Denuncio al mondo ed ai posteri con
i miei libri
tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le
mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non
essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o
di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio
diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli
editori che ormai nessuno più legge.
Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.
I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.
Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."
L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.
L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.
Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.
Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).
Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.
Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro.
Dr Antonio Giangrande
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ANNO 2023
IL GOVERNO
TERZA PARTE
DI ANTONIO GIANGRANDE
L’APOTEOSI
DI UN POPOLO DIFETTATO
Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2023, consequenziale a quello del 2022. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.
Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.
IL GOVERNO
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.
LA SOLITA ITALIOPOLI.
SOLITA LADRONIA.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.
SOLITA APPALTOPOLI.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.
SOLITO SPRECOPOLI.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’AMMINISTRAZIONE
SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.
SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.
IL COGLIONAVIRUS.
SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.
L’ACCOGLIENZA
SOLITA ITALIA RAZZISTA.
SOLITI PROFUGHI E FOIBE.
SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.
GLI STATISTI
IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.
IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.
SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.
SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.
IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.
I PARTITI
SOLITI 5 STELLE… CADENTI.
SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.
SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.
IL SOLITO AMICO TERRORISTA.
1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.
LA GIUSTIZIA
SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.
LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.
LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.
SOLITO DELITTO DI PERUGIA.
SOLITA ABUSOPOLI.
SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.
SOLITA GIUSTIZIOPOLI.
SOLITA MANETTOPOLI.
SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.
I SOLITI MISTERI ITALIANI.
BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.
LA MAFIOSITA’
SOLITA MAFIOPOLI.
SOLITE MAFIE IN ITALIA.
SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.
SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.
SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.
LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.
SOLITA CASTOPOLI.
LA SOLITA MASSONERIOPOLI.
CONTRO TUTTE LE MAFIE.
LA CULTURA ED I MEDIA
LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.
SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.
SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.
SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.
SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.
LO SPETTACOLO E LO SPORT
SOLITO SPETTACOLOPOLI.
SOLITO SANREMO.
SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.
LA SOCIETA’
GLI ANNIVERSARI DEL 2019.
I MORTI FAMOSI.
ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.
MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?
L’AMBIENTE
LA SOLITA AGROFRODOPOLI.
SOLITO ANIMALOPOLI.
IL SOLITO TERREMOTO E…
IL SOLITO AMBIENTOPOLI.
IL TERRITORIO
SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.
SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.
SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.
SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.
SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.
SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.
SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.
SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.
SOLITA SIENA.
SOLITA SARDEGNA.
SOLITE MARCHE.
SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.
SOLITA ROMA ED IL LAZIO.
SOLITO ABRUZZO.
SOLITO MOLISE.
SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.
SOLITA BARI.
SOLITA FOGGIA.
SOLITA TARANTO.
SOLITA BRINDISI.
SOLITA LECCE.
SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.
SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.
SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.
LE RELIGIONI
SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.
FEMMINE E LGBTI
SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.
IL GOVERNO
INDICE PRIMA PARTE
UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.
LA POVERTA’
UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.
PRESENTAZIONE DELL’AUTORE. (Ho scritto un saggio dedicato)
LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Storia d’Italia.
INDICE SECONDA PARTE
LA SOLITA ITALIOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
L’Italianità.
Gli Antifascisti.
Italiani scommettitori.
Italioti Retrogradi.
Gli Arraffoni.
INDICE TERZA PARTE
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Italioti corrotti e corruttori.
Tangentopoli Italiana.
Tangentopoli Europea.
SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Geopolitica.
Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.
Il Capitalismo.
Il Sovranismo.
Il Riformismo.
I Liberali.
L’Opinionismo.
Il Populismo.
Il Complottismo.
Politica e magistratura, uno scontro lungo 30 anni.
Una Costituzione Catto-Comunista.
Democrazia: La Dittatura delle minoranze.
Democrazia: Il potere oscuro ed occulto. I Burocrati. Il Partito dello Stato: Deep State e Spoils system.
Il Presidenzialismo.
L’astensionismo.
I Brogli.
Quelli che…la Prima Repubblica.
Quelli che…la Seconda Repubblica.
Trasformisti e Voltagabbana.
Le Commissioni Parlamentari.
La Credibilità.
I Sondaggisti.
Il finanziamento pubblico.
I redditi dei politici.
I Privilegiati.
I Portavoce.
Servi di…
Un Popolo di Spie.
INDICE QUINTA PARTE
SOLITA APPALTOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
La Resistenza Morale.
SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Impuniti.
Ignoranti e Magistrati.
ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Ignoranti ed avvocati.
SOLITO SPRECOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)
Le Auto: blu e grigie.
Le Regioni.
L’Alitalia.
SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.
L’Oro.
La Ricchezza.
I Ricconi alle nostre spalle.
I Bonus.
La Partita Iva.
Quelli che…Evasori Fiscali: Il Pizzo di Stato.
Il POS.
Il Patto di Stabilità.
Il MES.
Il PNRR.
Il ricatto del gas.
La Telefonia.
Bancopoli.
Sommario
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
Italioti corrotti e corruttori.
Il primo atto di Tangentopoli.
Tangentopoli fu un colpo di Stato.
IL GOVERNO
TERZA PARTE
SOLITA LADRONIA. (Ho scritto un saggio dedicato)
· Italioti corrotti e corruttori.
I controllori.
Il primo atto di Tangentopoli.
Estratto dell’articolo di Federica Pozzi per "Il Messaggero" il 29 Marzo 2023
Si scambiavano i badge, anche se non erano in servizio, per maturare il diritto all'indennità speciale. Peccato che i tre "furbetti" del cartellino, finiti a processo per truffa davanti al Tribunale di Roma, lavoravano proprio alla Corte dei conti, dove si perseguono i dipendenti pubblici accusati di danno erariale.
Sembra un paradosso in termini. Gli imputati, infatti, hanno avuto l'ardire di realizzare il raggiro proprio nel palazzo di giustizia contabile che si trova a Roma, nel quartiere Prati. E ora, oltre al procedimento penale, rischiano di finire imputati nelle aule dell'edificio nel quale lavoravano per rispondere del danno arrecato all'amministrazione.
A processo per il presunto raggiro è finito Fabio Zambelli, 62 anni, funzionario della Corte dei conti e fratello di Gianfranco Zambelli, ex consigliere regionale del Lazio in quota Pd e tra gli organizzatori della "lista Rocca".
Insieme a Zambelli, sono stati "pizzicati" Antonella Pizzella, 58 anni, collaboratore amministrativo della Corte dei conti, e Maurizio Vaccaro, 69 anni, impiegato e tesoriere di un'organizzazione sindacale interna al palazzo di via Baiamonti. […]
Nello specifico, tra marzo e aprile del 2018, Fabio Zambelli aveva utilizzato il badge di servizio assegnato al fratello Gianfranco «per svariate entrate e uscite» dagli uffici di via Baiamonti (angolo viale Mazzini), dove lavorava, e «faceva così risultare di essere in servizio».
L'ex consigliere della Regione Lazio, infatti, è un funzionario amministrativo della Corte dei conti in aspettativa non retribuita. Così facendo, Fabio Zambelli «si procurava un ingiusto profitto, valutato in 969 euro, con pari danno per l'Amministrazione», si legge nel capo di imputazione firmato dal sostituto procuratore Laura Condemi.
Gli altri due imputati, invece, si scambiavano i badge tra di loro. Questo escamotage, grazie alla complicità del collega Vaccaro, serviva ad attestare la presenza al lavoro di Pizzella per il raggiungimento delle ore necessarie per poter ottenere un'indennità speciale.
Lo scambio avveniva sia in entrata che in uscita, ed è stato collocato dalla Procura capitolina nel lasso temporale compreso tra il 7 marzo e il 10 aprile del 2018. L'ingiusto profitto in favore della donna è stato quantificato dai carabinieri in oltre 2.200 euro.
[…] Fabio Zambelli nel 2013 era già finito a processo per falso, truffa e peculato. […]
L’inaugurazione del Petruzzelli, il primo atto di Tangentopoli. Ad essersi aggiudicati, alcuni anni prima, il suolo comunale da destinare a nuovo Politeama, erano stati proprio i fratelli Antonio e Onofrio Petruzzelli. ANNABELLA DE ROBERTIS su La Gazzetta del Mezzogiorno il 18 Febbraio 2023.
È il 15 febbraio 1903. Centoventi anni fa un trafiletto in terza pagina riportava una notizia dalla portata epocale per la storia della città di Bari e di tutto il territorio pugliese: «La grande inaugurazione del Teatro Petruzzelli». Il critico del «Corriere delle Puglie» così racconta quella storica serata: «Quando il pubblico, il gran pubblico, il pubblico aristocratico e democratico, borghese e lavoratore, che affollava la immensa sala è rimasto colpito dalle onde di luce, dal fulgore dell’oro, dai colori smaglianti, dai quadri rivelatori di tutto un superiore criterio di arte; quando quel pubblico ha visto schiuso innanzi a sé il meraviglioso ambiente, in cui il livello teatrale cittadino era innalzato alle vette di un teatro, che è uno dei più belli d’Italia, ha avuto come una esplosione di questa meraviglia, di riconoscenza verso chi ha dato un’opera monumentale a Bari, di entusiasmo delirante per l’opera creata e portata a fine, dall’ingegnere Messeni con una costanza infaticabile, dai fratelli Petruzzelli con una persistenza che si spiega soltanto col sentimento di uomini che si prefiggono una meta e tutto sgombrano per raggiungerla. E costoro l’hanno raggiunta anche oltre l’aspettativa, l’hanno raggiunta nell’ammirazione anche dei diffidenti e degli increduli; l’han raggiunta dando a Bari un teatro Petruzzelli, che mette Bari tra le città che possono inorgoglire di avere un grande, un bello, uno splendido teatro».
Ad essersi aggiudicati, alcuni anni prima, il suolo comunale da destinare a nuovo Politeama, erano stati proprio i fratelli Antonio e Onofrio Petruzzelli, commercianti baresi di lenzuola, asciugamani e fazzoletti, i quali avevano affidato il progetto al cognato, l’ing. Angelo Cicciomessere, che qualche tempo dopo avrebbe cambiato il suo cognome in Messeni. «Non è comune il caso di privati, i quali soltanto dal lavoro han tratto e traggono la loro fortuna, e che impiegano più di un milione per un concetto artistico, per adorazione dell’arte, per la incarnazione del bello in una sublime espressione estetica», commenta il giornalista.
Già autore di uno dei primi piani regolatori della città, Messeni, prendendo spunto dai più grandi teatri europei, progetta una sala grandiosa da circa 2000 posti che comprende platea, palchi, galleria e loggione, realizzando così uno spazio continuo dall’acustica perfetta. A Raffaele Armenise, un pittore barese della scuola napoletana di Domenico Morelli, viene affidata l’esecuzione del telone della scenografia che riproduce la liberazione di Bari dai Saraceni, avvenuta per opera dei Veneziani nel 1002, la cui riproduzione fotografica si può ammirare oggi sul pannello che ricopre il cantiere di palazzo Starita su via Venezia.
Armenise affresca magistralmente anche la volta, una superficie di oltre 500 metri. Quella sera la rappresentazione de Gli Ugonotti di Giacomo Meyerbeer, interpretata dal tenore Carlo Cartica e dai soprani Carmen Bonaplata e Tina De Spada, inaugura la prima stagione del Petruzzelli. «La sala di una splendidezza d’incanto. Innumerevoli le signore di eleganza squisita. Non un palco, non una poltrona, non una sedia, non un posto di loggione vuoto».
Di tutt’altro tenore, invece, la notizia che compare il 19 febbraio 1992 a pagina 8 de «La Gazzetta del Mezzogiorno»: «L’ingegner Mario Chiesa, 48 anni, socialista, da sei presidente del Pio albergo Trivulzio, noto ai milanesi come la “Baggina” e del non meno noto istituto per orfanelli “Martinitt”, arrestato lunedì sera dai carabinieri nel suo ufficio, aveva intascato una tangente di 10 milioni. “Lo abbiamo preso con le mani nella marmellata”, ha dichiarato ieri il procuratore della Repubblica Saverio Borrelli nel corso di un incontro coi giornalisti». Trentuno anni fa si compiva il primo atto dell’inchiesta che passerà alla storia con il nome di «Mani pulite»: quello che in quei primi giorni viene raccontato come un isolato caso di corruzione si trasforma ben presto in una valanga che travolgerà non solo il Partito socialista, ma l’intero sistema partitico italiano.
“Il centro non esiste più. L’Italia giustizialista è più corrotta di prima”. Edoardo Sirignano su l’Identità il 21 Febbraio 2023
“Il giustizialismo ha fallito. Italia più corrotta di prima”. È quanto sostiene Stefano Andreotti, figlio dello statista Giulio.
Sono passati diversi anni dalla scomparsa di suo padre. Il ricordo è ancora vivo?
È certamente tra le figure che vengono ricordate più spesso.
C’è un partito che richiama più alla sua Dc?
La politica, ai tempi di mio padre, era diversa. Siamo in un altro periodo storico e le cose sono cambiate. Andreotti ha sempre fatto parte della Dc e oggi questo partito non c’è in nessuna delle formazioni in campo. Sono tutti movimenti o partiti molto diversi, sia come organizzazione che per le persone che ne fanno parte.
Spesso si condanna a prescindere la Prima Repubblica. È giusto?
Ha subito una vera e propria demonizzazione. Con l’andare avanti, però, ci si si è resi conto dei tanti lati positivi che ha avuto. Per un giudizio più sereno e pacato, dobbiamo ancora attendere. Quando la cronaca lascerà il passo alla storia, cominceremo a capire i tanti pregi che hanno avuto i suoi esponenti.
Più di qualcuno sostiene che Meloni, dal momento in cui ha abbandonato i panni della sovranista, tanto somiglia ai grandi leader dello scudocrociato. Può essere l’erede dei dorotei?
Non farei paragoni. Detto ciò, vedo la Meloni una moderata. Basta osservare come si sta comportando da quando è premier. Tra i suoi pregi ci sono i toni sempre pacati, modi di comportarsi diversi da quelli che aveva qualche anno fa. Vedo bene chi cerca di migliorarsi.
In un momento di crisi, le persone forse hanno più paura degli estremismi?
L’elettorato italiano è da sempre moderato. A parte i momenti, la gente vuole una certa serenità, tranquillità, che forse ci auguriamo tutti.
Esiste ancora la possibilità di un grande centro?
Il mondo della politica ci ha fatto assistere a diversi fenomeni, che nascono all’improvviso e poi con la stessa rapidità si ridimensionano. Quando si vanno a creare due poli contrapposti, lo spazio non c’è per il centro, soprattutto se il sistema elettorale è quello vigente. Detto ciò, ovunque, sento l’esigenza di tornare a certi valori, ideali.
Cosa ne pensa del dibattito sulla giustizia. Sarebbe opportuna una riforma più garantista?
Sono pienamente d’accordo. Uno dei grandi guai d’Italia è quella magistratura che ha seguito la linea chiamata giustizialista. Una riforma vera è indispensabile per la certezza e rapidità del diritto. Solo per i tempi che occorrono per arrivare a sentenza, possiamo parlare di sistema di giudizio deprimente.
È stata, intanto, distrutta un’intera classe dirigente, che tra l’altro è stata artefice di atti gravi, ma forse meno rispetto a quelli commessi dai protagonisti di Qatargate…
Quanto avvenuto, ai tempi di Tangentopoli, è particolare. A distanza di decenni, si comincia a capire la differenza tra finanziamento illecito e corruzione. Bisogna separare ciò che viene fatto per far andare avanti i partiti, indubbiamente con degli eccessi, come quelli verificatisi allora, con la gente che si mette il denaro in tasca. Considerando gli scandali che leggo sui giornali, mi sembra diventato comune l’arricchimento personale.
Si parla del ritorno degli anarchici. Sono davvero un pericolo?
Sono sempre stati presenti nella vita del Paese. Mi auguro che non arriviamo a quello che erano negli anni terribili. Il terrorismo, allora, aveva un substrato diffuso. Non tutti lo condannavano in modo netto. Ora è un fenomeno molto più circoscritto, ma comunque da tenere sotto controllo.
La sinistra di un tempo, pur essendo all’opposizione, riusciva a distinguersi per idee. Cosa ne pensa del Pd?
La storia della Prima Repubblica è stata di un governo che ha visto sempre dentro la Dc, la quale però condivideva le grandi decisioni con l’opposizione. Le cose, allo stato, sono cambiate. La politica viene fatta più con le urla, con le accuse all’altro e non con le proposte. La sinistra italiana da diversi anni è in crisi per questa ragione.
Si ricorda di un particolare interlocutore di suo padre nel campo progressista…
Pajetta, pur essendo uno dei grandi esponenti del Pci, aveva con mio padre un grandissimo rapporto. Non andavano in vacanza insieme, ma si frequentavano. Stesso discorso vale per il presidente Pertini, con cui c’era amicizia. Anche con lo stesso Berlinguer, molto più chiuso come carattere, c’era un rapporto di stima, soprattutto ai tempi del compromesso storico. Era un modo di contrapporsi agli avversari diverso da quello attuale. Non c’era una lotta assoluta, ma una considerazione dell’altro, che travalicava gli schieramenti di appartenenza.
Finito al centro delle cronache l’arresto dell’ultimo grande boss stragista. Spesso il nome di Andreotti è stato collegato alla malavita siciliana?
Mio padre, purtroppo, ci è finito dentro. Si tratta di un discorso molto lungo da fare. Troppo spesso viene data un’interpretazione distorta di come si sono svolte realmente le cose. Da cittadino, sono felice che sia finita la latitanza per Matteo Messina Denaro.
La mafia, però, ancora non è finita. Stesso discorso vale per i rapporti con la politica, che non riguardano solo una parte…
Per chi vive in Sicilia c’è molta difficoltà a non aver rapporti con certi mondi. Detto ciò, in molto casi, sono stati anche inventati. Se si conosce bene la storia di mio padre, si potrebbe arrivare alla conclusione che con Cosa Nostra non solo non ha avuto niente a che vedere, ma che è stato anche il politico che quando era al governo ha preso i provvedimenti più forti contro di essa. Ciò, purtroppo, non viene mai ricordato.
Cosa ne pensa, infine, dell’Autonomia voluta dalla Lega di cui tanto si discute?
Ha pregi e difetti, vantaggi e svantaggi. Se terrà conto del divario, se avrà come priorità una migliore organizzazione, nonché una crescita del Mezzogiorno, ben venga. Se favorisce, invece, un Nord, che è già avanti, non ritengo sia un buon progetto. Dare una maggiore autonomia alle Regioni, comunque, non mi pare qualcosa di negativo, anzi può creare sviluppo.
“I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. Cos’è la Questione Morale: da Berlinguer al Qatargate, il significato dell’espressione in politica. Redazione su Il Riformista il 23 Dicembre 2022
Enrico Berlinguer ci parla ancora. Con tutte le sfumature e le cautele del caso. Berlinguer e non solo lui, a dirla tutta. Da quando è esploso il caso del Qatargate si è tornato a parlare di “Questione Morale”, un’espressione che ha indicato, dalla sua affermazione nel dibattito negli anni Settanta, la necessità che i partiti tornassero a principi di onestà e correttezza nella gestione delle istituzioni, dei poteri dello Stato e del denaro pubblico. Il segretario del Partito Comunista Berlinguer ne parlò in questi termini in una direzione straordinaria di partito: “La ‘questione morale’ è divenuta oggi la questione nazionale più importante”. E sul tema ritornò in un’intervista rilasciata ad Eugenio Scalfari per La Repubblica. Come spiegò anni dopo in un editoriale su L’Espresso lo stesso Scalfari, Berlinguer con quell’espressione si riferiva a “l’occupazione delle istituzioni da parte dei partiti”. Il segretario comunista disse che era “necessario difendere le istituzioni dalla partitocrazia che le ha invase”.
La “Questione Morale” entrò nel dibattito politico il 27 novembre del 1980, a pochi giorni dal terremoto che colpì l’Irpinia, in una riunione straordinaria del Partito Comunista Italiano a Salerno. Il segretario Berlinguer tenne un discorso diventato emblematico e chiuse definitivamente la stagione del compromesso storico con la Democrazia Cristiana. L’espressione era stata già utilizzata da Giuseppe Mazzini in uno scritto del 1886 e da Pietro Ingrao in un intervento sul quotidiano sul caso di Wilma Montesi, la ragazza 21enne trovata in spiaggia a Torvajanica nel 1953.
Berlinguer riadattò quell’espressione in un’Italia profondamente cambiata. Gli Anni di Piombo, la lottizzazione del potere, il Manuale Cencelli, lo “scandalo Lockheed”, il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro. Alle elezioni politiche del giugno 1976 il Pci aveva ottenuto il suo massimo storico, 34,4%, che comunque non bastò a superare la Dc, al 38,7%. Gli accordi portarono a un governo monocolore, della Dc, e a Pietro Ingrao Presidente della Camera. La crisi di governo esplosa tra fine 1977 e inizio 1978 portò a un quarto esecutivo Andreotti, con il voto favorevole dei comunisti tramite “appoggio esterno”.
Berlinguer ruppe quel patto dopo il terremoto che colpì l’Irpinia il 23 novembre del 1980. A Salerno, in quella riunione straordinaria, il segretario nel suo discorso parlò delle “risposte deludenti e negative del governo di fronte alla catena di scandali, di deviazioni negli apparati dello Stato e di intrighi di potere” che “chiama in causa non semplicemente le responsabilità di uno o più ministri, o dell’attuale governo, ma un sistema di potere, una concezione e un metodo di governo che hanno generato di continuo inefficienze e confusioni nel funzionamento degli organi dello Stato, corruttele e scandali nella vita dei partiti governativi, omertà e impunità per i responsabili. La questione morale è divenuta oggi la questione nazionale più importante”.
Qualche giorno dopo Berlinguer rilasciava un’intervista ad Alfredo Reichlin per L’Unità, in cui descriveva il cambio di passo dal compromesso storico. “Mi fanno un po’ sorridere tutti questi becchini del ‘compromesso storico’. Perché sarebbe fallito? È fallita la caricatura che ne hanno fatto presentandolo come una pura formula di governo: peggio, come un accordo di potere tra noi e la DC. L’abbiamo detto cento volte che non era questo, bensì la ricerca di una convergenza tra le componenti diverse della storia italiana, della società nazionale, anche, quindi, tra classi diverse, tale da rendere possibile una profonda trasformazione democratica (un secondo 1945, si è detto) nel rispetto del pluralismo e della Costituzione repubblicana”. Il segretario comunista nella stessa (da enricoberlinguer.it) avvertiva, in merito al sisma in Irpinia, che “il problema più grave non sarà il reperimento delle risorse da destinare al Sud, ma il loro impiego: a quale fine, attraverso quali strumenti, con quali garanzie che non si ripeterà un Belice moltiplicato per cento, con quali forme di partecipazione popolare e di controllo democratico? E con quali mezzi di prevenzione e di repressione dell’assalto clientelare e mafioso alla greppia degli stanziamenti pubblici?”.
Qualche mese dopo, il 28 luglio del 1981, Berlinguer rilasciava una lunga intervista, entrata nella storia, a Eugenio Scalfari in cui esordiva senza mezzi termini: “I partiti hanno degenerato e questa è l’origine dei malanni d’Italia”. Alla degenerazione dei partiti – “hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni, a partire dal governo. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza, le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai TV, alcuni grandi giornali” – il segretario comunista riconduceva le radici della crisi italiana. “Per noi comunisti la passione non è finita. Ma per gli altri? Non voglio dar giudizi e mettere il piede in casa altrui, ma i fatti ci sono e sono sotto gli occhi di tutti. I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un ‘boss’ e dei ‘sotto-boss’. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la DC: Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora …”.
Un passaggio sull’atteggiamento dei cittadini in merito: “Molti italiani, secondo me, si accorgono benissimo del mercimonio che si fa dello Stato, delle sopraffazioni, dei favoritismi, delle discriminazioni. Ma gran parte di loro è sotto ricatto. Hanno ricevuto vantaggi (magari dovuti, ma ottenuti solo attraverso i canali dei partiti e delle loro correnti) o sperano di riceverne, o temono di non riceverne più. Vuole una conferma di quanto dico? Confronti il voto che gli italiani hanno dato in occasione dei referendum e quello delle normali elezioni politiche e amministrative. Il voto ai referendum non comporta favori, non coinvolge rapporti clientelari, non mette in gioco e non mobilita candidati e interessi privati o di un gruppo o di parte. È un voto assolutamente libero da questo genere di condizionamenti. Ebbene, sia nel ’74 per il divorzio, sia, ancor di più, nell’81 per l’aborto, gli italiani hanno fornito l’immagine di un paese liberissimo e moderno, hanno dato un voto di progresso. Al nord come al sud, nelle città come nelle campagne, nei quartieri borghesi come in quelli operai e proletari. Nelle elezioni politiche e amministrative il quadro cambia, anche a distanza di poche settimane”.
Berlinguer fu criticato, accusato per aver messo in alcuni passaggi il Pci al di sopra degli altri partiti da un punto di vista morale. “La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano. Ecco perché gli altri partiti possono provare d’essere forze di serio rinnovamento soltanto se aggrediscono in pieno la questione morale andando alle sue cause politiche”. Le posizioni di Berlinguer raccolsero ostilità tuttavia anche all’interno dello stesso partito. E da esponenti autorevoli come Giorgio Napolitano e Alessandro Natta. Il segretario comunista ribadì i suoi concetti fino all’ultimo, fino all’ultima sua intervista televisiva rilasciata poche ore prima il malore che lo colpì mortalmente durante il comizio di Padova del 7 giugno 1984.
Le 10 conseguenze della corruzione. Gian Antonio Stella su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2022
La percezione di vivere in un Paese corrotto, tra gli italiani, cala e cresce, ma neppure una volta il nostro è riuscito a entrare tra i trenta Paesi più virtuosi
Ammesso che siano stati i disinvolti nababbi quatarioti a svuotare barili di banconote nei sacchi di juta di vari italiani, italo-belgi per emigrazione e italo-greche per amore tutti nel giro dell’Europarlamento, chi mai avrà messo in testa ai corruttori che i nostri connazionali potevano essere più aperti rispetto ai danesi o ai finlandesi nei confronti degli aspiranti distributori di mazzette? C’è poco da buttarla sull’ironia: chi odia gli stereotipi razzisti contro gli italiani (la pistola sul piatto di spaghetti di una rivista tedesca, la prima pagina del Süddeutsche Zeitung con un vecchio e malconcio stivale da donna intitolata «Stivale puzzolente», le malignità sul comandante Schettino additato a simbolo della superficialità di tutti noi?) vive con fastidio intollerabile il coinvolgimento di tanti politici e para-politici e lobbisti nostrani in queste oscene vicende di tangenti. E si chiede fino a che punto tanti connazionali non abbiano contribuito a far crescere questo osceno stereotipo dando sempre minore importanza alla corruzione al punto di scandalizzare Papa Francesco che pochi anni fa attaccò frontalmente il corruttore: «Dio ci ha comandato di portare il pane a casa col nostro lavoro onesto! Ma quest’uomo, amministratore, come lo portava? Dava da mangiare ai suoi figli pane sporco! E i suoi figli forse educati in collegi costosi, forse cresciuti in ambienti colti hanno ricevuto dal loro papà, come pasto, sporcizia, perché il loro papà, portando pane sporco a casa, aveva perso la dignità!».
La classifica di Transparency dal 1995 a oggi, del resto, dice tutto: la percezione di vivere in un Paese corrotto, tra gli italiani, cala e cresce, cala e cresce ma neppure una volta il nostro è riuscito a entrare nella trentina dei Paesi più virtuosi. Neppure una. Con danni pesanti per tutti i cittadini perché, come scrive ne L’Atlante della corruzione Alberto Vannucci, «La corruzione 1) demolisce la fiducia dei cittadini e la coesione sociale, 2) lede il principio di uguaglianza, 3) distrugge la giustizia sociale, 4) contraddice il principio di trasparenza e non crea allarme sociale, 5) mina la decisione pubblica e orienta i procedimenti legislativi, 6) distorce la competizione politico-elettorale, 7) espone il politico al ricatto, 8) favorisce l’incompetenza a scapito del merito, 9) rafforza le mafie, 10) uccide». Ce la meritiamo, la pioggia di battutine insultanti di questi giorni? Mah... Certo non basta indignarsi contro chi ridacchia ...
Qatargate. Se l'incompetenza fa danni peggiori. La corruzione a Bruxelles fa scalpore, ma l'incompetenza e l'autoreferenzialità ideologica fanno molti più danni. Pier Luigi del Viscovo il 15 Dicembre 2022 su Il Giornale.
La corruzione a Bruxelles fa scalpore, ma l'incompetenza e l'autoreferenzialità ideologica fanno molti più danni. Certo, il malaffare non l'avevamo messo in conto. Per noi italiani, cresciuti con tangentopoli e calciopoli, è strano vedere implicati nel Qatargate i vertici di quelle istituzioni da cui spesso veniamo bacchettati. Sarà che ci portiamo dietro quel complesso di essere noi i furbi, anzi furbastri, che cercano le scorciatoie, mentre non è che siamo i soli a cercarle, quanto magari i più svegli a trovarle. Sarà anche che per decenni la politica italiana ha pompato l'autorità economica e morale di Bruxelles, per usarla come scusa per imporre qualche freno alla spesa, non avendo la forza di dire che meno debito è nel nostro interesse. Fatto sta che non ce l'aspettavamo. Invece avremmo dovuto ipotizzare che la competenza, seppur concorrente con gli Stati Membri, in settori importanti, dall'agricoltura alla pesca, dai trasporti all'energia, potesse dar luogo a fenomeni corruttivi.
Nella transizione energetica, ad esempio, l'Europa sta imponendo all'economia, all'industria e alla società dei limiti e dei costi assolutamente sproporzionati, alla luce della non autosufficienza nelle materie prime e nell'energia, del ritardo dell'industria nelle tecnologie avanzate e, in ultimo, del peso irrisorio delle emissioni europee sui cambiamenti climatici. Forse adesso sarà più agevole per tutti fare la domanda fatidica: cui prodest? Certe decisioni, nell'interesse di chi?
Tuttavia, è anche possibile che tante decisioni incomprensibili non siano frutto di interessi vergognosi di pochi, quanto di incompetenza e inefficienza di tanti. Ideologie scollegate dai fatti e calate in un enorme apparato burocratico, entro cui si muovono figure professionali non sempre all'altezza, ma sempre inebriate da autoreferenzialità, tipica dei contesti dove stanno insieme il potere e la distanza dalle cose reali. Noi italiani abbiamo sempre sottovalutato il potere che sta a Bruxelles, cercando anzi di tenerlo fuori dai confini il più possibile. Per questo, abbiamo spedito in quelle posizioni coloro di cui la politica domestica proprio non sapeva che farne, illudendoci di essere i soli a comportarci così. Sbagliato. Avendo l'occasione di lavorare con gli organismi comunitari, si scopre che anche dagli altri Paesi non arrivano dei fenomeni, anzi. Inoltre, col sistema uno-vale-uno, capita che in una riunione la decisione penda da una parte grazie al parere del maltese che, con tutto il rispetto, vale quanto quello del tedesco.
Sì, la corruzione, in Italia come ovunque, fa notizia e fa arrabbiare. Ma proprio noi dovremmo sapere che al funzionamento del sistema fa più male l'incompetenza e l'arroganza del potere, e pure che c'è un filo rosso che tiene tutto insieme. Quando interi apparati possono operare senza il riscontro di un risultato apprezzabile da parte dei cittadini, allora diventa anche più facile dare ascolto alle sirene che girano con i trolley pieni di soldi.
Fara: «Col Qatargate trionfa il racconto fasullo dell’Italia corrotta…» Intervista al presidente Eurispes: «Sui media europei il caso è definito italian job. Colpa nostra...». Errico Novi su Il Dubbio il 15 dicembre 2022.
«Sa qual è il paradosso? Che persino i giornali italiani hanno concentrato l’attenzione sui connotati italianistici, per così dire, del Qatargate. Ci facciamo del male da soli, come se non bastasse la distorsione in corso nel resto d’Europa».
Perché alla fine, presidente Fara, negli altri Paesi dell’Ue se la cavano così? Liquidano le presunte eurotangenti come una macchia lasciata dalla solita Italia sporcacciona?
«Perché, lei aveva dei dubbi?».Ieri, su queste pagine, abbiamo ricordato l’analisi che Gian Maria Fara, presidente dell’Eurispes, propone da anni, col suo lucido disincanto, a proposito della corruzione e soprattutto delle terrificanti posizioni che il Belpaese occupa in tutte le graduatorie internazionali sul fenomeno: a complicare la faccenda, è la tesi del sociologo, è lo scarto fra realtà e obiettività. Nello specifico, fra corruzione percepita e reale. «Che in Italia», ripete ancora una volta il fondatore dell’Eurispes, «ci sia una percezione ingigantita della corruzione è evidente, ed è spiegabile. Il paradosso è che ora la nostra distorsione percettiva ci ritorna come un boomerang attraverso i media degli altri Paesi europei».
Ma quindi lei dice che in realtà, tra le opinioni pubbliche del Vecchio Continente, non ci sarà alcun particolare crollo di fiducia nei confronti delle istituzioni comunitarie?
Ma intanto mi viene da pensare che il caso delle presunte eurotangenti potrebbe confermare una semplicissima verità: diversamente da quanto noi italiani pensiamo, non sono le istituzioni ma gli uomini a essere inaffidabili. E poi, per parafrasare Shakespeare, potremmo dire che c’è del marcio persino a Strasburgo e a Bruxelles, così come nella Danimarca dell’Amleto. Ma al di là delle battute, la diversa percezione che abbiamo del malaffare nel nostro Paese rispetto al resto d’Europa influisce tantissimo sulla reazione che il cosiddetto Qatargate potrà suscitare, e in realtà già suscita, da noi e in altri Paesi.
Anche stavolta noi ingigantiremo e gli altri vedranno viceversa assai meno di quello che esiste?
Allora, partiamo dalla condizione oggettiva dell’Italia comparata al resto del continente. Noi abbiamo vissuto Mani pulite, un trauma che trent’anni non sono riusciti a sanare. Si è affermata, da lì, l’idea di un sistema deviato, in cui è tutto marcio, da condannare. Tutto quanto è politica è cattivo, e non funziona. Nel nostro immaginario collettivo quel paradigma è insuperabile. Altrove, non hanno certo avuto una Mani pulite come la nostra. E anzi hanno coltivato la compiaciuta convinzione di vivere, se non proprio nel migliore dei mondi possibili, certamente in un mondo migliore della corrotta Italia.
Insomma, ci siamo procurati da soli questo tremendo stigma.
Be’, da soli… ce lo siamo procurati anche per virtù specifiche del nostro sistema giudiziario. Ricordiamoci come il fattore decisivo, rispetto all’idea che un certo Paese è corrotto, sia essenzialmente uno: la trasparenza. È un meccanismo che riguarda qualsiasi fenomeno sociale: esiste in base a come lo racconti, lo denunci. Prendiamo la Francia: ecco, i cittadini francesi ritengono di vivere nel migliore dei mondi possibili perché da loro non esiste un giornalismo giudiziario ficcante come il nostro, né una magistratura autonoma, indipendente e dunque efficace come la nostra. Più indagini vengono aperte, più i media ne parlano, più corruzione si crea, quanto meno dal punto di vista della rappresentazione sociale.
Chiarissimo. Ma quindi lei dice che all’estero c’è un atteggiamento in fondo più sereno, sul Qatargate, rispetto alla reazione verificatasi da noi?
In generale non credo che l’aggettivo “sereno” sia il più adatto a descrivere l’atteggiamento che, nella maggior parte dei Paesi europei, è diffuso rispetto alla corruzione. Casomai c’è una differenza, come detto, di disponibilità dell’informazione e, sul piano strettamente giudiziario, anche di esercizio dell’azione penale, che da noi è obbligatorio ma che funziona diversamente altrove. Poi è chiaro che in tutte le opinioni pubbliche europee ci sarà un innalzamento dell’attenzione nei confronti delle istituzioni comunitarie, ma da quanto si legge sui media stranieri, si parla essenzialmente di corruzione all’italiana.
L’italian job.
Esatto. Siamo noi, brutti, sporchi e cattivi, ad aver infettato, con i nostri soliti e corrotti metodi, persino la linda e pinta Europa. Non mi pare di intravedere un tracollo di credibilità, all’estero, per le istituzioni dell’Ue. Hanno trovato il modo di scaricare il problema addosso a noi.
Siamo il capro espiatorio persino del Qatargate.
Siete arrivati e siete stati capaci di contagiare la pulita e tranquilla Europa, persino il Parlamento di Stasburgo, la più democratica delle istituzioni europee.
Davvero si risolverà tutto così?
Ci sono due possibilità, legate al racconto dei media: se prevarrà l’interpretazione secondo cui sì, potrebbe anche essere esistito, come sostengono i giudici titolari dell’inchiesta, un giro di corruzione sull’asse Doha-Strasburgo, ma non si tratta di un dato che segna l’intera dimensione eurocomunitaria, allora saremo su un piano probabilmente di realtà e ci sarà pure maggiore equilibrio rispetto alla connotazione italiana della vicenda. Ma considero più probabile che si affermi quell’altra semplicistica interpretazione: l’Italia ha corrotto l’Europa.
Ma in tutto questo le statistiche sulla corruzione continuano a essere basate sulle interviste ai cittadini?
E altrimenti come potrebbe spiegarsi il fatto che in queste classifiche l’Italia viaggia a braccetto col Botswana? Nell’analisi di un fenomeno come la corruzione sarebbe ora di passare dalla percezione alla rilevazione oggettiva. In incontri organizzati con l’Anac ne abbiamo parlato anche ai vertici di Transparency: ancora una volta le vostre statistiche relative alla presenza della corruzione si sono basate su alcune migliaia di interviste ai cittadini, ma gli indicatori oggettivi dove sono?
E che vi hanno risposto?
Non sanno cosa rispondere, sono in difficoltà: provano a dare il contentino, pensi un po’, per cui l’Italia nel 2021 è riuscita a scalare dalla 52esima alla 42esima posizione… ma possiamo mai essere paragonati a Paesi del Centrafrica? È attendibile una fotografia del genere?
In realtà noi siamo più attivi nelle azioni di contrasto, giusto?
Oltre ad avere una magistratura libera di indagare su tutto, disponiamo anche di forze di polizia efficientissime, dotate di sistemi di verifica che in altri Paesi neppure immaginano.
La coincidenza temporale con la fase clou dei Mondiali ha amplificato il Qatargate?
Le faccio io una domanda: l’assegnazione dei Mondiali al Qatar è un fatto singolare o quel Paese presentava tutti i requisiti per ottenere l’assegnazione?
Be’, sembra che le istituzioni calcistiche mondiali si siano fatte pesantemente condizionare dal potere finanziario dello sceicco.
Ecco: e mi scusi, ma le risulta che le organizzazioni calcistiche internazionali siano tutte italiane? Non è così, ovviamente.
Paghiamo la nostra solerzia nel contrastare la corruzione.
E la mafia, che i tedeschi hanno scoperto improvvisamente con la strage di Dusseldorf: la verità è che le organizzazioni criminali seguono la pista dei soldi. Da noi è impossibile che non siano tracciate, visti i nostri pm e la nostra polizia. Ah, un’ultima diversità del sistema italiano: in Francia per esempio, il ministro dell’Interno ha il comando diretto delle forze di polizia, in Italia rispondono invece a una magistratura assolutamente autonoma e libera. Ecco, una cosa del genere credete che conti zero, in quella capacità di rendere visibile la corruzione che da noi è tanto più sviluppata che altrove?…
Mondiali e mazzette, mix terribile che amplifica la “corruzione percepita”. Da anni L’Italia paga l’attivismo dei pm col primato negativo nelle classifiche del malaffare. Ora, per l’Ue, la suggestione si lega alla coppa di DOHA. Errico Novi su Il Dubbio il 14 dicembre 2022.
Prendete i Mondiali di calcio, evento mediatico per eccellenza. Ai Mondiali associate un’inchiesta deflagrante sulla presunta corruzione a cui si sarebbero abbandonati soggetti a vario titolo riconducibili all’Europarlamento. Metteteci pure che il mix si produce contestualmente alla fase decisiva dei campionati in Qatar, semifinali e finali. La tempesta è perfetta. Nel suo potenziale distruttivo, ovviamente.
Alcuni anni fa il Dubbio ospitò le considerazioni di Gian Maria Fara presidente dell’Eurispes, istituto di ricerca particolarmente attento al tema della giustizia, tra gli altri. Ebbene, Fara spiegò con lucida precisione il fenomeno della “corruzione percepita”. In Italia, disse, abbiamo un record negativo, rispetto ai partner europei, nelle graduatorie sulla corruzione, ma pochi sanno che le statistiche di questo tipo, diffuse regolarmente dalle organizzazioni internazionali, si basano non sulle risultanze processuali, ma appunto sulla percezione dei cittadini, e cioè su semplici interviste. Interpellati, gli italiani denunciano una pervasività del malaffare, nel loro Paese, assai superiore al feedback che arriva da francesi, tedeschi e britannici.
Ma a sua volta la percezione è enormemente influenzata, spiegò ancora il presidente dell’Eurispes, dall’intensa attività investigativa e processuale che la magistratura italiana assicura nel contrasto della corruzione. Paradossalmente, il fatto che le nostre Procure siano così vigili sul malaffare – al punto da inseguire, cosa impensabile in Paesi come la Francia ad esempio, persino ipotesi di corruzione consumata dai grandi stakeholders dell’energia in favore di Paesi in via di sviluppo, vedi il caso Eni – ecco, questo fatto alimenta fra i cittadini italiani l’impressione di essere immersi in una selva di furfanti perennemente impegnati a concutere, estorcere, corrompere, deviare le risorse pubbliche.Paradossale, sì. Ma pure inevitabile, dopo trent’anni di sovraesposizione dei pm, a partire da Mani pulite.
Ora, l’uragano che ha improvvisamente travolto Strasburgo, Bruxelles e in generale la credibilità e l’immagine delle istituzioni comunitarie ha in apparenza poco a che vedere con l’estenuante stillicidio di cronache giudiziarie che ha investito l’Italia negli ultimi trenta lunghi anni. Eppure un nesso c’è, e riguarda appunto quella parola fatale: percezione. Dove finisce la realtà dei fatti, nella loro dimensione effettiva, e dove inizia invece l’immagine ingigantita e deformata che se ne diffonde nell’opinione pubblica? Se c’è un allarme da lanciare a proposito dell’Europa, della sua forza di “tempio” dei diritti, improvvisamente degradata a presunto “mercato” di tangenti, è proprio in questa percezione che può diffondersi, e che da tre giorni anzi già si diffonde tra i cittadini dell’Unione.
Anche se si tratta di una vicenda che coinvolge pochissimi esponenti politici e alcuni loro assistenti, e anche se le responsabilità sono tutte ben lontane dall’essere accertate nell’unica sede possibile, ossia il processo, il mix mediatico evocato all’inizio fra Mondiali e presunte mazzette qatariote già altera abbondantemente quel feedback restituito dai cittadini. Lo ingigantisce, lo esaspera. Anche se non sappiamo ancora con certezza se la presunta rete organizzatasi, secondo il giudice belga Michel Claise, attorno all’ex eurodeputato italiano Antonio Panzeri può davvero essere paragonata a un enclave di corrotti incistatasi negli organismi dell’Ue, e anche se non vi è alcuna prova, alcun nesso evidente, fra i giudizi indulgenti con Doha espressi da qualche parlamentare europeo, italiano e non, e il teorizzato giro di sacchi di banconote, l’opinione pubblica continentale già tira le somme, già chiude il bilancio: da anni si parla di corruzione da parte della monarchia qatariota in direzione dei vertici del calcio mondiale, che avrebbero assicurato l’assegnazione a Doha dei campionati prossimi alla loro conclusione; bene, pensano i cittadini a cui presto si andrà a chiedere quanta corruzione “percepiscono” in seno all’Unione, abbiamo allora la prova che l’Europa, intesa come istituzioni comunitarie, è il più corrotto dei consorzi, il meno credibile degli avamposti di democrazia e civiltà, il più ingannevole dei miti del progresso globale.
E quanto credete risulterà difficile approfittarne, di fronte a uno scenario simile, a governi e partiti populisti/euroscettici come quello di Orban, rilanciare questa “percezione” e trasformarla in attacco distruttivo? È presto per misurare fino in fondo i danni di una vicenda che, a prescindere dall’effettiva consistenza della corruzione, risente, non ci stanchiamo di dirlo, anche di un effetto mediatico “booster” che solo i Mondiali di calcio potevano assicurare. Ma in attesa di raccogliere i cocci lasciati dalla deflagrazione, timidamente osiamo rivolgere un auspicio, e cioè che per il futuro si faccia quanto meno un ricorso più prudente alle interviste come misura della corruzione. E che ci si riferisca, almeno da parte di autorevoli organizzazioni internazionali, a dati quantitativi più chiari, più oggettivi, anche se più difficili da raccogliere. E che insomma, la realtà cominci non solo in Italia ma ovunque a prevalere sulle suggestioni.
Estratto dell'articolo di Samuele Finetti per corriere.it venerdì 28 luglio 2023.
Galeotti sono stati un paio di occhiali da sole di una nota griffe. Che il parlamentare norvegese Bjørnar Moxnes, leader del partito di sinistra Rodt da un decennio, si è infilato in valigia nel duty free dell’aeroporto di Oslo dopo aver strappato l’etichetta col codice a barre. Il tutto sotto gli occhi di una telecamera di sicurezza: presto fatto […]
Moxnes ha provato a giustificarsi con un inverosimile «è stato un incidente». Poi ha dovuto ammettere la verità in un post su Facebook: «Molte persone mi hanno chiesto come ho potuto fare una cosa così stupida. Me lo sono chiesto molte volte nelle ultime settimane. Non ho una spiegazione adeguata». Oltre alla faccia, Moxnes ha perso anche il posto: il 24 luglio ha annunciato le sue dimissioni dall’incarico nel partito. […]
L’inglese e i video hard
Il parlamentare conservatore inglese Neil Parish meriterebbe un posto sul podio delle scuse più assurde. Lo scorso anno, in aprile, fu pizzicato mentre guardava un video hard sul telefonino nel bel mezzo di una seduta della Camera dei Comuni. Prima lo giudicò «un momento di pazzia», poi s’inventò di essere finito su quella pagina mentre stava cercando informazioni sui trattori su Google. Alla fine cedette e ammise che l’agricoltura non c’entrava nulla e che aveva davvero cercato quel video. E addio al seggio a Westminster.
Francesi, jet e sigari
Spendere 116mila euro per affittare un jet privato che ti porti in un Paese appena devastato da un terremoto? Ad Alain Joyandet, allora ministro della Cooperazione francese, non sembrò una cattiva idea quando fu invitato per una conferenza ad Haiti poche settimane dopo il catastrofico sisma del gennaio 2010.
Joyandet (che oggi è senatore) fu costretto a dimettersi, come anche il sottosegretario Christan Blanc, quando si scoprì che aveva speso 12mila euro (pubblici) in sigari cubani. […]
L’antievasori con la società alle Seychelles
Fare i paladini della lotta all’evasione fiscale e finire condannato per frode. Il destino è cinico e baro e l’ex ministro del Bilancio francese Jérôme Cahuzac ne sa qualcosa. Dopo essersi fatto una reputazione come uno dei più fermi critici di evasori e paradisi fiscali, nel 2012 finì nello scandalo quando si scoprì che aveva da venti anni un conto in banca in Svizzera. Come se non fosse abbastanza, nel 2016 i Panama Papers rivelarono che gli era pure intestata una società alle Seychelles. Dal governo finì in cella, condannato a due anni per frode fiscale e riciclaggio.
Il candidato fedifrago
Abbiamo citato il caso di Neil Parish. Quello di Benjamin Griveaux, stretto collaboratore di Emmanuel Macron nonché candidato di La République En Marche alla carica di sindaco di Parigi nel 2020, appartiene allo stesso filone.
Al voto Griveaux non è neppure arrivato. Ad affossarlo sono stati i messaggi e le foto esplicite che aveva inviato a una donna (un dettaglio: Griveaux era sposato e ha tre figli) e che nel febbraio di quell’anno diventarono virali sul web dopo che il blogger russo Piotr Pavlenski le aveva condivise. Nel 2021, Griveaux lasciò anche il seggio al parlamento e da allora si è rifatto una carriera nel settore privato.
L’austriaco e la nipote dell’oligarca
Diede la colpa all’alcol Heinz-Christian Strache, vicecancelliere austriaco al tempo dello scandalo poi passato alla storia come «Ibiza-Gate». La questione era piuttosto seria: nel 2017, nel pieno della campagna elettorale, Strache volò ad Ibiza per una vacanza.
Una sera incontrò una giovane donna russa che si presentò come la nipote di un’oligarca e promise di investire in un quotidiano per poi spostarlo su una linea vicina a quella di destra del partito del suo interlocutore. Che, in cambio, le assicurò che l’avrebbe favorita nell’assegnazione di appalti pubblici. Solo che la donna era in realtà una giornalista, ma Strache non se ne accorse perché era annebbiato dai drink (così sostenne poi).
Il caso saltò fuori nel 2019: Strache fu costretto a dimettersi e a ritirarsi dalla politica, il cancelliere Sebastian Kurz a sciogliere il governo e convocare elezioni anticipate.
L’ungherese e la festa gay
In questa lista di episodi assurdi, quello che ha come protagonista József Szájer merita un posto d’onore. Europarlamentare, membro di lunga data del partito ungherese Fidesz — guidato da Viktor Orbán —, noto per le sue posizioni conservatrici specie sul tema Lgbtq, la sua carriera finì per colpa di una festa piuttosto insolita. La sera del 27 novembre 2020, in pieno lockdown, la polizia di Bruxelles trovò 25 uomini che si intrattenevano in un incontro sessuale di gruppo.
Si scoprì che Szájer era fuggito calandosi da una grondaia e quando fu fermato per strada gli agenti trovarono della droga nel suo zaino. Orbán lo silurò in un nulla: «Inaccettabile e indifendibile».
La spagnola ladra «involontaria»
Fatale per Cristina Cifuentes fu una crema per il viso da 40 euro. Nel 2018 l’allora presidente della Comunità di Madrid fu costretta a lasciare il suo ruolo dopo la pubblicazione di un video del 2011 nel quale era ripresa mentre rubava il prodotto cosmetico in un supermercato. «Un errore involontario» sostenne lei, che poi pagò il dovuto. […]
Lo sloveno tradito da un panino
Di furto non si sono macchiati solo Cifuentes e Moxnes, ma pure il parlamentare sloveno Darij Krajcic, reo di aver rubato un panino nel 2019. In realtà, spiegò lui, stava conducendo un esperimento sociale: seccato dal fatto che i commessi lo ignoravano, sentì l’impulso di testare in prima persona quanto fosse efficace la sicurezza del supermercato. Il furto non venne scoperto sul posto, ma i colleghi lo spinsero a dimettersi (e a pagare il tramezzino trafugato).
[...]
Il maltese e il lobbista
Sessanta milioni di euro: tanto si era fatto promettere da un’azienda svedese del tabacco un collaboratore di John Dalli, allora (era il 2012) commissario europeo per la Salute, in cambio dell’impegno a far abrogare una legge che vietava la vendita e l’uso dello snus, tabacco umido in polvere che si consuma non fumandolo ma per via orale.
Dalli sostenne di essere stato costretto alle dimissioni dal presidente della Commissione José Manuel Barroso e lo citò in giudizio. Nel 2019, il Tribunale dell’Unione europea ha respinto l’istanza e con questa la richiesta di risarcimento danni. […]
Qatargate. E l'ex Pci manda in soffitta la questione morale. Pure D'Alema archivia, in nome degli affari, la lezione di Berlinguer. Roberto Chiarini il 19 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Vi immaginate Antonio Gramsci o Palmiro Togliatti che lasciano la politica per consacrarsi alla consulenza di società (capitalistiche) internazionali? Quella del consulente è invece l'attività che Massimo D'Alema, comunista non pentito, si vanta di aver intrapreso. Al giornalista che gli chiede se non convenga con lui sulla dubbia compatibilità tra la sua originaria passione politica e l'odierna attività di consulente di governi stranieri e di multinazionali risponde che non va confusa l'attività di «consulente» con quella dell'«affarista». È improponibile ogni accostamento tra le sue collaborazioni con società internazionali con i traffici dell'ex compagno di partito Antonio Panzieri, nella cui abitazione di Bruxelles sono stati trovati sacchi sospetti di banconote.
È inoppugnabile - ci mancherebbe - la distinzione tra le due attività sul piano della legalità e pure su quello della moralità. La distinzione regge meno però (ma forse ci sbagliamo) sul piano dell'opportunità. Non è comunque su questo punto che ci sembra essenziale puntare l'attenzione, ma piuttosto su quanto questa mutazione di destini professionali sia rivelatrice di un'altra mutazione in atto nella sinistra italiana e europea. Vorrà pur dire qualcosa il fatto che il mestiere di manager e di procacciatore d'affari stia diventando la vocazione principe di molte figure di ex leader della sinistra - da Tony Blair a Gerhard Schroeder fino a Massimo D'Alema: tutti ex primi ministri che a fine carriera abbracciano l'attività di business man, pronti a concedere la loro consulenza anche a uomini di stato che non vantano una coscienza democratica propriamente immacolata.
Contrapponendo l'affarismo alla consulenza, come fa il già lider maximo della sinistra italiana, ha voluto far intendere che è l'onestà ciò che fa la differenza. Con ciò, salva inequivocabilmente la sua personale onorabilità. Non coglie però il punto politico chiave della questione che sta alla base dell'impasse in cui s'è incagliata la sinistra ex comunista dopo l'abbandono dell'originaria fede anticapitalista. Politici e intellettuali di sinistra cercano di ridurre lo scandalo delle mazzette all'europarlamento solo a un fatto (indubitabile) di disonestà personale indicando la soluzione al richiamo della lezione di Enrico Berlinguer sulla «questione morale» quando l'allora segretario del Pci denunciava la degenerazione dei partiti ridotti a «macchine di potere» che «hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni».
La sua era certo una meritoria denuncia del malcostume politico ormai imperante. Era però anche un atto d'accusa rivolto all'intero sistema dei partiti su cui si era retta la vita pubblica nazionale dalla caduta del fascismo in poi contro cui veniva contrapposto il popolo tradito.
Non s'è mai prestata adeguata attenzione al fatto che con l'elevazione da parte del Pci della «questione morale» a stella polare della sua futura azione politica il Pci consumava il cambio di due suoi storici paradigmi culturali.
Il primo. Berlinguer superava l'idea del primato della politica che lo aveva permeato il partito per tutto il lungo dopoguerra conferendo al confronto politico un carattere «gladiatorio sui valori» e alla politica una connotazione «alta». Accantonava l'idea che sia la politica a determinare i grandi movimenti della storia, che «la persona venga giudicata in base all'ideologia cui ispira le sue azioni, non per la moralità o immoralità di quelle».
Il secondo paradigma con cui il Pci rompeva era con la precedente valorizzazione del partito a architrave di sostegno della democrazia. Ora individuava la lotta alla partitocrazia quale essenza del suo conclamato nuovismo. Portava acqua con ciò al mulino della tesi, allora popolare, di una società civile sana contrapposta a una società politica malata, e con ciò disarmandosi nei confronti dell'ordine di idee e di comportamenti propri della società capitalistica di cui «la consulenza» finisce per essere la fisiologia e «l'affarismo» la patologia.
Per queste ragioni, la perdita degli anticorpi dall'infezione affaristica che oggi la sinistra lamenta non può limitarsi ad attribuirla al venir meno della tensione morale che contraddistingue ormai la vita di tutti i partiti. Una responsabilità a monte va ricercata nell'aver sostituito di fatto la questione morale alla questione sociale come orizzonte strategico della sinistra.
La superiorità morale del Pci, storia di un tragico equivoco. Giovanni Vasso su L’Identità il 15 Dicembre 2022
“I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero”. No, non è un post social di uno dei tanti populisti del web che si scagliano contro ciò che è diventata la sinistra. No, questa frase, che oggi farebbe suonare le sirene democratiche, è stata pronunciata da Enrico Berlinguer e raccolta da Eugenio Scalfari in quell’intervista, ormai mitologica, sulla “questione morale” nella politica italiana. Era il 28 luglio del 1981. “La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un boss e dei sotto-boss”. Forse sono parole troppo dure, eppure la descrizione che Berlinguer fece quarantadue anni fa della Dc e (soprattutto) del Psi, che stava erodendo consensi ai comunisti, non è molto lontana dalla percezione che gli italiani hanno del (fu?) maggior partito della sinistra italiana che oggi sprofonda, letteralmente, nei sondaggi. La superiorità morale dei comunisti, più che un fatto politico è stato un dogma, una verità di fede, un preciso schema strategico. Tutti rubano, tranne il Pci. Tangentopoli avrebbe dovuto dimostrarlo, la sinistra italiana venne soltanto lambita dall’ondata di avvisi di garanzia che, invece, travolse il Psi di Bettino Craxi. “Ora legale, panico tra i socialisti”, fu il titolo non solo di un giornale ma di una stagione politica. Di Primo Greganti si parlò poco, così come del dossier Mitrokhin e dei rubli da Mosca, mentre infuriava, sulla parte avversa, la polemica Gladio. Achille Occhetto per un attimo ci aveva creduto: i Progressisti avrebbero portato, finalmente, l’onestà al potere. Arrivò Berlusconi nel ‘94, e vinse lui. Aprendo una nuova stagione in cui la sinistra, con il pio e dimesso Romano Prodi, si poneva come argine morale alla decadenza tele-bizantina di cui il Cav sarebbe stato simbolo e causa insieme. Finì anche quella stagione. E gli ex comunisti col santino di Berlinguer in tasca e la Santa alleanza con i democristiani (“buoni”, come scrive Paolo Cirino Pomicino) della Base, si scordarono di badare alla profezia di un grande socialista, Pietro Nenni: “A fare i puri, prima o poi, si trova uno più puro che ti epura”. Arrivò Beppe Grillo e il Vaffa day nel 2008. Fu respinto. Nacque il M5s su gentile (e auto-jettatorio) invito di Piero Fassino. Raccolse l’eredità dei puri, degli onesti, appropriandosi, nel 2018, di tutte le roccheforti che furono rosse. Cinque anni dopo, la parabola era già finita. Ma Giuseppe Conte, piuttosto che rintanarsi sulla questione morale, è sceso in campo agitando le ragioni dei ceti più poveri e del Sud. Gli fecero il funerale, ridacchiando di lui. Oggi si ritrova la possibilità di diventare lui il maggior partito di sinistra in Italia. Enrico Letta, puntando tutto sull’antifascismo, vecchio richiamo della foresta e insieme tentativo di aggiornare la questione morale inquadrandola su base ideologica, ha fallito. Il Pd deve cambiare ma con Bonaccini e la sua vice Schlein già è sotto il 15% dei sondaggi.
Mozione Qatar. Il grande imbarazzo sulla nuova questione morale della sinistra. Mario Lavia su L’Inkiesta il 14 Dicembre 2022
Prima di trarre conclusioni bisogna aspettare le sentenze, ma la storia dei politici progressisti di Bruxelles merita comunque un chiarimento da parte dei leader vecchi e futuri del Pd e di Articolo 1
Nel tardo 1989, in una drammatica riunione del Consiglio nazionale della Democrazia Cristiana, Oscar Luigi Scalfaro, all’epoca uno degli esponenti più autorevoli di quel partito, intervenne senza giri di parole: «Ligato è un uomo nostro, non possiamo tacerne». Ludovico Ligato era il presidente del Ferrovie, democristiano, ucciso nell’agosto di quell’anno per motivi mai chiariti.
Scalfaro contestava il silenzio dei suoi amici democristiani perché «è un uomo nostro» ma non ebbe successo e il silenzio perdurò. Ecco, la cosa che certe volte fa più paura è questo, il silenzio. Che può significare due cose: o è vergogna o è instupidimento.
Enrico Letta ha chiesto doverosamente chiarezza e annunciato che il Partito democratico si costituirà come parte lesa. Bene. Ma non ci ha detto minimamente come sia stato possibile uno schifo del genere nella sua famiglia politica. Qualcuno anzi si scoccia pure e si dice «incazzato».
Se sono incazzati loro figuriamoci gli elettori. Ci fosse uno che abbia chiesto scusa (premettendo alle scuse l’estenuante ma giusto richiamo al garantismo), che abbia detto una cosa tipo «non ce ne siamo accorti, era una così brava persona», come dicono quelli del piano di sotto quando arrestano l’inquilino del piano di sopra.
E allora: Antonio Panzeri è stato un esponente del Pci-Pds-Ds-Partito democratico e infine Articolo Uno per decenni. «È un uomo nostro»: la frase di Scalfaro non l’ha detta nessun dirigente. È possibile, per quanto inquietante, che nemmeno uno si sia accorto della personalità di costui, forse di un probabile cambio del suo tenore di vita, che so, di un qualche cosa che non quadrasse con il cliché di ex sindacalista votato alla causa dei lavoratori di tutto il mondo, segnatamente, da ultimo, del mondo arabo.
I vari europarlamentari del Partito democratico di questi anni non lo hanno frequentato? Gli assistenti, che a Bruxelles lavorano ora per uno ora per l’altro, non hanno notato nulla? Così come è possibile, anche se allucinante, che i socialisti europei, e in particolare greci, non si siano mai accorti di che tipetto fosse Eva Kaili, una compagna talmente capace da essere eletta vicepresidente dell’Europarlamento su designazione dei socialisti. È possibile, anzi è probabile, che nessuno avesse sospettato alcunché. Ma allora sono tutti degli sprovveduti, dei tontoloni, degli addormentati.
Tra tante persone intelligenti e oneste non uno che avesse rizzato le antenne: un tempo, dispiace dirlo, a sinistra non funzionava così. C’erano gli anticorpi. A partire dalla sensibilità dei dirigenti.
Si dice: le mele marce ci sono sempre. Sì, ma qui sta emergendo un sistema, una rete che probabilmente è stata pazientemente intessuta per anni. Al di là dei luoghi comuni, che dice Pier Luigi Bersani, ex segretario del Partito democratico e leader morale di Articolo Uno che si appresta a rientrare nel Partito democratico? L’arrestato non era un uomo suo? Ha parlato Matteo Renzi, come al solito polemico: Panzeri «se ne andò dal Partito democratico perché diceva che io ero contro i valori della sinistra. Ma quali erano questi valori?».
Renzi era segretario del Partito democratico quando nel 2014 Panzeri venne ricandidato, ma giova ricordare che le liste elettorali sono lottizzate tra le correnti ed è difficile che una corrente metta il becco sulle scelte delle altre: e anche questo nel Partito democratico ci sarebbe da correggere. E Articolo Uno, un partito così piccolo, non si accorge che c’è del marcio a Bruxelles che origina da un suo esponente? Nessuno se n’è accorto ma è proprio questo che sotto il profilo politico preoccupa.
Si aspettano i risultati delle indagini, com’è giusto, e poi dei processi, ma pare veramente difficile a questo punto pensare che si tratti di un errore giudiziario, visto che ci sono personaggi, come il padre della ex vicepresidente greca, che scappano con il bottino; e va sempre ricordato che le responsabilità penali sono personali.
Le responsabilità politiche però no, sono collettive. Sono dei partiti, Partito democratico e Articolo Uno che ormai è nel Partito democratico. Stefano Bonaccini ha ricordato Enrico Berlinguer e la questione morale: solo che ora la questione morale è un problema della sinistra. Quella sinistra che ha il dovere di capire e di spiegare come sia stata possibile questa roba soprattutto per rispetto dei suoi elettori, già frastornati dalla crisi di questi mesi a cui si aggiunge adesso la vergogna di «un uomo nostro» al centro di uno scandalo internazionale. Il grande silenzio è la risposta peggiore.
La lezione del teorico sardo. Gramsci e la questione morale: non è un valore ma strumento di lotta politica. Michele Prospero su Il Riformista il 29 Dicembre 2022
Dinanzi ad ogni scandalo politico, da ultimo quello dei contanti del Qatar, i commentatori recuperano l’intervista di Berlinguer sulla “questione morale”. E se invece si interrogasse di più un analista della crisi come Gramsci? La cosiddetta questione morale è, per il teorico sardo, una “arma ideologica”, come le altre, che può servire in maniera “eccellente” in vista di obiettivi contingenti. Però un uso demagogico della lotta alla “corruzione” è sconsigliato poiché essa, da strumento occasionale per resistere o approfittare di una situazione favorevole, si tramuta così in una maschera che confonde, manipola.
La questione morale, per Gramsci, costruisce una bolla ideologica che impedisce di cogliere i processi reali. “Che gli interessati a che la crisi si risolva, dal loro punto di vista, fingano di credere e reclamino a gran voce che si tratti della «corruzione» e della «dissoluzione» di una serie di «principi» (immortali o no), potrebbe anche essere giustificato: ognuno è il giudice migliore nella scelta delle armi ideologiche che sono più appropriate ai fini che vuol raggiungere e la demagogia può essere ritenuta arma eccellente. Ma la cosa diventa comica quando il demagogo non sa di esserlo ed opera praticamente come fosse vero nella realtà effettuale che l’abito è il monaco e il berretto è il cervello”. Non serve la lamentela sulla decadenza morale, che è solo un aspetto, non la causa, della degenerazione. È essenziale, nella lente di Gramsci, comprendere le ragioni per cui “tutto l’organismo politico è corrotto dallo sfacelo della funzione egemonica”.
La crisi è un fenomeno complesso che appare con le sue “manifestazioni teatrali”, con la “crescente instabilità dei governi”. Si produce una sorta di governismo per cui partiti, fazioni e singole personalità danno luogo a “contrattazioni cavillose e minuziose”. Anche gli accordi personalistici più “scandalosi” sono recuperati per “formare il governo per salvare il paese”. In tutto ciò si avverte l’impatto di una “moltiplicazione dei partiti parlamentari”, con il rincorrersi di “crisi interne permanenti di ognuno di questi partiti”. Secondo Gramsci, “le forme di questo fenomeno sono anche, in una certa misura, di corruzione e dissoluzione morale”. Ma, oltre le immagini della compromissione individuale, esistono le ragioni più durevoli di una questione che presenta molteplici strati. Di là dalla dimensione provinciale della micro-corruzione, quella che procede “sotto forma di pagliettismo meschino e di mania di bassi intrighi”, i Quaderni esplorano la corruzione come espressione di un “marasma”, cioè di una crisi di sistema che viene mascherata dalle calde accuse di slealtà che le parti politiche reciprocamente si scambiano.
“I libri dei «destri» dipingono la corruzione politica e morale nel periodo della sinistra, ma la letteratura degli epigoni del Partito d’Azione non presenta come molto migliore il periodo del governo della destra”. L’uso strumentale degli scandali, che ogni partito rinfaccia all’altro rivendicando per sé un’immunità morale, rientra nella fisiologia della schermaglia politica. All’alternanza di governo, di fatto, non corrisponde un “cambiamento essenziale” e durevole delle pratiche che incida nel modo di essere della democrazia. E per questo, invece di cogliere le implicazioni generali della “debolezza generale della classe dirigente”, si accumulano demonizzazioni del regime parlamentare o rimpianti per la “crisi del principio di autorità”, da recuperare con qualche forma di “superstizione” politica. La radice della crisi, però, risiede non nella decadenza morale in quanto tale (“forse, nella realtà, la corruzione personale è inferiore di quanto appare”) o nella dimenticanza di “immortali princìpi”, bensì nella “assurda situazione politica” che raccoglie una dissolvente giuntura storico-critica a seguito della quale “l’apparato egemonico si sgretola”.
Dietro i toni scandalistici, nella lettura di Gramsci, esistono dati di sistema. Spicca, a destra, la mancanza di “un vasto partito conservatore” capace di arginare le variegate forze antisistema, “che negano in tronco tutta la civiltà moderna e boicottano lo Stato”. Al centro, si avverte la latitanza di una credibile aggregazione di tutte “le gamme liberali, dai moderati ai repubblicani, sui quali operano tutti i ricordi degli odi dei tempi delle lotte e che si dilaniano implacabilmente”. A sinistra, infine, affiora solo “in forma sporadica una serie di tendenze sovversive anarcoidi, senza consistenza e indirizzo politico, che mantengono uno stato febbrile senza avvenire costruttivo”. Agli occhi di Gramsci, in una politica a forti tinte personalistiche, la mancanza di partiti-società determina processi decompositivi. “Non esistono «partiti economici» ma gruppi di ideologi déclassés, galli che annunziano un sole che mai vuole spuntare”. Le parole si sganciano dalle cose, le formule anche più radicali si estraniano dai processi.
La radice di una tipologia di corruzione è connessa all’industrializzazione e alla sua civiltà. La crescita disordinata del moderno apparato produttivo determinò “una formidabile disoccupazione di intellettuali, che provocò tutta una serie di fenomeni di corruzione e di decomposizione intellettuale e morale, con riflessi economici non trascurabili. Lo stesso apparato statale, in tutte le sue manifestazioni, ne fu intaccato assumendo un particolare carattere”. Si tratta, per certi versi, di una corruzione connessa ai processi di modernizzazione che, nelle sue forme esteriori, è destinata ad essere riassorbita dalla crescita della società civile, dalla diffusione di una burocrazia affidabile e di un’etica individuale più matura.
Le manifestazioni di corruzione che i servizi segreti hanno smascherato nel caso qatarino, però, non riguardano i processi molecolari dello Stato in formazione, ma si riferiscono alle crepe dello Stato moderno, ridimensionato al cospetto delle trame mondiali di influenza. La scuola marxista di relazioni internazionali di Amsterdam, nelle analisi dedicate alle compenetrazioni potere-denaro, ripercorre alcuni passaggi di Gramsci. La suggestione che Kees van der Pijl (Class formation at the international level) recupera è soprattutto quella del concetto di corruzione da intendersi come degenerazione che esplode nelle fasi di crisi di egemonia, quando i regimi politici vedono eroso l’equilibrio storico di forza e consenso maturato nel governo efficace dei processi e nella capacità di direzione dell’opinione pubblica.
Si può leggere nei Quaderni: “Tra il consenso e la forza sta la corruzione-frode (che è caratteristica di certe situazioni di difficile esercizio della funzione egemonica, presentando l’impiego della forza troppi pericoli), cioè lo snervamento e la paralisi procurati all’antagonista o agli antagonisti con l’accaparrarne i dirigenti sia copertamente sia in caso di pericolo emergente, apertamente, per gettare lo scompiglio e il disordine nelle file antagoniste”. Secondo van der Pijl, la crisi attuale della democrazia è visibile nell’usura storica della mediazione politica novecentesca. Per dirla con Gramsci, essa si manifesta con l’alterazione dei “normali” meccanismi vigenti “nel terreno divenuto classico del regime parlamentare”, risultante “dalla combinazione della forza e del consenso che si equilibrano variamente”. L’ordine mondiale definito nel dopoguerra ha perso validità, e sulla scena delle influenze irrompono nuove potenze regionali, emirati e Stati falliti, mentre fioccano offerte di consulenze, arbitraggi speculativi. Emergono trame nuove di potere, con le manovre di banche ombra e l’attivismo di frazioni di élite e centri di corruttela espressi da entità transnazionali (politiche, finanziarie, affaristiche, militari).
I grumi di potere scavalcano la mediazione dello Stato e vedono in movimento gli agenti del capitale internazionale. La corruzione diventa così uno strumento per agire nelle pieghe dell’economia e superare le difficoltà del consenso (per i costi sociali della globalizzazione e la privatizzazione dei servizi) e le scorciatoie della forza. Quello che Gramsci chiamava “l’esercizio «normale» dell’egemonia” è superato da intrecci denaro-potere che coinvolgono sia i paesi centrali che quelli periferici. La ricerca di van der Pijl ricorda che nella top 20 dei finanziatori miliardari di Obama figurano Soros, il gestore di hedge fund Paul Tudor Jones, le banche di investimento di Wall Street, insieme a Google, Microsoft e Time Warner, alcune università della Ivy League, la Goldman Sachs, JP Morgan Chase, Citigroup, la svizzera UBS e Morgan Stanley. La stessa presidenza reazionaria del “miliardario anticonformista” Trump si configura come una coalizione di super ricchi aggregatasi per spremere il potere e conseguire opportunità di accumulazione. In essa la Goldman Sachs è rappresentata in modo preminente, con Steven Mnuchin come segretario al Tesoro e Gary Cohn come capo consigliere economico. Altri quattro esponenti sono attivi in dipartimenti importanti per inseguire la deregolazione finanziaria e la promozione di “mercati liquidi e vivaci” (ivi).
Sul piano storico, in America la crisi della forma politica si presenta con l’attivismo di imprese commerciali, società di consulenza, banchieri, fiduciari d’affari, responsabili di servizi finanziari che entrano nei ruoli direttivi delle amministrazioni. In Europa, invece, la crisi mobilita la funzione surrogatoria di banche ombra, dell’arbitrato finanziario, delle consulenze. Sorgono ministri tecnocratici, la Bce con la ricetta Trichet si tramuta in una sorta di ufficio del programma dei governi alle prese con la crisi. Il fenomeno delle porte girevoli tra politica e affari, con consigli di amministrazione ospitali per le élite politiche, assume risvolti evidenti: “Il presidente uscente della Commissione Ue Barroso non ha dovuto pensare a lungo a dove trasferirsi ed è succeduto a Peter Sutherland come presidente di Goldman Sachs International nel 2016” (van der Pijl).
La redistribuzione del potere si attua, nelle parole di Gramsci, “senza che la forza soverchi di troppo il consenso, anzi cercando di ottenere che la forza appaia appoggiata sul consenso della maggioranza, espresso dai cosí detti organi dell’opinione pubblica -giornali e associazioni- i quali, perciò, in certe situazioni, vengono moltiplicati artificiosamente”. Se i media corrompono le coscienze con le manipolazioni della “politica della paura”, i giri del denaro e delle mediazioni, le manovre degli emirati e degli emissari transnazionali del capitale cercano di occupare il vuoto che la crisi della forma politica ha lasciato. Magari bastasse ripassare l’intervista del 1981 al segretario comunista per fornire una risposta alla privatizzazione della politica. Servono attori e culture per superare la crisi della democrazia, che nel populismo antipolitico trova alleati, non certo argini.
Michele Prospero
Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci: nacque così il partito delle procure. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 5 Dicembre 2021
Sulla vicenda di Mani Pulite il dibattito è sempre aperto e probabilmente non si chiuderà mai, malgrado gli appelli melensi ad una impossibile “memoria condivisa”: e poi “condivisa” fra chi? Fra chi ha fatto un autentico colpo di mano mediatico-giudiziario e chi lo ha subìto? Dopo un’autentica, anche se atipica guerra civile (gli avvisi di garanzia, gli arresti, i titoli dei giornali, i telegiornali, Samarcanda, gli editti in diretta del pool dei pm di Milano che sono stati il corrispettivo dei carri armati e dei paracadutisti per cui Curzio Malaparte potrebbe scrivere una nuova edizione del suo libro: Tecnica di un colpo di Stato) la memoria condivisa è impossibile, a meno che la storia non sia scritta solo dai vincitori. Ma su questo terreno invece i vinti si sono fatti sentire e continueranno a farlo.
Gli ultimi significativi contributi sull’argomento sono costituiti da due saggi sul Foglio, uno di Luciano Violante (Casellario dei veleni che hanno intossicato la giustizia), l’altro di Paolo Cirino Pomicino (Le conversioni di Violante), da un libro assai vivace, con intenti giustificazionisti, di Goffredo Buccini (Il tempo delle Mani Pulite) e un altro di Pier Camillo Davigo, L’occasione mancata (ma la principale occasione mancata è costituita proprio dal libro di Davigo che invece di impegnarsi in una riflessione critica porta avanti, fra minacce e rinnovate condanne, una esaltazione di tutti gli atti del pool e dei suoi protagonisti ). I due saggi sul Foglio si pongono su piani totalmente diversi. Luciano Violante colloca il suo saggio in una dimensione che, per usare una espressione cara a Gramsci, è “fur ewig”, quasi che negli anni cruciali dal 1970 al 2000 egli sia stato uno studioso indipendente. Invece dagli anni ’70 agli anni ’90 Violante è stato uno dei fondatori del giustizialismo sostanziale, ha operato a monte del Parlamento nella costruzione di un rapporto profondo fra il Pci e alcune procure, e poi dalla presidenza della Commissione Antimafia ha contribuito ad elaborare testi assai importanti.
Invece Paolo Pomicino ha scritto il suo saggio con il cervello, con la memoria storica, e anche con la partecipazione di chi da un certo uso politico della giustizia è stato colpito in modo molto duro. Alla luce di tutto ciò Pomicino, nel suo saggio assai polemico, finisce con l’attribuire a Violante il ruolo di deus ex machina di tutto quello che è accaduto. Invece, a nostro avviso, se si vuole andare davvero al fondo della questione, bisogna fare i conti con la storia del Pci dal 1979 in poi. Se li facciamo vediamo che è “l’ultimo Berlinguer” ad essere alle origini di tutto, compresa l’involuzione giustizialista dal Pds. L’azione politica sviluppata dal gruppo dirigente che ha cambiato nome al Pci e ha fondato il Pds (Occhetto, D’Alema, Veltroni, Fassino e, appunto, Violante) è in assoluta continuità con quel lascito berlingueriano. “L’ultimo Berlinguer” (descritto in modo magistrale in un saggio di Piero Craveri sulla rivista XXI secolo – marzo 2002) ha prodotto due guasti.
In primo luogo ha accentuato, non ridotto, le divisioni verificatesi fra il Pci e il Psi dai tempi dell’invasione sovietica dell’Ungheria: certamente Togliatti era un sofisticato stalinista e anche dopo il XX Congresso lavorò per ricostruire su nuove basi il legame di ferro con l’Urss. Però Togliatti non fu mai un giustizialista (la sua scelta per l’amnistia ebbe un significato profondo) e dal 1944 al 1964 mantenne sempre ferma la scelta strategica fatta dall’Internazionale comunista nel VII Congresso (I fronti popolari, il rapporto preferenziale con i partiti socialisti, la linea gradualista in Europa) e quindi non regredì mai verso il settarismo del VI Congresso (1928) fondato appunto “sul socialfascismo”. In secondo luogo Berlinguer con la sua enfatizzazione della questione morale e con la sua damnatio degli “altri partiti” (quasi che il Pci fosse davvero “diverso” da essi sul terreno del finanziamento irregolare) ha rappresentato una delle fondamentali scuole di pensiero (quella di sinistra), che hanno ispirato la successiva affermazione della demonizzazione dei partiti e dell’antipolitica.
Le altre scuole su questo terreno sono state tutte di destra o di ispirazione confindustriale e poi sono state anche quelle che hanno drenato più consensi. Di fronte all’ascesa di Craxi alla presidenza del Consiglio Berlinguer scartò nettamente la proposta del segretario della Cgil Luciano Lama che era quella di dare una sponda politica e sindacale alla novità costituita dal fatto che per la prima volta un socialista diventava presidente del Consiglio. Anzi Berlinguer fece la scelta del tutto opposta, quella della contrapposizione frontale. Ciò derivava da un’analisi totalmente negativa su Craxi e sul gruppo dirigente socialista sviluppata nel ristretto laboratorio cattocomunista che assisteva Berlinguer nella definizione della politica interna (invece in politica estera egli aveva una autonomia assoluta e faceva tutto di testa sua). In una lettera del 18 luglio 1978 Antonio Tatò, uno dei due consiglieri di Berlinguer in politica interna, scriveva “Craxi è un avventuriero, anzi un avventurista, un abile maneggione e ricattatore, un nemico dell’unità operaia e sindacale, un nemico nostro e della Cgil, un bandito politico di alto livello”.
Di lettere su questa falsa riga ce ne stanno altre. Partendo da un’analisi siffatta in una riunione della direzione Berlinguer sostenne che il Psi puntava ad acquisire la direzione del paese con la presidenza del Consiglio addirittura “sulla base di uno spostamento a destra” dell’asse politico. Berlinguer ammonì “di non dimenticare il periodo del cosiddetto “socialfascismo” in cui le socialdemocrazie avevano aperto la strada alla reazione e al nazismo con le loro posizioni antipopolari e antioperaie (attorno agli anni ‘30) per cui si potevano controllare i toni della polemica ma sarebbe stato un errore non mettere in chiaro la pericolosità della posizione del Psi”. Per chi conosce il valore di certe espressioni “simboliche” del linguaggio comunista la frase usata da Berlinguer a proposito di Craxi sul “socialfascismo” aveva un significato profondo. Da qui una scelta politica di fondo: il nemico da battere era il Psi di Craxi. Per altro verso l’alternativa lanciata a Salerno era contro tutto e tutti. Gli unici alleati possibili erano la sinistra cattolica e quella democristiana. Arriviamo così al 1989.
