma la Commissione europea non ha considerato la posizione del Parlamento europeo, e non ha valutato le conseguenze, in primis quelle sul libero commercio. E poi siamo sicuri che funzioni?».

 Il via libera non è definitivo: entro 60 giorni, l'Organizzazione mondiale del commercio dovrà autorizzare l'Irlanda. «Per noi quello irlandese è un mercato piccolo - continua Frescobaldi - ma altri Stati potrebbero fare lo stesso e questo mina i princìpi dell'Europa, che nasce come mercato europeo comune per la libera circolazione delle merci: se ogni Stato torna ad andare a briglia sciolta, chi ci rimette è il consumatore. L'Italia e gli altri Paesi fondatori possono fare moral suasion sulle istituzioni Ue».

 Anche il mondo della ristorazione si ribella. «In Italia, Francia e Spagna vino è cultura - nota Gabriele Del Carlo, direttore della sommellerie del Bulgari a Parigi - Bollare le bottiglie come le sigarette sarebbe rinnegare la nostra storia».

Giù le mani dalle etichette e dal vino italiano. Chiara Risolo su Panorama il 13 Gennaio 2023.

La normativa sulle etichette con frasi shock contro l'uso e abuso di bevande alcoliche introdotta in Irlanda e che piace a Bruxelles scatena la reazione dei nostri produttori

A dividere l’Europa ci si mette anche il vino. Patrimonio dell’umanità per molti, il nettare è al centro di un dibattito al cardiopalma. Motivo: la decisione dell’Irlanda di scrivere in etichetta «il consumo di alcol provoca malattie al fegato» e «alcol e tumori mortali sono direttamente collegati». Bruxelles ha dato il via libera alla norma presentata da Dublino in Commissione lo scorso giugno e ora è legge. In altre parole, il tempio della Guinness dichiara guerra a bianchi e rossi, riducendoli alla stregua di sigarette. Il timore, naturalmente, è che il modello irlandese possa solleticare «il salutismo» di altri paesi. Certamente non dell’Italia. Il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha già espresso la sua posizione, definendo la decisione del Parlamento europeo «gravissima». «Dietro questa scelta c’è la volontà non di garantire la salute ma di condizionare i mercati. La spinta oltretutto viene da nazioni che non producono vino e dove invece si abusa di superalcolici» ha aggiunto. Ha tuonato anche Luca Rigotti, coordinatore settore vino di Alleanza Cooperative Agroalimentari: «Siamo sbigottiti. Con questa azione l’Irlanda è andata a ledere e a mettere in discussione i principi del mercato unico, nel cui perimetro è disciplinato il settore vitivinicolo e che dovrebbe garantire, tramite l’Organizzazione Comune di Mercato, un’applicazione per l’appunto “comune” dei principi e delle regole europee in tutti gli Stati membri. L’iniziativa dell’Irlanda rappresenta un precedente davvero pericoloso per il mercato unico dell’UE». Non da meno lo sconcerto dei produttori italiani, storicamente tra i più capaci, apprezzati e seri del mondo (parla la storia, non il campanilismo).

Ernesto Balbinot, patron de Le Manzane, cantina veneta da cui escono prosecchi fatti a regola d’arte, non ha dubbi: «Il vino fa parte della dieta e della cultura mediterranea. È inammissibile poi paragonarlo alla sigaretta poiché una sigaretta, anche una soltanto, che oltretutto non è un alimento, fa male, mentre un bicchiere di vino a pasto fa solo bene. Altra cosa è l’abuso, da condannare sempre».

Dello stesso avviso anche Stefano Frascolla, anima commerciale di Tua Rita, “gioielleria” toscana di vitigni internazionali che esporta vin de garage in tutto il mondo: «Sposo la teoria del nostro presidente di categoria, Lamberto Frescobaldi, per cui la via giusta da percorrere è quella dell’educazione al bere e non del terrorismo. Sappiamo tutti qual è la differenza tra uso e abuso, ovvero ciò che trasforma qualunque cosa, vale per le bevande, gli alimenti, le medicine, da utile a dannosa». Marco Fasoli - Emilia Wine Marco Fasoli, direttore commerciale di Emila Wine, tycoon del Lambrusco, spiega: «Trovo ridicola la decisione dell’Irlanda di PUBBLICITÀ ? ? 14/01/23, 09:50 Giù le mani dalle etichette e dal vino italiano inserire un alert per tutte le bevande alcoliche, incluso il vino italiano. Prima di tutto perché si nota un limite relazionale con l’Unità Europea, che ancora una volta deve fermamente intervenire perché, oltre ad aver dimostrato una contrarietà in tal senso, lascia aperte delle variabili che possono diventare lesive nei confronti dei produttori. È una scelta che non tiene minimamente conto della differenza tra consumo moderato e abuso, che invece è il tema centrale. Vero è che in aree come quelle scandinave e irlandesi il consumo è elevato, ma ciò non significa che questo sia il modo corretto per limitarne, o per meglio dire ottimizzarne, il consumo qualitativo». Così, infine, una freschissima e granitica dichiarazione di Micaela Pallini, presidente di Federvini: «Siamo di fronte a una normativa unilaterale, discriminatoria e sproporzionata. Unilaterale perché spacca il mercato unico europeo, discriminatoria perché non distingue tra abuso e consumo. Criminalizza prodotti della nostra civiltà mediterranea senza apportare misurabili ed effettivi benefici nella lotta contro il consumo irresponsabile» «Chiediamo che il governo italiano si attivi quanto prima per studiare ogni azione possibile, nessuna esclusa, per osteggiare una norma che contrasta con il buon senso e la realtà. Forse è giunta l’ora che il tema venga trattato a livello politico in ambito UE, non da soli ma con i partner europei che hanno già manifestato gravi perplessità. È necessario una presa di posizione di fronte al mutismo della Commissione Europea» conclude. Attendiamo fiduciosi.

Vini e alcolici, le cifre del made in Italy vincente. Cristina Colli su Panorama il 13 Gennaio 2023.

Gli alert sanitari sulle bottiglie di vino e alcol (come accade sui pacchetti di sigarette) allarmano un mercato made in Italy che solo in Italia vale 14 miliardi di euro l’anno e che nel 2022 ha raggiungo un record storico sull’export (8 miliardi di euro). «Anche il comparto degli spirits registra numeri importanti con un valore export nei primi nove mesi 2022 pari a circa 1,2 miliardi di euro», spiega Micaela Pallini, Presidente Federvini.

E ora quest’industria teme le “etichette” con le avvertenze sanitarie che per prima l’Irlanda potrebbe iniziare ad usare per le bottiglie di vino, birra e liquore. La discussione a Bruxelles è iniziata nel 2021. Subito e sempre contrari alle scritte sulle etichette (“il consumo di alcol provoca malattie.”) i paesi maggiori produttori, tra i quali ovviamente l’Italia, oltre a Francia e Spagna. Gli health warning, spiegano i produttori e le associazioni di categorie, potrebbero incidere molto su un mercato che crea un’occupazione di oltre 1,3 milioni di addetti nel nostro Paese.

VINI E ALCOLICI: I NUMERI DEL 2022 PREMIANO L’EXPORT MADE IN ITALY I dati del 2022 (Federvini) fotografano un anno per il mercato di vini e spirits per l’Italia con export anche a doppie cifre, una lieve diminuzione nel GDO e una ripresa del consumo “fuori casa”. In linea con la situazione economica generale: + 2,9% per i consumi delle famiglie e +10,5% nelle esportazioni. Per il 2023 le previsioni sono rispettivamente del -0,4% e del + 2,7%.Il settore (14 miliardi di euro e 1,3 milioni di occupati nei più diversi ambiti) ha una produzione diversificata: 70% a Docg, Doc e Igt con 332 vini a denominazione di origine controllata (Doc), 76 vini a denominazione di origine controllata e garantita (Docg), e 118 vini a indicazione geografica tipica (Igt) riconosciuti in Italia e il restante 30% a vini da tavola.Nel 2022 le vendite (GDO Italia) di vini hanno segnato un lieve calo (-3,5%, 2.006 milioni di euro). A soffrire soprattutto le bottiglie Dop (-5,2%) e IGP (-3,1%), con una diminuzione in termini di volumi (ettolitri) di oltre l'8%. Per quanto riguarda l'export invece l’Italia è crescita ovunque, tranne in Cina e in Germania. In alcuni paesi il boom è stato a doppie cifre come il +33,9% per fermi e frizzanti in UK, +82,5% per gli spumanti sempre in UK. Interessante il quasi +20% di esportazione di spumanti italiani nella concorrente Francia. Italia, con Cile e Australia sono stati gli unici esportatori di vini a crescere anche in termini di volumi, quasi dell'1%.

Per quanto riguarda gli spirits (distillati liquori aperitivi amari e acquaviti) è l'export che fa da padrone, continuando la sua corsa e registrando nel 2022 un +32% a valore e + 21% a volume. Tra gennaio e agosto 2022 i liquori made in Italy hanno portato 345 milioni di euro (+27% sul 2021). Gli aperitivi alcolici trainano sempre con un +18% sul 2021, grazie alle ottime performance dei pre-mixati.Per vini e alcolici nel mercato italiano c’è stata la ripresa inoltre dei consumi “fuori casa” nel 2022, con il mercato AFH che ha raggiunto i 90 miliardi di euro (+38% verso 2021; +6% verso 2019).

VINI E SPIRITS: LE SFIDE DEL 2023 DEL SETTORE Il record per le esportazioni del vino italiano nel mondo, 8 miliardi di euro (bilancio Coldiretti su base dei dati Istat), è arrivato nel 2022 nonostante il settore stia vivendo l’impatto degli aumenti dei costi di produzione diretti o indiretti dovuti al caro energia. Si va da +129% per il gasolio al +170% dei concimi, + 35% per le etichette e 45% per i cartoni di imballaggio. Oggi una bottiglia costa fino al 50% in più rispetto al 2021. E il 2023? «Per i settori vino e spirits sarà un anno decisamente in salita. È evidente che ci muoviamo in uno scenario di mercato complicato ed in continua evoluzione: I dati dell’osservatorio Federvini mostrano chiaramente un rallentamento legato al contesto economico internazionale nel quale si evidenzia un’Inflazione particolarmente elevata. – conclude Micaela Pallini, Presidente Fedevini- Sicuramente occorre pianificare una strategia incentrata sulla diversificazione dei mercati di destinazione. Tale strategia può essere coadiuvata da un lato dalla leva promozionale e dall’altro da una maggiore proattività dell’Unione Europea nel concludere ulteriori accordi di libero scambio con i paesi extra-Ue».

Aggiunte. 

Per fare un vino ci vuole il lievito. Anna Prandoni e Andrea Moser su L’Inkiesta il 30 Dicembre 2022

E spesso questo apporto enzimatico che serve per trasformare l’uva in aromi, alcol, CO2 e calore viene manovrato in cantina per dare nel bicchiere i sentori che servono a essere piacione, o a vincere i concorsi. Abbiamo provato a capire come

Per fare un vino ci vuole il lievito, e su questo non si discute. Questi piccoli esserini unicellulari sono indispensabili per trasformare l’uva in aromi, alcol, CO2, calore e, diciamolo, piacere inebriante. Spesso viene manovrato in cantina per dare nel bicchiere i sentori che servono a raggiungere l’obiettivo enologico e/o commerciale sperato. Abbiamo provato a capire come, perché e quando…

La scelta del tipo di lievito da usare nella realizzazione di un vino è determinante sul risultato finale? Il liquido che troverò nel bicchiere, se è stato prodotto con un lievito o con un altro, mi darà note differenti? E soprattutto: ci sono lieviti preferiti dai tecnici e dai degustatori che votano ai concorsi, che se vengono usati fanno automaticamente vincere le cantine che li usano? 

Ma partiamo dall’inizio. Per fare il vino serve il lievito, che dà l’avvio al processo di trasformazione dell’uva in liquido alcolico, sicuro a livello microbiologico e conservabile. Si può usare un lievito selezionato, oppure – ed è una tendenza sempre più in voga – scegliere un lievito spontaneo/indigeno/autoctono per dare ancora di più un’impronta territoriale e/o originale al vino che ne scaturirà.

Ricordiamo però sempre che il lievito non lavora per noi, il lievito fa quello che è programmato per fare da millenni di evoluzione e selezione e cioè… sopravvivere! Il lievito, in presenza di ossigeno, non fermenta ma respira gli zuccheri utilizzandone tutta la loro “energia chimica” per vivere e riprodursi in maniera ancora più veloce rispetto ad una situazione di anaerobiosi (senza ossigeno). Se messo in condizioni di mancanza di ossigeno, quindi, cerca semplicemente una via per sopravvivere utilizzando sempre lo zucchero ma in maniera parziale. Lo zucchero presente nell’uva viene “mangiato” dal lievito producendo alcool, anidride carbonica, calore e aromi, da qui il motivo per cui l’alcool contenuto nel vino ci fa ingrassare: perché contiene, ahimé, ancora molta energia. Che il buon Albert non ce ne voglia, ma a volte sarebbe meglio se l’energia e la materia non si conservassero…

Il lievito è un essere incredibilmente famelico e pure “cannibale”: da poche cellule disperse in un ambiente favorevole come il mosto si formano in poche ore miliardi e miliardi di cellule attive, esse stesse affamate. Come sempre succede però, in un ambiente sovraffollato alcune cellule di lievito più deboli o vecchie iniziano a morire, ad andare in lisi e creare così un substrato per le altre cellule che si nutrono dei compagni caduti. Per questo, il miglior nutrimento per il lievito solitamente sono altre cellule di lievito inattivate in diverse maniere a seconda dello scopo e della necessità enologica. L’ambiente che si crea quindi durante la fermentazione inizia a diventare piano piano ostile per molti ceppi di lievito a causa della fermentazione stessa. L’alcool prodotto come scarto, per utilizzare gli zuccheri in assenza di ossigeno, è infatti tossico per il povero lievito che si trova quindi in un ambiente sempre più ostile, mano a mano che lo zucchero cala e l’alcool aumenta… a volte questo processo ricorda molto la condizione umana: produciamo un sacco di scarti che sappiamo ci uccideranno, ma continuiamo miopi nella nostra corsa, ci sarebbe la differenza sostanziale che noi umani abbiamo alternative e siamo in teoria degli esseri senzienti… ma questo è un altro discorso. 