Cossiga capì subito che il crollo del comunismo avrebbe avuto conseguenze non solo per il Pci ma anche per la Dc, per il Psi e per i partiti laici. Egli sostenne l’esigenza di una profonda autocritica da parte di entrambi gli schieramenti contrapposti che duranti gli anni della guerra fredda avevano messo in atto molte illegalità. Questo invito fu nettamente respinto prima dal Pci di Berlinguer poi dal Pds e anzi Cossiga fu addirittura criminalizzato. A quel punto i cosiddetti poteri forti (dalla Confindustria a Mediobanca alla Fiat alla Cir, ad altri grandi gruppi) ritirarono la loro delega alla Dc e al Psi e anzi manifestarono forti propensioni per l’antipolitica e ancor di più una netta repulsione per la “repubblica dei partiti” e per le imprese pubbliche. Di conseguenza il Pds fu di fronte ad una scelta di fondo.
I miglioristi proposero di rispondere a tutto ciò con la formazione di un grande partito socialdemocratico e riformista e comunque con l’unità fra il Psi e il Pds. Invece sulla base dell’analisi e della linea politica di Berlinguer la risposta di coloro che Folena appellò in un suo libro I ragazzi di Berlinguer fu di segno opposto e fu espressa in modo lucido da Massimo D’Alema: “Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo cambiare nome. Volevamo entrare nell’Internazionale socialista, dunque non potevamo continuare a chiamarci comunisti. Craxi aveva un indubbio vantaggio su di noi, era il capo dei socialisti in un paese occidentale, quindi rappresentava la sinistra giusta per l’Italia, solo che aveva lo svantaggio di essere Craxi.
Mi spiego. I socialisti erano storicamente dalla parte giusta, ma si erano trasformati in un gruppo affarista avvinghiato al potere democristiano. Allora avevamo una sola scelta: diventare noi il partito socialista” (Fasanella-Martini: D’Alema). Qui è il punto cruciale. Quando in seguito alla presa di distanza dai partiti tradizionali da parte dei poteri forti decollò il cosiddetto circo mediatico-giudiziario alle origini il Pds non ne faceva parte, tant’è che tremò sapendo bene di essere inserito a suo modo nel sistema del finanziamento irregolare dei partiti. Questa fu la ragione per cui Occhetto si recò per la seconda volta alla Bolognina per chiedere scusa agli italiani.
A sua volta per una fase Borrelli accarezzò l’idea che a un certo punto “il presidente della Repubblica come supremo tutore” avrebbe “chiamato a raccolta gli uomini della legge e soltanto in quel caso noi potremmo rispondere. Non basterebbe certo una folla oceanica sotto i nostri balconi, ma un appello di questo genere del capo dello Stato”. Quando fu chiaro che ciò non sarebbe avvenuto il vice procuratore capo Gerardo D’Ambrosio, da sempre militante del Pci, ebbe buon gioco a convincere Borrelli e gli altri che il pool aveva bisogno di un partito di riferimento e che esso avrebbe potuto benissimo essere il Pds, visti gli ottimi rapporti che il Pci aveva avuto con alcune procure strategiche (Milano, Torino, Palermo). Ecco che così il Pds ebbe un rapporto speciale con il pool di Milano e attraverso di esso poté procedere alla occupazione dello spazio storicamente coperto dal PSI distruggendolo per via mediatico-giudiziaria. In una prima fase questo disegno non fu contrastato dalla Dd perché Antonio Gava si illuse che consegnando Craxi e il Psi “ad bestias” tutta la DC si sarebbe salvata.
Le cose non andarono così: quando la ghigliottina si mette in moto essa non si arresta facilmente: in quel caso essa fu interrotta solo per la sinistra democristiana. A proposito di tutto ciò valgono le osservazioni fatte da un personaggio al di sopra di ogni sospetto come Giovanni Pellegrino, del Pds, già presidente della Commissione Stragi: “l’innesto di alcuni magistrati come Luciano Violante nel gruppo dirigente aveva finito col cambiarne (del Pds, n.d.r.) la cultura. Comincia a nascere un “partito delle procure” e si forma una corrente di pensiero secondo cui i problemi politici si risolvono con i processi. Il gruppo dirigente del partito era convinto che cavalcando la protesta popolare e con una riforma elettorale maggioritaria un partito del 17%, quale era allora il Pds, avrebbe conquistato la maggioranza assoluta dei seggi […]. Occhetto e parte del gruppo dirigente pensavano di avere il monopolio della astuzia […]. La nostra astuzia era al servizio di un disegno fragile che alla fine ha prodotto Berlusconi. Berlusconi è nato perché a sinistra in tanti erano convinti che la magistratura poteva essere la leva per arrivare al governo” (in G. Fasanella, G. Pellegrino, La guerra civile, Bur). Questi a nostro avviso sono gli elementi fondamentali di una vicenda che ha segnato in modo profondo la storia del nostro paese.
Comunque fra i protagonisti di quella stagione Violante è l’unico che negli anni 2000 ha portato avanti una riflessione critica e sostanzialmente autocritica. A parte il suo lungo articolo sul Foglio Luciano Violante ha il merito di aver fatto una battuta fulminante per commentare la situazione in cui si trova attualmente la magistratura italiana: “la prima riforma della giustizia da fare è quella della divisione delle carriere fra pm e cronisti giudiziari”. Quella battuta ci porta direttamente al libro di Goffredo Buccini. Nel 1992 Buccini era un giovanissimo giornalista del Corriere della Sera. Egli ricostruisce dal lato dei cronisti giudiziari quella che non fu una rivoluzione, ma una confusa guerra civile. Le rivoluzioni sono cose serie e producono anche una nuova classe dirigente di livello, una nuova cultura, nuovi valori. Le cose invece con Mani Pulite non sono andate così: sul mucchio selvaggio dai giovani cronisti descritti da Buccini, sugli avvocati accompagnatori, sugli imprenditori e su alcuni politici presi dalla sindrome di Stoccolma, si innestò una operazione politica fondata sulla scelta di due pesi e di due misure, uno adottato a favore del Pci-Pds e della sinistra democristiana, l’altro per colpire Craxi, i segretari dei partiti laici e l’area di centro-destra della Dc.
Ciò è avvenuto, come abbiamo già visto, perché i poteri forti dopo il 1989 hanno ritenuto di interrompere il loro rapporto globale (compresi i finanziamenti) con i tradizionali partiti di governo (Dc, Psi, partiti laici) per cui hanno dato licenza di uccidere agli organi di stampa da loro condizionati anche andando incontro nell’immediato ad alcune difficoltà di immagine e anche a vicende giudiziarie risolte come fecero Romiti e De Benedetti con alcune confessioni-genuflessioni fatte al pool dei pm di Milano. Di conseguenza un nucleo ben assortito di pm della procura di Milano non ha avuto più alcun condizionamento e si è scatenato “sulla politica”. A quel punto però se la razionalità e specialmente l’equanimità avessero prevalso sarebbero stati ipotizzabili due grandi operazioni. Una ipotesi era quella della grande e reciproca confessione (visto che il Pci era finanziato in modo ancor più irregolare della Dc e del Psi) come sostennero in modo diverso da un lato Cossiga, dall’altro lato Craxi nel suo discorso in parlamento del luglio 1992. Ciò avrebbe dato luogo a nuove procedure, a nuove regole, a una vera amnistia (non quella del 1989 che servì solo a mettere a riparo il Pci da conseguenze penali per il finanziamento del Kgb) e a un nuovo sistema politico di stampo europeo.
L’altra ipotesi sul terreno della equanimità era invece quella di una totale rottura per una ipotetica palingenesi con i magistrati assunti al ruolo di “angeli sterminatori” nei confronti di tutti i peccatori, vale a dire i partiti senza eccezione alcuna e i grandi gruppi imprenditoriali privati e pubblici. Avvenne esattamente il contrario, Mani Pulite fu gestita in modo del tutto unilaterale con i due pesi e le due misure a cui ci siamo riferiti precedentemente. Il libro di Buccini costituisce una straordinaria conferma di questa unilateralità. Tutti i cronisti giudiziari erano di sinistra e nessuno di essi ha mai contestato la grande mistificazione su cui si è fondata Mani Pulite. I segretari della Dc, del Psi, dei partiti laici “non potevano non sapere” e invece, per non far nomi, Occhetto, D’Alema, Veltroni “potevano non sapere” anche quando Gardini si recava a via delle Botteghe Oscure per incontrare uno o due di loro portando con sé una valigetta con dentro un miliardo. Buccini rimane all’interno del paradigma su cui si è fondato Mani Pulite quando sottovaluta il discorso di Craxi alla Camera del 1992, liquidandolo con la battuta: “tutti colpevoli, quindi nessun colpevole”: la sostanza era proprio quella; il finanziamento irregolare riguardava tutti da tempo immemorabile e a loro volta magistrati e giornalisti sapevano tutto benissimo. Solo che, indubbiamente in seguito a un fatto storico come il 1989, ad un certo punto qualcuno (in primo luogo i poteri forti) decise che le regole del gioco all’improvviso cambiavano.
Parliamoci chiaro: con i metodi adottati dalla procura di Milano Togliatti, Secchia, Amendola, Longo, lo stesso Berlinguer per interposti amministratori del partito, De Gasperi, Fanfani, i dorotei, Marcora, De Mita e Donat-Cattin si sarebbero venuti a trovare in condizioni analoghe a quelle di Bettino Craxi, di Forlani, di Altissimo e di Giorgio La Malfa. Buccini descrive anche quali erano i rapporti reali dei cronisti con il nucleo leninista dei pm: “Davigo mi ha preso a ben volere – riservatissimo e un po’ misantropo mi lascia intravedere a volte uno spiraglio di amicizia […] passeggiandomi accanto fra le file di uffici semideserti a quell’ora mi dice che quando nasceranno le Commissioni di epurazione dei giornalisti io dovrei proprio farne parte perché sono un ragazzo perbene: lo guardo e naturalmente deve stare scherzando” (Buccini, Il tempo delle Mani Pulite, pag. 145). “È un pezzo che mi sto curando Borrelli, Alfonso, suo segretario, mi guarda con il compatimento di uno zio affettuoso […]. La scena è abbastanza umiliante, devo ammetterlo, ma nel mestiere la sostanza conta più del talento” (idem, pag. 166) e “Borrelli mi dice […] in un’ennesima intervista, i colleghi in sala stampa mi sfottono acidi definendomi la penna preferita del procuratore, ma starebbero volentieri al mio posto” (idem, pag. 186). Infine, ma questa è invece un’osservazione assai seria perché va al fondo della questione: “l’indagine si è avvalsa e nutrita dell’uso smisurato delle manette” (idem, pag. 178).
A ciò va aggiunto che ci fu un unico Gip, cioè Ghitti, del tutto allineato, che addirittura parlò della liquidazione di un intero “sistema”. Infine, quanto al libro di Davigo, c’è un punto fondamentale che per molti aspetti è sorprendente e disarmante perché tratta con argomenti puramente giuridici una decisiva questione politica: “le successive indagini fecero emergere l’esistenza di un sistema nazionale in cui le principali imprese che avevano rapporti prevalenti con la pubblica amministrazione pagavano imponenti somme di danaro ai segretari amministrativi dei partiti di maggioranza mentre le cooperative rosse pagavano il Pci (dal 1991 Pds). La questione è stata oggetto di polemiche infinite sull’assunto che il Pci-Pds non sarebbe stato perseguito con la stessa energia con cui sarebbero state svolte le indagini nei confronti degli altri partiti, per poi trarvene l’accusa di politicizzazione agli inquirenti”.
In queste poche righe Davigo liquida una questione fondamentale perché dietro questo pretesto (quello che i segretari del Pci-Pds ignoravano l’apporto delle cooperative rosse mentre a loro volta i pm hanno volutamente ignorato che ad esempio la percentuale fra il 20 e il 30% riservata alle cooperative in sede Italstat, dove tutti gli appalti erano manipolati, era il modo con cui al Pci in quanto tale erano indirizzate enormi tangenti) è stata realizzata la manipolazione che ha portato a un uso politico della giustizia molto mirato. Se poi a questo si aggiunge che quando è stato provato che Gardini si era recato in via delle Botteghe Oscure per vedere i massimi dirigenti del Pds portando con sé una valigetta con dentro un miliardo si è trovato il pretesto per evitare di inviare ad essi un avviso di garanzia e in sede di processo Enimont il presidente Tarantola addirittura ha rifiutato di accogliere la richiesta dell’avvocato Spazzali di sentire Occhetto e D’Alema come testimoni perché quello era un processo totalmente dedicato a sputtanare i segretari dei partiti di governo, ecco che la misura è colma e l’unilateralità della operazione Mani Pulite è assolutamente evidente.
Infine non bisogna mai dimenticare che per due volte il pool fece una sorta di “pronunciamiento” contro proposte di legge del governo. Addirittura una volta, dopo aver fatto saltare il decreto Biondi, a Cernobbio il pool presentò una propria proposta di legge per la sistemazione di tutta la vicenda. Infine, ben due esponenti del pool, cioè il vice procuratore D’Ambrosio e il protagonista dell’operazione di “sfondamento” cioè Antonio Di Pietro sono stati eletti per più legislature nelle liste del Pds. Dopodiché oggi il risultato finale di un colpo di mano senza rivoluzione è del tutto evidente: leaders effimeri, che durano lo spazio di un mattino, partiti liquidi e movimenti privi di spessore politico e culturale. La conseguenza è netta. Nel momento più drammatico del nostro paese dal 1945 il destino dell’Italia dipende da due persone: Sergio Mattarella e Mario Draghi. Fabrizio Cicchitto
Tangentopoli fu un colpo di Stato.
Antonio Di Pietro.
Gherardo Colombo.
Gianni De Michelis.
Giorgio Ruffolo.
Enzo Carra.
Gabriele Cagliari.
Sergio Moroni.
Raul Gardini.
Mafia Appalti.
«Verrà il giorno in cui i pm si arresteranno tra loro». La cupa profezia di Craxi. Ora che persino Davigo è stato condannato in primo grado, quelle parole tornano alla mente. Paola Sacchi su Il Dubbio il 22 giugno 2023
«Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Ora che Piercamillo Davigo, magistrato in pensione, è stato condannato in primo grado per rivelazione d’atti di ufficio, e il garantismo deve valere per tutti, quindi anche per lui dalle posizioni estreme sui politici, non può non risuonare in testa quella tagliente profezia di Bettino Craxi, nei giorni di Hammamet. Lo statista socialista, che aveva fatto esposti contro Davigo, per il quale usò parole durissime difendendosi da quelle altrettanto trancianti che l’esponente del pool di Mani pulite aveva usato per lui, quella cupa profezia la ripeteva spesso fin dal 1994, quando iniziò il suo esilio.
Quelle parole le diceva ai pochi ormai che lo andavano a trovare e gli stavano vicini, oltre alla sua famiglia, come l’ex capo dei giovani socialisti, Luca Josi, e pochi altri del suo stesso Psi. Giustificava solo Gianni De Michelis per non averlo lì con lui. Disse alla cronista: «Povero Gianni, lo capisco, lo hanno messo in croce sul piano giudiziario, però lui come può mi chiama sempre da una cabina telefonica».
Erano gli anni in cui lui diceva, preoccupandosi quasi più degli altri: «Attenzione, chi tocca i fili muore». E questo persino per riguardo dei pochi giornalisti, come la sottoscritta, che pur scrivendo allora per un giornale avversario, l’Unità, durante i periodi di ferie lo andava a trovare in forma privata per un libro-intervista sulla mancata unità a sinistra, I conti con Craxi (MaleEdizioni con prefazione di Stefania Craxi). Erano i giorni in cui già stavano emergendo le prime crepe nel pool milanese, Craxi aveva denunciato in uno dei suoi libretti clandestini, diffusi da Critica social”, dal titolo Giallo, grigio, turchino, la violazione allo stato di diritto che era stata fatta per la sua persona, il suo partito e la sua famiglia. E sperava che qualche verità emergesse dal processo di Brescia contro Di Pietro. Craxi non piangeva, lo fece platealmente in un’intervista a Carlotta Tagliarini, per la tv tedesca, solo per il suicidio di Sergio Moroni. Ma, quando lo incontravamo sul terrazzo dello Sheraton hotel si vedeva che i suoi occhi trattenevano dignitosamente e con fierezza le lacrime dell’amarezza per la sua fine. Per il fatto di essere stato trattato «peggio dei peggiori criminali, mentre io ho sempre servito solo il mio Paese e spero di averlo fatto bene». «Ma, non mi hanno neppure lasciato fare il pensionato», è scritto in uno degli appunti notturni di Hammamet, raccolti dallo storico Andrea Spiri, nel libro L’ultimo Craxi- Diari di Hammamet, per Baldini e Castoldi. Sempre Spiri nel libro
Io parlo e continuerò a parlare (Fondazione Craxi per Mondadori) ricorda le denunce ai colpi dati allo stato di diritto: «Giustizieri, protagonisti, forcaioli mostreranno tutta la corda della loro falsità». Craxi fu il primo a denunciare il perverso circuito mediatico- giudiziario. Lo stigmatizzò più esattamente così: «Clan politici, mediatici, giudiziari». Ma guardava lontano, non si fermava al suo personale calvario giudiziario, tragedia politica per un intero Paese, guardava al futuro dell’assetto tra i poteri, denunciava il colpo inferto al primato della politica da quell’uso politico della giustizia sotto il quale cadde un’intera, storica classe dirigente che aveva ricostruito il Paese nel dopoguerra, fatto importanti riforme e raggiunto successi, come i suoi, dalla scala mobile al nuovo Concordato, all’Italia nel G7. Il terremoto di quella che definì «la falsa rivoluzione» salvò solo gli ex Pci poi Pds e Ds e la sinistra della Dc. Dall’archivio della Fondazione Craxi, in suo schema autografo, riportato da Spiri in Nell’ultimo Craxi, emergono in modo spietatamente chirurgico tutti i nodi di quella stagione, alcuni dei quali ancora oggi irrisolti: «L’uso violento del potere giudiziario. Gli arresti illegali ( le modalità ingiustificate agli arresti), per esempio l’uso illegale delle manette. Gli incredibili Tribunali della Libertà. Il ruolo del Gip. Le detenzioni illegali. I trucchi adottati per allungare le detenzioni. Le discriminazioni negli arresti. La orologeria politica rispetto alle scadenze politiche. Il rapporto con il potere legislativo, con l’istituzione parlamentare. Esibizionismo logorroico. Politicismo nelle valutazioni e nella condotta».
Infine, uno dei punti più dolenti, ancora oggi alla ribalta: «Rapporto illegale e perverso con la stampa». Conclusione: «Violazioni sui diritti dell’uomo». Forse, Craxi aveva ben intuito con la sua profezia che un sistema politico, schiacciato e che aveva in parte avallato «la falsa rivoluzione», gioco forza, per contraccolpo, avrebbe prima o poi generato spinte e controspinte tra aree in lotta in quella stessa parte di magistratura allora dominante. «Verrà il giorno in cui i magistrati si arresteranno tra di loro». Craxi azzeccò anche la profezia su di sé: «Io parlo e continuerò a parlare» .
Estratto dell'articolo di Mattia Feltri per “La Stampa” il 22 giugno 2023.
All'inizio del millennio, al Foglio, dove allora lavoravo, avevamo oltrepassato il centinaio di querele ricevuto dal Pool di Mani pulite. Poi assolti in blocco ma mica male come intimidazione […].
In una di esse […] Piercamillo Davigo aveva individuato una prova di dileggio in un banale refuso – mi uscì un "Pircamillo" – e lì si si consolidò il sospetto che il Dottor Sottile si stesse lasciando un po' prendere la mano, quanto a sottigliezze.
Ma ieri, dopo la condanna in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, sono stato contento di […] leggere anzi qualche articolo nel quale si osservava che l'onestà di Davigo rimane fuori discussione.
Infatti non ho mai pensato che l'onestà delle persone sia misurabile coi codici e le sentenze […]. Altrimenti non avrebbe nessun senso i Miserabili, il capolavoro di Victor Hugo nel quale Jean Valjean è un pregiudicato latitante eppure sta moralmente tre spanne sopra a Javert, il poliziotto da cui è braccato, l'incorruttibile che pretende da sé il rigore preteso dagli altri poiché crede nella perfetta coincidenza fra legge e morale, ed è questa la sua condanna.
Tra l'altro Javert nel romanzo non ha nome, soltanto il cognome, come se fosse soltanto un ruolo, una maschera: Javert. E a distanza di tanti anni confermo il refuso: se avessi voluto irriderlo, non avrei scritto "Pircamillo", avrei scritto semplicemente Davigo.
Davigo, Colombo e Di Pietro? Giardinetti, trattori e processi: che brutta fine. Libero Quotidiano il 22 giugno 2023
Gherardo Colombo porta il cane a spasso nel centro di Milano e va in giro dicendo, nonostante abbia firmato quando era in servizio decine di richieste di custodia cautelare, che il carcere «non serve a nulla e rende la società pericolosa». Antonio Di Pietro, dopo aver gettato la toga alle ortiche ed essere stato candidato nel 1996 da Massimo D’Alema nel collegio blindato del Mugello, ha fondato e chiuso un partito, l’Italia dei valori. Adesso è su un trattore in Molise e prepara il terreno per la semina delle patate. Francesco Greco, pur sotto scorta anche quando andava in bagno, è riuscito nell’impresa di perdersi il telefono che i colleghi di Brescia gli avevano chiesto per verificare se si fosse scritto con il pg della Cassazione Giovanni Salvi a proposito della condotta del pm Paolo Storari. Per la cronaca anche Salvi si era perso il telefono nello stesso giorno. Nonostante questa distrazione, il sindaco di Roma, il piddino Roberto Gualtieri, lo ha nominato responsabile della legalità del Campidoglio. Davigo, il più famoso di tutti, ha cercato di far passare come massone il collega antimafia Sebastiano Ardita, con cui aveva scritto libri e fondato- addirittura- una corrente della magistratura italiana che solo il nome mette timore: Autonomia&indipendenza.
È una fine quanto mai impietosa quella degli idoli di Mani pulite che vollero fare la rivoluzione spalancando le porte al giustizialismo più becero e volgare. Per trent’anni, come le vecchie rock band che propongono sempre lo stesso repertorio, i magnifici pm di Mani pulite sono riusciti nell’impresa di monopolizzare tv e giornali per raccontare quella stagione eroica. Scomparsi da tempo i procuratori dell’epoca, Gerardo D’Ambrosio e Francesco Saverio Borrelli, Davigo, Di Pietro, Colombo e Greco, come un disco incantato, hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto. Sconfinata l’aneddotica. Chi potrà dimenticare gli interrogatori “multitasking” di Di Pietro? Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, egli era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati, politici o membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette.
Questo stratagemma sarebbe servito ad impedire che venissero concordate le deposizioni. Una volta, come nei migliori film polizieschi degli anni ’70, Di Pietro prese invece dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una caso?». Cosi facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto. La gente, ascoltandolo, rideva, ma non c’era nulla da ridere. Davigo, che venne eletto anche presidente dell’Associazione nazionale magistrati, non perdeva occasione per affermare che la magistratura italiana è la migliore del mondo occidentale e i magistrati italiani sono i più produttivi ed efficienti. «Citofonavamo e già cominciavano a confessare le tangenti», ripeteva Davigo.
Di quel periodo che ha cambiato la storia, però, nessuno tranne un paio di anni fa il giudice Guido Salvini, ha raccontato il “trucco” escogitato dal pool per evitare incidenti di percorso. Si trattava del fascicolo che in realtà non era tale ma era un “registro” che riguardava centinaia e centinaia di indagati che nemmeno si conoscevano tra loro e vicende tra loro completamente diverse unificate solo dall’essere da gestite dal pool. Il numero con cui iscrivevano qualsiasi novità che riguardasse tangenti in tutti i settori della Pubblica amministrazione era sempre lo stesso, il 8655 del 1992, quello del Pio Albergo Trivulzio, un fascicolo estensibile a piacere, tra l’altro anche a vicende per cui la competenza territoriale dell’autorità giudiziaria di Milano non esisteva. Questo espediente dell’unico numero impediva la rotazione e consentiva di mantenere quell'unico gip iniziale, quello dell’indagine sul Trivulzio, Italo Ghitti, che evidentemente soddisfaceva le aspettative del pool. Un paio gli anni dopo, nel 1994, Ghitti divenne consigliere del Csm. «Un’elezione e un prestigioso incarico propiziati quasi esclusivamente dall’essere stato il “gip di Mani pulite” senza rivali». Adesso è calato il sipario.
3 Luglio ’92, l’ultimo discorso di Craxi: «Nessuno è innocente». Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio dei Ministri ed ex segretario del Partito socialista italiano. L’intervento del leader socialista alla Camera dei Deputati sul problema del finanziamento illecito ai partiti. E non solo...Il Dubbio il 19 giugno 2023
Il celebre discorso che Bettino Craxi pronunciò alla Camera il 3 luglio 1992 «È tornato alla ribalta, in modo devastante, il problema del finanziamento dei partiti, meglio del finanziamento del sistema politico nel suo complesso, delle sue degenerazioni, degli abusi che si compiono in suo nome, delle illegalità che si verificano da tempo, forse da tempo immemorabile. In quest’Aula e di fronte alla Nazione, io penso che si debba usare un linguaggio improntato alla massima franchezza. Bisogna innanzitutto dire la verità delle cose e non nascondersi dietro nobili e altisonanti parole di circostanza che molto spesso, e in certi casi, hanno tutto il sapore della menzogna. Si è diffusa nel Paese, nella vita delle istituzioni e delle pubbliche amministrazioni, una rete di corruttele grandi e piccole che segnalano uno stato di crescente degrado della vita pubblica. Uno stato di cose che suscita la più viva indignazione, legittimando un vero e proprio allarme sociale e ponendo l’urgenza di una rete di contrasto che riesca ad operare con rapidità e con efficacia. I casi sono della più diversa natura, spesso confinano con il racket malavitoso, e talvolta si presentano con caratteri particolarmente odiosi di immoralità e di asocialità».
«Purtroppo, anche nella vita dei partiti molto spesso è difficile individuare, prevenire, tagliare aree infette, sia per la impossibilità oggettiva di un controllo adeguato, sia, talvolta, per l’esistenza ed il prevalere di logiche perverse. E così, all’ombra di un finanziamento irregolare ai partiti, e ripeto, al sistema politico, fioriscono e si intrecciano casi di corruzione e di concussione, che come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati. E tuttavia, d’altra parte, ciò che bisogna dire, e che tutti sanno del resto, è che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale. I partiti, specie quelli che contano su appartati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare od illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’Aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo: presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro. E del resto, andando alla ricerca dei fatti, si è dimostrato e si dimostrerà che tante sorprese non sono in realtà mai state tali. Per esempio, nella materia tanto scottante dei finanziamenti dall’estero, sarebbe solo il caso di ripetere l’arcinoto “tutti sapevano e nessuno parlava”. Un finanziamento irregolare ed illegale al sistema politico, per quanto reazioni e giudizi negativi possa comportare e per quante degenerazioni possa aver generato, non è e non può essere considerato ed utilizzato da nessuno come un esplosivo per far saltare un sistema, per delegittimare una classe politica».
Giustizia e politica: quei leader alla sbarra da Craxi a Trump passando per il Cav...Con un po' di approssimazione si può dire che l'epicentri del terremoto che ha destabilizzato il rapporto tra politica e magistratura è rintracciabile nel nostro paese con l'inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via i partiti della Prima Repubblica. Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 19 giugno 2023
È da oltre trent’anni che il romanzo della politica si intreccia senza soluzione di continuità con quello della giustizia, un conflitto quasi “ontologico” che ha visto decine di leader, capi di Stato e di governo finire alla sbarra a ogni latitudine. L’azione dei giudici non sempre si è rivelata immune da faziosità e pregiudizio, a volte ha ribaltato gli esiti elettorali e favorito improvvisi cambi di regime, in altri casi è stata chiaramente persecutoria guidata dall’idea che la magistratura possa in qualche modo sostituirsi alla stessa politica, sospinta dal giustizialismo dell’opinione pubblica e dalla grancassa dei processi mediatici.
L’ultimo a finire nel mirino è stato l’ex presidente Usa Donald Trump, incriminato nei giorni scorsi dalla procura di Miami con l’accusa di aver trafugato documenti top secret dagli uffici della Casa Bianca, messo in stato di arresto per diverse ore dal procuratore Jack Smith che pare seriamente intenzionato a sbatterlo in prigione. «È un sicario mandato da Joe Biden, è un complotto», ha tuonato il tycoon come al solito esagerando e passando la misura. Ma che il suo accusatore sia un simpatizzante dem (la moglie regista è un’amica di Michelle Obama e donatrice del partito) è un fatto accertato e a suo modo destabilizzante visto che Trump è anche il capo dell’opposizione repubblicana e rischia di non poter partecipare alle presidenziali del prossimo anno.
Ma al di là delle storie personali, degli accanimenti o degli interessi di parte, la rotta di collisione continua tra toghe ed eletti sembra di natura sistemica, il frutto di una “rivoluzione culturale” avvenuta negli ultimi decenni che ha allargato in modo significativo il perimetro di azione della magistratura.
Oggi un intero governo può tranquillamente finire sotto inchiesta per “strage colposa” come è accaduto all’ex premier Giuseppe Conte e all’ex ministro Speranza accusati dalla procura di Bergamo addirittura per le vittime della pandemia di Covid. Va da sé che l’inchiesta è stata archiviata ma il solo fatto di pensare a un’incriminazione del genere mostra l’idea estensiva che le procure hanno oggi del proprio potere.
Con un po’ di approssimazione si può dire che l’epicentro di quel terremoto e cambio di paradigma fu proprio la nostra piccola Italia con l’inchiesta di Mani Pulite che, nel 1992, spazzò via la prima repubblica, proiettando procuratori e sostituti sulla ribalta mediatica e mettendo all’angolo l’intera classe politica, sepolta sotto le macerie dei partiti. L’onda d’urto di quella stagione ha dato luogo a una vera e propria saga giudiziaria con lo scontro senza esclusione di colpi tra Silvio Berlusconi e i pm, una guerra che si è disputata lungo 36 processi penali, con una sola condanna ai danni Cavaliere, recentemente scomparso.
Che i vecchi equilibri si siano spezzati in parallelo con la dissoluzione del socialismo reale e del mondo diviso in blocchi non è stata certo una coincidenza: la fine dell’Unione sovietica ha “stappato” energie dormienti, innescando nuovi rapporti di potere, mentre l’azione dei giudici si smarcava progressivamente dalla ragion di Stato e dalle logiche deterrenti della Guerra Fredda. Italia, Francia, Stati Uniti, Argentina, Brasile, Perù, Israele, Corea del sud, Pakistan, Sudafrica, sono solo alcune delle nazioni che hanno visto incriminare e spesso condannare ex presidenti e capi di governo nell’ultimo trentennio.
Prendiamo un paese simile al nostro per tradizioni e cultura, la Francia. E iniziamo con un evento traumatico: il suicidio dell’ex primo ministro socialista Pierre Beregoy, finito al centro dall’affaire Pechiney-Triangle (uno scandalo finanziario di insider trading), che si toglie la vita il primo maggio del 1993 sparandosi alla testa con una pistola che aveva sottratto a un agente della sua scorta.
Beregoy si era sempre dichiarato innocente, entrò in depressione denunciando l’accanimento nei suoi confronti, in particolare del giudice Thierry Jean-Pierre che qualche anno dopo si farà eleggere all’europarlamento per il centrodestra. È invece dichiaratamente di gauche, al punto da essersi candidata alle presidenziali per i Verdi nel 2012, l’ex magistrata Eva Joli, titolare dell’inchiesta che ha raggiunto l’ex presidente Jacques Chirac accusato e poi condannato per abuso d’ufficio, reati che avrebbe commesso nel periodo in cui è stato sindaco di Parigi, distribuendo posti chiave agli amici di partito. Dopo il maresciallo Pétain, processato per collaborazionismo, Chirac è stato il primo ex Capo di Stato francese a subire un verdetto di condanna.
Un filone che si è allungato nelle inchieste su un altro ex inquilino dell’Eliseo, Nicolas Sarkozy, condannato in primo grado nel 2012 a tre anni di prigione per corruzione e traffico di influenze per aver promesso una nomina a un magistrato in cambio di informazioni su un altro filone di indagine che lo riguarda; l’inchiesta condotta dalla Procura nazionale per i reati finanziari con metodi «da spioni» per citare il ministro della giustizia Dupond-Moretti ha visto le accese proteste della difesa che ha denunciato le intercettazioni illegali delle conversazioni telefoniche tra Sarkozy e il suo avvocato e le perquisizioni selvagge all’interno degli studi.
Il paese democratico che in assoluto ha visto più ex presidenti subire una condanna è la corea del sud, almeno cinque dall’inizio degli anni 90, mentre un sesto, Roh Moo- hyun, si è tolto la vita lanciandosi nel vuoto prima che iniziasse il processo. Tutti con pene oltre i 20 anni come ad esempio Park Geun- hye, prima presidente donna del Paese finita alla sbarra per corruzione e abuso di potere, e poi generalmente graziati dal presidente successivo.
Un altro caso emblematico in cui il conflitto sta investendo la natura stessa delle istituzioni, è quello che riguarda il premier israeliano Benjamin Netanyahu, accusato dai giudici di Tel Aviv di corruzione, frode e abuso di fiducia, processi ancora in corso. Ritornato al potere lo scorso anno Netanyahu sta provando a imporre a colpi di maggioranza una riforma della giustizia che di fatto terrebbe al guinzaglio l’odiata Corte suprema a cui vuole togliere il diritto di veto sulle leggi e l’autonomia delle nomine. L’operazione è talmente flagrante che ha scatenato la protesta di milioni di israeliani scesi in piazza per difendere l’indipendenza dell’alta Corte dall’esecutivo. E che dire del Brasile, autentica fucina di guerre politico- giudiziarie, in cui l’attuale presidente Inacio Lula da Silva ha trascorso un anno e mezzo dietro le sbarre di una prigione federale per delle accuse che si sono rivelate false?
Le quattro sentenze di condanna a carico di Lula emesse nel 2017 dal Tribunale di Curitiba sono state annullate nel 2021 dal Supremo Tribunale Federale. Il giudice che lo aveva incastrato è quel Sergio Moro che venne poi nominato ministro di giustizia dal successore di Lula e suo peggior nemico, Jair Bolsonaro. Lo stesso che aveva ammesso di essersi ispirato al pool milanese di Mani Pulite, in particolare al suo grande amico Pier Camillo Davigo.
Prima di Lula la scure si era abbattuta sulla presidente Dilma Rousseff che nel 2015 ha subito un procedimento di impeachment in seguito all’accusa di aver di aver truccato i dati sul deficit di bilancio annuale dello Stato, accusa che due anni dopo, quando si era già dimessa e la sua carriera politica era finita, si è rivelata infondata Ora invece tocca a Bolsonaro difendersi dalle toghe: appena rientrato in patria dopo un “esilio” americano di due mesi dovrà affrontare le accuse di aver aizzato gli assalti ai palazzi del governo compiuti dai suoi seguaci a Brasilia lo scorso 10 gennaio. Avanti il prossimo
Le origini dello strapotere delle toghe rivelate in “La repubblica giudiziaria” di Ermes Antonucci. Molti credono che nasca col terremoto di Mani pulite, ma non è così. Frank Cimini su L'Unità il 6 Giugno 2023
Vale davvero la pena di leggere La Repubblica Giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio) frutto del lavoro di Ermes Antonucci soprattutto per un motivo spiegato nella controcopertina: “Molti credono che la preminenza della magistratura sulla politica sia stata innescata dal terremoto provocato da Mani pulite, ma solo un ingenuo può pensare che questa rottura sia avvenuta all’improvviso”.
“Lo strapotere della magistratura è il risultato del sommarsi di tensioni tra diverse faglie istituzionali” si spiega. Chi scrive queste poche righe per invogliare a leggere il libro di Antonucci aggiunge che tutto comincia con la madre di tutte le emergenze, quella rubricata con l’etichetta di terrorismo ma che fu in realtà un tentativo di rivoluzione fallito. Decine di migliaia di persone passate per le carceri rappresentarono un problema politico che la politica non volle affrontare direttamente delegando la questione della sovversione interna alla magistratura che ne approfittò per aumentare il proprio potere e per andare a riscuotere il credito acquisito nel 1992.
Le leggi premiali utilizzate per risolvere il problema furono pretese e ottenute dalla magistratura sempre storicamente interessata alle scorciatoie come poi andrà in epoca successiva con l’utilizzo smodato delle intercettazioni fino al trojan che continua a fare danni irreparabili ai diritti dei cittadini. Con le leggi premiali non vale più quello che un imputato ha fatto ma ciò che pensa delle sue azioni e soprattutto se fa l’autocritica agli altri.
La catena di Sant’Antonio delle chiamate di correo finirà per fare danni agli stessi politici in occasione della falsa rivoluzione di Mani pulite. Quando la politica si suicida abolendo l’immunità parlamentare sotto la forma dell’autorizzazione a procedere. E con quella scelta la politica non ha mai voluto fare i conti fino in fondo, salvo lamentarsi che la magistratura ha un potere eccessivo che esercita tuttora.
Con la differenza che in passato lo faceva soprattutto svolgendo indagini e ora, quando le conviene, lo fa evitando di compiere gli accertamenti che sarebbero doverosi secondo il codice. Basta ricordare il caso di Expo quando l’allora presidente del Consiglio Matteo Renzi ringraziò la procura di Milano per avere dimostrato responsabilità istituzionale.
E a questo proposito basta riportare il passaggio in cui nel libro si ricorda “il lungo percorso culturale, politico e ideologico di una istituzione divisa fra la fedeltà a valori comuni e visioni della giustizia contrastanti. In una accurata ricostruzione storica che svela luci e ombre di un ‘ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere’, la parabola di un sistema controverso, tra interessi personali e rappresentanza delle istanze collettive”. Frank Cimini 6 Giugno 2023
Ma la Repubblica giudiziaria nasce prima di tangentopoli. Nel suo libro, Antonucci spiega che il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto che esercita funzioni requirenti, ha origini assai lontane. Giovanni Maria Jacobazzi su Il Dubbio il 15 giugno 2023
La Repubblica giudiziaria. Una storia della magistratura italiana (Marsilio, 288 pp. 19 euro) scritto dal giornalista del Foglio Ermes Antonucci è il primo libro sulla storia della magistratura nel periodo repubblicano. «Uno strumento utile per capire le varie tappe che hanno portato allo strapotere delle toghe», ricorda l'autore che si è cimentato in questa inedita ricerca storica». «La maggior parte delle persone pensa che la magistratura abbia sostituto la politica dopo Tangentopoli. Ma non è così. Il potere che hanno ora i magistrati, soprattutto chi esercita funzioni requirenti, ha origini lontane», prosegue Antonucci che ha suddiviso il suo libro in capitoli, uno per ogni decennio, dall'entrata in vigore della Costituzione, agli anni del terrorismo, alla P2, a Tangentopoli, alle picconate di Cossiga, al berlusconismo. Grande spazio nel libro hanno, ovviamente, le correnti delle toghe. Nate come centri di elaborazione culturale, le correnti, sulla carta delle associazioni di carattere privato, condizionano (vedasi il Palamaragate) in maniera profonda il Consiglio superiore della magistratura.
Va ricordato che in nessun altro Paese occidentale esistono, come in Italia, le correnti dei magistrati. «Il primo gruppo all'interno dell'Anm fu, nel 1957, Terzo potere ( Tp) che sostenne le domande di cambiamento dei magistrati più giovani contro la struttura gerarchica dell’ordinamento giudiziario e il sistema di carriera», sottolinea Antonucci. Per contrastare il progressismo di Tp, nel 1962 nacque Magistratura indipendente (Mi), la corrente conservatrice, poi in contrapposizione con Magistratura democratica (Md), nata nel 1964. Md fin da subito influenzerà il dibattito sulla giustizia dentro e fuori la magistratura. Di Md si ricorda la giurisprudenza alternativa, fondata su una visione marxista della giustizia come lotta di classe contro lo Stato borghese. I magistrati di Md ritenevano che il «diritto avesse natura discrezionale e che la decisione giudiziaria era un atto politico». L’interpretazione della norma doveva essere a favore della classe deboli Nel convegno 1971, Giovanni Palombarini, uno dei padri fondatori di Md, propose il diritto “diseguale' finalizzato proprio ad interpretare le norme per le classi subalterne.
Era necessario partecipare insieme ai lavoratori al processo di formazione della coscienza di classe, con l'obiettivo finale di rovesciare la struttura capitalistica «attraverso l'affermazione dell'egemonia proletaria nella società, la crisi dell'ideologia dominante e degli apparati repressivi». Negli anni successivi i collegamenti con i partiti della sinistra parlamentare ed extraparlamentare si fecero sempre più intensi, favoriti anche da un diverso atteggiamento del Pci nei confronti della magistratura a seguito di un ricambio generazionale. Il collegamento magistratura- politica era fondamentale nel quadro di una strategia unitaria «per sconfiggere il disegno reazionario e di ristrutturazione neocapitalista”. Una immagine rende bene il clima di quegli anni. Ed è quella durante i funerali di Ottorino Pesce, pm romano, toga di Md, morto d'infarto a gennaio del 1970. Al termine della cerimonia, militanti comunisti e magistrati di Md, fra lo sventolio delle bandiere rosse, decisero di salutare il feretro con il pugno chiuso.
Nel 1972 il segretario generale di Md Generoso Petrella venne eletto in Parlamento nel liste del Pci. Qualche anno più tardi toccò ad un altro esponente di punta di Md, Luciano Violante, essere eletto, aprendo così la strada delle toghe che dalle aule di giustizia andavano in Parlamento con il Pci- Ds- Pds- Pd.
Dopo le rivelazioni dell'ex Mani Pulite. “Di Pietro propose a Craxi un patto: lasciare la politica in cambio dell’uscita dall’inchiesta”, la rivelazione di Bobo Craxi. Aldo Torchiaro su il Riformista il 14 Aprile 2023
Bobo Craxi, ha letto le parole di Gherardo Colombo? “I politici che avessero accettato di collaborare e si fossero fatti da parte, rispetto alla vita pubblica, sarebbero usciti dalle indagini”, ha scritto nel libro che ha pubblicato con Enzo Carra. Siamo davanti alla prova generale di colpo di Stato? Il potere giudiziario ha tentato di sopraffare il potere politico e di sostituirvisi. È nelle carte. Il Procuratore Capo Francesco Saverio Borrelli a un certo punto uscì allo scoperto. Con un messaggio pubblico rivolto all’allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, fece sapere di essere pronto. “Sono a disposizione”. Mentre mettevano fuori gioco la classe politica, si candidavano a sostituirla.
Attuarono un golpe bianco, e neanche tanto bianco, se pensiamo al “tintinnar di manette”…
C’è stato un meccanismo preciso con cui il colpo di Stato ha provato ad avere successo: quando hanno provato ad attuare una “rivoluzione morale”, evocando la piazza, surriscaldando gli animi. Il sovvertimento può avvenire attraverso le armi, con la presa del potere militare. Oppure con la politica, come nelle rivoluzioni gentili. Oppure, ed è una via di mezzo, con l’arma giudiziaria. Una rivoluzione in parte armata e in parte gentile. Questo meccanismo si palesò ad un certo punto delle inchieste.
Quale fu la dinamica?
Fu un’escalation. La trattativa tra l’accusa e la difesa prima del processo, nella fase istruttoria, avvenne in un momento in cui la cupola giudiziaria si era arrogata poteri straordinari. Questo le ha consentito di parlare di politica con i politici, trascendendo dal ruolo naturale del giudice per ergersi a elemento regolatore dell’ordine istituzionale. In quella fase mio padre, Bettino Craxi, incontrò una serie di volte Antonio Di Pietro. In maniera assolutamente irrituale e informale.
Fu Di Pietro a chiedergli di incontrarlo?
Sì. In maniera del tutto extra legem.
Dove?
Mai al Palazzo di Giustizia, sempre in modo informale, discreto, in territorio neutro. Alla presenza dell’avvocato di mio padre, Nicolò Amato, senza altri testimoni; non vi sono eloquenti tracce verbali riprodotte nei processi a suo carico.
Quanti furono quegli incontri?
Furono una serie. Almeno tre. Tutti lontano da occhi indiscreti.
In quale fase dell’indagine di Mani Pulite avvennero?
Nel 1993, prima del processo Cusani.
Sa cosa si dissero? Suo padre gliene avrà parlato…
Certo, ne rimase particolarmente interdetto. Mi ricordo che tra le prime cose mi raccontò di un Di Pietro diverso da quello che si vedeva in pubblico, più accomodante, perfino mite. D’altronde i rumori su di lui si erano fatti assordanti.
Cosa gli chiese?
Di Pietro chiese a mio padre di restituire i denari illecitamente percepiti dal Psi, facendogli capire che se avesse collaborato con le indagini e fatto un passo indietro rispetto alla politica, il suo coinvolgimento nell’inchiesta penale sarebbe finito lì.
Cosa rispose suo padre?
Lo mandò a stendere. Per la procedura irrituale, inaccettabile. E per la premessa stessa, che lo offendeva: i finanziamenti illeciti non finirono mai nella disponibilità personale di mio padre. Non li aveva lui, non li aveva mai avuti. E dunque non poté che rifiutare quell’approccio, quell’apertura di trattativa.
Finanziamenti che pure vi furono, come disse lui stesso alla Camera, in quel discorso del 29 aprile ’93…
Non negó mai la conoscenza di finanziamenti illeciti. Né tantomeno si è mai negato il suo utilizzo nella maggioranza dei casi palese anzi palesissimo visto che un partito nazionale affrontava elezioni a rotta di collo, che le sue strutture territoriali erano ben evidenti ed altrettanto evidente il collateralismo politico. Un po’ più occulto era il finanziamento in direzione di partiti o movimenti politici esteri sovente in lotta per la libertà e la democrazia; pratica che continuo a considerare ancora molto nobile.
Fece delle ammissioni, rispetto ai reati contestati, in camera caritatis?
Craxi diede una serie di elementi di natura sistemica. Come poi fece in pubblico, parlando quell’ultima volta in Parlamento, chiarì come tutti i partiti avevano pattuito un finanziamento non lecito, al fine di tenersi in piedi. Lo ribadì anche a Di Pietro, che però aveva una missione unica: non quella di capire il fenomeno in generale, ma quella di recuperare quello che definiva “bottino”.
Dal rifiuto di arrendersi di suo padre nacque la necessità di arrestarlo, di metterlo a tacere con l’arma delle manette. Iniziò quella che Vittorio Feltri aveva chiamato “caccia al Cinghialone”, espressione di cui poi si è pentito.
Già, serviva un trofeo di caccia. E il trofeo più importante da esibire per le carriere di ciascuno degli attori. Questo accadde più tardi, quando si capì che mio padre non sarebbe stato al gioco. Quando rifiutò la resa. E allora inforcarono le armi, provando ad arrestarlo. Siamo dopo il 30 aprile 1993. Ci provò un Pm di Roma, Misiani. Ne incaricarono un ufficiale di polizia, il maggiore Francesco D’Agostino, che venne a fare delle incursioni anche ad Hammamet, senza riuscire a portare a casa il trofeo. Ed è poi finito sotto inchiesta a sua volta…
Torniamo al Di Pietro della trattativa. Era latore di una direttiva, era parte di una strategia?
Da parte della Procura di Milano ci fu una duplice tentazione. Quella di incidere sulla politica e sulle istituzioni, costituendo una barriera tra il vecchio e il nuovo, ma anche quella di trovare una onorevole via d’uscita per una inchiesta che si estendeva a macchia d’olio ogni giorno di più. A un certo punto fu chiaro agli inquirenti che se avessero applicato con metodo quella indagine a tutti, partiti, aziende, enti pubblici, si sarebbero dovute celebrare infinite serie di maxiprocessi.
E provarono a tirare una riga?
Provarono a offrire una sorta di indulto coperto per chi avesse accettato di cambiare vita, rinunciando alla politica. Lo hanno dovuto proporre a tanti, se non a tutti, se sono arrivati a parlarne perfino con Bettino Craxi.
C’è stato un precedente giudiziario?
C’è stato nell’ambito della stessa inchiesta Mani Pulite. Nella prima parte, dal 1992 all’inizio del 1993. La formula aveva funzionato con alcune delle aziende coinvolte, dove i manager si erano dimessi, avevano collaborato dando informazioni ed elementi e avevano accettato di ritirarsi e di non proseguire nelle rispettive carriere, o di andare a vivere per un periodo all’estero. Ci sono molti casi.
Ma chiedere la stessa cosa ad un politico eletto democraticamente, ad un rappresentante delle istituzioni è ben diverso…
Ed emerge oggi in tutta la sua gravità. Ma all’epoca a quei magistrati doveva sembrare normalissimo. La classe dirigente viene rimossa quando c’è una rivoluzione o quando arriva un esercito invasore. Quei giudici si comportarono così: come rivoluzionari di piazza o meglio, come un esercito armato che conquista la capitale, entra nei palazzi e spodesta con la forza chi guida le istituzioni.
La politica ha provato a resistere. Suo padre Bettino non si consegnò mai, da vivo.
Mio padre aveva un senso delle istituzioni che non gli consentiva di scendere a patti sulla tenuta democratica, sulla legittimità degli eletti. Denunciò da subito gli eccessi della barbarie giustizialista.
Il golpe riuscì, però, in parte.
Sul piano politico di fatto imposero un ricambio forzato di classe dirigente. Diedero all’avviso di garanzia la valenza della condanna, impallinando questo e quello fino a smontare il Parlamento e a distruggere cinque partiti. Quando costrinsero Scalfaro a sciogliere le Camere si capì che per un verso stavano vincendo loro.
E per altri versi?
Beh, dal punto di vista tecnico l’inchiesta Mani Pulite fu un fallimento. Non portò mai ad una conclusione chiara, accontentandosi di seminare il panico. Alcuni indagati si suicidarono. Altri se la cavarono con l’abiura. Alcuni processi sono durati dieci anni e oltre, portando anche a tante assoluzioni.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Facciamo un gioco. Cosa avremmo detto se a guidare Mani pulite cinfosse stata una junta e non il pool? Iuri Maria Prado su L’Inkiesta il 14 Aprile 2023
I protagonisti di quell’epopea erano dei signori intabarrati di seta nera, le loro ambizioni erano acclamate dai girotondi e i giornalisti erano embedded. Ma le loro parole d’ordine erano una pericolosa compromissione dello stato di diritto
Facciamo un gioco. Siamo sempre negli anni ’90 del secolo scorso e siamo sempre in Italia. Solo che a convocare i giornali e le televisioni per contestare un provvedimento legislativo non sono quattro pubblici ministeri in toga, in un Palazzo di giustizia: ma quattro militari, in divisa, nel piazzale di una caserma. Fuori c’è la stessa folla, ma appunto non sta sotto al balcone della procura: sta oltre i cancelli di quella caserma, e urla a quei militari impettiti di far sognare il popolo onesto mettendo in prigione gli indagati finché non confessano. I giornalisti sono sempre embedded, ma in fureria anziché in cancelleria, e da lì quotidianamente riportano le gesta della junta che ripulisce la società di tutto il marciume che la soffoca. Quello ritratto a cavallo in una fotografia pubblicata dal magazine del primo quotidiano d’Italia non è un magistrato del cosiddetto Pool che coordina la cosiddetta inchiesta Mani Pulite, ma un colonnello, lo stesso che non davanti a un Tribunale, ma ancora davanti a una caserma, dice che se il presidente della Repubblica lo chiama per riporre in riga l’Italia corrotta lui si mette a disposizione.
Che cosa si sarebbe detto a proposito della vicenda in quello scenario trasfigurato? Che cosa si sarebbe detto se a rendersi protagonisti di quell’epopea non fossero stati dei signori intabarrati di seta nera, ma un manipolo di soldati in mimetica, con pistola alla cintola e con i girotondi che ne acclamavano le ambizioni? Si sarebbe detto probabilmente, e probabilmente con appropriatezza, che quella era una vicenda di pericolosa compromissione dello Stato di diritto, e chi avesse denunciato il clima eversivo di quel periodo non sarebbe passato per una specie di bestemmiatore.
Non fu mai in discussione, almeno da parte degli osservatori spassionati e giudiziosi, il lavoro per così dire curricolare di quei magistrati, insomma il fatto che i loro provvedimenti fossero buoni o cattivi, corretti o sbagliati, legittimi o no. Fu in discussione, almeno da parte dei pochi che lo denunciarono, il pubblico straripamento di quel corso giudiziario, il fatto che esso aberrasse in una pretesa moraleggiante e di riordino sociale che non compete alla magistratura e che alla magistratura non può essere consentito di esercitare.
Dire, come disse uno di quei pubblici accusatori, che il compito del magistrato è di «far rispettare la legge», significa fraintendere la funzione del potere giurisdizionale e, ciò che è peggio, significa istigare il pubblico a quel fraintendimento: perché a far rispettare la legge è comandato il poliziotto, o appunto il militare con funzioni di polizia, non il magistrato, il quale è chiamato al compito del tutto diverso di applicarla.
Disporsi al governo del Paese, come fece qualcuno, dopo aver diffidato i partiti politici dal candidare gente con gli scheletri negli armadi, significa credere che il potere di arrestare le persone costituisca un’arma diversissima, mentre è solo succedanea, rispetto al fucile imbracciato dal militare che reclama investitura civile.
E attenzione. Il fatto che i protagonisti di quella vicenda, e i tanti che ne celebravano il comportamento indebito, potessero essere in buona fede, se possibile aggraverebbe la loro responsabilità. Perché la loro presunzione di operare a fin di bene avrebbe reso più facile commettere il male che hanno fatto al Paese.
Estratto da ilfattoquotidiano.it il 6 aprile 2023.
“Negli anni ’90 Draghi ha svenduto l’argenteria del nostro Paese”. Domenico De Masi, ospite de La Confessione di Peter Gomez, [...] ripercorre la storia dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale [...].
[...] Dal punto di vista storico [...], secondo De Masi, “l’Iri era una bestemmia economica. Non solo molte aziende erano di Stato, non solo l’80% delle banche erano di Stato, ma c’era il più grande partito comunista d’Occidente. Quindi, l’Italia era un’eresia, non solo in Europa, ma in tutto l’Occidente”.
E cosa accadde quindi? Qui il sociologo colloca l’ex presidente del Consiglio Mario Draghi [...]. “Fu mandato un giovane economista, un brillantissimo italiano, che aveva studiato al Mit, si era specializzato lì, fior fiore del neoliberismo. – ha spiegato De Masi – Fu mandato lì dal ’91 al 2001.
Per dieci anni fu il segretario generale del ministero del Tesoro, poi presidente della Commissione per le privatizzazioni. Il 2 giugno del 1992 arrivò a Civitavecchia il Britannia della regina Elisabetta con sopra il fior fiore dei finanzieri mondiali. – ha proseguito lo studioso –Il nostro giovane segretario generale del Tesoro salì sullo yacht, fece un discorso bellissimo in cui in sintesi disse: ‘Avete l’argenteria del nostro Paese a vostra disposizione. Approfittatene‘.
L’astuzia di questo giovane, che io ammiro proprio per la sua astuzia quasi luciferina, è che fece fare la cosa più di destra, cioè le privatizzazioni, a quattro governi di sinistra: il governo Amato, due governi D’Alema, un governo Prodi”, ha concluso De Masi.
La vittima dimenticata del pool. Riccardo Misasi fu vittima del pool, così fu fatto fuori. Ilario Ammendolia su Il Riformista l’11 Aprile 2023
Il Riformista ha riportato a tutta pagina la notizia secondo cui la cosiddetta stagione di “Mani pulite” fu in realtà un golpe. A svelare ciò non sono gli archivi dei servizi segreti ma lo si deduce dalla prefazione dell’ex pm Gherardo Colombo al libro dell’on. Enzo Carra. La tesi mi sembra suggestiva e bisognerebbe trovare “prove” significative su tutto il territorio nazionale. Mi è capitato di riflettere su ciò che in quegli anni successe in Calabria ed in particolare sulla storia dell’uomo politico più importante di quel momento storico: l’on. Riccardo Misasi.
Un politico intelligente, brillante e potentissimo che occupò incarichi nazionali importanti come quello di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio dei Ministri; ministro alla Pubblica istruzione e sottosegretario alla Giustizia. Per oltre trenta anni Misasi fu parlamentare della Repubblica eletto in Calabria con vagonate di voti. Nelle elezioni del 1968 affrontò la “concorrenza” manciniana da sottosegretario alla Giustizia e sembra che proprio in quel periodo molti detenuti siano stati messi in libertà provvisoria. Potrebbe essere questa una cattiveria della stampa di estrema sinistra di allora o dei partiti concorrenti ma quello che è certo che le basi strategiche di quella campagna elettorale di Misasi furono appunto i tribunali disseminati in tutto il territorio calabrese nei quali il sottosegretario alla Giustizia incontrava magistrati, forze dell’ordine e capi elettori.
È superfluo aggiungere che molti tra quest’ultimi non erano proprio degli stinchi di santo. La storia corre veloce e i rapporti di forza cambiano radicalmente con l’arrivo della stagione di “mani pulite” tanto che nel giro di qualche mese avviene la trasfigurazione di Misasi che da uomo politico più potente della Calabria si trasforma in preda inseguita dai “segugi” e su cui le procure aprono un fuoco concentrico. Quello che era stato un intoccabile diventa un malfattore. Viene chiesta l’autorizzazione a procedere per associazione a delinquere di stampo mafioso, gli viene arrestato un figlio, viene indagato come capo del sistema delle tangenti in Calabria e addirittura indicato come mandante dell’omicidio dell’ex presidente delle Ferrovie dello Stato, on.Vico Ligato. Misasi è ancora parlamentare, la Camera con l’astensione del Pds nega l’autorizzazione ma è ormai un uomo braccato. Il 17 marzo del 1993 Misasi rilascia un’intervista al giornalista del Corriere della Sera Paolo Graldi che viene pubblicata col titolo “Don Riccardo in lacrime”.
Il “don” richiama quello di don Calò registrato all’anagrafe come Calogero Vizzini capo della mafia siciliana e non era stato affatto stato messo a caso. Molti magistrati, già alleati e subalterni al potere democristiano, assunsero su di loro il compito si seppellire il cadavere politico di don Riccardo che piange a dirotto e quelle lacrime non erano un segnale di umana debolezza ma di resa politica. Misasi conosceva molto quel mondo torbido già subalterno al potente ministro calabrese e affamato di potere che dominava nei tribunali e comprendeva che, anche se innocente, per sfuggire alle accuse che gli venivano mosse, le “lacrime” sarebbero state il viatico del “perdono”.
E perdono è stato! Doveva piangere ed ha pianto perché Lui sapeva meglio d’ogni altro di cosa sarebbe stato capace quel “potere” di cui era stato sicuro punto di riferimento. Così Misasi si allontanò dalla politica e dalla Calabria e per rendere plastico il suo disinteresse per le vicende calabresi scrisse un bel libro sulla storia di Orvieto. Non della Calabria e non di Cosenza ma di Orvieto. Un libro che oggi potrebbe apparire come un messaggio in bottiglia che venne subito “apprezzato” e recepito perché scritto con il linguaggio che i poteri utilizzano parlando fra di loro, soprattutto in Calabria. Misasi cede il posto che, nel bene e nel male, era frutto d’un consenso popolare che gli consentiva di essere protagonista sulla scena nazionale.
Ilario Ammendolia
I veri obiettivi e la regia internazionale. Tangentopoli fu eversione: partiti distrutti, beni svenduti. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l’11 Aprile 2023
Come ha già messo in evidenza Il Riformista con la sua prima pagina del 5 Aprile dedicata al sostanziale colpo di Stato avvenuto in Italia attraverso Mani Pulite, quasi tutte le vicende giudiziarie di maggior rilievo avvenute in Italia in questi 30 anni, hanno un forte rilievostorico-politico. In questo quadro è stato del tutto fuorviante e paradossale che da parte di Di Pietro, Colombo e Davigo ci sia stata la tendenza a ridurre in una sorta di grottesca partita a guardie e ladri sminuzzate in tante vicende processuali la storia di Mani Pulite del ‘92-’94 attraverso la quale proprio loro hanno addirittura provocato un totale rivolgimento del sistema politico italiano con la distruzione di ben 5 partiti fondamentali nella vita politica italiana.
Il fatto è che tutta la storia del finanziamento irregolare dei partiti non può essere banalizzata sotto la fattispecie della corruzione individuale come purtroppo ha fatto anche Luigi Zanda nella sua peraltro interessante intervista resa al Riformista. È avvenuto invece qualcosa di molto rilevante non appena fra l’89 e il ‘91 è finito il pericolo comunista. Allora in Italia i cosiddetti poteri forti, cioè quelli che detengono il potere finanziario e editoriale hanno valutato che i partiti non servivano più e anzi, poiché la Dc e il Psi erano i proprietari di fatto delle industrie a partecipazioni statali che invece dovevano essere smantellate e privatizzati a prezzi stracciati, allora proprio questi partiti (e quindi il loro leader Craxi, Andreotti, Forlani, andavano messi fuori gioco). Prima che l’operazione partisse, Cuccia fece, tramite Salvatore Ligresti, l’offerta a Craxi di prendere la guida della operazione neogollista, presidenzialista, antipartitocratica. Craxi rifiutò di svolgere questo ruolo, ritenendo che i partiti rimanevano un elemento essenziale per la democrazia italiana.
Allora, stando a quanto ha raccontato Massimo Pini, amico e biografo del leader socialista, quando Cuccia seppe che Craxi respingeva l’ipotesi di svolgere quel ruolo affermo’: “Peccato, era la sua ultima occasione”. Così nello spazio di un anno e mezzo Craxi da candidato a premier divenne “il cinghialone”, da braccare e sbranare. L’antipolitica, il populismo, l’antiparlamentarismo nascono da lì, altro che quegli untorelli dei grillini, arrivati molto dopo che molte cose erano già accadute. A quel punto dai poteri forti venne un input che arrivò ai magistrati di Milano, cuore del potere economico ai quattro giornali fondamentali, alle tv, in primo luogo quelle di Berlusconi che pensava così di mettersi al riparo: e infatti nel ‘92-’93 il Cavaliere non fu neanche sfiorato da un avviso di garanzia ma l’uragano è arrivato dopo, quando egli ha deciso di scendere in politica.
Non è che precedentemente fino ad allora magistrati e giornalisti non sapessero niente: fra l’altro dagli anni Cinquanta in poi don Sturzo ed Ernesto Rossi avevano riempito giornali e pubblicato libri in cui parlavano dei finanziamenti irregolari dei partiti. Né i magistrati né gran parte dei giornalisti accolsero allora quelle denunce perché, a monte di tutto il finanziamento irregolare dei partiti, c’era la divisione del mondo in due blocchi. Ora in Italia De Gasperi e Togliatti esclusero che lo scontro fra i partiti filo-occidentali e il Pci potesse finire con una guerra civile. Di conseguenza tutti sapevano come era combinato il finanziamento irregolare della Dc (a partire dalla Cia fino ai soldi provenienti dal “Quarto partito” di carattere confindustriale) e quella del Pci (a partire dal KGB, alle società di import-export alle cooperative rosse). Invece, finito il pericolo comunista, la musica cambiò totalmente. Ad opera del pool di Mani Pulite, dei quattro principali giornali, delle televisioni, la denuncia del finanziamento irregolare fu il grimaldello per far saltare il sistema politico e per realizzare l’operazione rivoluzionaria- eversiva di cui ha parlato Il Riformista qualche giorno fa.
A un certo punto si pensò anche, come risulta da una dichiarazione del procuratore generale Borrelli, che il presidente della Repubblica Scalfaro potesse dare ai magistrati anche una diretta investitura politica. Questa operazione però risultò impraticabile e allora il pool ebbe bisogno di un “braccio politico” identificato nel Pds e nella sinistra democristiana. All’interno del Pds i miglioristi sostenevano l’alleanza o addirittura l’unità socialista con il Psi per lanciare un’alternativa riformista. I “ragazzi di Berlinguer” che avevano la maggioranza del partito scartarono però quell’ipotesi sia perché essi erano stati allevati dallo stesso Berlinguer all’antisocialismo e all’anticraxismo sia perché essi erano terrorizzati dalla possibilità di finire che anch’essi sotto il tritacarne del pool visto che il Pci-Pds aveva il finanziamento più irregolare di tutti i partiti. Così, a quel punto, rivelatosi del tutto velleitario, il sogno di Occhetto di fuoriuscire da sinistra dal comunismo reale cavalcando l’ingraismo, in nome della Real Politik, sia pure con sfumature diverse, D’Alema e Veltroni fecero del Pds il “braccio politico” delle procure e dei poteri forti.
Il cosiddetto “governismo” del Pds e poi del Pd nasce da qui, da questa piena subalternità ad alcune procure e ad alcuni poteri, venendo ripagato con una totale impunità (limitata al nucleo ristretto del gruppo dirigente del vertice del partito, non certo da un inesistente neo liberismo). Così al centro Nord il circo mediatico giudiziario penetrò come un coltello nel burro delle imprese comprese le cooperative, dei partiti e delle loro correnti mentre a loro volta Fiat e Debenedetti contrattarono un compromesso fondato su lettere che contenevano parziali confessioni, profonde genuflessioni al pool (vedi le lettere di Romiti e di Debenedetti) ricambiate con il sostanziale salvataggio del sistema Fiat, di quello Mediobanca, di quello Cir, di una parte di quello Iri (Prodi) e di quello Eni (Bernabè), mentre interi settori industriali come l’edilizia e la farmaceutica e Gardini venivano massacrati.
Invece ben altra musica è stata suonata in Sicilia. Il fascicolo mafia-appalti messo insieme dal Ros di Mori, De Donno e altri (che per questo sono stati perseguitati nel corso di almeno 20 anni), qualora fosse stato tradotto in indagini giudiziarie del tipo di quelle svolte al Nord, avrebbe messo allo scoperto la versione siciliana di Tangentopoli diversa da quella esistente nel settentrione del Paese. Infatti, mentre al Nord il sistema di Tangentopoli riguardava questi soggetti: le imprese, comprese le cooperative, le istituzioni locali e nazionali, i partiti, in Sicilia il sistema aveva un altro soggetto, un convitato di pietra costituito dalla mafia. Ebbene, lì, prima la strage di Capaci e poi quella di Borsellino a via d’Amelio hanno avuto questo obiettivo di fondo: liquidare sul nascere una versione siciliana di Mani Pulite.
Tutto si è svolto con agghiacciante rapidità. Cosi non appena la mafia ha liquidato il principale pericolo rimasto su pizza dopo Falcone costituito da Paolo Borsellino, subito il procuratore Giammanco, con la controfirma di Scarpinato, ha archiviato le indagini sul filone mafia-appalti. Ovviamente, avendo questo retroterra, il processo Borsellino è stato depistato ad opera in primis del questore La Barbera, ma per ben altre ragioni di quelle citate nelle motivazioni del processo che parlano dell’obiettivo di un avanzamento di carriera. La Barbera non aveva problemi di carriera tant’è che lo ritroviamo qualche anno dopo al G8 di Genova come punta di diamante del capo della polizia De Gennaro. Come si vede, quindi, le cose presentano aspetti assai seri che vanno molto al di là delle mistificazioni orchestrate da alcuni gestori di talk show che concentrano la loro attenzione sul dito e non sulla luna. Fabrizio Cicchitto
Come nasce Mani Pulite. Tutte le tappe di Tangentopoli: dall’arresto di Mario Chiesa alle elezioni del ’94. Redazione su Il Riformista il 5 Aprile 2023
17 febbraio 1992 – Il giorno dell’arresto di Mario Chiesa, presidente della casa di cura Pio Albergo Trivulzio di Milano ed esponente del Partito socialista italiano. A breve ci sarebbero state le elezioni e il segretario del Psi Bettino Craxi nega l’esistenza di pratiche e condotte fraudolente all’interno del suo partito.
5 e 6 aprile 1992 – L’Italia va al voto. Alta l’astensione, in calo i democristiani, che restano comunque il primo partito, stabile il Psi. La rivelazione è la Lega, partito nascente che accusa il “governo ladro” di Roma. Gli avvisi di garanzia arrivano a Carlo Tognoli e a Paolo Pillitteri, ex sindaco e sindaco in quel momento di Milano, tutti e due socialisti. Il 12 maggio è il turno di Severino Citaristi, tesoriere della Dc. Il 16 maggio viene arrestato il segretario milanese Pds, Roberto Cappellini. L’inchiesta prende ufficialmente il nome di Mani Pulite.
23 maggio 1992 – Strage di Capaci, sono uccisi il giudice Giovanni Falcone con la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta.
25 maggio 1992 – Oscar Luigi Scalfaro eletto presidente della Repubblica.
28 giugno 1992 – Si insedia il governo Amato I: il 49esimo esecutivo della Repubblica Italiana e primo dell’XI legislatura.
23 agosto 1992 – Craxi comincia su l’Avanti! i corsivi contro Mani Pulite e preannuncia un dossier su Di Pietro.
2 settembre 1992 – Si uccide il parlamentare socialista Sergio Moroni, coinvolto nelle indagini. Uomo vicino a Craxi, prima del suicidio lascia una lettera a Napolitano che la legge in aula. Il segretario del Psi attacca la magistratura e la stampa. Il 15 dicembre Craxi riceve un avviso di garanzia, accusato per la tangente Enimont, che lo porta a dimettersi l’11 febbraio 1993.
5 marzo 1993 – Palazzo Chigi vara il Decreto Conso che prevede la depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti. Il capo dello Stato Luigi Scalfaro si rifiuta di firmare e il decreto viene ritirato.
21 aprile 1993 – Il governo Amato si dimette e una settimana dopo nasce l’esecutivo guidato da Carlo Azeglio Ciampi, il primo non politico alla guida dell’Italia repubblicana.
29 aprile 1993 – Il Parlamento vota contro l’autorizzazione a procedere nei confronti di Craxi. Si scatenano proteste in tutta Italia. Rimane nella storia dei linciaggi, il lancio di monetine contro Craxi mentre esce dall’Hotel Raphael di Roma. Una delle pagine più buie.
20 luglio 1993 – Gabriele Cagliari, presidente Eni precedentemente arrestato, si suicida. Tre giorni dopo, venerdì 23, si toglie la vita anche Raul Gardini, presidente del gruppo Ferruzzi-Montedison, informato dal suo avvocato dell’avvio delle indagini su di lui. Vengono successivamente arrestati l’ad di Montedison Carlo Sama e il manager Sergio Cusani, consulente finanziario di Gardini accusato di falso in bilancio e di violazione alla legge sul finanziamento dei partiti.
17 dicembre 1993 – Nell’ambito del processo Cusani si tiene l’interrogatorio pubblico di Bettino Craxi e dell’ex presidente del Consiglio Arnaldo Forlani.
1994 Elezioni politiche – È la prima volta in cui il popolo italiano vota senza il simbolo della Democrazia Cristiana sulla scheda. La stessa tornata elettorale è caratterizzata dalla discesa in politica di Silvio Berlusconi annunciata il 26 gennaio di quell’anno.
La scalata della magistratura. Mani Pulite non fu una rivoluzione ma guerra civile: le verità di Facci. Paolo Liguori su Il Riformista il 6 Luglio 2022
Guerra dunque, non rivoluzione, quella di Mani Pulite. Nessuna rivoluzione. Perché tutto nel potere giudiziario è rimasto come prima, anzi tra i rapporti tra i poteri, secondo il racconto che ne ha fatto Palamara, sono diventati ancora più confusi e torbidi. Quanto è stato scritto, detto, spiegato sull’epopea di Mani Pulite e i suoi protagonisti? Moltissimo, anche troppo. Sembra niente, a leggere il libro di Filippo Facci dedicato al tema.
“La Guerra dei Trent’anni” è il titolo e fa impressione per la scelta, il volume, la densità dei fatti narrati, la ridefinizione dei personaggi. Stiamo parlando di un’enciclopedia, di un lavoro monumentale, perfino sorprendente da parte di un giornalista, vista l’abitudine della categoria a scrivere instant-book, opere veloci, dedicate ad un singolo argomento, superficiali. In questo caso, si perdoni il paragone forte e irriverente, il contenuto ricorda più alcuni libri di Montanelli, che però scriveva in collaborazione con Gervaso e poi con Biazzi Vergani e Mario Cervi.
Filippo Facci, uno dei giornalisti più eclettici, ma apparentemente disordinati, ha fatto tutto da solo, anche per evidente mancanza di sodali. Ed ha scritto la sua Storia (di questo si tratta) con un lavoro impressionante di ricostruzione di fatti, dettagli e persone. Non abbiate paura della mole di informazioni, vale la pena prendersi il tempo per leggere 7oo pagine scritte bene, anche per rendere omaggio all’autore che solo per le note divise per anno dal 1992, le fonti e l’indice dei nomi, pur con l’aiuto del computer non può averci messo meno di un mese. Come nella prima metà del ‘600 (1618-1648), una delle guerre più sanguinose si concluse con un riequilibrio precario dei poteri tra principi protestanti impero cattolico, così Mani Pulite viene definita da Facci una Guerra Civile tra i poteri dello Stato. Ma tanti cambiamenti significativi ci furono eccome: «la magistratura debordò e le Procure si attribuirono un ruolo di potere assoluto, l’informazione debordò e se ne attribuì un altro, l’opinione pubblica debordò di conseguenza».
Facci ha scandagliato tutte le crepe di quel terremoto, senza risparmiare nessuno, sulla base dell’archivio del proprio lavoro di giornalista e collaboratore dell’Avanti. E l’aspetto più interessante è proprio quello che riguarda l’informazione, qui descritta con una lapidaria e assolutamente vera citazione di Indro Montanelli: «Gli storici avranno un serio problema. Non potranno attingere da giornali e telegiornali, perché i cronisti durante Tangentopoli hanno seguito il vento che tirava, il soffio della piazza. Volevano il rogo e si sono macchiati di un’infame abdicazione di fronte al potere della folla».
Per chi, come me, ha vissuto nel fuoco delle polemiche quei primi anni, dalla direzione del Giorno, è una citazione da sottoscrivere senza riserve. E Facci ha il merito, con un lungo e certosino lavoro, di ricostruire una base di verità. Intanto, è l’unico, con una tesi inedita a mostrare come questa guerra di poteri inizia in Sicilia, prima che a Milano. E poi ripercorre la scalata delle Procure con minuziosa attenzione. Senza Facci, risulta poco spiegabile l’ascesa del modesto Palamara ai vertici di Csm e Anm.
Significativa la citazione di Piercamillo Davigo in una delle sue battute: «Con la Riforma, vi aspettavate Perry Mason e invece è spuntato Di Pietro». Di Pietro come simbolo ha funzionato per qualche anno, finché non si è schiantato in politica, ma intanto la Guerra dei Trent’anni continuava, proprio come quella reale: e gli Slovacchi e i Danesi e gli Svedesi e i Francesi. Gli episodi ricostruiti da Facci sono decine e affrontano la questione più interessante: il silenzio o, peggio, le menzogne interessate e servili dell’informazione. Per ogni episodio, potrete facilmente confrontare la ricostruzione di Facci con quanto credevate di conoscere e capirete.
Ma, tra tutti, un episodio vale la pena di citare, giudicato “minore” per il protagonista, ma per me gravissimo, perché si tratta di un suicidio e di una persona che ho conosciuto: Renato Amorese, segretario del Psi di Lodi. Fu accusato falsamente sui giornali di aver preso una tangente di 400 milioni, si trattava di tutt’altro e Di Pietro faceva pressione per costringerlo a coinvolgere l’architetto Claudio Dini. Lui non resse e si uccise.
Scrive Facci, in sintesi: «Pareva complicata, ma era semplice. Renato Amorese, pur da morto, era divenuto la chiave per tenere in galera Claudio Dini. La dinamica era raggelante: Di Pietro aveva dato la notizia (falsa) secondo la quale Amorese era un semplice teste e non indagato; venti giorni dopo aveva dato la notizia (falsa) del ritrovamento di 400 milioni nelle cassette, mentre nello stesso giorno i giornali davano la notizia (falsa) dell’apertura delle cassette che in realtà erano ancora sigillate. E quei soldi, neppure trovati, erano diventati la giustificazione di un suicidio. Le cassette di sicurezza di Amorese vennero aperte il 16 e il 23 luglio, ma i soldi non c’erano. La notizia non comparve sui giornali. Neanche sul Corriere della Sera, che pure aveva scritto in prima pagina il contrario». “Mani Pulite, vite spezzate”, titolò il Giorno, dopo il suicidio di Primo Moroni. Filippo Facci spiega bene anche il senso di quel titolo. Paolo Liguori
Tangentopoli fu un colpo di Stato fatto dai Pm. Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Il 17 febbraio del 1992 – domani sono trent’anni – fu arrestato Mario Chiesa, socialista milanese, e iniziò la sconvolgente avventura di mani Pulite. Un piccolo gruppo di Pm, spalleggiati da un Gip, guidati dal Procuratore Francesco Saverio Borrelli, impiegarono circa un anno di lavoro per smantellare la prima Repubblica, frenare lo sviluppo economico del paese, annientare i vecchi partiti e i loro riferimenti sociali e acquistare un enorme potere, mettendo in scacco il Parlamento, il governo, l’opinione pubblica, sorretti dall’appoggio pieno e incondizionato di quasi tutti i giornali e le televisioni.
In un tempo piuttosto rapido furono eliminati prima i leader di secondo piano dei partiti, poi i loro massimi esponenti. L’obiettivo numero 1 era Bettino Craxi, perché lui era considerato, giustamente, il più robusto e indipendente dei capi della politica italiana.
Craxi aveva due difetti considerati imperdonabili: credeva nel socialismo democratico e credeva nell’autonomia della politica. Erano quelli i nemici. Il pool dei Pm agì velocemente e in appena due anni rase al suolo tutto l’impianto della democrazia italiana. Braccò Craxi, lo costrinse ad espatriare e poi fece in modo che morisse, in Tunisia, senza poter rientrare a curarsi in Italia. Ci furono migliaia di arresti, molti poi risultarono innocenti. Alcuni suicidi. Morti in carcere.
Il risultato? Lo vediamo oggi, la politica si è arresa senza condizioni. È nata la repubblica giudiziaria nella quale tutti viviamo e nella quale il potere delle Procure è praticamente assoluto. L’economia italiana, che era la più fiorente d’Europa e aveva portato l’Italia al quarto posto tra le potenze economiche del mondo, si è accartocciata su se stessa. Hanno pagato soprattutto i poveri. Sia in termini economici sia di perdita della libertà.
Oggi non sappiamo neppure se esiste la possibilità di reagire. E sappiamo che, certo, viviamo ancora in un regime democratico, ma che ha divorziato dallo stato di diritto.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Una rivoluzione che impose lo Stato etico. Da chi era composto il pool di Mani Pulite, i paladini del bene contro i politici corrotti. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Febbraio 2022
Francesco Saverio Borrelli – L’aristocratico feroce
L’unica volta in cui il Procuratore capo di Milano degli anni di mani Pulite si era veramente offeso, fu quando l’avevo descritto in un articolo come persona per bene ma scialba, una sorta di omino “in grigio”. Era prima di Tangentopoli e lui appariva così, in ufficio o alla prima della Scala. Ma aveva ragione a non riconoscersi in quella definizione, perché “dopo” si manifestò completamente diverso. E divenne colui che non arrossiva nel dire: «Ma in fin dei conti è proprio così scandaloso chiedersi se lo choc della carcerazione preventiva non abbia prodotto dei risultati positivi nella ricerca della verità?».