I lieviti selezionati sono lieviti che, in base alle esigenze dell’enologo, vengono scelti, selezionati e purificati in base alle loro caratteristiche: ce ne sono che hanno tolleranza a gradazioni alcoliche elevate, altri che sono scelti perché velocizzano la fermentazione, altri che hanno tolleranza a gradazioni zuccherine molto elevate (osmotolleranti), altri ancora che sono scelti perché velocizzano la fermentazione, alcuni che possono aiutare l’estrazione del colore del vino, infine alcuni in grado di conferire, accentuare e favorire sentori aromatici specifici, e danno quindi al vino note floreali, fruttate o speziate.

Quando l’enologo pensa il vino, sceglie di conseguenza anche il lievito da utilizzare e una volta individuati i lieviti opportuni, vengono fatti riprodurre in appositi reattori ed essiccati. Sulla selezione e produzione dei lieviti parleremo in dettaglio, al momento vi basti sapere che come per magia si trovano sul mercato centinaia di lieviti con diverse capacità e caratteristiche specifiche. In ogni caso, non sono mostri a tre teste prodotti industrialmente e geneticamente modificati in laboratorio, ma selezionati in base alle loro caratteristiche e ai loro effetti e moltiplicati su larga scala in specifici impianti, detti reattori, che ne favoriscono la moltiplicazione e non la fermentazione.

Se la scelta ricade invece su lieviti indigeni, il rischio è più alto e il risultato più incerto, perché controllarli e avere dal loro utilizzo un risultato determinato è più difficile, anzi praticamente impossibile.

Ma in condizioni favorevoli, precise e controllate possiamo pensare di avere una maggiore caratterizzazione, e dare al vino un’identità più spiccata.

Per fare un’assonanza automobilistica proviamo a spiegare la differenza fra lieviti selezionati e indigeni con un esempio… Cerchiamo di immaginare la fermentazione come una gara automobilistica e i lieviti come le auto che vi gareggiano. Per semplificare, ogni fermentazione è da accomunare ad una strada tortuosa, ricca di saliscendi e disseminata di ostacoli. Immaginiamo che qui debba correre una squadra di macchine da rally preparata di tutto punto per affrontare tutte le difficoltà, il nostro lievito selezionato, oppure che sullo stesso percorso debba correre una vecchia accozzaglia di vecchi “pandini“, maggiolini e 500, il nostro lievito indigeno… la risposta su chi e quando debba vincere è indiscutibile. Dall’altra parte, la squadra delle macchine da rally arriverà in fondo al percorso senza cambi gomme, senza magari dover essere sostituita e senza godersi il panorama. La squadra delle nostre oldies invece non arriverà tutta in fondo alla corsa, ma si godrà sicuramente il percorso e avrà modo di fare lavoro di squadra durante il percorso.

Scegliere il lievito giusto è quindi una decisione tecnica a metà fra una necessità e una scelta artistica, si può comunque anche decidere di scegliere il lievito “piacione” per condizionare il risultato finale e ottenere nel bicchiere quello che il consumatore si aspetta di bere. Ma questa scelta condiziona anche i degustatori professionisti nei concorsi enologici? Risponde l’enologo Andrea Moser: «Sì e no. O usi un lievito e fai in modo che si comporti tramite l’alimentazione, la temperatura, il tipo di ceppo o il pool enzimatico che ha come un fattore determinante per il vino, oppure usi un lievito solo ed esclusivamente per il fatto che prenda quello che c’è già nell’uva e lo trasformi in aromi, alcol, CO2 e calore. La cosa determinante che fa il lievito è trasformare il mosto in vino, partendo da tutti i precursori presenti in quel mosto. Anche un lievito che non dà particolari note fermentative a un tuo vino può darle se lo si fa fermentare a condizioni particolari, come temperature basse e scarsa alimentazione o, anche, con un’eccessiva alimentazione. È un discorso molto ampio e complesso».

Ma queste scelte condizionano davvero anche gli esperti e la loro idea rispetto al vino? Prosegue Moser: «Per quanto riguarda la scelta del “manovrare” il vino per vincere più facilmente i concorsi la risposta è no. Molti gusti sono omologati e, quindi, ha più chance di vittoria il gusto del cliente finale, cioè le persone mediamente meno informate sul vino, che lo consumano come puro accompagnamento senza conoscerne appieno i processi produttivi. Noi siamo geneticamente tarati per mangiare frutta, dal dolce deriva l’energia (sono carboidrati). L’uomo come animale è tecnicamente programmato per riconoscere aromi e profumi piacevoli che lo portano a qualcosa di dolce, quindi la dolcezza nei vini e gli aromi fermentativi – tipici della frutta e prodotti da alcuni lieviti – per l’uomo sono semplicemente più attrattivi».

Vermentino di Gallura.

Sardo frizzante. La rivoluzione del Vermentino in Sardegna. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 20 Marzo 2023.

Tra i vigneti secolari del paesaggio gallurese‚ la Docg Vermentino di Gallura incontra e accoglie un suo visionario ambasciatore, pronto a portare un po’ di freschezza con le sue novità rifermentate

«Non avevo nemmeno un cacciavite: quando ti trasferisci da Milano in un territorio come Berchidda, che ha la stessa dimensione di Milano ma 3000 persone in tutto, anche le cose più banali diventano un’impresa». Ma l’impresa del determinato e concreto Giovanni Cappato e il sogno di vivere lontano dal mondo, facendo un prodotto proveniente dalla terra, ma capace di misurarsi con le visioni internazionali, sono ora realtà.

Adesso che queste prime bottiglie di Vermentino rifermentato, fatto con le uve che ha piantato al suo arrivo sulle colline alle pendici del Monte Limbara, nel sassarese, sono nelle sue mani, con le etichette gialle e nere, con la loro forza identitaria e il grande potenziale di una cosa mai fatta prima, il sogno sembra finalmente diventare reale. «Anche se il momento che segna la consapevolezza che finalmente siamo “veri” l’ho avuta solo in questi giorni, quando presento alle persone le bottiglie e le faccio assaggiare. È adesso che ho finalmente capito che è successo, che è vero».

Prima della ricerca del cacciavite, e della ricostruzione di una vita e di una vigna altrove, Giovanni Cappato, classe 1973, monzese, di formazione architetto, nel 2008 chiude la porta di un’edilizia ormai in crisi per aprire il portone di un mondo dall’avvenire più luminoso, quello del vino. E così, dopo una laurea in enologia, tra pascoli, olivi, olivastri plurisecolari, sugherete e pietre di granito, nel 2017 pianta le radici del suo futuro proprio nel territorio gallurese. Vigne Cappato oggi sta animando il territorio di Berchidda e, con esso, l’immagine dell’unica denominazione di origine controllata e garantita vitivinicola in Sardegna.

Esposti a sud, gli oltre tre ettari vitati dell’azienda si articolano infatti sulle colline alle pendici del Monte Limbara, su suoli di origine granitica, terreni franco-sabbiosi e molto drenanti, ad un’altitudine che va dai 320 ai 360 m s.l.m. Si tratta di un’altezza particolarmente elevata rispetto a quella dove usualmente avviene la più tradizionale produzione della Docg, con escursioni termiche giorno/notte più rilevanti, che conferiscono al vino una freschezza e un’eleganza particolari. Al naso questi vini hanno il profumo magico della Sardegna: l’elicriso e la liquirizia sono una cifra stilistica che emerge prepotente, per chi ha nel naso quei profumi tipici della macchia mediterranea dell’isola, così fortemente identitaria da essere parte dell’esperienza del viaggiatore.

Osservare le linee della tradizione della produzione locale sì, ma con la missione di elevare al massimo le potenzialità inespresse del territorio, a partire dal lavoro in vigna. Nelle tenute Cappato si richiama e pretende un’attenzione ai dettagli propria di un approccio artigianale, quasi sartoriale, a partire dalla selezione dei grappoli in vigna durante la vendemmia che daranno vita alle quattordicimila bottiglie prodotte. Questa viene effettuata manualmente e di notte, per ottenere acini più freddi e turgidi ed evitare così rotture indesiderate. La raccolta separata dei diversi dislivelli fa sì che ogni filare raggiunga il giusto equilibrio tra acidi e zuccheri. Infine, per assicurare il mantenimento della temperatura adeguata per tutta la durata della raccolta, i grappoli vengono tenuti all’interno di camion frigo, in attesa di essere trasportati al centro di vinificazione.

Da tale descrizione tuttavia, oltre alla precisione, emerge un’altra costante della filosofia di Vigne Cappato, il freddo: essenza della produzione in vigna, riflessa poi nel vino, già nel suo nome. «Gelo» è infatti la traduzione di «Ghjlà», Vermentino di Gallura Docg Superiore, il primo della famiglia, nato proprio dopo l’esasperata vendemmia causata dalla gelata del 2017, a ricordo di come dopo una tempesta, torna sempre il sole, o meglio, nel nostro caso, un grande vino. Vendemmiato a settembre, esce in commercio dopo sei mesi di affinamento in acciaio e sei in bottiglia, per un prodotto che, come riconosce lo stesso Cappato, «ha bisogno di tempo per evolvere prima di arrivare al bicchiere» ed esprimere la sua unica e spiccata acidità. Dal gelo si genera successivamente la neve, è così anche nelle cantine dell’enologo milanese. Da Ghjlà nasce infatti «Nibe», neve appunto, il secondogenito della casa, ma ancor di più il primo Vermentino rifermentato in bottiglia della Gallura. Un vino mai tentato finora, che vede la sua origine proprio nella vendemmia precoce del primogenito, con l’utilizzo di parte del mosto proveniente da uve che hanno perfezionato la maturazione fenolica, dopo la macerazione sulle bucce. I lieviti selezionati reidratati vengono inoculati, il vino base imbottigliato e tappato con tappo a corona. Ha inizio la rifermentazione che finirà 15/20 giorni dopo. Il vino sosta poi, o meglio, riposa sui lieviti, finché non viene stappato. Ci troviamo quindi di fronte a quello che si potrebbe definire un «metodo classico senza sboccatura finale». Un prodotto tuttavia il cui controllo del vino base permette di avere in bottiglia fecce nobili, che lo rendono sì più torbido, ma allo stesso tempo unico e ricco di personalità. Perché qui interessa far parlare l’annata, differenziare il risultato in bottiglia ogni anno, raccontando nel bicchiere ciò che quello specifico anno ha creato. Si vuole valorizzare il territorio con un approccio moderno e internazionale, senza snaturare il terroir: un lavoro che è pedologico, climatico e anche culturale. Perché culturale è l’approccio del fondatore: «Ho sempre voluto vivere in un contesto meno urbano. Non voglio buttarla sul romantico: ma sono cresciuto in campagna, ho respirato quell’aria e ho scelto di cambiare luogo. Il vino è stato una conseguenza. Ho ricavato le risorse dal mio passato, ho cercato una cosa che con lo studio e con quello che avevo a disposizione mi permettesse di vivere dei prodotti agricoli».

Queste prime bottiglie con l’etichetta gialla e nera ne sono la dimostrazione tangibile.

Vitovska.

Vitovska: il vitigno frutto del Carso triestino. Nicola Santini su L’Identità il 18 Marzo 2023

La Vitovska è un vitigno autoctono originario del Carso triestino. Solamente negli ultimi 15-20 anni questa varietà ha iniziato a conquistare la scena vinicola mondiale di cui oggi è una delle eccellenze.

Per molti ancora un vino da scoprire, è uno dei simboli di quella cultura vinicola di frontiera che traccia un ponte tra Italia e Slovenia fatto di buon bere, vigneti da esplorare, cantine da visitare.

Il turismo legato all’enologia in Friuli Venezia Giulia è letteralmente esploso negli ultimi anni, ma è merito di chi ha saputo intuire e approntare una visione a quello che fino a pochi anni fa era ritenuto un prodotto potenziale ma fondamentalmente inespresso, se la Vitovska con le sue caratteristiche uniche di profumi e carattere al palato, si è conquistata il posto d’onore nelle wine list che contano.

Alla vista è limpido dal colore giallo paglierino carico. La prima impressione al naso sono i sentori di miele, cera d’api ed erbe aromatiche come il timo e santoreggia. Al palato è secco, molto minerale e con una grande sapidità.

La sua storia è, naturalmente, stata scritta prima che le bottiglie arrivassero al prestigio odierno. Proprio per questo motivo l’Associazione dei Viticoltori del Carso ha deciso di pubblicare un libro che ne spiega l’origine, le tradizioni, la storia e tutta la cultura che sta dietro a quella che non è una semplice etichetta. Il volume, recentemente presentato a Duino Aurisina, è stato curato da Stefano Cosma (in foto con il sindaco Igor Gabrovec). “Ci sono luoghi del cuore che condensano valori e amicizie che mi fanno sentire a casa quando ho la fortuna di tornarci. Uno di questi è senza alcun dubbio il Carso”. Queste parole sono di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, che ha scritto la prefazione del libro.

Stefano Cosma, conoscitore di vini, studia da anni la storia delle varietà di vino autoctone locali. Questo volume presenta la storia, la cultura, il territorio e la produzione della Vitovska. Cosma ha raccolto informazioni interessanti e utili e testimonianze variegate che saranno apprezzate sia dagli amanti del vino che dagli esperti. Nel 1978, Danilo Lupinc, viticoltore di Prepotto, imbottigliò per la prima volta il vino di questa varietà. Lupinc contribuì così allo sviluppo della viticoltura locale, dato che all’epoca la Vitovska era ancora un vitigno relativamente sconosciuto. Il libro contiene anche la testimonianza del professor Pavle Merkù, che spiega l’origine della parola Vitovska in modo professionale e impeccabile.

Molto interessanti sono anche le testimonianze di grandi chef che celebrano e credono fortemente nella cucina e nei vini locali: Tom Oberdan, Antonia Klugmann, Gabriella Cottali Devetak, Matteo Metullio e Davide De Pra.

La maggior parte delle fotografie sono state realizzate da Dean Dubokovič, Roberto Pastrovicchio e da Robi Jakomin, che ha anche scattato la foto di copertina. Il libro Vitovska frutto del Carso è pubblicato in quattro lingue: sloveno, italiano, tedesco e inglese.

Gratena nero. 

Alla riscoperta del Gratena nero. Luca Gardini su L’Espresso il 13 settembre 2023.

Sulla tradizione di un podere duecentesco, una linea di prodotti moderni e mai ovvii

Un progetto enoico importante, quello di Fattoria di Gratena, che nella sua veste moderna risale al 1968, tuttavia innestato sulle vestigia di un podere duecentesco. Siamo in zona Pratomagno, località Pieve a Maiano, due passi da Arezzo, 180 ettari, di cui 17, certificati bio dal 1994, a vigneto, e 10 ad olivo, ma soprattutto una ferrea volontà di preservare, e se necessario recuperare, tutto quello che in termini di risorse può fornire il territorio.