Se poi questo tipo di choc abbia lasciato sul campo morti e feriti, fa parte del gioco per cui il fine giustifica sempre il mezzo. E non si versa mai una lacrima per i 40 e più morti suicidi di Tangentopoli, così come il non consentire a Bettino Craxi di venire a curarsi e farsi operare a Milano, e lasciarlo morire esule. E poi assumere il ruolo di capo dell’opposizione politica al leader che non piace, Silvio Berlusconi. Prima consigliargli di non candidarsi in presenza di “scheletri nell’armadio”, e poi offrire se stesso al presidente Scalfaro per governare l’Italia “come servizio di complemento”. E infine passare dal vero corpo a corpo con il nemico di sempre con quel “resistere, resistere” gridato con il piglio del capopopolo nell’aula magna del Palazzo di giustizia, fino al melanconico addio politico della sconfitta, quando chiede «scusa per il disastro seguito a Mani Pulite. Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale».
Piercamillo Davigo – Sottile? Macché
Di sottile, colui che fu indebitamente definito “dottor sottile” (mentre era piuttosto uno bravo ad “aggiustare”) dai soliti giornalisti laudatores, non ha mai mostrato neppure l’ombra. Al contrario è sempre stato piuttosto muscolare nelle sue apparizioni pubbliche, manifestando senza timore la sua cultura da Santa Inquisizione, a disagio con le regole e le procedure. Cosa che ha dimostrato anche di recente. Era quello non di sinistra del pool, ma non meno politico degli altri.
Fin da quando parlò della necessità di “rivoltare l’Italia come un calzino” e poi stese il testo (pare sia stato proprio lui) di quella clamorosa protesta del gruppetto che andò in televisione a protestare contro un provvedimento del governo, il famoso “decreto Biondi” sulla custodia cautelare. Teorizzò il proprio diritto all’”obiezione di coscienza” quando “vengono toccati i fondamenti etici del mio mestiere”. In che cosa consiste la sua etica? Nel teorizzare che l’indagato A non esce dal carcere finché non denuncia B e C, i quali a loro volta devono denunciare altri. Tutti in galera. Ci dicono che arrestiamo troppo? La verità è che qui si scarcera troppo, disse un giorno. Può tornare a essere libero solo chi fa i nomi di altri, perché “diventa inaffidabile per il sistema del malaffare”. Sottile?
Gherardo Colombo – Fonzie tormentato
Proprio come Fonzie, non riesce a dire “ho sbagliato”. Nel suo percorso di oggi, che lo ha portato a capire l’inutilità del carcere e persino l’eccesso dell’intervento penale su problemi sociali o economici, c’è un abisso di vuoto di memoria su quel che lui stesso ha detto e fatto negli anni di Mani Pulite. Proprio sull’uso del carcere. Non riesce, come Fonzie, a dire più di “ho sb..”, anzi neanche quello. Fa fatica persino a riconoscere le palesi violazioni di legge, come quella, per esempio, sulla predeterminazione del giudice naturale e la competenza territoriale. Pure lo sapeva di essere fuori legge, quando, in una discussione con il suo amico Francesco Misiani, pm a Roma che gli contestava «..e poi non è che ogni volta possiamo fare finta che non esistano il codice e le regole sulla competenza..», rispondeva disinvoltamente «…se esiste una sola possibilità di arrivare in fondo a Tangentopoli, questa possibilità ce l’abbiamo noi».
E intanto il pool di Milano teneva in carcere l’ex ministro Clelio Darida e il presidente dell’Iri Franco Nobili, che saranno in seguito assolti, quando le inchieste in cui erano imputati saranno tornate all’alveo della competenza territoriale, cioè a Roma. Una certa spregiudicatezza Gherardo Colombo la ebbe ancora, in due diverse circostanze. Quando mandò i finanzieri in Parlamento per sequestrare i bilanci del Psi, grave sgrammaticatura istituzionale, come disse uno scandalizzato Giorgio Napolitano, cosa di cui il procuratore Borrelli fu costretto a scusarsi (lui sì). Non sapeva neanche che i bilanci dei partiti sono pubblici? E ancora quando –erano ormai passati tremila giorni da Tangentopoli e Mani pulite– tirò un vero siluro politico e affossò la Bicamerale presieduta da Massimo D’Alema con un’intervista sparata a tutta pagina dalla prima del Corriere, in cui denunciava “Le riforme ispirate dalla società del ricatto”. E raccontava la storia d’Italia come storia criminale. Le riforme morirono allora, mille giorni dopo Mani Pulite. Per mano di uno che oggi non crede più neanche nell’uso del diritto penale come soluzione dei problemi sociali.
Tiziana Parenti – L’intrusa
L’intrusa era l’ultima arrivata, veniva da Genova e pareva, a occhio, una di sinistra. Forse per quello fu accolta nel pool e le fu affidato il filone che avrebbe potuto (non necessariamente dovuto) portare al Pci-Pds. Nessuno aveva fatto i conti con la caparbietà di Tiziana Parenti. La sua storia nel gruppo di Mani Pulite comincia e finisce con un’informazione di garanzia che la giovane pm osò inviare all’amministratore del Pds, il senatore Marcello Stefanini. Quel che era parso normale finché si erano turbati i sonni dei dirigenti della Dc e del Psi, provocò il terremoto quando si arrivò a toccare il partito di D’Alema e Occhetto. Il partito gridò alla “strategia della tensione”.
Ma nel frattempo a Milano due pezzi da novanta come Maurizio Prada, tesoriere della Dc e Luigi Carnevale, che svolgeva lo stesso ruolo nel Pci, avevano rivelato con molta precisione il sistema della spartizione delle tangenti fra i tre principali partiti, Dc, Psi e Pci, sulle grandi opere. Come finì? Con il famoso intervento del procuratore D’Ambrosio in favore di Primo Greganti e con la cacciata di Tiziana Parenti dal pool in quanto “fuori linea”. L’anno dopo la pm entrò in politica, candidata in Forza Italia. E oggi svolge, felicemente, il ruolo di avvocato a Roma.
Francesco Greco – Il rivoluzionario pigro
Uno scritto in cui lo avevo definito “frivolo” ( l’introduzione al libretto di Giancarlo Lehner “Borrelli, autobiografia di un inquisitore”) aveva suscitato l’interesse di Bettino Craxi, che da Hammamet mi aveva mandato un messaggio, dicendosi interessato a capirne il significato. La prevista telefonata poi non ci fu, diversamente gli avrei spiegato che a mio parere Francesco Greco era semplicemente diventato magistrato un po’ per caso. Così ne parlava il suo (ex) amico Francesco Misiani: «Francesco, come molti di noi, invitava nei congressi all’abbattimento dello Stato borghese..». La toga indossata per caso, ma poi il mancato rivoluzionario, quello delle riunioni “del mercoledi” con Primo Moroni, il libraio più trasgressivo d’Italia, ha finito per prenderci gusto proprio con Mani Pulite, arrivando a definire quello il periodo “più bello della mia vita” .
Sarà anche stato bello, ma qualcosa di brutto ci fu, quando lui stese quella relazione di servizio con cui mandò il suo amico di Magistratura Democratica, il suo maestro e mentore Francesco Misiani davanti al plotone del Csm a farlo processare per incompatibilità ambientale a causa della sua amicizia con il procuratore di Roma Renato Squillante. È strano che questo magistrato per caso sia poi diventato lui stesso il capo della procura più famosa d’Italia. E che l’incendiario sia diventato più che pompiere. Con tutto quel che ne segue, fino all’inchiesta dei magistrati di Brescia sulla procura ormai la più disastrata d’Italia e lo stesso Greco in pensione con una finale di carriera non proprio brillante.
Gerardo D’Ambrosio – Soccorso rosso
Era stato per tutti noi cronisti giudiziari lo “zio Gerri”, il simpatico bonario giudice istruttore di Piazza Fontana e della morte di Pino Pinelli, inchiesta chiusa con qualche nostra delusione. Poi in Procura, nella veste di vice di Borrelli, divenne il militante difensore d’ufficio del Pci-Pds. Neppure lui negò a se stesso qualche stilla di cinismo, quando dopo il tragico suicidio di Sergio Moroni, che fece commuovere anche il presidente della Camera Giorgio Napolitano che nell’aula di Montecitorio aveva letto la sua lettera in lacrime, aveva commentato: «Si può morire anche di vergogna». Senza vergognarsi a sua volta. Neanche di continuare la carriera per due volte come senatore di quel partito che gli doveva tanto.
Fin da quando, nella sua veste di procuratore, aveva preso per mano l’imputato Primo Greganti, funzionario comunista tutto d’un pezzo, trovandogli prove a discarico meglio di qualunque difensore di fiducia. Aveva scoperto che Greganti, nella stessa giornata in cui aveva prelevato 621 milioni di lire dal conto svizzero Gabbietta, aveva anche acquistato una casa a Roma. «Ecco la prova -aveva detto- che il funzionario rubava per sé e non per il partito». Inchiesta chiusa. Ma due anni dopo, quando il ministro Mancuso, guardasigilli del governo Dini, manderà gli ispettori al pool di Milano, si scoprirà la relazione di un graduato della guardia di finanza che aveva rivelato come la Procura di Milano avesse rifiutato di ricevere un documento che attestava come il famoso rogito per l’acquisto della casa a Roma fosse stato stipulato in banca alle 9,30 del mattino, e non in seguito al prelievo nella banca svizzera. I 626 milioni avevano preso un’altra strada, quindi. Le casse del Pci-Pds? Del resto lo stesso D’Ambrosio aveva definito chiuse le inchieste di Tangentopoli con le responsabilità della Dc e del Psi. Tertium non datur, aveva detto, anche se non in latino.
Antonio Di Pietro – Il testimonial
Non è mai stato il Capo del pool Mani Pulite. Ne è stato l’esecutore e anche l’immagine, il Testimonial. Amato dagli italiani, anche con le sue debolezze che lo rendevano simile a tutti quelli che facevano i cortei intorno al Palazzo di giustizia gridando ”facci sognare”. E mentre lui, chiuso nel suo ufficio in ciabatte agitava le manette e gli imprenditori milanesi facevano la fila per farsi interrogare, diventare delatori e mandare in carcere gli altri per non finirci loro, i suoi colleghi si trastullavano vendendo all’opinione pubblica la sua immagine come figurina sacra. L’origine contadina con il trattore rosso e la mamma con il foulardino nero in testa facevano proprio sognare.
Ma proprio le sue debolezze e una sentenza in cui era stato parte lesa ma che le aveva rese palesi e lui era descritto come un avventuriero (e contro cui lui non fece appello) e il timore fondato di una brutta fine nel procedimento disciplinare aperto al Csm, ne determinarono l’uscita dalla magistratura. E la caduta del personaggio, non sanata dal successivo suo ingresso in politica come ministro e come fondatore del movimento moralistico “Italia dei valori”. La vera storia di Di Pietro è finita con la “sentenza Maddalo”.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Sentire dai protagonisti come andarono i fatti. Mani Pulite e il ricatto ai politici: i magistrati a chi proposero quel patto scellerato? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 6 Aprile 2023
Nessuno sarebbe andato in carcere, a partire dal 1992, se il mondo della Prima Repubblica avesse accettato il ricatto degli uomini di Mani Pulite: resa incondizionata, consegna delle armi e uscita dai processi. La rivelazione sconvolgente di Gherardo Colombo, uno degli uomini che nel luglio del 1992 avrebbero avanzato la proposta ai leader dei partiti di governo di allora, parla oggi di un progetto politico mai realizzato che avrebbe cambiato il corso della storia.
Lo avevamo già intuito dalla dichiarazione di Saverio Borrelli, quando, dopo la quarta vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, aveva detto candidamente: “Non valeva la pena di buttare all’aria il mondo precedente per cascare poi in quello attuale”. L’ammissione del fatto che Mani Pulite era stata un’operazione politica e solo politica. Niente moralizzazione, niente obbligo dell’azione penale. Ma oggi Gherardo Colombo non solo conferma, ma aggiunge qualcosa di più drammatico. Un ricatto che equivale a un moto rivoluzionario. Qualcosa di violento e immorale come un push, preparato da toghe anziché da divise militari. Questa sarebbe stata l’attività di Mani Pulite. Tanto che, qualora si fosse arrivati a un accordo, la proposta del 1992 di cui parla Gherardo Colombo avrebbe comportato la rinuncia da parte dei pm all’obbligatorietà dell’azione penale in cambio di una trasformazione della politica nell’esercito dei “pentiti” e il riconoscimento del nuovo assetto di potere, quello giudiziario. La dittatura delle toghe. Sarebbe stata questa dunque la “soluzione politica” per uscire in modo indolore da Tangentopoli, lo “scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo”.
Non c’è motivo di dubitare della sincerità di Gherardo Colombo, che sta vivendo il successo della sua terza vita, dopo quella di magistrato garantista di sinistra e poi quella della passione per le manette fino alla scoperta dell’inutilità del carcere. Se quel che dice oggi corrisponde alla realtà dei fatti, vuol dire che c’è stato da parte del pool di Milano un tentativo segreto di avvelenare i pozzi. Cioè che fin da subito, da prima ancora che i leader politici del tempo, il segretario della Dc Arnaldo Forlani e del Psi Bettino Craxi ricevessero un’informazione di garanzia, i pubblici ministeri non avevano a cuore il trionfo della giustizia, ma solo la presa del potere.
E proprio perché lo dice una persona molto stimata come Gherardo Colombo, e se la proposta ci fu, vorremmo sapere non solo da chi, ma anche a chi il pactum sceleris fu avanzato. Perché tutti gli accadimenti di quell’anno sono stati distillati e centellinati in ogni angolatura, in ogni sospiro, per trent’anni in libri e giornali. E ripensandoci, e con angoscia, vien da dubitare che se l’accordo non ci fu è solo perché provvidero gli uomini di Totò Riina a portare altrove l’attenzione del mondo politico. Così l’omicidio di Salvo Lima del 12 marzo precede di appena un mese le elezioni politiche del 5 aprile che segneranno il primo segnale politico dell’influsso di tangentopoli sul pentapartito di governo. E poi tutto quel che seguì, con le dimissioni del Presidente Cossiga e subito dopo l’assassinio di Giovanni Falcone. E poi in sequenza la prima informazione di garanzia al tesoriere della Dc Severino Citaristi e la sorte di Bettino Craxi con la sua invettiva in Parlamento mentre si votava la fiducia a un governo che non sarà presieduto da lui perché nel frattempo la sua immagine dalle parti del palazzo di giustizia di Milano non era del tutto cristallina.
Da una parte c’erano le bombe di Cosa Nostra, dall’altra i siluri di Mani Pulite. Questo era il 1992. Con Scalfaro alla Presidenza della repubblica al posto di Cossiga, due giorni dopo la strage di Capaci, e anche questo fu un cambiamento storico, e non certo positivo. Mentre a commento dei primi tre suicidi di Tangentopoli il procuratore aggiunto di Milano Gherardo D’Ambrosio diceva “A volte si muore anche di vergogna”. Ma il patto, almeno in quell’anno, non ci fu. E loro andavano avanti. E ci vorrebbe una sorta di grande Csm della storia per sentire da Gherardo Colombo come andarono i fatti e quali fossero le loro intenzioni. Per esempio, la domanda pare legittima: volevano solo un ricambio di classe politica, mandando semplicemente un D’Alema al governo (cosa poi accaduta negli anni successivi), come pensano alcuni, o volevano invece fare loro direttamente le valigie e prendere l’aereo per Palazzo Chigi? Non l’aveva del resto detto lo stesso procuratore Borrelli “se il Presidente ci chiama” siamo a disposizione?
Ma questo della resa della politica, della consegna delle armi, resterà sempre un tarlo nella mente del gruppo dei magistrati coraggiosi. Lo dimostra tutto il loro modo di procedere, lo sprezzo con cui trattavano i politici negli interrogatori, le minacce, il tono ricattatorio, l’uso del carcere preventivo. Orpelli non indispensabili nelle normali procedure della giustizia. Importanti invece nel clima di vera guerra che il Pool aveva dichiarato. I primi ad arrendersi furono comunque gli imprenditori. Non solo Romiti e De Benedetti, che evitarono il carcere con trattative condotte nei principali studi legali italiani, che diedero ai magistrati niente di più che piccole mance, una paginetta di modeste ammissioni di colpevolezza in cambio dell’impunità. Ma anche gli altri, quanto meno a partire dal 1993, quando il Presidente di Assolombarda Ennio Presutti indisse l’assemblea generale degli industriali, con la presenza dei Moratti, dei Pirelli e i Tronchetti Provera ma anche dei tanti Brambilla esasperati, e disse “Occorre chiudere con tangentopoli” e infine “Dobbiamo rassegnarci”, e fu l’inizio della resa.
Anche il mondo della politica ci provò. Ma l’interlocutore – era ormai nato il circo mediatico giudiziario – pareva insaziabile, assetato del sangue di partiti ormai in ginocchio. Due ministri per bene come Giovanni Conso e Alfredo Biondi furono uno dopo l’altro messi alla berlina come delinquenti. E intanto gli uomini del pool, quelli che contavano davvero, mandavano avanti un Tonino Di Pietro tutto elegante in abito fumo di Londra e cravatta berlusconiana a piccoli pois, a presentare una vera proposta di legge in quella cornice da “liberté égalité jet privé” che è sempre stato l’incontro promosso ogni anno dallo Studio Ambrosetti a Cernobbio sul lago di Como. Era la solita proposta capestro per umiliare la politica e l’imprenditore Berlusconi – si era ormai nel 1994 – l’unico del mondo industriale a non essersi mai piegato, mentre la Confindustria di Luigi Abete aveva dato subito il proprio consenso.
Il ceto politico seppe allora ribellarsi, il mondo era cambiato e nessuno, compreso il Presidente Scalfaro, accettò quello stravolgimento della Costituzione che si sarebbe avverato se l’ordine giudiziario si fosse impadronito del potere legislativo. Velenoso fu in quei giorni il pm Gherardo Colombo, mentre molti politici avevano accusato la proposta dei magistrati di voler creare un mondo di ”pentiti”. “Non vorrei – aveva sibilato – che chiamare delatore chi fa il suo dovere svelando la corruzione sottintendesse la convinzione che rubare ai cittadini non è così grave”. Ipse dixit. Ieri come oggi.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
“Colombo ha avuto grande onestà intellettuale". Mani Pulite, il racconto di Giulio Di Donato: “Sconti ai politici, a me fu chiesto di convincere Craxi a consegnarsi”. Aldo Torchiaro su Il riformista l’8 Aprile 2023
Le rivelazioni che Gherardo Colombo, ex pm del pool Mani Pulite, ha fatto a Enzo Carra fanno discutere. Alcuni magistrati avrebbero offerto un salvacondotto ai loro inquisiti, a cui avrebbero promesso l’immunità penale in cambio di informazioni e di qualcosa di più: della promessa di “uscire dalla vita pubblica”. Da Gherardo Colombo, che d’altronde lo ha scritto nero su bianco, nessuna smentita. Arrivano invece le conferme. I protagonisti di quegli anni iniziano a parlare, a ricordare le irricevibili proposte che alcuni magistrati gli formulavano. «Pentitevi e saltate un turno dalla politica, avrete la fedina penale pulita»: Giulio Di Donato, a lungo parlamentare socialista e oggi presidente dell’associazione Socialismo Oggi, conferma nella sostanza quella che definisce “una prassi, una offerta regolare”.
E sottoscrive le parole di Gherardo Colombo, «cui va dato atto di una grande onestà intellettuale. Ha capito gli errori e anche gli orrori di una inchiesta che ha sommerso di fango la storia del Paese, e ha iniziato a scavare nel fango per rimettere qualche cosa a posto». Di Donato, napoletano, è stato l’ultimo vice segretario del Psi di Bettino Craxi, dal 1990 al 1992. Ed in quanto tale è rientrato in una trentina di procedimenti per un totale di 44 capi di imputazione. A Milano lo chiamarono in causa per una questione di sponsorizzazioni al Festival de L’Avanti. «Mi dissero che lo sapevano, che io non ne sapevo niente. Ma che da vice segretario del partito avevo delle responsabilità. E giù ore a interrogarmi, certe sere fi no allo sfi nimento». I modi sono quelli che solo l’eloquenza di Antonio Di Pietro ha saputo restituire fedelmente: “Io a quello lo sfascio”, disse di Silvio Berlusconi. I primi arrestati confessavano, denunciavano il denunciabile. Poi il clima cambiò, e mutò lo scenario.
Prima c’era Di Pietro che martellava, mentre agli altri pm, come dirà Francesco Greco, «competeva un lavoro di ricostruzione successivo agli interrogatori… ma la situazione si è modifi cata nel corso del 1994 quando le collaborazioni diminuirono fi no a cessare. Fu lo stesso Di Pietro a dire che non arrivava più acqua al suo mulino, la tecnica investigativa cambiò». A quelli che consegnavano la propria carriera politica, annunciando pubblicamente di uscire dalle istituzioni, dai partiti, dalla pubblica amministrazione “almeno provvisoriamente”, come scrive Colombo, si iniziavano a fare sconti anche molto importanti. Perdonando alla fi ne anche tutto. Giulio Di Donato rievoca quegli anni e un episodio in particolare. Finisce un interrogatorio – siamo nel 1994 – e gli sequestrano il passaporto. Così, per fargli capire che non può lasciare il Paese, sospeso in quel limbo tra attesa di giudizio e attesa di giustizia in cui vengono messi a rosolare, ogni anno, mezzo milione di italiani.
“Poi successe una cosa strana: l’allora Pm di Milano, Francesco Greco, mi fece chiamare in via informale. Disse ai miei legali di voler fare una chiacchierata amichevole con me. Ero a Napoli, presi il treno con i miei legali, Greco mi incontrò nel suo ufficio senza più usare i toni dei due anni precedenti. Un pacchetto di sigarette aperto sul tavolo richiama la sua attenzione: erano Gitanes senza filtro”. Che strano, proprio le sigarette abituali di Di Donato. Una coincidenza. E quando l’ex numero due di Craxi si siede, voilà, dal primo cassetto del Pm Greco ecco che salta fuori il passaporto di Di Donato. “Eccolo, glielo volevo riconsegnare io stesso”, gli dice il magistrato. Quanta premura. E gli allunga l’accendino. Si parla di politica, di famiglia. “Pensa di fare un viaggio, adesso che può?”, gli chiede l’inquirente. E l’esponente socialista: “Non so ancora, non ci ho pensato. E a dire la verità non ricordavo neanche di non avere il passaporto”.
“Allora mi permetta di darle un suggerimento”, incalza Greco. “Perché non va ad Hammamet a trovare Bettino Craxi? Lei ci parla, gli fa capire che faremo un giusto processo, che la cosa migliore è farsi vedere in aula, e se lo convince a tornare in Italia gliene saremo tutti grati”. Non serviva aggiungere altro. Di Donato ha intuito il senso, l’obiettivo delle cortesie riservategli. E ha capito che i magistrati hanno nel mirino Bettino Craxi, “il Cinghialone”. Vogliono il trofeo di caccia da esporre. Varrebbe oro, quel trofeo. Di Donato quel viaggio lo farà, andando a salutare il leader socialista in esilio, ma si guarderà bene dal farsi messaggero delle Procure.
Né rivedrà quel Pm, al ritorno. «Una cosa però me la faccia aggiungere: c’era un disegno politico ben preciso, nell’operazione Mani Pulite. Non è vero che si voleva colpire tutta la politica. Si voleva colpire il Pentapartito, che rappresentava il nodo di potere stabile del nostro sistema politico. Si indagarono con particolare pervicacia quelli vicini a Forlani e a Andreotti, nella Dc, risparmiando quasi del tutto la sinistra democristiana. Si indagò con il microscopio fi n nelle piccole federazioni provinciali del Psi. Da noi misero a soqquadro tutto, ripetutamente». Un capitolo a parte riguarda Berlusconi. «Le Procure guardavano con simpatia a Berlusconi che ne ossequiava il lavoro con i suoi inviati di Mediaset a documentare il lavoro febbrile al Palazzo di giustizia di Milano. Nel 1994, quando entra lui in politica, sconfi ggendo Occhetto, ecco che le Procure dirigono tutte le indagini su di lui. All’improvviso. Dimostrando una regìa politica che dirigeva senza esitazioni le sue armi sul nemico di volta in volta da abbattere».
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Tangentopoli fu un colpo di Stato, la rivelazione del Pm Colombo del pool di Mani Pulite. Piero Sansonetti su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Gherardo Colombo, l’ex Pm che è stato nei primi anni novanta uno dei cinque grandi protagonisti dell‘inchiesta “Mani Pulite” – quella che rase al suolo la prima Repubblica – ha scritto una introduzione al libro di Enzo Carra (uscito postumo in libreria in questi giorni) nella quale ci svela un aspetto finora sconosciuto di quella stagione. Sconosciuto e sconvolgente. Ci dice che nel luglio del 1992, quando le indagini erano ancora alle prime battute, fu suggerito ai politici di confessare i propri delitti e di uscire dalla vita pubblica in cambio dell’impunità.
Colombo dice esattamente che se i politici avessero accettato le condizioni dei Pm, in cambio non avrebbero avuto “a che fare con la giustizia penale”. In pratica fu proposta una trattativa segreta Stato-Tangentopoli . Ovviamente del tutto illegale. Dal punto di vista del codice penale, se Colombo racconta il vero, il pool commise un reato piuttosto serio. Violò l’articolo 338 che punisce severamente la “minaccia a corpo politico”. Nella sua ricostruzione dei fatti, Colombo non parta di singoli politici, o di imputati: parla di “politica”, al singolare, cioè si riferisce esattamente del “soggetto collettivo” al quale, evidentemente, fu proposta la trattativa con la minaccia del carcere. L’articolo 338 del codice penale prevede pene fino a sette anni di reclusione. Ovviamente i reati sono caduti in prescrizione, però resta la ferita allo Stato.
Se davvero la procura di Milano chiese a quella che allora era la classe dirigente, legittimamente eletta, di farsi da parte, minacciando altrimenti l’arresto e il carcere, compì un atto che è difficile non considerare un vero e proprio colpo di Stato. Non in senso metaforico, simbolico: nel senso pieno e letterale della parola. L’accordo non ci fu. La politica si dimostrò migliore della magistratura. Il ricatto non funzionò. E però la Storia ci dice che il disegno politico della Procura di Milano – sempre se è vero quello che dice il dottor Colombo – fu comunque portato avanti, con gli arresti sistematici, con l’aggiramento del Gip, con i mandati di cattura a rate, col sistema delle delazioni ottenute in cambio di scarcerazioni o con nuovi mandati di cattura, con una lunga scia di suicidi. Ed eliminò dalla scena tutta la classe politica di governo, più o meno come succedeva spesso in America Latina.
Naturalmente dal punto di vista strettamente politico, le ammissioni di Colombo non cambiano niente. La prima repubblica è morta sotto le picconate della procura di Milano e poi di altre procure. Nessuno la risusciterà. La democrazia cristiana non esiste più, non esiste più il vecchio e glorioso partito socialista, non esiste il Psdi, né il Pri, né i il partito liberale. Però è importante ricostruire quegli avvenimenti. Sapere che almeno una parte della magistratura si mosse violando in modo clamoroso la legalità. Ed è importante accertare come nella storia della repubblica c’è stata una rottura determinata non dal normale svolgimento democratico ma da un Putsch.
Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.
Il tentato golpe nel 1992. Cosa ha rivelato Gherardo Colombo su Tangentopoli, il ricatto dei Pm ai politici. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 5 Aprile 2023
Un tentato golpe nel 1992 tentò di rovesciare la democrazia. A denunciarlo oggi è Enzo Carra. Sì, perché Enzo Carra parla. Parla ancora. A tutti. L’oscenità delle manette con cui lo volevano umiliare non lo ha messo a tacere. È morto lo scorso 2 febbraio, l’ultimo portavoce della Democrazia Cristiana. Ma poco prima di morire ha affidato all’amico Vincenzo Scotti, patron della Link Campus e della casa editrice Eurilink, un testo. Un manoscritto denso di rivelazioni, informazioni, ricostruzioni. Un memoriale inestimabile, soprattutto perché costruisce un terreno di confronto con la controparte – i magistrati della Procura di Milano – che ci permette di leggere anche i disegni dei Pm senza più tanti filtri. Senza infingimenti.
L’Ultima Repubblica – è il titolo che ha dato Carra – ricorda tutto, con una lucidità puntuale. E per puntellare il suo racconto di quel periodo di legalità sospesa ha invitato a dialogare uno dei suoi accusatori. Una figura sui generis: quella di Gherardo Colombo. Integrato nel gruppo di punta e dunque tra i Pm più direttamente coinvolti nel clamoroso arresto di Carra, Colombo è stato anche tra i pochi protagonisti di quegli anni a saperli rileggere con sguardo critico. Fu senz’altro sua una delle firme che condussero dietro le sbarre l’allora portavoce di Arnaldo Forlani, appunto Enzo Carra, a nome del pool milanese di Mani Pulite il 19 febbraio 1993. Bisognava celebrare il primo anniversario di Tangentopoli. Ci voleva più di un brindisi. Un brindisi “col botto”. Fu allora che la storia di quell’inchiesta assunse i contorni di qualcosa d’altro. Di più oscuro. Ed è lo stesso Gherardo Colombo a rivelarlo. A scriverlo. Rispondendo al dialogo con Carra, l’ex Pm rievoca gli eventi di quei giorni di Mani Pulite, gli errori e gli eccessi.
Quello in epigrafe: quando il colto, acuto, placido Carra venne arrestato (e ammanettato, come se fosse socialmente pericoloso e aggressivo) per essere mostrato come un trofeo di caccia davanti allo sguardo famelico delle telecamere. Un arresto insostenibile, gratuito. Come quello di molte altre vittime di quella furia giacobina. Che si può meglio interpretare con una dichiarazione disarmante di Gherardo Colombo, che nella sua introduzione squarcia il velo sul segreto dell’operazione Mani Pulite: “Eppure non una persona sarebbe andata in carcere se, come suggerito nel luglio 1992, ben prima (data la rapidità dell’evolversi di quegli eventi) della nomina di Martinazzoli, la politica avesse scelto di seguire la strada dello scambio tra ricostruzione dei fatti ed estromissione dal processo. Chi avesse raccontato, restituito e temporaneamente abdicato alla vita pubblica non avrebbe più avuto a che fare con la giustizia penale”. Lette queste parole, abbiamo chiuso gli occhi e inspirato. Poi abbiamo riletto: e sì, è tutto vero. A pagina 13 del libro di Enzo Carra il giornalista fa dire a Colombo come funzionava il meccanismo del golpe. Lo spinge ad un controinterrogatorio gentile che lo porta ad ammettere.
Veniamo a sapere che il meccanismo dello scambio – come lo definisce lo stesso Colombo – funzionava con il do ut des tra due poteri: gli eletti che avessero ricostruito notizie eventualmente possedute e avessero fatto oltre alla delazione anche un’abiura, disconoscendo il proprio mandato democratico e accettando di dimettersi “temporaneamente” (sic) nelle mani del potere giudiziario, avrebbero ricevuto dai Pm di Mani Pulite un salvacondotto capace di farli attraversare indenni l’Acheronte di Tangentopoli. Nessun problema avrebbero più avuto con la giustizia coloro i quali avessero accettato di “abdicare” alla vita pubblica. E che cos’è, la vita pubblica, se non la partecipazione democratica, il confronto elettorale, il dibattito culturale che secondo la Costituzione viene organizzato con il mezzo principale di quei pilastri della democrazia che sono i partiti? I sospetti tratteggiati nei discorsi di Bettino Craxi e nelle lettere di alcuni dei condannati a morte dal pool parlano chiaro. “Non mi è estranea la convinzione che forze oscure coltivino disegni che nulla hanno a che fare con il rinnovamento e la pulizia”, scriveva Sergio Moroni all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, prima di spararsi.
Ne L’Ultima Repubblica quei fantasmi prendono forma, assumono le sembianze umane di quel pool che abbiamo imparato a conoscere bene. Come a dover aderire a un disegno sinistro, i Pm provano a buttare giù un sistema, un architrave democratico composto di partiti. Di scuole politiche. Colombo prova poi, nel testo, a rifiutare la responsabilità della storia: “I partiti sono morti da soli”, glossa a pagina 13. Poi ci torna a pagina 17: “Abbiamo pensato che la fine dei partiti italiani, avvenuta tra il 1993 e il 1994, sia stata una condanna della storia e non dei tribunali. Abbiamo pensato che la cancellazione del nostro quadro politico, creatura della guerra fredda, fosse la conseguenza positiva dello spegnersi di un lungo dopoguerra. Sì, certo, c’era stata anche la Grande Inchiesta a rendere impresentabili partiti corrotti o addirittura covi di personaggi dediti a pratiche previste come reati dalla legge italiana. ‘Finalmente ce ne siamo liberati’, gli italiani salutarono così l’insperato addio dei partiti”. Ci sarebbe da fare un’analisi filologica attenta, su tutto il passaggio di Colombo: “la politica”, sempre tra virgolette, a sminuirla.
La cancellazione del quadro politico definita solo come “positiva”. La Grande Inchiesta con le iniziali maiuscole, a sottolinearne la sacralità. Torniamo a Carra: il talento giornalistico, il fiuto politico, l’umanità profonda dell’ultimo portavoce della prima repubblica – da qui L’Ultima Repubblica – tornano a far parlare i suoi amici, riuniti per un ennesimo saluto fatto di idee e di rinnovate intese. Al primo evento di presentazione del libro, ospitato lunedì scorso dalla Lumsa a Roma, a moderare c’erano i due più grandi confidenti di Carra, i giornalisti Paolo Franchi e Stefano Folli. Riformista il primo, repubblicano il secondo. Sono loro a rievocare gli anni in cui il potere politico dovette cedere l’egemonia al potere giudiziario. Davanti agli occhi lucidi del giovane Giorgio Carra, che ha assistito suo padre nel portare a termine questo suo memoriale, sfilano i ricordi di un pezzo di storia. Vincenzo Scotti “quasi commuove”, come chiosa Franchi.
In prima fila, Mario Segni e Luigi Zanda. Dietro di loro c’è Flavia Piccoli Nardelli, appena nominata a capo dell’Associazione delle istituzioni culturali italiane, accanto a Michele Anzaldi (Iv). Uomini e donne che hanno contribuito con senso dello stato a costruire quell’ossatura della democrazia, i partiti politici, le istituzioni democratiche, che qualcuno forse avrebbe preferito vedere morte. “I corpi intermedi… esisteranno ancora i corpi intermedi?”, si chiede Gherardo Colombo a pagina 18 dell’introduzione. “Chissà che non si arrivi a una forma assai più diretta di democrazia o all’affermazione di una forma di dittatura della massa, sulla falsariga di quel che accadeva ai tempi di Ponzio Pilato”. Per ora, il potere è nelle mani degli elettori. Il pool non colpisce più. E non c’è più Enzo Carra, ma rimangono le sue parole a illuminarci: il golpe armato di toga e maglietto ha disarcionato una classe dirigente e l’ha provata a sostituire con populisti e giustizialisti. Prenderne atto è essenziale per farsi gli anticorpi.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Antonio Di Pietro, Vittorio Feltri: "I 3 cadaveri dietro al muro. Diede la notizia a me..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 12 agosto 2023
Ho conosciuto Antonio Di Pietro nel 1983: io ero direttore di “Bergamo Oggi”, lui era Sostituto Procuratore nella mia città. Di Pietro è sempre stato un personaggio. Di origini molisane, è nato a Montenero di Bisaccia, ha modi abbastanza burini ed è arrivato alla magistratura dopo una disparata serie di lavori: è stato operaio in una segheria, lucidatore in un’azienda metalmeccanica in Germania. Infine, dopo la laurea in Giurisprudenza, è stato commissario di Polizia e poi responsabile di un distretto alla Questura di Milano. Insomma, Di Pietro è arrivato a Palazzo di giustizia a forza di braccia, facendo uno a uno tutti gli scalini. Forse per questo, in un ambiente snob come quello delle toghe, i colleghi lo detestavano, sostenevano che fosse inadeguato. Ma si sbagliavano. Mi sono detto: «Io divento suo amico».
Lui era stato abbandonato da tutti e in me aveva trovato una sponda, un giornalista che lo prendeva in considerazione, così ha cominciato a darmi notizie interessanti. Ricordo un fatto di cronaca eclatante, a quarant’anni di distanza ancora se lo ricordano tutti: il caso del mostro di Leffe, un piccolo Comune bergamasco della Val Seriana. Un bancario del paese, Giovanni Bergamaschi, aveva ucciso la suocera, la moglie e la figlia.
La suocera, Annunciata Brignoli, l’aveva ammazzata nel 1978 e l’aveva sepolta sul Monte Croce, mentre tre anni dopo era toccato alla moglie Giannina Pezzoli e alla figlia Aurora di quattro anni, che poi l’uomo aveva murato dietro una parete eretta appositamente nel sottoscala di casa. Bergamaschi se n’era poi andato in Germania e per anni aveva inviato a casa cartoline falsificando la firma della moglie e della figlia, lasciando intendere che tutta la famiglia era emigrata e viveva là felicemente.
GLI OMICIDI - I tre omicidi furono scoperti solo il 13 febbraio del 1984: nel paese si parlava della vicenda, ma la popolazione era sospettosa, Annunciata Brignoli non si vedeva più da anni, era difficile ricostruire i fatti. Di Pietro seguì il caso e andò a perquisire la villetta della famiglia scomparsa: c’erano tracce di sangue sulla scala ma si accorse che le gocce si interrompevano nel sottoscala, che era stato murato. Notò subito che la parete era stata tirata su malamente, di fretta. Bussò e sentì che dietro suonava il vuoto. Gli agenti sfondarono a picconate la parete e trovarono due sacchi dell’immondizia, dentro i quali si trovavano i corpi della moglie e della figlia di Bergamaschi.
Di Pietro diede la notizia solo a me. Mandai un cronista a Leffe, ma al tempo in provincia non si era abituati a trattare fatti di questo rilievo, così quando tornò scrisse un pezzo, me lo portò e io mi accorsi che era un articolo breve, nel quale non dava valore alla vicenda: gli tirai dietro la mia Lettera 22 e mi misi a riscrivere di mio pugno la storia. Facemmo un titolone in prima pagina e il giorno successivo andammo in Val Seriana con i tir pieni di giornali, in edicola non se ne trovava più una copia: Bergamo è piccola, se capita qualche cosa nei paesi è come se succedesse in città e la provincia vibra subito per i fatti di sangue, perché le persone si conoscono o sanno per sentito dire, una notizia del genere chi non la legge?
Due settimane dopo mi chiamò Gian Antonio Stella, che era stato mio collega al Corriere della Sera: mi diede la notizia che stavano arrestando Bergamaschi a Roma, alla stazione Termini, mentre si recava a trovare il fratello, docente universitario. Lo scongiurai di scrivermi trenta righe, dovetti insistere perché lui lavorava ancora per il Corriere. Alla fine produsse le trenta righe che volevo e io le pubblicai: di nuovo fui l’unico a Bergamo ad aver pubblicato l’avvenuto arresto e, con mio sommo godimento, L’Eco di Bergamo bucò la notizia. Di nuovo vendemmo tutto il vendibile. Mi telefonò il direttore dell’Eco, monsignor Andrea Spada, e mi disse: «Te Vittorio, quando te ne vai fora da i bal? Te me fe diventà mat». Non ne poteva più di avermi al giornale concorrente.
Bergamaschi ammise tutto, fece ritrovare il corpo della suocera che aveva seppellito in montagna, confessò di aver ucciso la moglie perché lei aveva sospetti sulla morte della madre e di aver ucciso anche la figlia perché sarebbe stata testimone. Poi si era trasferito in Germania Est, dove era rimasto per oltre due anni. «Quel caso resta l’emblema delle indagini tradizionali», racconterà poi Di Pietro, «Oggi dominano gli algoritmi, allora invece era fondamentale l’intuito. Fu quella la chiave di tutto». L’ex bancario scontò dieci anni in un manicomio giudiziario, come persona «incapace di intendere e di volere».
La mia strada incrociò di nuovo quella di Di Pietro quando lui stava lavorando nel pool di Mani Pulite, era stato traferito alla Procura di Milano e io ero direttore dell’Indipendente. Mi fece chiamare da comuni amici di Bergamo e disse che avrebbe voluto rilasciarmi un’intervista. Mi precipitai al quarto piano del palazzo di Giustizia, era il 5 giugno del 1992: Tonino era già un eroe popolare, l’angelo sterminatore di Tangentopoli, un “marchio” il cui valore venne valutato, secondo Gavino Sanna, al tempo uno dei massimi esperti pubblicitari, dieci miliardi di lire.
TANGENTOPOLI - Di Pietro era adorato dall’opinione pubblica, tra scritte sui muri (“Forza Di Pietro”, “Signore, dacci un Di Pietro”), striscioni (“Di Pietro sei meglio di Pelé”) e poesie di Alda Merini (“Conosce benissimo Di Pietro/ le cose vinte dalla nostra Italia”). Era adorato pure dai giornalisti della cronaca giudiziaria milanese, che gli affibbiarono decine di soprannomi: “Belva”, “Zanzone”, “Padrepio”, “La Madonna”, “Dio”, “L’Onnipotente”.
Indro Montanelli diceva che Di Pietro era “uomo della provvidenza” e questa mansione il magistrato la svolgeva con gusto. Quando lo incontrai nel suo ufficio di via Freguglia, il pm lavorava in una stanza ingombra di faldoni, con una luce triste, da film neorealista. Viveva lì dieci, dodici ore al giorno. Davanti al suo tavolo c’erano due sedie, una era occupata da una pila di documenti. Mi sedetti. Mi raccontò come aveva preso l’avvio il procedimento: «Nulla di romanzesco», mi disse, «da due anni studiavo il fenomeno, diciamo che ero abbastanza preparato in materia di tangenti. E quando mi è capitata fra le mani una querela per diffamazione sporta da Chiesa, è partita la macchina. Un passo dopo l’altro siamo andati lontano». Si lasciò andare sulle sue impressioni: «Mandare un uomo in carcere provoca sempre angoscia, a me ne provoca molta. Quando sono ricorso alle manette è stato perché esisteva il rischio effettivo di inquinamento delle prove, mai per spettacolizzare l’indagine».
Da quel momento ebbi da Di Pietro tutte le notizie su Tangentopoli, navigammo sulla marea di sdegno che inondò quei due anni. L’inchiesta infuriava, mezza Milano tremava, tutti i politici italiani tremavano. Quel magistrato inviso ai colleghi era riuscito a fare in tre mesi ciò che a loro non era riuscito in quarant’anni. Alla fine litigammo perché aveva eseguito indagini su tutti i partiti e le uniche infruttuose erano state quelle sul Partito Comunista. «Ho seguito la tangente fin sul portone di Botteghe Oscure», si giustificò il magistrato, ma per me non bastava. Alcuni, fin troppi, di coloro che furono risucchiati dalle indagini non ressero alla pressione, oppure si videro senza scampo, e si uccisero. Ho sempre avuto l’impressione che a Di Pietro non importasse nulla, nonostante una volta abbia detto che la morte di Raul Gardini sia stata per lui una sconfitta terribile e che lo avrebbe potuto salvare. Raccontò infatti che la sera prima del suicidio i carabinieri lo chiamarono a casa, a Curno, per chiedergli se dovessero arrestarlo: «Dottore, che facciamo, lo prendiamo?».
Tonino però aveva dato la sua parola agli avvocati dell’imprenditore che non avrebbe fatto scattare le manette, a patto che Gardini la mattina seguente si fosse presentato in Procura spontaneamente. Quindi ai militari rispose di lasciar perdere. «Se l’avessi fatto arrestare subito», racconta Di Pietro, «sarebbe ancora qui con noi». Di Pietro si disse convinto che quello del finanziere fosse stato un «suicidio d’istinto, un moto d’impeto, non preordinato». Io sono invece dell’idea che Gardini non premette il grilletto all’improvviso, ma dopo aver covato il proposito per almeno 36 ore. Di Pietro avrà certamente fatto il suo mestiere secondo coscienza, ma al tempo si usava la galera come scorciatoia per arrivare in fretta a una confessione. Si rivelò un sistema spesso efficace. Ma la coercizione, in persone che non sono delinquenti abituati a passare attraverso le porte del carcere, può provocare disastri. E infatti ne ha provocati.
Gherardo Colombo: «Da ragazzino mi bocciarono due volte. Agli inizi della mia carriera giravo con un revolver». Luca Mastrantonio su il Corriere della Sera il 23 febbraio 2023
L’ex magistrato, 76 anni: «Prima di Mani Pulite ero un milanista accanito, poi mi sono calmato»
Nel salotto della casa milanese di Gherardo Colombo, un golden retriever (Luce) ci osserva dal divano, la testa poggiata sul bracciolo coperto da un lindo fazzoletto bianco. Colombo ha l’aria di aver finito da poco un esercizio di fatica domestica (un rubinetto da sistemare). L’occasione del nostro incontro è l’uscita del nuovo libro Anti Costituzione. Come abbiamo riscritto (in peggio) i principi della nostra società (Garzanti).
Lei è classe 1946, brianzolo, mamma casalinga, papà medico. Primo ricordo?
«La scossa di corrente elettrica, per le dita in una presa elettrica. Da lì sono venuti i capelli ricci... (ride). Ero piccolo e sperimentavo. I miei non si arrabbiavano, erano accoglienti».
A scuola come andava?
«Bocciato in seconda media e quarta ginnasio, ho recuperato l’anno in entrambe le occasioni. Avevo difficoltà a entrare in relazione con gli altri. Ero obeso... Finalmente al liceo ho capito che la libertà passa per lo studio. Poi scelsi Giurisprudenza...».
Si immaginava già giudice?
«Mio padre faceva il medico generico, girava di giorno e di notte, curava, faceva partorire. Volevo essere utile come lo era lui, e a mio parere verificare il rispetto delle regole lo era. A differenza del medico non avrei dovuto mettere le mani sulle persone. L’alternativa era Fisica, mi piace capire il perché dei fenomeni».
Nella Giustizia ha individuato qualche legge fisica?
«Non è una legge fisica, ma poco ci manca. L’importanza dell’ambiente nelle scelte che le persone fanno anche nel campo della trasgressione. Sa, la storia in cui l’imputato è davanti al giudice, chiuso nel posto degli imputati e dice: “Signor giudice, se lei fosse nato dove sono nato io e io dove è nato lei, qui ci starebbe lei e io sarei lì”. Una regola che soffre poche eccezioni».
Ci sono ambienti in cui uno sceglie di stare. La P2. Cosa ricorda di quando nel 1981 con Giuliano Turone scopriste le liste di Licio Gelli?
«Stupore e indignazione. C’erano i capi dei servizi segreti, c’era chi aveva inquinato le indagini sulle stragi, ministri, imprenditori, giornalisti, magistrati, la catena di comando del Corriere della Sera ... C’erano buste sigillate che contenevano inquietanti notizie di reato...».
Quale fu la prima reazione?
«Preoccupazione, che i servizi segreti potessero venire a riprendersi le carte. Fotocopiare 5 mila fogli era impossibile, allora incominciammo a selezionare, fotocopiarne le più importanti, descriverle accuratamente, nasconderle in un fascicolo che riguardava altre indagini».
Lei agli inizi della sua carriera girava armato.
«Qualche volta mi capitava di portare la pistola. Il 19 marzo 1980 venne ucciso Guido Galli, con cui lavoravo. E nei gironi immediatamente precedenti erano stati ammazzati altri due giudici. Prima linea rivendicò l’omicidio di Guido. Alcuni colleghi scapparono nei Paesi di origine. Io sono rimasto, ma per una settimana ho dormito fuori casa, finché la mia moglie di allora mi ha aiutato a riprendermi. Ma ogni volta che mi fermavo con la moto ad un semaforo e qualcuno attraversava dietro, mi aspettavo il colpo. Nonostante le armi non mi siano mai piaciute mi sono obbligato ad andare in armeria, ma a comperare una pistola non ce l’ho fatta. Ci ho sono tornato un’altra volta, niente. Alla terza volta mi sono costretto ed ho preso un revolver».
Cos’ha provato?
«Quando mi sembrava d’essere più esposto dava una sensazione di sicurezza. Ma è irrazionale. Un antidoto, un’esorcizzazione della paura e basta. L’anno dopo, scoperta la P2, m’hanno assegnato la scorta, e l’arma l’ho messa in cassaforte, in ufficio. Dimessomi dalla magistratura nel 2007, l’ho consegnata in Questura chiedendo venisse distrutta. Non volevo che qualcuno usasse contro qualcun altro l’arma che era stata mia».
Molto cauto. Lei si è mai sentito tradito da qualcuno?
«Durante Mani Pulite avevamo scoperto un grande giro di corruzione nella Guardia di finanza di Milano, un corpo con cui avevo lavorato tanto e bene. Un imprenditore, interrogato, coinvolse un colonnello con cui avevo lavorato e di cui mi fidavo, temevo potesse fare un gesto estremo. La lettera che Sergio Moroni aveva scritto decidendo di suicidarsi mi aveva colpito profondamente, per cui ho disposto che, una volta arrestato, il colonnello venisse portato subito da me per l’interrogatorio, per evitare che potesse compiere atti insani, precisando che lo avrei atteso fino al giorno dopo. Arrivò alle 4 di notte e mentre aspettavamo il suo avvocato mi chiese: “Dottore mi dice lei cosa fare? Patteggio la pena? Dico che sono innocente o confesso? Mi dica lei...” Mi sono stupito, pensavo fosse disperato, non era nemmeno imbarazzato».
Lei non si arrabbia mai?
«Con le parole reagisco al momento, se percepisco un’ingiustizia. Ma conto fino a dieci e non vado oltre. Comunque mi arrabbio».
L’ultima volta?
«L’altro giorno, attraversavo sulle strisce pedonali con Luce, un’auto quasi ci ha investito. Che caspita!»
Ha urlato «che caspita»?
«Purtroppo a volte mi scappa anche qualche parola “turpe”».
Difficile immaginarla.
«Allo stadio, fino agli anni '90, ero un tifoso accanito del Milan».
Smise durante Mani Pulite?
«È che allo stadio qualche volta mi lasciavo coinvolgere, e magari dietro di me qualcuno non la prendeva bene».
È restato tifoso?
«Sì, ormai all’acqua di rose. Mi ha fatto ricordare che quando interrogammo Adriano Galliani, ad del Milan, sul caso di Lentini, per il possibile falso in bilancio, lui a un certo punto, vedendo che eravamo Davigo, Di Pietro ed io disse: “Addirittura in tre per questa vicenda?”. E Davigo: “Sa, l’indagine l’ha fatta Colombo, ma siccome è milanista non ci fidiamo tanto”. Era ovviamente una battuta, ma Piercamillo non sa resistere».
Nel 2022, a 30 anni da Mani Pulite, ha fatto un incontro pubblico con Sergio Cusani, che fu condannato.
«Ci conoscevamo anche prima della vicenda. Ci vediamo con una certa frequenza, ci sentiamo spesso».
Sente più Cusani dei suoi ex colleghi del pool?
«Sicuramente. Con una certa costanza vedo e sento Piercamillo Davigo, abbiamo un rapporto di amicizia. Però sento più frequentemente Sergio Cusani, del quale pure sono amico».
Un colpevole redento le dà più soddisfazione?
«Non è questione di soddisfazione, è questione del riconoscersi, di riconoscere le persone, distinguere le persone dai loro atti. E magari considerare, cosa che vale particolarmente per Sergio, il percorso che hanno fatto».
Gianni De Michelis, la politica e il ballo di un "avanzo di balera". Storia di Tommaso Giacomelli su Il Giornale il 5 febbraio 2023.
Con lo sguardo ti fulmina, ma con la parola ti tramortisce. Gianni De Michelis dietro a quegli occhiali spessi nasconde un occhio vivace e arzillo, la sua faccia paffutella e la sua corporatura sgraziata non devono trarre in inganno. Lui è un uomo potente, padroneggia bene ogni campo dell'ingegno umano, spazia dalla filosofia alla letteratura, dalle scienze alla fisica, con una disinvoltura impareggiabile. Si è fatto le ossa in una città romantica e intrisa di cultura, ha bagnato i piedi nella Laguna di Venezia fin dalla tenera età e, all'Università Ca' Foscari, detiene con orgoglio una cattedra in Chimica. De Michelis ha la propensione al comando e all'intrigo, la politica lo stuzzica e lo affascina. Negli anni diventa un baluardo del Partito Socialista Italiano e una figura di spicco del Pentapartito.
Quando l'Italia esce dal grigiore e della morsa degli Anni di piombo, il veneziano si prende la poltrona di ministro del Lavoro, quando a dirigere il governo c'è Bettino Craxi, poi, fai il vicepresidente del Consiglio quando il primo ministro è il profeta di Nusco, Ciriaco De Mita, infine, nei turbolenti primi anni '90 ricopre la carica di ministro degli Affari Esteri. Quando gli chiedono cosa lo abbia spinto a gettarsi tra le braccia della politica, lui risponde così: "Perché sono brutto ed è l'unico modo che conosco per essere ammirato, amato o temuto". Dentro all'animo, ciò che lo smuove di più, quel motore che gli fa vibrare le corde più intime, sono quei vizi tipici dell'uomo comune. De Michelis è un patito del ballo, fa le ore piccole nei club, ama conversare e danzare con un bicchiere in mano. Le sale da ballo, le discoteche sono un suo chiodo fisso. Spesso si fa immortalare dai flash intento a muovere le gambe sotto a una palla stroboscopica e, perché no, in compagnia di qualche conquista del gentil sesso.
Quando l'Italia si fa bella e traina l'Europa con la sua economia galoppante, sfoggiando un PIL superiore alla Gran Bretagna, sembra di assistere a una nuova impennata di benessere, che si riversa in ogni categoria. Ovviamente tutto è effimero, lo scopriremo ben presto, ma la popolazione ignara, nel frattempo, si dedica con tanta passione alla mondanità. Milano toglie l'abito austero del giorno per indossare quello delle notte, più trasgressivo e frizzante. De Michelis non ha paura a mischiarsi coi giovani e con chi ama spassarsela sotto al chiarore della Luna. Egli crede che le discoteche siano un grande spazio di aggregazione, forse, il migliore del periodo. "I locali notturni sono, dopo la famiglia e la scuola, il più importante luogo di socializzazione per le nuove generazioni. Per dirla con una battuta, nell’Italia di fine secolo le discoteche stanno sostituendo il servizio militare dell’Italia dell’inizio del secolo come prima grande scuola di vita e di comportamento per i giovani". Bizzarra e scherzosa affermazione che, per lui, possiede una punta di verità.
Il ballo per lui è un momento di evasione, di svago dalla routine quotidiana, dalle fatiche di tutti i giorni. Guardando quello che succede con i ristoranti e gli alberghi, pensa bene di realizzare di suo pugno una guida esplorativa per chi vuole spendere il proprio denaro andando a ballare nei molteplici locali che si possono incontrare lungo lo Stivale. Lui, ça va sans dire, li conosce bene e, nel 1987, fa pubblicare questo libro dal titolo esplicativo: "Dove andiamo a ballare questa sera? Guida a 250 discoteche italiane". Si tratta di una raccolta semi-seria, indirizzata a chi vuole divertirsi in luoghi raccomandabili, a tutti coloro che desiderano spendere bene il tempo e il denaro. Si spazia da Rimini, capitale della movida italiana, alla Toscana, fino agli avamposti di Sud e Nord Italia. Insomma, De Michelis non tralascia nulla. Tratta con dovizia di particolari la cura degli ambienti, del servizio, della musica, la composizione della platea, la qualità del bar e dei servizi di ristorazione. Lo fa con garbo, con classe e con un rigore scientifico. Sembra sciocco, ma lo scafato protagonista della politica italiana sa che chi frequenta quei luoghi, poi, andrà a votare. Inoltre, introduce il suo libro snocciolando dati e analisi economiche, dandogli una dignità ben precisa. Il settore della vita notturna, all'epoca, portava un indotto alle casse statali di millecinquecento miliardi di lire. Un'industria vitale per il Bel Paese.
A proposito della curiosa opera letteraria sopra citata, Enzo Biagi ebbe modo di dire la sua, apostrofando De Michelis come "un avanzo di balera". Un'etichetta sgradevole, ma che saggiamente mostrava le due facce della medaglia di un uomo, che quando l'inchiesta "Mani Pulite" si infranse sull'Italia con la forza di un tornando, scoperchiando i tetti e gettando fuori il marcio della politica e dell'establishment nazionale, finì inevitabilmente per coglierlo in fallo. Il viveur, il dotto accademico, l'abile politico terminava la sua corsa nella morsa dei tribunali. L'Italia gaudente si spegneva nelle aule della giustizia. Sulla testa del doge veneziano pendeva una condanna definitiva di un anno e sei mesi patteggiati per corruzione nell'ambito delle tangenti autostradali del Veneto, e, di sei mesi patteggiati nell'ambito dello scandalo Enimont. La pena complessiva di due anni fu, però, sospesa con la condizionale. De Michelis ebbe modo di rifarsi nella sua seconda vita politica, trovando rifugio tra i vari partiti risorti dalle ceneri del PSI, guadagnando anche una poltrona al Parlamento Europeo. Morì di Parkinson all'età di 78 anni, nel 2019, nella sua Venezia. Gianni De Michelis è stato una figura simbolo di un'Italia spregiudicata, rampante, ma corrotta nelle viscere. Tenere in mano la sua opera, a oltre tre decadi di distanza, ci offre lo spaccato su una società vivace ed effervescente nella sua dissimulante facciata.
È morto Giorgio Ruffolo, ex ministro del Psi in quattro governi. Antonio Carioti su Il Corriere della Sera il 16 febbraio 2023
È scomparso a Roma a 96 anni. Con i socialisti militò nella corrente di Antonio Giolitti e nella sinistra lombardiana
Per Giorgio Ruffolo le parole socialismo e riformismo non era mai divenute etichette vuote. L’ex ministro dell’Ambiente, scomparso all’età di 96 anni, si era sempre sforzato di riempirle con idee e progetti, perché riteneva che il capitalismo non potesse essere lasciato allo stato brado, se ci si proponeva di assicurare all’umanità condizioni di vita meno crudeli e sperequate. Senza indulgere all’utopia, non si era mai rassegnato all’accettazione dell’esistente. Per questo si era impegnato direttamente in politica nel Psi, ricoprendo cariche importanti, anche se la sua vocazione più autentica lo indirizzava piuttosto verso la riflessione intellettuale.
Nato a Roma nel 1926, fratello di due partigiani, Nicola e Sergio Ruffolo, catturati dai fascisti e sfuggiti di poco alla morte, già nel 1944 era entrato nella gioventù socialista (all’epoca collocata su posizioni rivoluzionarie, ma antistaliniste) e aveva vissuto anche un periodo di vera a propria militanza trotskista al fianco di Livio Maitan. Benché laureato in Giurisprudenza, si era presto dedicato allo studio dell’economia e aveva trascorso anche un periodo presso l’Ocse, a Parigi, prima di approdare, nella seconda metà degli anni Cinquanta, all’Eni di Enrico Mattei, di cui ricordava con ammirazione il forte carisma, e poi al Psi di Pietro Nenni, ormai svincolato dalla sudditanza nei riguardi dei comunisti.
Nel 1962, dopo la misteriosa morte di Mattei, Ruffolo era stato chiamato da Ugo La Malfa al ministero del Bilancio, dove aveva assunto un ruolo di vertice. Nel 1964 aveva elaborato un rapporto sulla programmazione economica, presentato dal ministro Antonio Giolitti, che venne liquidato sbrigativamente come «libro dei sogni». Qualcosa del sognatore in effetti c’era, nella personalità di Ruffolo, anche se non perdeva mai il contatto con la realtà.
Negli anni Settanta, da esponente della corrente giolittiana, aveva partecipato all’opera di aggiornamento culturale del socialismo italiano avviato dalla rivista «Mondoperaio», ma era sempre rimasto abbastanza critico verso Bettino Craxi, pur senza diventarne mai un oppositore accanito. Però non è casuale che nel 1986 avesse scelto di fondare un altro periodico, «MicroMega», insieme a Paolo Flores d’Arcais, che invece con il Psi aveva rotto in maniera aspra. D’altronde i due direttori erano collocati su posizioni assai diverse: capitò anche, nel 1991, che firmassero editoriali contrapposti e alla fine il sodalizio si sciolse con l’addio di Ruffolo, che aveva sperato fino all’ultimo nel rinnovamento delle forze politiche tradizionali, mentre Flores d’Arcais puntava su una prospettiva nettamente antipartitocratica.
Parlamentare del Psi dal 1979 al 1994 (prima in Europa, poi alla Camera e quindi al Senato) e ministro dell’Ambiente dal 1987 al 1992 (governi Goria, De Mita, Andreotti VI e Andreotti VII), Ruffolo non aveva mai rinunciato a interrogarsi sulla necessità di fornire alla sinistra nuove chiavi d’interpretazione del presente. In particolare fu tra i primi a sottolineare, nel saggio La qualità sociale (Laterza, 1990) l’insufficienza di una visione quantitativa della crescita rispetto ai nuovi bisogni che si andavano manifestando. E se venne scelto come ministro dell’Ambiente, fu perché aveva sviluppato precocemente un’acuta sensibilità per le questioni ecologiche.
Dopo il naufragio del Psi determinato dal ciclone di Mani pulite, Ruffolo aveva aderito al Pds (poi Ds), nei cui ranghi aveva trascorso dieci anni al Parlamento europeo. Ma soprattutto, nella fase successiva, aveva approfondito in una serie di saggi l’analisi dell’attuale modello di sviluppo e delle alternative possibili, senza risparmiare critiche alle posizioni troppo generiche del Partito democratico, che a suo avviso rischiavano «di perdersi nella retorica della chiacchiera».
In un testo il cui titolo rifletteva il suo spiccato senso dell’umorismo, Il capitalismo ha i secoli contati (Einaudi, 2008), Ruffolo aveva evidenziato i rischi insiti nella finanziarizzazione galoppante dell’economia e lanciato un vigoroso allarme sul fronte ambientale: «Fermare la distruzione del capitale naturale — scriveva — è il primo comandamento della sopravvivenza umana». Con Stefano Sylos Labini, nel saggio Il film della crisi (Einaudi, 2012), aveva invocato «un’azione politica di livello internazionale per contrastare la mutazione finanziaria del capitalismo», ripristinando le condizioni del precedente compromesso tra potere economico e istanze democratiche, a cominciare dal controllo sui flussi della finanza globale.
Per quanto riguarda specificamente l’Italia, Ruffolo aveva manifestato le sue preoccupazioni per il destino dell’unità nazionale nel libro Un Paese troppo lungo (Einaudi, 2009). Non temeva tanto una frattura traumatica, quanto quella che chiamava «decomposizione», dovuta da una parte alle spinte «bizzarramente provocatorie» del leghismo e, dall’altra, alla «secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica». Anche se non aveva mai cessato di sperare in un rilancio dell’idea di solidarietà, negli ultimi tempi prevaleva in lui una tendenza pessimista. «L’attaccamento ai piccoli e grandi privilegi» di molti italiani gli appariva «profondamente inemendabile».
I funerali si svolgeranno sabato 18 febbraio alle ore 15 presso la Chiesa Valdese di Piazza Cavour.
La morte dell'ex ministro. Chi era Giorgio Ruffolo: socialista, ambientalista e laico che credeva nella politica. Valdo Spini su Il Riformista il 19 Febbraio 2023
Spiegare oggi ad un giovane che non l’ha conosciuto chi era Giorgio Ruffolo non è cosa facile, perché la sua azione va contestualizzata nel periodo politico in cui si trovò a vivere, ma il suo pensiero presenta tratti importanti di modernità che ci possono aiutare anche oggi. Ruffolo era l’uomo del piano, della programmazione, del progetto.
Oggi siamo in una fase di transizione economica e produttiva e se non vogliamo andare avanti disordinatamente, senza un progetto, incuranti di chi se ne avvantaggerà e di chi invece rimarrà sotto le macerie della vecchia economia, rischiamo il populismo se non peggio. Ministro socialista dell’ambiente, ebbe la sorte di partecipare nel 1992 alla conferenza di Rio sul futuro della terra, una delle pietre miliari dell’ambientalismo ecologista. Il suo lungo curriculum professionale e istituzionale, parte addirittura dalla collaborazione con Enrico Mattei all’Eni. Successivamente, Segretario Generale della Programmazione economica, deputato europeo, deputato italiano e poi senatore, ministro dell’Ambiente per tutta la legislatura ’87-’92, e ancora deputato europeo, Giorgio Ruffolo ha percorso tutto l’iter di un’importante vicenda istituzionale.
Lo ha fatto con la competenza dell’economista di alto livello, ma anche con l’impegno di militante politico. Socialista fino dai tempi della sua militanza nella Federazione Giovanile Socialista Italiana, che a Palazzo Barberini ne 1947 andò con Saragat per ripulsa dello stalinismo frontista. Rientrato nel Psi militò nella corrente di Antonio Giolitti e poi nella sinistra di Riccardo Lombardi. Insieme partecipammo alla fondazione dei Democratici di sinistra, formazione politica che vide la collocazione del simbolo del Partito Socialista Europeo alla base della Quercia del Pds al posto di quello del Pci.
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Su quest’ultima esperienza vorrei soffermarmi. A quell’epoca avevamo fondato la Federazione Laburista che fu una delle componenti essenziali degli Stati Generali della sinistra che nel febbraio 1998 portarono alla formazione dei Ds. Il nostro intento era quello di non disperdere l’importante impiantazione sociale e territoriale di quello che era stato il Pci e, per quello che se ne poteva salvare, anche del Psi, ma ristrutturarlo culturalmente e organizzativamente in un moderno partito socialdemocratico o forse ancor meglio laburista. Purtroppo, questa linea venne sconfitta. In nome della formazione di un Partito Democratico a vocazione maggioritaria, si optò invece per un partito “leggero” (e quindi debolmente organizzato sul territorio), che andasse aldilà del socialismo europeo ma in questo modo dotandosi di riferimenti ideali e valoriali troppo tenui per costituirne un efficace collante. Fu la famosa “fusione a freddo” tra postcomunisti italiani e postdemocristiani di sinistra, di cui gli stessi protagonisti ebbero poi a lamentarsi.
Quando questa ipotesi si delineò facemmo con Ruffolo un’ultima battaglia. Al congresso dei Ds del 2005, presentammo un “documento integrativo” a sei firme. Quella di Giorgio Ruffolo e di Alfredo Reichlin, di Giorgio Benvenuto e di Bruno Trentin, di Pasqualina Napoletano e mia. Volevamo andare oltre lo stesso simbolo adottato a Firenze che aveva solo una lillipuziana sigla Pse, per scrivervi a tutto tondo, Partito del Socialismo Europeo. Quando il documento integrativo cominciò ad essere approvato in molte federazioni, il vertice del partito decise di adottarlo e fu quindi approvato in congresso all’unanimità. Salvo che, meno di due anni dopo, pur di imbracciare la strada della formazione del Pd, uscire addirittura dal Pse. (In cui poi, ironia della storia, ve lo ricondusse Matteo Renzi).
Rievoco queste vicende, non per inutili rimpianti, ma per sottolineare come, il centro-sinistra, la sinistra riformista, per ricucire un rapporto con l’elettorato e in particolare con le classi lavoratrici che si è così deteriorato, debba oggi ripartire da fondamenta politico-ideali come quelle che animarono Giorgio Ruffolo. Da socialisti dobbiamo riaffermare il valore del lavoro, sia quello subordinato che quello dell’impresa, da ambientalisti affrontare con metodo programmatico i problemi della transizione ecologica, da laici in politica affermare le regole di una società pluralistica ed aperta. Giorgio Ruffolo credeva nella politica e quindi nel pubblico e voleva che nel potere pubblico si affermasse una logica al tempo stesso di razionalità e di partecipazione in un quadro capace di far esprimere al meglio l’iniziativa privata su grandi obiettivi collettivi. Una lezione che consideriamo viva ed attuale.
I ricordi che si affollano nella mia mente sono tanti, alcuni molti belli, qualcuno più amaro come la lotta politica inevitabilmente comporta. Dovrò forzatamente sceglierne uno, e sarà l’ultimo. Quella telefonata che mi rivolse all’inizio di un gennaio di tanti anni fa per chiedermi di sistemare le cose perché, quando fosse venuto il momento, si potesse celebrare il suo funerale in Chiesa Valdese. Lui che era un laico, aveva sentito il bisogno di un saluto, nel suo passaggio ad un’altra vita, in quella che è forse la più laica delle Chiese Cristiane, in questo modo arricchendo il messaggio politico militante e di uomo di profonda cultura che ci lascia. Valdo Spini
Quell’ “accanimento funerario” di Travaglio contro Enzo Carra...Carra è stato un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone o piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito? Francesco Damato su Il Dubbio il 6 febbraio 2023
In un prevedibile e perciò puntuale accanimento persino funerario – trattandosi di un morto – al Fatto Quotidiano non hanno gradito la generosità o l’ignoranza, o entrambe, di quanti scrivendo nei giorni scorsi di Enzo Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani alla segreteria della Dc, hanno scambiato per assoluzione la riabilitazione da lui ottenuta dal tribunale di sorveglianza di Roma il 26 marzo del 2004, una ventina d’anni fa..
Essa, in effetti, non annullò né capovolse la condanna definitiva ricevuta da Carra per false dichiarazioni nel 1995, a conferma della condanna in appello, dell’anno prima, a un anno e 4 mesi correttiva dei due anni comminatigli in primo grado, nel 1993, con la sospensione condizionale della pena. La riabilitazione si limitò a cancellare completamente dal casellario giudiziale gli effetti della condanna, a fargli riacquistare le capacità perdute e ad ottenere l’estinzione delle pene accessorie. Già nel 2001, del resto, Enzo era stato eletto deputato nelle liste della Margherita, confermato nel 2006, rieletto nel 2008 nelle liste del Pd, dove la Margherita di Francesco Rutelli era confluita.
Come ho già ricordato scrivendone dopo la morte, Enzo – nel frattempo uscito dal Pd per collocarsi più propriamente al centro con l’omonima Unione di ex o post-democristiani praticamente offertasi alle improvvise ambizioni politiche dell’allora presidente “tecnico” del Consiglio Mario Monti – sarebbe stato probabilmente rieletto ancora se non fosse incorso nel veto opposto dal senatore a vita alla candidatura di chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie negli anni di Tangentopoli, anche se riabilitato. Enzo si aspettava una difesa di Pier Ferdinando Casini che mancò. O non avvenne con la convinzione, la forza e soprattutto il risultato ch’egli si aspettava.
Oltre a contestare il Carra “assolto” e “innocente” di troppi articoli scritti in sua memoria, al Fatto Quotidiano hanno voluto riassumerne almeno il primo processo: quello al quale l’imputato fu portato con gli schiavettoni ai polsi contestati persino da Antonio Di Pietro, che lo prelevò personalmente dalla gabbia per portarselo accanto a mani libere. «Nel 1993 – ha raccontato testualmente il giornale ancora convinto, temo per altri passaggi del pezzo, della opportunità di quegli schiavettoni – Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 del codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima».
Sembra di capire, insomma, che Carra fosse stato arrestato e persino portato con gli schiavettoni al processo, attraversando così i corridoi del tribunale di Milano, anche per onorare la memoria di Falcone, trucidato l’anno prima con la moglie e quasi tutta la scorta a Capaci. Poiché non dispongo – lo confesso senza vergogna o disagio – degli archivi del Fatto Quotidiano e della memoria specialistica di quanti vi scrivono, mi sono limitato a navigare per qualche minuto in internet ed ho trovato di quella vicenda giudiziaria una cronaca dell’insospettabile Repubblica. Che faceva parte del giro dei giornali di cui l’amico Piero Sansonetti, allora all’Unità, ha onestamente raccontato che si scambiavano informazioni e titoli su Mani pulite per uscire all’unisono a favore degli inquirenti e contro gli imputati.
Ecco il racconto di Repubblica: «Processo in tempi rapidi per l’ex portavoce di Arnaldo Forlani. Enzo Carra, l’unico imputato di Tangentopoli arrestato con l’accusa di aver mentito davanti al pubblico ministero (il dottor Di Pietro), entrerà in aula giovedì mattina. L’udienza, per direttissima, è stata fissata davanti alla prima sezione penale e, quasi certamente, sfileranno testimoni d’accusa d’eccezione, come i democristiani Graziano Moro, ex presidente dell’Eni Ambiente, e Maurizio Prada, “raccoglitore” delle mazzette per lo Scudocrociato a Milano da più di dieci anni. L’arresto di Carra era scattato quando Moro era insorto: “Voi lo sapevate benissimo, delle tangenti per l‘affare Enimont”, aveva detto al forlaniano doc. Ma se quel “voi” indicasse la corrente o la Dc nazionale, non si è mai appreso con certezza. Gli avvocati di Carra, che è in carcere da oltre dieci giorni, hanno annunciato che rinunceranno a chiedere “i termini a difesa” per consentire l’immediata celebrazione del processo».
Da questa cronaca giudiziaria, ripeto, dell’insospettabile Repubblica non risulta il Carra del Fatto Quotidiano che si procura l’arresto con non so quante versioni delle rivelazioni attribuitegli da Graziano Moro, peraltro collega di partito. Nei cui riguardi, peraltro, nella sentenza d’appello si riconosce al pur condannato Carra “un raro senso della dignità” non avendo mai rinnegato, anzi confermando sentimenti di amicizia. Vi sembra questo Carra del 1993 un esemplare di doppiogiochista, reticente, falso testimone? O non piuttosto la vittima di chissà quali altri doppi giochi, reticenze e false testimonianze giocate magari all’interno del suo stesso partito?
La guerra di Travaglio non finisce mai: si accanisce su Carra. Il direttore del "Fatto" più manettaro dei pm. Nessuna pietà per l'ex dc persino da morto. Marco Gervasoni su Il Giornale il 5 febbraio 2023
Leo Longanesi amava dire che in Italia le rivoluzioni cominciamo in piazza ma finiscono a tavola ma forse l'animo degli italiani non è così benevolo come credeva il grande romagnolo. Al contrario, essi tendono a non dimenticare e a riprodurre quasi in eterno le loro piccole guerre civili. Niente pietà, anche per i vecchi protagonisti che, quando defungono, continuano a essere trattati senza alcuna misericordia e soprattutto senza alcuna distanza. Forse la premessa è troppo aulica per parlare di Marco Travaglio ma calza a pennello per il suo ricordo di Enzo Carra, il giornalista ed ex parlamentare scomparso il 2 febbraio, pubblicato sul Fatto quotidiano di ieri.
Per Travaglio, come per la «signora» di Loredana Berté in una famosa canzone di Ivano Fossati, «la guerra non è mai finita». Anzi, i nemici, i corrotti, spuntano da ogni dove e dopo trent'anni siamo punto daccapo perché la rivoluzione giudiziaria non è andata fino in fondo, la ghigliottina non ha lavorato abbastanza e i «contro rivoluzionari» hanno rialzato la testa. Per questo, non bisogna avere pietà alcuna, né verso i reduci vivi, né tanto meno per i morti. Così Carra, giornalista, portavoce di Forlani, arrestato da Di Pietro nel 1993 e esposto in manette, può ben essere definito una delle tante vittime di Tangentopoli. E non solo per quel trattamento da gogna. Come ricorda Gherardo Colombo, autore della introduzione all'ultimo libro di Carra, Ultima repubblica (Eurilink University press) le cui bozze sono state consegnate pochi giorni prima della morte, il pool di Mani pulite poteva evitare di incarcerarlo. Colombo, pubblico ministero di quel gruppo, negli anni successivi era diventato amico di colui che aveva fatto arrestare. E oggi, su quella vicenda di Tangentopoli, ha uno sguardo lucido. «Anche la magistratura (meglio, qualche magistrato)», scrive Colombo, «anche inconsapevolmente ha dato allora una mano a scaricare sulla sua categoria responsabilità non sue», cioè è stato tentato di svolgere un ruolo politico. Ma Travaglio, no, resta tetragono nelle sue certezze di allora e inneggia ancora e sempre al Di Pietro, alle manette, contro un Carra defunto, che per lui resterà in eterno corrotto. Carra ebbe una seconda vita: fu parlamentare della Margherita e poi del Pd. Ma per Travaglio questo non fu un merito; anzi, lascia intendere, fu piuttosto un premio elargito tra politici conniventi. E quindi niente, ecco cancellata tutta la vita successiva all'arresto, ecco Carra fotografato in eterno con gli schiavettoni, con le manette, che per Travaglio era giusto si stringessero ai suoi polsi. Non serve che Carra sia stato un fine giornalista, prima e dopo l'arresto, se abbia scritto dei libri, se sia stato in definitiva una persona, resta il simbolo della santità della rivoluzione giudiziaria: il politico ai ceppi, il massimo dell'orgasmo. Capirà il lettore che quando noi garantisti parliamo di «manettari», non è quindi un linguaggio figurato. Colpisce un altro aspetto nel ritratto al veleno di Travaglio, un termine che appare alla fine, l'evocazione della «giustizia di classe». Carra, spiega il direttore del Fatto quotidiano, si meritava le catene perché in catene finiscono anche i normali arrestati, i poveracci. Invece di essere coerente, e di scrivere che gli schiavettoni erano e sono umilianti, e quindi chiederne un uso moderato, Travaglio lancia il suo slogan: manette per tutti, che siate tossici o politici, imprenditori o clandestini, finanzieri o ladruncoli da strada. Tutti in manette, tutti in galera, come da tormentone di Giorgio Bracardi. In galera anche i defunti e, non potendoli più tenere in cella, almeno incarcerare la loro memoria.
Enzo Carra e la toccante celebrazione del suo funerale. Il racconto di Anzaldi. Di Michele Anzaldi il 05/02/2023 su Cultura/formiche.net.
“I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori. Lettera di Michele Anzaldi sui funerali di Enzo Carra
“Mortui non mordent” (un uomo morto non fa più la guerra). Mai come in quest’occasione si è rivelato appropriato il proverbio latino. Oggi, sul Giornale di Augusto Minzolini, Marco Gervasoni risponde al fondo infamante – non dimentichiamo la tempistica – pubblicato ieri dal Fatto quotidiano giornata dei funerali di Enzo Carra.
Tralasciando gli aspetti umani e il rispetto del dolore dei suoi cari e delle persone amiche, per capirne l’inappropriatezza e infondatezza invito a leggere Gervasoni. O forse sarebbe meglio leggere l’ultimo libro scritto da Carra (l’ok alla pubblicazione è stato dato dal letto dell’ospedale Gemelli), uscito proprio in queste ore col il titolo “Ultima Repubblica”, edito da Eurilink University Press.
A dimostrazione di come è stata superata e rivalutata la vicenda rievocata in maniera inutilmente polemica da Travaglio, il libro si apre con un dialogo tra Carra e proprio uno dei magistrati del pool di Mani pulite, Gherardo Colombo, conseguenza di un rapporto che si è creato e consolidato dopo la il dibattito nato anche dalla famosa foto degli schiavettoni.
Ma lasciando da parte queste risposte giornalistiche, rimane il dolore per la perdita inaspettata di Carra.
E allora vorrei pubblicamente fare i complimenti alla moglie, la signora Olga, e al figlio Giorgio per il toccante funerale che si è svolto nonostante la situazione: la moglie costretta su una sedia a rotelle per la frattura di femore e anca, ricoverata a Torino e giunta a Roma di notte appena in tempo per l’ultimo saluto; il figlio colpito non solo dal dolore ma anche dalla burocrazia funeraria. La bellissima chiesa di Sant’Andrea al Quirinale, progettata da Lorenzo Bernini, grazie alla pianta ellittica ha trasmesso ai tanti partecipanti la sensazione di vicinanza o addirittura di una riunione di redazione, come le tante presenziate da Carra nella sua lunga carriera giornalistica. Un ringraziamento al parroco Alessandro Manaresi, che nell’erudirci sulla bellezza della chiesa museo e dell’eccezionalità di celebrare un funerale in quel luogo, ha spiegato che ciò era possibile perché era il luogo abituale di incontro e di confronto tra lui ed Enzo.
Una celebrazione bella e toccante, che a causa della grande partecipazione ha dovuto limitare gli interventi solo a tre. Il primo fatto dal giornalista Francesco Giorgino, in rappresentanza dei numerosi allievi giornalisti cresciuti in redazione con Enzo. Il secondo in rappresentanza dei colleghi giornalisti fatto da Paolo Franchi. L’ultimo, il più toccante, dell’artista, cantautore, poeta, intellettuale e tanto altro David Riondino, che letteralmente ha rapito tutti recitando una poesia di Antonio Machado, Retrato, da “Campos de Castilla”.