Nasce così, da questa ostinazione, il rinvenimento, nel 1997, di qualche centinaio di piante di un vigneto storico, di una varietà ampelografica inedita, inizialmente scambiata per Sangiovese, ovverosia il Gratena Nero, identificato come varietà a sé stante ed omologato nel 2010, dopo un pluriennale lavoro svolto in collaborazione con l’Università di Milano, ma anche una linea di prodotti rilevanti, uniti dallo stesso fil rouge. Fabio de Ambrogi, insieme alla famiglia Sieni (con la consulenza enologica di Fabio Mecca) negli anni hanno allestito un panel di etichette caratterizzate da grande linearità e principi solidi: sostenibilità in campagna, protocolli essenziali in cantina, compresa l’assenza di filtrazione prima dell’imbottigliamento. Sangiovese e (appunto) Gratena Nero in letture mai ovvie, radicate a quello che di buono può fornire una collocazione d’eccezione ed una cura quotidiana, fatta di attenzione e vicinanza alle esigenze della vigna.

Si inizia con un Chianti DOCG bio da 100% Sangiovese, lavorato in acciaio e tonneau, dal naso di susina selvatica, con tocchi di sottobosco, eucalipto e rabarbaro. Molto succoso alla bocca, con tannini sapidi e ritorno fruttato-balsamico. Poi c’è il Toscana Rosso IGT Siro Fifty, blend paritario di Sangiovese e Gratena, una delle prime uscite ufficiali del nuovo vitigno. Naso di mirtillo, alloro e menta selvatica, con finale di noce moscata. Alla beva tannini iodato-salmastri, con ritorno mentolato-fruttato.

La bottiglia

Toscana Rosso IGT

Gratena Nero 2016

PUNTEGGIO: 96+/100

Il vino-simbolo del lavoro di Fattoria di Gratena. Una chicca prodotta in poche migliaia di esemplari fatta di densità, compattezza e tannini magnetici. Naso di mora di rovo, con tocchi terrosi e di liquirizia, con finale di chiodi di garofano. Palato sapido, con ritorno fruttato-speziato e grande lunghezza. Perfetta con una sontuosa scottiglia casentinese o, se si è in vena di primi piatti, accompagnata ai maccheroni con l’ocio, grande classico aretino.

GRATENA SOCIETÀ AGRICOLA

Località Gratena

Il Nebbiolo.

Origini contadine, gusto metropolitano. Arriva il Nebbiolo “democratico”. Vittorino Ferla su L’Inkiesta il 6 Marzo 2023.

Albugnano 549 è l’associazione nata per valorizzare il territorio e la produzione del vino Doc omonimo, realizzato a partire da uve Nebbiolo in purezza e oggi apprezzato per bevibilità, freschezza e grande sintonia con il gusto contemporaneo

«In vista della pensione, cercavo un posto nei dintorni di Torino dove fare l’orto nel weekend. Così, ho visitato tra gli altri i territori di Castelnuovo Don Bosco e Albugnano. Quando ho trovato questa casa, mi ha subito colpito. Una villa praticamente abbandonata ma che aveva un grande potenziale. È come se mi avesse detto: comprami. Non sono stato io, è lei che mi ha scelto. Poi è venuto il resto». Piergiorgio Gaidano, geometra e immobiliarista, racconta così l’incontro con la settecentesca Villa Tamburnin, sita nel comune di Castelnuovo Don Bosco. Un colpo di fulmine che risale al 2004. Ma Piergiorgio non si ferma all’orto. Nel corso degli anni cresce l’impegno per la terra e continua ad acquisire nuovi campi da coltivare. Oggi la tenuta conta su venti ettari, nove dei quali coltivati a vigneto, quattro di noccioleto, prati, boschi, e un piccolo orto per la produzione familiare. Gaidano comincia a “scoprire” lentamente una realtà unica, quella della Doc Albugnano, riconosciuta nel 1997, dove si allevano viti di uve Nebbiolo che però non hanno né la fama né il valore che il Nebbiolo ha nelle Langhe. Siamo ai confini dello storico Marchesato del Monferrato, in un’area collinare in cui l’Astigiano lambisce il territorio provinciale di Torino. Un territorio che ricade sotto il consorzio Barbera d’Asti e Monferrato. Da queste parti i vitigni più diffusi sono altri: la Barbera, la Freisa, la Malvasia nera.

«Quando sono arrivato qui – racconta ancora Piergiorgio – le bottiglie di Nebbiolo si vendevano a pochi euro, prezzi lontanissimi da quelli delle Langhe, dove le denominazioni Barolo e Barbaresco esercitano uno straordinario appeal internazionale. Tuttavia, anche questo di Albugnano è Nebbiolo: parlando con gli altri produttori abbiamo convenuto che era arrivato il tempo di aumentare sia la qualità che il valore dei nostri prodotti». Da qui comincia un processo di autocoscienza collettiva dei produttori locali. Succede così che, su iniziativa di nove viticoltori locali nel comune di Albugnano, sito a 549 metri di altitudine, il 5 aprile 2017 nasce l’Associazione Albugnano 549, con l’obiettivo di creare una rete di aziende connesse fra di loro, in grado di scambiare informazioni ed esperienze, per velocizzare il processo di crescita della qualità dei vini. Serve valorizzare la denominazione – oggi conta 47 ettari vitati – anche perché il Nebbiolo di quest’area, connotata da un terreno di matrice marnosa e da un’altitudine maggiore rispetto ai sistemi collinari delle altre denominazioni, è un Nebbiolo molto diverso dagli altri. Oggi l’associazione riunisce quindici produttori dei quattro Comuni della doc: Albugnano, Pino d’Asti, Castelnuovo Don Bosco e Passerano Marmorito.

«Il numero che caratterizza la nostra associazione, 549, è prima di tutto un riferimento all’altezza massima della collina dove giace il paese di Albugnano. Ma ritorna anche in altri passaggi: il 5 dicembre del 2016 è la data della nostra prima riunione, 4 sono i comuni che fanno parte della denominazione, 9 i soci fondatori», racconta Valeria Gaidano, la presidente dell’associazione, una delle tre figlie di Piergiorgio. Per armonizzare gli obiettivi e il lavoro delle aziende, continua Valeria, «Ci siamo rivolti all’enologo Gianpiero Gerbi e con lui abbiamo redatto un protocollo orientato a ottenere un Albugnano originale e riconoscibile, con capacità di invecchiamento. Così, con il nome Albugnano 549 nasce un Albugnano Doc a base di uve Nebbiolo in purezza (mentre il disciplinare consente lavaggio con un 15% di altre uve), con macerazioni più lunghe e un affinamento in botte di legno (a discrezione del produttore) di almeno diciotto mesi più sei mesi di bottiglia».

Proprio a partire dai vini di Tenuta Tamburnin, gli assaggi dei campioni delle diverse aziende segnalano caratteristiche peculiari che li distinguono nettamente da quelli delle Langhe: un profilo aromatico centrato sul frutto (soprattutto la ciliegia, anche sotto spirito, e in alcuni casi perfino la fragola) e sulle spezie dolci (dalla noce moscata alla cannella), con un sorso morbido e una fresca bevibilità.

«Bevibilità, bevibilità, bevibilità. È quello che voglio per i miei vini»: è il mantra che ripete Elisa Carossa, giovane e determinata titolare dell’azienda Alle Tre Colline, dove sviluppa il progetto avviato dal papà Franco. «La mia famiglia – racconta Elisa – si trova ad Albugnano dal 1765 e il mio avo Felice Carossa cominciò a vinificare nel 1803. Mio nonno faceva il vino sfuso per le damigiane e ha sempre consigliato a papà di fare altro nella vita: a quei tempi il lavoro nei campi era davvero molto faticoso, al punto da far preferire il lavoro nelle catene di montaggio. Così mio padre Franco ha fatto a lungo l’elettricista in fabbrica. Fino a quando con mia madre decidono di aprire qui un agriturismo e di riprendere il lavoro in cantina. La prima etichetta risale alla fine degli anni ’90. Poi con l’esordio dell’Albugnano 549 è stato un boom. Nel 2014 la nostra cantina sembrava enorme, adesso non abbiamo più spazio». Il progetto dell’associazione si rivela un successo: «Stare in gruppo è molto importante: c’è condivisione e competizione sana, i prodotti sono molto più buoni e cominciamo a offrire un’accoglienza ben fatta», spiega Elisa. In effetti, i suoi vini sono ispirati alla freschezza e alla bevibilità. In questo mostrano di avere un piglio moderno, una capacità di interloquire con il gusto contemporaneo. All’insegna dell’easy drinking, i nebbioli della famiglia Carossa sembrano concepiti per un aperitivo metropolitano, per accompagnare momenti spensierati e cibi agili, all’insegna della leggerezza, ma ricca di gusto.

Comincio a pensare che sia davvero questo il “genio” di questa denominazione, riscontrabile anche nei vini di altre aziende. Una menzione in questo senso merita, per esempio, il Parlapà di Mario Mosso, un nebbiolo che proviene da terreno sabbioso con esposizione a nordest: un vino che, grazie anche all’annata non molto calda (2018), si distingue per un grado alcolico non elevato (poco sopra i 13,5% vol), profumi fruttati e freschezza che sorprendono se si pensa ai venti mesi di riposo nelle barrique (rigenerate).

Ovviamente non mancano vini di grande struttura e corposità, coerenti con l’immagine austera dei vini da uve Nebbiolo. Basti pensare all’Eclissi di Cascina Quarino, diciotto mesi in barrique di rovere francese, profumo intenso di frutti rossi, composte e cioccolato, sorso robusto e tannico. Oppure all’Albugnano superiore dell’azienda agricola Roggero, forse l’etichetta più elegante, complessa ed equilibrata della denominazione: alla cieca, potrebbe tranquillamente gareggiare e vincere con i migliori Barbaresco. Non a caso, «Questo vino viene da un suolo argilloso-calcareo che più degli altri di questo areale ricorda i migliori terreni delle Langhe», spiega Mauro Roggero, giovane enologo che, con la sorella Marina, ha preso le redini dell’azienda avviata da papà Bruno, uno dei fondatori della Doc Albugnano, e da zio Marco. Anche qui una lunga storia di cinque generazioni di viticultori, che all’inizio vendevano vino sfuso. Poi la svolta: oggi l’azienda produce diecimila bottiglie e sta costruendo la nuova cantina con la prospettiva di una crescita ulteriore. D’altra parte, le sfide non devono essere un problema per Mauro che è stato anche campione d’Italia di bocce in movimento e, nel 2021, ha eguagliato il record del mondo di tiro progressivo con 50 bersagli colpiti su 50. Ma il successo da queste parti non dà alla testa: Mauro conserva il suo stile riservato e signorile, tipicamente piemontese.

Come tipicamente piemontese è la famiglia Binello, che dai tempi della mezzadria ha sviluppato un’azienda agricola multitasking: insieme con il vino, produce anche frutta estiva (pesche, albicocche e susine), ortaggi, uniti all’allevamento del bestiame. Una tradizione contadina che non manca di visione: nel 1996, è proprio grazie al lavoro di gruppo condotto dai fratelli Simone e Matteo Binello, in sinergia con gli altri produttori della zona, che si pongono le basi per il riconoscimento della Doc Albugnano. Da quel momento entrano in azienda le nuove leve: Franco, agrotecnico, e Claudia, responsabile dell’agriturismo, figli di Simone, e Andrea, enologo, figlio di Matteo. A Pianfiorito emerge chiaramente la profonda e genuina anima contadina che caratterizza questo territorio.

Alla luce di questa storia, stuzzica ancora di più la felice “incoerenza” con la proiezione “metropolitana” del Nebbiolo di Albugnano, così lontano dall’austerità del Barolo e del Barbaresco (che a volte possono diventare cerebrali e distanti). Il Nebbiolo di questa estrema lingua del Monferrato sa essere accogliente, accessibile, easy, pop, alla portata di tutti. Volendo, da bere un po’ più fresco con una varietà di cicchetti, di piatti di mare, etnici, vegetariani, sempre a condizione che rispettino quel minimo di struttura che al Nebbiolo non manca mai. Infine, c’è un altro vantaggio, se si sceglie il Nebbiolo di Albugnano: il prezzo. Non è più il tempo delle bottiglie a 4 o 5 euro. Ma i vini di Albugnano, se ormai riescono a esprimere anche un valore economico all’altezza del blasone del vitigno, restano comunque più cheap rispetto ai cugini delle Langhe.

In conclusione, una bella scoperta: un Nebbiolo “altro”, “democratico”, un vino di territorio che, con un’intelligente spinta promozionale, potrebbero diventare un piacevole compagno delle serate in città.

Il Barbera.

Storie di vini Fatti e vicende della Barbera, il terzo vitigno più diffuso in Italia. Carla Reschia su L’Inkiesta il 27 febbraio 2023.

Il vino autoctono piemontese amato dalla corte ducale di Mantova e successivamente relegato a comune vino da tavola, oggi con ventitré Doc e tre Docg è tornato a godere di rispetto e meritata diffusione anche a livello internazionale

Si dice Barbera – il o la, a seconda che si parli del vitigno o del vino – (ma la discussione, che nel tempo ha coinvolto anche poeti come Pascoli e Carducci e lo scrittore Mario Soldati, è tuttora aperta), e si pensa al Piemonte, dove occupa un terzo della superficie vitata. In particolare, a Casale Monferrato, dove si è trovata la più antica menzione delle uve “barbesine” – “de bonis vitibus berbexinis” – in un contratto di affitto del 1249, e da dove il vitigno si è diffuso nelle varie località, da Asti, alle Langhe, ai Colli Tortonesi. Vino di un certo pregio, secondo una lettera del 1609, scoperta dal dottor Arturo Bersano nell’archivio comunale di Nizza Monferrato e che testimonia che in quell’anno vennero inviati «Nel Contado di Nizza de la Paglia appositi incaricati per assaggiare il vino di questi vigneti, e in particolare lo vino barbera per servizio di S.A. Serenissima e di pagargli al giusto prezzo».

La corte ducale di Mantova era di certo un luogo dove si apprezzavano i migliori vini d’Italia e, alla fine del Settecento, nel primo trattato di ampelografia dei vitigni piemontesi, “Sulla coltivazione della viti”, il/la Barbera era descritto come un «Vino possente, sempre piuttosto severo, ma ricco d’un profumo squisito, e d’un sapore che alla forza accoppia la finezza».

Eppure, malgrado la sua storia, ancora negli anni ’70, era il classico vino da taglio e in patria era considerato una bevanda da casa e da osteria che i contadini reputavano tanto migliore quanto più faceva la “camicia”, cioè lasciava uno spesso residuo tannico sulla superficie interna della bottiglia, l’alternativa umile e di pronta beva al blasonato Nebbiolo. Oggi è diventato un vino di qualità con ventitré Doc e tre Docg e, soprattutto, si è affermato in tutto il mondo.

Fuori dal Piemonte, infatti, il vitigno è coltivato nell’Oltrepò Pavese, in versione frizzante, sui Colli Piacentini, dove con l’uva croatina è la base per il Gutturnio, in Franciacorta, Umbria, Campania, Sicilia e in altre regioni italiane; in assoluto è il terzo vitigno più diffuso nel Paese. Fino alla Sardegna, dove fu molto coltivata al tempo del Regno dei Savoia. Alcuni botanici ritengono che la varietà autoctona sarda Pignatello sia una sottospecie mutata del Barbera.

All’estero, ha seguito la migrazione italiana e soprattutto piemontese in Australia, in Sud America e in California, dove fu portato nel diciannovesimo secolo, usando l’espediente di piantare i segmenti di tralcio nelle patate per farli arrivare relativamente freschi e in condizione di essere ripiantati al termine del lunghissimo viaggio in piroscafo.

Usata a lungo come vino da taglio, è diventata, infine, fin dagli anni ’90, una Californian Barbera Red di tutto rispetto, protagonista, anche, del Barbera Festival dell’Amador County. In Australia, la “Bar-beh-rah” è nota dagli anni ’60, ma solo dalla fine degli anni ’80 ha iniziato ad avere una sua popolarità ed è raccomandata, oltre che con sughi e carne, in abbinamento alla pizza.

C’è anche una Barbera israeliana rosè, kasher, vinificata con una rapida spremitura delle bucce, che arriva dall’Alta Galilea, insieme alle alture del Golan luogo d’elezione dei migliori vini del paese. E fra i tanti, e ottimi, vini sudafricani la Barbera ha un suo posto, piccolo ma significativo.

In Europa, però, la coltivazione della Barbera è pochissimo diffusa e persino la Grecia dove c’è una vera predilezione per i vini francesi e italiani, che rappresentano il 78,08% delle loro importazioni vinicole, e dove il Barolo e il Barbaresco sono presenti con tutte le aziende di importazione di livello, la Barbera sta ancora cercando di trovare la sua ubicazione.

Tutt’altra storia nella piccola ma produttiva Slovenia: qui nel distretto vinicolo della Vipavska dolina o Vipava, ovvero la Valle del Vipacco, regno millenario di bianchi fin dai tempi degli antichi romani, il Barbera è stato introdotto con altri vitigni a bacca rossa come Merlot, Pinot Nero, Cabernet Sauvignon, Refosco solo nel Novecento, specificamente per la sua versatilità, adattabilità e alta resa. Inizialmente era vinificato in taglio, soprattutto in un insolito ma riuscito connubio con il Merlot, ma nel tempo ha prosperato e ha dato vita a un vino molto richiesto e popolare accanto ai classici come Merlot, Pinot Nero, Cabernet Sauvignon, Refosco.

Oggi un po’ diversa, con un po’ di acidità in meno, ma perfettamente riconoscibile, la Barbera in Slovenia si trova tanto nelle gostilne, la versione locale delle trattorie dove il cibo è semplice ma gustoso e le porzioni abbondanti, in abbinamento a salumi e formaggi ma anche allo spezzatino di orso, così come in diverse aziende come prodotto di punta con nomi insoliti a orecchie italiane, come il Krapež Barbera o la Barbera di Slavcek.

Il Valpolicella.

Valpolicella di collina Nemo propheta in patria. Anna Prandoni su L’Inkiesta il 20 Febbraio 2023.

La storia dell’enologia italiana è fatta di personaggi acuti, intelligenti e visionari, in grado di rompere gli schemi di andare oltre la strada già segnata. Come Graziano Prà e il suo Soave, preziosa unione di intenti, uva e terra

È burbero quel tanto che basta a farne un personaggio simpatico, Graziano Prà, classe 1957 e grinta da vendere. «Quando imbottiglio una nuova annata, faccio un’unica prova. Prendo un branzino e lo cuocio al forno. Vado in cantina, prendo una bottiglia e la stappo a tavola. Se è una buona annata, lo capisci subito così».

E quella che ha appena imbottigliato sembra proprio che lo sia, e ha superato la “prova branzino” di questo signore del vino Soave, che da più di quarant’anni ha preso in mano i vigneti del padre e insieme a uno dei fratelli ne ha fatto un esempio per tutti coloro che pensavano che questa zona della provincia di Verona non potesse dar vita a grandi vini longevi.

Sentirlo raccontare la sua avventura è un bellissimo modo per capire quanto la determinazione, i giusti incontri ma anche la caparbietà e la cocciutaggine possano fare la differenza, quando si ha a che fare con dei progetti che poggiano più sul merito che sulla filosofia: «Ho cominciato a far vino con niente, non avevo nulla se non la formazione tecnica alla scuola enologica di Conegliano. Papà aveva i vigneti, e a vent’anni con uno dei due miei fratelli ho iniziato questa attività, andando in giro per cantine. È successo di tutto nei primi anni ’80: la gelata dell’85 ha fatto morire tanti vigneti nella zona del Soave, poi nell’86 è arrivato lo scandalo del metanolo. Il mondo stava cambiando, soprattutto il nostro, ma se siamo sopravvissuti a quel periodo e a quell’epoca così complicata… adesso si può solo crescere» ci racconta con il suo piglio schietto e la sua ironia.

«Il problema non era farlo, il vino, ma venderlo: all’inizio pur di venderlo facevo damigiane, non mi vergogno a dirlo. Nell’83 ho imbottigliato i primi 15 ettolitri, non immaginate nemmeno quanto ne fossi fiero. Poi alle fiere non lo compravano, poi dicevano che costava troppo, e mi deprimevo. Ma perseverare ha aiutato». E hanno aiutato anche gli incontri, belli e importanti, che hanno aperto le porte, la mente e il cuore a un uomo che di passione e di voglia era pieno: Veronelli, la Fivi, Carlin Petrini. Numi tutelari, amici, altri vignaioli che come lui stavano capendo come dare al mondo del vino italiano una nuova veste, e stavano correndo per una nuova avventura, dando avvio a un vero movimento rivoluzionario e alternativo, fatto di sfide, di provocazioni, di convinzioni e di determinazione.

E con i piedi ben ancorati nel territorio dove tutto ha preso avvio, come spiega Prà: «Il Soave di qualità è un grande vino, anche se la denominazione non ha mai creduto nella potenzialità di questa zona. La Garganega è un vitigno generosissimo, ma la collina scrive le rese e proprio lì c’è la possibilità di fare grandi bottiglie, anche longeve». E da qui a decidere di cambiare punto di vista anche su uno dei grandi postulati del vino, il passo è breve. È il 2010 quando Prà decide che tutte le sue bottiglie saranno tappate a vite, nonostante il parere negativo del Consorzio, che lo riteneva dispregiativo.

«Il tappo a vite supporta la longevità del vino, gli permette di evolvere correttamente e garantisce una chiusura perfetta – sottolinea Prà – sono queste solo alcune ragioni che sostengono la nostra scelta, una decisione maturata dopo tredici anni di osservazioni e degustazioni comparate di vecchie annate. Oggi siamo certi che il tappo a vite sia la scelta migliore per l’affinamento e la conservazione dei nostri vini, la risposta più forte al nostro desiderio di produrre vini buoni nel tempo, senza difetti ed eleganti».

Oltre alla longevità e alla garanzia dell’evoluzione in bottiglia, attraverso una micro-ossigenazione del vino senza alterazioni, l’azienda sostiene il tappo a vite anche per il suo essere rispettoso e attento nei confronti del cliente. «Comprare una bottiglia di Soave con il tappo a vite – conclude il viticoltore – significa non correre rischi ed essere certi di acquistare un vino che dipende dall’annata, e mai dal tappo. Inoltre, lavorando molto con i mercati esteri, il tappo a vite ci permette di reggere lo stress da trasporto, evitando tutti i problemi legati al posizionamento verticale o orizzontale e agli sbalzi di temperature tra un mezzo e l’altro».

Insomma, qui la prospettiva si ribalta: il sughero va bene per i vini di pronta beva, che non rischiano troppo sul lungo periodo sul fronte del “sentore di tappo” e dell’evoluzione. Per quelli da invecchiamento si sceglie la vite, che riesce a preservare meglio sentori e sapori: «Perché il nemico numero uno del vino è l’ossigeno» chiosa il vignaiolo.

E di sicuro il suo miglior amico è l’uomo in grado di dar vita a un progetto diverso, in un territorio non celebre, ma in grado da subito di convincerlo a fare meglio, ad andare oltre, a guardare un po’ più in là, fuori dalle rotte consuete e dagli schemi prestabiliti. Oggi, da Prà, sono in quindici, tantissimi giovani che si sono formati e che sono qui da anni, a far da spalla a una concretezza e a una lucidità di pensiero che si rivela, intatta e vibrante, in ogni calice che porta il suo nome.

Il Lambrusco.

Gioia, gioventù, godimento: la frizzante riscossa del Lambrusco. Vittorio Ferla su Il Riformista il 23 Gennaio 2023

Il 2023 enologico si apre con una interessante notizia che viene dal mercato del Regno Unito. Secondo l’indagine realizzata da Bibendum, distributore di wine & spirits leader sul mercato Uk, l’emilianissimo Lambrusco sembra destinato a ritornare con grande successo sulla tavola dei consumatori inglesi.

Bidendum ne capisce visto che muove il 15% degli acquisti del settore dell’on trade nel paese tornato a crescere dopo la Brexit con 582 milioni di euro di vino italiano importato nei primi nove mesi dell’anno scorso (+14,9% sullo stesso periodo del 2021). Il sondaggio del grossista britannico racconta che il popolare (sia nel senso di celebre, che nel senso di essere alla portata di tutti) rosso leggermente frizzante e fruttato, originario dell’Emilia Romagna e di una piccola porzione della Lombardia, è ora stabilmente ospite nelle carte dei vini di un ristorante o wine bar di tendenza su cinque nel Regno Unito. 

A quanto pare i principali appassionati di Lambrusco sono i più giovani: ben il 48% dei consumatori tra i 18 e i 45 anni si dimostra intrigato dalla piacevole capacità di accompagnare la convivialità e lo stare insieme. D’altra parte, il Lambrusco – ben al di là della sua fama banale di vino da osteria e da salame – riesce a spaziare nello stile dal secco al dolce e può contare su una grande varietà di vitigni.

Sotto il cappello unico del Lambrusco ricade infatti una famiglia di dodici diverse tipologie di uve a bacca nera. Uve autoctone, il cui uso può essere più o meno esclusivo a seconda delle denominazioni di origine e delle scelte enologiche dei produttori. Si tratta di Sorbara, Grasparossa, Salamino, Foglia Frastagliata, Barghi, Maestri, Marani, Montericco, Oliva, Viadanese, Benetti e Pellegrino. 

Nel Regno Unito, per esempio, le espressioni più gettonate sembrano quelle secche realizzate con le uve Salamino o Grasparossa. I consumatori sono conquistati dal Salamino, per la sua capacità di ricordare frutti rossi con note di viola, e dal Grasparossa, per via delle sue note pepate e di ribes rosso. Grande successo, in particolare, per la versione rosata, ma sembra che anche il rosso frizzante possa scalare le classifiche delle preferenze dei consumatori.

Ma il fenomeno non è nuovo. Tutto parte dall’Italia: qui il Lambrusco ha ripreso a conquistare nuovi appassionati, specie tra i giovani, sia attraverso le versioni classiche sia in quelle più innovative. Da qualche tempo, inoltre, il Lambrusco è sbarcato perfino nella mixology. Oltre all’Italia, la Germania e gli Stati Uniti rappresentano i mercati dai volumi più importanti. Tra quelli emergenti da segnalare Asia, Cina, Giappone e Sud America, con il Messico e il Brasile.

Il Lambrusco è tra i vini presenti in più Paesi al mondo, una presenza internazionale che puntiamo a valorizzare”, conferma Claudio Biondi, Presidente del Consorzio Tutela Lambrusco, che nasce a gennaio 2021 dalla fusione per incorporazione dei tre precedenti enti di tutela del famoso vino emiliano: il Consorzio Tutela del Lambrusco di Modena, il Consorzio per la Tutela e la Promozione dei Vini DOP Reggiano e Colli di Scandiano e Canossa e il Consorzio di Tutela Vini del Reno Doc. Negli ultimi tempi il Consorzio unico si è reso così protagonista di un importante lavoro di coordinamento e di promozione.

Non bisogna stupirsi di questo grande ritorno. Il Lambrusco è un universo di sfumature e colori: vini freschi e piacevoli, diverse varietà, differenti territori e diversi metodi di produzione. Un vino schietto secondo la tradizione, ma versatile secondo le esigenze di un consumo contemporaneo. Dal frizzante – che rappresenta oltre il 95% della produzione – fino al Metodo Classico e a quello Ancestrale, dal secco alle versioni amabili, i vini da Lambrusco ben si prestano ad accompagnare un intero pasto dall’aperitivo al dessert e sono capaci soprattutto di valorizzare la dimensione conviviale del bere. 

Nel futuro del Lambrusco uno spazio sempre più importante sarà conquistato dalla spumantizzazione con metodo classico. Qui, a nostro avviso, la denominazione è capace di offrire le sue espressioni più interessanti e idonee a gratificare l’orientamento del gusto contemporaneo. “Da estimatore, enologo e produttore, ritengo che il metodo classico, applicato al Lambrusco, potrebbe portare a risultati inaspettati sia in termini di qualità che di longevità”, assicura Sandro Cavicchioli, enologo e produttore del modenese, grande esperto di bollicine e di uve Lambrusco.

Già alcuni produttori del nostro territorio – continua Cavicchioli – hanno creduto e investito in questa potenzialità, che fa parte della storia e delle origini del Lambrusco, prodotto originariamente – prima dell’arrivo dell’autoclave – proprio con rifermentazione in bottiglia. È una strada che potrebbe contribuire ad elevare, in prospettiva, il posizionamento dei vini Lambrusco”. La spinta alla sperimentazione sul territorio è oggi portata avanti soprattutto da giovani produttori. Visione, entusiasmo ed energia sono la base di progetti originali in grado di valorizzare le bollicine del Lambrusco ed esplorarne anche il potenziale evolutivo. La nuova generazione riunita nel Gruppo Giovani può fare tesoro di una grande esperienza internazionale: ha viaggiato, visitato le migliori zone vitivinicole del mondo e assaggiato i vini degli altri. Oggi sono pronti per portare idee e iniziative e per raccontare a tutti la capacità del Lambrusco di incontrare il gusto contemporaneo.