Poesia molto bella e toccante che nella parte finale dice: “Al mio lavoro adempio con i miei soldi, pago l’abito che mi copre e la dimora che abito, il pane che mi nutre e il letto dove giaccio. E quando giungerà il dì dell’ultimo viaggio, e salperà la nave che non ritorna mai, mi troverete a bordo leggero di bagaglio, quasi svestito, come i figli del mare”.
Caro Giorgio, devi essere orgoglioso di tuo padre e dell’ultimo saluto che sei riuscito a organizzare.
Anzi mi permetto di proporti, alla luce di certe miserie, di rendere pubblico il “Libro delle Condoglianze”. Non avevo mai visto una partecipazione così ampia di grandi giornalisti, direttori, opinionisti, editorialisti di sinistra e di destra, politici, rappresentanti delle più alte istituzioni e belle e oneste persone normali.
È stato veramente un bel funerale, tutti in semi cerchio intorno a quell’inaspettata bara. “I morti non fanno la guerra”, come dice il proverbio, ma in questo caso verrebbe da dire che hanno trasmesso dei valori.
Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano Pubblicato il 4 Febbraio 2023
La scomparsa di Enzo Carra a 79 anni e i coccodrilli della stampa italiana che lo dipinge come un martire della malagiustizia, addirittura un “assolto”, sono un’ottima cartina al tornasole del “Paese di Sottosopra” (Giorgio Bocca). Nel 1993 Graziano Moro, manager dc dell’Eni, racconta a Di Pietro che il suo amico Carra, portavoce del segretario Forlani, gli ha raccontato una stecca di 5 miliardi della maxitangente Enimont alla Dc. Di Pietro lo sente come teste. Lui nega sotto giuramento. Di Pietro lo mette a confronto con Moro, che arricchisce il racconto con altri dettagli. Carra nega ancora. Davigo gli ricorda l’obbligo di dire la verità. Carra si contraddice, cambiando due o tre versioni. L’articolo 371 bis del Codice penale, voluto da Falcone e approvato nel 1992 solo dopo la sua morte, prevede l’arresto in flagranza dei falsi testimoni. Carra viene arrestato e processato per direttissima.
Il mattino dell’udienza viene tradotto dal carcere al tribunale in fila con altri 50 detenuti, tutti ammanettati e legati a una catena: i famosi “schiavettoni”, previsti dalla legge (voluta tre mesi prima dai socialisti) per evitare evasioni. L’aula è gremita e i carabinieri lo sistemano nella gabbia degli imputati. Di Pietro e Davigo lo fanno uscire e sedere accanto agli avvocati. Carra stringe la mano a Di Pietro e a Moro. Ma la sua foto in manette scatena la bagarre in Parlamento con urla e strepiti contro gli aguzzini di Mani Pulite: le manette si addicono agli imputati comuni, non ai signori. L’indomani alcuni detenuti del carcere di Asti scrivono alla Stampa: “Siamo tutti ladri di galline, eppure in tutti i trasferimenti veniamo incatenati ben stretti, per farci male, e restiamo incatenati in treno, in ospedale, al gabinetto, sempre. Anche noi appariamo in catene sui giornali prima di essere processati, ma nessuno ha mai aperto un dibattito su di noi. Oggi ci siamo domandati quali differenze esistano fra noi e il signor Carra. Al quale, in ogni caso, esprimiamo solidarietà”. Carra viene condannato a 2 anni per false dichiarazioni al pm, poi ridotti in appello a 1 anno e 4 mesi per lo sconto del rito abbreviato e confermati in Cassazione. Il Tribunale ritiene che, avendo depistato le indagini sulla più grande tangente mai vista in Europa, “furono quantomai opportuni il suo arresto, la direttissima e la pena non confinata ai minimi di legge”. I giudici d’appello censurano il suo “poco apprezzabile sentimento di omertà”. Nel 1995 destra, centro e sinistra cancellano la legge Falcone sull’arresto dei falsi testimoni. Carra, che da incensurato non era deputato, lo diventa da pregiudicato nel 2001 con la Margherita. E, oggi come trent’anni fa, la legge uguale per tutti fa scandalo: meglio la vecchia, lurida giustizia di classe. Sorgente: Sul carro di Carra – Il Fatto Quotidiano
Estratto dell'articolo di Alberto Giannoni per “il Giornale” il 7 febbraio 2023.
Giorgio Carra, giornalista, 39 anni, 5 giorni fa è scomparso suo padre Enzo, portavoce Dc alla fine degli anni Ottanta.
«Sono stordito. Nell’ultimo anno aveva avuto problemi, ma niente faceva presagire un precipizio così rapido» […]
Com’era Enzo Carra privato?
«[…] Colto, era abbonato a due teatri, leggeva sempre. Quando ha avuto la crisi, gli avevo portato lo zainetto con i-pad e cellulare per leggere. Era una biblioteca vivente. Amava la politica e conservava molte amicizie. Gli chiedevano consigli, la politica per lui era visione».
Che idee aveva?
«Era e restava un giornalista, notista politico del Tempo, poi portavoce Dc, non deputato, quello dopo, con la Margherita, nel 2011. Era profondamente credente, ma aveva idee molto moderne».
La foto del suo arresto in catene è rimasta nella storia.
«Avevo 9 anni. Quella foto è l’emblema di come non devono andare le cose. Poche settimane prima era stato arrestato Riina, che se la rideva, non certo con quegli schiavettoni a favore di camera».
E poche settimane fa Messina Denaro, senza manette. «È civiltà» è stato detto.
«Giusto. E Carra invece sì. Un giornalista, messo alla gogna per uno show, a mio avviso per far sì che si capisse chi comandava, chi aveva il potere in quel momento. Era il simbolo della politica vinta dal pool. Ed era uno che non poteva dire niente, se non inventandoselo. Accusato da qualcuno che al momento dell’accusa è stato liberato. Trattato come una bestia».
Ne parlava?
«Tranquillamente, sì, si era tolto qualche sassolino ma non era capace di rancori. Una consolazione ora è che sia morto dopo aver visto, anche se solo on line, il suo ultimo libro, L’Ultima repubblica. Il cartaceo è uscito il giorno della morte.
L’introduzione è un dialogo con Gherardo Colombo, del pool, che si era pentito di alcune cose. Sono diventati amici, una delle ultime telefonate che ha ricevuto era sua».
Era un episodio chiuso.
«Il 99% delle persone ha capito. E che il Capo dello Stato abbia usato quelle parole dice tutto. Era tornato a fare il giornalista, aveva intervistato Madre Teresa. L’ultima cosa che voglio è che resti inchiodato a quella foto».
Il giustizialismo […] C’è ancora.
«Ha avuto seguito, pensi a Grillo, e al suo fedelissimo che si è distinto anche stavolta, non lo cito neanche, è stato l’unico».
Marco Travaglio?
«Non scendo su certi livelli. Non l’ha mai fatto mio padre e non lo farò nemmeno io» [...]
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 7 febbraio 2023.
Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.
Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.
Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.
(…)
E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».
Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.
(ADNKRONOS il 2 Febbraio 2023) - È morto nella notte a Roma Enzo Carra, giornalista, portavoce della Dc tra il 1989 e il 1992, poi deputato prima della Margherita e poi del Pd. Era ricoverato da una settimana nel reparto di Terapia intensiva del Policlinico Gemelli a causa di una crisi respiratoria. Avrebbe compiuto 80 anni il prossimo 8 agosto.
Da www.cinquantamila.it - la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti
Enzo Carra, nato a Roma l’8 agosto 1943. Politico. Giornalista. Leader teodem. Eletto deputato con la Margherita nel 2001, l’Ulivo nel 2006 e il Partito democratico nel 2008, passato all’Udc il 14 gennio 2010. Non è stato ricandidato per le elezioni politiche di febbraio 2013 «Casini nel darmi la notizia della mia esclusione l’ha motivata con il no di Monti il quale non ha ammesso eccezioni al codice etico, ma la mia condanna di vent’anni or sono per false o reticenti dichiarazioni al pm riguardava vicende della Dc alle quali ero totalmente estraneo».
• Nel 1993, da portavoce dell’allora segretario della Dc Arnaldo Forlani, fu chiamato a testimoniare sulla tangente Enimont alla Democrazia cristiana (vedi Sergio Cusani): accusato per «dichiarazioni reticenti» dal pubblico ministero Antonio Di Pietro, processato per direttissima e tradotto in aula con schiavettoni e catene, la drammatica immagine fece il giro del mondo e suscitò i primi dubbi su certi metodi del pool Mani Pulite.
• «Ti chiedevano una cosa, gli rispondevi che non ne sapevi nulla, ma loro volevano comunque che tu accusassi qualcuno. Io mi rifiutai di partecipare a questo gioco al massacro e pagai a caro prezzo, anche se tutti i condannati per Enimont, da Cusani a Severino Citaristi, confermarono che non ne sapevo nulla. Vissi quel dramma come la prova della mia vita. E se riuscii a superarla fu perché, anche grazie alla violenza che mi fu riservata, il clima nel Paese cominciò a migliorare e i garantisti trovarono finalmente spazio sui media».
• È favorevole a una riforma della giustizia: «In Italia si è creato un corto circuito che è dato dall’assenza di immunità, dal fatto che non si possono sospendere i processi per le alte cariche e che i magistrati hanno l’obbligo dell’azione penale. Questo è un problema obiettivo, che rende debole la politica rispetto alla magistratura. Discutiamone».
• «Da portavoce di Arnaldo Forlani entrava in Transatlantico chiedendo: "Ahò, che gli faccio dì oggi ad Arnaldo?". Mitico» (Luca Telese) [Grn 19/10/2007].
• «Di amici politici vedo solo Enzo Carra, di razza e surreale» (Carlo Degli Esposti, produttore televisivo).
• «Con Tremonti è tra i miei clienti più esigenti. Chiede tagli pettinabili e pratici» (Riccardo Balestra, parrucchiere).
Addio al portavoce Dc. Chi era Enzo Carra, il forlaniano ridotto in schiavettoni. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 3 Febbraio 2023
Ciò che gli avevano messo ai polsi, a Enzo Carra, quel giorno di marzo del 1993 in piena Tangentopoli per esporlo alla gogna dei giornalisti, erano gli schiavettoni, non le manette. Attrezzi del genere usato sulle navi negriere: due pezzi di ferro con anelli per tenere i polsi legati da una catena. Un oggetto che si poteva usare per i briganti dell’Aspromonte, i celebri mafiosi.
E invece si trattava di un innocente catturato dal gruppo dei procuratori di “Mani Pulite”, nome originario dell’operazione “Clean hands”.
Più tardi, quando Enzo Carra e Antonio di Pietro si incontrarono, il famoso procuratore negò di avere chiesto per lui l’uso di questo strumento medievale che aveva come unico scopo quello di umiliare e rendere l’imputato penoso, ridicolo, e certamente colpevole di fronte a un’opinione pubblica e un giornalismo incline al linciaggio in un’epoca assetata di simboli carcerari. Mancavano soltanto le palle al piede con la catena e il pigiama a strisce degli ergastolani.
E onestamente non è vero affatto che a quei tempi un fremito d’indignazione spingesse tutti i giornali e i giornalisti ad aver cura o almeno rispetto dei diritti dell’accusato sottoposto alle umiliazioni più cocenti non perché fosse certamente colpevole, ma perché l’ideologia del gruppo di magistrati precedeva l’umiliazione simbolica della politica e dei politici, anzi aprendo la strada al vilipendio sistematico delle istituzioni attraverso il vilipendio dei singoli imputati. Enzo Carra era innocente, fu riconosciuto innocente, nessun indizio e nessuna prova, ma gli fu detto che non era in questione la sua innocenza ma il suo ruolo politico. L’umiliazione degli imputati politici era stata già usata con successo nei processi staliniani e poi in quelli nazisti, in cui si faceva largo uso di abiti e strumenti di detenzione che mettessero in ridicolo l’accusato. Così, quando Enzo Carra fu arrestato ed esposto ai fotografi con una messinscena degna della polizia franchista in Spagna, veramente in pochi si indignarono, mentre i più risero o almeno sorrisero.
In fondo, il giornalista Enzo Carra faceva ridere messo ai ferri ed esposto in catene. Faceva ridere quell’uomo con la barba, vecchio giornalista passato alla politica dalla parte sbagliata: quella di Arnaldo Forlani e accusato a causa di quello schieramento. Secondo molti, dietro la disgrazia di Carra c’era stato il ritorno nella corsa al Quirinale di Giulio Andreotti, il quale però si trovò la porta sbarrata da Forlani e Craxi con cui prima aveva formato una sorta di triumvirato detto “Caf” dalle iniziali dei protagonisti. Ma il terzetto si era rotto, Andreotti era rimasto indietro e voleva tornare in prima linea a Forlani gli sbarrava la strada. E Enzo Carra era forlaniano.
Tutta la stampa liberal era schieratissima contro il Caf per avversione radicale contro Craxi che aveva finito con assorbire anche Andreotti. E quindi acciuffare un giornalista come Carra che era considerato un portavoce del “Coniglio mannaro” (nomignolo corrente per Arnaldo Forlani) e dunque un perfetto bersaglio per una operazione politica che troncasse gli eventuali progetti di Craxi. Più tardi Carra fu tra i fondatori della Margherita e poi partito unico fatto di democristiani e comunisti da cui però si scostò. Ma ai tempi di Forlani, Carra fu eletto deputato nelle file della Dc dove ebbe l’importantissimo ruolo di portavoce della segreteria del partito diventò dunque un uomo di peso rilevante.
Quale moto di indignazione volete che portasse un democristiano per di più “forlaniano” cioè aderente membro attivo del gruppo di Craxi Andreotti e Forlani. Oggi è tutto dimenticato. Restano solo gli schiavettoni contro i quali protestò anche Francesco Cossiga. Ma non dimentichiamo che più di metà del paese di fronte a quello spettacolo immondo si sentì rallegrata e mormorò: “Ben gli sta, forlaniano di merda”.
Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà.
Estratto dell'articolo di Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 3 Febbraio 2023.
Ecce Carra, ecce homo. Perché non si vorrebbe esagerare, né farla troppo complicata, però riguardandosi la foto di Enzo Carra trascinato con le catene ai polsi al Palazzo di Giustizia di Milano fra due ali di giornalisti, fotografi e telecamere, ecco, solo ora si capisce come in epoca post-moderna certe icone paiono destinate a sostituire le figure di un immaginario religioso che nella loro potenza simbolica, così come nella concretezza, non sono affatto lontane da un contesto religioso ravvivato dai tanti Cristi ritratti con le mani.
Enzo Carra, che ieri se n’è andato a 79 anni, era certamente un credente, ma siccome nel ricordo resta un uomo simpatico e spiritoso, ci avrebbe fatto su una risata. Eppure, nel ricordare quella sequenza di flash ha scritto: “In quel momento ho capito perfettamente di essere un simbolo; io ero la Dc trascinata in catene e processata”.
Era il marzo del 1993, poco prima che venisse giù tutto. Fu una passerella tanto orchestrata quanto avvilente. Ammutolito dai giornalisti che gli chiedevano se quegli arcaici schiavettoni gli facevano sanguinare i polsi, il portavoce del segretario della Dc Forlani fu trainato nella gabbia degli imputati. Quando in aula s’intensificò la bolgia, Di Pietro platealmente ebbe l’intuito di accompagnarlo in prima fila, vicino agli avvocati, ma l’immagine destinata a rimanere impressa restò per sempre quella di Carra ammanettato con un carabiniere a destra e uno a sinistra.
(…)
E davvero qui dispiace inchiodare Carra a quelle foto che sanno di vergogna e martirio. Anche perché da esse Enzo ebbe poi la fortuna di trarre sapienza e coraggio per rifarsi una vita (fu condannato non per corruzione ma per falsa testimonianza), pure come senatore della Margherita e imprescindibile conoscitore della Prima e della Seconda Repubblica. Ma come accade per i simboli, l’immaginario non fa sconti, nemmeno dopo la morte. Così vale ricordare che la scena delle manette suscitò le più contraddittorie emozioni: «Anche la Gestapo» disse Forlani; non moltissimi protestarono, fra cui Boato, Biondi, Anna Finocchiaro; Occhetto si disse turbato; il ministro della Giustizia Conso fu drastico: «È stata tradita la giustizia, l’episodio disonora il Paese».
Dei telegiornali il Tg1, il Tg3 e il Tg4 censurarono le immagini, il Tg2 coprì il volto e i ferri, il Tg5, ammiraglia Mediaset, fece vedere tutto. Ma “la gente” non dovette disapprovare gli schiavettoni ai polsi di Carra se, secondo un sondaggio, 63 milanesi su cento li giudicarono “una cosa giusta”. Tacquero, come chi acconsente, leghisti, missini e repubblicani. Fu in quell’occasione che il professor Miglio, padre putativo del modello presidenzial- federalista portato avanti dall’odierna maggioranza di governo, affermò: «Il linciaggio è la forma di giustizia nel senso più alto della parola». Da lassù, Enzo saprà compatirlo, o almeno speriamo.
Enzo Carra, solo poco prima di morire ha visto la copertina del suo libro su «L'ultima Repubblica». Paolo Franchi su Il Corriere della Sera il 2 Febbraio 2023
Da uomo della Prima Repubblica, ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, ha provato a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie
Del suo ultimo desiderio non mi aveva mai parlato esplicitamente, Enzo Carra, nonostante fossimo amici più che fraterni. Ma ci giurerei su lo stesso. Sperava di vivere abbastanza a lungo – sto parlando di mesi, di settimane, di giorni – per vedere pubblicato il suo ultimo libro, e godersi il dibattito pubblico (lui lo avrebbe voluto impietoso e serrato) che avrebbe suscitato. Ci aveva lavorato per anni, scrivendo, correggendo, tagliando, e poi riscrivendo, ricorreggendo e ritagliando ancora. Poi, finalmente, si era convinto di aver portato a compimento il lavoro.
In non so più quale convegno sui rapporti tra politica e magistratura aveva conosciuto Gherardo Colombo. Non posso dire che cosa l’ex Pm di Mani Pulite pensasse e pensi di Carra, l’ex portavoce di Arnaldo Forlani arrestato e trascinato in aula con gli schiavettoni ai polsi a dimostrazione che un’intera classe politica era stata sgominata dai magistrati: penso che ne abbia stima. Ma so per innumerevoli testimonianze dirette che, per Enzo, Colombo era stato una scoperta politica, intellettuale e soprattutto umana. Si erano visti e sentiti molte volte, in pubblico e in privato. E da questa frequentazione era nata l’idea di far precedere il testo del libro da un dialogo tra i due, fitto, ricco e, per quanto è soprattutto sereno. L’idea si è realizzata, l’ultimo desiderio di Carra no: Enzo ha fatto appena in tempo ieri, poche ore prima di andarsene, a farsi passare dal figlio Giorgio il cellulare per vedere la copertina del libro, che sta per arrivare in libreria, pubblicato da Eurilink, e ha per titolo «L’ultima Repubblica». È già qualcosa, ma l’autore avrebbe meritato di più.
Non capita spesso (anzi, per essere più precisi, fin qui non è capitato mai) che un uomo della Prima Repubblica, a suo tempo sbrigativamente e del tutto ingiustamente additato a simbolo vivente delle nequizie della medesima, provi sulla scorta della sua esperienza non solo a ricostruire dall’interno i perché e i come della caduta dell’Antico Regime, rievocandone grandezze e miserie, ma pure i perché e i come del disastro cui il Nuovo ha consegnato, nel trentennio successivo, il Paese. Carra ci ha provato, secondo me con successo, restando uomo di parte anche quando la sua parte non c’era più, ma senza cedere per questo all’indulgenza e all’autoindulgenza: di questo, credo, gli va dato atto e merito.
Carra è stato un giornalista raffinato e colto, i suoi primi passi nel mestiere li ha fatti occupandosi di cinema e di teatro, ma non è mai stato, come si dice, «prestato alla politica». La politica, quella interna come quella internazionale, sono stati da sempre, ben prima di entrarvi in primissima persona, e ben oltre il momento in cui la ha lasciata, o è stato costretto a lasciarla, il suo pane quotidiano. Della politica (quella vecchia e, sempre che sia mai esistita, quella nuova) conosceva a menadito la scena e i retroscena, i piani alti i piani bassi e pure i sottoscala, anche perché li aveva praticati tutti. Senza politica (politica fatta, non solo pensata) non sapeva stare, o almeno stava molto male.
Finché gli fu possibile, appena gli si presentò l’occasione continuò a farla, prima nella Margherita, poi nel Pd e infine, per qualche tempo, nell’Udc. E coltivò pensiero politico senza disdegnare, anzi, la cosiddetta politique politicienne. Dei tempi antichi ricordo un verbo, «accarrarsi», coniato da noi giovani cronisti parlamentari che gli chiedevamo lumi sulle manovre interne alla Dc, e ne avevamo in cambio oscure metafore e dotte citazioni. Di tempi più recenti l’amicizia con Francesco Cossiga. Dei tempi nostri, la cena quasi settimanale con Olga e Gabriella. E un’infinità di interminabili telefonate, zeppe di chiacchiere giornalistiche, politiche e calcistiche (era un uomo di stadio come me, Enzo, ma tutto all’opposto di me di incrollabile fede laziale). Già mi mancano, e ancora più mi mancheranno nei giorni a venire.
Addio a Carra, vittima di Mani Pulite. Quelle manette come arma di tortura. Fu fatto sfilare in tribunale con gli schiavettoni ai polsi per un reato poi cancellato. Di Pietro voleva che accusasse Forlani. Stefano Zurlo il 3 Febbraio 2023 su Il Giornale.
Quell'immagine borbonica di un uomo sfilacciato è una delle foto simbolo di Mani pulite. L'icona di una stagione in cui le manette venivano prima della giustizia e la giustizia si misurava col metro del pentimento. È il 4 marzo 1993 e Enzo Carra, potente portavoce della ormai moribonda Dc, sfila con le manette ai polsi attraverso i grandi saloni del Palazzo di giustizia di Milano.
Antonio Di Pietro e il Pool gli contestano un reato cucito come un abito di sartoria su di lui: le false informazioni al pubblico ministero. Un illecito per cui dal 94 sarà impossibile arrestare.
Di Pietro l'ha interrogato come persona informata sui fatti, più o meno nel primo anniversario della rivoluzione giudiziaria cominciata il 17 febbraio 1992 con la cattura di Mario Chiesa, e gli ha chiesto spiegazioni su una tangente da 5 miliardi di lire incassata dal partito: il nome che tutti si aspettano è quello di Arnaldo Forlani, uno dei tre lati del Caf, il triangolo che comanda l'Italia.
Bettino Craxi in quel momento è già nel mirino della magistratura ambrosiana e viene bersagliato da avvisi di garanzia, uno dopo l'altro; Giulio Andreotti invece sembra schivare i colpi, che gli arriveranno da Palermo, e sul perché di quel galleggiamento girano nel Paese infinite leggende, tutte più o meno di matrice complottistica. Resta quell'obolo sostanzioso che potrebbe portare al segretario della Dc, ma Carra dice di non saperne nulla e finisce a San Vittore.
Il 4 marzo va in scena quello spettacolo avvilente: il prigioniero con i ferri, gli schiavettoni che diventeranno un'icona, fissati con una lunga catena stretta nelle mani di un carabiniere.
È tutto feroce, è tutto senza umanità, è tutto sproporzionato ma quella è la metrica di Mani pulite, forse all'apogeo in quei mesi.
«Prima dell'udienza - mi raccontó un giorno - mi tennero una mezz'ora in una stanza dei sotterranei, poi finalmente si decisero a spedirmi in aula. Stavano per mandarmi con le mani libere, ma ci fu una telefonata e mi misero gli schiavettoni».
Carra, che ieri è scomparso a 79 anni, riviveva quei giorni cupi cercando di descrivere tutti i dettagli, come fa un giornalista, e lui era nato con la penna in mano: dopo un esordio nella critica cinematografica, approda al Tempo dove rimane fino al 1987, firma di punta della cronaca politica; nell'89 diventa lo speaker del partito e dunque l'ombra del potere ma la caduta del Muro e l'esplosione di Tangentopoli mandano in pezzi quel mondo.
L'inverno 93 è quello decisivo: ormai il Pool è sulle tracce della tangente Enimont, la maxitangente che segnerà i suicidi di Gabriele Cagliari e Raul Gardini.
La procura di Milano è una catena di montaggio: arresto, confessione, scarcerazione. Detenzioni lampo, spesso, o addirittura nemmeno quelle: basta un avviso di garanzia per correre a vuotare il sacco con un effetto domino che coinvolge imprenditori e politici.
Però non sempre va così, anche se obiettivamente è difficile resistere alla pressione che spinge sempre nella stessa direzione: c'è chi contesta quei metodi, ma i provvedimenti sono spesso confermati dai giudizi nei gradi successivi.
Succede anche con lui: Carra viene condannato a 2 anni, poi ridotti a 1 anno e 4 mesi, pena confermata in cassazione. E peró quel fotogramma scioccante e umiliante segna un punto di non ritorno: molti Tg si rifiutano di trasmettere quella sequenza così umiliante e le standing ovation per le toghe si affievoliscono.
«Io - spiegava lui - mi rimisi in carreggiata solo grazie a un amico psichiatra e ricominciai a lavorare solo dopo due anni, grazie a Minoli».
Alla Rai, Carra confeziona alcune clamorose interviste: a Gheddafi e a Madre Teresa, forse l'ultima prima della sua morte. Ma il demone della politica lo riafferra di nuovo: sta con la Margherita e il centrosinistra nell'Italia bipolare e per tre legislature è parlamentare, colto e ironico, mai cinico, con quella ferita sempre pronta a riaprirsi.
Alla fine torna al suo primo amore: ci siamo incrociati l'ultima volta tre anni fa a Radio3, nel programma di Edoardo Camurri e Pietro Del Soldà Tutta l'umanità ne parla: in un gioco semiserio io impersonavo Craxi e lui Andreotti. Anche quella volta si rivelò rigoroso, come sempre.
Il mio amico Enzo Carra, vittima di quella sua grande passione politica. Dell’ex portavoce della Dc, morto a 79 anni, si continuerà a ricordare non tanto la lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta foto in manette nel tribunale di Milano. Francesco Damato su Il Dubbio il 2 febbraio 2023.
Di Enzo Carra, del mio amico Enzo Carra, morto a 79 anni, temo che si continuerà sfortunatamente a ricordare non tanto la sua lunga e apprezzata attività giornalistica, saggistica e politica, quanto quella maledetta fotografia che negli anni terribili di Tangentopoli - o di Mani pulite, come i magistrati di Milano vollero chiamare le loro indagini sul finanziamento illegale dei partiti- lo riprese barbaramente in manette nei corridoi del tribunale ambrosiano mentre raggiungeva l’aula del suo processo.
Egli era stato accusato, e infine condannato, non di corruzione o simili ma di reticenza: per non avere detto della Dc e del suo segretario politico Arnaldo Forlani, di cui era portavoce, ciò che gli inquirenti si aspettavano. O -come lui poi mi raccontò- pretendevano che dicesse per stringere ancora di più al collo della Dc e di Forlani il cappio gemello di quello che stavano stringendo attorno al Psi e a Bettino Craxi. Del quale Forlani era amico ed alleato avendone favorito negli anni 80 la scalata a Palazzo Chigi, ed avendo collaborato con lui come vice presidente del Consiglio: veste nella quale, fra il 1983 e il 1987, il mio amico Arnaldo si trovò spesso, volente o nolente, a proteggerlo dagli agguati non tanto della forte e dichiarata opposizione comunista quanto dell’altrettanto forte ma non del tutto esplicita avversione dell’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita. Che era salito anni prima al vertice del partito proponendosi come argine all’avanzata del pur alleato leader socialista, giunto ad un palmo da Palazzo Chigi già nel 1979, incaricato dal presidente socialista della Repubblica Sandro Pertini ma fermato dalla direzione della Dc all’ultimo momento con una votazione alla quale Forlani aveva partecipato astenendosi, cioè non approvando lo stop.
Proprio a Palazzo Chigi da vice presidente del Consiglio di Craxi, dopo un turno elettorale nel quale la Dc guidata da De Mita aveva perso in un colpo solo ben sei punti percentuali, Forlani chiamò Enzo Carra a fargli da portavoce. Nel dirimpettaio palazzo dell’Inps, in Piazza Colonna, affittato al Tempo, Enzo aveva seguito sino ad allora la politica con meticolosità e convinzioni moderate in linea con quella testata.
La lunga collaborazione con Forlani, tornato alla guida della Dc nel 1989, dopo averla già guidata fra il 1969 e il 1973, rafforzò in Enzo Carra la simpatia per lo scudo crociato, tanto da tentare l’elezione a deputato nelle sue liste a Roma, purtroppo inutilmente. Ma né la delusione per quella mancata elezione, né il coinvolgimento del partito nel terremoto giudiziario e politico di Tangentopoli, o -ripeto- Mani pulite, né il suo personale impatto con quella tragedia da imputato di reticenza, trattato con quegli schiavettoni ai polsi come un criminale peggio che comune, lo distolsero da quella che era ormai diventata una sua passione politica. Al contrario -sia detto a suo merito- la rafforzarono.
Una volta passati, davvero o a parole, dalla cosiddetta prima Repubblica alla seconda, Enzo non si lasciò scappare nessuna occasione per partecipare ai tentativi di salvaguardare la memoria della Dc e di raccoglierne valori e tradizioni nei movimenti dove ciò era possibile: per esempio, nella Margherita, dove alla fine confluirono i resti della Dc contrari o impossibilitati, secondo le circostanze, a intrufolarsi nel centrodestra berlusconiano. E Carra riuscì, nella sua ostinata passione diventata ormai militanza, anche ad essere finalmente e ripetutamente eletto deputato grazie anche alle nove leggi elettorali che risparmiavano ai candidati il pesantissimo onere di cercarsi i vecchi voti di preferenza della prima Repubblica. Egli segui la Margherita nel 2007 anche nella pur controversa confluenza nel Pd, nelle cui liste fu rieletto nel 2008 ma da cui tuttavia uscì per aderire all’Unione di Centro nel 2010.
La sua esperienza parlamentare sarebbe continuata anche dopo le elezioni del 2013 se, fra i candidati post-democristiani, chiamiamoli così, raccoltisi sostanzialmente attorno alle liste improvvisate da Mario Monti non fosse incorso nello sbarramento posto dallo stesso Monti contro chiunque avesse avuto pendenze giudiziarie risalenti a Tangentopoli. Il colpo fu durissimo per lui, pur riabilitato dal tribunale di sorveglianza di Roma nel 2004. Da quella delusione praticamente non si riprese più, prendendosela tuttavia più che con Monti, in pubbliche dichiarazioni, con Casini. Dal quale, nel ricordo della comune collaborazione avuta con Forlani nella penultima segreteria della Dc, prima di Martinazzoli, Enzo si aspettava una difesa a oltranza dalle forbici giustizialiste del presidente del Consiglio succeduto a Berlusconi nell’autunno del 2011.
Addio, Enzo, amico mio. O arrivederci, nella nostra comune fede religiosa, pur dopo le incomprensioni che non sono mancate fra di noi all’epoca, per esempio, della mia direzione al Giorno. Dove mi rimproveravi, a tuo modo, tra telefonate e bigliettini, di privilegiare nella linea politica i socialisti e Craxi rispetto ai democristiani e a Forlani. Del quale, a un certo punto, volli verificare personalmente gli umori scoprendo che non erano quelli del suo portavoce.
L’ultima intervista a Enzo Carra, il giornalista simbolo degli orrori di Mani Pulite. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Febbraio 2023.
E’ morto oggi a Roma il giornalista ed ex deputato Enzo Carra. Arguto, brillante, coltissimo, è stato un maestro per i giornalisti che hanno avuto la fortuna di frequentarlo. Sempre gioviale, aveva per il suo lavoro e per il dovere della corretta informazione un rispetto rigoroso. Divenuto, suo malgrado, l’immagine di una delle pagine più buie dell’inchiesta ‘Mani pulite’, nel 1993 venne arrestato e trascinato in tribunale con gli schiavettoni ai polsi a favore di fotografi e cameramen, simbolo dei danni che può procurare il perverso circuito mediatico-giudiziario.
Enzo Carra ha raccontato la politica come giornalista per vent’anni, prima di diventarne un protagonista come portavoce della Dc e quindi come parlamentare di area centrista, eletto nel 2001 con la Margherita di Rutelli.
Quella di Carra, lucidissimo interprete della politica – inventò la comunicazione politica moderna, negli anni Ottanta – fu una carriera interrotta dalla brutalità di una inchiesta giudiziaria dissennata: gli vennero ascritte colpe di cui non era responsabile usando l’atroce sillogismo del “non poteva non sapere“. Ha pagato un prezzo altissimo sull’altare della condanna mediatica.
Riabilitato dalla giustizia nel 2004, faticherà a reinserirsi nel mondo dell’informazione, a parte una collaborazione con la Rai richiestagli da Giovanni Minoli. L’ultima intervista pubblica di Enzo Carra è stata con il Riformista Tv. A margine dell’intervista rivelò di aver scritto un memoriale sulle vicende misteriose e irrisolte della prima repubblica, viste da dietro le quinte della Democrazia Cristiana. Quel manoscritto è rimasto inedito: nessun editore lo ha voluto pubblicare.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale.
Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.
“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.
Che ricordo ha di quegli anni?
“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.
Non sono stati, quindi, tempi semplici?
“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.
Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?
“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.
Chi è stato più penalizzato?
“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.
Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?
“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.
Quali sono state le conseguenze?
“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.
Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…
“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.
Parla il portavoce della Dc al tempo di Mani pulite. Il dramma di Enzo Carra: “Mostrato in manette per dare un segnale di sottomissione alla politica ma ero innocente”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 18 Febbraio 2022.
Trent’anni dall’inizio di Mani Pulite. E poco meno da quando il terremoto giudiziario arrivò a Roma, travolgendo – con il colpo di cannone della maxi tangente Eni Montedison – anche il cuore della politica. Enzo Carra ne fu, suo malgrado, protagonista. Era il portavoce della Dc. Un professionista che di tangenti non ne aveva mai viste. Ma che fu prescelto dal pool della Procura di Milano per farne una vittima sacrificale sull’altare dei simboli. Era pur sempre il portavoce del partito che teneva le relazioni tra il mondo dei media e il partitone del potere, “non poteva non sapere”. Andava colpito, quasi per educarne cento.
All’epoca era il portavoce della Dc, come ci arrivò?
Ero giornalista da quando avevo 22 anni. La mia passione all’inizio era il cinema, la critica cinematografica. Fondai un giornale, Il Dramma.
Un nome profetico…
Sì, quello fu un dramma vero. Non solo mio, collettivo.
Torniamo a quando diventa giornalista politico.
Avevo ridato fiato alle pagine di politica del quotidiano Il Tempo, a Roma. Avevo reinventato la nota politica, rinnovando il modo di informare i lettori. A un certo punto Forlani, nel 1989, mi chiese di diventare portavoce della Dc, accettai. Era un momento vibrante, che sentivo carico di sfide.
Nell’ 89 cambiava il mondo.
E però molti tardavano ad accorgersene. Come pure fu per Tangentopoli. La politica era gerontocratica, non percepiva velocemente i cambiamenti in arrivo.
Come fu l’arrivo di Tangentopoli, con l’arresto di Mario Chiesa?
Nessuno fece caso. Sembravano questioni milanesi, secondarie. L’atteggiamento era “‘a da passà ‘a nottata”. Una sottovalutazione generale. E invece fu l’inizio di un passaggio da un’epoca a un’altra.
Viene in mente Gramsci: il vecchio tramonta ma il nuovo stenta a nascere.
E guardi che siamo ancora in quel guado. Tangentopoli fu l’abbattimento di una classe dirigente, senza un progetto vero di sostituzione. Uno sconquasso che ha creato il vuoto della politica che si vede anche oggi.
Veniamo a lei. Lambito dalle indagini sulla supposizione del “non poteva non sapere”. Scoppia lo scandalo della maxi tangente Eni Montedison e Di Pietro chiama a testimoniare tanti. Tra cui anche lei.
Esatto. Vado a Milano, Di Pietro mi interroga. Gli spiego che non so quasi nulla, tranne quel che leggo dai giornali. Il mio era un ruolo tecnico, da comunicatore. Mi dice: “Ma sa, andando al bagno in quei palazzi del potere uno le cose le viene a sapere”.
Lei non frequentava i bagni giusti, Carra. E come costruiscono l’imputazione su di lei?
Mi dà appuntamento al venerdì, tre giorni dopo. “Perché dobbiamo fare dei riscontri”. Al mio ritorno, venerdì, mi trovo davanti a una sceneggiatura, per quanto fantasiosa, già scritta. Un tipo mai visto, un faccendiere che doveva uscire di prigione, gli avrebbe detto di essersi riunito con me a Roma. E io gli avrei parlato della maxi tangente. Io lo guardo negli occhi, gli chiedo in quali circostanze. Quello farfuglia: nel suo ufficio a Roma, c’erano diverse segretarie… e alla fine della frase si mette a piangere. Doveva recitare la parte per uscire di galera, lo compatisco. Di Pietro sorride e mi stampa addosso l’accusa di aver mentito al Pm. Mi difendo ma non mi dà retta. Aveva bisogno di imputati freschi, e io che ero il portavoce del segretario Forlani ero succulento, per lui.
Poi come accadde che la fece comparire ammanettato con gli “schiavoni”?
Dovevo comparire davanti ai giudici, ero al pianterreno del Palazzo di Giustizia. Due Carabinieri si apprestavano ad accompagnarmi tenendomi per il braccio, poi arrivò una telefonata. Non seppi mai di chi. Li vedi consultarsi: era arrivato l’ordine di mettermi in ceppi. Dovevo comparire davanti al ‘muro’ delle telecamere e dei fotografi ammanettato, come simbolo della vittoria dei magistrati sulla politica. Ero molto colpito ma rimasi, per fortuna, lucido.
Quell’immagine suscitò per fortuna anche un sussulto di risposta, un minimo di sdegno.
E fu per il pool di Mani Pulite un segnale. Non potevano affondare le persone e umiliarle senza fine. Tornato in cella, vidi alla tv diverse dichiarazioni di tutti gli schieramenti che chiedevano più rispetto.
Un anno e quattro mesi, la condanna. Per “non aver sentito niente, andando al bagno”. Li ha perdonati?
Non ho né il potere del perdono, né la voglia di vendetta. Ciascuno di loro, del pool, ha dovuto rivedere le sue posizioni. Io no, non ho mai avuto niente di cui pentirmi. I bilanci, sa, si fanno alla fine.
Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.
Trent’anni fa un’inchiesta sull’Eni distrusse i partiti, oggi colpisce la procura più importante d’Italia. Enzo Carra su tpi.it il 20 Settembre 2021. “I politici non riusciranno a cambiare la giustizia.” Non ha dubbi il vecchio cronista che negli anni di Mani Pulite batteva i corridoi della Procura di Milano a caccia di poveri cristi tramortiti dagli interrogatori del Pool e spulezzava quando quelli non gli rispondevano. Ha ragione Andrea Pamparana (Libero del 20 settembre), fin qui la politica ha fatto poco, in compenso il caso e la necessità hanno provveduto al resto. Il caso si chiama Eni. Sono state infatti due inchieste intitolate alla stessa multinazionale a innalzare prima la procura milanese a Sancta sanctorum del diritto e a quartier generale nella lotta alla corruzione in politica, per trasformarla adesso nel luogo dove si sta consumando un’incredibile vicenda che divide e annebbia gli eponimi di Mani Pulite. Prima viene la tangente Enimont, “la madre di tutte le tangenti”: una “provvista” di 140 miliardi di lire, oltre 70 milioni in euro, per partiti di governo e d’opposizione e per faccendieri sciolti e in pacchetti. La scoperta rappresenta il punto di svolta, definitivo, di Mani Pulite, il suo trionfo. Antonio Di Pietro e Francesco Greco sono i due sostituti che hanno lavorato su Enimont, ma il merito è di tutto il pool e il risultato è che le mura già pericolanti di un sistema politico figlio della Resistenza crollano tra le lacrime di pochi e la gioia di tanti. La Magistratura italiana ha sconfitto il malaffare politico. Corsi e ricorsi. Poco meno di trent’anni dopo, alla Procura di Milano torna a bussare l’Eni. È il processo Eni-Nigeria, ovviamente per corruzione. Se ne occupa Francesco Greco, il quale si avvale delle dichiarazioni di un dipendente dell’Eni e di un ex legale “esterno” – qualunque cosa voglia dire “esterno” – della nostra multinazionale, Pietro Amara. Questi, secondo il pm Paolo Storari è troppo importante per quel processo, la procura “lo tiene in palmo di mano” e quindi non si procede per appurare se ha detto o no la verità anche su altre questioni: affari, logge segrete, promozioni, insomma il paroliere italiano. Storari quindi decide di tirare le orecchie a Greco e, in modo quantomeno “irrituale”, muove le carte che giacciono in procura a Milano e le consegna a Davigo, che a quel tempo è ancora componente del Csm. Lui ne parla con alti rappresentanti delle Istituzioni, contando forse sulla loro collaborazione nella sua campagna contro Greco e comunque sul loro silenzio: ma come fai a tenere a lungo un segreto così a Roma? A far casino ci pensa la sua ex segretaria la quale, per impedire il pensionamento del suo capo, diffonde le carte ad alcuni giornali “amici”. Lo scandalo, si illude, potrebbe prolungare la permanenza di Davigo al Palazzo dei marescialli. E che scandalo, a tanti anni dalla P2 ecco a voi un’altra loggia, più piccola, esclusiva, ma potente, parola di Amara. La nuova loggia si chiama Ungheria, ma ha sede in Roma ed è responsabilità di Greco aver tenuto nascoste quelle preziose informazioni per tanto tempo. Eppure, lì per lì, niente: i giornali non pubblicano le carte della ex segretaria, chissà perché. Mesi dopo, però, uno di loro, Il Fatto quotidiano, ci ripensa ed esce. Nel consueto “c’era questo e c’era quello” di ogni rubrica mondana: tanti bei nomi. Prevedibilissimi, sembra la short list di un ricevimento per “pochi ma buoni” in un palazzo del potere. I fratelli di Amara. Certo però se trent’anni prima un’inchiesta targata Eni aveva distrutto i partiti, oggi un processo che assolve l’Eni colpisce duramente la procura più importante d’Italia e l’immagine della magistratura italiana. Perché Amara può aver raccontato qualche verità in mezzo a un sacco di balle, ma le querele tra Greco e Davigo, l’affanno televisivo di quest’ultimo e lo smarrimento dell’opinione pubblica restano, e pesano. Corsi e ricorsi.
ENZO CARRA. Enzo Carra è un giornalista e politico italiano. Redattore capo del mensile "Il Dramma" ha successivamente lavorato per molti anni al quotidiano romano "Il Tempo" e ha scritto per il cinema e la TV. Ha realizzato alcuni reportage per la TV, tra questi un ritratto di Gheddaffi e uno di Madre Teresa di Calcutta. Dal 2021 collabora con TPI
Il suicidio dell'ex presidente. Marco Travaglio è un contraffattore: Gabriele Cagliari non era in cella “perché rubava”. È un’impostazione volgarmente plebea e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. Che bassezza. Iuri Maria Prado su L'Unità il 25 Luglio 2023
Le polemiche tra giornali costituiscono un genere classico, tuttavia frequentato molto da chi li scrive e molto poco da chi li legge. Roba noiosa e perlopiù, come si dice, autoreferenziale. A volte, però, non si tratta di “cicca cicca”, “non mi hai fatto niente faccia di serpente, non mi hai fatto male faccia di maiale”, e cioè della desolante tigna tra colleghi buona a riempire una colonna altrimenti vacua.
A volte c’è sostanza: di quale pasta, è un altro discorso. Ma c’è. Vedi, per esempio, un titolo di questo quotidiano nell’edizione di qualche giorno fa: “Gabriele Cagliari, mio padre, morto in cella perché non volle denunciare Craxi”. Che ti fa Marco Travaglio? Ieri, sul suo giornale (Il Fatto Quotidiano), smozzica quel titolo e, virgolettandolo, lo riporta così: “Gabriele Cagliari morto in cella perché non volle denunciare Craxi” (scompare quel “mio padre”, e cioè l’elemento che denunciava la fonte dell’affermazione: vale a dire il figlio di Cagliari, non il giornale, l’Unità, che semmai ne raccoglieva le dichiarazioni).
Il taglio da magliaro adempie a due scopi, entrambi vigliacchi. Il primo: lasciare intendere, appunto contro il vero, che l’affermazione fosse de l’Unità, mentre in realtà era del figlio intervistato. Il secondo: consentire all’articolista e contraffattore, cioè Travaglio stesso, di attenuare l’impatto della porcata immediatamente successiva, lì dove questo impudente si abbandona a scrivere che Gabriele Cagliari non è morto in carcere per quel motivo, ma “perché rubava”. Dire direttamente al figlio che il padre si è ammazzato perché era un ladro avrebbe fatto schifo lo stesso, ma almeno la sfrontatezza sarebbe stata piena: invece no, falta de huevos.
Che poi Gabriele Cagliari, raggiunto da tre ordini di custodia cautelare in carcere, due dei quali revocati (il terzo no: parere negativo del pm in partenza per le ferie), non fosse indagato per “furto”, è un dettaglio fastidiosamente incompatibile con la retorica macellaia di questo disinvolto violentatore della verità. Il quale, ne siamo certi, invocherebbe il diritto alla sintesi delle piazze del vaffanculo di cui è punto di riferimento fortissimo se qualcuno gli facesse osservare che Cagliari neppure se fosse stato condannato avrebbe meritato quella definizione, ladro: e figurarsi ricordare a Travaglio che Cagliari stava in galera e si ammazzava prima del processo, dunque quando le sue responsabilità (non per aver “rubato”) dovevano ancora essere accertate.
Il dramma è che piace un sacco questa impostazione volgarmente plebea, e irrispettosa del dovere elementare di non stuprare i diritti e la memoria delle persone. E il fatto che piaccia, che abbia tanto riscontro, racconta bene la bassezza di chi vi ricorre. Perché è ancora ammissibile ascoltare la plebe violenta, è ammissibile persino mischiarvisi: ma farsene forza, no, questo è imperdonabile.
Ed esattamente questo si fa quando si scrive che un uomo si è suicidato in carcere perché era un ladro: si stimolano le trippe della turba che reclama onestà sfilando sotto ai balconi delle procure della Repubblica, lì dove i pubblici ministeri lavorano di manette nell’attesa delle collaborazioni con il Fatto Quotidiano e delle vacanze sotto l’ombrellone con il direttore.
Iuri Maria Prado 25 Luglio 2023
30 anni dal suicidio. “Ecco perché Gabriele Cagliari si è tolto la vita”, la verità del figlio Stefano. «Dava fastidio ai suoi concorrenti di tutto il mondo, alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane. Bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando». Graziella Balestrieri su L'Unità il 20 Luglio 2023
Il 20 Luglio del 1993 Gabriele Cagliari, allora presidente dell’Eni, si toglie la vita in carcere. Siamo all’inizio di Tangentopoli. Gabriele Cagliari ammette le sue colpe ma si rende conto che quella condizione a cui lui viene sottoposto e alla quale sono sottoposti gli altri detenuti non è una condizione umana. Scriverà in una delle sue numerose lettere che in carcere si è “come cani in un canile”. E allora un gesto estremo, calcolato, quando ormai capisce che la speranza gli viene tolta dall’atteggiamento dei magistrati.
Il figlio Stefano, dopo aver pubblicato nel 2018 il libro Storia mio padre (edito da Longanesi, curato da Costanza Rizzacasa d’Orsogna e con prefazione di Gherardo Colombo) continua a portare avanti una missione che per lui è un impegno civile, anche se dolorosissimo, sul sito gabrielecagliari.it, ricordando le numerose lettere di suo padre, i fatti, i personaggi e quel tempo di Tangentopoli che ancora rimane una ferita aperta per tutti nel nostro paese.
Tangentopoli. Che momento era quello in Italia?
L’Italia era in una situazione difficile dal punto di vista economico e finanziario. Nel 1992 i tedeschi ci avevano abbandonato e c’era stata la svalutazione della lira, il malcontento cominciava a crescere. La Lega Nord interpretava questo malcontento, era un fenomeno assolutamente nuovo, anche per l’uso aggressivo e finanche volgare del linguaggio nel discorso politico. Era un paese che si era abituato a vivere di mazzette, di favori, di tangenti, un sistema diffuso a tutti i livelli, mentre il grande mito di Tangentopoli è che solo il ceto politico ne fosse coinvolto.
Tangentopoli travolse sostanzialmente una buona parte della classe dirigente, anche di quella imprenditoriale non solo quella politica, con tutte le conseguenze che ci sono state successivamente, che devo dire un po’ stiamo ancora pagando. Era un’Italia in cui, come ho scritto in Storia di mio padre, tutti incitavano all’uso delle manette, come se mandare in galera i politici risolvesse il problema della corruzione nel paese. All’asilo i bambini si inseguivano urlando “in galera, in galera!”
Non più giustizia ma giustizialismo dunque?
Certo, a quel punto si è scatenato il giustizialismo.
Il suo libro parte da un sogno (suo padre che in realtà non si era suicidato ma era fuggito fuori dall’Italia e comunicava solo con lei). Fa ancora quel sogno dopo 30 anni?
No. Ho sognato spesso mio padre ma non più in quella situazione. In realtà alla fine chi voleva fuggire ero io, come se volessi nascondermi per non dover continuamente ritornare a quella situazione così dolorosa. Con il libro e le molte interviste non mi sono più nascosto e ora, quando sogno mio padre, sono in situazioni diciamo così di serena vita familiare.
Se dovesse raccontare suo padre a chi non ha vissuto quegli anni e a chi ignora completamente la sua vicenda che cosa direbbe?
Quello che posso dire è che era un uomo estremamente intelligente, estremamente generoso, molto corretto, molto ambizioso. E tutte queste sue qualità mi sono state manifestate in parte anche dopo la sua morte. Per esempio, sul sito gabrielecagliari.it continuiamo a caricare contenuti e ultimamente abbiamo caricato le lettere dei detenuti che lo avevano conosciuto in carcere: emerge la personalità di un uomo che aiutava tutti quelli che ne avevano bisogno, chi non aveva i soldi per l’avvocato, chi non aveva strumenti per difendersi. Ed è stato un uomo di una visione straordinaria dal punto di vista della politica industriale. All’Eni aveva fatto cose che nessuno aveva fatto prima e che per venticinque anni nessuno ha più fatto. In questi mesi in Europa sono in corso degli studi sulla sua presidenza da cui risulta che allora l’Eni era l’unica società petrolifera che si occupava di sviluppo sostenibile. Fu l’unica major che partecipò a Rio, alla conferenza del 1992, e che mise nel suo piano strategico la difesa dell’ambiente e lo sviluppo sostenibile. Una società che era all’avanguardia nello studio delle tecnologie di difesa ambientale. Dopo di lui si è fermato tutto, è come se avessero cancellato lui e tutto quello che stava cercando di fare e che stava proponendo. Immagini: che cosa sarebbe stata l’Eni e l’Italia se quella politica fosse andata avanti? Ma era una politica che evidentemente dava un fastidio enorme alle grandi multinazionali del petrolio, che in quel momento negavano il problema dell’esaurimento delle risorse, negavano i problemi ambientali, negavano il riscaldamento climatico. Adesso questi temi sono quasi una moda, ma questo le fa capire che mio padre aveva una visione strategica lungimirante e unica. D’altronde quelle lettere che lui ha scritto, dove già descrive quello che sarebbe successo a causa di Tangentopoli vedono lontanissimo: tutto quello che lui ha scritto poi è successo.
In famiglia vi aspettavate che venisse arrestato?
Un po’ me l’aspettavo, perché avevo visto dei segnali sui giornali e diciamo che in quel periodo, ma diciamo non solo in quel periodo, c’era un filo diretto tra magistratura e determinati quotidiani. Il fatto che avevano cominciato a tirar fuori il suo nome voleva dire che c’era burrasca nell’aria. E anche papà se lo aspettava. L’ultima volta che ha visto suo nipote, mio figlio di tre anni, quando l’ha preso in braccio, il bambino ha cominciato ad urlare “in galera, in galera!”. Mesi prima erano telefonate continue, gente che voleva favori, perché in questo paese i favori erano all’ordine del giorno, mentre in quelle ultime settimane era calato il silenzio, tutti gli stavano alla larga.
Anche l’Eni lo ha abbandonato?
Il personale, i dipendenti, hanno amato mio padre come presidente, probabilmente come, se non più, di Enrico Mattei, perché mio padre era uno di loro, era cresciuto con loro, era un tecnico, era un uomo che conosceva tutti e che aveva qualità straordinarie. Il problema dell’Eni era quello di essere una società presente sui mercati mondiali, una società che non si poteva permettere di vedere il proprio nome infangato e su questo lui si è arroccato. Ha avuto questo tipo di atteggiamento: è riuscito, come ha scritto, a salvare il middle management e a far sì che tutte le responsabilità ricadessero su di lui, questo ha fatto sì che l’Eni non venisse coinvolta.
Nelle lettere suo padre descrive la condizione del carcere come quella di “cani in un canile”.
Il suo gesto è stato un gesto di denuncia della situazione carceraria. Ormai per sé aveva perso ogni speranza, visto l’atteggiamento dei magistrati nei suoi confronti, un atteggiamento che leggeva come un tentativo di annientarlo dal punto di visto umano, di farne un capro espiatorio. Chi restava fuori non si rendeva conto della condizione carceraria.
Resistette alla prigionia durante la Seconda guerra mondiale e non al carcere durante Tangentopoli. Perché mai secondo lei?
No, in realtà lo ha sostenuto benissimo, ma anche lì aveva una strategia: il suicidio, un gesto drammatico, ne ha fatto parte. Non solo quest’anno, ma ogni anno, ci sono decine e decine di suicidi in carcere, ma sui giornali non finisce niente. La notizia va sui giornali se il presidente dell’Eni si suicida in carcere, dopo quattro mesi e mezzo di detenzione, che lui ritiene ingiustificata. Il suo è stato un gesto di grande impatto, anche se mio padre non era un uomo da copertina come lo era Gardini, e questo gesto è stato capito non solo a San Vittore dove lo avevano conosciuto bene, ma anche nelle altre carceri e fuori dalle carceri.
La prefazione del suo libro è stata affidata a Gherardo Colombo.
Gherardo Colombo è uscito dalla magistratura e sostiene con forza che non è il sistema giudiziario che può risolvere i problemi della corruzione in Italia, come Tangentopoli ha dimostrato. Il mio libro non ha voluto essere di parte né essere “targato”, è un documento storico e come tale spero che sia letto. La partecipazione di Gherardo Colombo è stato un modo per mostrare il nostro tentativo di essere equilibrati.
I magistrati che allora si occuparono del caso di suo padre, anni dopo, visto il drammatico epilogo, si sono fatti sentire in un qualche modo?
No. Nulla.
Perché suo padre ha accettato quel sistema?
Mio padre ha ammesso di aver sbagliato, lo ha anche scritto. C’è una lettera che ha scritto a Scalfari da San Vittore, in cui dice che pagare i partiti era l’unico modo per poter lavorare tranquilli. Soffriva questo sistema, come più volte ha scritto, ma ne aveva bisogno perché altrimenti non avrebbe potuto fare quello che voleva fare. C’è un’intervista a Newsweek, che si trova tradotta nel sito, da cui si capisce che mio padre fuori dall’Italia, senza i vincoli della politica, si muoveva in modo completamente diverso. Già allora aveva strategie verso i paesi che oggi sono considerati emergenti che nessuna delle major petrolifere aveva. Offriva collaborazione: tecnologie in cambio di risorse, aveva un approccio che spiazzava tutti: evidentemente mio padre dava fastidio.
Sua moglie muore, suo fratello scopre di avere l’Aids, suo padre in carcere, che momento è stato quello per lei?
Avevo un bambino di 3 anni, la cosa più importante era andare avanti per lui. Ho avuto un momento di sconforto, forse di rabbia, solo quando abbiamo aperto quella lettera (una lettera dove Gabriele Cagliari annuncia il suo suicidio ma che chiede alla moglie di aprire solo al “suo ritorno”, ndr.) perché anche in quel caso aveva anteposto i suoi ideali alla famiglia. Anni dopo ho capito da tutto quello che è venuto fuori e dalle sue lettere che forse ci ha risparmiato tanti e tanti di quei problemi, di quelle delusioni, tante di quelle sofferenze che il metterlo sotto processo per decenni avrebbe significato.
Che sentimento ha provato nei confronti della magistratura di allora?
Hanno commesso degli errori tragici, sono stati degli ingenui, pensando di fare del bene hanno fatto invece molto male.
Ingenui è diverso da dire che erano “ambiziosi”, come li definiva suo padre.
Diciamo che sicuramente Di Pietro era molto ambizioso. Poi di quasi tutti si è visto di che pasta sono fatti. Perché uno dopo l’altro sono caduti, scivolando su bucce di banana varie, e hanno cominciato a litigare tra di loro. Degli illusi, perché pensavano di cambiare il paese, quando in realtà stavano usando in maniera strumentale il loro potere. Pensando di eliminare la corruzione in Italia, hanno invece favorito un peggioramento drammatico della situazione politica e hanno decapitato una parte del sistema imprenditoriale italiano.
Come mai non avete incontrato Martelli (ma solo sua zia, come viene scritto nel libro)?
Io quel giorno non ero a casa di mia madre. Il partito… il sistema politico era il principale responsabile di quello che stava succedendo (non solo il partito socialista ma tutti i partiti, compreso il partito comunista). Mio padre era un socialista e la nostra sensazione era che il partito lo avesse abbandonato. Io l’ho vissuta come se Bettino Craxi fosse fuggito abbandonando i suoi colonnelli. Martelli in quel momento era una figura piuttosto ambigua perché stava cercando di scalare a sua volta il partito socialista sostituendosi a Craxi. Il problema è che tutti quanti sono stati poi tirati dentro. Il problema non era più questo o quel partito, il problema era il sistema, almeno così veniva venduto a livello mediatico, e quel sistema politico è crollato, tanto è vero che al governo poi è salito un populista che di politico faceva finta di non avere niente.
Il comportamento della stampa?
Il comportamento della stampa fu vergognoso, sono stati senza pietà anche nei confronti di mio padre. Il loro problema era vendere e cavalcare l’inchiesta, lo hanno fatto tutti, a partire dalle reti di Berlusconi.
Di Pietro lo ha mai rincontrato?
L’ho visto a Napoli, in un autobus che ci portava da un aereo all’aeroporto, ma non ho avuto il coraggio di parlargli, non mi è sembrato proprio il caso. Eravamo uno di fronte all’altro: ci siamo guardati a lungo, ma in silenzio.
Nessuno dei magistrati di allora l’ha mai cercata?
Scusarsi sarebbe stato ammettere che hanno compiuto cose fuori dai binari dalla legalità, come scrive mio padre.
Suo padre che cosa si aspettava?
Durante gli interrogatori ha ammesso quello che pensava fosse utile ai magistrati, però nelle lettere scrive che i magistrati chiedevano informazioni su vicende che erano completamente avulse dai capi d’accusa, e non se la sentiva anche perché il giorno dopo qualunque cosa avesse detto sarebbe finita sui giornali. L’Eni che figura ci avrebbe fatto a livello internazionale? Che fine avrebbero fatto tutti i contratti che l’Eni aveva in piedi? Che fine avrebbero fatto gli accordi sul gas? In carcere mio padre ha difeso l’Eni e ha messo in evidenza quelle che sono le carenze drammatiche del sistema carcerario in Italia, anzi, la funzione anticostituzionale del sistema carcerario perché, se usi il carcere come tortura psicologica, è chiaro che siamo esattamente dalla parte opposta della rieducazione.
A chi dava fastidio suo padre?
Ho sempre pensato che il problema fosse che non ha voluto denunciare Craxi, ma ultimamente mi gira in testa un pensiero che mi spaventa. Mi sto rendendo conto che quest’uomo dava fastidio ai suoi concorrenti in tutto il mondo. Tutte le settimane Di Pietro era all’ambasciata americana, che cosa si dicevano non lo sapremo mai. Però se mio padre dava fastidio alle multinazionali del petrolio, a partire da quelle americane, allora bisognava fermarlo, togliergli il potere che stava esercitando.
Si sente che ce l’ha un po’ con Craxi…
Diciamo che è stato un grandissimo politico, straordinario, un uomo che tra l’altro stava cercando di ridare dignità politica all’Italia in campo internazionale, e forse per questo è stato punito, però umanamente si è comportato come un codardo. Quel discorso alla Camera – quando disse a tutti di guardarsi in faccia e che nessuno era escluso da quel sistema, e tutti quanti hanno fatto finta di niente – è stato probabilmente un errore, in quanto ha delegittimato la politica tout court. Fallito quel tentativo, capisci che il problema sei tu: e allora trasforma il processo in una denuncia! Non scappare, non andartene! Il suo era un ruolo politico fondamentale, ma è stato troppo umano, quando avrebbe dovuto comportarsi da politico. Mio padre non è stato umano altrimenti non si sarebbe ammazzato. Ma ha rispettato il suo ruolo. Craxi no.
Graziella Balestrieri 20 Luglio 2023
Estratto dell’articolo di Chiara Baldi per corriere.it il 19 maggio 2023.
[…] Chiara Moroni, classe 1974, figlia di Sergio Moroni, deputato socialista che si tolse la vita nel settembre 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia nell’inchiesta Mani Pulite, è originaria di Iseo, uno dei comuni della Bresciana in cui Fratelli d’Italia ha preso alle Politiche circa il 30%. La sua uscita di scena dalla politica italiana risale al 2013, quando il partito in cui militava da poco meno di tre anni – Futuro e Libertà (Fli), di Gianfranco Fini – non raggiunse il quorum. […] Oggi Moroni […] è una manager della multinazionale farmaceutica Bristol Myers Squibb e vive a New York […]
Moroni, suo papà si tolse la vita nel 1992 per aver ricevuto due avvisi di garanzia. Lei all'epoca stava per compiere diciott'anni. Prima di andarsene scrisse molte lettere, una anche a Giorgio Napolitano, all'epoca presidente della Camera. Sergio Moroni si professava innocente e scrisse che «quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Sono trascorsi quasi 31 anni: quel gesto è servito?
«[…] Gran parte del mio impegno politico ha avuto l'obiettivo di tenere viva la sua memoria e quella del suo gesto. Che era un gesto politico. Non posso dire che sia servito perché dovrei dire che era giusto farlo e non potrei mai. Ma sono convinta che papà è riuscito a raggiungere l’obiettivo che si era dato di generare un dibattito, almeno in parte».
Cosa vuol dire che «in quel momento non è servito»?
«La violenza in quegli anni di Mani Pulite era talmente forte che nonostante il gesto di mio padre avesse avuto un impatto molto significativo, non fu abbastanza per cambiare le modalità con cui veniva gestita l’inchiesta. Cionondimeno, la lettera di papà è sempre stata al centro di un dibattito sul garantismo. Quindi in quel momento quel suo gesto non è servito abbastanza, perché avrebbe potuto - ed era quello che papà voleva - innescare una riflessione più seria e critica».
[…] «[…] alla fine i media hanno contribuito molto a rendere l'inchiesta di Mani Pulite un'inchiesta di piazza».
[…] E con Berlusconi che rapporto ha avuto? Lei uscì nel 2010 dal Popolo della Libertà per seguire la sfida interna al centrodestra lanciata da Fini.
«Non ci siamo mai più sentiti da allora. Io gli ho scritto un paio di volte […] ma non ho mai avuto risposta. Nei suoi confronti conservo una vicinanza affettiva perché, pur contestando una serie di questioni legate alla politica e alla modalità in cui lui ha fatto politica, mi ha dato anche un sacco di opportunità. Mi spiace molto vedere che non sta bene, gli auguro di guarire presto».
Cosa imputa alla gestione berlusconiana del partito?
«Lui ha sempre fatto il "dopo di me il diluvio", quindi non capisco quale futuro possa avere Forza Italia visto che lui non ha mai permesso la costruzione di una successione. Berlusconi non ha mai avuto nessuna forma di democrazia interna al partito».
Ora è in corso uno scontro tra donne in Forza Italia e una sorta di ricambio nei rapporti di forza interni...
«Non mi sorprende, ci sono sempre stati lì dentro, sia tra donne che tra uomini. La cosa che però mi fa sorridere e trovo interessante è che chi rimane vittima di questo ricambio gridi allo scandalo per il metodo che viene utilizzato, dimenticandosi che è lo stesso metodo di cui si era precedentemente agevolato».
Lei era presente il giorno del «Che fai, mi cacci?» di Fini a Berlusconi. Cosa ricorda?
«(Ride) Ero seduta lì tra le prime file, mi ricordo molto bene ogni passaggio. Fu l'esempio plastico del fatto che Berlusconi ha un concetto proprietario del partito e questa non è un'opinione, ma un fatto. Lui è un imprenditore e così come le aziende sono sue, anche il partito lo è. Fini invece viene da una cultura politica in cui le leadership si costruiscono e poi si affermano. Che poi è la stessa cultura politica in cui è cresciuta e si è formata Giorgia Meloni».
[…] Elly Schlein, segretaria del Pd. Le piace?
«[…] non penso che potrei votare il Pd oggi. Ma nella vicenda Schlein c'è una cosa che mi piace molto: il fatto che una outsider prende la tessera e vince il congresso del partito. Significa che il Pd è un partito scalabile […] Dopodiché io sono socialista riformista quindi io e Schlein non la pensiamo uguale quasi su niente […]». […]
«Antonio Di Pietro è il primo a lasciare l'ufficio di Borrelli. È irriconoscibile. Cammina come un ubriaco, quasi appoggiandosi ai muri». Così scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 24 luglio 1993, il giorno dopo il suicidio di Raul Gardini.
«Per me fu una sconfitta terribile - racconta oggi Antonio Di Pietro ad Aldo Cazzullo su “Il Corriere della Sera” -. La morte di Gardini è il vero, grande rammarico che conservo della stagione di Mani pulite. Per due ragioni. La prima: quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior. La seconda ragione: io Gardini lo potevo salvare. La sera del 22, poco prima di mezzanotte, i carabinieri mi chiamarono a casa a Curno, per avvertirmi che Gardini era arrivato nella sua casa di piazza Belgioioso a Milano e mi dissero: "Dottore che facciamo, lo prendiamo?". Ma io avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in Procura con le sue gambe, il mattino dopo. E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito, sarebbe ancora qui con noi».
Ma proprio questo è il punto. Il «Moro di Venezia», il condottiero dell'Italia anni 80, il padrone della chimica non avrebbe retto l'umiliazione del carcere. E molte cose lasciano credere che non se la sarebbe cavata con un interrogatorio. Lei, Di Pietro, Gardini l'avrebbe mandato a San Vittore?
«Le rispondo con il cuore in mano: non lo so. Tutto sarebbe dipeso dalle sue parole: se mi raccontava frottole, o se diceva la verità. Altre volte mi era successo di arrestare un imprenditore e liberarlo in giornata, ad esempio Fabrizio Garampelli: mi sentii male mentre lo interrogavo - un attacco di angina -, e fu lui a portarmi in ospedale con il suo autista... Io comunque il 23 luglio 1993 ero preparato. Avevo predisposto tutto e allertato la mia squadretta, a Milano e a Roma. Lavoravo sia con i carabinieri, sia con i poliziotti, sia con la Guardia di Finanza, pronti a verificare quel che diceva l'interrogato. Se faceva il nome di qualcuno, prima che il suo avvocato potesse avvertirlo io gli mandavo le forze dell'ordine a casa. Sarebbe stata una giornata decisiva per Mani pulite. Purtroppo non è mai cominciata».
Partiamo dall'inizio. Il 20 luglio di vent'anni fa si suicida in carcere, con la testa in un sacchetto di plastica, Gabriele Cagliari, presidente dell'Eni.
«L'Eni aveva costituito con la Montedison di Gardini l'Enimont. Ma Gardini voleva comandare - è la ricostruzione di Di Pietro -. Quando diceva "la chimica sono io", ne era davvero convinto. E quando vide che i partiti non intendevano rinunciare alla mangiatoia della petrolchimica pubblica, mamma del sistema tangentizio, lui si impuntò: "Io vendo, ma il prezzo lo stabilisco io". Così Gardini chiese tremila miliardi, e ne mise sul piatto 150 per la maxitangente. Cagliari però non era in carcere per la nostra inchiesta, ma per l'inchiesta di De Pasquale su Eni-Sai. Non si possono paragonare i due suicidi, perché non si possono paragonare i due personaggi. Cagliari era un uomo che sputava nel piatto in cui aveva mangiato. Gardini era un uomo che disprezzava e comprava, e disprezzava quel che comprava. Il miliardo a Botteghe Oscure lo portò lui. Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini. Ma era ancora più importante stabilire chi avesse imboscato la maxitangente, probabilmente portando i soldi al sicuro nello Ior. Avevamo ricostruito la destinazione di circa metà del bottino; restavano da rintracciare 75 miliardi».
Chi li aveva presi?
«Qualcuno l'abbiamo trovato. Ad esempio Arnaldo Forlani: non era certo Severino Citaristi a gestire simili cifre. Non è vero che il segretario dc fu condannato perché non poteva non sapere, e lo stesso vale per Bettino Craxi, che fu condannato per i conti in Svizzera. Ma il grosso era finito allo Ior. Allora c'era il Caf».
Craxi. Forlani. E Giulio Andreotti.
«Il vero capo la fa girare, ma non la tocca. Noi eravamo arrivati a Vito Ciancimino, che era in carcere, e a Salvo Lima, che era morto. A Palermo c'era già Giancarlo Caselli, tra le due Procure nacque una stretta collaborazione, ci vedevamo regolarmente e per non farci beccare l'appuntamento era a casa di Borrelli. Ingroia l'ho conosciuto là».
Torniamo a Gardini. E al 23 luglio 1993.
«Con Francesco Greco avevamo ottenuto l'arresto. Un gran lavoro di squadra. Io ero l'investigatore. Piercamillo Davigo era il tecnico che dava una veste giuridica alle malefatte che avevo scoperto: arrivavo nel suo ufficio, posavo i fascicoli sulla scrivania, e gli dicevo in dipietrese: "Ho trovato quindici reati di porcata. Ora tocca a te trovargli un nome". Gherardo Colombo, con la Guardia di Finanza, si occupava dei riscontri al mio lavoro di sfondamento, rintracciava i conti correnti, trovava il capello (sic) nell'uovo. Gli avvocati Giovanni Maria Flick e Marco De Luca vennero a trattare il rientro di Gardini, che non era ancora stato dichiarato latitante. Fissammo l'appuntamento per il 23, il mattino presto». «Avevamo stabilito presidi a Ravenna, Roma, a Milano e allertato le frontiere. E proprio da Milano, da piazza Belgioioso dove Gardini aveva casa, mi arriva la telefonata: ci siamo, lui è lì. In teoria avrei dovuto ordinare ai carabinieri di eseguire l'arresto. Gli avrei salvato la vita. Ma non volevo venir meno alla parola data. Così rispondo di limitarsi a sorvegliare con discrezione la casa. Il mattino del 23 prima delle 7 sono già a Palazzo di Giustizia. Alle 8 e un quarto mi telefona uno degli avvocati, credo De Luca, per avvertirmi che Gardini sta venendo da me, si sono appena sentiti. Ma poco dopo arriva la chiamata del 113: "Gardini si è sparato in testa". Credo di essere stato tra i primi a saperlo, prima anche dei suoi avvocati». «Mi precipito in piazza Belgioioso, in cinque minuti sono già lì. Entro di corsa. Io ho fatto il poliziotto, ne ho visti di cadaveri, ma quel mattino ero davvero sconvolto. Gardini era sul letto, l'accappatoio insanguinato, il buco nella tempia».
E la pistola?
«Sul comodino. Ma solo perché l'aveva raccolta il maggiordomo, dopo che era caduta per terra. Capii subito che sarebbe partito il giallo dell'omicidio, già se ne sentiva mormorare nei conciliaboli tra giornalisti e pure tra forze dell'ordine, e lo dissi fin dall'inizio: nessun film, è tutto fin troppo chiaro. Ovviamente in quella casa mi guardai attorno, cercai una lettera, un dettaglio rivelatore, qualcosa: nulla».
Scusi Di Pietro, ma spettava a lei indagare sulla morte di Gardini?
«Per carità, Borrelli affidò correttamente l'inchiesta al sostituto di turno, non ricordo neppure chi fosse, ma insomma un'idea me la sono fatta...».
Quale?
«Fu un suicidio d'istinto. Un moto d'impeto, non preordinato. Coerente con il personaggio, che era lucido, razionale, coraggioso. Con il pelo sullo stomaco; ma uomo vero. Si serviva di Tangentopoli, che in fondo però gli faceva schifo. La sua morte per me fu un colpo duro e anche un coitus interruptus».
Di Pietro, c'è di mezzo la vita di un uomo.
«Capisco, non volevo essere inopportuno. È che l'interrogatorio di Gardini sarebbe stato una svolta, per l'inchiesta e per la storia d'Italia. Tutte le altre volte che nei mesi successivi sono arrivato vicino alla verità, è sempre successo qualcosa, sono sempre riusciti a fermarmi. L'anno dopo, era il 4 ottobre, aspettavo le carte decisive dalla Svizzera, dal giudice Crochet di Ginevra: non sono mai arrivate. Poi mi bloccarono con i dossier, quando ero arrivato sulla soglia dell'istituto pontificio...».
Ancora i dossier?
«Vada a leggersi la relazione del Copasir relativa al 1995: contro di me lavoravano in tanti, dal capo della polizia Parisi a Craxi».
Lei in morte di Gardini disse: «Nessuno potrà più aprire bocca, non si potrà più dire che gli imputati si ammazzano perché li teniamo in carcere sperando che parlino».
«Può darsi che abbia detto davvero così. Erano giornate calde. Ma il punto lo riconfermo: non è vero, come si diceva già allora, che arrestavamo gli inquisiti per farli parlare. Quando arrestavamo qualcuno sapevamo già tutto, avevamo già trovato i soldi. E avevamo la fila di imprenditori disposti a parlare».
Altri capitani d'industria hanno avuto un trattamento diverso.
«Carlo De Benedetti e Cesare Romiti si assunsero le loro responsabilità. Di loro si occuparono la Procura di Roma e quella di Torino. Non ci furono favoritismi né persecuzioni. Purtroppo, nella vicenda di Gardini non ci furono neanche vincitori; quel giorno abbiamo perso tutti».
Dopo 20 anni Di Pietro è senza: pudore: «Avrei potuto salvarlo». Mani Pulite riscritta per autoassolversi. L'ex pm: "Avrei dovuto arrestarlo e lui avrebbe parlato delle mazzette al Pci". La ferita brucia ancora. Vent'anni fa Antonio Di Pietro, allora l'invincibile Napoleone di Mani pulite, si fermò sulla porta di Botteghe Oscure e il filo delle tangenti rosse si spezzò con i suoi misteri, scrive Stefano Zurlo su “Il Giornale”. Per questo, forse per trovare una spiegazione che in realtà spiega solo in parte, l'ex pm racconta che il suicidio di Raul Gardini, avvenuto il 23 luglio '93 a Milano, fu un colpo mortale per quell'indagine. «La sua morte - racconta Di Pietro ad Aldo Cazzullo in un colloquio pubblicato ieri dal Corriere della Sera - fu per me un coitus interruptus». Il dipietrese s'imbarbarisce ancora di più al cospetto di chi non c'è più, ma non è questo il punto. È che l'ormai ex leader dell'Italia dei Valori si autoassolve a buon mercato e non analizza con la dovuta brutalità il fallimento di un'inchiesta che andò a sbattere contro tanti ostacoli. Compresa l'emarginazione del pm Tiziana Parenti, titolare di quel filone. E non s'infranse solo sulla tragedia di piazza Belgioioso. Di Pietro, come è nel suo stile, semplifica e fornisce un quadro in cui lui e il Pool non hanno alcuna responsabilità, diretta o indiretta, per quel fiasco. Tutto finì invece con quei colpi di pistola: «Quel 23 luglio Gardini avrebbe dovuto raccontarmi tutto: a chi aveva consegnato il miliardo di lire che aveva portato a Botteghe Oscure, sede del Pci; chi erano i giornalisti economici corrotti, oltre a quelli già rivelati da Sama; e chi erano i beneficiari del grosso della tangente Enimont, messo al sicuro nello Ior». E ancora, a proposito di quel miliardo su cui tanto si è polemizzato in questi anni, specifica: «Il suo autista Leo Porcari mi aveva raccontato di averlo lasciato all'ingresso del quartier generale comunista, ma non aveva saputo dirmi in quale ufficio era salito, se al secondo o al quarto piano: me lo sarei fatto dire da Gardini». Il messaggio che arriva è chiaro: lui ha fatto tutto quel che poteva per scoprire i destinatari di quel contributo illegale, sulla cui esistenza non c'è il minimo dubbio, ma quel 23 luglio cambiò la storia di Mani pulite e in qualche modo quella d'Italia e diventa una data spartiacque, come il 25 luglio 43. Vengono i brividi, ma questa ricostruzione non può essere accettata acriticamente e dovrebbero essere rivisti gli errori, e le incertezze dell'altrove insuperabile Pool sulla strada del vecchio Pci. Non si può scaricare su chi non c'è più la responsabilità di non aver scoperchiato quella Tangentopoli. Di Pietro invece se la cava così, rammaricandosi solo di non aver fatto ammanettare il signore della chimica italiana la sera prima, quando i carabinieri lo avvisarono che Gardini era a casa, in piazza Belgioioso. «M avevo dato la mia parola agli avvocati che lui sarebbe arrivato in procura con le sue gambe, il mattino dopo». Quello fatale. «E dissi di lasciar perdere. Se l'avessi fatto arrestare subito sarebbe ancora qui con noi. Io Gardini lo potevo salvare». La storia non si fa con i se. E quella delle tangenti rosse è finita prima ancora di cominciare.
Pomicino: il pm Di Pietro tentò di farmi incastrare Napolitano. L'ex ministro Cirino Pomicino: "Inventando una confessione, cercò di spingermi a denunciare una tangente all'attuale capo dello Stato, poi spiegò il trucco", scrive Paolo Bracalini su “Il Giornale”. E mentre la truccatrice gli passa la spazzola sulla giacca, prima di entrare nello studio tv di Agorà, 'o ministro ti sgancia la bomba: «Di Pietro mi chiese: "È vero che Giorgio Napolitano ha ricevuto soldi da lei?". Io risposi che non era vero, ma lui insisteva. "Guardi che c'è un testimone, un suo amico, che lo ha confessato". "Se l'ha detto, ha detto una sciocchezza, perché non è vero" risposi io. E infatti la confessione era finta, me lo rivelò lo stesso Di Pietro poco dopo, un tranello per farmi dire che Napolitano aveva preso una tangente. Ma si può gestire la giustizia con questi metodi? E badi bene che lì aveva trovato uno come me, ma normalmente la gente ci metteva due minuti a dire quel che volevano fargli dire". "In quegli anni le persone venivano arrestate, dicevano delle sciocchezze, ammettevano qualsiasi cosa e il pm li faceva subito uscire e procedeva col patteggiamento. Quando poi queste persone venivano chiamate a testimoniare nel processo, contro il politico che avevano accusato, potevano avvalersi della facoltà di non rispondere. E quindi restavano agli atti le confessioni false fatte a tu per tu col pubblico ministero», aveva già raccontato Pomicino in una lunga intervista video pubblicata sul suo blog paolocirinopomicino.it. La stessa tesi falsa, cioè che Napolitano, allora presidente della Camera, esponente Pds dell'ex area migliorista Pci, avesse ricevuto dei fondi, per sé e per la sua corrente, col tramite dell'ex ministro democristiano, Pomicino se la ritrovò davanti in un altro interrogatorio, stavolta a Napoli. «Il pm era il dottor Quatrano (nel 2001 partecipò ad un corteo no global e l'allora Guardasigilli Roberto Castelli promosse un'azione disciplinare). Mi fece incontrare una persona amica, agli arresti, anche lì per farmi dire che avevo dato a Napolitano e alla sua corrente delle risorse finanziaria». La ragione di quel passaggio di soldi a Napolitano, mai verificatosi ma da confermare a tutti i costi anche col tranello della finta confessione di un amico (uno dei trucchi dell'ex poliziotto Di Pietro, "altre volte dicevano che se parlavamo avremmo avuto un trattamento più mite"), per Cirino Pomicino è tutta politica: «Obiettivo del disegno complessivo era far fuori, dopo la Dc e il Psi, anche la componente amendoliana del Pci, quella più filo-occidentale, più aperta al centrosinistra. Tenga presente che a Milano fu arrestato Cervetti, anch'egli della componente migliorista di Giorgio Napolitano, e fu accusata anche Barbara Pollastrini. Entrambi poi scagionati da ogni accusa». I ricordi sono riemersi di colpo, richiamati dalle «corbellerie» dette da Di Pietro al Corriere a proposito del suicidio di Raul Gardini, vent'anni esatti fa (23 luglio 1993). «Sono allibito che il Corriere della Sera dia spazio alle ricostruzioni false raccontate da Di Pietro. Ho anche mandato un sms a De Bortoli, ma quel che gli ho scritto sono cose private. Di Pietro dice che Gardini si uccise con un moto d'impeto, e che lui avrebbe potuto salvarlo arrestandolo il giorno prima. Io credo che Gardini si sia ucciso per il motivo opposto», forse perché era chiaro che di lì a poche ore sarebbe stato arrestato. Anche Luigi Bisignani, l'«Uomo che sussurra ai potenti» (bestseller Chiarelettere con Paolo Madron), braccio destro di Gardini alla Ferruzzi, conferma questa lettura: «Raul Gardini si suicidò perché la procura aveva promesso che la sua confessione serviva per non andare in carcere, ma invece scoprì che l'avrebbero arrestato». Processo Enimont, la «madre di tutte le tangenti», l'epicentro del terremoto Tangentopoli. «La storia di quella cosiddetta maxitangente, che poi invece, come diceva Craxi, era una maxiballa, è ancora tutta da scrivere. - Pomicino lo spiega meglio - Alla politica andarono 15 o 20 miliardi, ma c'erano 500 miliardi in fondi neri. Dove sono finiti? A chi sono andati? E chi ha coperto queste persone in questi anni? In parte l'ho ricostruito, con documenti che ho, sui fondi Eni finiti a personaggi all'interno dell'Eni. Ma di questo non si parla mai, e invece si pubblicano false ricostruzioni della morte tragica di Gardini».