E per finire due proposte di Lambrusco Metodo Classico per rappresentare un movimento sempre più interessante:

VentiVenti Rosé Spumante Brut Metodo Classico Lambrusco Modena Doc – Cantina VentiVenti 

Il Metodo Classico è un metodo che rappresenta bene la cantina VentiVenti, sita a Medolla in provincia di Modena, e che è stato abbracciato fin dal primo giorno in diverse espressioni. In questo caso abbiamo uno spumante realizzato con uve Sorbara in purezza proveniente da vigneti di proprietà su terreni argillosi. Il colore è rosa tenue. Ricco di raffinati aromi varietali di frutti rossi e petali di rosa. La delicata complessità originata dalla spumantizzazione esprime note di orzo, nocciola e frutta secca. In bocca è avvolgente e gustoso, caratterizzato da una incisiva mineralità bilanciata dalla giusta cremosità. La bollicina esalta la freschezza tipica del Sorbara.

Settimocielo Vsq Lambrusco Grasparossa Dop Rosè Brut Metodo Classico – Cantina Settecani

Tra i primi metodo classico da uve Lambrusco Grasparossa, Settimocielo ha origine a Puianello, a oltre 425 metri slm, dal vigneto più alto del comune di Castelvetro di Modena dove sorge la Cantina sociale Settecani: un autentico single vineyard di alta collina con oltre vent’anni di età. L’esposizione a Nord-Est e l’ottima escursione tra giorno e notte, insieme alla composizione dei terreni donano uve perfette per realizzare uno spumante metodo classico di grande espressività. Coniuga intense note fruttate di visciole e piccoli frutti che lasciano poi spazio a delicati tocchi floreali e incisive sfumature agrumate. Acidità e sapidità si fondono in un sorso equilibrato e dinamico.

 Vittorio Ferla. Journalist, author of #Riformisti, politics, food&wine, agri-food, GnamGlam, libertaegualeIT, Juventus. Lunatic but resilient

L’Amarone.

Rubate 9 mila bottiglie di Amarone Costasera Masi, uno dei prodotti di punta della celebra azienda di vino veronese. Il Corriere della Sera il 24 gennaio 2023.

A dare notizia del furto è stata la stessa Masi Agricola S.p.A, società quotata nell’Euronext Growth Milan. I ladri si sarebbero introdotti nel magazzino di Oppeano, in provincia di Verona, riuscendo a far sparire 1.500 casse da sei bottiglie ciascuna: l’equivalente di un tir piano. Le bottiglie, annate 2017 e 2018, sono state sottratte dalle scorte pronte per la spedizione: hanno un valore complessivo di circa 315 mila euro.

«Costasera è il prodotto bandiera»

Si tratta di un danno notevole per l’azienda, anche in considerazione del pregio dei millesimi in questione che in tal modo potrebbero non più soddisfare pienamente le richieste del mercato. «Costasera è il prodotto bandiera di Masi, protagonista nelle recenti celebrazioni per le 250 vendemmie dell’azienda e di frequente chiamato a rappresentare l’Amarone della Valpolicella tra i grandi rossi italiani da invecchiamento apprezzati a livello internazionale – fa sapere l’azienda - È riconosciuto dalle più importanti autorità di rating nazionali e internazionali: di recente la «Buying Guide Best of Year 2022» di Wine Enthusiast quota il Costasera 2017 94 punti e classifica gli Amaroni Masi tra i migliori della Valpolicella Classica. Falstaff Wein Guide, di lingua tedesca, alla stessa annata 2017 attribuisce 95 punti».

Il furto rientra nella tipologia di sinistri coperti dall’assicurazione dell’azienda che precisa che il sistema di tracciabilità «dal vigneto alla tavola» permette l’individuazione immediata di ciascuna singola bottiglia con riferimento a lotto di produzione, data e ora di imbottigliamento, sigle di algoritmo incisi sul vetro della spalla delle bottiglie. Insomma, un avvertimento ai ladri: le bottiglie sono rintracciabili. «Al fine di evitare turbative di mercato – prescia l’azienda, quotata in borsa - Masi invita la clientela italiana e internazionale, qualora dovesse riscontrare anomalie distributive nel mercato in relazione a prezzo, quantità o modalità dell’offerta, a segnalare cortesemente all’azienda i codici dei prodotti sospetti, al fine di poterne definire l’origine».

Il Chianti.

Odoardo Beccari, dal Chianti al Borneo e ritorno. Passando per Salgari. Marco Valle il 28 Dicembre 2022 su Inside Over.

Tra le colline del Chianti, precisamente a Radda, su un terreno presso la Fattoria Vignavecchia campeggia la grande scritta “Beccari 1876”. Un omaggio alla prima annata messa in bottiglia da Odoardo Beccari, bisnonno di Orsola Beccari, attuale proprietaria della storica azienda e, al tempo stesso, un tributo all’illustre avo. Naturalista e botanico e grande esploratore.

Intrepido giramondo, prima di dedicarsi ai vini della sua terra Odoardo viaggiò per lunghi anni in Asia e in Africa ispirando i romanzi di un giramondo letterario: Emilio Salgari. Ecco la sua storia. Nato a Firenze il 16 novembre 1843 si appassionò sin da giovanissimo all’osservazione scientifica e artistica della natura e già nel 1864, subito dopo la laurea in Scienza naturali all’università di Bologna divenne assistente alla cattedra di botanica. Carattere irrequieto e curioso Beccari in quegli anni felsinei strinse amicizia con un altro personaggio altrettanto irrequieto e curioso, il marchese genovese Giacomo Doria come lui appassionato d’esplorazioni scientifiche e viaggi avventurosi in “terre incognite”. Un incontro decisivo: negli anni Doria, alternando spedizioni con l’attività politica (fu senatore del Regno e sindaco della sua città), fonderà il Museo di storia naturale di Genova, uno dei punti di riferimento degli esploratori italiani, e sosterrà finanziariamente le iniziative dell’amico fiorentino.

Torniamo al 1864. Da Bologna i due giovani puntarono i loro occhi sull’ancora misterioso Borneo e più precisamente sul ragiato di Sarawak, un prolungamento informale dell’impero britannico retto dal rajàh inglese Sir James Brooke. Ed ecco spiegato Salgari. Il prolifico quanto sedentario scrittore veronese s’ispirò ai dettagliatissimi resoconti di Beccari per il suo famosissimo “ciclo dei pirati della Malesia”. Unendo precisione geografica a tanta fantasia: Sandokan è la storpiatura del nome della città di Sandakan e il “cattivissimo” Brooke in realtà fu uno splendido avventuriero capace di pacificare popoli bellicosi — i temibili dayak —   crearsi un proprio regno indipendente e trasmetterlo ai suoi eredi (il Sarawak rimase possesso della famiglia Brooke sino al 1946).

Non a caso Beccari prima di partire per l’Asia volle recarsi a Londra ad inizio 1865 per documentarsi al meglio sulla sua meta finale e proprio nella capitale inglese incontrò Charles Darwin e il mitico “rajàh bianco”ormai in pensione (Sir James morirà nel Regno Unito l’11 giugno 1868) ma sempre potente. Sarà proprio Brooke a fornire al fiorentino le informazioni più preziose sul suo lontano regno raccomandandolo al suo successore, il nipote Charles che diverrà uno dei migliori amici di Odoardo.  

Raccolti i dati necessari Beccari raggiunse Doria ad Alessandria d’Egitto e da lì dopo due mesi di navigazione, il 19 giugno arrivò a Kutching, la capitale del Sarawak. Con l’aiuto di Charles i due naturalisti iniziarono l’esplorazione delle vaste e fitte foreste che allora coprivano l’intero stato e costruirono un base (null’altro che una palafitta…) nel cuore della foresta di Mattang, uno scrigno incontaminato pieno di tesori botanici, zoologici e etnologici. Per due anni e mezzo Beccari e Doria e poi solo Beccari – il marchese stremato dalle febbri dovette rientrare in Italia – si inoltrarono all’interno del Borneo scoprendo e catalogando centinaia di specie botaniche sino ad allora sconosciute, tra tutte una palma alta sei metri battezzata da Odoardo “Eugeissonia insignis”, ed entrando in contatto con popolazioni dalla fama sinistra come i punàn e i buketan, i cacciatori di teste.

Il toscano, tipo di certo non impressionabile, soggiornò a più riprese nei loro villaggi instaurando amichevoli rapporti con i capi. Beccari non solo salvò la testa ma descrisse accuratamente usi e costumi dei suoi ospiti: “Sono cacciatori di teste, o per meglio dire considerano come loro preda naturale e lecita ogni essere umano col quale non hanno usuali rapporti, perché in realtà essi fanno solo caso alla proprietà dell’ucciso, non usando conservarne la testa quale trofeo di guerra”.  

All’inizio del 1868 la sua salute peggiorò di colpo a causa della malaria e a malincuore fu costretto a salutare Charles Brooke e sua moglie, l’affascinante lady Margaret, e lasciare il Sarawak per rientrare il 2 marzo 1868 in patria. Una volta a Firenze, allora capitale del Regno, si dedicò alla catalogazione e allo studio delle collezioni raccolte e alla pubblicazione dei suoi appunti di viaggio sulle varie riviste geografiche (la lettura preferita da Salgari…). Un lavoro importante ma sedentario, troppo sedentario per uno spirito inquieto come lui.

L’avventura tornò presto a bussare alla sua porta e nel 1870 lo ritroviamo in Eritrea assieme al geologo Arturo Ossel e ad Orazio Antinori, il patriarca degli esploratori nostrani. Giunti ad Assab, piccolo avamposto italiano nel Corno d’Africa – ufficialmente una proprietà privata dell’armatore Rubattino -, i tre ardimentosi s’inoltrarono attraverso l’Eritrea e l’Etiopia raccogliendo e annotando tutto il possibile sulla fauna e la flora della regione, ancora semi sconosciuta, ma soprattutto annodando rapporti con i potentati indigeni e indagando le complessità della società abissina. Un doppio risultato complementare alla parallela presenza italiana sulla costa del Mar Rosso primo, timido e incerto passo della nostra vicenda coloniale.  

Tornato in Italia dopo qualche mese il nostro iniziò ad organizzare, sempre con l’aiuto dell’amico Doria, una nuova spedizione verso uno degli angoli più remoti e sconosciuti del globo: la Nuova Guinea, un immenso laboratorio etnologico, antropologico e botanico ancora quasi inesplorato. Accompagnato dal naturalista e fotografo Luigi Maria D’Albertis il 24 novembre 1871 Beccari s’imbarcò da Genova verso l’Indonesia allora possedimento olandese; sbarcati dopo qualche mese a Batavia (l’attuale Giakarta) dovettero affrontare l’occhiuta amministrazione coloniale, per nulla entusiasta dell’arrivo di stranieri così curiosi. Finalmente rassicurati i sospettosi funzionari sugli scopi puramente scientifici della missione, i due esploratori raggiunsero, dopo aver toccato le isole di Celebes, Flores, Ceram e Timor, la loro agognata meta. Una volta giunti gli italiani organizzarono una prima base a Sorong e poi ad Andai dove i due (anche per motivi caratteriali…) si separarono per mesi: D’Albertis organizzò ricognizioni sui monti Arkaf mentre Beccari continuò le sue ricerche nella zona circostante.  

Sbollite le ire Odoardo dopo alcune settimane iniziò a preoccuparsi del silenzio di del suo compagno d’avventura e decise di andarlo a cercare. Lo ritrovò sperduto sui monti in uno stato pietoso: “Giallo per l’itterizia, magro e sfinito dalle febbri, appena poteva articolare qualche parola”.

Beccari con molte difficoltà riuscì ad organizzare il rientro in Italia di D’Albertis imbarcandolo ad Ambon sulla pirocorvetta Vittor Pisani impegnata in una circumnavigazione del globo e provvidenzialmente presente in quei mari.   Rimasto solo l’uomo non si perse d’animo e continuò le sue ricognizioni nell’arcipelago indonesiano sino al 1875 quando, grazie ai fondi forniti dal Comune di Genova su intervento di Doria, organizzò una seconda spedizione in Nuova Guinea. Una volta di più il coriaceo toscano s’inoltrò in un territorio difficilissimo sfidando un clima pesantissimo, malattie tropicali, pirati e comunità indigene spesso ostili quando non dedite al cannibalismo.

Il 12 marzo 1876, dopo quattro lunghi anni di lavoro e pericoli d’ogni sorta, Beccari decise finalmente di tornare a casa riempendo le casse con più di 700 esemplari di piante oltre a preziose collezioni zoologiche, etnologiche e mineralogiche e 200 crani papuani dei cacciatori di teste…

Nel giugno, al suo arrivo in Italia, Beccari – uomo alquanto introverso e riservato – scoprì d’essere divenuto una celebrità. Lo attendevano festeggiamenti, riconoscimenti ed onori compresa una medaglia dell’esclusiva Royal zoological society di Londra. La gloria, infine. Per lo schivo Odoardo troppo clamore. Dopo aver imbottigliato il vino della sua fattoria in Chianti, l’anno successivo preferì partire, insieme a Enrico D’Albertis, cugino di Luigi, un viaggio di studi in India, poi a Singapore, Australia, Tasmania, Nuova Zelanda e Sumatra dove scopre una pianta di straordinaria bellezza l’”Amorphophallus titanum”. Si tratta di una aracea gigantesca, con un’infiorescenza che raggiunge i due metri di altezza e tre di circonferenza. Un primato mondiale che suggellava la sua ultima campagna di ricerche: per Beccari il tempo delle sue esplorazioni era ormai concluso. 

Di nuovo a Firenze Beccari, nominato direttore dell’Orto botanico del Museo di storia naturale, decise di dedicarsi alla riorganizzazione dell’istituzione per trasformarla in un moderno centro studi internazionale. Un impegno maldigerito dal piccolo mondo accademico nostrano che poco gradiva la sua autorità scientifica e le sue visioni innovative. Insofferente delle gelosie e delle invidiuzze dei suoi modesti colleghi, nel 1880 preferì lasciare la direzione per dedicarsi alla sua rivista “Malesia” e scrivere le sue memorie intitolate “Nelle foreste di Borneo” significativamente dedicate alla famiglia Brooke. Il libro ebbe un successo di pubblico clamoroso: tradotto in più lingue è tutt’oggi ristampato in Malesia. Ritiratosi a vita privata nell’amato Chianti Odoardo si dedicò sino alla morte, avvenuta il 25 ottobre 1892, agli splendidi vigneti che portano orgogliosamente il suo nome.

Spirit discovery. Il rum che unisce storia, personalità e ideali. Chiara Buzzi su Linkiesta il 22 Dicembre 2022

Ci sono tanti modi per scegliere un distillato rispetto a un altro. Uno di questi riguarda le persone che vegliano alle sue spalle

Chi frequenta la bar industry a livello internazionale avrà sicuramente incrociato un uomo alto e prestante, quasi sempre sorridente e con un elegante cappello in testa. Se così è stato, potete dire di aver conosciuto – o almeno ritrovato sul vostro percorso – la figura di Ian Burrell. Da ex giocatore professionista di pallacanestro per la Gran Bretagna, ad una breve carriera da artista e musicista, fino ad arrivare ad essere un uomo del rum. Anzi, l’uomo del rum per eccellenza in quanto Ian è l’unica figura riconosciuta ufficialmente come Global Ambassador per la categoria rum. Ha diretto competition, tenuto lectures e masterclass, fatto il barman e provato cocktails pressoché in tutti i continenti. La sua passione per il distillato della canna da zucchero inizia più di venti anni fa: il suo lavoro, la sua passione ed entusiasmo sanno essere contagiosi tant’è che proprio a lui dobbiamo la nascita di numerosi rum festival worldwide. E dopo essere stato nominato nel 2020 come la decima persona più influente al mondo nel campo dei distillati, è arrivato anche il momento di avere una propria etichetta. Ecco quindi che da un amico di vecchia data come era sempre stato Luca Gargano -patron di Velier SpA –  nasce l’occasione di poter collaborare insieme per un prodotto, finalmente, che porta nel suo DNA tutto il know how di Burrell: Equiano. Insieme a Oliver Bartlam e Amanda Kakembo una nuova etichetta di rum afro-caraibico viene lanciata sul mercato prima estero e successivamente anche in Italia.

Un premium rum invecchiato, realizzato senza coloranti o aromi artificiali e – non sia mai – zucchero aggiunto.. Mettendo per un attimo la parte narrativa e andando a curiosare tra quelle che sono le specifiche tecniche di questo prodotto, è importante sottolineare che Equiano nasce da una collaborazione tra due delle più prestigiose distillerie oggi operative: Foursquare a Barbados e La Gray alle Mauritius. Il nome deriva da «Olaudah Equiano», un imprenditore diventato quasi un eroe (e non celebrato) che si battè per l’uguaglianza tra gli uomini e la libertà civile. Nato in Africa, viaggiò nei Caraibi e si stabilì nel Regno Unito dove divenne una figura di spicco nel movimento per la libertà e l’abolizione della schiavitù. Il prodotto viene fatto maturare in botti di quercia bianca americana precedentemente destinate al bourbon (quindi ex-bourbon) tanto alle Mauritius quanto ai Caraibi. Parliamo quindi di invecchiamento tropicale e di un angel share molto elevato. A meno che non siate degustatori seriali di rum, vi basti sapere che con questo termine viene indicata la percentuale di distillato persa evaporata, per motivi climatici appunto, dal distillato in maturazione. Una perdita che per la distilleria e il produttore si traduce da un lato in una riduzione quantitativa di prodotto finale destinato alla vendita e dall’altro in un aumento del valore (e quindi del prezzo) del distillato. Se economicamente questo aspetto è sempre difficile da affrontare a livello di modelli di business tuttavia, qualitativamente parlando, la maturità e la qualità di un invecchiamento ai tropici non ha eguali rispetto a quello continentale.

Alle Mauritius, dopo la distillazione della melassa, il liquido viene lasciato riposare per metà in botti di rovere francese del Limousin, nel centro sud della Francia, e per l’altra metà in botti di cognac. In seguito viene mandato da Foursquare alle Barbados per essere miscelato. Da tradizione, i rum di questa distilleria sono un blend di alambicco artigianale in rame e distillazione tradizionale a due colonne. Il pot still conferisce al rum una maggiore complessità e profondità, mentre l’alambicco a colonna permette al liquido finale di avere un equilibrio superiore sia nell’aroma che al palato.

Ian Burrel lavora ormai da due anni a questa parte a far conoscere questo prodotto nel mondo attraverso attività di diversa natura che portano, tra le altre attività, al sostentamento di associazioni e progetti volti alla promozione, libertà e uguaglianza civile. Proprio come avrebbe voluto Olaudah Equiano.

È vero che il cibo fritto fa male? Verità e consigli per l’uso. Gianpaolo Usai su L'Indipendente il 9 marzo 2023.

Per prima cosa verrebbe da dire che la cosa migliore da fare sia quella di non seguire i consigli dell’industria alimentare riguardo i tipi di olio da usare per la frittura dei cibi. Infatti al supermercato troviamo un reparto con dei prodotti appositamente etichettati come “ideale per frittura”, “olio per friggere” e così via. Questi sono proprio i peggiori oli che possiamo usare per friggere, e per cuocere del cibo in generale. Peggiori in assoluto riguardo la salvaguardia della nostra salute, beninteso, perché per altri aspetti, come ad esempio il gusto o l’odore, questi oli possono essere molto graditi a tanti consumatori. Per buona frittura intendiamo però una frittura sana e non nociva per l’organismo, mentre il gusto del cibo fritto è qualcosa di opinabile e soggettivo.

Molti consumatori amano il sapore delle fritture industriali da fast food, che si caratterizzano per un’elevata presenza di sostanze tossiche quali acrilammide e acroleina. Queste fritture non sono salutari ma al contempo danno un sapore caratteristico che è amato dal consumatore. Ma si tratta di un sapore che non ha nulla a che fare con la salubrità del cibo. Ciò che può sembrare buono di sapore non sempre è anche salutare, per esempio le patatine fritte e dorate sono buone ma insalubri, il pane bruciacchiato con la crosta scura può piacere a molti consumatori per il suo sapore caratteristico, ma contiene di fatto molta acrilammide, una sostanza cancerogena.

Si aggiungono aromi e additivi

Spesso questi oli per frittura proposti dall’industria contengono degli aromi aggiunti, per dare proprio quel sapore caratteristico e gradito al consumatore.

In ogni caso è bene sapere che qualsiasi olio di girasole – che non sia stato estratto a freddo – è un olio già poco salubre in partenza in quanto viene prodotto tramite estrazione ad alta temperatura e utilizzo di solventi chimici tossici come l’esano e l’eptano. L’estrazione e successiva deodorazione sono fasi che avvengono ad alta temperatura (dai 150°C dell’estrazione ai 230-260°C della deodorazione, trattamento di durata anche lunga fra i 30 e i 60 minuti fra l’altro) e comportano la degradazione e ossidazione dei grassi contenuti nell’olio, oltre alla perdita quasi totale delle sostanze antiossidanti come i tocoferoli. I grassi così ossidati sono dei veri nemici della nostra salute, in quanto una volta ossidati il nostro organismo non riesce più a trasformarli in sostanze benefiche per il nostro organismo.

È noto che i grassi ossidati creano dei danni a carico dell’apparato cardiovascolare, ad esempio appiccicandosi alle pareti dei vasi sanguigni e creando la cosiddetta placca che ostruisce il fluire del sangue e determina poi infarti o ictus. Questo discorso vale per tutti gli oli vegetali contenenti dei grassi ossidati, non soltanto per l’olio di girasole ma anche per olio di mais, di arachidi e di soia. Negli oli raffinati, cioè quelli trattati con i processi chimici soprascritti, succedono anche altri fenomeni chimici molto nocivi per la salute, infatti “Si generano molecole innaturali e distorte, fra le quali alcuni tipi di grassi trans (cioè grassi idrogenati) o di composti ciclici in cui la molecola di grasso reagisce con se stessa formando un anello, o ancora, dimeri e polimeri in cui gli acidi grassi si uniscono fra loro dando origine a qualcosa di simile alla plastica e molte altre varianti, tutte accomunate dall’essere dannose per la salute. Questi acidi grassi distorti, infatti, si inseriscono nelle membrane cellulari e alterano la comunicazione fra cellule, predisponendo l’organismo a malattie cardiovascolari, neurodegenerative e a tumori”, riferisce la dottoressa Debora Rasio, medico oncologo e nutrizionista, nel suo libro La dieta non dieta.

Infine alcuni oli consigliati per frittura dall’industria contengono anche un additivo, E 900, utilizzato come agente antischiuma, al fine di evitare che l’olio produca della schiuma eccessiva in cottura, compromettendo così la doratura del cibo. Si tratta comunque di un additivo alimentare da evitare, anche perché sono ancora in corso gli studi per definire la dose giornaliera accettabile per l’organismo (la soglia tossica cioè) da parte dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA). 

[L’additivo E900 è ancora oggetto di studi e analisi da parte dell’EFSA.]

L’olio migliore per friggere

A questo punto non rimane che spiegare quale sia il miglior olio per una frittura di qualità e sana. Questo olio è l’olio extravergine di oliva. Un mito da sfatare è che l’olio d’oliva vada utilizzato solo a crudo: niente di più sbagliato.

L’olio extravergine di oliva è ottenuto dalla spremitura meccanica di un frutto, l’oliva, senza trattamenti con calore o sostanze chimiche ed è pertanto ricchissimo di antiossidanti in grado di contrastare la formazione di sostanze pericolose nelle cotture ad alte temperature. Quando friggiamo con l’olio extravergine, esso raggiunge temperature comprese fra i 160 e i 190°C a seconda del tipo di alimento utilizzato, per la durata di pochi minuti. Temperature molto più basse di quelle utilizzate durante la raffinazione degli oli di semi come quello di girasole, e per tempi notevolmente inferiori. Non va dimenticato inoltre che nell’olio extravergine è presente un’abbondanza di antiossidanti (come la vitamina E i polifenoli) che proteggono dall’ossidazione sia l’olio che il nostro organismo. 

Il cibo fritto non fa male

La frittura può essere consumata una volta a settimana in tutta tranquillità, ma solo se è una frittura fatta in casa e sana come la abbiamo appena descritta. Le fritture della ristorazione collettiva (ristoranti, mense ecc.) realizzate con oli di semi cotti per diverse ore o giorni, vanno invece evitate. “Per chi soffre di problemi digestivi è meglio consumare il cibo fritto a pranzo, quando le capacità digestive sono al massimo. Le fritture più digeribili sono quelle a base di carne, come la cotoletta panata, e quelle vegetali come i fiori di zucca e i carciofi. Il pesce, specie se grasso come le alici, gamberi e calamari, è più impegnativo e non andrebbe proposto a chi soffre di gastrite o reflusso. Ovviamente nessuna indicazione può essere valida per tutti: la stragrande maggioranza di noi si giova dello stimolo della frittura, ma l’organismo di qualcuno può invece non essere in grado di sopportarne la sollecitazione. In tal caso, dopo ci si sentirà appesantiti e rallentati nelle capacità digestive; un segnale che quello sforzo alimentare non era appropriato per noi in quel momento”, sottolinea la dottoressa Debora Rasio nel libro La dieta non dieta. 

Per una frittura sana è tuttavia fondamentale seguire alcune regole pratiche di procedura: 

La scelta dell’olio stesso. Come abbiamo detto deve essere extravergine di oliva o al massimo un mix di extravergine e olio di oliva

Mantenere la giusta temperatura durante la cottura: l’olio non deve essere né tropo caldo (non deve fumare o si formerebbero sostanze tossiche come l’acroleina) né troppo poco caldo (non si formerebbe la crosta impermeabilizzante e l’alimento si impregnerebbe di olio, risultando pesante per la digestione)

Dimensione degli alimenti da friggere, i pezzi piccoli cuociono più velocemente e più rapida è la frittura meno sostanze tossiche si produrranno

Ciò che stiamo per friggere deve essere il più possibile asciutto. Dopo averlo impanato e infarinato, va scosso bene prima di immergerlo nell’olio bollente, in modo da eliminare l’eccesso di farina o pangrattato, che disperdendosi nell’olio ne accelererebbe la degradazione

Aggiungere il sale solo prima di servire in tavola per evitare di rovinare la formazione della crosticina

A frittura terminata, asciugare l’alimento su carta assorbente da cucina per un paio di minuti, in modo da eliminare l’olio in eccesso. [di Gianpaolo Usai]

Aqp, sull’acqua c’è la «tassa rifiuti». Il pasticcio dei fanghi di depurazione: viaggiano per l’Italia, costano 32 milioni l’anno MASSIMILIANO SCAGLIARINI su La Gazzetta del Mezzogiorno il 2 Aprile 2023

C’è una tassa rifiuti occulta che i cittadini pugliesi pagano nelle bollette dell’acqua. Sono i 32 milioni di euro spesi ogni anno per lo smaltimento delle 210mila tonnellate di fanghi prodotte ogni anno dagli impianti di depurazione delle acque reflue. Rifiuti che devono essere avviati al recupero (servono per produrre compost). Ma siccome in Puglia non ci sono impianti, il 90% dei fanghi finisce fuori regione (prevalentemente in Lombardia, Emilia e Sicilia), con ulteriori costi di trasporto stimati in 6 milioni di euro l’anno.

È una situazione che Acquedotto Pugliese è costretta a subire, da sempre. Ma gli appalti per la gestione di questo servizio procedono con grande fatica, fin da quando (2018) la società fu costretta ad annullare una procedura dove, su tre lotti, erano state presentate tre offerte identiche da altrettante aziende...

Acqua frizzante, è vero che gonfia e fa ingrassare? ALESSIA CALZOLARI su Il Corriere della Sera il 15 Marzo 2023

Spesso ci si chiede se le bollicine possono farci male. Ecco cosa dicono gli esperti

Di fake news a tema alimentare e dietetico ne esistono moltissime, ma forse la più grande è che l’acqua frizzante faccia ingrassare. Sveliamo subito il mistero: non è così. Potrebbe, in alcuni casi, provocare un leggero gonfiore addominale, ma è temporaneo e assolutamente innocuo. L’importante è bere acqua (e non altre bevande): la SINU, Società Italiana di Nutrizione Umana, consiglia almeno 2 litri al giorno per le donne e 2,5 litri per gli uomini.

Acqua frizzante: che cos’è

L’acqua frizzante è semplice acqua, sempre a zero calorie – ecco perché è impossibile faccia ingrassare -, arricchita di anidride carbonica o biossido di carbonio naturalmente o artificialmente. Esistono, infatti, delle sorgenti naturali, come la sorgente Uliveto a Vicopisano (PI). In questo caso si usa la dicitura acqua effervescente naturale.