Ieri come oggi la farsa continua.
Dopo 5 anni arriva la sentenza di primo grado: l'ex-governatore dell'Abruzzo Ottaviano del Turco è stato condannato a 9 anni e 6 mesi di reclusione dal Tribunale collegiale di Pescara nell'inchiesta riguardo le presunti tangenti nella sanità abruzzese. L’ex ministro delle finanze ed ex segretario generale aggiunto della Cgil all’epoca di Luciano Lama è accusato di associazione per delinquere, corruzione, abuso, concussione, falso. Il pm aveva chiesto 12 anni. Secondo la Procura di Pescara l’allora governatore avrebbe intascato 5 milioni di euro da Vincenzo Maria Angelini, noto imprenditore della sanità privata, all’epoca titolare della casa di cura Villa Pini.
«E' un processo che è nato da una vicenda costruita dopo gli arresti, cioè senza prove - attacca l'ex governatore dell'Abruzzo intervistato al Giornale Radio Rai -. Hanno cercato disperatamente le prove per 4 anni e non le hanno trovate e hanno dovuto ricorrere a una specie di teorema e con il teorema hanno comminato condanne che non si usano più nemmeno per gli assassini, in questo periodo. Io sono stato condannato esattamente a 20 anni di carcere come Enzo Tortora». E a Repubblica ha poi affidato un messaggio-shock: «Ho un tumore, ma voglio vivere per dimostrare la mia innocenza».
Lunedì 22 luglio 2013, giorno della sentenza, non si era fatto attendere il commento del legale di Del Turco, Giandomenico Caiazza, che ha dichiarato: «Lasciamo perdere se me lo aspettassi o no perchè questo richiederebbe ragionamenti un pò troppo impegnativi. Diciamo che è una sentenza che condanna un protagonista morale della vita politica istituzionale sindacale del nostro paese accusato di aver incassato sei milioni e 250 mila euro a titolo di corruzione dei quali non si è visto un solo euro. Quindi penso che sia un precedente assoluto nella storia giudiziaria perchè si possono non trovare i soldi ma si trovano le tracce dei soldi».
Nello specifico, Del Turco è accusato insieme all’ex capogruppo del Pd alla Regione Camillo Cesarone e a Lamberto Quarta, ex segretario generale dell’ufficio di presidenza della Regione, di aver intascato mazzette per 5 milioni e 800mila euro. Per questa vicenda fu arrestato il 14 luglio 2008 insieme ad altre nove persone, tra le quali assessori e consiglieri regionali. L’ex presidente finì in carcere a Sulmona (L'Aquila) per 28 giorni e trascorse altri due mesi agli arresti domiciliari. A seguito dell’arresto, Del Turco il 17 luglio 2008 si dimise dalla carica di presidente della Regione e con una lettera indirizzata all’allora segretario nazionale Walter Veltroni si autosospese dal Pd, di cui era uno dei 45 saggi fondatori nonchè membro della Direzione nazionale. Le dimissioni comportarono lo scioglimento del consiglio regionale e il ritorno anticipato alle urne per i cittadini abruzzesi.
Del Turco condannato senza prove. All'ex presidente dell'Abruzzo 9 anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità. Ma le accuse non hanno riscontri: nessuna traccia delle mazzette né dei passaggi di denaro, scrive Gian Marco Chiocci su “Il Giornale”. In dubio pro reo. Nel dubbio - dicevano i latini - decidi a favore dell'imputato. Duole dirlo, e non ce ne voglia il collegio giudicante del tribunale di Pescara, ma la locuzione dei padri del diritto sembra sfilacciarsi nel processo all'ex presidente della Regione Abruzzo, Ottaviano Del Turco. Processo che in assenza di prove certe s'è concluso come gli antichi si sarebbero ben guardati dal concluderlo: con la condanna del principale imputato e dei suoi presunti sodali. Qui non interessa riaprire il dibattito sulle sentenze da rispettare o sull'assenza o meno di un giudice a Berlino. Si tratta più semplicemente di capire se una persona - che su meri indizi è finita prima in cella e poi con la vita politica e personale distrutta - di fronte a un processo per certi versi surreale, contraddistintosi per la mancanza di riscontri documentali, possa beccarsi, o no, una condanna pesantissima a nove anni e sei mesi (non nove mesi, come ha detto erroneamente in aula il giudice). Noi crediamo di no. E vi spieghiamo perché. In cinque anni nessuno ha avuto il piacere di toccare con mano le «prove schiaccianti» a carico dell'ex governatore Pd di cui parlò, a poche ore dalle manette, l'allora procuratore capo Trifuoggi. Un solo euro fuori posto non è saltato fuori dai conti correnti dell'indagato eccellente, dei suoi familiari o degli amici più stretti, nemmeno dopo centinaia di rogatorie internazionali e proroghe d'indagini. E se non si sono trovati i soldi, nemmeno s'è trovata una traccia piccola piccola di quei soldi. Quanto alle famose case che Del Turco avrebbe acquistate coi denari delle tangenti (sei milioni di euro) si è dimostrato al centesimo esser state in realtà acquistate con mutui, oppure prima dei fatti contestati o ancora coi soldi delle liquidazioni o le vendite di pezzi di famiglia. Non c'è un'intercettazione sospetta. Non un accertamento schiacciante. Non è emerso niente di clamoroso al processo. Ma ciò non vuol dire che per i pm non ci sia «niente» posto che nella requisitoria finale i rappresentanti dell'accusa hanno spiegato come l'ex segretario della Cgil in passato avesse ricoperto i ruoli di presidente della commissione parlamentare Antimafia e di ministro dell'Economia, e dunque fosse a conoscenza dei «sistemi» criminali utilizzati per occultare i quattrini oltre confine. Come dire: ecco perché i soldi non si trovano (sic !). Per arrivare a un verdetto del genere i giudici, e in origine i magistrati di Pescara (ieri assolutamente sereni prima della sentenza, rinfrancati dalla presenza a sorpresa in aula del loro ex procuratore capo) hanno creduto alle parole del re delle cliniche abruzzesi, Vincenzo Maria Angelini, colpito dalla scure della giunta di centrosinistra che tagliava fondi alla sanità privata, per il quale i carabinieri sollecitarono (invano) l'arresto per tutta una serie di ragioni che sono poi emerse, e deflagrate, in un procedimento parallelo: quello aperto non a Pescara bensì a Chieti dove tal signore è sotto processo per bancarotta per aver distratto oltre 180 milioni di euro con operazioni spericolate, transazioni sospette, spese compulsive per milioni e milioni in opere d'arte e beni di lusso. Distrazioni, queste sì, riscontrate nel dettaglio dagli inquirenti teatini. Da qui il sospetto, rimasto tale, che il super teste possa avere utilizzato per sé (vedi Chieti) ciò che ha giurato (a Pescara) di avere passato ai politici. Nel «caso Del Turco» alla mancanza di riscontri si è supplito con le sole dichiarazioni dell'imprenditore, rivelatesi raramente precise e puntuali come dal dichiarante di turno pretendeva un certo Giovanni Falcone. Angelini sostiene che prelevava contanti solo per pagare i politici corrotti? Non è vero, prelevava di continuo ingenti somme anche prima, e pure dopo le manette (vedi inchiesta di Chieti). Angelini giura che andava a trovare Del Turco nella sua casa di Collelongo, uscendo al casello autostradale di Aiello Celano? Non è vero, come dimostrano i telepass, le testimonianze e le relazioni degli autisti, a quel casello l'auto della sua azienda usciva prima e dopo evidentemente anche per altri motivi. Angelini dice che ha incontrato Del Turco a casa il giorno x? Impossibile, quel giorno si festeggiava il santo patrono e in casa i numerosi vertici istituzionali non hanno memoria della gola profonda. Angelini porta la prova della tangente mostrando una fotografia sfocata dove non si riconosce la persona ritratta? In dibattimento la difesa ha fornito la prova che quella foto risalirebbe ad almeno un anno prima, e così cresce il giallo del taroccamento. Angelini corre a giustificarsi consegnando ai giudici il giaccone che indossava quando passò la mazzetta nel 2007, e di lì a poco la casa produttrice della giubba certifica che quel modello nel 2007 non esisteva proprio essendo stato prodotto a far data 2011. Questo per sintetizzare, e per dire che le prove portate da Angelini, che la difesa ribattezza «calunnie per vendetta», sono tutt'altro che granitiche come una sana certezza del diritto imporrebbe. Se per fatti di mafia si è arrivati a condannare senza prove ricorrendo alla convergenza del molteplice (il fatto diventa provato se lo dicono più pentiti) qui siamo decisamente oltre: basta uno, uno soltanto, e sei fregato. «Basta la parola», recitava lo spot di un celebre lassativo. Nel dubbio, d'ora in poi, il reo presunto è autorizzato a farsela sotto. Del Turco: "Ho un cancro, voglio vivere per provare la mia innocenza". «Da tre mesi so di avere un tumore, da due sono in chemioterapia. Domani andrò a Roma a chiedere al professor Mandelli di darmi cinque anni di vita, cinque anni per dimostrare la mia innocenza e riabilitare la giunta della Regione Abruzzo che ho guidato». A dichiararlo in una intervista a Repubblica è Ottaviano Del Turco, condannato a nove anni e sei mesi per presunte tangenti nella sanità privata abruzzese. «Mi hanno condannato senza una prova applicando in maniera feroce il teorema Angelini, oggi in Italia molti presidenti di corte sono ex pm che si portano dietro la cultura accusatoria. Il risultato, spaventoso, sono nove anni e sei mesi basati sulle parole di un bandito. Ho preso la stessa condanna di Tortora, e questo mi dà sgomento». Il Pd? «Ha così paura dei giudici che non è neppure capace di difendere un suo dirigente innocente», ha aggiunto Del Turco.
Raul Gardini, la vera storia del "Corsaro" tra scommesse azzardate e faide familiari. Luigi Bisignani su Il Tempo il 30 luglio 2023
Caro direttore, un popolo di santi, eroi, poeti e naviganti. Mai come in questi giorni queste parole sono state così calzanti nel sentire la narrazione di una certa stampa e Tv su Raul Gardini, in occasione dei 30 anni dalla morte del manager ravvenate. Non è stata da meno la Rai, con l’apologetico docufilm «Raul Gardini» - andato in onda il 23 luglio - nel rappresentare la vicenda umana e professionale del «Corsaro», così soprannominato per le sue scorribande in borsa. Un protagonista temerario e certamente con idee innovative, ma anche uno spericolato «gambler» con il gusto dell’azzardo che è riuscito a distruggere uno dei più grandi player agro-industriali al mondo nello spazio di pochi mesi.
Anche nella tv di Stato la vicenda viene fatta passare per una faida di famiglia, una sorta di Dynasty «acchiappa audience» che, peraltro, proprio sul terreno degli ascolti è stata un flop. Mentre il Gruppo Ferruzzi era in realtà il progetto di una vita del patriarca Serafino, lui sì visionario e all’avanguardia, che si era sempre tenuto ben lontano da politica e finanza e che aveva costruito un megapolo integrato con una filiera rigorosamente “homemade” di trasporti, logistica, stoccaggio. Solo per dare qualche numero, parliamo di circa 170 chiatte da 1.000 tonnellate per il trasporto fluviale, di una flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico e di enormi stoccaggi in silos giganteschi alla foce del Mississippi. Tant’è che alla Borsa di Chicago, come si fa con i «grandi», quando entrava il cavalier Ferruzzi, veniva suonata la campanella. Il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stata la migliore «dote» in mano a Gardini, utilizzata per l’acquisto non solo della Montedison, ma di tante altre realtà come Central Soia, Koipe, Carapelli ed anche per la celebrata avventura de Il Moro di Venezia.
Tornando al docufilm, bastano i primi minuti per capire la follia dello storytelling celebrativo a senso unico non appena, al bravo Bentivoglio/Gardini, mettono in bocca una falsità storica: gli fanno dire che non si sa chi sia più ricco tra suo padre Ivan e Serafino Ferruzzi. La verità è che da una parte abbiamo Ivan Gardini, un piccolo imprenditore che aveva come microcosmo Ferrara, una famiglia che coltivava pesche e, quale attività complementare, quella del «sabiunat», ovvero dragava il fiume per raccogliere la sabbia. Dall’altra parte abbiamo Serafino Ferruzzi, una leggenda che per orizzonte aveva il mondo intero e con una liquidità in tasca di migliaia di miliardi di lire. La «pietas» per il tragico destino di Gardini non deve però farci dimenticare la verità e dunque la sua distruttiva arroganza. E questa volta chi postula «ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità» resterà deluso perché un’altra verità sta emergendo da una domanda spontanea: perché, dopo tutto questo tempo, si continua a rappresentare epicamente la storia di Gardini, oramai smentita da carte e testimoni, come quella di un eroe senza macchia e peccato?
Le risposte possono essere molteplici: forse per evitare di parlare del ruolo nefasto e malefico di Mediobanca e di alcuni poteri forti che contribuirono in modo sostanziale a spolpare il gruppo Ferruzzi a beneficio della Fiat.
O, più semplicemente, per spostare l’attenzione nei giorni tragici di Mani Pulite su partiti come il Pci e personaggi finiti nel mirino della magistratura, come gli Agnelli, i De Benedetti e i Falck, sfruttando e approfittando, con un grimaldello perfetto quale era il carattere impetuoso di Gardini, delle divisioni nella famiglia di Ravenna. O, forse, anche per evitare di aprire uno squarcio in seno alla stessa Procura di Milano, che aveva bisogno di «crocifiggere» Sergio Cusani e i Ferruzzi per lavarsi la coscienza dai suicidi dei vari Castellari, Moroni, Cagliari e dello stesso Gardini, portando così avanti la tesi della corruzione nella vicenda Enimont. Ricostruzioni e verità giudiziarie che tuttavia non sempre collimano con le verità reali. Più che una corruzione sta diventando palese che si trattò dell’ennesimo sciagurato finanziamento illecito ai partiti - un habitus a quei tempi di tutti i grandi gruppi industriali - per mettere fine alla guerra personale che Gardini aveva dichiarato alla politica, lanciando in campo provocazioni di ogni genere.
Leggendaria fu quella di mandare sotto la casa del ministro dell’epoca delle partecipazioni statali, Carlo Fracanzani, truppe cammellate urlanti «la chimica sono io». Oppure, ed è un mio ricordo personale ancora vivo, quando accompagnai il dottor Gardini dal presidente Andreotti per perorare un beneficio fiscale osteggiato da parte della sinistra Dc e dal Pci. Gardini spiegò le sue ragioni in maniera entusiasmante ma uscendo, con un ghigno arrogante dei suoi, si congedò dicendo testualmente «Se non me lo accordate, io i soldi me li faccio dare dai francesi». Il Divo, allora, commentò sagacemente: «Questo è matto, che se li facesse dare dai francesi, cosa è venuto a fare». Enimont durò neanche due anni. Nel ‘90 Montedison cedette il settore «chimica» all’Eni anche perché tutto il mondo politico voleva Gardini fuori per favorire quello che veniva definito il partito degli appalti e degli appaltatori all’ombra del cane a sei zampe. Vennero pagati 2.800 miliardi di lire per costringere Gardini alla resa. Ma potevano essere anche di più, come sosteneva all’epoca l’imperituro Franco Bernabè, in forza all’Eni e incaricato di una valutazione, pur di cacciare il «Contadino».
Gardini, affogato nel suo ego, era rimasto quello spregiudicato giocatore di poker che Serafino mal sopportava. Spesso i geni sono incontenibili nelle loro pretese e gesta, ma comunque i fratelli Ferruzzi, Arturo, Alessandra e Franca gli accordarono fiducia, supporto e sostegno. Tuttavia, riguardo a Enimont, certamente la vicenda più mediatica, la famiglia ha sempre affermato che la decisione della vendita della quota della società a Eni fu presa dal solo Raul, in totale autonomia e comunicata solo a cose fatte ai familiari i quali, basiti di fronte a tanta prepotenza, gli chiesero invano spiegazioni, così come avvenne per l’acquisto a debito della Montedison, portando ovviamente in garanzia il patrimonio Ferruzzi. Gardini non si smentiva mai e aveva manie di grandezza, anche perché il suo sogno nascosto era quello di diventare il nuovo Gianni Agnelli.
Solo una volta è venuto meno a sé stesso, solleticato nell’ego ipertrofico da quel venditore di sogni di Silvio Berlusconi, che ben sapeva interpretare i suoi interlocutori. L’occasione fu l’acquisto della Standa, che Gardini aveva giurato di non vendere mai e invece... Berlusconi si recò in pellegrinaggio a Ravenna e, giunto sulla soglia d’ingresso della villa di Gardini, si inginocchiò in stile Wojtyla. Davanti a quel gesto, Gardini rimase esterrefatto e così Silvio cominciò ad incantarlo, rimarcando che loro due erano gli unici indipendenti: «Abbiamo figli giovani. Abbiamo tutti contro. Ci vogliono far litigare. Ci scatenano contro i loro giornali». E così si prese la Standa. La lucida follia di Gardini raggiunse il suo apice quando pretese di mettere come presidente della Ferruzzi Finanziaria, la cassaforte del Gruppo il giovane figlio Ivan, in un consiglio di amministrazione dove sedevano, tra gli altri, giganti come Giuseppe Garofano, Italo Trapasso, Renato Picco e Sergio Cragnotti. Un bravo ragazzo che, nonostante l’aiuto del comandante generale dei Carabinieri, non riuscì neanche ad essere ammesso nell’Arma.
La conseguenza per la gloriosa «Ferruzzi Finanziaria» è che quel Cda divenne una farsa come l’Enrico IV di Pirandello, dove ogni consigliere doveva leggere un foglio pre-compilato in modo che il rampollo, fatto re, non facesse brutta figura. Fu l’inizio della fine per Raul, che voleva cancellare la Ferruzzi per farla diventare la Gardini. Voleva condizionare e tenere sotto controllo ogni cosa, anche la vita dei suoi collaboratori. Non gli piaceva, ad esempio, la moglie di Sergio Cragnotti, la Signora Flora, che poi si è dimostrata una donna eccezionale. E così architettò di creare le condizioni per il loro divorzio. Aveva addirittura scelto la futura compagna di Cragnotti: l’attrice e modella Marisa Berenson, che peraltro non aveva mai conosciuto. Nel «Colosseo Ferruzzi», come un imperatore romano, Raul voleva avere potere di vita e di morte, anche in nome di tutti gli eredi, perfino dei piccoli in arrivo come il bimbo di Alessandra, la più tenace dei figli di Serafino, l’unica che aveva compreso la fatale deriva verso cui stava trascinando il Gruppo. La debolezza della famiglia sotto scacco di Gardini, portò ad un certo punto alla decisione di liquidare il Contadino con 500 miliardi di lire. E da lì a poco entrò maleficamente in campo la Mediobanca di Cuccia che non permise alla famiglia Ferruzzi di farsi assistere dalla Goldman Sachs di Claudio Costamagna - che al contrario apprezzava il piano di risanamento portato avanti da Arturo Ferruzzi e Carlo Sama per poterla così spingere nell’abisso. Decisamente una storia tristissima per il capitalismo italiano. Ed è struggente l’ultima frase della prima lunga “intervista-verità” che ha rilasciato poche settimane fa Alessandra Ferruzzi, ricordando anche Gardini. Due sole parole eloquenti: «Scusa papà».
Gardini, 30 anni fa la morte. L’avvocato che passò con lui le ultime ore: «Ecco perché si uccise». Andrea Pasqualetto su Il Corriere della Sera il 23 luglio 2023.
Marco De Luca, l’avvocato che passò le ultime ore con l’imprenditore: «Nel suo volto una tristezza profonda». Oggi il 30mo anniversario della morte
Il 23 luglio di trent’anni fa Milano si svegliò con uno sparo. A palazzo Belgioioso, nel centro cittadino, veniva trovato il corpo senza vita di Raul Gardini. L’eco fu planetaria perché il personaggio era planetario: partendo dall’eredità del suocero Serafino Ferruzzi, Gardini aveva creato in dieci anni un gruppo agroindustriale e chimico, Ferruzzi-Montedison, di dimensioni mondiali, con oltre 90 mila dipendenti; e nel contempo aveva scalato, come armatore e velista, le vette della Coppa America.
La magistratura non ebbe dubbi: suicidio. E nessun dubbio ebbero i familiari, nonostante le ombre allungate sul caso da varie inchieste giornalistiche. Com’è possibile che la pistola, trovata dalla Scientifica, fosse sullo scrittoio anziché accanto a lui? «Qualcuno nel frattempo l’ha spostata», tagliò corto il pm. E l’assenza di polvere da sparo nelle mani di Gardini? «Sono state lavate al pronto soccorso». La strage di via Palestro di quattro giorni dopo attribuita alla mafia? «Nessun nesso».
Il suicidio squassò il mondo della finanza e la famiglia. Da allora i Gardini e i Ferruzzi, già ai ferri corti per via del suo siluramento dalla guida del gruppo, non si parlano. Ma al di là delle vicende familiari, erano giorni neri per Gardini: la mattina del suicidio, dopo che quella settimana l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari si era tolto la vita in carcere, sapeva di dover essere arrestato su richiesta del pool Mani Pulite che lo accusava delle tangenti pagate ai politici per la joint venture Enimont. Il giorno prima, a palazzo Belgioioso, con Gardini c’erano il figlio Ivan, la moglie Idina, il dirigente Roberto Michetti e i suoi avvocati, Marco De Luca e Giovanni Maria Flick.
Avvocato De Luca, ci racconta l’ultimo giorno di Gardini?
«Il 22 luglio ero andato da lui nel pomeriggio per rivedere il possibile interrogatorio del giorno dopo, visto che doveva essere arrestato e ne avevo parlato con Di Pietro. E ciò anche alla luce delle dichiarazioni del manager Giuseppe Garofano, rispetto alle quali stavano uscendo delle anticipazioni di agenzia. Flick ed io restammo con lui quasi tutto il pomeriggio e la sera. Io me ne andai più o meno alle undici dopo che Idina era ripartita per Ravenna dicendo che sarebbe tornata la mattina successiva».
Come trovò Gardini?
«Mi sembrava un uomo molto provato, aveva nel volto una profonda tristezza».
Che cosa lo preoccupava?
«La sua prima preoccupazione riguardava la documentazione delle attività di Montedison di cui non disponeva ma che riteneva necessaria per difendersi dalle accuse. Essendo ormai fuori dal gruppo da un paio d’anni, da quando c’era stata la rottura in famiglia, non aveva quelle carte, in particolare sulla vicenda Enimont e sulle dazioni di denaro».
Doveva essere arrestato per le tangenti ai politici. Lei aveva trattato a lungo con Di Pietro, cosa aveva ottenuto?
«Io avrei voluto che Di Pietro sentisse Gardini per rendersi conto della sua posizione effettiva, di responsabilità nella fase decisionale, non però in quella esecutiva. Ma Di Pietro non volle. Alla fine riuscii a ottenere un arresto senza passaggio dal carcere. Gardini si sarebbe dovuto presentare il giorno 23 alle 11 di mattina in una qualche caserma della Guardia di Finanza, lì Di Pietro l’avrebbe interrogato a lungo, probabilmente fino a notte fonda, e Gardini sarebbe rimasto con noi fino a che il gip non avesse concesso i domiciliari. Il 24 poteva essere a casa».
(Ascolta qui i 5 episodi della serie podcast «Chiedi chi era Gardini», di Carlo Annese)
Gardini che cosa disse?
«Temeva che dall’interrogatorio di Garofano emergesse una realtà molto diversa da quella che pensava di rappresentare. Aveva paura cioè che gli gettassero la croce addosso».
La mattina dopo come andò?
«Dovevamo vederci alle 10 nel mio studio. Flick l’aveva cercato alle 7.30 per rinfrancarlo. Gli voleva offrire un caffè prima di venire da me. Ma non è riuscito a parlargli e quando è arrivato in piazza Belgioioso era già tutto successo».
Ha dei dubbi sul suicidio?
«Nessuno».
Che idea si è fatto sul movente?
«Io credo che l’abbia fatto per tutelare la sua famiglia e l’immagine. Non dobbiamo dimenticare che accanto alle vicende di Tangentopoli era maturato in quel momento il dissesto della Montedison che avrebbe potuto ripercuotersi su di lui e su molti altri con azioni riparatorie importanti dal punto di vista economico. Penso abbia considerato il fatto che senza di lui la sua famiglia sarebbe stata in qualche modo tutelata. In quegli anni Gardini era l’imprenditore per eccellenza in Italia. Il suo nome era straordinario, a Ravenna era considerato un re. Forse voleva evitare che le vicende di Tangentopoli potessero turbare tutto questo: lui e il suo mondo, nato accanto a Serafino Ferruzzi».
Se questo era il suo obiettivo l’ha raggiunto?
«Il suo ricordo, che condivido, è rimasto quello di un uomo di grandi capacità e vedute che ha portato molto onore a Ravenna e all’imprenditoria italiana. Quindi sì, credo abbia raggiunto l’obiettivo».
Trent'anni fa la scomparsa. Il ricordo di Gardini: Raul e Serafino gli inizi dell’avventura. “Voleva convincere i commissari europei sul bioetanolo ma aveva contro la lobby del petrolio”. Marco Fortis su Il Riformista il 18 Luglio 2023
Sono trascorsi trent’anni dalla tragica morte di Raul Gardini, con cui ho avuto il piacere e l’onore di collaborare agli inizi della mia attività professionale. Gardini mi chiamò a Ravenna per dare vita all’Ufficio Studi del Gruppo Ferruzzi nel 1986. Fu per me una scelta non facile. Perché avrei dovuto abbandonare l’attività di condirettore della rivista “Materie Prime” di Nomisma che era stata co-fondata nel 1981 da me con il mio maestro accademico Alberto Quadrio Curzio, ma anche con il sostegno di Romano Prodi.
La rivista “Materie Prime” aveva diversi sponsor, tra cui il Gruppo Ferruzzi e si creò subito una sintonia ed una complementarità di competenze tra Gardini e me. Ciò fu determinante per la proposta che mi fece Gardini: lui imprenditore innovatore ed io economista con l’angolatura sulla economia reale ed internazionale. Per questo anche Quadrio Curzio, con cui collaboravo intensamente, mi incoraggiò nella mia decisione.
Così accettai, perché mi affascinavano le idee e i progetti che Gardini e suoi più stretti collaboratori stavano portando avanti e fui attratto dalla possibilità di lavorare in un grande gruppo industriale internazionale come la Ferruzzi, dove avrei comunque potuto continuare a fare ricerca economica ad alto livello, in parallelo con la mia attività universitaria, come poi è effettivamente successo fino ad oggi, prima con Ferruzzi-Montedison e poi con la Fondazione Edison.
Ricordare Gardini è, a mio avviso, molto importante. Non solo per tributare un omaggio alla memoria di un grande uomo. Ma anche per non perdere il “filo della storia”, di quella storia del nostro Paese e della sua economia i cui contorni spesso sembrano confondersi nel tempo. Per capire chi è stato Gardini occorre innanzitutto capire chi è stato prima di lui Serafino Ferruzzi, il fondatore del Gruppo, la cui figlia Idina era moglie di Gardini. Il “dottor” Ferruzzi fu, come Enrico Mattei nell’energia, un uomo di grande intraprendenza, capace di rendere l’Italia del Secondo Dopoguerra indipendente per i cereali e la soia dalle grandi multinazionali del settore. Ferruzzi sfidò le società di trading americane costruendo propri silos per i cereali sul Mississippi. Si diversificò geograficamente negli approvvigionamenti andando a comprare le materie prime agricole anche dalle cooperative argentine, si dotò di una propria flotta per trasportare le derrate in Italia, acquistò immensi possedimenti terrieri negli Stati Uniti e in Sudamerica.
Divenne così importante ed autorevole nel mondo del commercio mondiale dei prodotti agricoli che quando egli arrivava alla Borsa dei cereali di Chicago le contrattazioni venivano temporaneamente interrotte per tributargli un deferente saluto. Prima di morire in un incidente aereo in una notte nebbiosa a Forlì mentre stava tornando a casa a Ravenna col suo jet, Serafino Ferruzzi aveva accumulato uno dei più importanti patrimoni d’Italia, stimato da Cesare Peruzzi in un articolo su “Il Mondo” del febbraio 1980 in circa 3 mila miliardi di lire, ed era riuscito a comprare dal cavalier Attilio Monti l’Eridania, la principale società italiana produttrice di zucchero. Furono così create le solide basi per lo sviluppo agro-industriale del Gruppo Ferruzzi che fu poi portato avanti dopo la sua scomparsa dal genero Raul Gardini.
La storia di Raul Gardini è certamente più nota di quella di Serafino Ferruzzi ma anch’essa è conosciuta solo in parte. Ed è probabilmente conosciuta più per le tragiche vicende finali di Enimont e le imprese veliche in Coppa America che non per il ruolo che Gardini ha avuto nell’industria italiana e mondiale. Ho avuto la fortuna di condividere con Gardini gli anni di lavoro che credo siano stati per lui i più belli: anni emozionanti e travolgenti, ma ancora sereni, diversamente da quelli successivi dell’avventura tormentata nella chimica, che gli avrebbe riservato fama ma anche tante amarezze. Un periodo, quello centrale degli anni ‘80, in cui Gardini era tutto proiettato verso il futuro ed era circondato da uomini fidati: dirigenti storici che aveva “ereditato” dal suocero Serafino ed altri emergenti, come Renato Picco, a capo dell’Eridania. La Ferruzzi a quell’epoca era veramente una grande squadra di manager preparati, chi a capo del trading, chi degli olii, chi dello zucchero, chi del calcestruzzo, chi delle navi, chi dei silos: tutti compatti attorno a Gardini. Una squadra che lo aiutò molto a muovere i suoi primi passi da leader, nel solco di Serafino.
Inoltre, era entrato a far parte dei vertici anche Mauro De André, fratello del noto cantautore, che era diventato l’avvocato del Gruppo, della famiglia Ferruzzi e di Gardini. Un uomo di straordinaria professionalità, De André, un autentico baluardo per la Ferruzzi. Forse, se non fosse morto prematuramente, avrebbe saputo consigliare Gardini in taluni successivi momenti difficili della sua vita e la storia della Ferruzzi stessa sarebbe andata diversamente.
Lavoravo con Gardini nell’ufficio che egli aveva posto a piano terra nella sua casa, a Palazzo Prandi a Ravenna, in via Massimo d’Azeglio, assieme a Carlo Sama, suo più stretto assistente, con un mio giovane collaboratore e due segretarie. Tutti in un unico stanzone. Dietro l’ufficio, attraverso una serie di piccole porte comunicanti, si accedeva a una stanza privata di Gardini, dove lui amava leggere e riposarsi, circondato da suppellettili di caccia e di vela. Un’altra porta accedeva al giardino sul retro e a una piccola piscina. Un grande scalone portava al primo piano dove talvolta salivamo per il pranzo Gardini, Sama ed io, in compagnia della moglie di Raul, Idina, una donna straordinaria, semplice e molto religiosa, come la sorella Alessandra. Con Idina ho avuto la possibilità di rimanere sempre in contatto anche negli ultimi anni della sua vita, sia per dei consigli sia per organizzare eventi in memoria di Raul.
Il lavoro a Ravenna trascorreva tra Palazzo Prandi e il moderno edificio di vetro che ospitava le sedi della Italiana Oli e Risi e della Calcestruzzi. Con Gardini e Sama ci spostavamo a piedi per le vie della città da un ufficio all’altro. Nel week end cercavo spesso di rientrare a casa, in Piemonte. Viaggiavo tra Ravenna e il lago d’Orta a passo di lumaca con la mia vecchia Renault 4 bianca che raggiungeva appena i 90 all’ora e il lunedì mattina ripartivo alla volta della Romagna prima che albeggiasse, per poter arrivare in tempo in ufficio. Quando Gardini venne a sapere di questi miei faticosi spostamenti mi fece affidare una più confortevole e veloce Mercedes aziendale.
Erano giorni febbrili, quelli del 1986. Gardini voleva convincere i Commissari europei a dar vita al progetto del bioetanolo, alcol da miscelare alla benzina ricavato dalle eccedenze cerealicole europee di quegli anni, che erano enormi e molto costose da mantenere. Ma aveva contro tutta la potente lobby dei petrolieri. Inoltre, Gardini voleva portare la soia in Italia: un altro progetto coraggioso. Da poco la Ferruzzi aveva preso il controllo del primo produttore di zucchero della Francia, la Béghin-Say, di cui Eridania deteneva già una importante partecipazione.
Una operazione difficilissima, quella di scalare un gruppo industriale francese, in cui però Gardini fu aiutato dallo straordinario lavoro di lobbying di un giovanissimo Sergio Cusani, che aveva rapporti consolidati col mondo saccarifero e finanziario transalpino. E ora, dopo quel successo, la Ferruzzi puntava a scalare la British Sugar, con l’appoggio dei bieticoltori inglesi ma con l’opposizione del governo britannico, che aveva più a cuore gli interessi coloniali dello zucchero di canna della Tate&Lyle. L’operazione British Sugar fu l’unica di quegli anni che Gardini non riuscì a portare a termine, forse per non aver tessuto lo stesso paziente lavoro diplomatico che caratterizzò la scalata vincente di Béghin-Say. La sconfitta di British Sugar fu però subito riscattata dall’introduzione della soia in Italia, che invece fu un enorme successo. Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Il ricordo di Gardini e lo sviluppo della Ferruzzi: “Era diventato l’interlocutore degli agricoltori italiani e francesi”. Marco Fortis su Il Riformista il 19 Luglio 2023
In quei giorni passavo ore con Gardini in ufficio o in giardino ad ascoltare le sue idee e i suoi progetti sull’agricoltura, sull’ambiente e sull’Europa, mentre egli, instancabile, tracciava appunti e schemi su fogli e agendine, e discutevamo su come poter trasferire questa narrativa alle istituzioni europee, al mondo politico e all’opinione pubblica.
Buttammo giù praticamente insieme il primo working paper del gruppo Ferruzzi, “Una nuova agricoltura per vivere meglio”, del settembre 1986, che fu tradotto anche in inglese e francese, e fu presentato poco dopo ad un convegno a Bruxelles e ai vertici della Commissione europea. Il secondo working paper, “La soia. Una coltura alternativa per l’agricoltura italiana”, fu pubblicato nel dicembre 1986. Va ricordato che il Gruppo Ferruzzi favorì lo sviluppo della coltivazione della soia in Italia rendendo il nostro Paese primo produttore europeo di questa importante leguminosa che permette di fissare l’azoto nel terreno senza l’impiego di fertilizzanti e che quindi favorì una vera e propria rivoluzione della rotazione agraria. Anche per questo motivo l’Università di Bologna avrebbe poi conferito a Gardini la Laurea Honoris Causa in Agraria.
A quei tempi si volava in continuazione con i Falcon aziendali partendo dall’aeroporto di Forlì, diretti un po’ ovunque, a New York, Bruxelles, Amsterdam, Londra, Parigi e Reims, in quest’ultimo caso ospiti di George Garinois, leader dei bieticoltori francesi, che dopo la scalata di Béhin-Say divenne amico di Gardini e lo invitava spesso a cena nella sua fattoria dove venivano cucinati gustosi polli allo spiedo. Intorno al camino acceso, Gardini e Garinois mi coinvolgevano in interminabili discussioni fino a notte inoltrata sull’agricoltura, sull’Europa, sulle monete. Ero affascinato da questi uomini che rappresentavano ai miei occhi il tipo di capitalismo che avevo sempre giudicato migliore, quello dell’economia reale, dei grandi progetti per lo sviluppo, in contrapposizione a quello finanziario e del facile arricchimento. Talvolta rientravamo in aereo direttamente in Italia alla mattina, appena in tempo per aprire l’ufficio. Nei viaggi più brevi tra Ravenna, Venezia e Milano ci si spostava invece con il grande elicottero verde della Ferruzzi.
Gardini era un uomo affascinante ed emanava un notevole carisma. Loquace con gli amici, era di poche parole in pubblico, spesso rispondeva a monosillabi, ma aveva improvvise battute fulminanti, come mostra anche una celebre intervista televisiva rilasciata ad Enzo Biagi. Nei suoi viaggi all’estero era spesso accompagnato dalla figlia Eleonora. Ricordo che un giorno a New York, a margine di un appuntamento d’affari, anziché seguire la segretaria che ci accompagnava, irrompemmo di proposito nella enorme sala di trading di una importante società di investimento con un centinaio di operatori sbalorditi ed ammutoliti che interruppero il loro lavoro per ammirare il passaggio di Raul e di Eleonora, elegantissima in un abito azzurro.
I Ferruzzi e i Gardini erano ovviamente persone molto benestanti e al centro della cronaca ma anche semplici e aperte. Per questa ragione erano molto amati e rispettati dai ravennati. Inoltre, sapevano mettere sempre a loro agio anche giovani collaboratori come me da poco entrati a far parte del loro mondo. Ricordo che, da poco assunto, in occasione di una fiera agricola vicino a Birmingham, nel pieno della scalata a British Sugar, trascorsi quasi un intero pomeriggio con Alessandra Ferruzzi, che mi raccontò la vita di suo padre e tanti aneddoti della sua famiglia.
Oltre che con Gardini collaboravo molto anche con Sama, a cui Raul affidò le Relazioni esterne del Gruppo Ferruzzi. In quel periodo Carlo svolse un lavoro enorme per dare alla Ferruzzi una comunicazione di livello, fattore essenziale per far conoscere al mondo un gruppo fino a quel momento poco noto che però stava per entrare in Borsa, cosa che avvenne poco dopo con la holding Agricola Finanziaria. Un impegno, quello nella comunicazione, che poi valse a Sama anche la laurea ad honorem in sociologia da parte dell’Università di Urbino. Sama coordinò la prima campagna istituzionale della Ferruzzi con l’Agenzia Testa, con lo slogan “Ferruzzi Pianeta Terra”, e lavorò alla creazione del logo della Ferruzzi, con le sue tre foglioline verdi, ideato dalla Landor di San Francisco. Ricordo che in uno dei miei primi giorni di lavoro, raggiunsi direttamente in treno dal Piemonte Raul e Carlo a Torino presso l’Agenzia Testa per vedere l’evoluzione del progetto di immagine del Gruppo. C’era anche Alessandra Ferruzzi che Gardini coinvolgeva spesso nelle sue riflessioni strategiche perché riteneva molto preziosi i suoi pareri. Alessandra si era laureata con una tesi sul Chicago Board of Trade ed era molto competente sui temi dell’agricoltura e dell’agro-industria.
Sama fece anche realizzare da Fulvio Roiter uno splendido libro fotografico sulla Ferruzzi, le cui immagini sarebbero poi finite sui giornali e sulle riviste di tutto mondo a corredo delle interviste di Gardini, che andavano via via moltiplicandosi. Negli anni seguenti, assunto l’incarico di direttore delle relazioni esterne anche della Montedison, Sama ideò poi una delle campagne pubblicitarie più innovative di quell’epoca, consistente nella promozione di oggetti costruiti con le nuove plastiche biodegradabili del Gruppo, tra cui macchine fotografiche ed automobiline, distribuite in migliaia di esemplari con i numeri settimanali del periodico “Topolino”. Quei giocattoli, oltre trent’anni fa, furono i precursori degli odierni sacchetti ecologici della spesa in Mater-Bi. Nel 1990, Sama ed io avremmo poi lavorato insieme alla sponsorizzazione da parte della Ferruzzi del primo concerto dei Tre Tenori, José Carreras, Plácido Domingo e Luciano Pavarotti, che si esibirono in un memorabile concerto alle Terme di Caracalla, il 7 di luglio.
La Ferruzzi nella seconda metà degli anni ’80 era intanto diventata il più importante interlocutore diretto degli agricoltori italiani e francesi, ritirando la maggior parte dei loro raccolti di soia e barbabietola da zucchero, suscitando anche qualche gelosia tra le rappresentanze datoriali e sindacali italiane del settore. Memorabili furono le giornate della soia che la Ferruzzi organizzava presso la Torvis, una delle principali aziende agricole del Gruppo, oltre 4 mila ettari di terreni in provincia di Udine, con la partecipazione di migliaia di coltivatori e con in cielo le caratteristiche mongolfiere multicolori su cui spiccava il nuovo marchio del Gruppo. Nel corso di tali giornate venivano anche tenute importanti conferenze internazionali con la partecipazione di importanti personalità, tra cui il ministro dell’agricoltura Filippo Maria Pandolfi e il vicepresidente della Cee e commissario europeo all’agricoltura Frans Andriessen. In queste occasioni Gardini e Sama sovraintendevano personalmente tutta l’organizzazione degli eventi fino ai minimi particolari.
Quel mio dividermi tra l’Ufficio Studi e le relazioni esterne del Gruppo e tutti quei viaggi con Raul, Carlo e Alessandra Ferruzzi mi permisero di conoscere in breve tempo la immensa realtà della Ferruzzi, del suo know how, delle sue tecnologie, dei suoi siti produttivi e delle sue sedi nel mondo. In Italia Ferruzzi controllava Eridania, Italiana Olii e Risi e Carapelli; in Francia Béghin-Say, Lesieur e Ducros; in Spagna Koipe. La Ferruzzi aveva anche acquisito la divisione europea della statunitense Corn Product Corporation, che Gardini ridenominò Cerestar, così il Gruppo divenne il primo produttore europeo di amido e derivati con numerosi stabilimenti in diversi Paesi. Furono altresì comprate Central Soya negli Stati Uniti e Provimi, leader europea nei mangimi. La sede di Ferruzzi a Bruxelles divenne il più imponente ufficio di rappresentanza che un’impresa italiana avesse mai avuto nella capitale europea. Marco Fortis
Il terzo capitolo sulla scomparsa, 30 anni fa, dell'imprenditore. Raul Gardini e la scalata di Montedison che lo trasformò da “contadino” a “pirata” e “giocatore di poker”. Marco Fortis su Il Riformista il 20 Luglio 2023.
Arrivò poi, nel 1987, la conquista di Montedison. L’acquisizione avvenne in modo quasi casuale, senza una strategia preordinata. Gardini riuscì ad inserirsi nella lotta tra Mediobanca e Mario Schimberni, il presidente di Montedison che aveva trasformato la società di Foro Buonaparte in una public company e aveva sfidato Enrico Cuccia sulla Bi-Invest dei Bonomi e su Fondiaria. Rastrellando titoli sul mercato, poco a poco Gardini accrebbe la sua quota in Montedison, peraltro comprando a un prezzo elevato le azioni di cui nel frattempo era entrato in possesso Carlo De Benedetti, nonché quelle di Gianni Varasi e di altri azionisti minori.
Alla fine, spiazzando lo stesso Cuccia, Gardini prese il controllo del gruppo chimico, pur appesantendo significativamente l’indebitamento della Ferruzzi, probabilmente animato anche dalla volontà di riuscire in una impresa completamente sua e non legata solo allo sviluppo dell’impero agro-industriale costruito dal suocero Serafino Ferruzzi.
A seguito della irruente scalata di Montedison, la stampa italiana, che in precedenza aveva soprannominato Gardini “il contadino”, prese anche ad indicarlo come “il pirata”. Alcuni media lo paragonarono ad un giocatore di poker che, con una impresa finanziaria eccessivamente spericolata, rischiava di mettere a repentaglio il patrimonio di famigliari fin troppo acquiescenti. E che con quella mossa, rischiava di scontrarsi irrimediabilmente anche con lo stesso Cuccia.
Sta di fatto che Montedison costituì un’autentica svolta per la Ferruzzi. Con grandi potenzialità ma anche con rischi enormi. Gardini si fidò inizialmente di Schimberni ma poi ruppe con lui quando capì che questi stava ulteriormente indebitando Montedison portando avanti in proprio progetti non condivisi. E fece piazza pulita di molti dei suoi uomini, mantenendo in squadra solo un professionista come Giuseppe Garofano e promuovendo gradatamente Italo Trapasso alla guida delle materie plastiche. Inoltre, Gardini chiamò Rita Levi Montalcini a far parte del Cda di Montedison. Liberatosi di Schimberni, si riavvicinò anche a Mediobanca perché aveva bisogno di Via Filodrammatici per rimettere ordine nei conti appesantiti del Gruppo.
È stato spesso enfatizzato che l’acquisizione della Montedison da parte della Ferruzzi sarebbe stata finalizzata all’obiettivo di esplorare un possibile legame tra agroindustria e chimica, un ponte che avrebbe potuto permettere di realizzare la “chimica verde”, altrimenti detta bioeconomia: vale a dire plastiche biodegradabili ottenute dal mais, carburanti ricavati dalle materie prime agricole come l’etanolo o il biodiesel, nuovi materiali, componenti e inchiostri biodegradabili. Frontiere che indubbiamente Gardini ha “focalizzato” con 35-40 anni di anticipo e che sono oggi più che mai di straordinaria attualità, nell’era di Greta Thunberg, delle nuove sfide che ci attendono con gli obiettivi ambiziosi della transizione ecologica e nel pieno del nuovo disordine globale innescato dalla pandemia e dall’aggressione russa all’Ucraina. Uno scenario che ha riproposto ad un Europa non sempre capace di programmare il proprio futuro la rude realtà di nuove improvvise “scarsità”, dal gas alle materie prime.
In realtà, il Gruppo Ferruzzi avrebbe potuto benissimo sviluppare la bioeconomia anche senza la Montedison. La visione della “chimica verde” di Gardini e del Gruppo Ferruzzi, infatti, era antecedente la presa di controllo del gruppo di Foro Buonaparte. E dentro la stessa Ferruzzi c’erano tecnologie d’avanguardia, come quelle dell’amido di Cerestar, che avrebbero potuto essere autonomamente indirizzate verso la bioeconomia con importanti prospettive di innovazione.
Il vero valore aggiunto per il nostro Paese dell’acquisizione di Montedison da parte del Gruppo Ferruzzi era invece potenzialmente un altro. Quello, cioè, di dare finalmente un azionariato stabile e un disegno industriale coerente alla società di Foro Buonaparte, dopo tanti anni tormentati di invadenze politiche e finanziarie, e di proiettarla sempre di più su scala internazionale. L’Italia avrebbe così potuto disporre non di una ma di ben due grandi multinazionali per competere sui mercati globali in settori strategici: la Ferruzzi nell’alimentare e la Montedison nella chimica. Senza contare che il nostro Paese avrebbe potuto averne in futuro anche una terza, cioè la Edison.
Furono Carlo Sama e Alessandra Ferruzzi a proporre a Gardini di ripristinare il vecchio marchio Edison e di ridenominare così le ex centrali elettriche di autoproduzione ex Edison ed ex Montecatini riunite nella Selm, che era in pieno sviluppo sotto la guida di un altro capace manager, Giancarlo Cimoli.
Invece Gardini, forse per eccessiva generosità verso il suo Paese, forse per troppa ambizione, si “incartò” nell’affare Enimont. Quando le massime istituzioni politiche italiane, i vertici dell’Eni e i manager chimici della stessa Montedison proposero a Gardini un progetto per mettere in comune le attività della chimica di base di Montedison e quelle di Enichem in unico gruppo industriale, cioè di creare quella che sarebbe poi diventata la futura joint venture Enimont, l’imprenditore ravennate fu molto combattuto sul da farsi.
Lo ricordo bene perché ne parlammo insieme tante volte in quelle settimane. Da un lato, infatti, Gardini vedeva la Montedison soprattutto proiettata nel mondo, esattamente come la Ferruzzi. Una Montedison tutta concentrata sulle sue società d’avanguardia come Himont (leader nel polipropilene), Ausimont (leader nel fluoro) ed Erbamont (leader negli antitumorali). Gardini avrebbe potuto vendere la chimica di base di Montedison che non gli interessava, quella dei fertilizzanti, delle fibre, della raffinazione, del pvc e del polistirene, rientrando così in parte anche dagli investimenti finanziari fatti per scalare Foro Bonaparte. Questa era pure l’idea degli eredi Ferruzzi e di Sama.
Ma, dall’altro lato, Gardini era anche un uomo attratto dalle sfide impossibili. I vertici dello Stato italiano, tra l’altro, lo invogliarono a creare l’Enimont promettendogli anche dei consistenti sgravi fiscali per favorire la fusione societaria e lo rassicurarono sul fatto che Enimont sarebbe stato un gruppo gestito con mentalità privata e senza intromissioni politiche. Perciò Gardini alla fine accettò e, senza saperlo, quello fu l’inizio del suo calvario personale così come di quello dei suoi parenti, che anche in quella partita rovente non gli fecero mai mancare il loro sostegno, mettendo seriamente a rischio il loro patrimonio.
La storia andò molto diversamente da come Gardini aveva immaginato. Infatti, nei mesi immediatamente successivi alla nascita di Enimont apparve subito evidente che la politica e i partiti, nonostante le promesse che gli erano state fatte, non intendevano mollare per nulla la presa sulla chimica di base, sugli appalti, sulle rendite clientelari e i relativi consensi collegati, intromettendosi di continuo negli affari interni di Enimont, incluse le nomine di alcuni manager. E, per di più, gli sgravi fiscali promessi alla Ferruzzi dai massimi vertici dello Stato italiano non decollavano, con continui rinvii politici dal carattere ricattatorio e stop and go del Parlamento sulla materia. L’Enimont, guidata da Lorenzo Necci e Sergio Cragnotti, era letteralmente impantanata e in quelle condizioni costituiva una emorragia che sul piano finanziario rischiava di dissanguare giorno dopo giorno la Ferruzzi-Montedison.
Gardini si sentì ingannato dalle istituzioni del suo Paese. E da uomo d’azione e di mercato quale era reagì cercando di scalare l’Enimont in modo ostile, con l’appoggio di investitori francesi, dando inizio ad una guerra all’ultimo sangue con lo Stato italiano. Il paradosso di queste dolorose vicende è che il gruppo Ferruzzi, così poco avvezzo ad avere a che fare con la politica italiana, alla fine fu coinvolto in quella che è stata definita la “madre di tutte le tangenti”. Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, l’acquisto a tutti i costi di Enimont, il fallimento e l’inchiesta Mani Pulite. Marco Fortis su Il Riformista il 21 Luglio 2023
Messo all’angolo, Gardini alla fine decise di vendere all’ENI la quota in Enimont e si dimise polemicamente da tutte le cariche che ricopriva in Italia, nominando il giovanissimo figlio Ivan presidente del Gruppo. Furono giorni molto difficili quelli, sia per lui sia per Ivan. Ricordo che spesso la domenica pomeriggio partivo da Linate e li raggiungevo a Roma nella sede della Ferruzzi-Montedison presso l’Ara Coeli, dove c’erano anche alcune stanze per dormire. Lì lavoravamo insieme a discorsi e progetti e poi dopo cena si discuteva a lungo di possibili nuove strategie. Ma il morale di entrambi era molto basso.
È un peccato che molti dei ricordi storici che riguardano Raul Gardini imprenditore si riducano, oggi, alla vicenda di Enimont e ai drammatici episodi che ne seguirono. In altri Paesi un gruppo come la Ferruzzi-Montedison sarebbe stato giudicato un patrimonio nazionale da difendere e da valorizzare. Gli Stati Uniti, ad esempio, normalmente fanno così. Tanti tycoon dell’odierna economia americana sono partiti da poco più che dei garages o tramite avventurose start up. Ma, grazie ad un ambiente istituzionale, politico, finanziario e fiscale favorevole, hanno potuto creare delle multinazionali che oggi dominano i mercati mondiali e le filiere dell’innovazione tecnologica. In Germania i grandi gruppi industriali storici dell’auto, dell’elettromeccanica, della chimica e della farmaceutica sono sempre stati considerati dei patrimoni nazionali strategici così come lo sono in Francia le grandi imprese del lusso o della microelettronica, quelle dell’energia, della farmaceutica, della cosmetica o dell’auto.
Con la successiva disintegrazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, si è perduta invece una fetta importante della storia e del potenziale di sviluppo economico del nostro Paese. Si sono disperse tutte le avanguardie della nostra chimica, che sin dai tempi della Montecatini era leader nel mondo, e aveva vinto anche un premio Nobel con Giulio Natta. E si è anche disperso lo straordinario patrimonio commerciale e agroindustriale creato in quarant’anni di lavoro in tutto il mondo dal fondatore della Ferruzzi, Serafino Ferruzzi, e poi da Gardini.
La vicenda giudiziaria su Enimont, che coinvolse il Gruppo Ferruzzi-Montedison in Mani Pulite e vide il triste epilogo prima del suicidio di Gabriele Cagliari (le cui lettere dal carcere sono una delle più drammatiche testimonianze di quegli anni) e poi di quello di Raul Gardini (un uomo che probabilmente si sentiva troppo libero e orgoglioso per poter passare anche una sola notte in prigione), portò alla perdita del gruppo Ferruzzi-Montedison stesso da parte della famiglia Ferruzzi e alla sua progressiva vendita a pezzi, una volta passato sotto il controllo di Mediobanca.
Come tutti gli uomini, Gardini ha anche commesso alcuni errori. E uno dei più gravi è certamente stato proprio quello di intestardirsi a voler conquistare Enimont a tutti i costi. Per di più in un Paese come l’Italia, stretto tra vecchi presunti “salotti buoni” della finanza che certamente non gli erano amici e un sistema politico “invadente” come pochi altri in economia. Tra l’altro, per guadagnare rapidamente somme di denaro da mettere sul piatto della bilancia dello scontro Enimont, in quei giorni Gardini si lanciò anche in una spericolata speculazione finanziaria sulla soia al Chicago Board of Trade, mal consigliato da alcuni nuovi traders francesi ed americani che lui stesso aveva promosso ai vertici del trading Ferruzzi, in discontinuità con gli uomini fidati della vecchia scuola di Serafino. L’operazione andò molto male, minò il prestigio della Ferruzzi negli USA e costò alle casse del Gruppo e della stessa famiglia Ferruzzi, secondo le cronache e i resoconti giudiziari dell’epoca, non meno di 300 milioni di dollari o forse di più (la cifra esatta non si è mai saputa).
Un altro errore di Gardini, forse dettato dall’esito frustrante della stessa vicenda Enimont, fu quello di voler costringere a tutti costi gli eredi Ferruzzi a mettere in pratica un passaggio generazionale anticipato che lui riteneva innovativo ma che, di fatto, avrebbe praticamente privato i figli di Serafino delle loro legittime quote azionarie di controllo. I cognati fino a quel momento non gli avevano mai fatto mancare il loro più totale appoggio, nemmeno nei momenti più difficili. Ma il suo irrigidimento su quel progetto di successione portò ad una rottura con Arturo, Franca e Alessandra Ferruzzi e con Carlo Sama, che nel frattempo aveva sposato quest’ultima. Ciò indebolì notevolmente il Gruppo e lo espose, nel pieno delle indagini della magistratura, all’attacco di Mediobanca che, di fatto, portò poi alla espropriazione della Ferruzzi-Montedison da parte di quest’ultima. Separandosi dai Ferruzzi, Gardini perse anche quella squadra di fedeli manager che avevano sempre lavorato con lui, da Picco a Ceroni, da Venturi a Trapasso e tanti altri, che decisero di rimanere nel Gruppo con gli eredi di Serafino, non riuscendo a comprendere le ragioni di quella separazione.
Invano, negli ultimi giorni prima dell’escalation di Mani Pulite, Carlo Sama, che era sempre rimasto in rapporti con Gardini, cercò con pragmatismo di progettare con Goldman Sachs un disegno di riunificazione dei gruppi Ferruzzi, Gardini e Cragnotti che avrebbe consentito di affrontare meglio le difficoltà che si stavano profilando all’orizzonte. Ma ormai era tardi e l’ondata di arresti del pool del tribunale di Milano era in arrivo.
Vale la pena di ricordare che il Gruppo Ferruzzi-Montedison era all’epoca più o meno indebitato come altre importanti realtà industriali italiane, cioè come Fiat o il Gruppo De Benedetti, ma a differenza di queste era largamente in utile ed estremamente solido dal punto di vista industriale. A maggior ragione, quello che è accaduto in seguito è semplicemente assurdo dal punto di vista dell’interesse nazionale. Infatti, il sistema politico-istituzionale-finanziario italiano ha colpevolmente assecondato la dissoluzione di un patrimonio industriale unico al mondo, quello del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che costituiva una delle poche realtà su scala globale che l’Italia abbia mai posseduto.
Benché avesse messo dei manager indubbiamente capaci a gestire le società ex-Ferruzzi-Montedison, come Enrico Bondi e Stefano Meloni, Mediobanca non sembrava avere un disegno industriale preciso per le realtà produttive di cui si era impossessata. Himont, leader mondiale nel polipropilene, fu venduta a gruppi stranieri. E, ironia della sorte, morto Enrico Cuccia nel giugno del 2000, la stessa Mediobanca che a suo tempo, approfittando dei giorni caotici di Mani Pulite, si era impadronita con un blitz dell’impero creato dai Ferruzzi e da Gardini, nell’estate del 2001 fu “scippata” della Ferruzzi-Montedison stessa, che nel frattempo era stata denominata Compart, con una OPA ostile guidata da Électricité de France e con il “tradimento” della vecchia e tradizionale alleata Fiat e di alcune banche italiane che appoggiarono quel colpo di mano contro via Filodrammatici.
Alla francese EdF, ovviamente, non interessava l’agro-industria dell’ex gruppo Ferruzzi, sicché successivamente Eridania Béghin-Say fu anch’essa venduta così come altre società chimiche residuali dell’ex Gruppo Montedison, mentre La Fondiaria sarebbe poi finita al Gruppo Ligresti. Ed è già tanto che EdF, un soggetto straniero, si sia poi dimostrata negli anni seguenti un azionista industriale valido per Edison, sostenendola sempre nei suoi investimenti in Italia e accompagnando i suoi manager fino ai successi recenti.
Ma il bilancio finale di tutte queste vicende per il nostro Paese è fallimentare. Perché con la fine di Ferruzzi e Montedison l’Italia ha perso per sempre la possibilità di essere protagonista in due settori strategici.
Marco Fortis
Il ricordo dell'imprenditore scomparso 30 anni fa. Gardini, la vela del Moro di Venezia e la Coppa America con l’amico Paul Cayard per dimenticare i tradimenti in politica. Marco Fortis su Il Riformista il 22 Luglio 2023
Negli ultimi anni della sua vita, le fatiche e le frustrazioni che Raul Gardini aveva accumulato in Italia furono temperate da una intensa attività di relazioni internazionali. Ma, soprattutto, i suoi giorni furono illuminati dai grandi successi nella vela del Moro di Venezia, con l’amico Paul Cayard al timone.
Sentendosi “tradito” dalla politica italiana e alla ricerca di nuovi stimoli, Gardini già prima del definitivo abbandono di Enimont si era sempre più concentrato sulle attività fuori dal nostro Paese, dove godeva di un grande prestigio. Fu chiamato da Michail Gorbačëv a progettare un immenso investimento agricolo ed agro-industriale in URSS nell’area di Stavropol. Sempre in quel periodo Gardini incontrò il presidente americano George Bush e numerosi ministri del governo statunitense. E tenne in America importanti conferenze, una delle quali all’Università di Harvard.
Uno dei riconoscimenti più significativi tributati a Gardini fuori dai nostri confini, fu senza dubbio l’invito che gli fece la Sorbona nel 1990 a tenere una conferenza nell’ambito delle iniziative della Cité della Réussite, onore riservato prima di lui solo ad un altro italiano, Gianni Agnelli. Allo scopo realizzammo anche il primo film di presentazione del Gruppo Ferruzzi-Montedison, che fu proiettato prima della conferenza e che è ancora oggi possibile vedere su Yutube. Fu, quello, un momento molto importante, con la presenza di tutti i membri delle famiglie Gardini e Ferruzzi, inclusa la anziana vedova di Serafino, signora Elisa, nonché dei principali manager del Gruppo.
Intanto, nei cantieri della Montedison di Tencara si stavano costruendo le avveniristiche imbarcazioni del Moro di Venezia, per partecipare alla sfida di Coppa America. La passione di Gardini per il mare, parallela a quella per la caccia, era di vecchia data, così come l’amicizia con il suo marinaio di fiducia ed intimo amico, Angelo Vianello.
Gardini aveva già armato molte barche nella sua vita, a cominciare da “Naso Blu” e “Orca 43” fino a “Naif”, e partecipato a tante regate. Aveva anche avuto altri “Mori”, da giovane. Infatti, per fare un salto di qualità ed entrare nel mondo dei maxi, già a fine anni ’70 Raul e Arturo Ferruzzi avevano chiesto al giovane progettista German Frers di disegnare quella che sarebbe diventata una delle più belle barche a vela da regata del Novecento.
Costruito dai cantieri Carlini in legno, quel grande sloop con un solo albero si sarebbe chiamato Il Moro di Venezia. Fu un regalo di Serafino Ferruzzi ai suoi figli. Questi a loro volta regalarono poi Il Moro a Gardini in seguito. Era una imbarcazione ammirata ed invidiata anche dal re di Spagna Juan Carlos di Borbone, che frequentava abitualmente Raul a Palma di Maiorca. Lo stesso Moro sarebbe poi stato protagonista di un’avventurosa Fastnet durante una furiosa tempesta nel 1979, quando Gardini e il resto dell’equipaggio riuscirono a portare a casa la pelle solo grazie al coraggio e alla forza di Vianello, che rimase per ore legato al timone.
Quel Moro fu il precursore dei Mori successivi, dal Moro di Venezia III che conquistò nel 1989 il mondiale maxi con al timone Paul Cayard fino a quelli che in seguito infiammarono la sfida delle sfide: la Coppa America. Una spedizione che Gardini concepì sin dall’inizio non solo come una impresa sportiva, capitanata dalla Compagnia della Vela di Venezia, sempre con Cayard al timone, ma anche come una sfida tecnologica che avrebbe reso Montedison, con i suoi materiali avanzati impiegati nella realizzazione dello scafo, ancor più famosa nel mondo. Tant’è che Italo Trapasso, che era a capo della chimica del Gruppo, fu nominato da Gardini Vicepresidente del Sindacato de “Il Moro di Venezia”.
Il primo Moro di Coppa America fu varato nel marzo 1990 a Venezia. Fu un evento fastoso con tutta la città e centinaia di ospiti illustri presenti; un avvenimento di rilevanza mondiale, trasmesso in TV, la cui regia fu affidata a Franco Zeffirelli, con musiche di Ennio Morricone. Madrina del varo fu la figlia più giovane di Gardini, Maria Speranza.
In quei mesi, avevo aiutato Gardini a curare i dettagli e i decori dei Magazzini del Sale, a Venezia, allestiti appositamente per la sfida alla Coppa America. E insieme lavorammo anche al Libro ufficiale della sfida del Moro di Venezia, che conteneva i bozzetti del leone simbolo del Moro e aveva una copertina lucida rosso carminio con il leone in rilievo.
Una sera a Palazzo Dario, dove abitava quando stava a Venezia, feci ascoltare a Gardini la canzone “Listen to the Lion” del grande cantante irlandese Van Morrison. Musica e testo gli piacquero molto e Gardini decise di inserirne le parole, che parlavano dei viaggi per mare dei vichinghi verso l’America, subito all’inizio della pubblicazione. La stessa canzone divenne uno dei motivi musicali ufficiali del Moro, le cui imprese venivano trasmesse tutti i giorni da Tele Montecarlo, con commentatori tecnici d’eccezione come Cino Ricci, già protagonista della precedente sfida italiana in Coppa America di “Azzurra”.
Nel 1992 il Moro di Venezia vinse la Louis Vuitton Cup battendo la Nuova Zelanda e si guadagnò così il diritto a disputare la finale di Coppa America a San Diego contro gli americani. Timonato da Paul Cayard, Il Moro eliminò in semifinale Francia e Giappone e in finale sconfisse i neozelandesi, divenendo così la prima imbarcazione di un paese non anglofono a poter ambire alla coppa in 141 anni di storia del trofeo.
Nella sfida finale contro il defender, disputatasi sempre a San Diego, il Moro però fu sconfitto per 4-1 dall’imbarcazione americana del miliardario petroliere americano Bill Kock, “America Cube”, capitanata da Harry Buddy Melges. Fu una grande delusione ma era stata comunque una straordinaria avventura, che aveva fatto innamorare tutti gli italiani inchiodati davanti alla tv di uno sport come la vela e reso Gardini estremamente popolare.
La fase finale di quell’avventura era cominciata esattamente un anno prima, nell’estate del 1991, con il campionato mondiale degli scafi di Coppa America, disputatosi anch’esso a San Diego. Gardini volle che lo accompagnassi. Stavo in hotel a dormire ma vivevo praticamente tutto il resto della giornata con Raul a bordo del suo yacht. Per ingannare il tempo e anche per stemperare un po’ il nervosismo in attesa delle gare, scrivevamo appunti sui materiali avanzati e sulle tecnologie di Montedison impiegate sul Moro in vista della pubblicazione di un vero e proprio documento aziendale sull’argomento. Il marinaio Angelo talvolta preparava qualcosa da bere o da mangiare e si univa a noi, prendendoci in giro e dicendoci di smettere di lavorare.
Durante le regate salivano a bordo dello yacht d’appoggio diversi parenti ed ospiti e poi seguivamo tutti insieme con trepidazione le competizioni in mare aperto, con la nostra imbarcazione a motore ferma ma paurosamente ondeggiante nella marea lunga del Pacifico, mangiando di continuo banane per combattere il mal di mare e non sentire l’odore acre del carburante. Gardini di tanto in tanto prendeva un piccolo motoscafo e raggiungeva il Moro per trasferire a Cayard e compagni tutta la sua determinazione e il suo incoraggiamento.
Alla fine, il Moro vinse quel mondiale, dimostrandosi superiore come imbarcazione ed equipaggio a tutti gli altri contendenti. L’avvicinamento alla sfida di Coppa America era cominciato nel migliore dei modi. Ricordo molto bene Gardini e Cayard, durante la premiazione, raggianti, circondati da tutti i membri della squadra del Moro. E fu un’emozione da brivido quella sera, rientrando tardi in hotel, ascoltare sul lungomare di San Diego gli altoparlanti in festa che diffondevano ancora a tutto volume “Listen to the Lion”, con la voce di Van Morrison che ruggiva proprio come il nostro leone di Venezia. Marco Fortis
“Decido io”, Raul Gardini trent’anni dopo. Filippo Tabacchi su L'Identità il 22 Luglio 2023
“Decido io”, diceva e così fece anche quella mattina di trent’anni fa, alle 8:15 del mattino, quando una calda Milano aveva appena bevuto il caffè e stava ancora sonnecchiando. Si sparò alla tempia con la Walther PPK, la pistola di James Bond e in fondo lui un po’ Bond lo era stato, avventuriero e con una vita avventurosa, sempre impeccabile nel vestire, iconico sapendo di esserlo. Ma Bond non muore mai, Raul invece era morto per davvero. Il provinciale di Ravenna, Il Contadino, arrivato a Piazza Affari dopo scalate ostili, sempre all’ attacco, sempre davanti alle sue truppe, sempre in prima fila, sempre contro tutto e tutti anche quando non era così ma a lui serviva essere così, un carro armato, fermato da un colpo di 7.65 alla tempia, A Palazzo Belgioioso esattamente trenta, lunghissimi anni fa. Era già ricco, di una famiglia di campagna che aveva il proprio capitale nella terra emiliana, laboriosa e poco godereccia, senza i lussi che la borghesia contadina fatica appunto a concedersi . Ma lui voleva di più, non voleva tutto, non gli bastava tutto, ma sempre di più e non si trattava solo di quattrini. Entrò giovane nel Gruppo Ferruzzi, una creatura strana creata da suo suocero Serafino, un genio con lo sguardo furbissimo e i baffetti bianchi che era partito vendendo per i paesini oli e sementi con la bicicletta ed era diventato il leader più grosso gruppo agroalimentare italiano e uno dei players mondiali, arrivando a possedere terre ed impianti anche negli USA. Ma Raul volava di più, voleva essere il, numero uno tra i numeri uno, primus e basta senza inter pares. Morto Serafino nel 79 in un disastro aereo, le figlie e il figlio di Ferruzzi gli diedero le deleghe operative del gruppo e lui scateno una tempesta, che sconvolse il cosicdetto salotto buono della finanza italiana , che non lo digerì mai e di cui lui non si sentiva parte parte ma sapeva che si sarebbe dovuto sedere con quelli che lui considerava degli elefanti invecchiati in una savana chiusa da sempre. Cercò l’ alleanza con chi dava le carte , quel croupier e padrone del casinò che era il dominus di Via dei Filodrammatici ovvero Cuccia, vero padrone del capitalismo italiano, come l’ Innominato di manzoniana memoria il quale non rispondeva a nessuno tranne che a se stesso. L’ accordo ci fu, poi si ruppe rovinosamente ,poi lo ottenne ancora e alla fine il giocattolo si ruppe. Acquisì Standa, La Fondiaria, Il Messaggero, migliaia di immobili, investimenti miliardari nello sport, scalò la Montedison contro il parere di tutti e allora il Vecchio si arrabbiò davvero senza battere ciglio. Immaginò di creare il più grande colosso agro alimentare industriale del mondo, partecipando alla creazione dell’ Enimont, una joint venture con l’ Eni come socia al 40% ed il restante 20% flottante in Borsa, ma pensava già da mesi come accaparrarsi la maggioranza assoluta. Decido io, la chimica sono io, disse a Padova. Ma il colosso pubblico – privato aveva le fondamenta di argilla e i partiti non si sarebbero fatti sfilare la chimica da sotto il culo e comincio un’ altra guerra che lo portò alla rovina, era una battaglia persa in partenza e Raul pensava che pagando , a carissimo prezzo, l’ avrebbe portata a casa anche stavolta. Il gruppo era carico di debiti e quando in piena Tangentopoli, il procuratore Borrelli disse un giorno ” abbiamo acceso un faro su Mediobanca”, il salotto buono capì subito e qualcuno cominciò davvero a preoccuparsi. Il faro non illuminò mai quella direzione e spostò la sua luce accecante sull’ anello debole del capitalismo italiano, il Gruppo Ferruzzi, la sua obesità di quattrini spesi e quella voragine di debiti con le banche. La famiglia gli tolse le deleghe, lui ricevette una cifra mostruosa pari 505 miliardi cash per togliersi dalla palle: era diventato ricco oltre ogni immaginazione ma aveva perso. La sconfitta fu bruciante e non si riprese mai. Tentò di distruggere la sua creatura ma non ci riuscì e una pallottola trent’ anni fa mise fine a quel sogno proibito, alla vita di quell’ imperatore ravennate che era ad un passo dal diventare un Dio ma che cadde come Icaro, accecato non dal sole ma dalla sua stessa figura. Ci piace ricordarlo al timone del Moro di Venezia, il suo ultimo grande sogno, col suo berretto e i suoi abiti bianchi, quel miliardo di Winston fumate e spente e accese, una dietro l’ altra, quel sorriso da eterno ragazzo che ammaliò l’ Italia intera. La sua storia dovrebbe essere raccontata più approfonditamente, come forse, molto forse farà la docu fiction su Rai1 in onda stasera, ma il suo ricordo sarà impossibile da dimenticare, mai oblio ci sarà . Non abbiamo più visionari nel nostro paese ma solo personaggi che pensano a domattina e non ai prossimi dieci o venti anni. Amo il vento, diceva. Aveva ragione.
Personalmente sono dell’idea che la vita debba essere vissuta fino in fondo e non per finta, anche se talvolta c’è da farsi venire il mal di stomaco.»
Raul Gardini moriva trent’anni fa: nascita e crollo di un impero che ha cambiato Ravenna. L’impatto sull’economia, i palazzi del centro, il Pala De André, lo scudetto del Messaggero volley. La mattina del giorno di Sant’Apollinare del 1993 la notizia del suicidio dell’imprenditore. La nautica, una delle grandi passioni dell’imprenditore Raul. CARLO RAGGI il 23 luglio 2023 su ilrestodelcarlino.it.
"Non ti dimenticheremo", una promessa, un impegno, di più, un imperativo, vergato centinaio di volte nei quadernetti sui tavolini dentro San Francesco, molti con calligrafia incerta, semplice, a testimoniare come Raul fosse sentito come uno di loro anche dalle classi sociali che nulla avevano a che spartire con il potere economico.
Lo disse bene Cristina Muti: "Abbiamo perso uno di noi, un fratello di tutti". Perché in realtà Raul Gardini, per i ravennati doc, era rimasto ‘il contadino’ di sempre, che giocava a carte, andava a caccia, aveva la passione per le barche e la velocità.
Anche quando le sue imprese a livello internazionale riempivano ogni sera i telegiornali, ogni mattina i quotidiani. Quando quella mattina del giorno di Sant’ Apollinare di 30 anni fa si diffuse la notizia che si era tolto la vita, a Milano, moltissimi ravennati accorsero a Marina, davanti al Gran Hotel, luogo di abituale dimora estiva per Idina, la moglie. Solo poche ore prima si erano salutati a Milano e l’appuntamento era per l’indomani e invece poco dopo le 8 arrivò la tragica notizia. Una moltitudine silenziosa, addolorata, incredula, peraltro già scossa da mesi, da quando quotidianamente l’impero Ferruzzi stava precipitando dalle stelle della finanza e dell’economia mondiale alla polvere dei ribassi borsistici e dell’inchiesta giudiziaria.
Una testimonianza sincera di solidarietà, una moltitudine che si ampliò a dismisura alla domenica, alla camera ardente in San Francesco e nel pomeriggio di lunedì 26 luglio quando si svolsero i funerali. Una testimonianza che voleva essere anche un riconoscimento per i traguardi raggiunti da Gardini negli undici anni in cui era rimasto alla guida del Gruppo Ferruzzi (fino al novembre 1990) e che enormi ricadute positive avevano avuto sull’economia ravennate e, quindi, sull’occupazione per moltissime persone: a Ravenna i dipendenti del Gruppo raggiunsero quota milleduecento. Che inevitabilmente adesso temevano per il futuro. Ripercorriamo, allora, in questo trentennale da quel tragico sparo (indotto in Raul dall’inaccettabile consapevolezza di essere in un vicolo cieco per il fatto che gli era impedito di accedere ai documenti societari per la propria difesa), gli anni della costruzione dell’impero, i cui confini andavano dall’Europa agli Usa all’Argentina.
Un impero le cui fondamenta venivano da lontano, dagli anni del dopoguerra: Serafino Ferruzzi, senza conoscere una parola di inglese, divenne uno dei più importanti imprenditori del commercio mondiale dei cereali, con base a New Orleans, città che gli conferì anche la cittadinanza onoraria. E quando negli anni Sessanta accolse il giovane Raul, fidanzato con la giovanissima figlia Idina, nelle file di quell’impero, ben pochi a Ravenna ne conoscevano l’estensione, la portata finanziaria. Furono scoperte dopo la tragica morte di Serafino, la notte del 10 dicembre 1979 quando l’aereo su cui stava rientrando da Londra si schiantò contro un mulino alle porte di Forlì, cinque le vittime.
Fu allora che la famiglia Ferruzzi consegnò lo scettro del comando a Raul. Il quale rivoluzionò la gestione puntando, con non poco azzardo, sulle mirabolanti azioni finanziarie e acquisizioni societarie per poter raggiungere comunque gli obiettivi che aveva in testa, obiettivi diversificati, dalla produzione e trading dei cereali al calcestruzzo, dallo zucchero all’olio di semi, e poi la chimica con la grande scommessa sul bioetanolo, ricavato dalla soja, "il carburante verde del futuro".
Per quanto Serafino amasse restare nell’ombra, così non fu per le iniziative, spesso clamorose, del Gruppo Ferruzzi guidato da Gardini. Iniziative anche benefiche e locali, come nel 1982 il lancio di una sottoscrizione a livello cittadino per l’acquisito della prima Tac per l’ospedale di Ravenna: entrò in funzione nel novembre ‘83. Mese dopo mese i ravennati si accorgevano che il volto della città stava cambiando, a cominciare dal cantiere a palazzo Prandi, in via D’Azeglio, che Gardini acquistò e fece ristrutturare per farne residenza e luogo di rappresentanza, un palazzo sempre più frequentato da nomi illustri della borghesia imprenditoriale italiana dell’epoca, da Agnelli a De Benedetti, da Romiti a Cefis: eravamo alla fine degli anni 80, quando Gardini iniziò la scalata alla Montedison.
Via D’Azeglio venne presto occupata dalle grosse auto di rappresentanza, Mercedes grigie o nere con i vetri fumé e l’antenna del radiotelefono (a Ravenna a disposizione dei manager se ne contava una trentina) condotte da autisti guardiaspalle armati addestrati alle tecniche antisequestro (che sfrecciavano nelle corsie riservate a bus e mezzi di soccorso). E non mancava la Ferrari F 40 di Carlo Sama, il cognato di Raul che nel frattempo era andato ad abitare nell’edificio ristrutturato in angolo a via Pasolini davanti a palazzo Prandi. Un altro cantiere già era spuntato in via Guerrini per la costruzione del ‘palazzo di vetro’ dove trovò sede la Calcestruzzi guidata da Lorenzo Panzavolta e a inizio 1990 in via Diaz fu la volta della ristrutturazione del palazzo che aveva ospitato prima l’Upim poi la Rinascente e che divenne la sede della Ferfin (Ferruzzi Finanziaria, la holding) un Gruppo che valeva 25mila miliardi di lire.
In quel tempo Gardini trasferì la residenza a villa Monaldina, un casolare di campagna appena ristrutturato, sulla strada per Punta Marina e lì atterrava con l’elicottero. Nel 1987 Raul Gardini acquisì la maggioranza delle azioni di Montedison e con essa si ritrovò in tasca l’allora primo quotidiano di Roma, il Messaggero che, passati due anni, nel dicembre ‘89 sbarcò a Ravenna con una frotta di giornalisti e una redazione in via Salara vicina a quella del Carlino. Seguì l’apertura di altre tre redazioni in Romagna. Tutte le edicole furono monopolizzate dal nome ‘Messaggero’ e lo stesso nome comparve sulle magliette dei pallavolisti ravennati.
Gli appassionati di volley non potranno mai dimenticare lo scudetto del Messaggero Volley Ravenna conquistato il 30 maggio 1991 al ‘Pala Mauro de Andrè’ il Palazzo dello sport e delle arti voluto da Raul (e da Sama) e che porta il nome del figlio del manager della Ferruzzi (a capo di Eridania), Giuseppe, costruito fra il 1988 e il 1990. L’espansione del Gruppo Ferruzzi indusse le banche collegate alle attività finanziarie delle centinaia di società controllate ad aprire sedi a Ravenna. Questo significò altra occupazione con ulteriori ricadute per gli esercizi commerciali di qualità e per bar e ristoranti. L’apice fu raggiunto nel 1990 con la nascita di Enimont, matrimonio fra Montesidon ed Eni, la più grande impresa pubblico - privata sul fronte della chimica a livello italiano.