Acqua gasata, gonfiore e aumento di peso

Come conferma anche la Fondazione Umberto Veronesi, non c’è nessuna differenza dal punto di vista nutrizionale tra un’acqua liscia e una gasata. Secondo una ricerca palestinese del 2017 (Eweis, D. S., Abed, F., & Stiban, J., Carbon dioxide in carbonated beverages induces ghrelin release and increased food consumption in male rats: implications on the onset of obesity) sembrerebbe però che l’anidride carbonica contenuta nell’acqua frizzante stimoli l’ormone dell’appetito, la grelina. Chi consuma acqua frizzante potrebbe, quindi, avere più fame. È, invece, vero che le bollicine possono provocare un leggero gonfiore addominale, legato proprio all’anidride carbonica. Questo sintomo potrebbe essere particolarmente marcato se la quantità di gas aggiunta all’acqua è elevata o in soggetti che soffrono di disturbi al sistema gastrointestinale. Ma niente paura, è assolutamente temporaneo.

Pfas, il veleno nell’acqua e nel sangue. Ma i controlli sono una beffa che discrimina i cittadini. Silvia Perdichizzi, foto di Stefano Schirato su L’Espresso il 28 Febbraio 2023.

L’azienda Miteni per anni ha prodotto queste sostanze chimiche tossiche, che hanno contaminato la seconda falda più grande d’Europa. E che minacciano la salute di 350 mila cittadini tra Verona, Vicenza e Padova. Mentre analisi e precauzioni si fermano alla “zona rossa”

Cinquecentoventidue. Un numero che Antonietta non dimenticherà. È il carico di nanogrammi di sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) presenti nel sangue di suo figlio. Una cifra che supera di 75 volte il limite di tolleranza stabilito dall’Istituto superiore di Sanità. Ottanta sono invece gli euro che Elisabetta spenderebbe se potesse fare le analisi del sangue, a cui non ha diritto perché vive nella zona arancione.

Siamo nel Veneto della Miteni, azienda che per anni ha prodotto Pfas — sostanze chimiche persistenti, talmente pericolose che l’Europa ha deciso di chiederne la messa al bando — e che di fatto ha inquinato la seconda falda acquifera più grande d’Europa. Con conseguenze disastrose per quasi 350 mila abitanti, tanto che la Regione nel 2017 è costretta ad adottare un Piano straordinario di emergenza.

Il territorio tra Verona, Vicenza e Padova viene suddiviso in tre aree in base al rischio sanitario: area rossa, dove sono contaminate sia l’acqua potabile sia le falde acquifere e i fiumi; area arancione, in cui gli acquedotti hanno un livello d’inquinamento inferiore. E gialla, definita per lo più area di osservazione. Vengono posizionati dei filtri a carbone e si predispone la decontaminazione delle fonti di approvvigionamento idrico per la zona rossa, i cui abitanti vengono sottoposti a continue analisi del sangue.

Per il resto nulla. Nessun intervento sulle falde, con la cui acqua si irrigano i campi, sui fiumi, sul suolo, sull’aria. Ci si ferma ai “rubinetti” con risultati scarsissimi, che si sommano ai ritardi di una burocrazia elefantiaca tutta italiana. Per cui oggi Antonietta aspetta ancora l’allaccio all’acquedotto pulito ed Elisabetta prova a fare un test dopo che un istituto tedesco ha riscontrato nel sangue di suo figlio livelli di sostanze perfluoroalchiliche uguali a quelli dei bambini della zona rossa.

Una storia così scandalosa da far scendere in campo le Nazioni Unite che, per bocca di Marcos Orellana, relatore speciale su sostanze tossiche e diritti umani, ha manifestato dalle pagine de L’Espresso «preoccupazione per i cittadini del Veneto». Con conclusioni gravi verso la Miteni e per nulla generose nei confronti delle istituzioni, presentate in sede Onu lo scorso settembre.

LA ZONA ROSSA: ANTONIETTA

Via Lore è una strada stretta che per chilometri costeggia Lonigo, provincia di Vicenza, cuore della zona rossa. L’ultimo tombino che collegherebbe l’acquedotto pulito alla casa di Antonietta dista soltanto 200 metri. «Duecento maledetti metri per cui aspettiamo dal 2014», racconta esasperata.

L’anno prima il Consiglio nazionale delle Ricerche aveva trovato nel pozzo della cittadina più di mille nanogrammi per litro di Pfoa — uno dei composti più noti di Pfas — quando l’Iss fissa a 500 il limite tollerabile per l’acqua e a otto per il sangue. Le sostanze perfluoroalchiliche, infatti, possono causare problemi alla tiroide e al sistema riproduttivo, tumori ai reni e ai testicoli. «Il sindaco di allora decide di chiudere il pozzo e costruire cinque fontanelle pubbliche in attesa di cambiare fonte di approvvigionamento. In realtà, mesi dopo vengono messi filtri utili a ripulire l’acqua e veniamo invitati a bere di nuovo dal rubinetto», continua Antonietta.

Ma i cittadini non si fidano e acquistano per anni bancali di acqua in bottiglia. Nel frattempo l’Asl analizza nuovamente l’acqua del pozzo di una delle famiglie di via Lore e i risultati non si discostano di molto da quelli del Cnr. «Ci arriva una comunicazione in cui si vieta l’uso del pozzo e ci viene consigliato di prendere l’acqua alle fontanelle e di allacciarci all’acquedotto decontaminato pagando di tasca nostra. Lo avremmo fatto. Se non fosse che l’allacciamento è un lavoro pubblico da far fare obbligatoriamente dalla società idrica».

Una beffa che protrae l’attesa di Antonietta tra scartoffie amministrative e carte bollate. E che diventa dramma di fronte ai primi risultati dello screening sanitario di Yuri, suo figlio, che presenta un livello di Pfoa nel sangue di 522 nanogrammi. «Cinquecetoventidue», ripete Antonietta. Le cose non vanno meglio per lei, che nel 2019 scopre di superare il limite fissato dall’Iss di 40 volte con un possibile danno ai reni, e per la sorella, reduce da un tumore al seno, i cui livelli toccano i 1.090 nanogrammi.

Siamo nel 2021. Via Lore viene inserita finalmente nel piano degli allacciamenti 2022-2023, ma le sostanze perfluoroalchiliche nel sangue di Yuri continuano ad aumentare, nonostante il ragazzo beva solo acqua pulita e faccia una vita sana. Com’è possibile? «Era altamente probabile che ciò accadesse», dice Giuseppe Ungherese, responsabile Campagna Inquinamento di Greenpeace: «Non si possono lasciare migliaia di cittadini soli in una zona altamente inquinata da Pfas come il Veneto, pensando che il problema sia solo l’acqua potabile. A oggi non esiste un quadro chiaro sulla contaminazione dei prodotti di origine animale e vegetale provenienti dalle zone inquinate».

L’associazione ambientalista decide quindi di far analizzare gli ortaggi coltivati nell’orto di Antonietta, l’acqua del suo pozzo e il suo terreno. «I risultati dimostrano come la contaminazione ambientale sia diffusa e storica», spiega Sara Valsecchi, ricercatrice del Cnr secondo cui le famiglie sono esposte continuamente a Pfas. Dall’acqua con cui irrigano al cibo che coltivano, fino al suolo che calpestano. Ed è per questo motivo che a tremare sono anche gli abitanti della zona arancione.

LA ZONA ARANCIONE: ELISABETTA

Ripete fino all’ossessione quella cifra: ottanta euro, il costo di un esame del sangue che potrebbe salvarle la vita, ma che in Italia non è previsto nemmeno a pagamento. Elisabetta vive nella terra di mezzo, quella in cui l’acquedotto è relativamente pulito – motivo per cui il Piano straordinario della Regione non prevede screening sanitari per la popolazione – ma non lo è l’ambiente circostante.

«Vivo qui e mi nutro con i prodotti dell’orto da quando sono nata. Da sei anni irrigo i campi con l’acqua piovana e non uso più quella del pozzo dove è stato trovato un livello di Pfoa di 18 mila nanogrammi al litro. Eppure non ho accesso alla sanità». Un accesso dovuto di fronte a una certezza scientifica: le sostanze perfluoroalchiliche sono mobili e si bioaccumulano. Ogni animale carnivoro, uomo compreso, accumula Pfas nel corso della sua vita dall’aria, dall’acqua e dal cibo a sua volta contaminato in un girone infernale. E non può permettersi il “lusso” di un’esposizione ulteriore.

Ma da quando è esploso il caso Miteni nessuno sa con esattezza dove siano queste sostanze perché l’unico parametro preso in considerazione è quello dell’acqua potabile. E gli abitanti della zona arancione sono abbandonati a loro stessi.

La scorsa estate una tv tedesca — che indaga sull’inquinamento da Pfas nel mondo — ha sottoposto il figlio di Elisabetta a un’analisi del sangue da cui è emerso che i suoi valori sono uguali a quelli di alcuni coetanei della zona rossa. La contaminazione sarebbe avvenuta per allattamento. «Ho presentato subito questi dati alla Regione, che solo adesso ha reso pubblica una delibera del 30 dicembre scorso, la quale estende anche a noi la possibilità di fare le analisi, ma con una procedura talmente farraginosa che sarebbe più facile vincere all’Enalotto. Una burla dopo anni di lotte estenuanti».

Sarebbe stato diverso se il Piano d’emergenza avesse introdotto un limite ai Pfas anche per l’acqua irrigua. «Perché non è stato fatto? La risposta è semplice: avrebbe messo al tappeto l’economia di un’intera Regione prevalentemente agricola. Meglio tenerci “nascosti” in nome del mercato del radicchio trevigano». Elisabetta, intanto, continua a fare da sola. E il suo giardino è diventato un laboratorio dell’Università di Padova, che sta analizzando suolo, prodotti alimentari, erba.

La guerriglia dell'acqua Imago. Linda Di Benedetto su Panorama il 28 Febbraio 2023

Un attacco hacker ai sistemi di ACEA svela che i sistemi informatici delle reti idriche italiane sono obiettivi sensibili. Secondo Anna Vaccareli del Cnr con qualche problema di sicurezza

Non bastava l’allarme siccità a destare preoccupazione nella popolazione perché l’approvvigionamento dell’acqua non dipende solo da cause naturali ma anche dai sistemi informatici che gestiscono il servizio idrico. Le società che distribuiscono l’acqua in Italia oggi più che mai sono obiettivi sensibili. È questo quello emerge dopo gli attacchi hacker da parte di gruppi russi che hanno mandato in tilt il sistema che gestisce acqua ed infrastrutture. Le vulnerabilità dei sistemi informatici utilizzati dai grandi gestori possono mettere a rischio la sicurezza nazionale di milioni di persone e a finire nel mirino degli hacker insieme ad una lunga lista di enti ed aziende è stata ACEA S.p.A. che è il primo operatore nel settore idrico in Italia con 9 milioni di abitanti serviti. Le sue attività si concentrano principalmente nel Lazio, in Campania, in Molise, in Toscana e in Umbria. Oltre a gestire il servizio idrico integrato di Roma e Frosinone, opera in altre aree del come Toscana, Umbria, Campania e Abruzzo. Acea ha inoltre una parte societaria francese con il socio di maggioranza Suez. A descrivere a Panorama.it la vulnerabilità dei sistemi informatici è Anna Vaccarelli, dirigente tecnologo dell’Istituto di informatica e telematica del Cnr (Cnr-Iit) di Pisa

Cosa comportano questi attacchi?

«Attacchi di questo genere nell’immediatezza non fanno vittime ma bloccano servizi essenziali con danni concreti alla popolazione. Gli hacker in pratica possono bloccare quello che vogliono prendendo possesso del sistema, cifrando i codici per poi renderli inaccessibili, come nel caso della Regione Lazio dove sono riusciti a far saltare tutte le visite e gli accessi in pronto soccorso».

Sono frequenti?

«Le statistiche rivelano che c’è un aumento di queste attacchi anche solo dimostrativi da gruppi filorussi per le posizioni prese dall’Italia rispetto alla guerra Ucraina. Questo non significa che sia in atto una cyber war perché questo significherebbe l’inizio della Terza Guerra Mondiale, piuttosto sono piccole “guerriglie” che però possono creare seri danni alle infrastrutture, oggi più che mai obiettivi sensibili».

Che ne pensa dell’attacco ad ACEA?

«ACEA non so di quanto personale attivo disponga per risolvere questi problemi ma non avevano nemmeno accesso alla procedura di recupero. In più quello che colpisce è che sia stata attaccata da un virus ransomware il che comporta la richiesta di un riscatto e questo fa pensare ad un gruppo che si deve autofinanziare. L’ACEA ci ha messo qualche giorno a ripristinare il sistema, infatti dal 2 febbraio al 5 febbraio ancora non avevano risolto anche se affermavano il contrario. Hanno avuto il supporto dell’Agenzia Nazionale per la cybersicurezza e della polizia postale che coordina le attività per le infrastrutture di tipo governativo. L’Anc infatti fa delle ispezioni sul perimetro nazionale per controllare che vengano presidiati correttamente gli enti e le società soprattutto in questo periodo storico».

Possiamo fermarli?

«È un rincorrersi tra hacker e sistemi informatici aggiornati, ciascuno alza l’asticella. Per fermare gli attacchi aiuterebbe adottare una politica più accurata e avanzata. Ad esempio l’Anc (Agenzia Nazionale Cybersicurezza) aveva segnalato una vulnerabilità dei sistemi informatici nota da due anni, che riguardava aziende pubbliche e private chiedendo di porre rimedio ma non tutti lo hanno fatto. Quindi bisognerebbe che enti e società che utilizzano sistemi informatici abbiano la cultura di mantenerli, ma non sempre accade. Anzi nella pubblica amministrazione spesso vengono utilizzati strumenti obsoleti e personale non formato».

Si possono prevenire?