"La chimica sono io" disse Raul, ma poi dovette cedere ai ricatti dei politici e alle imposizioni della famiglia.
Vendette le azioni Enimont possedute dal Gruppo con un ritorno di 2.805 miliardi di lire, poi a novembre ‘90 le dimissioni dal Gruppo e il 30 giugno ‘91 il divorzio dalla famiglia.
Gli rimase l’impresa nella Vuitton Cup - Coppa America a maggio ‘92 a San Diego e la grande festa in piazza del Popolo. A gennaio ‘93 ecco il coinvolgimento del Gruppo in Tangentopoli con l’arresto di Panzavolta. A luglio, il colpo di pistola.
Nel giro di pochi mesi il Gruppo Ferruzzi fu commissariato e smembrato, tutte le società lasciarono Ravenna, così anche le banche, Il Messaggero chiuse la redazione. Il velo calò, definitivamente, sull’impero evaporato.
Dagospia sabato 22 luglio 2023."LA GARANZIA DI GARDINI PER LA SCALATA A MONTEDISON FU L’IMPERO DI SERAFINO FERRUZZI" – IL RACCONTO DI SERGIO CUSANI, CONSULENTE FINANZIARIO DI RAUL, CHE FINI’ IN CARCERE LO STESSO GIORNO (23 LUGLIO 1993) IN CUI IL CAPITANO D’IMPRESA DI RAVENNA SI SUICIDO’ – "QUANDO GARDINI DIVENTO’ L’AZIONISTA PIÙ IMPORTANTE DI MONTEDISON, CHIESERO ALLA BANCA DUEMILA MILIARDI DI LIRE. OVVIAMENTE LASCIANDO IN GARANZIA LE AZIONI MONTEDISON. PER QUALSIASI ALTRA PERSONA AVREBBERO CHIAMATO LA NEURODELIRI, IN QUEL CASO LE BANCHE SAPEVANO BENISSIMO CHE C’ERANO PIÙ DI 1.200 MILIARDI DI LIQUIDITÀ LASCIATI DA SERAFINO FERRUZZI ALL’ESTERO..."
Trent’anni fa Raul Gardini si toglieva la vita con un colpo di pistola nella sua casa di Milano. Era il 23 luglio del 1993, un venerdì. Il capitano d’industria sentiva che gli inquirenti stavano arrivando a lui e si suicidò il giorno dei funerali di Gabriele Cagliari, il presidente dell’Eni a sua volta in carcere su richiesta dei magistrati di Mani Pulite. Anche Cagliari, disperato, aveva deciso di farla finita soffocandosi in cella.
Quel giorno finiva a San Vittore anche Sergio Cusani, il consulente finanziario che collaborava da anni con la famiglia Ferruzzi. Gardini aveva potuto portare a termine la scalata della Montedison grazie alle garanzie economiche che l’impero creato dal nulla da Serafino Ferruzzi gli aveva messo a disposizione. Il ruolo di questo grande imprenditore è stato fondamentale.
Perché partendo da Ravenna aveva costruito una realtà dalle fondamenta solidissime, un gigante di grande affidabilità economica. Ferruzzi fu tra i primi a costruire un sistema logistico e di trasporto privato per gestire in autonomia tutta la filiera delle sue attività industriali.
Estratto dell'articolo di Piero Fachin per “QN – Quotidiano Nazionale” sabato 22 luglio 2023.
"Accidenti: abbiamo il 14%", disse Raul Gardini. Era lunedì, il 6 ottobre del 1986, Gardini era insieme a Carlo Sama e parlava al telefono con Umberto Maiocchi, il responsabile Borsa della Banca di Suez Milano a cui aveva affidato il compito di comprare, senza definire né il prezzo né la quantità, le azioni del colosso chimico. Di fatto dava avvio alla scalata non programmata, non studiata, non preparata.
La telefonata, quella telefonata che tanto cambiò di molte storie personali e di un pezzo della storia d’Italia, partiva dall’ufficio di Milano di un giovane manager. Partiva dall’ufficio di Sergio Cusani, proprio quel Sergio Cusani: il dirigente destinato a diventare l’uomo simbolo di Mani Pulite, il principale imputato del processo per la maxi-tangente Enimont, quello che tenne testa ad Antonio Di Pietro e a tutto il pool, il consulente condannato a 5 anni e 10 mesi scontati a San Vittore fino all’affidamento in prova, alla piena libertà, alla completa riabilitazione. L’uomo a cui tutti riconoscono tenacia e coerenza. "Ho le mie colpe, e le colpe restano", disse una volta davanti a una platea di magistrati.
“Sta iniziando male - sostiene Cusani, con voce pacata ma decisa - perché io non voglio partire da questo. Io sono qui solo per ricordare Serafino Ferruzzi, uno dei più grandi imprenditori italiani". Perché senza di lui, senza Ferruzzi, nessuna cosa sarebbe andata come è andata: Gardini non avrebbe mai scalato Montedison e nemmeno Enimont sarebbe mai nata. Parla piano, Cusani. E misura le parole, una a una. Riannoda i pensieri, mette in fila i ricordi fino a commuoversi.
Serafino Ferruzzi, allora. Partiamo da lui, dall’imprenditore di Ravenna. Come vi siete conosciuti?
"Facevo apprendistato da Aldo Ravelli, uno dei più importanti commissionari della Borsa di Milano. Serafino veniva nello stabile dove lavoravo per incontrare un broker navale che aveva l’ufficio vicino a noi e che ci presentò Ferruzzi, che nessuno di noi conosceva".
Prima impressione?
"Bella. Una persona gentile. Garbata. Un bel sorriso. Quei due occhietti con uno sguardo al laser. Soprattutto, una persona curiosa di quello che avveniva nel mondo della finanza. Iniziai ad andare a trovarlo il mercoledì nel suo bugigattolo alla Borsa Merci di Milano, e a dargli la mia opinione sui mercati finanziari".
(...)
Il primo incarico?
"Mi chiama dal Brasile e mi dice: ‘Ho sorvolato (aveva un Bombardier Learjet transoceanico) in Veneto la Torviscosa, una tenuta di 4.500 ettari. I sentieri interpoderali dell’azienda sono asfaltati! Mai vista una cosa così in vita mia in tutto il mondo. Costa 42,5 miliardi di lire, se la rivendessi frazionata ne prenderei minimo 90. Ma non la venderei mai’".
Voleva comprarla?
"Ci sto arrivando: ‘Per domani mattina - mi disse - ti ho fissato un incontro con Enrico Cuccia a Mediobanca. Occupati tu della Torviscosa’. Io per tutta la notte studiai le carte che Ferruzzi mi aveva fatto avere, elaborai una scheda molto sintetica, una paginetta, con cui la mattina alle 11 mi presentai in banca.
Cuccia mi disse: cosa ha preparato per me? Io gli diedi la scheda. Lui commentò: bene, sintetica e chiara. Dica al dottor Ferruzzi che domani avrà a disposizione 42,5 miliardi. Ma lei domani mi farà avere tutta la documentazione alla base di questa scheda. Se ci sarà qualcosa che non corrisponde non dovrà più farsi vedere in questa banca, sarà il portiere a non farla entrare".
(...)
Chi era allora Ferruzzi per l’Italia?
"Uno sconosciuto. Anche se era ritenuto il maggior commerciante privato del mondo di prodotti cerealicoli. Alla borsa merci di Chicago quando entrava suonavano la campanella in segno di omaggio".
Commerciante o industriale?
"Allora commerciava. Ma la sua logica era industriale".
Cosa vuol dire, nel concreto?
"Oggi si esternalizza tutto. A quei tempi, Serafino invece aveva un progetto diverso, allora all’avanguardia. Puntava su logistica, trasporti, silos di stoccaggio. Negli Usa alla foce del Mississippi aveva una enorme struttura di silos, 170 chiatte da mille tonnellate per il trasporto fluviale. Aveva una sua flotta di 16 navi per 752mila tonnellate di carico secco. Il più grande armatore privato d’Europa. Serafino voleva il totale controllo della filiera produttiva. Una visione quasi profetica: oggi, in un mondo di guerre e di tensioni, sta ritornando di grande attualità".
(...)
L’ultima volta che lo ha visto?
"Due giorni prima della morte, l’8 dicembre del 1979 a Roma. E per la prima volta con lui c’era il genero, Raul Gardini. Avevo invitato in Italia il più grande produttore di caffè del mondo, un brasiliano di origine turca: Atallà".
Quanto valeva l’impero di Ferruzzi alla sua morte?
"Le stime dicono tre, quattromila miliardi di lire in proprietà. E in più 1.200 miliardi in liquidità, soprattutto all’estero dato che le sue grandi operazioni di trader internazionale erano estero su estero".
Quando entrò in scena Gardini?
"A metà degli anni Ottanta la finanza italiana, e in particolare Mediobanca, premeva affinché il gruppo Ferruzzi – che aveva Gardini come leader assoluto nella gestione – entrasse nel cosiddetto ‘salotto buono’, con una partecipazione del 2 e 3% in Montedison. C’era pressione su Gardini, anche dai giornali. Ricorda i titoli?".
Li ricordi lei.
"Il Corsaro entra in Montedison. L’ora di Raul. Il pirata in azione. Insomma, lo tiravano da tutte le parti perché entrasse. Gardini venne a parlarne con me".
E lei che gli disse?
"Raul, se devi entrare, tu rappresenti il gruppo Ferruzzi. Il mio consiglio è di distinguerti per ciò che rappresenti. Prendi il 4, 5 per cento. Primus inter pares".
Come reagì?
"Mi fece una domanda: tu mi sai spiegare cosa c’è in Montedison? Fammi per favore una scheda, una fotografia della situazione. Io mi misi a lavorare due o tre giorni, gli feci una bella sintesi. Nella nota finale gli dissi: escluso il patrimonio immobiliare, comunque notevole, ha un valore molto superiore a quello di Borsa".
E arriviamo a quel lunedì del 1986, il 6 ottobre.
"Gardini venne da me verso le 11. Aveva appena dato incarico, un ordine aperto non circoscritto, di comprare azioni Montedison alla banca di Suez. Gli chiesi: che ordine hai dato, a che prezzo? Lui disse: ho detto di comprare tutto quello che viene. Poi alzò il telefono, e si mise a dire, con un mezzo sorriso che era anche un mezzo ghigno: "Accidenti". Gli chiesi: "Accidenti cosa?" E lui: "Abbiamo il 14%". Era diventato l’azionista più importante. E non penso assolutamente che i soci Ferruzzi ne fossero informati".
Fine della storia?
"Macché. Andava pagata l’operazione di acquisto. Subito mi attivai con Carlo Sama per fissare un incontro martedì mattina presto con Nerio Nesi, presidente della Banca nazionale del lavoro, con Raul Gardini e Carlo Sama. Chiesero alla banca duemila miliardi di lire. Ovviamente lasciando in garanzia le azioni Montedison".
Ma se la stessa garanzia l’avessimo proposta lei o io?
(Cusani sorride)
"Ci avrebbero cacciato o avrebbero chiamato la neurodeliri perché ci ritenevano pazzi. Ma in quel caso l’impegno era preso da Raul per il gruppo Ferruzzi. Cioè, il patrimonio di Serafino Ferruzzi è stato la migliore garanzia per l’affare Montedison. Le banche sapevano benissimo quale fosse il patrimonio del Gruppo e che c’erano più di 1.200 miliardi di liquidità lasciati da Serafino Ferruzzi all’estero".
Estratto da Gente giovedì 27 luglio 2023.
Carlo Sama è stato per quasi due decenni al fianco di Raul Gardini, soprattutto in quegli anni 80 che hanno segnato la grande cavalcata del top manager della Ferruzzi, dalla conquista della Montedison alla scommessa di Enimont, dalla creazione di un grande gruppo industriale di portata internazionale alle sfide veliche in Coppa America con il Moro di Venezia. Gardini e Sama avevano sposato rispettivamente Idina e Alessandra, due delle figlie di Serafino Ferruzzi, il fondatore del gruppo (gli altri due figli erano Arturo e Franca).
Le loro strade si erano separate nei primi anni 90, quando ci fu la rottura tra Raul e Idina da una parte e il resto della famiglia dall’altro. Di lì a poco, nel 1993, Gardini, travolto dall’inchiesta Mani pulite, si suicidò. Ora una docufiction, andata in onda domenica scorsa su Rai1, ripercorre parte di questa storia. Ma con una serie di errori e omissioni che Sama stesso, come testimone privilegiato, ha voluto ricostruire per Gente nell’articolo che segue. (u.b.)
Estratti dell’articolo di Carlo Sama per Gente giovedì 27 luglio 2023.
Il docufilm su Raul Gardini è assai criticabile perché, anziché ricostruire la sua vera storia, fornisce di lui un’immagine quasi caricaturale. Il contrasto tra i dialoghi egocentrici, vanesi e logorroici del Raul Gardini fittizio inventato dalla sceneggiatura e le interviste contenute nello stesso docufilm al Gardini reale, uomo schivo e di poche parole, semplici ed efficaci, è abissale. Ne avranno avuta chiara evidenza sin da subito i telespettatori.
La sceneggiatura, inoltre, anziché esplorare le ragioni che hanno prima portato allo straordinario successo mondiale e poi alla crisi del Gruppo Ferruzzi-Montedison e al suicidio di Gardini, si appiattisce sotto forma di una squallida telenovela sui presunti contrasti tra Gardini e gli altri membri della famiglia Ferruzzi: una sceneggiatura che appare evidentemente ispirata esclusivamente dalle testimonianze e dal risentimento, una sorta di vera e propria regia, di ex manager minori espulsi dal Gruppo Ferruzzi nonché degli stessi eredi Gardini.
Nonostante il docufilm contenga alcune testimonianze di notevole valore personale e storico (Muti, Zeffirelli, Cayard, Fortis), esso si riduce perciò nella sua parte sceneggiata e recitata al rango di un mero strumento di gossip di quart’ordine e di vendetta mediatica contro Alessandra (e il sottoscritto, in quanto suo marito), Arturo e Franca Ferruzzi, rei, secondo il docufilm, di “aver tradito” Gardini. Cosa mai avvenuta nella realtà. (…)
Immediatamente all’inizio del docufilm appare un quadro con scritto “Chi ha tradito Raul?” che introduce uno dei temi chiave poi ripetutamente ripreso nel corso del filmato: Gardini sarebbe stato tradito dalla famiglia Ferruzzi, la quale, secondo la sceneggiatura, gli avrebbe fatto mancare il proprio appoggio nei momenti decisivi della sua vita di leader del Gruppo. Si tratta di un falso storico grave, perché la famiglia Ferruzzi non ha mai fatto venir meno il suo totale sostegno a Raul (…) Riguardo a Enimont, va subito detto che la decisione della vendita della quota di Enimont in possesso di Montedison fu presa dallo stesso Gardini in totale autonomia e comunicata solo in seguito agli altri membri della famiglia Ferruzzi.
In un solo caso Arturo Ferruzzi e le sorelle Alessandra e Franca hanno contestato Gardini: in occasione della sua inaccettabile proposta di redistribuzione immediata e totalmente arbitraria delle quote azionarie di controllo del Gruppo Ferruzzi-Montedison tra i figli di Arturo, Alessandra, Franca e Idina, cioè direttamente a favore delle terze generazioni, con grave pregiudizio patrimoniale per le seconde generazioni ancora viventi. È su questo unico aspetto controverso, sul quale Raul Gardini si impuntò in modo ostinato, che maturò la separazione tra la famiglia Gardini e gli altri figli di Serafino Ferruzzi.
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Dal docufilm emerge una contrapposizione netta tra la figura di Gardini, presentato come un genio assoluto degli affari, dell’industria e della finanza, e gli altri membri della famiglia Ferruzzi, fatti passare in modo irriverente per persone senza alcuna competenza professionale e conoscenza del mondo del business, nonché come figure pavide o perennemente dubbiose sulle scelte di Raul. Ciò è estremamente lesivo dell’immagine dei membri della famiglia, in particolare di Alessandra e Arturo Ferruzzi, più volte protagonisti negativi, impacciati o ridicoli, di scene del docufilm. In questi casi, la sceneggiatura rappresenta una distorsione dei fatti storici, strumentale e priva di fondamento. (…)
In realtà, nella storia economica mondiale vi sono ben pochi casi in cui una famiglia (come quella dei Ferruzzi) ha messo a disposizione di un manager (come Gardini) un patrimonio così ingente dandogli pieni poteri su un lunghissimo arco temporale e sostenendolo sempre con coraggio anche in fasi complesse e finanziariamente sfidanti come la scalata di Montedison o le vicende di Enimont.
(…) È indubbio che Gardini sia stato un personaggio straordinario (…). È altrettanto indubbio, però, che Gardini aveva anche dei limiti, come tutti gli esseri umani, e che la sua opera come manager è anche costellata di alcuni errori decisivi che molto hanno pesato sul destino del Gruppo Ferruzzi e di cui il docufilm non parla affatto. Innanzitutto, dopo la scalata di Montedison, Gardini non si preoccupò minimamente di ridurre l’indebitamento della Ferruzzi. (…) Gardini non si rivelò, in Montedison, un amministratore e un ristrutturatore efficace come lo era stato in Ferruzzi, dove i suoi manager storici erano di ben altro livello e lo avevano sempre supportato con successo. Tuttavia, ciò premesso, curiosamente e in modo assolutamente ridicolo, in alcune scene conclusive del docufilm è invece Gardini a rinfacciare agli ex famigliari di Ferruzzi di non aver venduto degli asset non strategici in epoca successiva in modo da ridurre l’indebitamento!
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In un’altra sequenza, di fronte all’opportunità di comprare o vendere la quota detenuta da Montedison in Enimont la sceneggiatura si immagina una riunione tra Gardini e i membri della famiglia Ferruzzi in cui questi ultimi vogliono vendere la quota e mettono in minoranza Raul che invece vorrebbe comprarla. Gardini si mostra adirato con i famigliari a cui rinfaccia che “era un rischio che si doveva correre”. Si tratta di una riunione in realtà mai avvenuta perché la decisione di uscire da Enimont fu presa direttamente da Gardini in totale autonomia e comunicata solo successivamente ai membri della famiglia. Non solo. A essi Gardini comunicò anche che intendeva dare le dimissioni da presidente del Gruppo e da tutte le cariche da egli ricoperte in Italia, in segno polemico verso il sistema politico italiano che lo aveva messo con le spalle al muro sulla vicenda Enimont. E i famigliari furono altresì informati che la presidenza del Gruppo sarebbe stata presa da suo figlio Ivan. (…)
Maturò in seguito anche la decisione di Gardini di redistribuire le quote di controllo del Gruppo Ferruzzi detenute dai quattro figli di Serafino ancora viventi direttamente ai loro figli, mantenendo Ivan Gardini nel ruolo di presidente della Ferruzzi. Si trattò di un piano forzato, una proposta di esproprio a dir poco rocambolesca, che non poteva evidentemente trovare d’accordo Arturo, Alessandra e Franca. L’ostinazione di Gardini nel portare avanti a tutti i costi questo assurdo piano, senza lasciare ai parenti alcuna alternativa, generò la rottura con gli altri membri della famiglia. (…)
Un’altra grave distorsione della storia è rappresentata da come si raccontano le vicende del Moro di Venezia. (…) Nel docufilm gli sceneggiatori cercano di dimostrare che se il Moro non è riuscito a vincere la finale di Coppa America è per colpa dei membri della famiglia Ferruzzi che non avrebbero concesso a Gardini ulteriori finanziamenti per costruire una imbarcazione tecnologicamente più avanzata e all’altezza della sfida finale. Vi è addirittura una sequenza del tutto inventata in cui Gardini incontra Arturo Ferruzzi per chiedergli altre somme di denaro da investire nel Moro ma Arturo gliele nega a male parole. La Montedison ha invece profuso ogni energia per sostenere l’avventura di Gardini nell’America’s Cup: 160 miliardi di lire solo di sponsorizzazione, oltre a decine di milioni di dollari direttamente dal patrimonio degli eredi Ferruzzi. (…)
Invece gli sceneggiatori del docufilm sono riusciti a creare un falso storico, totalmente assurdo, secondo il quale Gardini fu lasciato finanziariamente solo ad affrontare la finalissima.
(…) Appare quindi evidente una volta di più che la sceneggiatura del docufilm è principalmente imperniata su una denigrazione reiterata della famiglia Ferruzzi, che avrebbe costantemente “tradito” la fiducia di Gardini. (…)
Infine, anche nelle vicende finali di Enimont e dell’inchiesta giudiziaria a esse collegata, il docufilm non perde l’occasione per far passare Gardini come una “vittima” che non ha potuto difendersi dalle accuse dei magistrati perché “già fuori dal gruppo”. Come se non avesse presa lui stesso, prima della separazione dai famigliari, la decisione di vendere Enimont.
...evidentemente male informata lei stessa dal marito, dichiara in un passaggio del docufilm che io e Sergio Cusani non avevamo dato a Gardini la documentazione per potersi difendere, cosa totalmente falsa perché eravamo regolarmente in contatto e l’abbiamo sempre supportato, offrendogli perfino la totale disponibilità per la copertura delle sue spese legali da parte del Gruppo.
(…) In definitiva. Il docufilm ha perso la grande occasione per raccontare il Gardini “vero”, l’imprenditore, il sognatore, il velista, coi suoi successi e i suoi errori, dipingendolo invece come un vincitore mancato per colpa di una inesistente e costante congiura dei famigliari ai suoi danni. Il docufilm, cioè, è riuscito nella vergognosa impresa di dipingere Arturo, Alessandra, Franca Ferruzzi e il sottoscritto, come i principali responsabili di un destino conclusosi male, quello di Raul Gardini, che è invece sempre stato esclusivamente, nel bene e nel male, nelle sue mani. Carlo Sama
Carlo Sama: «Il suicidio di mio cognato Raul Gardini? Un sacrilegio. Ora coltivo soia in Sudamerica». La maxi tangente Enimont, la condanna, la nuova vita. «Raul era straordinario. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Era avanti su tutto», scrive Stefano Lorenzetto il 13 luglio 2018 su "Il Corriere della Sera". La sua nuova vita è costata a Carlo Sama un occhio della testa. Il destro. «In Paraguay ho avuto il distacco della retina mentre aprivo una strada nella tenuta di famiglia, dentro la più vasta foresta pluviale atlantica del pianeta posseduta da un privato. Sarebbe bastato farmela suturare là con il laser. Invece ho aspettato 20 giorni perché volevo ricoverarmi in una clinica europea. Risultato: 14 inutili interventi chirurgici fra Londra, Roma e Miami. Ed eccomi qua, orbo veggente come Gabriele D’Annunzio». Il protagonista del processo Enimont, inchiodato dal pm Antonio Di Pietro per aver pagato «la madre di tutte le tangenti» e riabilitato di recente dal tribunale di sorveglianza di Bologna, vive fra Montecarlo e il Sudamerica. «Nel bosco mi sono costruito una casa di legno su un albero, a 20 metri da terra, ma confesso che non ci ho ancora dormito. Ho paura dei giaguari: quelli s’arrampicano». Eppure nella sua Ravenna lo considerano l’amico del giaguaro che tradì il proprio mentore, il cognato Raul Gardini. «Il passato è storia. Fa parte di noi. Pensi al povero Ubaldo Lay: bravo attore, ma alla fine tutti se lo ricordano solo come il tenente Sheridan con l’impermeabile». L’accusa gli pesa, e ancor più adesso, a 25 anni dal colpo di pistola alla testa con cui il 23 luglio 1993 l’arrembante magnate del gruppo Ferruzzi-Montedison si uccise nel Palazzo Belgioioso di Milano. «Tra la mia famiglia e Gardini, scelsi la mia famiglia». Cioè la moglie Alessandra Ferruzzi, che, come i fratelli Franca e Arturo, non condivideva la successione decisa da Raul, marito della sorella Idina, la primogenita del fondatore Serafino Ferruzzi. Era il 1991. Gardini fu liquidato con 505 miliardi di lire. «Quello che nessuno sa, è che l’anno dopo ritornammo a parlarci».
Chi fece il primo passo?
«Io. Ci vedemmo in Svizzera. Ruppi il ghiaccio con una battuta: Raul, non ci divertiamo più se non stiamo insieme».
Stare insieme per fare che cosa?
«Avevamo il monopolio mondiale del polipropilene. Ma bisognava investire centinaia di miliardi in ricerca. La Shell era pronta. Avremmo riportato a casa i pozzi petroliferi in Adriatico. E la Edison. L’advisor dell’operazione era Romano Prodi, affiancato da Claudio Costamagna, attuale presidente della Cassa depositi e prestiti. Il principio era banale: rimettere tutto assieme. Dissi a Raul: facciamo un atto di compravendita della Ferruzzi per una lira, poi a bocce ferme sarai tu, da padre di famiglia, a valutarne il vero valore».
Come reagì?
«La proposta gli piacque molto. Ma non se ne fece nulla, perché commise un errore: cercò l’avallo di Mediobanca, cioè di Enrico Cuccia».
E che cosa accadde?
«Le azioni furono svalutate da 1.250 a 5 lire. La Ferruzzi fu oggetto di un trapianto d’organo, con le sue quote di mercato immesse in corpi malati. Sa di che parlo? Eravamo primi al mondo anche nelle proteine e nelle lecitine di soia, nelle penicilline; primi in Europa nello zucchero, negli amidi e derivati, nei semi oleosi, nei mangimi, negli oli di marca; primi in Italia nel calcestruzzo e nelle assicurazioni danni e secondi nell’elettricità».
Che uomo era Raul Gardini?
«Straordinario. Aveva una visione così chiara del mercato che si dimenticava dei tempi. Voleva che le cose fossero fatte per ieri. Fu il primo a parlare di auto elettrica, biomasse, energie alternative. Il mondo era il nostro giardino di casa. Fosse ancora vivo, oggi costringerebbe l’Italia a ridiscutere Maastricht, le quote, tutto».
Perché a 60 anni si uccise?
«Non certo per disonore: non aveva fatto nulla. Temeva di finire come Gabriele Cagliari, 134 giorni nel canile. Quando il presidente dell’Eni si suicidò in cella, Raul mi telefonò: “È morto da eroe”. Pensava solo a quello, all’arresto. Di Pietro lo teneva sulla graticola. Non si lavora una vita per finire in ginocchio da chi ti accusa. Mi hanno raccontato un’orribile storia di guerra sui topi».
Quale storia?
«I soldati catturavano una dozzina di topi e li tenevano a digiuno in gabbia. L’unico che sopravviveva, dopo aver divorato gli altri, veniva liberato perché desse la caccia ai suoi simili nelle trincee».
Gli innocenti non temono il carcere.
«Efrem Campese, capo della sicurezza di Montedison, gli aveva parlato di dieci buste gialle con l’intestazione “F” e di un colonnello della Finanza chiamato da Roma per recapitarle. I destinatari potevano essere Fiat o Ferruzzi. Si figuri se Raul ebbe dubbi. L’avviso di garanzia equivaleva a una condanna».
Lei ebbe 146 imputazioni, mi pare.
«Più o meno. Assolto da tutte, a parte il finanziamento illecito ai partiti e l’inevitabile falso in bilancio».
Fu arrestato il giorno del suicidio.
«Sì. Mi trovavo a Lugano. Telefonai a Palazzo Belgioioso. Rispose Renata Cervotti, la segretaria di Raul. Lo stavano soccorrendo. Non morì subito».
Aleggiano misteri sulla tragedia?
«No, fu tutto lineare. Il comandante che affonda con la sua nave».
Fu dunque un gesto eroico?
«Rispetto la sua decisione e non esprimo giudizi. Sarebbe fargli torto».
È vero che la vedova ha abbracciato la vita religiosa?
«Idina è una donna meravigliosa, come lo era il marito. Oggi non sta bene. La storia dei Ferruzzi non la conosce nessuno. Sono l’unico a poter dire d’aver visto la luna e l’altra faccia della luna. Serafino era un genio, ha segnato il secolo scorso. Il giorno in cui arrivò alla Borsa di Chicago, si fermarono per rispetto le contrattazioni: era entrato Mister Soia, il trader che faceva il mercato».
Ma che bisogno aveva Enimont di versare tangenti ai partiti?
«Nessuno. Si pagava perché non rompessero le balle. Non mi pareva un peccato. Magari una scemata. Ma la politica costa tanto, sa? Non trovo anormale aiutarla. Si doveva fare alla luce del sole».
Foraggiavate tutti?
«Nella migliore tradizione. Avevano stabilito le percentuali. I partiti dalle mani pulite? Qualcuno svolgeva il lavoro sporco anche per conto loro».
Severino Citaristi, tesoriere della Dc, mi raccontò di quando il segretario Arnaldo Forlani lo spedì da lei per ritirare una busta con dentro 2 miliardi e 850 milioni di lire in Cct, circostanza che poi mi fu confermata dallo stesso Forlani.
«In piazza del Gesù ci andai poche volte. E non chiesi mai nulla a Forlani».
Che mi dice della valigia con 1 miliardo di lire consegnata al Pci?
«Bisognerebbe poterlo chiedere a Raul. La portò lui alle Botteghe Oscure».
Centinaia di miliardi in Cct transitarono dallo Ior, la banca della Santa Sede.
«Sono assolutamente consapevole di questo. Ma non fui io a smistarli».
Però il vescovo Donato De Bonis, segretario dello Ior, celebrò le sue nozze nella parrocchia vaticana di Sant’Anna.
«Un caro amico. Aprì il fondo San Serafino per attività di beneficenza in onore del padre di mia moglie. Ogni anno ci versavo la mia gratifica natalizia».
Stefano Bartezzaghi, figlio del Bartezzaghi della «Settimana Enigmistica», la definì «vantaggiosamente inappariscente» e le imputò la «tendenza a strafare».
(Ride). «Giudichi lei. Ho interesse ad apparire sul Corriere della Sera?».
Di che cosa si occupa adesso?
«Mi sarebbe piaciuto cimentarmi nello sport, come mi aveva consigliato Bettino Craxi, magari alla presidenza del Coni. Invece sono rimasto fedele all’antico amore: la terra. Mi occupo di Agropeco, 12.000 ettari fra Paraguay e Brasile, vicino alle cascate dell’Iguazú, e di Las Cabezas, 18.000 ettari a Entre Rios, in Argentina. Produco dalla soia all’eucalipto. E allevo 12.000 capi di bestiame razza Hereford. Ho brevettato un mangime contenente il 5 per cento di stevia, un’erba dolcificante che funge da antibiotico naturale. In campagna rido da solo, come i matti».
Investe ancora nel nostro Paese?
«Beh, no, che domande! L’ultimo affare fu la cessione di un’immobile a Roma, diventato il J.K. Place luxury hotel».
Le restano l’Es Ram resort e il ristorante Chezz Gerdi, a Formentera. Tra gli ospiti, Veronica Lario con figli e nipoti, Piero Chiambretti, Paolo Bonolis, Raoul Bova.
«Chiuso il primo, venduto il secondo. Mai ospitato Bonolis. Però ci venivano Kate Moss e una figlia di Mick Jagger».
Silvio Berlusconi era suo amico.
«Lo è ancora, lo sarà sempre. Fu l’unico a telefonarmi il giorno dell’arresto. E pensare che avrebbe dovuto odiarmi: con Telemontecarlo gli fregavo la pubblicità».
Chi altro le è rimasto vicino?
«Luca Cordero di Montezemolo, Carlo Rossella, Luigi Bisignani. E Sergio Cusani. Il mese scorso si è fatto 400 chilometri, Milano-Bossolasco e ritorno, per stare mezz’ora con le stampelle al matrimonio di Francesco, il mio secondogenito».
Come vede l’Italia a trazione pentastellata-leghista?
«Tutto quello che porta al cambiamento, lo vedo bene. Pensi che Gardini già negli anni Ottanta voleva risolvere il problema degli immigrati. Fece predisporre da Marco Fortis, docente della Cattolica proveniente dalla Nomisma di Prodi, un progetto per rendere coltivabile la fascia mediterranea del Maghreb. Dall’Africa non sarebbe più partito nessuno. Se solo avessimo potuto continuare...». (Si commuove). «Il lavoro era il nostro gioco, la nostra vacanza. È stato commesso un sacrilegio».
Secondo lei i partiti si finanziano ancora in modo illecito?
«Mi pare di sì. Ma non ho i riscontri».
Allora da che cosa lo deduce?
«Dall’odore».
Estratto dell'articolo di Andrea Pasqualetto per il “Corriere della Sera” il 30 giugno 2023.
I baffoni gli davano forza e fascino. Oggi, trent’anni dopo, fanno posto a una barbetta più sale che pepe di tre giorni. Ma la forza di Paul Cayard è oramai scritta nel libro mastro della vela: campione del mondo, coppe, trofei, encomi, un nome, una leggenda. Nel 1992 con il Moro di Venezia di Raul Gardini arrivò lì dove nessuna barca italiana era giunta prima di allora: la finalissima della Coppa America, l’Everest del mare, che si disputava in California nelle acque di San Diego. Furono i mesi in cui l’Italia, incollata alla tv a orari impossibili, si innamorò di lui, lo skipper americano voluto da Gardini alla guida delle regate ed eletto a super manager sportivo.
Dopo il trionfo, però, la tragedia: la mattina del 23 luglio del 1993, giorno in cui doveva essere arrestato, Gardini si puntò l’arma alla tempia e schiacciò il grilletto. Cayard era con lui a Milano nelle stanze di palazzo Belgioioso, teatro del suicidio. E rieccolo in Italia, fra queste barche oceaniche approdate a Genova per la tappa finale dell’Ocean Race, il giro del mondo a vela. Nei giorni in cui il dibattito sulla figura di Gardini è stato riacceso da eventi, incontri e un paio di libri (Solferino pubblica «Di vento e di terra», il romanzo vero di una vita di sfide), Cayard ha deciso di parlare del suicidio: «Per ricordare colui che è stato per me come un padre e un grande amico».
Partiamo dalla fine, da quel colpo di pistola...
«Uno choc totale, non ci potevo credere, quella settimana ero stato con lui fino a due giorni prima, proprio a palazzo Belgioioso. Raul aveva letto del suicidio di Gabriele Cagliari e mi diceva che era una strana cosa, con quel sacchetto di plastica nella testa. Era molto preoccupato. Non voleva finire in carcere anche lui, secondo me perché lì non si sentiva più padrone della sua vita e lui non sopportava l’idea che fossero gli altri a decidergli il destino».
In che senso è stato per lei un padre?
«Avevo 26 anni e non ero nessuno, ha creduto in me, mi ha aperto le porte di casa sua e mi ha aiutato molto. “Paolino — mi ha detto — tu vieni a vivere a Milano e io ti do tutto quello che ti serve”. E l’ha fatto, mi ha dato tutto, soprattutto la fiducia. Quando è morto avevo 33 anni e una professionalità tale che mi è bastata per il resto della vita».
Perché Gardini scelse proprio lei?
«Lui mi disse che a parlargli di me era stata Eleonora (primogenita di Raul, ndr ). Mi aveva visto vincere una regata in Sardegna, dove io ero in sostituzione. Raul ha voluto provarmi e ha deciso subito. Guarda questa foto — ci mostra una foto ingiallita — è quella della prima volta con lui sul Moro, questo sono io, questa è Eleonora di spalle, in bikini, eh, quello è Raul...».
Com’è nata l’idea della Coppa America?
«Siamo a San Francisco per il mondiale Maxi del 1988, nello stesso albergo. Vinciamo la prima regata e la mattina dopo, a colazione, c’era anche il suo amico marinaio Angelo Vianello, mi dice: “Paolino, dobbiamo fare la Coppa America”. Io ho detto: “Raul, questa è brutta idea”. “Perché?” “Costa un sacco di soldi, perdi molto tempo e vince uno solo”. Il secondo giorno, altra vittoria e altra colazione insieme. “Paolino, pensaci”.
Dopo ogni vittoria me lo ripeteva. Alla fine delle cinque regate, tutte vinte e vinto il Mondiale, è stato impossibile dirgli di no. Ci ha portati tutti in Argentina e ha parlato delle sue idee grandiose».
Il varo del Moro a Venezia con la regia di Zeffirelli, il cantiere Tencara con la tecnologia più avanzata e potente...non spendeva un po’ troppo?
«Potrebbe sembrare, sì, ma è vero anche che se tu dai l’impressione di essere vincente il gruppo è motivato e alla lunga questo ti ripaga delle spese, quel che è successo».
Pregi e difetti del grande capo?
«Era divertente, coraggioso, un grande motivatore, delegava molto e non avevi mai l’impressione che potesse dubitare di qualcuno, così tutti davano il massimo e si rimaneva uniti. Difetti? Non sapeva guidare, una volta siamo andati da Montezemolo a vedere una Ferrari, lui era al volante e passava dalla prima alla quarta e il contrario, la macchina strattonava e diceva: non ci sono più le Mercedes di una volta.
Capito? Altro difetto? Fumava troppo, anche in aereo. Ricordo un viaggio in cui mi sono svegliato tossendo per il suo fumo. “Sai cosa Paolino, dovresti iniziare anche tu, in modo che hai un filtro naturale”. E non scherzava».
(…)
Estratto dell'articolo di Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 23 giugno 2023.
«Una curiosità: quanto fuma?» «Più che posso». Seduto su uno scalino della Madonna della Salute, sigaretta serrata fra i denti, mani impegnate ad allacciarsi le scarpe, Raul Gardini fissò l’occhio buono sul cronista e rise. Schiacciò la sigaretta e ne accese un’altra.
Faceva male ai polmoni? Chissenefrega. Era una sfida, una delle tante. Come la presentazione, quel giorno, a Venezia, in pompa magna, un caos di bandiere, gondole, ospiti di spicco, cestini di leccornie deluxe preparati dal consuocero Arrigo Cipriani, regia di Franco Zeffirelli, del bellissimo «Moro» col quale voleva andare a vincere la coppa America.
Sfida perduta. Come troppe altre di una vita conclusa la mattina di venerdì 23 luglio 1993, trent’anni fa, con un colpo alla tempia sparato con una pistola calibro 7,65 Walther Ppk, la stessa usata anni prima da Luigi Tenco. Scrisse il Corriere : «Lo aspettava il carcere. Ha preferito la morte».
Tre giorni prima si era ammazzato il presidente dell’Eni Gabriele Cagliari. Una settimana prima, come ricordò nel suo editoriale Paolo Mieli, si era costituito dopo sei mesi di latitanza l’ex presidente della Montedison Giuseppe Garofano, «raccontando ai magistrati i segreti dell’avventura chimica del gruppo Ferruzzi, con tutti i dettagli sui passi più spericolati e gli illeciti più incredibili per accantonare fondi da far affluire in parte nelle proprie casse segrete e in parte in quelle dei partiti di governo». Partiti che Gardini pagava e disprezzava.
«Io ho questa mentalità: quando sono in Brasile mi sento brasiliano, in Argentina argentino, negli Usa americano ed europeo in Europa», confidò a Enzo Biagi poche settimane prima di andarsene. Ultimo sospiro: «Non ci sono innocenti. I peccati sono collettivi». «Come uomo aveva sei marce. Il guaio è che troppo spesso teneva la sesta in curva», spiegò a l’Unità il celebre fiscalista e consigliere Montedison Victor Uckmar. E aggiunse: «Non vorrei che qualcuno ora se la pigliasse coi giudici, dimenticando chi è il responsabile primo di queste cose. Alludo ad una classe politica...»
Trent’anni dopo, sul «Contadino» ribattezzato con quel nomignolo per l’appartenenza «alla razza terragna» da cui veniva anche se aveva passato la giovinezza «fra le pinete e le spiagge romagnole», esce un libro che ripercorre tutta l’irruenta avventura umana, economica, finanziaria, politica e marinara dell’imprenditore che alla morte del suocero
Serafino Ferruzzi, il re delle granaglie di cui aveva sposato la primogenita cattolicissima e riservatissima Idina, si ritrovò a 46 anni in pugno un’immensa ricchezza e in tre lustri scarsi, scommettendo spericolatamente su se stesso, le sue intuizioni, le sue ambizioni, riuscì a bruciare tutto. Compreso se stesso.
Si intitola Di vento e di terra. Raul Gardini, il romanzo vero di una vita di sfide , è firmato dal nostro Andrea Pasqualetto e Lucio Trevisan, è edito da Solferino e in 320 pagine racconta due storie parallele che si incrociano e confondono l’una nell’altra.
Quella dell’imprenditore di enorme successo iniziale che a un certo punto «addenta un’azienda dopo l’altra (agroalimentare, agrochimica, energia, costruzioni e impiantistica, farmaceutica, grande distribuzione, editoria…)
(...)
E quella del velista appassionato che si fissa su barche sempre più belle create da designer sempre più famosi con marinai sempre più competitivi rastrellati in giro per il pianeta senza rinunciare mai, però, ai consigli di un vecchio uomo di mare di Pellestrina, Angelo Vianello. «L’amico del silenzio, con il quale Raul sta bene anche tacendo». Quello cui chiede consiglio anche su cose che non hanno a che fare con la nautica, come l’improvvisa difficoltà del figlioletto Ivan colpito da un’inspiegabile difficoltà a camminare e in poche settimane rimesso in piedi. Quello che, «fiol de pescadori de laguna», si ritrovò una mattina presto davanti il re di Spagna Juan Carlos, curioso di salire a bordo per vedere il «Moro» e lo accolse così: «Siòr Re, ghe fasso un cafetin?»
(...)
Ma tutto intorno meritano d’esser raccontate tante storie che ricostruiscono un’epoca.
L’acquisto a Venezia del «maledetto» Palazzo Dario per sfidare le leggende della bellissima dimora marcata nei secoli da suicidi, omicidi, sventure, morti violente... Lo sfizio di impossessarsi dell’arte del vetro comprando larga parte delle vetrerie di Murano. L’audizione alla Camera nel 1986 in cui avvertì il Parlamento: «L’Italia deve diventare autonoma sul piano energetico, altrimenti rimarremo sempre un Paese dipendente da altri.
(...) Ci vuole il coinvolgimento diretto dello Stato. Quello di cui sto parlando è un sogno, ma è un sogno realizzabile: vedere l’Italia produttrice di energia verde, grazie all’etanolo. Inquina meno ed è altamente redditizio a livello di rendimento...» Parlava (anche) pro domo sua, dato che aveva enormi quantità di cereali giacenti? Sicuro. C’era però, oltre agli interessi aziendali, qualcosa di più. Che merita forse, tanti anni dopo, qualche riflessione.
Così come meriterebbe un romanzo a parte il carteggio, lettera dopo lettera, ora note, che ricostruisce lo sfascio della Famiglia. Con Alessandra, la più giovane dei figli del vecchio Serafino, che inizia con parole apparentemente amichevoli a contestare la leadership del cognato Raul. E lui che, dopo un crescendo di reciproche tensioni, passa affiancato da Idina alle minacce a tutti i cognati: «Se abbraccerete definitivamente le teorie di Alessandra contro di me ed Idina sarà una rottura definitiva che vi costerà molto, molto cara». Come sia finita si sa. Trent’anni dopo, in famiglia, non si parlano ancora.
Raul Gardini, il corsaro della Borsa: tra scalate e declivi pericolosi. Raul Gardini ha incarnato il sogno del capitalismo italiano, le sue epiche scalate di Borsa lo hanno portato in cima, prima della tempesta Mani Pulite. Tommaso Giacomelli il 22 Gennaio 2023 su Il Giornale.
Un trascinatore, un leader naturale e un uomo dalla visione illuminata. Raul Gardini non riusciva a fermarsi al presente, non metteva mai l'ancora, seguiva il flusso del mare, come quello del suo amato Adriatico, e si proiettava con energia instancabile verso obiettivi futuri, per i più imponderabili. Uno spirito da vero corsaro quello dell'imprenditore ravennate, classe 1933, che ebbe il suo momento di massimo fulgore negli anni '80, salendo agli onori della cronaca per le grandi scalate finanziarie dal sapore temerario, che lo proiettarono nelle stanze dei bottoni della politica italiana e tra il gotha degli industriali nostrani. Gardini era orgoglioso della sua origine romagnola, di essere nato in quella città che fu capitale dell'Impero romano d'Occidente prima e del Regno degli Ostrogoti poi, non dimenticando mai la bellezza delle cose semplici, dei profumi del mare e della terra, di quanto sia benefico il calore di una famiglia unita e l'importanza di una stretta di mano tra gentiluomini. Gardini ha vissuto la vita a modo suo, seguendo le sue regole, pagando a caro prezzo un orgoglio che lo ha spinto a togliersi la vita con un colpo di pistola la mattina del 23 luglio 1993, a Milano, nel suo appartamento di Palazzo Belgioioso. Nel mezzo, però, vale la pena raccontare la vicenda personale di un uomo che ha saputo stupire e scioccare, nel nome di un capitalismo rampante e senza freno come quello esploso in Italia nella seconda metà degli anni '80.
Alla guida della Ferruzzi
Nel 1948 Serafino Ferruzzi, romagnolo doc, fonda la sua azienda, la Ferruzzi, che in una prima fase commercializza legname e calce, poi diventa leader nel trattare le materie agricole. Negli anni '60 l'impresa ravennate si ritaglia spazio come primo importatore italiano di grano, soia, olio di semi e cemento, diventando uno dei principali operatori del settore in Europa e, di conseguenza, nel mondo. Raul Gardini nel 1957 sposa la figlia del patron della Ferruzzi, Idina, e quando il vecchio Serafino nel 1979 muore in un incidente aereo, la famiglia decide di affidare le deleghe operative del Gruppo proprio a Gardini. Quest'ultimo, a 46 anni, si ritrova investito del ruolo di capo di una realtà industriale, che lui guiderà a una vera rivoluzione d'assalto. Ravenna, dopo molti secoli, torna ad avere un imperatore, diverso da quelli del passato, ma animato dallo stesso spirito di conquista grazie a delle idee che hanno la forza di colpire il cuore delle persone. Lui è un visionario, ma concreto, non un sognatore, in più è animato dalla voglia di ottenere quello che desidera con un fare quasi da guascone. Alla gente piace, buca lo schermo e cattura le simpatie dei media. In breve tempo, Raul Gardini è un nome che fa strada all'interno della società italiana, arrivando ad avere una forte risonanza a livello nazionale. Tutti si accorgono di lui e nel frattempo il Gruppo Ferruzzi spicca il volo, passando dal trading all'industria, concentrando le proprie risorse nel business dello zucchero. Nel 1981 acquista la Eridania, prima azienda produttrice di idrato di carbonio in Italia, poi nel 1986 passa alla francese Béghin Say. A guidare Gardini in queste campagne finanziare c'è l'intuito e una capacità di prendere le decisioni in un breve lasso di tempo. In seguito alle numerose politiche di acquisizione, l'industriale ravennate capisce che ci sono tutte le carte in regola per entrare nell'alta finanza con un ruolo da protagonista assoluto.
La Borsa e il sogno di Raul Gardini
Dopo il lungo silenzio degli anni di piombo, nel 1985 l'Italia sembra essere rinata. Un'ondata di benessere cavalcato dal nascente rampantismo inebria gli italiani di una nuova euforia collettiva. L'arrivo dei fondi di investimento mobiliare fa quintuplicare gli incassi della Borsa, le quotazioni guadagnano il 20% a settimana e in un mese si ottengono qualcosa come 300 miliardi di lire. In questo scenario Raul Gardini mette la Ferruzzi finanziaria sul mercato, i soldi - dice lui - si trovano in Borsa e basta saperli prendere. Una scelta all'apparenza spregiudicata che si rivela quanto mai azzeccata, dato che in tre anni fa entrare nelle casse del Gruppo qualcosa come 3.000 miliardi di lire. Gli yuppies hanno un nuovo idolo da venerare, Milano diventa la capitale del sogno che passa attraverso le urla, gli strepitii e la frenesia imperante delle affollate sale di Piazza Affari. Il sogno nel cassetto di Gardini, però, è quello di riuscire a costituire un polo della chimica che si proponesse come baluardo dell'ecologia. Il suo più viscerale desiderio è quello di proporre sul mercato un carburante che avesse un legame con le materie agricole, il suo primo amore. A quel punto, il ravennate mette gli occhi sulla Montedison, grande gruppo industriale italiano attivo nella chimica e nell'agroalimentare.
La scalata a Montedison
Nel 1985 la Montedison è al centro di uno scontro molto violento tra gli azionisti, Gardini fiuta la situazione e intravede la possibilità di entrare in scena per diventare l'azionista di riferimento. Un'azione facile sulla carta, ma difficile da realizzare perché a guidare il gruppo industriale c'è un osso duro, Mario Schimberni. Quest'ultimo è un tipo riservato, enigmatico e impenetrabile, che non fuma e non beve, tanto che viene chiamato "l'uomo di ghiaccio". Schimberni è un manager di alto rango che ha come unico obiettivo quello di fare della Montedison la prima public company italiana. Nel frattempo Gemina, il salotto buono del capitalismo italiano, prende per la giacchetta Gardini cercando di spingerlo a tutti i costi a farne parte, ma lui non ne vuole sapere. Il ravennate è un romagnolo puro, un po' impulsivo, la partita per conquistare la Montedison la vuole giocare da solo. A lui la chimica serve per trasformare il prodotto agricolo e creare energia, per questo mettere le mani sulla quell'industria diventa di capitale importanza. Nessuno, però, immagina che il numero uno del Gruppo Ferruzzi ha in mente la più clamorosa operazione finanziaria del secondo dopoguerra.
La prima fase dell'assalto alla Montedison è rapida e si conclude quasi in un lampo: l'8 ottobre del 1986 Gardini convoca il suo agente di cambio e gli ordina di acquistare più azioni possibile della Montedison. In un paio d'ore la Ferruzzi sborsa 1.500 miliardi di lire; alla fine della giornata Gardini blocca l'OPA di Cuccia e De Benedetti, e ottiene il 10% del pacchetto azionario del Gruppo operante nella chimica. La seconda fase è intrisa di diplomazia, di tessitura di rapporti e di dolce seduzione verso quegli azionisti che possiedono pacchetti importanti della Montedison. L'11 marzo 1987 Gardini ha speso un complessivo di 2.000 miliardi di lire ma in cinque mesi ha ottenuto il 40% delle quote desiderate. A novembre dello stesso anno, Gardini si issa al comando della Montedison, subentrando a Schimberni non senza un'aspra disputa tra i due leader. In appena sette anni, il ravennate diventa il secondo industriale italiano, contro ogni pronostico.
Il fallimento di Enimont
Il progetto di Gardini è in continua evoluzione, un rincorrersi perpetuo di decisioni, vale a dire che ogni passo stimola il successivo. Quando si conquista un avamposto, bisogna andare avanti e procedere a passo spedito. Non c'è mai quiete nel suo spirito. Sul finire del 1987, Gardini è il presidente della Montedison ed è il leader privato della chimica in Italia. Alla sua porta bussa la controparte pubblica, l'ENI, che ha bisogno dell'appoggio del ravennate per sopravvivere e dar vita a un polo chimico in grado di competere coi grandi del settore. Gardini si convince che l'unione tra le due realtà si può fare, con l'obiettivo di entrare almeno nei primi dieci del mondo. In poco tempo nasce la Enimont, che alla Montedison costa la bellezza di 1.200 miliardi di lire di tasse. Una spesa enorme, ma la parte pubblica promette a Gardini delle garanzie sugli sgravi fiscali con dei decreti legge. L'accordo viene siglato alla maniera contadina, o dei sensali, tramite una stretta di mano tra il ravennate e Ciriaco De Mita, presidente del Consiglio. A fine 1988 la Enimont conta 55.000 dipendenti e 16.000 miliardi di lire di fatturato, con il 40% delle quote a ENI, l'altro 40% a Montedison e il restante 20% destinato al mercato azionario. La nuova realtà pubblica-privata è il leader mondiale della chimica, ma per Gardini arriverà presto la beffa.
La politica capisce che sta per perdere un ufficio acquisti da 15.000 miliardi di lire all'anno, così in Parlamento il decreto legge aspettato da Gardini viene bocciato per due volte fino a decadere definitivamente. Poi, dopo la caduta del Governo De Mita e il ritorno di Andreotti, grande oppositore dei Ferruzzi fin dai tempi di Serafino, si mette una pietra tombale sulla questione. La politica si dimostra per Gardini il più inaffidabile degli interlocutori, inoltre, le divergenti vedute imprenditoriali tra le due realtà, porta alla rottura della joint venture con Gardini che si appella alla violazione degli impegni. Si arriva al "patto del cowboy", con la Montedison che ricopre il ruolo della parte che fa il prezzo e l'ENI di quella che compra. Dopo un iniziale tentativo di scalata da parte di Gardini alla Enimont, stoppata dal guidice Curtò con il congelamento provvisorio delle sue quote da parte del Tribunale di Milano, alla fine di novembre 1990 l'industriale ravennate abbassa la testa e vende il suo 40% all'ENI per 2.805 miliardi di lire.
Il Moro di Venezia e la caduta
Dopo il fallimento di Enimont, la famiglia Ferruzzi - stanca di inseguire le imprese spericolate - si dissocia da Raul Gardini, luquidandolo da tutti i suoi incarichi pagando una cifra di 503 miliardi di lire in contanti. L'ultima romantica impresa del ravennate è quella del Moro di Venezia, l'innovativa barca a vela che affidata al geniale skipper americano, Paul Cayard, vince la Louis Vuitton Cup del 1992 battendo in finale New Zeland per 4 a 3 dopo una rimonta insperata. La barca italiana arriva, dunque, negli Stati Uniti, nella baia di San Diego, per contendere l'America's Cup all'imbarcazione statunitense America³. Purtroppo la sfida terminerà 4 a 1 a favore dei padroni di casa, mentre per il Moro di Venezia rimane il sogno di aver spinto la vela italiana fino a toccare quasi il cielo, anche se il boccone da digerire è amaro.
I trionfi in mare vengono oscurati dalle nubi di tempesta che si abbatono a Milano con le indagini di "Mani Pulite". Uno dopo l'altro politici e manager ricevono avvisi di garanzia o mandati di cattura. È un effetto domino che non risparmia nessuno e travolge tutti. Il pool di magistrati milanesi punta alla Enimont, l'inchiesta viene incuriosita da una falso in bilancio, tra il 1990 e 1991, di 150 miliardi di lire che sarebbe servito a Gardini, e alla Montedison, per corrompere funzionari di governo e uscire indenne dalla chiusura della joint venture. Al ravennate questa cifra non torna e decide di collaborare con la giustizia. Scosso da un mondo che stava crollando sotto ai suoi piedi, e impotente di fronte al flusso degli eventi, Raul Gardini la mattina del 23 luglio 1993 si spara alla testa con un colpo di pistola. Una scelta drammatica e di impeto, un ultimo atto di volontà per un uomo che ha sempre imposto la sua decisione. Con lui si chiude la pagina italiana di rampantismo e capitalismo sfrenato, del sogno della Borsa, delle luci e del divertimento. La sua morte apre un capitolo più cupo e torbido che ha condizionato il proseguo degli anni '90 fino a segnare persino i giorni nostri.
Falcone, Borsellino e le indagini sui grandi appalti in odor di mafia. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 07 novembre 2022
Secondo i giudici d’appello: «Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dottoressa Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata...»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Questo era dunque la reale dimensione e natura degli interessi in gioco, sullo sfondo delle due stragi siciliane, e di quella di via D’Amelio in particolare.
Ma l’obiezione più calzante e meritevole di attenzione che la sentenza qui impugnata muove alla tesi difensiva (secondo cui sarebbe stato il timore di un approfondimento dell’indagine mafia appalti a causare un’accelerazione dell’iter esecutivo della strage di via D’Amelio: ammesso che tale accelerazione vi sia mai stata) è che non vi sarebbe prova che Cosa nostra sapesse dell’interesse nutrito dal dott. Borsellino per quel tema d’indagine; e del suo proposito di riprendere e approfondire l’indagine a suo tempo curata dal Ros, mettendo a frutto le conoscenze acquisite e sviluppando le intuizioni e le indicazioni che gli erano state trasmesse dal collega e grande amico Falcone.
Che vi sia stato una sorta di passaggio del testimone da Falcone a Borsellino quanto all’impegno di seguire e approfondire questo filone d’indagine è pacifico e la dott. Ferraro ebbe modo di constatano personalmente, avendo assistito ad una telefonata con la quale Falcone rammentava all’amico Paolo che adesso toccava a lui seguire gli sviluppi dell’indagine compendiata nel rapporto “mafia e appalti” del Ros
È anche vero che Borsellino ne aveva parlato ripetutamente, e non solo come tema di dibattito conviviale (come in occasione della cena romana, tre giorni prima che il magistrato venisse ucciso, di cui hanno parlato il dott. Natoli e l’on Vizzini), ma come programma di lavoro (con Antonio Di Pietro, con il quale, in occasione dei funerali di Falcone, si incontrarono ed ebbero uno scambio di idee sul tema, ripromettendosi di vedersi proprio per mettere a punto un piano di coordinamento delle rispettive indagini), e come oggetto di una futura delega d’indagine riservata della quale i carabinieri del Ros avrebbero dovuto riferire soltanto a lui. E decine e decine di volte, come ricorda l’allora procuratore Aggiunto Aliquò, avevano discusso in procura della rilevanza di questo tema d’indagine, ossia l’intreccio tra le attività delle cosche mafiose e il sistema di gestione illecita degli appalti, e dell’ipotesi che vi potesse essere un nesso con la causale della strage di Capaci (e poco importa che, a dire dello stesso Aliquò, non si fossero trovati elementi concreti che la suffragassero, poiché ciò che si ricava dalla sua testimonianza è che il dott. Borsellino fosse seriamente interessato a quell’ipotesi investigativa e a verificarne l’attendibilità tale ipotesi).
E come si vedrà in prosieguo, in occasione di una tesa riunione tra tutti i magistrati della procura della Repubblica di Palermo, tenutasi — per volere del procuratore Giammanco — il 14 luglio ‘92 per fare il punto sulle indagini più delicate (e per tentare di sopire le polemiche esplose a seguito di velenose campagne di stampa su presunti insabbiamenti: v. infra), il dott. Borsellino non è chiaro se già al corrente o ancora ignaro che il giorno prima il procuratore Giammanco aveva apposto il proprio visto alla richiesta di archiviazione per le posizioni che restavano da definire nell’ambito dell’originario procedimento n. 2789/90 N.C. a carico di “Siino Angelo+43” (quello oggetto del rapporto “mafia e appalti” esitato dal Ros Nel febbraio 1991) chiese chiarimenti e ottenne di aggiornare la discussione sulle determinazioni che l’Ufficio avrebbe dovuto adottare in merito, a riprova del suo concreto interesse per tale indagine.
Ma che il dott. Borsellino fosse in procinto di dedicarsi a questo tema d’indagine, partendo dal dossier mafia e appalti, e che vi annettesse una rilevanza strategica, nella convinzione che avrebbe potuto condurre fino ai santuari del potere mafioso e forse anche a fare luce sulla strage di Capaci, non erano certo notizie di pubblico dominio, né trapelavano in modo esplicito dalle pur frequenti esternazioni pubbliche alle quali lo stesso Borsellino si lasciò andare nei giorni e nelle settimane successive al 23 maggio ‘92.
E sarebbe un rimestare nel torbido se si indugiasse sui sospetti di collusione dell’allora maresciallo Canale— che certamente era a conoscenza dell’interesse di Borsellino per quel terna d’indagine così come del fatto che avesse voluto un incontro riservato con Mori e De Donno per ragioni inerenti a quell’indagine — dopo che lo stesso Canale è uscito assolto dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa, nonostante le infamanti propalazioni di Siino (che da lui, o anche da lui sarebbe stato informato delle indagini a suo carico e avrebbe avuto poi una copia dell’informativa del febbraio 1991, secondo quanto Brusca dice di avere saputo appreso dallo stesso Siino).
LE DICHIARAZIONI DEI PENTITI
Dal versante interno a Cosa nostra, ovvero dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia più addentro agli arcana imperii dell’organizzazione mafiosa, sono venute indicazioni non sempre chiare e univoche.
Antonino Giuffrè, interrogato sulle ragioni dell’uccisione di Borsellino, dopo avere ribadito il discorso stragistico della resa dei conti contro i nemici giurati di Cosa nostra, sia nel dottore Falcone, che il dottore Borsellino, che risaliva sempre all’ormai nota riunione di Commissione del dicembre ‘91, ha aggiunto che nella decisione di uccidere Borsellino ha pesato moltissimo, assieme al discorso della sentenza del Maxi, anche questo discorso su mafia e appalti: «se il discorso del Maxi processo è un discorso dove troviamo principalmente dei mafiosi, nel contesto mafia e appalti troviamo altri discorsi di una cera gravità, cioè che vengono fuori quei legami appositamente extra dal inondo mafioso, con alti-e entità, quali imprenditori... Quindi è un discorso abbastanza destabilizzante perché se è vero come è vero che ho detto è una delle attività più importanti di Cosa nostra da un punto di vista economico, ma non solo, non solo, perché permette di creare degli agganci con personaggi che io ho sempre sottolineato questo discorso, importanti della vita italiana anche da un punto di vista politico, cioè, si sfruttano anche il contesto imprenditoriale per creare degli agganci in altri settori dello Stato».
Ed a specifica domanda (le risulta che in Cosa nostra si ebbe notizia che il dottore Borsellino forse stava diventando più pericoloso pure del dottore Falcone, specificamente in questo campo degli appalti?) ha confermato che in effetti «l‘unica persona che era in grado, o una delle poche, per meglio dire, che era in grado di leggere il capitolo sull‘uccisione del dottore Falcone, era il dottore Borsellino. Quindi (....) sono stati messi tutti e due candidati ad essere uccisi, appositamente già si sapeva che erano, come ho detto in precedenza, dei nemici giurati di Cosa nostra, e non vado oltre».
In altri termini, prima di Borsellino già Falcone era stato ucciso non soltanto perché nemico giurato di Cosa nostra ma anche per una ragione più recondita, legata al suo impegno nel portare avanti le indagini in materia di mafia e appalti. E di riflesso, anche Borsellino doveva essere ucciso non solo per vendetta, ma perché nessuno meglio di lui avrebbe saputo individuare la giusta chiave di lettura della strage di Capaci, che andava oltre le finalità dichiarata di vendicarsi.
Alla domanda se risultasse, all’interno di Cosa nostra, che il dott. Borsellino volesse fare indagini in terna di appalti, dopo la morte di Falcone, Giovanni Brusca, all’udienza del 12.12.2013, ha dato una risposta evasiva, limitandosi a dire che «era uno dei temi che più si dibatteva, però notizie così, generiche, dettagliatamente non ne conosco». Gli è stato contestato quanto aveva risposto alla stessa domanda fattagli all’udienza del 23.01.1999, nel proc. Borsellino ter; ma il collaborante, implicitamente confermando le pregresse dichiarazioni, non ha ritenuto di aggiungere nulla a chiarimento. Resta quindi confermato che, a suo dire, si seppe all’interno di Cosa nostra che il dott. Borsellino «dopo la morte del dott. Falcone voleva vedere sia perché era stato ucciso e voleva continuare quello che il dottore Falcone stava facendo (...) Tra Capaci e via D'Amelio credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottore Borsellino vuole sapere, vuole scoprire clv ha ucciso, perché ha ucciso il dottore Falcone e riuscire a capirlo attraverso indagini che stava facendo, su cosa stava lavorando».
[…] Da queste tormentate acrobazie verbali sembrerebbe evincersi che solo attraverso conoscenze acquisite nei vari processi successivi si comprese che le ragioni per cui furono uccisi Falcone e Borsellino, a parte il fine di vendetta, avevano a che vedere anche con gli appalti o comunque con le attività giudiziarie che i due magistrati uccisi stavano portando avanti. Ma sollecitato a chiarire le sue affermazioni, Brusca, in quella sede, puntualizzava che chi lo aveva interrogava nel precedente processo (il Borsellino ter) cercava una conferma all’ipotesi che Falcone e Borsellino fossero stati uccisi per l’attività d’indagine su mafia e appalti, «cosa che per me non esiste, può darsi magari per altri si».
In realtà, ciò che vuole dire Brusca non è dissimile da quanto ha dichiarato Giuffré: c’era una verità ufficiale, all’interno di Cosa nostra, secondo la quale Borsellino doveva morire, così come Falcone, perché entrambi nemici giurati dell’organizzazione mafiosa e artefici del mai processo che tanto danno aveva provocato per gli interessi mafiosi, a cominciare dalla demolizione del mito dell’impunità. Ma c’era anche una ragione non dichiarata e più profonda, che rimandava proprio al rilievo strategico che il settore degli appalti aveva per gli interessi mafiosi.
E posto che la strage di Capaci aveva come finalità recondita anche quella di bloccare le indagini sul sistema di spartizione degli appalti, o sviarle, il fatto stesso che Borsellino fosse assolutamente determinato a venire a capo non solo dell’identità dei responsabili della strage di Capaci, ma anche della sua vera causale (segno che riteneva che la finalità ritorsiva non fosse l’unica ragione), come andava dicendo pubblicamente, sicché Cosa nostra ne era a conoscenza senza bisogno di ricorrere a talpe o infiltrati, ne faceva un obbiettivo primario da colpire, non meno di Falcone.
E in tal senso al “Borsellino Ter lo stesso Brusca era stato molto chiaro: «tra Capaci e via d’Amelio, credo che è saputo e risaputo da tutti che il dottor Borsellino vuole sapere... vuole sapere, vuole scoprire chi ha ucciso, perché ha ucciso il dottor... il dottor Giovanni Falcone e riuscire a capirlo attraverso le indagini che stava facendo, su che cosa stava lavorando (...) io con Salvatore Riina di questo qua non ne ho più parlato, io lo apprendo dal.. come un normale cittadino, come tutti gli altri, che lui vuole andare avanti, lo dice pubblicamente, lo grida, cioè lo esterna... dottor Di Matteo, non è che c’è bisogno che te lo devono venire a dire a confida... in confidenza».
E sempre in questo senso si può convenire che l’interesse che il dott. Borsellino nutriva per l’intreccio mafia e appalti come tema d’indagine da approfondire era motivo di allarme per Cosa nostra non perché ne fosse venuta direttamente a conoscenza, ma già per il fatto che egli intendesse scoprire la vera causale della strage di Capaci (non solo chi ha ucciso, ma perché ha ucciso),e intendeva comunque ripartire dalle ultime indagini che l’amico Giovanni aveva curato prima di trasferirsi al Ministero (tra cui proprio quella su mafia e appalti): e questo proposito era ormai notorio. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Forza Italia non molla: «Ora “indaghiamo” su Mani Pulite». Il deputato azzurro Battilocchio invoca una Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, Gotor non ci sta: «Un’autoassoluzione collettiva». di Giovanni M. Jacobazzi Prado su Il Dubbio il 13 dicembre 2022.
«Dopo aver letto i libri dell’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara mi pare evidente che in questi anni ci sia stato nel nostro Paese un “uso politico” della giustizia», afferma il deputato di Forza Italia Alessandro Battilocchio. Il parlamentare azzurro, il mese scorso, ha presentato una proposta di legge per l’istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta “sugli effetti delle inchieste giudiziarie riguardanti la corruzione politica e amministrativa, svolte negli anni 1992 e 1993, sulla successiva evoluzione del sistema politico italiano”.
«Non ho vissuto il periodo di Tangentopoli (Battilocchio è nato nel 1977, ndr) ma ritengo che a trent’anni di distanza ci siano adesso tutte le condizioni per capire cosa sia successo», aggiunge il parlamentare che è anche coordinatore provinciale a Roma di Forza Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sul punto, la cui istituzione era stata proposta anche nella scorsa legislatura, oltre alla lettura delle carte processuali, dovrebbe interrogare i “protagonisti” dell’epoca e chiunque possa fornire utili contributi per far luce su una inchiesta giudiziaria che cambiò per sempre la storia del Paese. Battilocchio non lo dice, ma è evidente il riferimento al fatto che la Democrazia cristiana, il Partito socialista e i tre partiti laici (Pri, Pli e Psdi) furono travolti, mentre il Partito comunista fu solo sfiorato delle inchieste. La conseguenza di tale agire fu che il Pci, poi Pds, salvò per intero la sua classe dirigente.
L’incipit della proposta di legge riporta una intervista del settembre del 2017, durante una trasmissione televisiva, del pm Antonio Di Pietro. «Ho fatto una politica sulla paura e ne ho pagato le conseguenze. (…) La paura delle manette, la paura del, diciamo così, “sono tutti criminali”, la paura che chi non la pensa come me sia un delinquente. Poi alla fine, oggi come oggi, avviandomi verso la terza età, bisogna rispettare anche le idee degli altri. (…) Ho fatto l’inchiesta Mani pulite e con l’inchiesta Mani pulite si è distrutto tutto ciò che era la cosiddetta Prima Repubblica: il male, e ce n’era tanto con la corruzione, ma anche le idee, perché sono nati i cosiddetti partiti personali», le parole dell’ex magistrato, poi eletto in Parlamento proprio nella fila del Pds
. «L’avere messo la “paura” al centro delle azioni che hanno guidato le dinamiche della stagione politica e giudiziaria dei primi anni novanta dello scorso secolo necessita un approfondimento per capire in che misura i risultati elettorali di quegli anni ne sono stati influenzati. La “paura delle manette”, a cui l’ex magistrato fa riferimento, potrebbe essere stato uno strumento di “politica giudiziaria” in mano alla magistratura», sottolinea allora Battilocchio che, comunque, non ha intenzione con la sua iniziativa legislativa di «cancellare i fatti emersi nell’ambito dell’inchiesta», limitandosi a voler fare «chiarezza sulle dichiarazioni di Di Pietro, in quanto per perseguire qualsiasi scopo, anche fosse il più nobile, fece ricorso alla “paura delle manette”».
Molto critico alla proposta di Battilocchio è Miguel Gotor, ex parlamentare dem ed ora assessore alla cultura del Comune di Roma. In un articolo ieri su Repubblica, Gotor afferma che Battilocchio sarebbe mosso da «intenzioni bellicose» con il ricorso ad un «armamentario nostalgico e reducista tipico di una certa tradizione socialista che ritiene Mani pulite il frutto di un golpe mediatico giudiziario». La commissione d’inchiesta avrebbe allora la funzione di «mera propaganda se non di disinformazione e intossicazione della pubblica opinione». Su un aspetto, però, Gotor concorda con Battilocchio, quello dell’uso (abuso) della carcerazione preventiva che venne fatto dai pm in quegli anni. Per il resto il mondo stava cambiando ed il finanziamento irregolare ai partiti non era più tollerato.
Nessun complotto, insomma. Gotor si lascia andare anche ad una considerazione sui trascorsi dell’attuale compagine di governo. Quando scoppiò Tangentopoli vi era chi usava il cappio (Luca Leoni Orsenigo delle Lega Nord, ndr) o chi, i giovani del Movimento sociale, accerchiava il Parlamento al grido di «arrendetevi siete circondati». E poi Silvio Berlusconi che nel 1994 sarebbe diventato presidente del Consiglio e che aveva appoggiato fin da subito l’operato del Pool di Milano con le indimenticabili dirette di Paolo Brosio. Per Gotor, dunque, il problema attuale è quella di una «autoassoluzione collettiva» da parte della classe politica che ha voluto rimuovere il passato nella migliore tradizione “gattopardesca”. L’Italia, aggiunge l’assessore romano, non ha bisogno di una commissione d’inchiesta su Tangentopoli ma di una «civica e culturale».
Gattopardi e nostalgici che vogliono riscrivere la storia di Tangentopoli. Miguel Gotor il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.
Fermo restando il diritto di un singolo deputato a chiedere l'istituzione di qualsivoglia commissione d'inchiesta sarebbe saggio che il Parlamento non desse seguito a questa istanza per due buone ragioni
Nelle ore in cui una presunta vicenda di corruzione si abbatte sul Parlamento europeo, un deputato di Forza Italia, Alessandro Battilocchio, chiede l'istituzione di una Commissione di inchiesta su Tangentopoli. A quanto pare non si tratta dell'iniziativa estemporanea di un singolo parlamentare, legato alla cultura politica socialista di derivazione craxiana e alla poco fortunata esperienza del Nuovo Psi, dal momento che il capogruppo di Forza Italia Alessandro Cattaneo avrebbe condiviso la proposta.
Forza Italia riapre lo scontro dopo 20 anni: “Commissione d’inchiesta su Mani Pulite”. Lorenzo De Cicco il 12 Dicembre 2022 su La Repubblica.
Presentato un ddl in cui si cita un'intervista di Di Pietro: "Ho fatto una politica sulla paura delle manette"
Un'altra manina della maggioranza schiaccia sul tasto rewind. Forza Italia vuole una commissione d'inchiesta su Tangentopoli. Il nastro scorre veloce a vent'anni fa, allo scontro fra politica e magistratura. Cavallo di battaglia del berlusconismo rampante tra gli ultimi anni '90 e i primi 2000. Rieccoci. Dopo le picconate del Guardasigilli Carlo Nordio sulla separazione delle carriere, le intercettazioni "inutili", l'obbligatorietà dell'azione penale bollata come "intollerabile arbitrio", ecco un altro tassello del puzzle: la commissione parlamentare su Mani pulite.
La proposta di istituire una Commissione di inchiesta. Commissione di inchiesta su Tangentopoli: tra suicidi, abusi e diritti perché è giusto indagare. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 14 Dicembre 2022
Se mai aprirà le sue porte la Commissione d’inchiesta su Tangentopoli, non ne varcheranno mai la soglia i testimoni più rilevanti dell’epoca, Severino Citaristi, Vincenzo Balzamo, Marcello Stefanini. I tre tesorieri dei principali partiti della Prima repubblica non ci sono più, e uno di loro, il socialista Balzamo, di Tangentopoli è addirittura morto, di crepacuore, con un infarto che l’ha annientato un mese dopo la prima informazione di garanzia per finanziamento illecito del partito.
Era il 2 novembre del 1992, si era ancora all’inizio. E, caduto il responsabile amministrativo del partito, tutto il vaso di pandora delle indagini si rovesciò direttamente sul segretario Bettino Craxi. Il quale non poteva non sapere, gli dissero i pubblici ministeri. E che subì la sorte peggiore, soprattutto nelle interessate vociferazioni di certa stampa e di un’opinione pubblica orientata. Forse anche perché gli mancò quel pungiball che porterà alla morte due anni dopo anche il tesoriere del Pds Stefanini, distrutto dalle inchieste giudiziarie e che immolerà per tutta la vita, fino al 2006, il democristiano Citaristi, uomo per bene morto nella semplicità di una vita sobria, inchiodato al ruolo insano di collettore di tangenti. Su cui si accaniranno, molti anni dopo, nella loro voglia continua di sangue, anche i voraci cultori della finta onestà, con la privazione di una parte del vitalizio.
Se coloro che, come l’assessore alla cultura del Comune di Roma del Pd Miguel Gotor, autore di un articolo sarcastico su Repubblica, ritengono che solo la propria categoria sia degna di mettere le mani sulla storia, vogliono provare a farlo con Tangentopoli, sanno da dove cominciare. Dalla riabilitazione di tre persone per bene. Ma non crediamo che ne siano capaci. Prima di tutto perché lo storico lascia intendere la stravagante convinzione che Forza Italia abbia presentato la proposta della Commissione per infierire sul Pd, su Panzeri e sull’inchiesta belga su presunti finanziamenti del Qatar. Nulla di più errato, visto che l’iniziativa era già stata presentata nella scorsa legislatura. E poi perché, forse sentendosi virtuoso per l’ammissione, si lascia andare a dire che «si può serenamente affermare che in quegli anni, in alcuni casi, si registrò un uso inquisitorio dello strumento e della carcerazione preventiva».
Un’affermazione gravissima perché lontana dalla realtà. Perché l’uso della custodia cautelare in carcere non fu una piccola degenerazione isolata di qualche pm eccessivo, ma lo strumento di vera tortura che portò a quarantun suicidi, oltre che alla distruzione di vite e carriere. Fu lo strumento che consentì di trasformare una “normale” inchiesta giudiziaria sul finanziamento illecito dei partiti e su alcuni casi di corruzione personale nella rivoluzione giudiziaria che ha mandato al potere toghe e divise. In questo senso un vero golpe. È inutile citare Sergio Moroni e la straziante lettera letta in aula alla Camera da un presidente Napolitano con la voce rotta. Pessima abitudine dello storico di stralciare un caso come fosse un unicum del panorama, quando invece proprio quel caso clamoroso è la spia di quel che è successo in generale. Come fatto politico e storico.
Il Pd, erede degli antenati Pci, Pds, Ds, proprio perché uscito quasi indenne dal “golpe” grazie all’alleanza strategica con i pubblici ministeri, dovrebbe evitare prima di tutto di mostrare paura di quella Commissione. Quella delle facce impietrite di Occhetto e D’Alema quando Bettino Craxi denunciò nell’aula di Montecitorio l’esistenza di bilanci falsi dei principali partiti. Facce impietrite e bocche ammutolite. E dovrebbe poi domandarsi, anche alla luce della propria “normalità” nel finire oggetto, o a volte preda, di una certa voracità giudiziaria che dal 1992 non è mai tramontata nonostante il terremoto che ha distrutto il Csm e la Procura di Milano, perché non ha colto l’occasione di fare propria una cultura riformatrice e costituzionale. Di fare della separazione tra i poteri la propria bandiera. Di esibire con orgoglio, quasi con spavalderia, la giustizia sociale anche come luogo dei diritti e delle garanzie, prime tra tutte, quella della libertà e del principio dell’habeas corpus.
Invece di scandalizzarsi se al fianco di uno stimato garantista come Nordio, sia nella difesa dei referendum sulla giustizia che nel suo programma di governo, ci siano gli uomini di Berlusconi e in parte anche quelli di Salvini e Meloni, si domandino le donne e gli uomini eredi di Berlinguer perché non ci sono loro. Perché prima si siano fatti tenere per mano dai pubblici ministeri e poi dai seguaci di Travaglio. Si diano una risposta decente, poi votino per la nascita della Commissione su tangentopoli, e ne rivendichino la Presidenza. Questa è la strada anche per affrontare momenti difficili come questo nato al Parlamento europeo.
Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.
Dal centrosinistra a Tangentopoli. Ecco i “testimoni” di Ugo Intini…L’ex dirigente del Partito socialista racconta in un bel saggio l’ascesa e la morte della prima Repubblica. Francesco Damato su Il Dubbio il 13 novembre 2022.
Come gli è capitato di fare nel 2014 con una bella e orgogliosa storia del suo Avanti!, intrecciandola in 754 pagine con quella dell’Italia della Monarchia e della prima Repubblica, praticamente ghigliottinata dalla magistratura a mani cosiddette pulite, così Ugo Intini – che nel quotidiano socialista ha percorso tutta intera la carriera giornalistica, da redattore a direttore- ha fatto con i suoi Testimoni di un secolo, ancora fresco di stampa, edito da Baldini+Castoldi.
In 684 pagine scritte – come gli ha riconosciuto sul Sole- 24 Ore Sabino Cassese “in maniera avvincente, con verve e acume, grande attenzione per i particolari” ha ripercorso la storia del Novecento, non solo italiano, attraverso 48 protagonisti sistemati in una metaforica galleria di ritratti. Protagonisti – ha avvertito Cassese – “oltre a comprimari e l’autore del libro, auctor e agens”.
Del Psi del garofano guidato da Bettino Craxi all’insegna dell’autonomia e del riformismo Intini non è stato solo un dirigente, e portavoce del segretario, ma anche un ispiratore: per esempio, con il suo saggio, a quattro mani col compianto Enzo Bettiza, sulla compatibilità fra liberali e socialisti. Era il lib-lab.
Dal centro- sinistra col trattino degli anni sessanta, che si diede come segno distintivo i liberali sostituti al governo dai socialisti, si passò negli anni Ottanta, con Craxi in persona a Palazzo Chigi, al centrosinistra senza trattino – il famoso pentapartito – comprensivo dei liberali. Fu un’evoluzione pragmatica e ideologica al tempo stesso.
Vi confesso che la prima cosa che sono andato a cercare nella galleria dei ritratti del mio amico Ugo è stata la parte relativa alla tragedia di Tangentopoli gestita giudiziariamente, mediaticamente e politicamente in modo che diventasse una tragedia soprattutto socialista, pur essendo arcinota la diffusione generale del finanziamento illegale dei partiti, all’ombra di una legge a dir poco ipocrita sul loro finanziamento pubblico. Che stanziava a questo scopo meno della metà di quanto si sapeva che essi costassero.