«La prevenzione consiste nel mettere in campo delle contro misure adeguate. Esistono criteri per verificare l’accesso delle persone ai pc, per controllare chi accede alla tua rete con i sistemi di autenticità dual factor dove ci si identifica anche tramite telefono. Ci deve essere una strategia non bisogna lasciare aperte tutte le porte della rete ma va adottato un piano di sicurezza con la valutazione dei rischi». ©Riproduzione Riservata

I veleni dell’acqua. Una sentenza storica. Ivano Tolettini su L’Identità il 28 Febbraio 2023

C’è bisogno della gara pubblica per rinnovare le concessioni idriche per produrre l’energia elettrica. La Cassazione è tombale. Un punto fermo nel braccio di ferro tra la Regione Abruzzo e il Comune di Bussi sul Tirino da una parte, e il gruppo della chimica di base Todisco dall’altra. A prevalere è l’interesse pubblico. La sentenza ha ricadute non solo locali, ma in tutta Italia, perché stabilisce il principio che non esiste la proroga tacita delle concessioni dell’acqua a scopi idroelettrici. E nella partita potrebbero entrare a pieno titolo anche i Comuni. L’importante concessione per lo sfruttamento dell’acqua a fini idroelettrici, che consente di avere l’energia elettrica per scopi industriali a un prezzo inferiore rispetto a quello di mercato con un evidente vantaggio competitivo, quando scade non può essere tacitamente rinnovata. Lo stabilisce la Cassazione civile a Sezioni Unite che respinge la richiesta della Società Chimica Bussi (Scb) spa dopo una battaglia legale durata alcuni anni. Un brutto colpo per l’azienda controllata da Gestioni Industriali spa, che fa parte del gruppo Todisco, ed è amministrata da Domenico Greco, che chiedeva l’annullamento della sentenza del Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche del 17 dicembre 2019.

IL VERDETTO

La sentenza depositata nei giorni scorsi è di rilievo pubblico perché la Regione il 14 gennaio 2019 aveva respinto la domanda della Scb spa che aveva chiesto di completare il procedimento che era stato addirittura instaurato ancora nel lontano 1997 dalla cosiddetta “dante causa” Ausimont, che all’epoca gestiva il sito chimico di Bussi sul Tirino, prima ancora che entrasse in azione la Solvay, che nel 2016 lo aveva venduto al gruppo Todisco, al fine di vedersi prorogata “la concessione di grande derivazione ai fini idroelettrici denominata Tirino Medio” di 30 anni. Se questo fosse avvenuto per l’azienda che fattura una ottantina di milioni di euro ed è guidata dal dott. Greco, fino al 31 ottobre 2049 ci sarebbe stato un consistente risparmio economico. Per i supremi giudici, dunque, quanto stabilito dal Tribunale superiore delle Acque Pubbliche è corretto. Vale a dire che l’autoproduzione prevede la necessità di una “proroga espressa” della concessione, non essendo legittima, perché di questo si stabiliva, la “proroga tacita” come invece sosteneva l’azienda privata. La Scb spa è proprietaria degli impianti del cloro-soda e del clorito, e per l’approvvigionamento di una parte rilevante dell’energia elettrica si avvale della concessione idroelettrica di derivazione Tirino Medio rilasciata, come scrive la Cassazione, in base ad antichi titoli che nel tempo sono stati prorogati fino al 31 ottobre 1982.

LA CONVENZIONE

Nel 1987 Ausimont spa e l’Enel firmarono la convenzione per regolare i rispettivi rapporti e ammodernare la centrale elettrica di Bussi. In quella sede Enel propose ai ministeri dei Lavori Pubblici e dell’Industria la proroga della concessione ad Ausimont fino al 31 ottobre 2019. E il 9 settembre 1997 Ausimont presentò l’istanza ai due ministeri interessati per variare la concessione fino a fine ottobre 2019. Tuttavia, la domanda non venne riscontrata dai ministeri in questione né dalla Regione Abruzzo, la quale con legge del 1998 subentrò per il trasferimento delle competenze amministrative sulla gestione del demanio idrico e sulle concessioni di derivazione idrica.

SOLVAY

Tra il settembre 2009 e l’aprile 2010 Solvay, che era subentrata all’inizio degli anni Duemila ad Ausimont nella gestione del ciclo del cloro-soda nell’impianto di Bussi, chiese ancora alla Regione la proroga della concessione in ossequio alla legge 529 del 1982. E quindi la Scb spa di Todisco e Greco, subentrata alla Solvay Chimica Bussi, rinnovò la richiesta di proroga della concessione il 12 aprile 2018. Tra l’altro, dal 2014 la Regione aveva richiesto alla Solvay il pagamento di un canone aggiuntivo perché la concessione era molto vantaggiosa per il privato. Basti dire che in sede di Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse al ciclo dei rifiuti, il 9 maggio 2017 emerse che l’energia elettrica a Bussi aveva un costo di 5 volte inferiore ai valori di mercato. E nell’ultimo anno questo vantaggio è aumentato. Si comprende perché Scb spa, che ha avuto un finanziamento pubblico di 15 milioni per la costruzione dell’impianto del clorito, spingesse per il rinnovo. Tuttavia, il Tribunale Superiore delle Acque Pubbliche aveva stabilito “la decadenza della ricorrente Scb spa dalla facoltà di agire per far dichiarare il silenzio-inadempimento della Regione sull’istanza di concessione” prevista dalla legge del 1982.

QUATTRO MOTIVI

La Cassazione ha respinto i quattro motivi del ricorso presentato dalla Società Chimica Bussi riaffermando che “non è configurabile una proroga tacita”, come la corte di legittimità si era già espressa nel 2020. Dunque, ancora Ausimont, dante causa di Scb spa, non poteva vantare alcun diritto alla proroga della concessione scaduta ancora nel 1982. Non solo, è stato respinto anche il presunto vizio di legittimità costituzionale sollevato nel ricorso dai legali del gruppo Todisco perché “privo di rilevanza”. Di conseguenza Scb spa è stata condannata al pagamento delle spese legali in favore della Regione. Ma quel che più conta per Pescara è che la concessione deve adesso andare all’asta. “Noi ci saremo”, ha sostenuto di recente sul punto il sindaco di Bussi, Salvatore Lagatta.

L’ORO BIANCO. Angelo Vitolo su L’Identità l’8 Febbraio 2023

“Di acqua ce n’è sempre di meno e quindi diventa un fattore di tipo infrastrutturale su cui dobbiamo impegnarci moltissimo”. Le parole del ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti richiamano un suo storico impegno, che conferma aggiungendo che “un grande piano di infrastrutturazione diventa fondamentale, perché il tempo passa e dobbiamo essere pronti con gli invasi non solo per l’agricoltura ma anche per la produzione di energia idroelettrica. Il tema dell’acqua deve diventare di rilevanza strategica come quello dell’energia”. L’idroelettrico è un pallino del ministro lombardo da quando nel 2019, da sottosegretario, guardava alla forza di un “oro bianco” da promuovere e valorizzare, già allora dicendo: “Tutto funziona finché l’oro bianco c’è”. Il climate change da tempo aveva cominciato a rallentare la portata dei ghiacciai e affermava la tendenza al calo della portata di fiumi e laghi in Italia.

Una tendenza divenuta l’anno scorso ennesima tappa di una ricorrente siccità per il nostro Paese. E, con l’emergenza che ne derivò, richiamo tutti a “fare presto”. Presto, invece, non si è fatto, nonostante almeno dal 2017 fosse “tutto pronto”, come conferma a L’Identità Massimo Gargano, direttore generale dell’Anbi, l’associazione che riunisce i Consorzi di gestione e tutela del territorio e delle acque irrigue che con Coldiretti aveva pianificato un Piano Invasi poi rimodulato in Piano Laghetti. “Da questa maggioranza di governo e anche da altri partiti presenti in Parlamento – dice Gargano – abbiamo avuto grande attenzione fin dalla campagna elettorale. Da allora, è vero, non si è mossa foglia come non si era mossa fin dall’emergenza siccità della scorsa estate con il precedente governo, ma sarei ingeneroso se parlassi di un disinteresse. Voglio ribadire che questo è il tempo perché il nostro Paese si doti di infrastrutture leggere, senza cemento, non invasive nei confronti delle situazioni ambientali e di comunità ove è necessario intervenire, per dare il via a bacini piccoli e medi operando specialmente nelle aree basse e alte collinari dell’Italia”.

Il Piano è pronto: 223 piccoli e medi invasi, con una capacità di oltre 652 milioni di metri cubi, con risorse da individuare nel Fondo Sviluppo e Coesione. “Perché il Pnrr – precisa Gargano – per questi nuovi interventi non è utile, applicandosi solo all’ammodernamento delle reti, cosa che sulla quale stiamo già operando efficacemente da mesi”. E allora? “Il nostro principale interlocutore per un Piano che vediamo indispensabile e improcrastinabile – aggiunge – è il ministro Fitto. Siamo fiduciosi che finalmente si dia luogo, sull’esempio del bacino già operativo nel Bresciano, a piccoli e medi interventi, con la possibilità anche di “salti” utili a generare l’idroelettrico, o ad allocare, come è possibile, impianti del fotovoltaico sul 30% di questi invasi nuovi o ospitati nelle tante vecchie cave del nostro Paese, per le rinnovabili”.

Prioritario trattenere la più ampia parte delle precipitazioni. Oggi ne disperdiamo l’89%: “Il modello è la Spagna, arrivata al 30%. Dalle vostre pagine voglio anche rilanciare un appello affinché l’Italia passi dalla cultura dell’emergenza a quella della prevenzione. Che significa manutenzione del territorio e interventi leggeri e sostenibili come quelli che proponiamo. Ove la terra che scaveremo sarà riutilizzata per gli argini. Per restituire ai nostri fiumi la conformazione necessaria per evitare esondazioni”.

Acqua, quanto è buona quella del rubinetto? Continuano a crescere i consumatori di acqua non imbottigliata. Ecco che cosa beviamo. Guido De Duccis su Il Giornale il 10 Gennaio 2023

Ci siamo soffermati sulle acque minerali in bottiglia. Ma naturalmente esiste un'alternativa: l'acqua del rubinetto o, come si dice, “del sindaco”. Scopriremo tra poco se rappresenta una soluzione altrettanto efficace o addirittura migliore.

Ma che ne pensano gli italiani? Agli inizi degli anni 2000 circa il 60% della popolazione faceva uso dell'acqua “domestica”. Percentuale che è poi aumentata di circa sette punti alla fine del primo decennio. Ora il trend si presenta in lenta ma costante ascesa.

L'acqua immessa in una rete idrica è un'acqua opportunamente trattata per essere resa potabile. Svariati sono gli interventi che può subire, a seconda del grado di contaminazione originario.

Come l'acqua è resa potabile

In sintesi, il trattamento standard prevede una serie di passaggi: una preossidazione-disinfezione con ozono o composti del cloro per eliminare i batteri nocivi; una coagulazione-flocculazione, in grado appunto di far coagulare anche le particelle più fini in sospensione che vengono così rimosse; due filtrazioni, una su sabbia e una su carbone attivo granulare per rimuovere i composti organici residui e, infine, una disinfezione con un composto del cloro tale da mantenere un'adeguata percentuale di cloro residuo nelle condotte di distribuzione.

Tutto facile, dunque? Non esattamente. Il processo di potabilizzazione non pare esente da conseguenze: dall'interazione tra la sostanza disinfettante e la materia organica normalmente presente nell'acqua possono derivare sottoprodotti indesiderabili. In particolare, utilizzando come disinfettanti i composti del cloro si sviluppano numerose sostanze chimiche i cui soli nomi sono sufficienti a suscitare apprensione: si tratta di trialometani come il cloroformio e il bromoformio e di una famiglia di acidi, gli acidi aloacetici, per i quali non è ancora stato stabilito un valore di soglia a tutela della salute dei consumatori.

Ci sarebbe l'ozono, come abbiamo scritto prima. È un ottimo disinfettante e non dà origine ai suddetti sottoprodotti, ma può interagire con il bromuro presente nell'acqua originando lo ione bromato, sospetto cancerogeno. A questo elenco, necessariamente parziale di residui del trattamento di potabilizzazione, vanno aggiunti altri inquinanti di origine antropica, che, penetrando nel terreno, possono arrivare a contaminare le falde e che, in certi casi, possono sopravvivere ai processi di filtrazione.

La normativa in vigore, sufficientemente restrittiva e cautelativa per la salute, e i numerosi controlli effettuati nei laboratori di analisi, garantiscono che le acque di rete siano sufficientemente salutari e buone da bere. In più, a differenza delle acque minerali per le quali non sono previste soglie restrittive, sulle acque di rete è monitorata anche la radioattività, sondando la presenza di trizio e misurando la dose totale indicativa su base annua. Non solo:le acque minerali confezionate in bottiglia di plastica possono rimanere per mesi e mesi a contatto con sostanze chimiche riconosciute come disturbatori endocrini (ad esempio il Bisfenolo A).

Ai punti sembrerebbe facile assegnare la palma della maggiore sicurezza proprio all'acqua del sindaco, dunque. Ma ci sembra doveroso precisare un ultimo punto che forse pochi conoscono.

I gestori di acque pubbliche assicurano la potabilità dell'acqua solo fino al contatore, non al punto d'uso, cioè al rubinetto di casa. Se le tubazioni condominiali e domestiche sono vecchie, o se l'acqua staziona in vasche di raccolta poco pulite, è possibile che sgorghi dal rubinetto torbida o colorata, che sia contaminata da batteri, o che contenga un tasso maggiore di metalli pesanti, presentando al naso e al palato un odore e un sapore sgradevoli. Questo è uno dei motivi per cui si stanno diffondendo a macchia d'olio gli impianti domestici per affinare l'acqua; ne esistono di tutti i tipi e per tutte le tasche, ma quello che si sta imponendo come più popolare è senz'altro la caraffa filtrante.

Prima di raccogliersi nella caraffa, l'acqua del rubinetto passa attraverso una capsula filtrante multistrato. Senza soffermarci sulle varie fasi del filtraggio, ci limitiamo a ricordare che, senza alterare il residuo fisso, il filtraggio modifica la composizione quantitativa dei sali disciolti, diminuendo la durezza dell'acqua dovuta esclusivamente a calcio e magnesio, responsabili degli eventuali depositi calcarei. Vi è poi un filtro ulteriore a carbone attivo, che elimina sapori e odori sgradevoli connessi al trattamento con il cloro e rimuove alcuni microinquinanti chimici, a cui è aggiunta una percentuale di sali d'argento con proprietà antibatteriche. Infine, due ulteriori reti di contenimento hanno il compito di evitare il rilascio in acqua delle particelle di carbone.

Ma è davvero opportuno utilizzare questo strumento?

Sicuramente l'acqua esce migliorata per quel che riguarda il contenuto di piombo, cloro, zinco e alcuni pesticidi, ma il filtro è inefficace per la riduzione dei nitrati, di cui abbondano le acque di falda delle zone di pianura sfruttate per l'allevamento e l'agricoltura. Inoltre, se la capsula non viene periodicamente pulita e sostituita al termine del suo ciclo di vita, può addirittura peggiorare la qualità dell'acqua perchè, dopo un periodo di ristagno, può diventare luogo di coltura di una prolifica flora batterica.

In definitiva, nel “derby” delle acque è difficile trovare, a tutt'oggi, un vincitore sicuro...