Mi ha sorpreso, in verità, una certa comprensione di Intini verso Oscar Luigi Scalfaro, eletto al Quirinale nel 1992, cioè all’alba già avanzata di Tangentopoli, grazie alla preferenza del Pds- ex Pci rispetto alla candidatura del laico Giovanni Spadolini, ma grazie anche, o ancor più, all’assenso dei socialisti.
Che fu motivato – ha spiegato Intini- dalla fiducia che Scalfaro da ministro dell’Interno di Craxi si era guadagnato tirando fuori dagli archivi del Viminale e dintorni un documento che confermava la convinzione dei socialisti, a cominciare dallo stesso Intini, che il nostro comune amico Walter Tobagi, del Corriere della Sera, fosse stato assassinato da aspiranti brigatisi rossi il 28 maggio 1980 per negligenza anche degli apparati di sicurezza della Repubblica. Ai quali era stato segnalato in tempo il progetto quanto meno di rapirlo.
Scalfaro che, consultando inusualmente nella crisi d’inizio della nuova legislatura anche il capo della Procura di Milano, rifiutò a Craxi il ritorno a Palazzo Chigi pur proposto dalla Dc di Arnaldo Forlani e dagli altri alleati, secondo Intini “ebbe certamente un ruolo nel salvare il salvabile” in quegli anni terribili.
Anche se poi, “almeno sul piano economico – ha aggiunto Intini– il merito è andato al governatore della Banca d’Italia Carlo Azeglio Ciampi”, mandato da Scalfaro a Palazzo Chigi nel 1993.
Ho storto il muso pensando a quanto quel rifiuto di Scalfaro di conferirgli l’incarico nel 1992 avesse indebolito Craxi nella caccia al “cinghialone”, come lo chiamava il magistrato simbolo dell’inchiesta Mani pulite: Antonio Di Pietro. Poi ho capito l’illusione procurata da Scalfaro a Intini con una difesa dei partiti espressa con queste parole “Demonizzarli, criminalizzarli è terribilmente pericoloso, poiché senza partiti non c’è democrazia”.
“Credevamo che questo fosse un argomento decisivo”, ha scritto Intini al plurale. “Ma ci sbagliavamo di grosso”, ha aggiunto, “perché non sapevamo che sarebbero arrivati i grillini a teorizzare la democrazia diretta, a individuare i parlamentari come il vertice della casta e a imporre a titolo punitivo e simbolico il taglio”. No, Ugo, prima ancora dei tagli grillini al Parlamento abbiamo avuto in Italia la demonizzazione dei partiti temuta sì da Scalfaro ma da lui non contrastata, o non contrasta a sufficienza.
I ricordi di Di Pietro sull’intreccio tra Tangentopoli e Cosa Nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO su Il Domani il 04 novembre 2022
Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.
Il senatore Di Pietro, sulla cui deposizione si tornerà in prosieguo per gli spunti che ha offerto alla riflessione sui temi di questo processo, ha confermato che le indagini della procura di Milano su vicende di corruttela politico-affaristica che investivano alcuni dei più grossi gruppi imprenditoriali nazionali portavano (anche) in Sicilia. Così come la ricostruzione di flussi di denaro provento di tangenti a politici, conduceva a conti di comodo (prevalentemente in banche svizzere) da cui poi partivano ulteriori flussi verso altri conti nella disponibilità di faccendieri e personaggi legati ad ambienti mafiosi.
Ma non appena imprenditori e funzionari d’impresa che facevano la fila davanti alla sua stanza in procura, mostrandosi disponibili a collaborare alle inchieste, venivano invitati a parlare degli appalti in Sicilia, ecco che si trinceravano dietro un assoluto silenzio. E questo muro di omertosa reticenza s’implementò sensibilmente dopo Capaci e ancor più dopo via D’Amelio.
Alla fine, il pool di Mani Pulite riuscì, grazie alla mediazione del procuratore di Milano Borrelli e del nuovo procuratore di Palermo Caselli (ma siamo già nella prima metà del 1993), a coordinare le proprie indagini con quelle istruite dall’omologo ufficio palermitano sulla base di un riparto di competenze che valse a sciogliere il grumo di reticenze degli imprenditori del nord che avevano fatto affari in Sicilia, spartendosi gli appalti con cordate di imprese locali più o meno vicine o contigue a Cosa nostra e con la mediazione di faccendieri o imprenditori collusi (e che ottennero in pratica di continuare ad essere processati a Milano, per connessione con i reati di ordinaria corruzione/concussione ivi commessi; mentre i loro correi per gli affari in Sicilia venivano processati per il reato di cui all’an. 416 bis).
Insomma, nel sistema verticistico e unitario di gestione illecita degli appalti in Sicilia era risultato a vario titolo coinvolto il Gotha dell’imprenditoria nazionale; e Cosa nostra era proiettata a giocare un ruolo preminente in questo sistema: cosa che in effetti avvenne negli anni successivi, come i processi del filone mafia e appalti avrebbero poi dimostrato.
Ebbene, di queste problematiche Antonio Di Pietro aveva parlato con il dott. Borsellino — che si onorava della sua amicizia, come lo stesso magistrato ucciso aveva dichiarato in un’intervista pubblicata sul Venerdì di Repubblica del 22 maggio 1992: v. infra - e insieme avevano deciso di rivedersi per definire un programma di lavoro comune che assicurasse un proficuo coordinamento di indagini che apparivano sempre più strettamente collegate, come accertato già nel proc. Nr. 29/97 R.G.C.Ass. “Agate Mariano+26”: «Il senatore Di Pietro ha ricordato che Borsellino anche in occasione dei funerali di Falcone gli aveva manifestato la piena convinzione che le indagini che avessero accertato il ruolo di Cosa nostra nella gestione degli appalti e nella spartizione delle relative tangenti pagate dagli imprenditori avrebbero consentito di penetrare nel cuore del sistema di potere e di arricchimento di quell’organizzazione. Ha altresì riferito il teste che mentre a Milano e nella maggior parte del territorio nazionale si stava registrando in misura massiccia il fenomeno della collaborazione con la giustizia di molti degli imprenditori che erano rimasti coinvolti nel circuito tangentizio, ciò non si era verificato in Sicilia e Borsellino spiegava tale diversità con la peculiarità del circuito siciliano, in cui l’accordo non si basava solo due poli, quello politico e quello imprenditoriale, ma era tripolare, in quanto Cosa nostra interveniva direttamente per gestire ed assicurare il funzionamento del meccanismo e con la sua forza di intimidazione determinava così l’omertà di quegli stessi imprenditori che non avevano, invece, remore a denunciare l’esistenza di quel sistema in relazione agli appalti loro assegnati nel resto d’Italia. Intenzione di Borsellino e Di Pietro era quella di sviluppare di comune intesa delle modalità investigative fondate anche sulle conoscenze già acquisite, per ottenere anche in Sicilia i risultati conseguiti altrove. E Borsellino stava già traducendo in atto questo progetto, come dimostrano le dichiarazioni rese dai predetti testi Mori e De Donno, che hanno riferito di un incontro da loro avuto con Borsellino il 25 giugno 1992 presso la Caserma dei Carabinieri Carini di Palermo».
IL SISTEMA DEGLI APPALTI E LA MAFIA
In effetti, il peculiare ruolo di Cosa nostra nella gestione illecita degli appalti in Sicilia sarà messo a fuoco quando le risultanze dell’originario proc. nr. 2789/90 N.C. a carico di Siino Angelo e altri saranno integrate con le rivelazioni di quei collaboratori di giustizia che avevano acquisito — sul campo — una vera e propria specializzazione nel settore degli appalti pubblici.
Si accerterà così che Panzavolta, Bini, Visentin e Canepa, ossia il management delle varie società del Gruppo Ferruzzi consociate della Calcestruzzi Spa di Ravenna per anni si erano prestati a fare affari con imprenditori siciliani che erano l’interfaccia del gruppo mafioso egemone.
In particolare, i Buscemi di Boccadifalco (Salvatore e Antonino) erano tra gli esponenti mafiosi più vicini a Riina, e da soli non avrebbero avuto, per quanto influenti, la forza di imporsi all’attenzione di uno dei gruppi imprenditoriali più importanti dell’economia nazionale, fino a costituire una sorta di monopolio nel settore degli appalti di grandi opere e nella produzione e fornitura di calcestruzzi. La loro ascesa fu sponsorizzata dai vertici di Cosa nostra, nell’ambito di un sistema che finì per ridimensionare e poi emarginare lo stesso Siino Angelo, confinato nei limiti della “gestione” di appalti di dimensioni medio-piccole, ossia per importi inferiori a 5 mld. di lire (e su base provinciale: gli appalti banditi dall’amministrazione provinciale di Palermo: cfr. Brusca e Siino).
Ma è la grande impresa italiana a fare affari in Sicilia con Cosa nostra, attraverso cordate di imprenditori collusi o compiacenti verso le imprese mafiose.
E tale sistema, i cui prodromi s’intravedono sullo sfondo delle prime inchieste del filone mafia e appalti come quella compendiata nel rapporto del Ros depositato il 20 febbraio 1991 era già giunto a piena maturazione quando si apre la stagione delle stragi, ma era proseguito anche oltre: come accertato, tra gli altri, nel proc. nr. 1120/97 n.c.- Dda, istruito dalla Dda di Palermo a carico di Buscemi Antonino, Bini Giovanni, Salamone Filippo, Micciché Giovanni, Vita Antonio,
Panzavolta Lorenzo, Canea Franco, Visentin Giuliano, Bondì Giuseppe, Crivello Sebastiano per i reati di associazione mafiosa, turbativa d’asta e illecita concorrenza con violenza e minaccia (e per fatti commessi fino a tutto il 1991, e anche negli anni successivi. Procedimento che, avvalendosi delle propalazioni di Angelo Siino, che nel frattempo si era determinato a collaborare con la giustizia, si profilava quale naturale prosecuzione e sviluppo di quanto emerso già in altri procedimenti nell'ambito delle indagini relative all'illecita aggiudicazione di appalti pubblici ed allo strutturato sistema di controllo degli stessi da parte dell'associazione per delinquere di tipo denominata Cosa nostra. SENTENZA DELLA CORTE D'APPELLO
Giustizia fanta-horror. Il reato di lesa maestà di Mani Pulite e la libertà di parola di chi non è magistrato. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 31 Ottobre 2022
Tre ex pm si sono offesi per un articolo di giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Tangentopoli, ma in passato uno di loro non si è fatto problemi con i parlamentari della Bicamerale
È passato quasi un quarto di secolo, ma molti ancora ricordano l’intervista di Gherardo Colombo a Giuseppe d’Avanzo sul Corriere della Sera del 22 febbraio 1998, in cui il pm della procura milanese fece esplodere una vera e propria bomba sotto il tavolo della Commissione Bicamerale per le riforme presieduta da Massimo D’Alema.
La tesi sostenuta da Colombo era che la riforma della Repubblica, cui la Commissione stava mettendo mano, fosse figlia della “società del ricatto” che univa in un patto occulto forze politiche e organizzazioni criminali e dunque che il tentativo di riscrivere la seconda parte della Costituzione, facendo una serie di riforme in materia di giustizia, rispondesse alla necessità di quella “società” di occultare gli scheletri del passato. «La nuova Costituzione può avere come fondamento quel ricatto».
A D’Avanzo, che gli chiese esplicitamente se intendesse la Bicamerale come «la strada obbligata per chi, partecipe degli illeciti di ieri, oggi è obbligato a scegliere l’accordo», Colombo rispose in modo molto sincero: «È detto in modo un po’ brutale, ma è quel che penso. Ecco perché, a mio avviso, la Bicamerale deve anche affrontare la questione della giustizia».
Non ricordo tutto questo per discutere se abbia qualche pregio o fondatezza storica la tesi di Colombo sul filo rosso criminale che legava la mediazione della mafia per facilitare lo sbarco degli alleati in Sicilia nel 1943, la trattativa con la camorra per la liberazione di Ciro Cirillo, i fondi neri dell’Iri e la P2 alla proposta di separazione delle carriere dei magistrati inutilmente negoziata nella Bicamerale D’Alema. La cosa che mi interessa rilevare è che questi addebiti oggettivamente pesantissimi non solo rispetto al sistema dei partiti, ma soprattutto rispetto ai membri della Bicamerale chiamati ad attuare, per così dire, l’estorsione criminale trasfigurandola e sigillandola in innovazione costituzionale, fossero da Colombo presentati come un fattivo contributo alla discussione: «Le mie considerazioni non vogliono (come è ovvio) e non potrebbero (come è giusto) condizionare il lavoro del Parlamento nella riscrittura della seconda parte della Costituzione. Le mie sono soltanto osservazioni di carattere generale sul tema della giustizia e dei modi di amministrarla».
Malgrado le polemiche politiche, gli imbarazzati distinguo dell’Associazione nazionale magistrati e l’avvio di un’azione disciplinare, da cui Colombo uscì prosciolto, sul presupposto che si trattasse di opinioni compatibili con il suo ufficio di magistrato, la cosa che ai nostri fini importa è che Colombo non fu mai processato né condannato per avere calunniato o diffamato i parlamentari della Bicamerale, né i vertici politici impegnati a trovare un accordo dettato dalla “società del ricatto”.
Allora perché Colombo, insieme a due ex colleghi del pool milanese, Davigo e Ramondini, si è sentito personalmente diffamato da un articolo di Iuri Maria Prado su Il Riformista che descrive l’epopea di Mani Pulite, a partire dalla stessa denominazione, come una pagina di «terrore giudiziario… civilmente osceno e democraticamente blasfemo» e dichiara che la «cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava furono e rimangono la vergogna della Repubblica», e che «svergognata» è la magistratura «che ne rivendica la paternità»? Un giudizio storico-critico sul carattere eversivo della cultura di Mani Pulite è più penalmente sensibile di un giudizio escatologico sulla trappola criminale che imprigionava la Bicamerale?
Dopo la querela presentata dai tre (due ex) magistrati, la Procura di Brescia, territorialmente competente, aveva chiesto l’archiviazione per Prado, sulla base del pacifico presupposto che il diffamato non è chi si senta offeso, in quanto parte di una categoria o di un gruppo sociale, dalle parole di qualcuno, ma quello cui la presunta offesa sia personalmente e inequivocabilmente rivolta. Insomma, Prado, chiamando in causa in quei termini l’esperienza di Mani Pulite non ha diffamato i membri del pool più di quanto Colombo un quarto di secolo fa avesse diffamato i membri della Commissione Bicamerale o i segretari e i dirigenti dei partiti del tempo, dicendo che la riforma costituzionale in preparazione era figlia di un ricatto criminale. Con una differenza rilevante: che Prado, diversamente da Colombo, non si è mai riferito a questo o quello specifico atto di ufficio di questo o quel magistrato, ma al clima e alla cultura del tempo e ai pubblici atteggiamenti di chi, fuori e dentro la magistratura, vi operava.
Il Gip di Brescia, contro la richiesta del pm, ha invece disposto l’imputazione coatta di Prado ritenendo che il combinato disposto della dicitura “Mani pulite” contenuta nel titolo (non scelto dall’autore) e nel testo dell’articolo, il riferimento al «manipolo meneghino di pubblici ministeri» e un’immagine di repertorio usata dal giornale a corredo dell’articolo (non scelta dall’autore), relativa a uno dei tre querelanti, cioè Colombo (l’unico citato per nome da Prado come «ottima persona»), permettano «in termini di ragionevole certezza di individuare in modo inequivoco i destinatari delle affermazioni diffamatorie negli odierni querelanti». In modo inequivoco, eh!
Il Gip inoltre qualifica come in sé diffamatorio il riferimento a una «eversione giudiziaria organizzata» (anch’esso si suppone inequivocabilmente riservato ai tre querelanti) interpretando il termine “eversione” in un senso tecnico-criminale, e non nello stesso senso figurato e iperbolico per cui è consentito da decenni agli esimi rappresentanti della magistratura italiana – querelanti compresi – di qualificare come eversive o direttamente piduiste alcune proposte di riforma della giustizia, partendo – visto che tutto torna? – dalla separazione delle carriere di magistrati.
Peraltro, per chi avrà la pazienza di leggerlo, risulterà chiaro che nell’articolo di Prado l’eversione contestata alla cultura di Mani Pulite riguarda soprattutto la proiezione extra-giudiziaria dei magistrati militanti e televisivi e la loro sinistra postura da soprastanti del potere politico-legislativo e da Consiglio dei Guardiani della morale della Repubblica.
L’articolo di Prado parla insomma di una temperie storica isterizzata e fanatizzata, di uno spirito pubblico avvelenato, di una cultura del chiedere e del fare giustizia che ha, a parere dell’autore e pure modestamente dello scrivente, irrimediabilmente corrotto la nozione e pervertito il funzionamento del sistema penale.
Non addita le responsabilità di nessuno, ma chiama in causa quelle di tutti (non dei soli magistrati), in quella gigantesca autobiografia nazionale che si iniziò a scrivere nei corridoi delle procure, dilagò nelle piazze delle monetine contro il delinquente del Raphael che doveva marcire nelle patrie galere e infine giunse, con il maiosmo politico-giudiziario del Movimento 5 stelle, ad accomodare i peggiori e ultimi epigoni della retorica manipulitista ai vertici dello Stato.
Prado scrive di tutto questo nello stesso modo risentito e scandalizzato con cui il “diffamato” Colombo un quarto di secolo prima faceva requisitorie in prima pagina, senza paura di scandalizzare e di diffamare (e senza timore di querele, ipotizziamo), sull’Italia della Bicamerale.
Il processo che si chiede contro Prado ha quindi molteplici profili di interesse e altrettanti di allarme. Sarà interessante verificare se per il giudice di Brescia la libertà di parola, di iperbole e di metafora dei non magistrati sia almeno pari a quello dei magistrati e se la diffamazione “categoriale” valga solo per questi ultimi o magari anche per i politici o per i giornalisti o (Prado non è né un politico, né un giornalista) per i cittadini civilmente impegnati, così da aprire nuove e funeste pagine di giurisdizione fanta-horror.
Ma questo processo sarà anche interessante per capire se quelle cartelline “per una serena vecchiaia”, in cui Davigo dice di collezionare le querele e le richieste di risarcimento per le diffamazioni a mezzo stampa, interesseranno anche quella parte dell’informazione italiana che le querele da Davigo proprio non le rischia, ma farebbe bene comunque a preoccuparsene. Infatti a funzionare come “querele bavaglio”, con un effetto, neppure con un proposito, intimidatorio, non sono solo le querele minacciate dai politici – si pensi al notissimo e recentissimo caso del Ministro Crosetto – ma, da parecchi anni, anche quelle largamente dispensate dai magistrati a chiunque metta in dubbio la maestà delle loro persone o addirittura, come in questo caso, del fenomeno storico-politico di Mani Pulite.
Francesco Melchionda per perfideinterviste.it il 27 luglio 2022.
“Vuoi pure queste, Bettino, vuoi pure queste…” Era il 30 aprile del Novantatré, l’Italia sull’orlo del precipizio, e Craxi, il capro espiatorio di ogni male italicus. Quella sera, quando il corpo imponente di Bettino lasciò l’hotel Raphael, a pochi passi da piazza Navona, nel cielo già terso e primaverile della Capitale, il grido dei manifestanti divenne feroce.
Avevo 13 anni, e a cena il nonno, vedendo le immagini mandate in onda da mamma Rai, non la smetteva di dire: ma che sta succedendo a Roma? Capivo nulla di politica, ma quelle urla, quelle monete sonanti che volavano sulla testa e sul corpo del gran capo socialista, mi rimasero impresse. Anche dalla provincia povera e, per certi versi, ignorante e retrograda, si capiva che la slavina stava prendendo forza e velocità e che avrebbe travolto la vecchia politica e tutti i mammasantissima del Palazzo.
A distanza di quasi trent’anni, sembra tutto sbiadito, per certi versi evaporato. La storia ha preso il sopravvento sulla cronaca. I politici della Prima Repubblica morti e sepolti e dimenticati. I partiti? Liquefatti. Le sezioni? Chiuse per sempre.
In un Paese che non ha mai amato coltivare il vizio del ricordo, qualcuno, però, ancora si ostina a lucidare la recente storia patria…
E così, in un sabato torrido, decido di lasciare la canicola e la sporcizia romane, per salire dalle parti di Orbetello, e raggiungere il buen ritiro di Stefania Craxi, la vera combattente della famiglia.
A pochi metri dalla sua dimora, la sinistra borghese e noiosa, quella che si dà di gomito nei premi letterari e nelle stanze del potere capitolino, è sdraiata all’Ultima Spiaggia di Capalbio.
La chiacchierata comincia quasi con una colazione e finisce a pranzo.
Stefania Craxi non ha il viso pacifico, e pacificato, anzi. Quando i ricordi, ineluttabili, salgono su, fin negli anfratti più resistenti e respingenti della memoria, si rabbuia. I segni del dolore e della rabbia sono palmari, nonostante il sorriso contagioso.
Con Tangentopoli – o la “falsa rivoluzione”, come l’ha più volte definita – Stefania Craxi non ha smesso di fare i conti, anzi. Appena può, prova a richiamare tutti alle loro responsabilità; appena può, rispolvera e riapre il vaso di Pandora, con i tradimenti, le colpe, le dimenticanze, le prese di distanze, di tutti, o quasi: socialisti, comunisti, democristiani, giudici e giornalisti…
Ripensando al suo j’accuse, una domanda, nei giorni successivi, mi ha accompagnato: riuscirà la Storia, una volte per tutte, e senza gli occhiali della ideologia, a chiarirci chi è stato veramente Bettino Craxi, e cosa ha rappresentato per il nostro Paese…?
Stefania, cominciamo subito questa intervista con il botto: dov’era la sera del 30 aprile 1993, quando suo padre Bettino fu subissato di monetine dinanzi all’hotel Raphael?
Purtroppo non ero con lui, non mi trovavo a Roma, ma quella sera me la ricordo perfettamente. Ero a letto, a casa, perché incinta della mia terza figlia; una gravidanza che mi stava dando non pochi problemi. In serata, all’ora di cena, accendo la tivù e leggo sul Televideo di questo episodio assurdo, barbaro, un’aggressione squadrista, come l’avrebbe definita lui stesso.
A Giuliano Ferrara, che lo intervista poco dopo, in quello stesso pomeriggio, nel suo programma L’Istruttoria, e che gli chiede se ha avuto paura, Craxi risponde che no, non ha avuto paura, che ha provato solo vergogna per loro.
E nonostante il suggerimento degli uomini della sicurezza, che lo invitano a uscire dal retro, Craxi decide di varcare il portone principale del Raphael, si infila in macchina, alza lo sguardo fiero. Alle 10 della sera, riesco finalmente a sentirlo; mi trova scossa, turbata, in lacrime. Stefania, mi dice, ricordati che una Craxi non piange. Il suo messaggio era chiaro: sei nata in una famiglia politica, quella politica che ha a che fare con la vita e con la morte, devi saper affrontare i momenti difficili che verranno.
Che emozioni provò?
Rabbia, impotenza, un senso di ingiustizia, rammarico, forse, per non essere stata lì con lui.
Che bambina era?
Una bambina che ha amato trascorrere tanto tempo con suo padre…
Addirittura.
Da bambina, capii una cosa importantissima: se volevo relazionarmi con lui, dovevo imparare, e in fretta, il linguaggio della politica. Per questo amavo ascoltarlo tantissimo. Il fine settimana, quando tornava da Roma, io non uscivo con i miei amici fino a quando non capivo che mio padre non mi avrebbe portato con sé. Sentivo il respiro della Storia. Ma ricordo anche momenti intimi, per esempio, quando prendevamo la metropolitana e andavamo a San Siro, a vedere le corse dei cavalli.
Perché suo padre scelse di vivere in un albergo?
Non lo considerava un albergo: era di proprietà di uno dei suoi più cari amici, Spartaco Vannoni, personaggio straordinario e uomo coltissimo. Era stato in passato una spia della Stasi, poi divenne anticomunista. Mio padre ha sempre ritenuto Roma una città provvisoria, di passaggio, per la sua vita. E anch’io, in realtà, quando scendevo a Roma, consideravo il Raphael una seconda casa.
Quando le capita di passargli vicino, cosa prova?
Faccio fatica a spingermi fino a largo Febo, i ricordi e le emozioni si rincorrono velocemente, sono ancora molto forti. Oggi, poi, essendo stato ristrutturato, la stanza di papà non c’è più. Una volta, ricordo, ebbi uno scontro con Filippo Ceccarelli, il quale, dalle colonne di Repubblica, scrisse che la camera di mio padre fosse lussuosa. Ma era vero l’esatto contrario. Possibile, gli dissi, che a nessuno dei giornalisti di Repubblica sia mai venuto in mente di intervistare Craxi nella sua camera? Solo Giampaolo Pansa, dalle pagine di Libero, rispose dandomi ragione.
Ha mai provato a mettersi nei panni e nella testa di quelli che lanciarono le monetine? Non erano mica tutti facinorosi e pazzi… Lei, giustamente, pensava alle sorti di Bettino, loro, invece, al bottino e alle mazzette che, ogni giorno, spuntavano fuori.
La campagna mediatica fu violenta, mistificatoria, denigratoria, e non stento a credere che le persone comuni possano avere creduto in toto a quello che leggevano sui giornali. Una cosa, però, ancora me la chiedo: perché da destra mi hanno chiesto scusa, e da sinistra ancora no? I leader della sinistra dovrebbero porsi una domanda: come mai l’elettorato socialista è confluito tutto nel centro-destra?
Lo faranno, secondo lei?
Finché c’è vita, c’è speranza…
Che fine ha fatto il tesoro del partito socialista? L’ha mai chiesto a suo padre?
Mio padre non si occupava della gestione amministrativa del Psi. In quel periodo ce n’erano tanti, di conti; e ogni corrente poteva disporre di denaro; qualcuno, probabilmente, sarà sparito, altri, invece, riposano in qualche banca, chissà.
È stato un grave errore quello di aver lasciato fare… Un segretario di partito non può lasciare che fiumi di denaro scorrano senza lasciare tracce, senza controllo. È d’accordo?
Le rispondo con le parole che Bettino Craxi consegnò a Sergio Zavoli, che lo andò a intervistare ad Hammamet: ''Io, probabilmente, ho sopravvalutato il mio ruolo, la mia personalità, la mia capacità di tenere in mano, saldamente, le cose…C’erano circostanze di cui avevo perso completamente il controllo…Erano situazioni che andavano degenerando, a volte infracidendo''.
Martelli ha dichiarato pubblicamente di aver restituito la bellezza di 550 milioni di lire, e suo padre, invece, no…
Perché non è stato chiesto ai prefetti di Milano, che non potevano non saperlo, qual era il tenore di vita di Craxi e dei suoi familiari? Mia madre, con il marito presidente del Consiglio, andava in Corso Vercelli a fare la spesa in tram. Mio padre non possedeva tutti quei soldi. Cosa avrebbe dovuto restituire? Tutti sapevano che Craxi aveva uno stile di vita per nulla sfarzoso e, del resto, sarebbe bastato chiederlo agli uomini della sua scorta, che gli stavano accanto 24 ore su 24.
Perché non ha mai sopportato Martelli? Eppure era la punta di diamante del partito… Era invidiosa della sua brillantezza, intelligenza, dell’ascendente che aveva su suo padre?
Stimo Martelli per la sua intelligenza e per la capacità di analisi politica che ancora oggi farebbe bene a questo Paese. Ma a Claudio ho sempre detto, guardandolo negli occhi, che ha commesso un grandissimo errore, umano prima ancora che politico, ad abbandonare il segretario nel momento peggiore, quando il Psi stava fronteggiando l’avanzata di truppe assedianti, quelle giudiziarie e quelle mediatiche in primo luogo.
Una volta ha detto: senza mio padre, Amato sarebbe ancora un professore universitario. Che cosa le ha fatto il dottor Sottile? Lo reputa vigliacco, fariseo, arrivista?
Giuliano Amato è un uomo di grande esperienza, non gli mancano né le qualità e neppure l’intelligenza. E infatti è stato uno degli uomini più vicini a Craxi, suo sottosegretario alla presidenza del Consiglio, nonché fra i massimi dirigenti del partito, commissario del Psi a Torino o a Milano quando scoppiava qualche grana. Dopodiché pongo una domanda: come mai il vice di Craxi viene periodicamente indicato come potenziale candidato alla presidenza della Repubblica, mentre mio padre dovette seguire la via dell’esilio? O sono manigoldi entrambi o entrambe sono delle brave persone…
E De Michelis?
Gianni è stato un politico di grande statura, un uomo di profondo spessore culturale, capace di anticipare con le sue analisi alcune delle dinamiche geopolitiche che avremmo vissuto negli anni successivi. E fu una persona vera; quando mio padre morì, le sue lacrime furono vere…
Quante lacrime di coccodrillo ha visto cadere alla morte di Craxi?
Tante, tantissime…
Ci faccia qualche nome.
Beh, tutti quelli che, per esempio, non sono mai venuti ad Hammamet.
Chi erano le troie di regime, per dirla con De André, che affollavano le cene e i congressi? Se le ricorda?
I congressi, e poi l’Assemblea Nazionale del Psi, rappresentano il primo tentativo di aprirsi alla società civile, parola, oggi, tanto abusata. Le ricordo alcune delle figure presenti: Strehler, Francesco Rosi, Portoghesi, Treu, Pera, Veronesi, Gassman. Ci sono stati i nani e le ballerine? Ma sicuramente… Vogliamo definire Sandra Milo una ballerina? Facciamolo pure, ma è stata una grandissima attrice! E Lina Wertmuller? Vuole che continui…?
Chi sono stati, invece, politicamente parlando, i nani socialisti?
Il socialista più nano sapeva suonare il violino con la punta dei piedi, altroché! La classe dirigente socialista, senza dimenticare quella locale, era composta da gente di prim’ordine…
Come reagì, sua madre, quando si venne a sapere che suo padre aveva un’amante?
A mio padre le donne piacevano, e lui piaceva loro, perché è sempre stato un uomo di grande fascino e carisma… Mamma, quando seppe delle fughe amorose di mio padre, ha messo in campo una capacità di comprensione e perdono che ancora le invidio.
Pensò di mollarlo?
Assolutamente no! E men che meno lui. Era facile sedurlo, difficile tenerlo. Ci è riuscita solo mia madre.
E lei, invece?
Ero gelosissima; appena potevo, cercavo di fargli terra bruciata, confondendo, a dire il vero, un po’ i ruoli. Una volta, ora che ci penso, strappai un orecchino a una sua fiamma…
Quali sono state, secondo lei, le colpe che suo padre ha commesso?
Pensare che i comunisti potessero cambiare; e dare fiducia a uomini che non la meritavano affatto…
Tipo?
Fare sempre i nomi non è gradevole. Sa, lui aveva una giustificazione per tutto. Quando qualcuno sbagliava, o lo tradiva, diceva sempre: poverino. Aveva sempre un atteggiamento giustificatorio verso le debolezze umane. Una volta, me lo ricordo come fosse ora, arrivò un caporedattore dell’Avanti, tutto trafelato e contento, e gli disse:
Bettino, ho scoperto che alcuni giornalisti dell’Avanti sono a libro paga del Kgb. Mio padre, senza scomporsi, gli rispose: questo ha una brutta malattia, quest’altro ha un mutuo sulle spalle, quest’altro ancora ha quattro figli da mantenere… Cambierà la storia del mondo se li metto da parte? Lasciamoli stare… Ogni tanto, ho provato a fargli cambiare idea, ma lui niente: mi diceva che ero una bacchettona… Il tempo, però, mi ha dato ragione.
Come venne a sapere che suo padre si sarebbe dato alla latitanza? Ne era a conoscenza?
Mio padre non si è dato alla latitanza…
Ma come, uno che scappa, come la vuole chiamare…? Viaggio Alpitour?
Mio padre è andato in Tunisia, a casa sua, con il suo passaporto…
Tecnicamente, e non solo, si chiama latitanza…
I giudici, tecnicamente, hanno commesso un abuso; avrebbero potuto emettere un provvedimento di rimpatrio, perché non l’hanno fatto? Tornando alla sua domanda, lui non mi disse che sarebbe andato ad Hammamet, ma io sentivo che avrebbe lasciato l’Italia.
Temeva le patrie galere, Bettino…?
No, non ha inteso sottomettersi a una giustizia politica, farsi umiliare da chi lo voleva vedere in ginocchio. Tanti politici, soprattutto quelli che si sono smarcati, farebbero bene a rileggersi quel famoso discorso che mio padre fece alla Camera, il 3 luglio del 1992, in occasione del dibattito sul voto di fiducia al governo Amato, che, lo voglio ricordare, non era per niente una chiamata in correità, bensì il tentativo di affrontare con gli strumenti della politica la crisi della Repubblica. Quell’invocazione si disperde nel silenzio dell’Aula, più eloquente di ogni parola, denso di verità, come avrebbe commentato lo stesso Craxi.
Non pensa che, come fece anche Andreotti, che santo di certo non era, avrebbe fatto meglio a difendersi nelle aule giudiziarie?
Ma cosa vuol dire, per lei, essere un santo? Lei lo è?
No, per niente, ma io non sono un politico…
Andreotti è stato un grande politico della Prima Repubblica, ma, a differenza di Craxi, aveva lo scudo da senatore a vita, oltre che l’ombrello protettivo del Vaticano.
Quali giudici del Pool ha apprezzato? Non erano perfetti, ma, di certo, ispiravano fiducia…
Se quei giudici avessero fatto un’opera di vera pulizia e giustizia, senza scopi politici, li avrei di certo apprezzati. Lei mi può dire perché quasi tutti hanno fatto politica? Di Pietro, Colombo, D’Ambrosio…Non dimenticherò mai quella lettera di Borrelli, scritta in un orrendo burocratese, indirizzata a don Verzé e agli avvocati, in cui praticamente vietava a mio padre di curarsi in Italia. Solo D’Ambrosio, eletto nelle file dei Ds, ammise, anni dopo, in un’intervista rilasciata al Foglio, che la molla di Craxi era la politica, non l’arricchimento personale, che Craxi per sé non aveva mai intascato una lira.
Come mai, se se lo è mai chiesto, il Pci di allora fu, soprattutto nei suoi nomi grossi, salvato? Erano meno corrotti degli altri? Cosa le disse suo padre, a tal proposito?
Lei fa confusione tra i casi di corruzione che, disse Craxi in Parlamento, come tali vanno definiti, trattati, provati e giudicati, e il finanziamento illegale ai partiti. Perché, quando nel 1989 ci fu l’amnistia, votata anche dal Pci, nessuno osa aprire bocca? Lei pensa davvero che le tangenti in Italia siano girate solo nel biennio 1992-1994? Oggi pensa davvero che la corruzione sia diminuita…?
Le rifaccio la domanda: perché il Pci, secondo lei, è stato “salvato”?
Perché un partito di sistema serviva per mettere in atto la falsa rivoluzione. Da dove passava gran parte del finanziamento illegale comunista, se non dall’import-export delle Coop; e ancora, che fine ha fatto il famoso miliardo di cui parla Gardini, portato a Botteghe Oscure? E l’enorme flusso finanziario proveniente dall’Urss, una potenza militare nemica dell’Italia? Ci siamo dimenticati di tutto questo?
“La politica è sangue e merda”, disse Formica. Perché lei, nonostante le sofferenze provate e la capitolazione invereconda di suo padre, ha deciso comunque di fare politica? Ostinazione, vanità, follia?
Vengo da una famiglia politica, per noi la politica è come l’acqua dove nuotano i pesci, non potevo di certo tirami indietro. Poi volevo, dopo quello che era successo a Craxi e al Partito socialista, provare a fare un’opera di verità e restituire a quella storia socialista il posto giusto che merita. Da questo punto di vista, l’essere stata eletta presidente della Commissione Esteri al Senato ha rappresentato una piccola rivincita della storia.
Non ha mai avuto paura nel fare politica?
Se vuoi fare politica, la paura non può esistere nel tuo vocabolario.
Tra le tante, cosa non amava di suo padre? L’arroganza, l’attaccamento al potere, la freddezza, la scarsa empatia…
Mio padre non era né arrogante né attaccato al potere. Il suo difetto più grande? Che era gelosissimo…
C’è un ricordo che non le dà pace, di quando suo padre era ad Hammamet?
Più che un ricordo, forse il rimpianto di non avere fatto abbastanza per la sua vita, soprattutto quando stava male. Forse sono stata inadeguata…
Quante volte ha messo in dubbio l’onestà e trasparenza di Bettino, soprattutto nei momenti in cui fioccavano le inchieste?
Mai!
Quali sono i politici della Seconda Repubblica che disprezza e perché? Le faccio dei nomi: Rutelli, Fassino, D’Alema, Veltroni…
Intanto, la parola disprezzo non appartiene al mio vocabolario. Direi disistima. A Rutelli ho dato del grandissimo stronzo. Fui querelata. Sono passati vent’anni, col tempo le arrabbiature passano e, di recente, ci siamo anche riparlati.
Ricordo che una volta, dopo che fui condannata a pagare una multa di cinquantamila lire per l’epiteto che gli rivolsi, mio padre commentò sarcastico che, “grazie a mia figlia, tutti adesso sanno quanto costa dare dello stronzo al sindaco di Roma”.
Fassino, pur essendo stato un giustizialista feroce, ha provato, a differenza di altri, a fare un po’ i conti con la storia di Tangentopoli. D’Alema, che ci faceva la morale tutti i giorni, in quanto ad affari, non penso debba insegnare nulla a nessuno. Veltroni, invece, ogni tanto prova a raccontare sulle pagine del Corriere la storia a modo suo. Ma nessuno ha ancora fatto davvero i conti con Craxi.
Come mai, secondo lei, tanti socialisti, crollato il partito, sono finiti nelle mani di Berlusconi, che con il socialismo non c’entrava proprio?
Anche per reazione a quello che era successo. Una domanda che molti dovrebbero porsi! Forza Italia ha rappresentato l’approdo naturale per sanare la ferita che era stata inferta alla comunità socialista. O lei pensa che fosse possibile muoversi nell’alveo di Botteghe Oscure, dove avrebbe continuato a dominare l’antisocialismo viscerale?
Lei si sente più una socialista o una capitalista, visto il lavoro da imprenditore fatto per anni?
Io mi definisco una socialista craxiana.
Perché suo padre volle aiutare un parvenu come Berlusconi con quel famoso decreto? Re Silvio finanziava il partito?
No, Berlusconi non ha mai finanziato il partito e, soprattutto, non ha mai fatto parte dell’establishment del Paese. Mio padre lo ha aiutato molto perché le televisioni commerciali rompevano il monopolio della Rai. Fu quella una battaglia di libertà, per il progresso dell’Italia.
Perché suo padre detestava i giornalisti? Eppure, nei suoi anni d’oro, c’era la fila per leccargli i piedi…
Non è vero che li detestava, anzi; con alcuni aveva anche ottimi rapporti personali…
Giulio Anselmi mi ha raccontato di una telefonata furibonda di suo padre con annessa minaccia di fargli perdere il posto…
Credo che non si apprezzassero a vicenda. L’atteggiamento di Anselmi nei confronti di mio padre fu a dir poco scandaloso, ma comunque Craxi non ha mai fatto cacciare nessuno.
E perché? Scandaloso perché indipendente? Anselmi è stato uno dei pochi direttori veramente liberi…
La campagna di informazione fatta da Anselmi e da tanti altri fu denigratoria. Lei forse l’ha dimenticato, ma mi vengono in mente alcune prime pagine, con le pubblicazioni di conversazioni private tra me e mio padre. Un grafico importante, tale Muzi Falcone, colui che inventò il simbolo della Quercia, mandò una lettera ai giornali in cui affermava che la sottoscritta fosse ricoverata in una casa di disintossicazione…
Faceva uso di cocaina, o era schiava della bottiglia?
Ma no! Avevano messo in giro questa voce solo per gettarmi del fango addosso.
A proposito di grandi direttori: cosa pensa di Scalfari?
Penso che, da un punto di vista politico, non ne abbia azzeccata una!
Perché tra Scalfari e Craxi il rapporto è sempre stato burrascoso?
Semplice: Scalfari imputava a mio padre la mancata elezione a deputato, sul finire degli anni Settanta. E, come si è potuto vedere, non gliel’ha mai perdonata.
C’era qualche giornalista, invece, che lui stimava?
Nonostante i conflitti, stimava molto Giampaolo Pansa, e tutti i giovani cronisti che lo seguivano nei viaggi, penso a Massimo Franco, a Marcello Sorgi, a Paolo Mieli. Craxi amava in modo particolare gli irregolari, i “liberi di testa”: Giampiero Mughini, Vittorio Sgarbi, Roberto D’Agostino…
Se non erro, anche gli stilisti, un tempo tutti socialisti, hanno abbandonato suo padre… Dico bene?
Craxi capi’ e seppe interpretare il Made in Italy, la capacitàla laboriosità degli italiani e se ne fece ambasciatore nel mondo. E così anche Milano soppiantò Parigi come capitale della moda. Questo era il motivo della riconoscenza di quel mondo verso Bettino. Mi ricordo, a onor del vero, una volta in cui Krizia sostenne di non conoscerlo a cui rispose mia madre con una garbata lettera in cui disse che Krizia, tra gli altri, le prestava gli abiti durante i suoi viaggi a fianco di Craxi, presidente del consiglio, e lei aveva pensato fosse un segno di amicizia…
“Io provo un rancore tanto grande che non ho posto per i piccoli rancori”. Mi ha incuriosito questa sua riflessione, per certi versi amara…
Una riflessione figlia del fatto che l’ingiustizia subìta da mio padre è talmente grande, che non riesco a dimenticare. Ma il mio, voglio chiarirlo, è un rancore politico. Pretendo delle scuse, in primis dalla sinistra, che, a distanza di tanti anni, ancora non ha fatto i conti con sé stessa.
Le scuse… ma non arriveranno mai… E’ un’illusa…
Questo lo dice lei.
Per il cognome che porta, o che portava soprattutto quando suo padre era all’apice del potere, si è mai sentita usata?
No, perché ho pochi amici, quelli di sempre, quelli che non ti tradiscono mai…
Ha mai avuto paura di finire in miseria, quando stava crollando tutto?
In miseria no, ho sempre lavorato, ma con mio marito abbiamo passato momenti di grande difficoltà, perché quando scoppiò Tangentopoli nessuno ci rispondeva al telefono, la nostra azienda rischiava di fallire…
I nomi, Stefania…
Neanche sotto tortura.
Qual è stato il momento più doloroso della sua vita?
La morte di Bettino Craxi.
Nel film su suo padre, Gianni Amelio tratteggia suo fratello Bobo in maniera poco tenera. C’ha visto giusto…?
A naso, penso non si siano piaciuti…
E il film, le è piaciuto?
Ad Amelio, che stimo molto come regista, non interessava fare un film “politico”, ma tracciare un parallelo fra la parabola di Craxi e le grandi tragedie classiche. Nel film c’è quindi poca politica, e Craxi era un uomo “totus politicus”. Il merito della pellicola è stato quello di avere acceso i riflettori sulla sua storia.
Al di là dell’affetto, ha stima per la carriera di Bobo? Eppure c’è chi dice che non abbia nessuna stoffa particolare e che senza quel cognome sarebbe stato un perfetto sconosciuto?
Penso che mio fratello abbia fatto un grandissimo errore: quello di essere passato a sinistra, quella stessa sinistra che il nome Craxi non l’ha mai sopportato e accettato.
Che rapporto ebbe l’Avvocato con suo padre?
A differenza di tanti politici di oggi, Craxi non si è mai inchinato dinanzi al gotha dell’imprenditoria, ai santuari del capitalismo. Lo muoveva la convinzione che la politica dovesse esercitare il primato sulla finanza e sull’imprenditoria…
Agnelli, da uomo di potere, chiedeva continui favori a chiunque… Anche a suo padre?
Ricordo che mio padre, commentando le assoluzioni in casa Fiat, una volta mi disse: cosa andava a fare Romiti nell’ufficio degli amministratori dei partiti? A parlare del nuovo modello della 500?
Cosa le disse suo padre prima di morire? C’è un ricordo che non riesce a dimenticare?
Dopo la sua morte, trovai un foglietto scritto a mano: “In questo processo, in questa trama di odio e menzogne devo sacrificare la mia vita per le mie idee. La sacrifico volentieri…” Ero lì con lui, ad Hammamet, poche ore prima che se ne andasse, e continuava a parlare di politica e dell’Italia. Una mattina, appena sveglio, mi disse che aveva sognato Milano, di essersi ritrovato a passeggiare in piazza Duomo. Aveva nostalgia del suo Paese e dei tanti posti che non era riuscito a vedere. Dopo pranzo, mi disse: vado in camera a sdraiarmi, portami un caffè. Lo raggiunsi in stanza e lo trovai riverso sul letto, ormai privo di vita…
Chi fu il primo, dopo la sua morte, a raggiungere Hammamet?
Yasser Arafat… E poi le persone a me più care, compresi Casini e Follini…
Dall’Italia, invece?
Dall’Italia mi chiamarono in tanti. Ricordo che l’allora presidente del Consiglio, Massimo D’Alema, tramite il sottosegretario Minniti, offrì i funerali di Stato. Ringraziai, e risposi di no.
Perché?
Delle due l’una: o Craxi era uno statista, e allora aveva diritto ad essere curato in Italia da uomo libero, oppure era un delinquente, e allora non meritava tutti gli onori che gli venivano offerti in quel momento dalle massime autorità italiane. Scelsi la coerenza e la dignità.
Quanto conta, per lei, il denaro?
Nulla, anche perché ho un rapporto pessimo con i soldi.
È stata una donna fedele?
Abbastanza, ma ho avuto due mariti…
Una donna noiosamente monogama…
Questo lo dice lei!
Che gioventù ha vissuto lei in mezzo a quel circo?
Non lo definirei circo, ma una comunità, una bellissima comunità…
Le è mancata l’intimità, però…
Assolutamente sì. Era difficile poter stare da soli con mio padre, soprattutto quando era a Roma.
Lei ama avere il controllo su tutti, e tutti si appoggiano a lei, almeno questo è quello che ho notato… Ha mai voglia di scappare?
Assolutamente sì, mi basterebbero tre giorni.
E con sua madre, che rapporti ha?
Fantastici! Ci ha sempre consentito di vivere una vita normale; quando si trovavano ad Hammamet, e la tempesta in Italia non si era ancora placata, la sentivo sempre serena, tranquilla. Probabilmente, per non affrontare il dolore nei suoi risvolti più spietati, cercava di stare sempre in superficie. Era un modo, il suo, per tenere botta.
Qual è stato il suo, e ultimo, giorno spensierato…?
Se vogliamo parlare di spensieratezza, come tutte le mamme l’ho persa quando sono nati i figli…Se parliamo di serenità, i giorni precedenti al dramma che si è abbattuto sulla nostra famiglia e sull’Italia.
Torna ancora volentieri in Tunisia?
La Tunisia è un Paese che mio padre ha profondamente amato, che io amo profondamente. Un Paese straniero, ma non estraneo, diceva Bettino. Lì mio padre ha vissuto i giorni dolorosi dell’esilio, lì è sepolto nel piccolo cimitero cristiano di Hammamet, di fianco al cimitero musulmano. Tutto il popolo tunisino ha protetto, amato, difeso e garantito la libertà del presidente Craxi, nel rispetto delle leggi e del diritto internazionale, accogliendo la mia famiglia in un momento molto difficile.
Ha il viso malinconico, a tratti sofferente; ha mai conosciuto momenti di felicità?
Ho passato periodi difficili, difficilissimi, con Tangentopoli e tutto quello che poi ne è conseguito per la mia famiglia. Chiaro che, parlando a lungo di una vicenda ancora dolorosissima, il mio viso si rabbuia e intristisce. Ma le posso garantire che nella mia vita la felicità, seppur fuggevole, abita questa casa…
Gli Usa "tifavano" per il pool. E Borrelli riferiva al console. Felice Manti e Edoardo Montolli l'11 Giugno 2022 su Il Giornale.
Il ruolo di diplomatici e 007 americani nel nostro Paese tra il '92 e il '94 in un libro sugli archivi segreti degli States.
Ai tempi di Tangentopoli l'attenzione della segreteria di Stato e dei servizi di intelligence degli Stati Uniti fu particolarmente concentrata nell'assistere alla fine della Prima Repubblica. «L'America si schiera dalla parte dei giudici che danno fiato alle inchieste sulla corruzione... Domina, nei resoconti e nelle informative dell'universo a stelle e strisce, il disinteresse per le sorti del vecchio ceto di governo, prevale nella narrazione sul regime change l'esigenza di guardare avanti, di non attardarsi nella salvaguardia dell'esistente. Un approccio, anche questo, certamente favorito dal mutamento degli equilibri internazionali, e dalla perdita di centralità geopolitica dell'Italia nel più ampio contesto di marginalizzazione del ruolo europeo».
Lo scrive Andrea Spiri nel suo ultimo libro The End 1992-1994 - La fine della prima Repubblica negli Archivi segreti americani (Baldini + Castoldi) dopo aver spulciato decine di rapporti confidenziali dell'epoca ottenuti grazie al Freedom of Information Act, la normativa che regola la declassificazione e l'accesso alle carte ufficiali conservate negli Archivi federali. Si scopre anzi che vi era un filo diretto tra la Procura di Milano e il consolato yankee all'ombra del Duomo, che veniva informato sull'andamento di Mani Pulite, specie nei momenti decisivi. Il 29 aprile 1993, ad esempio, dopo che la Camera aveva respinto le richieste di autorizzazione a procedere nei confronti di Bettino Craxi, il console statunitense Peter Semler incontrò «il numero due dei giudici milanesi» il cui nome è omesso nel rapporto inviato al segretario di Stato americano. Subito dopo quel diniego il Pds di Achille Occhetto aveva imposto il ritiro dal governo dei ministri Augusto Barbera, Luigi Berlinguer, Vincenzo Visco e Francesco Rutelli. E il giudice si lamentava con Semler che «il Pci di Berlinguer non avrebbe mai commesso un errore politico del genere». Non solo. Il magistrato, andando ben oltre le prerogative giudiziarie, riteneva che quella di Botteghe Oscure fosse stata una decisione che «destabilizza l'esecutivo e rischia di trascinare il Paese verso elezioni anticipate». Prospettiva che era «evitare a tutti i costi» anche perché Craxi «verrebbe financo rieletto». E la cosa evidentemente stizziva anche gli americani se si pensa che in un cablogramma del successivo 7 giugno, Daniel Serwer, incaricato d'affari dell'Ambasciata statunitense a Roma, scriveva a Washington dopo le amministrative: «Paradossalmente gli ex comunisti del Pds sono forse gli interlocutori per noi più affidabili in questo frangente storico che vede il declino inesorabile dei partiti con cui abbiamo lavorato a lungo e sui quali abbiamo fatto affidamento». Ma a parlare con gli americani non c'era solo il numero due dei giudici milanesi. C'era forse anche il numero uno degli inquirenti. In un cablogramma del 12 maggio, solo parzialmente desecretato, Semler sintetizza l'incontro con un magistrato, sempre coperto da omissis, che Spiri ritiene di poter individuare nientemeno che nel capo della Procura milanese, Francesco Saverio Borrelli, perché il console faceva riferimento al fatto che il padre della misteriosa toga era la persona che aveva convinto Oscar Luigi Scalfaro a lasciare la magistratura per entrare in politica. E storicamente è risaputo che Scalfaro fu convinto della scelta da Manlio Borrelli, papà di Francesco Saverio. Il magistrato annunciava al diplomatico uno scenario «caratterizzato da un numero di casi ancora maggiore rispetto alle attuali settecento indagini milanesi», lasciando intendere che «ci saranno pochi patteggiamenti» e, per il resto, «verranno celebrati processi lunghi» che «metteranno a dura prova le energie del pool». Ma gli americani guardavano con attenzione anche a ciò che succedeva al Sud, dove i pentiti trascinavano nell'abisso i vertici della Dc. Sicché, quando Giulio Andreotti, accusato di collusione con la mafia, chiese audizione all'ambasciata, partì dopo l'incontro il cablogramma riservato The Accused. Andreotti speaks, datato 2 luglio 1993. Il senatore a vita riteneva che dietro le accuse contro di lui ci fossero «mafiosi americani» e «spezzoni deviati dei Servizi segreti italiani» oltre che dello United States Marshals Service, ovvero l'agenzia federale che sovrintende alle operazioni giudiziarie dall'altra parte dell'Atlantico. Ma non il governo americano. Si lamentava però della diffusione da parte di Washington di un cablogramma molto particolare: «Ha chiesto informazioni in merito alla diffusione da parte del governo americano di un cablogramma del 1984 redatto dal Consolato di Palermo, nel quale veniva riferito che, se i presunti legami di Lima con la mafia fossero stati confermati, allora sia Andreotti che l'intero sistema politico italiano sarebbero finiti nei guai». I diplomatici riconobbero «l'errore», ma anche che gli eventi avevano confermato la profezia. Salvo Lima, in effetti, fu il primo dei delitti che avevano sconvolto l'Italia tra marzo e luglio (così come predetto chirurgicamente da una circolare che allertava il Paese su un pericolo di destabilizzazione orchestrato all'estero) e che frantumò l'immagine del senatore a vita. Il secondo fu la strage di Capaci. Due giorni dopo al Quirinale fu scelto Scalfaro. Gli analisti del Dipartimento di Stato di Washington avevano scritto: «Le ultime speranze di Andreotti» di salire al Colle «sono svanite con l'assassinio di Falcone, per via dei rapporti che il capo del governo intrattiene con figure sospettate di essere in odore di mafia».
Lesa maestà. Mani Pulite non si può criticare, per questo Colombo mi vuole alla sbarra. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 3 Giugno 2022.
Gentile Gherardo Colombo,
lei, in sodalizio con Piercamillo Davigo e Elio Ramondini (quest’ultimo a me, come immagino ai più, perfettamente sconosciuto), ha deciso di querelarmi per un articolo pubblicato da questo giornale. L’articolo di cui lei, con i suoi colleghi, si è doluto, argomenta in modo magari contestabile ma – almeno si spera – non meritevole di sanzione penale, che l’adozione della dicitura “Mani Pulite” costituisce in sé un pericoloso segno di inflessione autoritaria, e che la cultura che vi si richiama ha arrecato grave danno al Paese, al nostro ordinamento civile, al tenore della nostra democrazia.
Scrivere – come ho scritto qui – che “La cultura di Mani pulite, la brutalità proterva dei suoi modi e la buia temperie che li festeggiava, furono e rimangono la vergogna della Repubblica”, è espressione di un giudizio civile e politico che può non essere condiviso, ma che soltanto in forza di un gravissimo pregiudizio può ritenersi vietato. Sostenere – come ho sostenuto qui – che è “civilmente osceno e democraticamente blasfemo” intestare all’iniziativa di una funzione pubblica un segno distintivo moraleggiante (“Mani Pulite”, appunto), specie sulla scena delle acclamazioni popolari e dei suicidi che non saranno stati colpa di nessuno, ma c’erano, significa manifestare un’inclinazione morale e un convincimento politico che ancora una volta potranno essere discutibili, ma che in un assetto di tutela minima dei diritti individuali dovrebbe essere tuttavia consentito.
Lei, dottor Colombo, che pubblicamente argomenta di aver lasciato la magistratura perché era stufo di togliere la libertà alle persone, reclama invece che sia applicata una sanzione penale a chi, come me, si è reso responsabile d’aver scritto – contro la maggioranza che ne fa invece apologia – che quello di cui lei è stato personaggio è uno dei capitoli vergognosi della storia d’Italia, e che verecondia vorrebbe che i protagonisti giudiziari di quegli eventi si limitassero semmai a dimostrare di aver solo applicato la legge piuttosto che impancarsi ad agenti del bene pubblico. Ci vuole la galera, per quelli che pensano e scrivono queste cose?
Caro dottor Colombo, grattata la superficie delle vostre recriminazioni, ciò di cui in realtà vi lamentate è la lesione della maestà di Mani Pulite. Perché evidentemente non vi identificate nei provvedimenti che voi avete tutto il diritto di rivendicare quanto gli altri hanno il diritto di criticare, ma appunto nell’immagine apologetica di quell’esperienza giudiziaria e nella cultura che l’ha ispirata e vi si è ispirata. Un’esperienza e una cultura che non soltanto chi scrive, ma chiunque, avrebbe il diritto di considerare pessime. Iuri Maria Prado
Michele Santoro, Funari e gli altri: quando il talk show inventò l’indignazione della gente comune. Trent’anni fa, ai tempi di Mani Pulite, si affermarono programmi che secondo Simona Colarizi allevarono i prototipi degli odierni hater. Ma quello, a differenza di quanto accade con i social, fu un fenomeno collettivo. Giandomenico Crapis su L'Espresso il 16 Maggio 2022.
La storica Simona Colarizi nel saggio “Passatopresente” (editori Laterza ), uscito di recente, parla dell’azione «devastante» della tv nei primi anni Novanta, che allevò con i suoi talk i prototipi degli odiatori del ventunesimo secolo. Un giudizio tranchant e senza appello. Ma davvero i lanciatori di monetine dell’hotel Raphaël erano gli antenati degli odierni haters? Lo vedremo più avanti, dopo avere ricordato a trent’anni da Mani Pulite il ruolo che vi ebbe la televisione, cercando di collocarne l’azione in una prospettiva di più lungo periodo.
Gli Stati corruttori, la nuova questione morale. Ernesto Galli della Loggia su Il Corriere della Sera il 19 Dicembre 2022.
Unifica il fronte dei tiranni il profondo disprezzo ideologico verso l’universo dei valori di libertà e di eguaglianza dove essi giudicano che «tutto è in vendita»
L’eterna rissa italiana tra destra e sinistra sulla spinosa questione morale da un lato, e dall’altro la non eccelsa reputazione di cui godono le istituzioni europee hanno concentrato l’attenzione suscitata dallo scandalo delle tangenti Ue assai più sul versante dei corrotti che su quello dei corruttori. Sulla miserabile congrega di politici di serie B residenti a Bruxelles e di sottopancia intraprendenti e bellocci anziché su chi elargiva loro i quattrini per i suoi scopi poco puliti. Ma il vero nodo politico è su questo versante, non sull’altro. Di corrotti, infatti, ce ne sono sempre stati e sempre ce ne saranno così come sempre ci sono stati e sempre ci saranno, ad esempio, grandi interessi economici pronti a cercare chi, in cambio di soldi, si metta al loro servizio. È considerato in un certo senso talmente fisiologico questo ultimo tipo di ricerca di «influenza» che esso ha trovato anche un nome presentabile, «il lobbysmo», con un adeguato corredo di regole come quelle (forse un po’ troppo generose?) vigenti a Bruxelles.
Il vero fatto nuovo del Qatargate, invece, è il Qatar. Il vero fatto nuovo, cioè, è la definitiva scoperta di un genere di corruttore del tutto inedito, e cioè gli Stati: non già per ragioni di spionaggio ma per ben altro. Negli ultimi anni ne avevamo avuto sentore (più di un sentore in verità) ma ora è una certezza. Si tratta perlopiù di Stati africani e asiatici — con l’importante eccezione della Russia — uniti tutti dalla caratteristica di essere retti da regimi non democratici.
In un certo senso quanto sta accadendo lo si potrebbe considerare anche una sorta di nemesi storica. Una sorta di contrappasso per le tante volte in cui, nel corso dei secoli, avventurieri europei di ogni risma o addirittura rappresentanti delle stesse potenze europee se ne andarono in giro in Asia e in Africa con qualche sacchetto di vetri colorati o di qualche vecchio moschetto arrugginito ad «acquistare» dai capi locali, in cambio di questa paccottiglia, tutto quello che potevano: dagli esseri umani da ridurre in schiavitù a immense estensioni territoriali.
Ma oggi la storia ha cambiato verso ed è l’Occidente che viene preso di mira a suon di euro o di dollari. Non già però, come ho detto, nel tentativo di corrompere questo o quel funzionario per carpire qualche informazione, per aver accesso a un piano o a un documento, non già a fini di spionaggio insomma, come in sostanza avveniva un tempo, ma per uno scopo ben più ambizioso e grave: per influenzare lo stesso processo decisionale di vertice di quel Paese (o nell’ultimo caso l’Unione europea), per determinarne le scelte politiche anche le più importanti. Perfino per stabilire chi lo governerà. Il mondo dei tiranni, insomma, ha scoperto che il mondo delle democrazie, delle istituzioni democratiche, dei partiti e dei parlamenti, non solo è regolato da procedure aperte e perciò permeabilissime dall’esterno, ma è altresì pieno di donne e uomini fragili, dagli ideali deboli o inesistenti, avidi di successo personale, di automobili, di sesso, di Rolex; è popolato di statisti di serie B interessantissimi conferenzieri da 50 mila dollari a prestazione. E allora non si fa problemi a pagare. A cercare tra queste persone chi possa servire ai suoi propositi. Non basta, perché al fine di falsare le consultazioni elettorali oltre i soldi il mondo dei tiranni mette in campo anche le risorse del progresso tecnico, della suggestione mediatica, della manipolazione digitale delle informazioni.
Il fatto è che da qualche decennio viviamo in una congiuntura storica nuova, nella quale si sommano e s’intrecciano vari fattori più o meno inediti che, insieme, hanno segnato per l’argomento di cui ci stiamo occupando una vera e propria svolta.
Sul versante dei corruttori assistiamo innanzitutto a un’esplosione di attivismo sia da parte della Cina, ansiosa di giungere al potere mondiale con ogni mezzo — non ultimo la costruzione di una rete d’influenza commerciale, la planetaria «via della seta», che però necessita della collaborazione/complicità dei governi dei Paesi interessati —, sia della Russia che, guidata da una leadership dagli accenti paranoici, cerca con la violenza di mantenere i suoi antichi domini imperiali e la sua antica influenza servendosi di qualunque élite occidentale «amichevole» disposta ad aiutarla in cambio delle sue «risorse» d’ogni genere. Accanto a Cina e Russia si affollano molti altri attori di calibro minore — Turchia, Marocco, Corea del Nord, Stati del Golfo - ognuno con le sue mire espansionistiche o egemoniche a carattere più o meno regionale, pronti a impiegare i propri soldi per due obiettivi congiunti: acquisire il placet dell’Occidente ai propri disegni (spesso insieme a forniture militari) ovvero impedire che si faccia luce sul carattere sempre antidemocratico e perlopiù criminale del proprio regime interno. Unifica il fronte dei tiranni un elemento comune: il profondo disprezzo ideologico verso l’universo dei valori di libertà e di eguaglianza — dove essi giudicano che «tutto è in vendita» — nonché verso l’umanità che è frutto di quei valori.
Sull’altro versante, quello dei corrompibili c’è per l’appunto questa umanità, ci siamo noi, c’è il nostro mondo. Con la sua pronta, obbligatoria disponibilità a tutto ciò che sappia di diverso dall’Occidente, con il proliferare di mille centri decisionali e la loro facile penetrabilità, soprattutto con la disarticolazione culturale e morale delle sue élite: non più tenute insieme da forti valori condivisi o da antiche regole di educazione e di stile, non difese da consapevoli e forti identità né istruite adeguatamente ai nuovi compiti e alle nuove responsabilità; c’è infine il mondo della nostra sfera pubblica dove sembrano avere sempre più la meglio «la gente nova e i sùbiti guadagni».
La corruzione, quando coinvolge i vertici, non è più un fatto solo penale: è lo specchio dove è dato leggere il grado di salute dell’organismo a cui quei vertici presiedono e talvolta, Dio non voglia, anche il destino che l’aspetta.
Tangentopoli europea: i soldi dal Qatar sarebbero solo la punta dell’iceberg. Michele Manfrin su L'Indipendente il 15 Dicembre 2022.
Dopo che vi avevamo già parlato degli arresti a carico della Vice-Presidente del Parlamento europeo, Eva Kaili, e del suo compagno Francesco Giorgi, così come di Antonio Panzeri, ex eurodeputato del Pd e di Articolo 1 del gruppo europeo Socialisti e Democratici (S&D) e del direttore della ong No Peace Without Justice, Nicolò Figà-Talamanca, torniamo a parlare dello scandalo denominato Qatargate. Infatti, da come apparso fin da subito, la questione è destinata ad allargarsi e ciò che è successo fin oggi potrebbe quindi essere soltanto la punto di un iceberg. Mentre si allarga la rete delle persone coinvolte, iniziano ad aggiungersi anche altri attori statali per uno scandalo che va ben al di là del Qatar, che anzi forse non sarebbe nemmeno il Paese estero maggiormente coinvolto nel giro di tangenti.
Più volte la deputata europea Manon Aubry, del gruppo della sinistra radicale (GUE/NGL) aveva chiesto all’Assemblea di adottare una risoluzione di condanna nei confronti del Qatar. Oltre ad allargarsi ad un maggior numero di persone, l’inchiesta apre ora verso scenari che coinvolgono altri paesi, come il Marocco. Francesco Giorgi, ex assistente di Panzeri e oggi nell’ufficio dell’europarlamentare Andrea Cozzolino (Pd), nonché compagno della Vice-Presidente Eva Kaili, ha confessato circa l’esistenza di una ancora non meglio descritta organizzazione capeggiata da Pier Antonio Panzeri e che il suo ruolo in essa era quella di gestire il denaro. Durante la sua confessione, Giorgi ha spiegato che i soldi per interferire negli affari europei non arrivano solo dal Qatar ma anche dal Marocco.
Dalle indagini risulta che anche il Marocco, attraverso il suo servizio di intelligence estero DGED (Direction générale des études et de la documentation), sarebbe coinvolto in questo dossier di corruzione. Secondo i documenti, Panzeri, Cozzolino e Giorgi erano in contatto con il DGED e con Abderrahim Atmoun, ambasciatore del Marocco in Polonia. Con la mediazione del funzionario politico marocchino, incontri, colloqui e cene venivano imbastiti tra i tre italiani e i massimi funzionari dei servizi segreti di Rabat, come Belarace Mohammed, ufficiale della DGED, e Mansor Yassin, direttore generale di DGED. Panzeri, Cozzolino e Giorgi hanno ricevuto pagamenti attraverso i conti della ONG Fight Impunity, anche in contanti, o con un “regalo”.
Ciò che è emerso da quanto riportato dal quotidiano Le Soir e il settimanale Knack, dipinge uno scenario di “guerra” tra spie, con il sospetto, ventilato dagli stessi qatarini, che via sia il coinvolgimento dei servizi segreti degli Emirati Arabi Uniti – che hanno respinto le accuse – nel disvelare la rete di corruzione. Proprio grazie alla perquisizione dei servizi segreti belgi nella casa di Antonio Panzeri, trovandovi 700mila euro in contanti, a quel punto, lo scorso 12 luglio, il fascicolo è stato desecretato ed è passato alla magistratura. I fiumi di banconote sequestrate a Bruxelles sarebbero serviti per la distribuzione ad altri eurodeputati appartenenti al gruppo dei Socialisti e Democratici (S&D).
Il Marocco avrebbe interferito con la politica europea per interesse nel settore della pesca e soprattutto in relazione alla questione del Sahara occidentale e del popolo sahrawi, quindi sul fronte dei diritti umani e dell’autodeterminazione dei popoli. Per quanto concerne invece il Qatar le mire sarebbero state ancora più vaste: prima il dossier relativo ai mondiali di calcio e la violazione dei diritti umani, un maggiore radicamento in vari settori del mercato europeo e una politica di liberalizzazione dei visti (che era in discussione) con l’UE.
Intanto, all’Europarlamento è stata presentata una risoluzione redatta da tutti i principali gruppi per “sospendere tutti i lavori sui fascicoli legislativi relativi al Qatar, in particolare per quanto riguarda la liberalizzazione dei visti e tutte le visite programmate, fino a quando le accuse non saranno state confermate o respinte”. Il voto in plenaria è previsto per oggi, 15 novembre.
L’Unione Europea subisce un grave colpo alle proprie istituzioni democratiche proprio mentre infuria la guerra in Ucraina ove risulta, con la NATO, coinvolta dalle retrovie e le cui azioni stanno producendo effetti catastrofici in ambito economico-sociale e per cui mette a rischio la propria tenuta politica, economica e sociale. Al contempo, il Qatar, che aveva militarizzato l’edizione del mondiale di calcio, col timore che potesse essere una vetrina succulenta e su cui si giocavano anche interessi geostrategici, viene colpito al fianco e forse dove non se lo aspettava. A questo punto ci chiediamo quanto sia realmente vasta la corruzione nelle istituzioni europee e quale, e da chi, influenza indebita venga esercita sui politici dell’Unione Europea. [di Michele Manfrin]
Fifa Uncovered. Il più grande scandalo di corruzione nella storia dello sport. Alessandro Cappelli su L’Inkiesta il 24 Novembre 2022.
Una docuserie Netflix in quattro episodi racconta l’evoluzione della federazione calcistica mondiale del calcio, da «Ong del pallone» a impero in cui la corruzione è sistemica. La stessa assegnazione dei Mondiali in Qatar è legata al pagamento di tangenti milionarie
Il principio della salsiccia dice che se c’è qualcosa di buono o di bello è meglio non sapere com’è fatto. Di solito si applica alle leggi e alla politica: meglio non investigare cosa c’è dietro accordi, compromessi e strette di mano. Vale anche per il mondo del calcio, per la Fifa, le triangolazioni tra i suoi funzionari.
A lungo tifosi e semplici spettatori hanno fatto finta di niente, hanno scelto di non dare peso agli scandali che riguardavano il governo del pallone – cioè di uno sport seguito con trasporto trascendentale, mistico, religioso – anche quando erano al centro delle cronache e delle indagini giudiziarie. In fondo, se il piatto è buono meglio non fare troppe domande.
L’inizio dei Mondiali in Qatar però ha cambiato ogni prospettiva. Le oscenità in serie girate sui social e poi sui giornali hanno ridimensionato l’interesse per l’evento calcistico più importante di tutti, seppellendo sotto una montagna di marciume, corruzione e morti impunite la bellezza sportiva della competizione.
Il Qatar ha programmato questi Mondiali per quasi due decenni, e comunque non è riuscita a offrire un’organizzazione paragonabile alle edizioni precedenti. La Fifa invece sembra arrivata alla chiusura di un cerchio, al termine di un percorso e un declino – politico, ma anche morale e umano – decisamente più antico.
«Se vuoi gestire la Fifa con un codice etico, allora buona fortuna», suggerisce Jérôme Valcke, ex segretario generale Fifa, nelle scene finali della docuserie Netflix “Fifa: Tutte le rivelazioni”. In quattro episodi, la serie pubblicata poco prima dell’inizio dei Mondiali dipinge un quadro affascinante e scoraggiante: quattro ore di interviste a giornalisti, ex funzionari Fifa, agenti sportivi, forze dell’ordine e persone coinvolte nelle indagini sono una miscela di trasgressione e ripugnanza che rendono il racconto di una storia calcistica una serie sulla perversione criminale del potere, sull’inevitabilità del male. «Non sono sicuro che sia possibile seguire un codice etico», dice Valcke in un misto di sicumera e inconsolabile accettazione.
Per decenni la Fifa era stata solo un’ente dedito all’organizzazione dei tornei, con una visione puramente idealistica di un calcio senza scopo di lucro e l’obiettivo ultimo di portare in tutto il mondo the beautiful game.
Nel 1974 João Havelange diventa presidente. È l’anno in cui sbiadisce l’idea romantica dietro l’organo di governo del calcio mondiale: la campagna elettorale dell’ex nuotatore brasiliano è ambiziosa, parla di un calcio globale diffuso in maniera capillare, una bandierina in ogni centimetro del planisfero.
Politicamente è una strategia geniale. In un sistema in cui ogni federazione nazionale vale uno, le organizzazioni continentali del Nord America (Concacaf) e dell’Africa (Caf) hanno un peso elettorale enorme pur avendo mercati marginali rispetto al movimento calcistico mondiale: bisogna convincere i vertici di quelle federazioni per garantirsi la continuità al trono.
Il successo di Havelange inizia proprio con le buste di contanti da distribuire ai presidenti delle federazioni a cui deve chiedere voti: è il momento della storia in cui la corruzione nella Fifa si trasforma in un elemento sistemico, il pilastro su cui poggia l’architrave del potere.
Una visione che non può concretizzarsi con le scarse risorse di un’organizzazione che fino a quel momento era paragonabile a una Onu del calcio: il calcio fine a se stesso deve morire, sostituito da una visione del gioco come prodotto, merce da vendere al miglior offerente.
Il volto e la mente dietro questa trasformazione sono di uno svizzero nativo di Visp, settemila anime tra le valli del Canton Vallese, un uomo innamorato del calcio che non vede l’ora di avere un ruolo in questa storia. Sono i primi passi nella costruzione di un impero che poi Sepp Blatter avrebbe governato per molti anni.
L’idea è rivoluzionaria eppure semplicissima: servono sponsor. Il primo è Coca Cola, che nel 1976 diventa partner nei progetti calcistici destinati ai giovani. «Due grandi organizzazioni potevano e dovevano lavorare insieme», pensa Blatter. Serve un fornitore di attrezzature sportive e il secondo brand a stringere mani e firmare contratti è adidas. Ne seguiranno altri, Phillips, Canon, Gillette. Se c’è una ricompensa, i Mondiali li può organizzare chiunque: Havelange appoggia la candidatura dell’Argentina per la Coppa del Mondo del 1978; significa fare il gioco di Videla e di tutta la giunta militare, ma nell’ottica del calcio come prodotto passa tutto in secondo piano.
Possono sembrare storie di un passato più cupo del presente, in realtà è tutto ancora in piedi, come se certi principi fossero scolpiti nella pietra: domenica scorsa l’attuale presidente della Fifa, Gianni Infatino – purtroppo rimasto fuori dalla docuserie Netflix, ma è uno che in questi anni ha stretto la mano di Vladimir Putin e degli sceicchi qatarioti – ha detto che tutti possono ospitare i Mondiali, anche la Corea del Nord.
La chiave di volta di “Fifa: Tutte le rivelazioni” è nel terzo episodio, quello che racconta sia le accuse di corruzione dei membri della Fifa per mano del Qatar, sia l’intersezione tra interessi del calcio e della geopolitica che ha portato Blatter ad annunciare con un po’ di scoramento l’assegnazione dei Mondiali al piccolo emirato del Golfo.
L’informatore Phaedra Almajid, responsabile capo delle relazioni con i media internazionali della Fifa, rivela di aver assistito al pagamento di tangenti in cambio del voto per assegnare i Mondiali al Qatar. Hassan Al Thawadi, segretario generale del Comitato Supremo incaricato della Coppa del Mondo 2022, avrebbe offerto denaro ai delegati del Camerun (Issa Hayatou), della Costa d’Avorio (Jacques Anouma) e della Nigeria (Amos Adamu) per assicurarsi il loro voto.
Lo scandalo sembra così più vero e più crudele in questi giorni in cui i migliori giocatori del mondo vanno in campo negli stadi in mezzo al deserto, tra tifosi finti e una generale sensazione «che sia tutto finto, molto, molto finto», come ha detto a Linkiesta un agente di calciatori – che preferisce rimanere anonimo – sbarcato in Qatar due giorni prima della partita inaugurale.
L’inchiesta dell’Fbi ha portato, nel 2015, a quarantasette capi d’accusa tra cui associazione a delinquere, frode telematica e riciclaggio di denaro; all’arresto di sette massimi dirigenti; quattro membri del Comitato esecutivo indagati; le dimissioni di Sepp Blatter. Il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti – che ha coordinato le indagini con l’Fbi – l’aveva definita come una fitta rete di corruzioni concatenate che avrebbe influenzato accordi di marketing, diritti tv e appunto l’assegnazione dei Mondiali, per cifre che si contano nell’ordine delle centinaia di milioni di dollari, in un periodo lungo circa due decenni.
Da fanpage.it il 9 dicembre 2022.
La magistratura Belga ha lanciato un'ondata di perquisizioni a Bruxelles nella mattinata di oggi nell'ambito di una inchiesta su presunte corruzioni al Parlamento Ue e l'esistenza di una organizzazione infiltrata nel cuore dell'Europarlamento, sospettata di ingerenza nella politica dell'Ue e corruzione da parte del Qatar. Lo rendono noto in esclusiva i quotidiani locali Le Soir e Knack rivelando che tra gli indagati vi sarebbero anche quattro italiani.
Secondo le ipotesi degli inquirenti della procura federale belga, riportate dai due giornali, si sospetta che il Paese del Golfo dove si stanno svolgendo i mondiali di calcio abbia tentato di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo corrompendo politici ed europarlamentari
"La polizia giudiziaria federale ha effettuato 16 perquisizioni (in 14 diversi indirizzi) in diversi comuni di Bruxelles. In particolare a Ixelles, Schaerbeek, Crainhem, Forest e Bruxelles-Ville. Queste perquisizioni sono state effettuate nell'ambito di un'ampia indagine per presunti atti di organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio di denaro" confermano dalla procura belga senza però indicare i nomi dei coinvolti né quello del Paese del Golfo che, attraverso il pagamento di "ingenti somme di denaro o offrendo doni significativi a terzi che rivestono una posizione politica e/o strategica significativa all'interno del Parlamento europeo", avrebbe interferito sulle politiche Ue.
Secondo le informazioni della stampa belga, tra gli indagati figurerebbero l'ex deputato democratico Pier Antonio Panzeri, il neoeletto segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati (Ituc) Luca Visentini, nonché un direttore di una ong e un assistente parlamentare europeo – tutti italiani. Per loro sarebbero scattati fermi e perquisizioni.
Panzeri è stato eurodeputato per tre mandati, dal 2004 al 2019. Panzeri è stato eletto all'Eurocamera nella lista Uniti nell'Ulivo ed è stato riconfermato a Strasburgo alle Europee del 2009. Nel 2014 è stato eletto eurodeputato una terza volta, nelle liste del Pd ma nel 2017 ha lasciato i Dem per aderire ad Articolo I. All'Eurocamera ha ricoperto diversi incarichi ed è stato, tra l'altro, presidente della sottocommissione dei diritti umani. Luca Visentini è stato per diversi anni il punto di riferimento dei sindacati europei. Nel 2015 è stato eletto segretario generale della Etuc, ovvero la confederazione dei sindacati europei, e nel 2019 è stato riconfermato. Infine è stato nominato come segretario generale della Ituc (International Trade Uniion Confederation), la più grande confederazione sindacale del mondo.
Da iltempo.it il 9 dicembre 2022.
Terremoto in Europa. La vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili è stata arrestata per una sospetta corruzione con soldi arrivati dal Qatar.
A riferire la notizia è il quotidiano belga Le Soir, che spiega come l'abitazione della rappresentante socialdemocratica greca sia stata perquisita e che anche il compagno sia indagato per corruzione. Il partito socialista greco, Pasok, ha espulso l’eurodeputata: “A seguito degli ultimi sviluppi e delle indagini delle autorità belghe sulla corruzione di funzionari europei, l’eurodeputata Eva Kaili viene espulsa dal Pasok - Movimento per il cambiamento per decisione del presidente Nikos Androulakis”. L'unico modo per arrestare un parlamentare protetto dall'immunità è coglierlo in flagrante.
Il 1 novembre, su Twitter, è stato riportato che Kaili ha incontrato il ministro del Lavoro del Qatar, Al Marri. L’eurodeputata era inoltre intervenuta il 21 novembre nella plenaria a Strasburgo, nel dibattito sulla ‘Situazione dei diritti umani nel contesto della Coppa del Mondo Fifa in Qatar’, con parole positive nei confronti del paese del Golfo: “Oggi i Mondiali in Qatar sono la prova, in realtà, di come la diplomazia sportiva possa realizzare una trasformazione storica di un Paese con riforme che hanno ispirato il mondo arabo. Il Qatar è all’avanguardia nei diritti dei lavoratori, si sono aperti al mondo. Tuttavia, alcuni qui stanno chiedendo di discriminarli. Maltrattano e accusano di corruzione chiunque parli con loro. Ma comunque, prendono il loro gas. E hanno le loro aziende che guadagnano miliardi lì”.
Tangenti del Qatar, è coinvolta la Ong fondata da Emma Bonino: “Non so niente, non ricordo”. Guido Liberati su Il Secolo d’Italia l’11 Dicembre 2022.
Nessun tg lo ha detto, nessun quotidiano lo ha pubblicato in prima pagina, ma nello scandalo delle tangenti del Qatar al Parlamento europeo, figura anche la Ong«No Peace Without Justice» (“Non c’è pace senza giustizia”), fondata da Emma Bonino. Al momento, una delle persone in stato di fermo in Belgio è il segretario generale della Ong, Niccolò Figà Talamanca, considerato da sempre un fedelissimo della leader di Più Europa.
Al Corriere della Sera, l’esponente radicale ha risposto con delle risposte molto vaghe, costellate da “Non so” e “non ricordo”. La giornalista che la interpella telefonicamente riesce a strapparle pochissime ammissioni. Chiede Alessandra Arachi: Lei ha fondato a Bruxelles la Ong “Non c’è pace senza giustizia”? «Sì,è successo nel 1994 se non ricordo male. Forse era il 1993». L’Ong è finita nell’inchiesta sul presunto tentativo da parte del Qatar di corrompere alcune autorità europee. Sa niente di questo? «No, non so niente, aspetto la magistratura che si deve esprimere, credo che lo farà nel giro di pochi giorni».
Niccolò Figà -Talamanca, il segretario generale della sua Ong, è implicato direttamente in questa inchiesta. «Ho letto, ma non ho potuto parlare con Niccolò, lui adesso è in stato di fermo. Immagino che gli abbiano dato un avvocato d’ufficio». Ancora più vaga la risposta su Antonio Panzeri, uno dei principali indagati di questa inchiesta. «Non mi ricordo di lui – dice la Bonino al Corriere – può essere che l’abbia incontrato qualche volta quando ero al Parlamento europeo».
Chi è il fedelissimo della Bonino fermato per le tangenti del Qatar
Niccolò Figà Talamanca, nato a Genova nel 1971 è uno degli indagati ed è considerato un fedelissimo di Emma Bonino. Ha un curriculum accademico che passa dal Tribunale penale internazionale per l’ex-Jugoslavia dell’Aia alla Comitato degli avvocati per i diritti umani di New York City.
Nello stesso edificio dove ha sede la sua Ong, a Bruxelles hanno sede anche i Radicali Italiani, Più Europa, l’Associazione Luca Coscioni, l’Euro-Syrian Democratic Forum, Al Wefaq (un partito di opposizione del Bahrein) e altre realtà. Più, appunto, Fight Impunity di Panzeri, che ha una targa separata, probabilmente perché è di costituzione più recente.
L’associazione “Non c’è pace senza giustizia” è una presenza fissa su Radio Radicale. Sulla home page dell’associazione campeggia una foto di Emma Bonino e un suo messaggio di benvenuto. Non è improprio quindi definire l’organizzazione umanitaria la Ong della Bonino. Eppure pochissimi la tirano in ballo, almeno per avere una dichiarazione ufficiale. Fosse capitato uno scandalo del genere con un politico di centrodestra i media sarebbero stati così delicatamente cauti?
Da open.online il 10 dicembre 2022.
Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento Europeo, è una degli europarlamentari arrestati nell’inchiesta sulla corruzione dal Qatar. L’arresto ha seguito segue il fermo di altri quattro sospetti avvenuto nella mattinata. Tra questi l’ex eurodeputato socialista Antonio Panzeri e il segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati Luca Visentini. Kaili è stata espulsa dal partito per decisione del presidente Nikos Androulakis. Il gruppo dei Socialisti e Democratici l’ha sospesa. La polizia ha apposto i sigilli ai suoi uffici, così come a quelli di Tarabella. Il suo compagno, Francesco Giorgi, è stato fermato nello stesso filone d’indagine.
Le accuse
Secondo la procura di Bruxelles un paese del Golfo avrebbe tentato di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo. «Versando ingenti somme di denaro o offrendo regali di grande entità a terzi che ricoprono posizioni politiche o strategiche di rilievo all’interno del Parlamento europeo», ha spiegato la procura senza fornire né il nome del Paese coinvolto né quello di indagati e persone fermati. Le accuse per tutti sono corruzione, criminalità organizzata e riciclaggio di denaro.
Le 16 perquisizioni condotte in sei delle municipalità che costituiscono la regione di Bruxelles capitale – Ixelles, Schaerbeek, Crainhem, Forest e Bruxelles città – hanno permesso il recupero di circa 600 mila euro in contanti. Sono stati inoltre sequestrati computer portatili e telefoni cellulari. Kaili, nata a Salonicco il 26 ottobre 1978, fa parte del Movimento Socialista Panellenico. È entrata all’Europarlamento nel 2014. Dal 2004 al 2007 era stata giornalista per Mega Channel. È stata la più giovane deputata del Pasok eletta nel 2007.
Eva Kaili e il discorso sul Qatar
L’agenzia di stampa Agi ha riportato un intervento di Kaili nella plenaria di novembre in cui difendeva in aula i progressi del Qatar nell’ambito dei diritti. «Oggi i Mondiali in Qatar sono la prova, in realtà, di come la diplomazia sportiva possa realizzare una trasformazione storica di un paese con riforme che hanno ispirato il mondo arabo. Io da sola ho detto che il Qatar è all’avanguardia nei diritti dei lavoratori. Nonostante le sfide che persino le aziende europee stanno negando per far rispettare queste leggi, si sono impegnati in una visione per scelta e si sono aperti al mondo.
Tuttavia, alcuni qui stanno invitando per discriminarli. Li maltrattano e li accusano di corruzione chiunque parli con loro o si impegni nel confronto. Ma comunque, prendono il loro gas. Tuttavia, hanno le loro aziende che guadagnano miliardi lì», aveva detto a Strasburgo.
Il compagno Francesco Giorgi
E ancora: «Ho ricevuto lezioni come greca e ricordo a tutti noi che abbiamo migliaia di morti a causa del nostro fallimento per le vie legali di migrazione in Europa. Possiamo promuovere i nostri valori ma non abbiamo il diritto morale di dare lezioni per avere un’attenzione mediatica a basso costo. E non imponiamo mai la nostra via, noi li rispettiamo». Il Corriere della Sera specifica che la sua elezione a vicepresidente è stata favorita anche dal sostegno dei socialisti rimasti vicini a Panzeri.
Kaili ha deleghe dalla responsabilità sociale d’impresa all’informatica e alle telecomunicazioni. E sostituisce la presidente Roberta Metsola nei contatti con le associazioni imprenditoriali europee, anche con il Medio Oriente. Repubblica fornisce oggi altri dettagli sul compagno di Kaili, Francesco Giorgi. L’assistente parlamentare è costantemente “eletto” come il più bello tra le deputate e le funzionarie di Bruxelles. Nella scorsa legislatura era l’assistente di Panzeri, fermato nella stessa inchiesta. Poi è diventato il collaboratore di Andrea Cozzolino.
Da repubblica.it il 10 dicembre 2022.
Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento europeo arrestata in Belgio, ha trascorso la notte in stato di detenzione, poiché a casa sua sono stati trovati "sacchi di banconote".
Lo riferisce il quotidiano belga L'Echo. Secondo l'agenzia di stampa greca Ana-Mpa anche il compagno di Kaili, Francesco Giorgi, è stato arrestato. Giorgi in passato è stato assistente parlamentare di Antonio Panzeri, anch'esso arrestato. Fino a pochi giorni fa la vice presidente del Parlamento europeo Kaili ha difeso in aula i progressi del Paese del Golfo nell'ambito dei diritti in vista dei Mondiali di calcio in corso.
"Oggi i Mondiali in Qatar sono la prova, in realtà, di come la diplomazia sportiva possa realizzare una trasformazione storica di un Paese con riforme che hanno ispirato il mondo arabo. Io da sola ho detto che il Qatar è all'avanguardia nei diritti dei lavoratori, abolendo la kafala e riducendo il salario minimo. Nonostante le sfide che persino le aziende europee stanno negando per far rispettare queste leggi, si sono impegnati in una visione per scelta e si sono aperti al mondo. Tuttavia, alcuni qui stanno invitando per discriminarli. Li maltrattano e accusano di corruzione chiunque parli con loro o si impegni nel confronto. Ma comunque, prendono il loro gas. Tuttavia, hanno le loro aziende che guadagnano miliardi lì", ha detto nel suo intervento a Strasburgo.
"Ho ricevuto lezioni come greca e ricordo a tutti noi che abbiamo migliaia di morti a causa del nostro fallimento per le vie legali di migrazione in Europa. Possiamo promuovere i nostri valori ma non abbiamo il diritto morale di dare lezioni per avere un'attenzione mediatica a basso costo. E non imponiamo mai la nostra via, noi li rispettitamo, anche senza Gnl", ha aggiunto. Sono una nuova generazione di persone intelligenti e altamente istruite. Ci hanno aiutato a ridurre la tensione con la Turchia. Ci hanno aiutato con l'Afghanistan a salvare attivisti, bambini, donne. Ci hanno aiutati. E sono negoziatori di pace. Sono buoni vicini e partner. Possiamo aiutarci a vicenda per superare le carenze. Hanno già raggiunto l'impossibile", ha concluso.
Kaili, come le altre quattro persone arrestate, sarà ascoltata entro 48 ore da un giudice che deciderà su eventuali mandati di cattura. La procura federale belga non ha confermato i nomi degli arrestati, ma sottolinea che si tratta di "personalità con posizioni strategiche".
Claudio Tito per la Repubblica l’11 Dicembre 2022.
«Il Qatar è sulla strada giusta per le riforme in diversi settori, il Paese può essere considerato un riferimento per i diritti umani. Si tratta di sforzi encomiabili. Il Qatar ha avviato uno sviluppo positivo». Era il 2019. Ormai tre anni fa. Ma l'organizzazione dei mondiali di calcio era in pieno svolgimento. E Antonio Panzeri, che aveva da poco lasciato la presidenza della sottocommissione del Parlamento europeo per i diritti umani, usava proprio queste parole per descrivere la situazione nel Paese del Golfo Persico.
La lunga marcia di avvicinamento a Doha, dunque, parte da quel momento. E da quel momento la "conversione" di molti esponenti del gruppo S&D, i socialisti europei, diventa quasi un segno distintivo. Almeno di quelli del "circolo" più stretto organizzato dall'ex eurodeputato e che fa perno su italiani o di origine italiana.
E così di conversioni ce ne sono diverse. E tutte pubbliche. Perché l'esigenza è soprattutto comunicativa. Basti pensare a Luca Visentini, capo del sindacato europeo e di recente "promosso" alla guida di quello mondiale. «Il Qatar - ha detto in una intervista di pochi mesi fa - dovrebbe essere visto come una storia di successo. La Coppa del Mondo è stata un'opportunità per accelerare il cambiamento e queste riforme possono costituire un buon esempio da estendere ad altri Paesi che ospitano grandi eventi sportivi». Nell'inchiesta dei magistrati belgi, del resto, il ruolo di Visentini emerge con chiarezza: l'obiettivo qatarino era dimostrare che anche i sindacati apprezzavano i presunti passi avanti sulla tutela dei lavoratori.
Ma è il 22 novembre il giorno in cui si illuminano le luci sul palco e chi deve, si presenta. A Strasburgo, nella seduta plenaria del Parlamento europeo, si discute e si vota una risoluzione sul Qatar. Il testo unico Ppe-Pse viene bloccato. I socialisti si dividono. Durante la riunione del gruppo vengono presentati diversi emendamenti. Alcuni di loro si astengono, in dissenso con i colleghi (ad esempio l'italiano Cozzolino il cui assistente è Francesco Giorgi, uno dei fermati). Il dibattito pubblico mostra chi tra il gruppo S&D ha cambiato opinione sul Qatar.
La più clamorosa è Eva Kaili, vicepresidente greca del Parlamento: «Il Qatar è all'avanguardia nei diritti dei lavoratori, nell'abolizione della kafala (un sistema per cui il datore di lavoro è anche il tutore legale del lavoratore straniero). Alcuni qui chiedono di discriminarli. Li bullizzano e accusano di corruzione chiunque parli con loro o si impegni. Ma ancora, prendono il loro gas. Sono buoni vicini e partner. Hanno già raggiunto l’impossibile».
È il turno di Mark Tarabella (al momento non coinvolto nell'inchiesta ma molto vicino a Panzeri), deputato belga di origini italiane. «Restano ancora molti progressi da fare - spiega - ma è un Paese che ha intrapreso la via delle riforme. E l'organizzazione della Coppa del Mondo è stata probabilmente la molla che ha accelerato queste riforme. Bisogna riconoscere oggi, l'abbandono della kafala, questo sistema di dipendenza dei lavoratori. Così oggi, il discorso unilateralmente negativo mi sembra dannoso per l'evoluzione dei diritti in futuro in Qatar.
Perché ciò che è importante è che, quando le luci della Coppa del Mondo si spengono, lo sviluppo positivo continui non solo in Qatar, ma in tutta la penisola arabica». Un'altra parlamentare belga di origini italiane e in buoni rapporti con Panzeri, Maria Arena (coinvolto nelle indagini un suo collaboratore, non lei), senza i toni entusiastici degli altri due colleghi ha cercato di fissare un punto di equilibrio. «Sì, come lei ha detto signor Commissario, il Qatar ha compiuto progressi. Oggi non c'è la kafala». Arena sottolinea però che «in alcuni settori, la kafala esiste ancora in un modo piuttosto speciale. E ci sono state violazioni, morti e il risarcimento è necessario. Dobbiamo lavorare con il Qatar per garantire che queste compensazioni abbiano luogo». La nemesi del "circolo" di Panzeri è fatta.
Da ilfattoquotidiano.it il 9 dicembre 2022.
Mazzette e regali dal Qatar per influenzare le decisioni del Parlamento europeo e della più importante federazione sindacale del mondo, la Confederazione sindacale internazionale (Ituc). È quanto emerge da un’inchiesta svolta dalle autorità belghe e citata da un articolo pubblicato dal quotidiano Le Soir e dal settimanale Knack, secondo cui tra i vertici di quella che i media definiscono una “organizzazione criminale infiltrata nel cuore del Parlamento” c’erano due personaggi italiani di spicco a Bruxelles:
l’ex deputato dei Socialisti per Articolo 1, Antonio Panzeri, al quale sono stati anche trovati 500mila euro in contanti all’interno della residenza brussellese, e Luca Visentini, segretario generale di Ituc che rappresenta più di 200 milioni di lavoratori. Entrambi risultano essere stati fermati nel blitz delle forze dell’ordine belghe che hanno svolto 14 perquisizioni. I vertici dei Socialisti&Democratici, di cui Panzeri ha fatto parte fino ad alcuni anni fa, si riuniranno d’urgenza nelle prossime ore.
Quella iniziata a luglio 2022 dalle autorità belghe e coordinata dalla procura federale è un’inchiesta che potrebbe provocare un terremoto senza precedenti all’interno dei palazzi delle istituzioni europee. Un caso di corruzione e riciclaggio di denaro che, se venissero dimostrati legami ben più ramificati con altri esponenti politici seduti tra gli scranni dell’Eurocamera, rischierebbe di minare la credibilità delle istituzioni stesse. Secondo quanto si legge, “la polizia giudiziaria federale ha effettuato 14 perquisizioni in diversi comuni di Bruxelles. In particolare a Ixelles, Schaerbeek, Crainhem, Forest e Brussels-City. Queste perquisizioni sono state effettuate nell’ambito di un’ampia indagine con le accuse di organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio di denaro”.
Gli inquirenti “sospettano che un Paese del Golfo stia cercando di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo pagando ingenti somme di denaro o offrendo doni significativi a terzi che rivestono una posizione politica e/o strategica significativa all’interno del Parlamento europeo. L’accusa, precisano i giornali, non menziona il Qatar, ma diverse fonti ben informate hanno riferito che a pagare le mazzette sia stata proprio Doha. Il loro obiettivo, mentre sono ancora in corso le partite della Coppa del Mondo, sarebbe stato proprio quello di difendere la legittimità della competizione dalle accuse di violazione di diritti umani e dei diritti dei lavoratori, sottolineando i presunti progressi della monarchia qatariota.
Tra gli arrestati, oltre a Panzeri e Visentini, i media riferiscono esserci anche il direttore di una ong e un assistente parlamentare, anch’essi di origine italiana. Si tratta di personalità molto attive nelle associazioni per i diritti umani. Panzeri è anche presidente di Fight Impunity che promuove “la lotta all’impunità per gravi violazioni dei diritti umani” e la giustizia internazionale. Tra le sedi perquisite ci sarebbe infatti anche quella dell’associazione.
Maggiori informazioni sull’architettura dell’organizzazione potrebbero emergere dalle analisi delle apparecchiature informatiche e dei telefoni sequestrati dagli inquirenti nel corso dei blitz che hanno riguardato soprattutto gli assistenti parlamentari legati al gruppo Socialisti e Democratici e, in un caso, al Partito Popolare Europeo.
Inchiesta a Bruxelles, sequestrati 600 mila euro in contanti. Le accuse all’ex eurodeputato del Pd Antonio Panzeri. Francesca Basso su Il Corriere della Sera il 10 Dicembre 2022.
Coinvolta anche la vicepresidente dell’Europarlamento Eva Kaili. Le perquisizioni in casa dell’ex esponente del Pd: sono stati trovati 600 mila euro in contanti
Bufera al Parlamento europeo e sgomento per un affare di corruzione legato al Qatar, che sta scuotendo il gruppo socialista. Sono stati fermati ieri mattina dalla polizia belga l’ex eurodeputato del Pd Antonio Panzeri, poi passato ad Articolo Uno, il suo assistente nella passata legislatura Francesco Giorgi, Luca Visentini che è da poco stato eletto segretario generale della Confederazione internazionale dei sindacati (Ituc) e Niccolò Figà-Talamanca direttore della Ong No Peace Without Justice che opera a Bruxelles. La notizia è stata anticipata dai giornali belgi Le Soir e Knack, che in serata hanno allungato la lista dei fermati aggiungendo Eva Kaili, compagna di Giorgi, socialista greca e una dei quattordici vicepresidenti del Parlamento europeo.
Un parlamentare per essere arrestato deve essere colto in flagranza di reato, l’abitazione di Kaili è stata perquisita come i suoi uffici al Parlamento Ue. In un comunicato stampa la procura federale belga ha spiegato che la polizia giudiziaria ha condotto 16 perquisizioni in 14 indirizzi in diversi quartieri di Bruxelles nell’ambito di un’indagine di ampio respiro su una presunta organizzazione criminale, casi di corruzione e riciclaggio di denaro.«Da diversi mesi gli inquirenti della polizia giudiziaria sospettano che uno Stato del Golfo abbia cercato di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo», spiega il comunicato aggiungendo che sono stati sequestrati contanti per 600 mila euro oltre a materiale informatico e telefoni cellulari. I giornali belgi riferiscono che il Paese del Golfo sarebbe il Qatar, dove sono in corso i tanto discussi mondiali di calcio e il contante sarebbe stato sequestrato a casa di Panzeri.
Secondo altre fonti i quattro sono stati fermati per corruzione di funzionari e membri degli organi delle comunità europee e di Stati esteri, riciclaggio e associazione a delinquere. Da alcune intercettazioni sarebbero emersi anche riferimenti a fondi europei destinati al nord Africa. Sono stati perquisiti anche gli uffici al Parlamento europeo degli assistenti dei deputati belgi Marie Arena e Marc Tarabella. Il comunicato della procura belga, che non indica i nomi dei fermati ma solo le date di nascita (1955, 1969, 1971 e 1987) , spiega che «l’operazione ha riguardato in particolare gli assistenti parlamentari» e cita anche un ex eurodeputato che sarebbe appunto Panzeri. Sempre ieri è stato eseguito il MAE, mandato di arresto europeo, nei confronti della moglie di Panzeri Maria Colleoni, che abita a Carlusco (Bergamo) e della figlia Silvia, residente invece nel Milanese. Tra le 16 perquisizioni c’è anche Fight Impunity, la ong fondata nel settembre 2019 da Antonio Panzeri, una volta terminata la sua esperienza al Parlamento Ue, per combattere le violazioni dei diritti umani. Alla ong era legato anche Visentini.
L’ex segretario della Camera del Lavoro di Milano ha comunque sempre mantenuto i legami e una certa influenza soprattutto nella componente più a sinistra del gruppo S&D. Il gruppo dei socialisti è «sconvolto dalle accuse» e fa sapere di avere chiesto «la sospensione dei lavori su eventuali fascicoli e votazioni in plenaria riguardanti gli Stati del Golfo, in particolare la liberalizzazione dei visti e le visite programmate». A Strasburgo, alla Plenaria dello scorso novembre, si è tenuto un dibattito sulla situazione dei diritti umani e dei lavoratori in Qatar dopo le polemiche sul trattamento dei dipendenti stranieri che hanno contribuito alla costruzione degli stadi per il Mondiale e per diversi parlamentari avrebbe potuto essere più severa. La Lega va all’attacco: «Dopo anni di accuse ai rivali, il Pd che deve chiarire immediatamente agli italiani».
L’ex giornalista Kaili e il velista Giorgi, i «belli» di Bruxelles. Storia di Francesca Basso, da Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.
È una di quelle coppie che non passa inosservata perché sono entrambi molto belli. Lei è di Salonicco e ha 44 anni. Lui viene dall’hinterland di Milano e ha 35 anni . Eva Kaili e Francesco Giorgi sono stati fermati (lei in flagranza di reato) nell’ambito dell’inchiesta belga su una presunta corruzione al Parlamento Ue legata al Qatar che sta scuotendo il gruppo socialista . Lei è uno dei 14 vicepresidenti del Parlamento Ue (ma gli S&D dopo averla espulsa ne hanno chiesto e ottenuto la destituzione), lui è attualmente assistente parlamentare dell’eurodeputato Andrea Cozzolino (non coinvolto nell’inchiesta) ed è stato nella passata legislatura assistente di Antonio Panzeri, a sua volta fermato.
A casa della coppia, che ha una bambina di due anni che ogni tanto si portavano al Parlamento Ue, sono state trovate borse con del denaro e venerdì sarebbe stato fermato anche il padre di Kaili. La famiglia fa parte della buona borghesia di Salonicco, il padre è ingegnere e si è sempre mosso con successo nell’ambito del pubblico. Eva ha una laurea in architettura messa da parte per diventare giornalista. Per un breve periodo ha presentato il tg e poi è entrata in politica. È stata molto vicina al primo ministro socialista George Papandreou, che ha guidato la Grecia dal 2009 al 2011 (fu lui nell’ottobre del 2009 ad annunciare che i bilanci di Atene erano stati truccati per entrare nell’euro). Poi l’esperienza europea dal 2014. I rapporti con il Pasok si erano però deteriorati da un po’ di tempo. Fonti greche riferiscono che il presidente del Movimento socialista panellenico Nikos Androulakis avesse detto a Kaili già nel settembre scorso, con largo anticipo, che non sarebbe stata ricandidata nel 2024. E venerdì sera, appena apparsa la notizia del fermo, l’ha espulsa.
Francesco Giorgi gode di fama di bello al Parlamento Ue ma anche con un carattere un po’ arrogante. Chi lo conosce dice che facesse pesare la sua esperienza di assistente parlamentare di lungo corso, iniziata nel febbraio del 2009. È anche istruttore di vela a Caprera dal 2007. In quel contesto chi lo ha incrociato lo descrive come una persona disponibile. Dai sui profili social è evidente che la vela sia la sua passione ma c’è anche chi aggiunge la pesca. L’ambiente degli assistenti parlamentari è altamente competitivo, il confronto è tra persone molto preparate che ad ogni legislatura rischiano il proprio posto. E questo può scatenare degli odi. Alle ultime Europee la delegazione del Pd ha quasi dimezzato i parlamentari, che hanno diritto a tre assistenti a testa, quindi circa una quarantina si è trovata a spasso. Giorgi, specializzato nel Maghreb, era assistente di Panzeri e nella nuova legislatura lo è diventato di Cozzolino per la sua specializzazione, perché l’eurodeputato napoletano è il presidente della Delegazione per le relazioni con i Paesi del Maghreb del Parlamento europeo. Questo «cadere in piedi senza troppa fatica» ha creato però qualche malumore nel mondo degli assistenti. Per il resto chi li conosce li descrive come una coppia dalla grande bellezza ma normale. È generale lo stupore per l’inchiesta e i suoi contenuti.
Eva Kaili arrestata e sospesa da vicepresidente: per europarlamentari niente immunità se colti in flagranza. Storia di Giuseppe Guastella Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.
È una Bruxelles attonita che, stordita dallo schiaffo dell’arresto per reati pesantissimi di uno dei 16 vice presidenti del Parlamento europeo, Eva Kaili si chiede cosa succede all’ombra del palazzo dell’Unione. In serata la presidente Metsola ha deciso sospendere Kaili dal ruolo di vicepresidente. A casa della parlamentare socialista greca, la 44 enne ex presentatrice televisiva, gli agenti della polizia giudiziaria avrebbero trovato «borse di banconote», scrive il giornale belga L’Echo: è l’elemento decisivo che ha fatto scattare il fermo della Kaili. Un europarlamentare, infatti, non gode di immunità se viene sorpreso in , se viene, come letteralmente è accaduto con la Kaili, preso con le mani nel sacco.
Per evitare che il reato si protragga, la polizia deve fermare il sospettato, salvo poi l’avvio delle procedure di autorizzazione a procedere da parte della magistratura. Con la Kaili, nell’ambito dell’, sarebbe stato fermato anche il padre, anche lui sorpreso in flagranza di reato mentre maneggiava le banconote. L’arresto della parlamentare è stato ordinato dal giudice istruttore (Magistrato di prima istanza) di Bruxelles Michel Claise. I reati contestati sarebbero gli stessi di cui è accusato l’ex parlamentare europeo del Pd Panzeri, anche lui arrestato con la moglie e la figlia, ma in questo caso su richiesta di arresto europeo al termine della prima fase delle indagini preliminari: associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al riciclaggio connessi all’ intensa attività di lobbing compiuta a favore dello stato del Qatar e di quello del Marocco che, a leggere la scarna documentazione notificata, avrebbero evidentemente pagato tangenti per ottenere corsie preferenziali a loro favore nei rapporti con la Unione Europea. Panzeri, la moglie e la figlia rischiano un massimo di 5 anni di carcere, il primo per «essere intervenuto politicamente su membri del parlamento europeo a favore del Qatar e del Marocco dietro pagamento».
Dalla documentazione emerge che la famiglia sta organizzando una vacanza per Natale. Alla moglie che, però, non vuole che sul suo conto siano addebitati 35 mila euro, Panzeri risponde «che lui sarebbe andato in vacanza il primo gennaio usando “l’altra soluzione” e che avrebbe addebitato 10 mila euro nel conto bancario “qui”», riferendosi al Belgio. Quindi la donna aggiunge che non può «permettersi di spendere 100 mila euro per le vacanze come l’anno scorso». Panzeri, moglie e figlia avrebbero partecipato anche ad un «trasporto dei “regali” ricevuti in Marocco attraverso Abderrahim Atmoun», il 67 enne «ambasciatore del Marocco in Polonia» ed avrebbero beneficiato di una «carta di credito intestata ad una terza persona che loro chiamavano in francese “géant”, il “gigante”». Emergerebbe anche che Panzeri aveva intenzione di aprire in Belgio una “nuova attività”, ma che la moglie lo avrebbe rimproverato perché «non voleva che lui facesse cose e operazioni di ogni genere» senza il suo controllo, che lei pare voler esercitare, suggerendogli di «aprire un conto con l’Iva», cosa che per il magistrato suggerisce che Panzeri intenda «aprire una nova attività commerciale». La donna, infine, avrebbe usato in una telefonata la parola «intrallazzi in riferimento ai viaggi e agli affari» usando la parola francese «combines» «che suggerisce che il marito usa ingegnosi e spesso scorretti mezzi per ottenere i suoi scopi», chiosa il giudice.
Maddalena Berbenni per corriere.it il 10 dicembre 2022.
Si muoveva con «metodi ingegnosi e spesso scorretti per raggiungere i suoi scopi», Antonio Panzeri . Così scrivono di lui gli inquirenti di Bruxelles, che lo hanno arrestato per associazione per delinquere finalizzata alla corruzione e al riciclaggio. Tra doni e vacanze da 100 mila euro, emersi nelle intercettazione delle indagini e citati nelle accuse, di mezzo ci sono andate anche la moglie Maria Dolores Colleoni e la figlia Silvia Panzeri , portate in carcere in esecuzione di un mandato di arresto europeo disposto dalle autorità belga.
Nella tarda mattina di oggi (sabato 10 dicembre 2022), sono comparse davanti alla Corte d’Appello di Brescia per l’udienza di convalida dell’arresto. Secondo le accuse, sapevano dei favori che l’ex eurodeputato del Pd ed ex sindacalista, 67 anni, avrebbe ricevuto da Qatar e Marocco in cambio di pressioni politiche.
L’arresto nella casa di Calusco
Le due donne rispondono di favoreggiamento nell’ambito dell’inchiesta di Bruxelles per corruzione e riciclaggio , con vincolo di associazione per delinquere che ha portato agli arresti lo stesso Panzeri e altre persone. I carabinieri le hanno accompagnate in carcere, a Bergamo, nel primo pomeriggio del 9 dicembre, la moglie raggiunta nella casa di Calusco d’Adda (Bergamo) e la figlia, che vive nel Milanese ed è avvocatessa, rintracciata in un secondo momento. Sono assistite da due legali, uno è l’avvocato Nicola Colli del Foro di Bergamo.
Nelle intercettazioni si parla di doni
L’ex eurodeputato del Pd, passato ad Articolo Uno (che lo ha sospeso dopo l’arresto), è sospettato di essere intervenuto politicamente, «dietro pagamento», presso alcune persone che lavorano al Parlamento Europeo, a beneficio non solo del Qatar, ma anche del Marocco. Emergerebbe da uno degli atti trasmessi dalle autorità belghe all’Italia, in relazione alla richiesta di arresto della figlia. Ufficialmente le autorità belghe non hanno confermato neppure che le pressioni riguardavano il Qatar: il Parquet si è limitato a parlare di un «Paese del Golfo».
Nel documento viene precisato che vige comunque la «presunzione di innocenza». La figlia e la moglie di Panzeri apparirebbero agli occhi degli inquirenti «pienamente consapevoli» delle attività di Panzeri, persino «del trasporto di doni». Le due sono menzionate «nella trascrizione di intercettazioni telefoniche» durante le quali il capofamiglia «ha commentato la consegna dei doni» di cui sarebbe stato «a quanto pare» il beneficiario.
Le vacanze da 100 mila euro
Nelle carte dell’inchiesta si farebbe riferimento anche a vacanze da 100 mila euro per Panzeri e la moglie. Colleoni, riferiscono gli inquirenti belgi, «ha detto» al marito «che non poteva permettersi di spendere 100 mila euro per le vacanze come l’anno scorso e che pensava che l’attuale proposta, 9 mila euro a persona solo per l’alloggio, era troppo costosa».
Panzeri, i regali dell’ambasciatore e il viaggio della figlia Silvia a Doha. Storia di Fabio Paravisi Bruxelles su Il Corriere della Sera il 10 dicembre 2022.
Il dubbio era venuto anche alla moglie: «Non possiamo permetterci di spendere 100mila euro per le vacanze come l’anno scorso», ha detto Maria Dolores Colleoni ad Antonio Panzeri. E anche quando ha visto il progetto del marito per le vacanze di Natale aveva obiettato che il preventivo di 9 mila euro a persona solo per l’alloggio «era troppo costoso».
I partono, spendono, si fotografano e postano tutto sui social, incuranti del fatto che a qualcuno potesse avere sospetti. Basta guardare i profili della figlia dell’ex europarlamentare. Silvia Panzeri, 38 anni, avvocato da undici, casa e ufficio nel Milanese, da un lato sfoggia sul curriculum attività legate alla violenza di genere, la tutela delle donne vittime di violenza e il cyberbullismo (oltre a una fresca specializzazione in diritto dell’Unione Europea). Ma, insieme, si mostra con gli amici sui bordi di una piscina di Miami Beach lamentandosi che la vacanza era ormai finita, solo per andare due settimane dopo a spasso per Montreal. E lo scorso 27 novembre, a proposito di diritti delle donne, ha postato immagini del Souq Waqif di Doha. Cioè la capitale del Qatar, il Paese che sta ospitando i Mondiali di calcio, coinvolto nelle accuse di corruzione con denaro versato a suo padre. Con quelle che la madre definisce al telefono «combines». E per chiamare «intrallazzi» i viaggi e gli affari del marito, secondo gli inquirenti, significa che la donna fosse al corrente di «mezzi ingegnosi e spesso scorretti».
Mezzi di cui peraltro le due donne, per le autorità belghe, «sembrano essere pienamente consapevoli», tanto da avere «persino partecipato nel trasporto dei “regali” dell’ambasciatore del Marocco in Polonia». Nonostante il curriculum del marito, pare che Maria Colleoni non fosse poi molto convinta delle sue competenze finanziarie, tanto che avrebbe più volte sottolineato di non volere che lui facesse «operazioni senza che lei fosse in grado di controllarlo». Anzi, a volte è lei che gli suggeriva come usare il denaro, per esempio spiegando che per pagare la vacanza di Capodanno si poteva usare una non meglio chiarita «altra soluzione», addebitando poi le spese su un conto belga. O usando la carta di credito, insieme al marito, di una terza persona, soprannominata «The Giant», non identificata negli atti.
«Noi leggiamo queste cose e siamo sconvolti», dicevano ieri i vicini di casa della coppia a Calusco d’Adda (Bergamo). Dove sono pochi ad avere rapporti stretti con Antonio Panzeri. Chi lo conosce bene, come l’ex sindaco Alfredino Cattaneo, che aveva avuto il fratello di Panzeri come vice, si dice «incredulo: non corrisponde all’uomo che conosco». E gli esponenti storici della sinistra e del sindacato anche di più: «Per noi Antonio era un bravo sindacalista e un riferimento in Europa — dice l’ex segretario provinciale della Cgil Luigi Bresciani —. Queste cose sono un fulmine a ciel sereno, mi fanno sentire tradito e deluso, e mi fanno venire una grande rabbia».
L’ex eurodeputato Antonio Panzeri indagato a Bruxelles per corruzione. Fermate anche sua moglie e la figlia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 9 Dicembre 2022.
L’uomo politico sospettato di aver agito per conto di autorità del Qatar al fine di «influenzare le politiche del Parlamento Europeo» dice una nota della procura federale belga. Con lui sotto indagine altri tre italiani
L’ex eurodeputato della sinistra italiana Pier Antonio Panzeri e altri tre cittadini italiani sono stati indagati ed arrestati dalla magistratura di Bruxelles in una inchiesta internazionale per corruzione che vede coinvolte anche le autorità del Qatar. Panzeri, terminato il mandato di europarlamentare ha continuato a lavorare a Bruxelles come lobbista. Fermato ed interrogato anche Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare di Panzeri. L’indagine riguarderebbe anche Luca Visentini , eletto a novembre segretario generale dell’Ituc l’organizzazione internazionale dei sindacati e in passato dirigente della Uil. L’ Ituc è una confederazione di sindacati di tutto il mondo, comprese le organizzazioni belghe, che rappresentano in totale più di 200 milioni di lavoratori.
Lo rivelano le testate belghe Le Soir e Knack secondo i quali Panzeri e gli altri tre sono stati “trattenuti per un interrogatorio” e sono stati sottoposti a perquisizioni domiciliari. Nel corso di questi controlli sono stati sequestrati 600.000 euro in contanti scoperti nella residenza di Bruxelles dell’ex eurodeputato. Il fascicolo è stato aperto nel luglio scorso dal pubblico ministero Michel Claise, specializzato in reati finanziari. Il giudice belga deciderà entro 48 ore se emettere un mandato di arresto.
Tra le persone interessate dalle perquisizioni, i media belgi Le Soir e Knack individuano quattro assistenti parlamentari, persone “nate nel 1955, 1969, 1971 e 1987” vicini al gruppo S&D. Uno di questi assistenti è legato anche al gruppo PPE (a destra). Gli inquirenti hanno nuovamente “perquisito” le abitazioni di due consiglieri e di un funzionario del Parlamento europeo. Per non parlare dei direttori dei gruppi di lobbisti attivi nell’Ue.
Panzeri, è stato componente anche della direzione dei Ds nel 2004 era stato eletto a Bruxelles nelle liste degli allora «Uniti per l’Ulivo» ; in passato aveva rivestito a lungo il ruolo di sindacalista ed era stato segretario della Camera del Lavoro di Milano. Nel 2014 Pier Antonio Panzeri è stato rieletto all’assemblea Ue in quota Pd, partito che ha lasciato nel 2017 aderendo ad Articolo Uno. Nel 2019 ha fondato nella capitale belga una Ong denominata “Fight Impunity” di cui è attualmente presidente, che promuove “la lotta all’impunità per gravi violazioni dei diritti umani” e la giustizia internazionale. Stamattina , secondo le nostre informazioni, è stata perquisita la sede di Fight Impunity situata in Rue Ducale nel cuore di Bruxelles . Fino al 2019, Panzeri ha guidato la sottocommissione del Parlamento europeo sui diritti umani, che si è occupata anche delle condizioni dei lavoratori e più in generale dei diritti umani nel Qatar.
La procura federale, che nella sua nota non cita nomi, avrebbe fatto luce su un flusso di denaro che avrebbe raggiunto alcuni assistenti parlamentari al lavoro nei palazzi della Ue: “La polizia giudiziaria federale ha effettuato 16 perquisizioni (a 14 diversi indirizzi ) in diversi comuni di Bruxelles. In particolare a Ixelles, Schaerbeek, Crainhem, Forest e Brussels-City. Queste perquisizioni sono state effettuate nell’ambito di un’ampia indagine per presunti atti di organizzazione criminale, corruzione e riciclaggio di denaro“. Dell’indagine sono state informate anche le autorità italiane. Nel pomeriggio, a Bergamo sono state fermate anche la moglie e la figlia di Panzeri. sono state fermate Maria Colleoni, di 67 anni moglie di Panzeri, e la figlia Silvia Panzeri, 38anni.
Panzeri è originario di Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo dove ha ancora la casa. È lì, secondo le poche informazioni che è stato possibile raccogliere, che si trovava la donna quando i Carabinieri hanno consegnato il Mae, che dispone il carcere. La figlia, invece, è stata rintracciata. Le due donne sono state associate al carcere di Bergamo.
Fermata ed interrogata anche la vicepresidente del Parlamento europeo Eva Kaili socialdemocratica greca , una dei 14 vicepresidenti dell’emiciclo europeo, che è stata perquisita. L’unico modo per arrestare un parlamentare protetto dalla sua immunità è coglierlo in flagrante, la vicepresidente Kaili è stata sospesa dal gruppo dei Socialisti e Democratici ed espulsa dal partito greco Pasok. Il suo compagno Francesco Giorgi, 44 anni, ex assistente parlamentare di Panzeri, ed attuale collaboratore legato al gruppo S&D era stato intercettato in mattinata. Entrambi sono indagati per corruzione. Indagato anche Niccolò Figà-Talamanca, segretario generale della ong “No Peace Without Justice“.
Il gruppo dei Socialisti al Parlamento europeo si è detto “sconcertato dalle accuse di corruzione nelle istituzioni europee”. “Data la gravità delle accuse, fino a quando le autorità competenti non forniranno informazioni e chiarimenti pertinenti, chiediamo la sospensione dei lavori su tutti i dossier e delle votazioni in plenaria riguardanti gli Stati del Golfo, in particolare la liberalizzazione dei visti e le visite previste”.
L’accusa, precisano i giornali belgi, non menziona il Qatar, ma fonti ben informate hanno riferito che a pagare le mazzette sia stata proprio Doha. Il loro obiettivo, mentre sono ancora in corso le partite dei Mondiali di calcio, sarebbe stato proprio quello di difendere la legittimità della competizione dalle accuse di violazione di diritti umani e dei diritti dei lavoratori, sottolineando i presunti progressi della monarchia qatariota. Maggiori informazioni sull’architettura dell’organizzazione potrebbero emergere dalle operazioni di “criminal forensics” sulle apparecchiature informatiche e telefoniche sequestrate dagli inquirenti nel corso dei blitz che hanno riguardato soprattutto gli assistenti parlamentari. Redazione CdG 1947
Mazzette dal Qatar al Parlamento Ue: arrestata anche la vicepresidente. Valeria Casolaro su L'Indipendente il 10 Dicembre 2022.
È in corso una maxi operazione della polizia belga, eseguita nell’ambito di un’indagine aperta a metà luglio 2022 su presunti casi di corruzione all’interno del Parlamento europeo, che sta portando in queste ore alla perquisizione delle abitazioni di diversi eurodeputati e all’arresto di alcuni di questi, tra i quali l’ex europarlamentare italiano Antonio Panzeri la deputata greca, nonché vicepresidente del Parlamento Ue, Eva Kaili. Le accuse, a vario titolo, sono di corruzione e riciclaggio di denaro: i soggetti coinvolti avrebbero infatti ricevuto ingenti somme dalla monarchia qatarina per promuovere i supposti miglioramenti in materia di diritti umani messi in campo da Doha e ripulirne l’immagine di fronte al mondo, mentre nei cantieri dei Mondiali gli operai morivano a centinaia per le pessime condizioni lavorative.
Le perquisizioni fino ad ora condotte dalla polizia federale belga sono almeno 17: a muovere le indagini il sospetto “che un Paese del Golfo stia cercando di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo“, secondo quanto confermato dalla Procura federale al quotidiano belga Le Soir, che ha condotto l’inchiesta insieme ad un’altro quotidiano belga, Knack. Il tentativo di corruzione avrebbe avuto luogo “versando somme di denaro consistenti o offrendo regali importanti a terzi con una posizione politica e/o strategica significativa all’interno del Parlamento europeo”. Non viene menzionato esplicitamente il Qatar, ma entrambe i giornali citano fonti che avrebbero confermato come dietro al versamento di mazzette vi sarebbe proprio il Paese arabo. Tutti i soggetti fermati afferiscono al gruppo socialista europeo, primo tra tutti l’ex deputato Antonio Panzeri e il suo ex assistente parlamentare Francesco Giorgi, e, ad eccezione di Eva Kaili, sono di nazionalità italiana e molto attivi nel mondo delle ONG a tutela dei diritti umani e dei sindacati.
A quanto risulta, Panzeri è stato fermato e indagato a seguito di una perquisizione del suo appartamento di Bruxelles, dove sono stati trovati tra i 500 e i 600 mila euro in contanti. Confermato anche l’arresto in Italia, in esecuzione di un Mae (Mandato di arresto europeo), di Maria Colleoni, moglie dell’ex eurodeputato, e della figlia Silvia Panzeri, le quali si trovano ora in carcere a Bergamo. Nella mattina di venerdì 9 sono stati perquisiti anche i locali di Fight Impunity, la ONG presieduta da Panzeri dedita a promuovere “la lotta all’impunità per gravi violazioni dei diritti umani” e la giustizia internazionale. Risulta inoltre indagato a seguito della perquisizione del suo appartamento anche Francesco Giorgi, ex assistente parlamentare di Panzeri e compagno di Eva Kaili.
Il nome della Kaili è quello che forse ha suscitato il maggior scalpore, dato il ruolo di estremo rilievo ricoperto (vice presidente del Parlamento europeo). Il Movimento socialista panellenico, per il quale la Kaili era eurodeputata, ne ha annunciato l’espulsione poco dopo l’annuncio di un suo possibile coinvolgimento. Era stata proprio la Kaili a schierarsi a favore della decisione della FIFA di far ospitare i mondiali in Qatar, in quanto questi «testimoniano come la diplomazia sportiva possa realizzare la trasformazione storica di un Paese, con riforme che hanno ispirato il mondo arabo. Si sono impegnati e si sono aperti al mondo» e definendo il Paese «pioniere nei diritti dei lavoratori». Kaili si era persino recata a Doha per incontrare i funzionari del Paese ed elogiare i tentativi di miglioramento in materia di diritti umani, facendo anche uno sforzo verso l’abolizione delle restrizioni sui visti Schengen per i cittadini quatarini.
Le sue dichiarazioni erano state rilasciate in vista della risoluzione presentata il 21 novembre dal Gruppo della Sinistra al Parlamento europeo per chiedere una presa di posizione in merito alla vicenda dei Mondiali, poi approvata con 182 voti a favore, 165 contrari e 32 astenuti e osteggiata dalla pressoché totalità dei deputati socialisti. Contrari alla risoluzione erano anche alcuni esponenti del Pd quali Andrea Cozzolino, secondo quanto riporta ilFattoQuotidiano, che aveva dichiarato come «il Parlamento europeo non dovrebbe accusare un Paese senza prove emerse da indagini delle competenti autorità giudiziarie». Guardacaso, tra i nomi degli assistenti di Cozzolino figurava proprio quello di Francesco Giorgi.
Tra i fermati vi sono inoltre Luca Visentini, per undici anni a capo della Confederazione dei sindacati europei (ETUC) ed eletto lo scorso novembre segretario generale della International Trade Union Confederation (confederazione mondiale dei sindacati), e Niccolò Figà-Talamanca, segretario generale della ONG fondata da Emma Bonino No Peace Without Justice. Nè il Parlamento europeo né l’ambasciata del Qatar in Belgio, riporta Le Soir, hanno per ora risposto alle richieste di commento.
Di quale sia la realtà dietro allo sfarzo dei Mondiali che si stanno svolgendo nel Paese arabo abbiamo ampiamente discusso all’interno dell’ultimo numero del Monthly Report. E non si può non cogliere una certa amara ironia nel constatare che le operazioni della polizia belga hanno avuto luogo nella giornata di venerdì 9 e sabato 10 dicembre, rispettivamente la Giornata internazionale contro la corruzione e quella per i diritti umani. Concetti dei quali, evidentemente, le istituzioni si riempiono la bocca in modo sfacciatamente strumentale. [di Valeria Casolaro]
Lobby ingolfata. Cosa sappiamo dell’indagine sulla presunta corruzione del Qatar al Parlamento europeo. Linkiesta il 9 Dicembre 2022.
Gli inquirenti della procura di Bruxelles hanno sequestrato cinquecentomila euro dalla abitazione dell’ex eurodeputato di Articolo 1 Antonio Panzer, fermato assieme al sindacalista Luca Visentini. Tra gli indagati c'è anche la vicepresidente dell’Eurocamera, la socialdemocratica greca Eva Kaili
L’ex eurodeputato di Articolo 1 Antonio Panzeri e il segretario generale dell’organizzazione internazionale dei sindacati (Ituc) Luca Visentini sono stati fermati venerdì dalla polizia di Bruxelles nell’ambito dell’indagine sul presunto tentativo di uno Stato del Golfo di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento europeo. Entro 48 ore un giudice deciderà se convalidare o meno il loro arresto e quello di altri due italiani, un direttore di una organizzazione non governativa e un assistente parlamentare europeo. Secondo il quotidiano belga Le Soir il Paese del Golfo in questione sarebbe il Qatar, dove si sta svolgendo in questi giorni la seconda fase del Campionato mondiale di calcio e già al centro di indagini sulla presunta corruzione per la assegnazione del torneo.
La tesi degli inquirenti dell’Ufficio Centrale per la Repressione della Corruzione belga (OCRC) è che delle ingenti somme di denaro e doni significativi sarebbero stati regalati a persone che rivestono un ruolo strategico all’interno del Parlamento europeo. Con questa motivazione la procura di Bruxelles ha ordinato perquisizioni in diverse zone della capitale belga tra cui Bruxelles-Ville, Crainhem, Forest, Ixelles e Schaerbeek.
Tra le sedici abitazioni perquisite c’è anche quella della vicepresidente del Parlamento europeo, la socialdemocratica greca Eva Kaili che come riportato su Twitter dal giornalista David Carretta, il 21 novembre aveva dichiarato in un dibattito all’Eurocamera sulla situazione dei diritti umani nel contesto della Coppa del mondo FIFA nel Paese del Golfo: «Il Qatar è all’avanguardia nei diritti dei lavoratori, abolendo la kafala e riducendo il salario minimo. Nonostante le sfide che anche le aziende europee stanno negando per far rispettare queste leggi, (i qatarioti) si sono aperti al mondo. Tuttavia, alcuni qui li stanno discriminando, li maltrattano accusando di corruzione chiunque parli con loro o si impegni».
Un’altra delle abitazioni perquisite è la sede di Fight Impunity una organizzazione che lotta contro la violazione dei diritti umani, il cui presidente è Panzeri. Anche nella casa a Bruxelles dell’ex deputato del Parlamento europeo per tre legislature (dal 2004 al 2019, le prime due con l’Ulivo, la seconda nelle liste del Partito democratico che lasciò nel 2017 per aderire ad Articolo 1) gli inquirenti hanno sequestrato cinquecentomila euro in contanti.
Visentini è stato dal 2011 al 2022 membro della Confederazione dei sindacati europei (Etuc), prima come segretario confederale e poi come segretario generale. A novembre aveva lasciato l’Etuc per diventare segretario dell’International Trade Union Confederation, la più grande confederazione sindacale del mondo che rappresenta oltre 200 milioni di lavoratori.
Nella stessa indagine, con un mandato d’arresto europeo sono state fermate a Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo, la moglie e la figlia dell’ex eurodeputato. Secondo i giornali locali, le due si troverebbero ora nel carcere di Bergamo.
"Corruzione dal Qatar". Fermati la numero due dell'Europarlamento, un ex deputato Pd e un sindacalista Uil. Due arresti, 5 fermi e 600mila euro in casa: l'ipotesi di tangenti per ammorbidire l'UE verso il Paese del Golfo. Luca Fazzo il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.
«La questione dei lavoratori morti durante la costruzione delle infrastrutture che ospiteranno i Mondiali di calcio va guardata in controluce e statisticamente relativizzata»: così Antonio Panzeri, ex segretario della Cgil di Milano ed ex eurodeputato del Pd, nel febbraio di quest'anno difendeva il governo del Qatar in un lungo, imbarazzante intervento sulla home page di Fight Impunity, la Ong di cui è presidente. Un report che oltre a minimizzare i morti nei cantieri dei Mondiali indicava il Qatar come l'unico paese dell'area ad avere fatto «passi avanti» anche sul terreno dei diritti umani.
Non era disinteressato, a quanto pare, l'appoggio dell'ex sindacalista alla dittatura di Doha nei corridoi e nelle aule dell'Europarlamento. Ieri mattina la gendarmeria belga arresta quattro cittadini italiani: insieme a Panzeri c'è Luca Visentin, ex segretario lombardo della Uil del commercio, oggi segretario mondiale della potente confederazione sindacale Ituc; insieme a loro vengono arrestati il direttore di una Ong e un assistente parlamentare dei Socialisti. I quattro sono tutti accusati di corruzione, avrebbero ricevuto ingenti finanziamenti dal Qatar per condizionare l'atteggiamento dell'Unione Europea nei confronti del paese del Golfo, prima e dopo i Mondiali di calcio. Vengono perquisite le abitazioni degli arrestati e la sede Fight Impunity, nella centralissima rue Ducale; in una cassaforte a casa di Panzeri saltano fuori 600mila euro in contanti. E nella Bergamasca è stato eseguito un mandato di arresto europeo anche nei confronti della moglie e della figlia di Panzeri, che risulta avere ancora casa a Calusco d'Adda, paese di cui è originario dove sono state rintracciate la moglie Maria Colleoni, 67 anni, e la figlia Silvia. Ora si trovano in carcere a Bergamo.
Il caso Panzeri si abbatte come una tempesta su Strasburgo, dove l'attività delle lobby è una presenza costante: ma in questo caso, secondo la magistratura belga, si è andati ben aldilà. Scattano sedici perquisizioni, quattro a carico di altri tre assistenti parlamentari cui vengono sequestrati computer e telefoni: due lavorano per il gruppo dei Socialisti e democratici, il quarto per i Popolari. Secondo Le Soir, il quotidiano che ha reso noti gli arresti e le indagini, sono stati perquisiti anche due consiglieri e un funzionario. Ma il colpo più eclatante è l'interrogatorio con perquisizione di Eva Kailli, vicepresidente socialista del Parlamento, il cui compagno Francesco Giorgi è l'ex assistente parlamentare.
Panzeri e gli altri arrestati verranno interrogati entro oggi da un giudice che deciderà se confermare il loro arresto o rimetterli in libertà. Di sicuro c'è che sulla loro strada gli italiani hanno incontrato un mastino: il giudice istruttore Michel Claise, uno specialista in criminalità economica e finanziaria. É stato lui a raccogliere le prime notizie di reato sulla attività della Ong di Panzeri e a scavare per quattro mesi sui rapporti occulti col Qatar, arrivando a ricostruire nei dettagli l'attività di quella che Le Soir definisce «una organizzazione criminale infiltrata nel cuore del Parlamento europeo». Braccio operativo di Claise è l'Ocrc, l'ufficio centrale per la repressione della corruzione.
«Siamo sconvolti dalle accuse di corruzione nelle istituzioni dell'Ue», è il primo commento dell'eurogruppo dei Socialisti, mentre il Pd si dichiara «sconcertato in particolar modo a fronte delle persone coinvolte». Il problema è che se Fight Immunity poteva presentare nel suo board personaggi di tutto rispetto - da Emma Bonino al premio Nobel per la pace Denis Mukwege - la sua attività di lobbying a favore del Qatar avveniva in modo tanto scoperto quanto disinvolto, e avrebbe potuto spingere gli eurocompagni di Panzeri a interrogarsi sui veri motivi che portavano uno stimato rappresentante dei lavoratori a trasformarsi nel cantore di una dittatura dove i diritti sindacali non esistono. Eppure nel suo lungo intervento del febbraio scorso Panzeri affermava che «dalla prospettiva dei diritti umani» il Qatar è l'unico paese dell'area a «imprimere un movimento e una direzione evolutiva», oltre a indicare il regime come «il più affidabile alleato» della Nato nell'area, elogiandone «la disponibilità» nella crisi del gas. Ma a Bruxelles queste cose non le leggevano?
(Adnkronos il 10 dicembre 2022) - Fight Impunity, la ong perquisita dalla polizia belga nell'ambito dell'inchiesta che ha portato al fermo di quattro persone per presunta corruzione, è stata fondata nel settembre 2019 da Antonio Panzeri, già eurodeputato del gruppo S&D ed ex presidente della sottocommissione Diritti umani del Parlamento Europeo.
Il consiglio dei membri onorari della Ong, impegnata "contro l'impunità" per le violazioni dei diritti umani che ha sede in Rue Ducale, è composto da personalità di assoluto rilievo. Tra loro Federica Mogherini, ex ministro degli Esteri e Alto Rappresentante dell'Ue, che oggi ha annunciato di essersi dimessa dal board, oltre a Dimitris Avramopoulos, già commissario europeo agli Affari Interni, candidato all'incarico di inviato speciale dell'Ue per il Golfo.
L'oro del Qatargate: ferie da 100mila euro e sacchi di banconote. Panzeri si prodigava pure per il Marocco. Luca Fazzo l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.
Una specie di Soumahoro in giacca e cravatta, un alfiere dei diritti dei poveri che garantiva a sé e alla famiglia un invidiabile tenore di vita.
Una specie di Soumahoro in giacca e cravatta, un alfiere dei diritti dei poveri che garantiva a sé e alla famiglia un invidiabile tenore di vita. Nelle carte delle indagini della magistratura belga su Antonio Panzeri, ex leader della Cgil milanese e già eurodeputato del Pd, emergono col passare delle ore dettagli sempre più sconcertanti. Se i meccanismi attraverso i quali Panzeri conquistava adesioni a Bruxelles agli interessi del regime del Qatar e - si scopre ieri - anche del Marocco rimangono ancora un po' indefiniti, a emergere con chiarezza disarmante sono i benefit che l'esponente piddino ritagliava per sé dall'attività di Fight Impunity, la Ong con sede nel centro della capitale belga, protagonista di nobili battaglie - dal caso Regeni ai morti sul lavoro - ma anche sponsor prezzolata degli interessi del regime di Doha, a partire dai Mondiali di calcio.
L'udienza di convalida dell'arresto per favoreggiamento di Maria Colleoni e Silvia Panzeri, moglie e figlia dell'ex sindacalista, catturate vicino Bergamo su richiesta delle autorità belghe, si è svolta ieri. Ed è dalla carte trasmesse in Italia da Bruxelles che emergono gli aspetti più incresciosi del lato familiare dello scandalo che ha messo a rumore l'Europarlamento. Le due donne erano «pienamente consapevoli» dei retroscena dell'attività svolta da Panzeri, e «persino del trasporto di doni» che l'uomo riceveva dal Qatar. Del trasporto di altri regali, provenienti dal governo del Marocco attraverso l'ambasciata a Varsavia, si occuparono direttamente le due. In una intercettazione la Colleoni brontola perché «non poteva permettersi di spendere centomila euro per le vacanze come l'anno scorso e che pensava che l'attuale proposta, 9mila euro a persona solo per l'alloggio, era troppo costosa». La Corte d'appello di Brescia ieri sera ha confermato il mandato di cattura per le due donne e ha concesso loro gli arresti domiciliari.
Panzeri, intanto, viene scaricato praticamente da tutti. Articolo 1, il partito dove era approdato dal Pd, lo espelle. L'ex ministra Federica Mogherini si dimette da Fight Impunity, seguita dall'intero board. Eppure anche prima degli arresti, di ombre sulla Ong per il suo appoggio al governo del Qatar ne erano emerse. Ma ora Panzeri viene ufficialmente accusato di avere utilizzato «metodi ingegnosi e spesso scorretti per raggiungere i suoi scopi». Il tesoretto di seicentomila euro in contanti trovato durante la perquisizione in casa sua ne è la prova tangibile. E ora l'arresto di Panzeri rischia di essere solo l'innesco di un terremoto pronto a investire l'intero Parlamento europeo, finora restato pressocché incolume dalle inchieste giudiziarie, in quella che i giornali belgi definiscono una Mani Pulite in versione comunitaria.
Accuse simili a quelle mosse a Fight Community vengono contestate anche a un'altra Ong gestita da un italiano ma operante da Bruxelles, la No Peace without Justice fondata da Emma Bonino, con sede allo stesso indirizzo della Figh Impunity e stesso programma di lotta alle ingiustizia su scala globale: il suo segretario Niccolò Figà Talamanca sarebbe, secondo alcune agenzie, tra gli arrestati. E soprattutto desta scalpore il coinvolgimento della socialista greca Eva Kaili, vicepresidente del Parlamento europeo, a casa della quale secondo la stampa belga sarebbero stati trovati «sacchi di banconote». Il collegamento tra la Kaili e Panzeri è il compagno della donna, Francesco Giorgi, assistente parlamentare di Panzeri a Bruxelles. Quella che si intravede in controluce è insomma una rete di politici-affaristi insediata nel cuore delle istituzioni europee, in grado di condizionarne le scelte grazie ai fondi quasi illimitati messi a disposizione dai paesi-clienti. E ora forse qualcosa verrà alla luce.
Le accuse per Panzeri e gli altri arrestati, tra cui il sindacalista Luca Visentini, sono «corruzione e riciclaggio, con vincolo di associazione per delinquere». Oggi il giudice preliminare di Bruxelles, che li ha interrogati dopo l'arresto, deciderà sulla convalida del provvedimento del giudice istruttore Mchel Claise che accusa i cinque di avere condizionato le decisioni della Ue «versando somme di denaro o offrendo regali importanti a terzi avendo una posizione politica e/o strategica rilevante in seno al parlamento». Le Soir, il quotidiano belga che ha dato per primo la notizia degli arresti, ha già segnalato una anomalia: il 9 dicembre in un intervento a Strasburgo Eva Kaili si è dissociata dal coro di critiche al Qatar. «La coppa del Mondo - disse - è la prova di come la diplomazia può realizzare la trasformazione storica di un paese». Anche questa farina del sacco di Panzeri?
Giordano Stabile per la Stampa l’11 Dicembre 2022.
I nostri cari emiri. Il titolo di un saggio di qualche anno fa, 2016, ora di bruciante attualità. Autori due giornalisti francesi, Georges Malbrunot e Christian Chesnot. La guerra in Siria era all'apice, Bashar al-Assad usava tutte le armi, anche proibite, per massacrare i ribelli. Le accuse contro le monarchie del Golfo, in quel momento i principali sostenitori della rivoluzione siriana, valgono agli autori anche accuse di "assadismo".
Ma l'inchiesta guardava lontano e lo scandalo nel cuore della democrazia europea conferma tutte le loro preoccupazioni. L'alleanza tra Occidente e Paesi del Golfo, che vede la Francia fra i principali protagonisti, ha il suo lato oscuro, fatto soprattutto di corruzione. «Da una parte c'è lo scambio irrinunciabile - conferma Malbrunot - tra forniture energetiche e sicurezza, con gli Stati Uniti come garante supremo dell'esistenza stessa dei ricchissimi ma piccoli emirati, minacciati dall'Iran. Dall'altra un flusso di investimenti gigantesco verso l'Europa, sempre più spesso opaco».
È il Qatar, il Paese con il reddito pro capite più alto al mondo, 70 mila dollari all'anno, a esserne la fonte. Con la Francia il rapporto è simbiotico.
Sboccia negli anni Novanta, ma è nel 2009, dopo la mediazione qatarina per la liberazione delle infermiere bulgare prigioniere di Gheddafi, che il presidente Nicolas Sarkozy impone una convenzione fiscale a misura dell'allora emiro Hamad bin Khalifa al-Thani, compresi famigliari e amici, senza ritenute alla fonte.
In pratica, la Francia diviene un paradiso fiscale per i ricchi qatarini. Lo shopping è gigantesco. L'Hôtel Lambert sull'Ile Saint-Louis, nel cuore di Parigi, il casinò di Cannes, quote nei principali gruppi del lusso, fino alla perla, la squadra di calcio del Psg, che sarà una delle porte d'ingresso per arrivare all'assegnazione dei Mondiali di Calcio.
Ma il trattamento privilegiato si accompagna a «innaffiatura» di uomini politici. «La maggior parte dei francesi sono stati "innaffiati" dal Qatar durante la presidenza Sarkozy - precisa Chesnot -. Doha però ha anche finanziato le campagne sia dei laburisti che dei conservatori britannici nel 2015. Mentre negli Stati Uniti la penetrazione è soprattutto emiratina e saudita: Mohammed bin Salman si è vantato si aver contribuito per il 20 per cento della campagna di Hillary Clinton nel 2016», salvo poi diventare uno dei più stretti alleati di Donald Trump. Un altro esempio di come non ci siano «preferenze di campo».
L'importate è l'obiettivo, cioè influenzare le società occidentali. Con tutti i mezzi.
Ne hanno in abbondanza.
Qatar ed Emirati hanno sviluppato una strategia di soft power, che ha come pilastri «l'educazione, la cultura e lo sport», conferma Malbrunot: «Hanno i mezzi per comprarsi tutto o quasi: i quadri più preziosi, i club più prestigiosi, come il Manchester City, ma anche i politici. Quando c'è un problema, un ostacolo, la loro reazione può essere riassunta in una frase: "Compralo". Il risultato è che la classe politica europea ha spesso difficoltà a resistere a queste sirene». E se noi vediamo i miliardari in turbante ancora come «beduini ignoranti», loro ci percepiscono come gente che si vende facilmente «per un libretto degli assegni o un Rolex». O soldi in contanti in una valigia. Lo scandalo che ha coinvolto il patron del Psg, Nasser al-Khelaïfi, ne è un esempio. Che seguono quelli sulle mazzette alla Fifa o il finanziamento a moschee estremiste.
È dal fronte culturale che forse arrivano le minacce più insidiose. Come ancora Malbrunot ha documentato in un altro saggio, Qatar Papers, Doha è anche la principale finanziatrice di imam vicini alla Fratellanza musulmana, che diffondono una visione integralista dell'islam nelle diaspore dei Paesi arabi in Europa. L'altro volto scuro dell'Emirato. L'alleanza con i Fratelli musulmani è suggellata dall'accoglienza al loro leader Yusuf al-Qaradawi, condannato a morte in Egitto, e rifugiato a Doha fin dal 1977, dove fonda la facoltà di Studi islamici all'Università e diventa dagli anni Novanta in poi uno dei volti di Al-Jazeera in arabo. L'Emirato ha protetto il controverso imam jihadista fino alla sua morte, il 26 settembre scorso. «La soluzione è il Corano», era il suo motto. Soprattutto se oliato di petrodollari, si potrebbe aggiungere.
Antonio Bravetti per la Stampa l’11 Dicembre 2022.
A fine giornata, a rompere il silenzio imbarazzato di Articolo Uno, arriva Arturo Scotto, netto: «Il Qatar è un Paese dove i diritti umani non sono rispettati. Prima ancora che sul piano giudiziario - dice a La Stampa il coordinatore del partito - il punto è politico. Noi siamo con i lavoratori, non con gli emiri miliardari».
L'arresto di Antonio Panzeri, l'ex eurodeputato di Pd e Articolo 1 accusato di corruzione, riciclaggio e associazione per delinquere, scuote il partito di Roberto Speranza.
Il segretario tace, così come Pier Luigi Bersani e Sergio Cofferati. Anche nel Pd c'è poca voglia di commentare. Sbotta Andrea Orlando su Twitter: «Diciamola tutta, garantismo a parte, se fosse vera anche la metà dell'affaire Qatar-Europarlamento, saremmo già allo schifo assoluto. Scambiare i diritti fondamentali dei lavoratori con soldi e regali dei signori feudali del Qatar è tradimento totale dei valori democratici».
Eppure Panzeri, racconta un suo ex collega all'Europarlamento, era un uomo potente: «Tra i 10-15 deputati che contavano davvero. Aveva rapporti fortissimi con l'Africa, stava più lì che a Bruxelles.
Soprattutto il Maghreb: in Marocco e Tunisia era di casa. Le pareti del suo ufficio erano piene di foto con re e principi».
Articolo Uno intanto lo sospende. In una nota il partito esterna «sconcerto per quanto sta emergendo» in «una vicenda del tutto incompatibile con la sua storia e il suo impegno politico». Scotto ricorda che l'ex eurodeputato «da tempo non ricopre ruoli operativi» e sospenderlo è «una decisione a tutela della nostra organizzazione politica». Poi, sottolinea: «Noi viviamo con i soldi degli iscritti, con il contributo del 2 per mille e con i versamenti degli eletti a tutti i livelli. Questa è la nostra garanzia di libertà da qualsiasi condizionamento». Il centrodestra, ovviamente, affonda il colpo: la Lega chiede una commissione d'inchiesta all'Europarlamento e Susanna Ceccardi parla di «vergognosa ipocrisia della sinistra».
Caso vuole che l'arresto di Panzeri coincida con il lavoro che in questi giorni sta portando avanti Massimo D'Alema come consulente privato.
L'ex premier sarebbe il tramite tra il governo italiano e un gruppo di investitori del Qatar pronti a rilevare la raffineria della russa Lukoil a Priolo. Una coincidenza temporale che spinge Giuseppe Provenzano, vicesegretario del Pd, a una critica amara: «A proposito di Qatar, una nota a margine. Non c'entra con la vicenda a dir poco orribile dell'Europarlamento, ma vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali non è solo triste, dice molto sul perché le persone non si fidano, non ci credono più». Chi ha condiviso gli anni di Bruxelles con Panzeri ne parla dietro anonimato come di «un parlamentare potente, non uno sprovveduto».
Mai sopra le righe: «Un taccagno esagerato, non buttava soldi, né per vestiti né per locali». Lo ricordano amico di Gianni Pittella e Andrea Cozzolino. Raccontano di un rapporto con Massimo D'Alema che si è molto affievolito negli anni «e poi Antonio non ha bisogno di una casacca per girare, ha la sua. Non è "dalemiano", è sempre stato un "panzeriano"».
Da open.online l’11 Dicembre 2022.
Lo scandalo esploso con le gravi accuse all’ex europarlamentare Pd ora Articolo 1 Panzeri di essere stato corrotto dal regime del Qatar, con tanto di mazzette da centinaia di migliaia di euro scoperte nella sua casa di Bruxelles, agita la sinistra italiana.
Per una fatale coincidenza lo scandalo è esploso all’indomani della notizia che l’ex premier Massimo D’Alema, ora impegnato sul versante delle grandi consulenze internazionali, ha propiziato l’interessamento di un ricchissimo imprenditore proprio del Qatar ad acquisire la raffineria Lukoil di Priolo in Sicilia, in difficoltà dopo l’embargo alla Russia. Su questo D’Alema viene duramente attaccato dal vice segretario del Pd Giuseppe Provenzano, citato da La Stampa: «Vedere ex leader della sinistra fare i lobbisti in grandi affari internazionali non è solo triste, dice molto sul perché le persone non si fidano, non ci credono più».
Alessandro Da Rold per “la Verità” l’11 Dicembre 2022.
Quando ai socialisti milanesi rimasti si fa il nome di Antonio Panzeri, in tanti mettono subito le mani avanti: «In Europa sarà stato anche nel gruppo socialista, ma è sempre stato del Pci, un comunista!». La precisazione è doverosa per chi faceva parte del Psi, che fu spazzato via dopo Mani Pulite, nel 1992. Anche perché alla fine degli anni Novanta furono proprio i «comunisti» come Panzeri, oggi accusato di corruzione e sospeso dal suo partito Articolo 1, a diventare i protagonisti della politica italiana.
Nato nel 1955 in provincia di Bergamo, a Riviera D'Adda, ex ala amendoliana (di Giorgio Amendola) e migliorista del Pci (quella dell'ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano), la fortuna politica di Panzeri si è consumata proprio alla fine del secolo scorso, a cavallo del nuovo millennio, quando Dc e Psi erano stati spazzati via dalle indagini della magistratura.
All'epoca Massimo D'Alema era un ruspante segretario del Pds, capace di diventare anche presidente del Consiglio nel 1998. In quegli anni teneva banco la polemica sulla riforma del mercato del lavoro e dell'articolo 18. Ogni giorno si accendeva una polemica tra D'Alema e l'allora segretario generale della Cgil, Sergio Cofferati. Panzeri, da segretario della Camera del Lavoro di Milano (lo è stato dal 1995 al 2003), avrebbe dovuto in teoria parteggiare per Cofferati.
Invece scelse un'altra strada, decidendo di appoggiare D'Alema e schierando tutta la Camera del Lavoro contro il «cinese». La decisione lo premiò, perché grazie a quella battaglia, Panzeri entrò dalla porta principale del potere politico dalemiano. Non è un caso, come ricordano le cronache di allora, che a metà del 2000 Panzeri fosse uno degli invitati di punta a casa di Inge Feltrinelli a Milano, tra i salotti più rinomati in quegli anni nel capoluogo lombardo. La vedova di Giangiacomo, infatti, era solita ospitare pezzi della sinistra milanese, filosofi e anche banchieri, per discutere e immaginare gli scenari politici futuri.
Nel luglio di quell'anno, D'Alema, appena uscito da Palazzo Chigi, puntava a rafforzare la sua Fondazione Italianieuropei. E per farlo aveva deciso di invitare a casa dei Feltrinelli lo stesso Panzeri, ma anche l'economista Pietro Modiano (ex Sea e Carige) o un altro politico all'epoca in ascesa come Luca Bernareggi (già Ds e poi in Legacoop).
Nasce e si afferma in quegli anni il potere di D'Alema, a livello economico e politico, che passa chiaramente anche dalla stanza dei bottoni di Bruxelles. Panzeri nel 2004 sarà eletto in Europarlamento proprio con i Ds, negli anni d'oro della provincia di Milano di Filippo Penati, poi passerà al Pd; quindi, nel 2017 seguirà ancora il compagno Max nella formazione di Articolo 1.
In tre legislature, quasi 15 anni da burocrate europeo che gli hanno assicurato una buona pensione al compimento dei 63 anni, aveva stretto rapporti soprattutto con i Paesi del Maghreb, in particolare il Marocco. Infatti, tra gli atti di accusa da parte delle autorità belghe, oltre al Qatar, c'è anche il Paese nordafricano, per cui si sarebbe speso in cambio di tangenti.
Chi conosce bene il mondo dalemiano sostiene, però, che l'europarlamentare preferito dall'ex premier sia sempre stato Massimo Paolucci. Anche per questo motivo, quando Paolucci e Panzeri rimasero senza un seggio a Bruxelles, fu il primo a diventare capo della segreteria del ministero della Salute di Roberto Speranza. Il secondo, invece, fu costretto a reinventarsi. Su Internet si sprecano le foto che ritraggono Speranza e Panzeri, futuro e passato del comunismo. Ma è anche per questo, perché ormai senza un seggio e senza posti nel governo, che l'ex segretario della Camera del Lavoro aveva deciso di fondare nel settembre 2019 la Ong Fight Impunity per «contribuire a promuovere la lotta contro l'impunità».
A giudicare dalle intercettazioni tra Panzeri e la moglie, Maria Dolores Colleoni, di soldi ne giravano molti, con vacanze da 100.000 euro. Eppure, nella visura della Ong c'è scritto che Panzeri aveva anche le funzioni di chauffeur: cosa non si fa quando si perde un posto in Europarlamento
Da ansa.it il 12 dicembre 2022.
E' nell'ordine delle centinaia di migliaia di euro l'importo in contanti sequestrato nell'abitazione della vicepresidente dell'Eurocamera Eva Kaili e nelle borse che suo padre trasportava quando è stato fermato dalle autorità.
Il denaro non è stato ancora contato ma, secondo il quotidiano belga L'Echo le prime stime parlano di oltre 750mila euro in tagli da 20 e 50 euro: seicentomila euro erano nella valigia portata dal padre di Kaili e il resto nell'abitazione dell'eurodeputata greca.
L'autorità ellenica per l'antiriciclaggio, nel frattempo, ha congelato gli averi della vicepresidente dell'Eurocamera.
Atene ha congelato tutti i beni di Eva Kaili: lo ha reso noto il governo greco. Il provvedimento dell'Autorità greca antiriciclaggio riguarda "conti bancari, casseforti, aziende e qualsiasi altro bene finanziario", riporta Le Soir citando il presidente dell'organismo Haralambos Vourliotis. Il congelamento dei beni, secondo la stessa fonte, colpisce anche i familiari stretti di Kaili, come i suoi genitori. Nel mirino dell'Autorità c'è anche una società immobiliare di recente costituzione nel quartiere chic ateniese di Kolonaki, che sarebbe stata creata dall'eurodeputata 44enne e dal suo compagno italiano, aggiunge il giornale belga. La procura federale belga ha annunciato una perquisizione negli uffici del Parlamento europeo nell'ambito dell'inchiesta sul Qatar
Alcune perquisizioni sono state effettuate fra ieri sera e oggi in abitazioni a Milano e in provincia riconducibili ad Antonio Panzeri e alla sua famiglia dalla Guardia di Finanzia in esecuzione di un ordine di investigazione europea nell'inchiesta di Bruxelles per associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio per favorire Qatar e Marocco, che hanno portato all'arresto fra gli altri dell'ex europarlamentare, della figlia, della moglie e della vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili. Da quanto si è saputo, sono stati sequestrati supporti informatici, documenti e una somma in contanti in euro non significativa.
Intanto la procura federale belga ha annunciato una perquisizione negli uffici del Parlamento europeo nell'ambito dell'inchiesta sul Qatar. "Non appaiono sussistere cause ostative alla consegna" al Belgio. Lo ha scritto il giudice della Corte d'appello di Brescia Anna Dalla Libera nel provvedimento di convalida dell'arresto di Maria Dolores Colleoni e Silvia Panzeri, moglie e figlia dell'ex eurodeputato Antonio Panzeri, fermate venerdì nell'abitazione di famiglia a Calusco d'Adda (Bergamo) in esecuzione di un mandato di arresto europeo e poi poste ai domiciliari. Le due donne sono accusate di corruzione, riciclaggio e associazione per delinquere per fatti commessi dal 1 gennaio 2021 all'8 dicembre 2022.
Estratto dell’articolo di Gad Lerner per “il Fatto quotidiano” il 12 dicembre 2022.
[…] Cosa gli è preso? Difficile trovare una risposta. Ma certo non aiuta il silenzio dei dirigenti di Articolo 1 che, dopo aver sospeso Panzeri (ci mancherebbe), non hanno proferito verbo. Forse perché fa loro male riconoscere che la corruzione spesso è il passo successivo della spregiudicatezza, così come l'affarismo della intermediazione negli scambi commerciali è un corollario della realpolitik.
So che in quel partito ha suscitato imbarazzo l'attività professionale di advisor del militante semplice D'Alema in favore della Colombia o del Qatar. Nessuna relazione, per carità, con lo scandalo dell'Europarlamento in cui è coinvolto Panzeri. Ma, parafrasando il vecchio Lenin, possiamo ben dirlo: l'affarismo è la malattia senile del dalemismo.
Corruzione al Parlamento Europeo, per il Tribunale di Brescia: “Moglie e figlia di Panzeri si possono consegnare al Belgio”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 13 Dicembre 2022
Dall'inizio dell'operazione della magistratura belga che ha portato all'arresto di 6 persone e a 20 perquisizioni, a partire da venerdì scorso, "i mezzi informatici di dieci assistenti parlamentari sono stati congelati per evitare che i dati necessari all'inchiesta non sparissero". È quanto si legge in un comunicato della Procura belga
La Corte d’appello di Brescia ha dato semaforo verde alla consegna della moglie Maria Dolores Colleonie e di Silvia Panzeri, figlia di Antonio Panzeri all’ Autorità Giudiziaria del Belgio che ha emesso un mandato di arresto internazionale su di loro. Il giudice della Corte d’appello di Brescia Anna Dalla Libera scrive nel provvedimento di convalida dell’arresto “Non appaiono sussistere cause ostative alla consegna” al Belgio, delle due donne di casa Panzeri fermate venerdì nell’abitazione di famiglia a Calusco d’Adda (Bergamo) e poi poste ai domiciliari.
Le due donne rispondono delle accuse di corruzione, riciclaggio e associazione per delinquere per fatti commessi dal 1 gennaio 2021 all’8 dicembre 2022. Il giudice di Brescia, disponendo gli arresti domiciliari delle due donne, nel suo provvedimento ha scritto che “la misura è idonea a garantire la consegna alle autorità del Belgio“. Nel corso dell’udienza, come riportato dall’ordinanza , la moglie e la figlia di Panzeri “non hanno espresso il consenso ad essere consegnate e non hanno rinunciato al principio di specialità“. La Corte d’Appello di Brescia, in composizione collegiale, ha fissato l’udienza per discutere della consegna, il 19 dicembre per la Colleoni e il giorno dopo per sua figlia Silvia Panzeri.
Tra ieri sera e oggi sono state effettuate dalla Guardia di Finanza delle perquisizioni nelle abitazioni a Milano e nella Bergamasca riconducibili ad Antonio Panzeri e alla sua famiglia in esecuzione di un ordine di investigazione europea nell’ambito dell’inchiesta di Bruxelles per presunte tangenti da parte di Qatar e Marocco, in cambio di un appoggio politico all’Europarlamento. Le Fiamme Gialle hanno rinvenuto e sequestrato nell’abitazione della famiglia Panzeri a Calusco d’Adda, in provincia di Bergamo contanti per una somma di 17mila euro. Al momento nella casa si trova agli arresti domiciliari Maria Dolores Colleoni, la moglie di Panzeri, destinataria insieme alla figlia Silvia Panzeri di un mandato di arresto europeo.
Le perquisizioni sono state disposte dalla magistratura belga nell’inchiesta di Bruxelles per associazione per delinquere, corruzione e riciclaggio per favorire Qatar e Marocco, che hanno portato all’arresto fra gli altri dell’ex europarlamentare Panzeri , della figlia, della moglie e della vicepresidente del Parlamento Europeo Eva Kaili e del suo compagno Francesco Giorgi. Da quanto si è appreso, sono stati sequestrati anche supporti informatici e documenti che potrebbero rivelarsi utili nel corso delle indagini.
Eseguiti anche degli accertamenti bancari su diversi conti bancari riconducibili all’ex europarlamentare Panzeri: il decreto di perquisizione è stato firmato dal procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale, a capo del dipartimento Affari internazionali, che sta operando in collaborazione con Eurojust, riguarda in particolare l’abitazione della famiglia Panzeri a Calusco D’Adda (Bergamo), ma anche un ufficio a Milano e l’abitazione milanese dell’arrestato Francesco Giorgi, ex collaboratore dell’ex europarlamentare dem Panzeri. Da quanto emerge sono stati sequestrati anche degli orologi di lusso (ma non si sa al momento a chi), oltre a supporti informatici e documenti.
Perquisita ieri dalla Guardia di Finanza anche l’abitazione